Dialetti salentini: ‘ddumare

di Armando Polito

fiammifero

Usato col significato di accendere, nasce per aferesi da un precedente addumare, che ha l’esatto corrispondente formale nell’italiano letterario allumare usato col significato di illuminare, rischiarare) e nel regionale centrale con quello di guardare. Per completezza va ricordato che in italiano esiste anche l’omografo allumare, usato col significato di trattare con allume, con etimo evidentemente diverso da quello della nostra voce, come apparirà chiaro da quanto seguirà.

Allumare nasce dal francese allumer, a sua volta da un latino volgare *adluminare, composto dalla preposizione ad+*luminare, del quale nel latino medioevale è attestato il participio passato luminatus. Evidente, poi, che tutto è dal latino classico lumen, da cui il nostro lume. L’italiano illuminare, invece, è direttamente dal latino classico illuminare. composto da in+*luminare.

Il francese allumer trova la sua più antica attestazione col significato di incendiare intorno al 1100, in quello di accendere il fuoco per rischiarare nel 1119, in quello di eccitare, infiammare i sensi nel 11641.

Per quanto riguarda, invece, allumare le più antiche attestazioni che sono riuscito a reperire risalgono al XIII secolo:

Giacomo da Lentini, Poesie, I, 24-26: Foc’aio al cor non credo mai si stingua;/anzi si pur alluma:/perché non mi consuma?3

Bonagiunta Orbicciani: E sono stanco e lasso;/meo foco non alluma,/ma quanto più ci afanno/men s’apprende.4

Giacomo da Lentini: anti, si pur alluma5E allumo dentro e sforzo in far semblanza6; ma Amor m’à sì allumato7; mi conforti e m’allumi8; e sempre alluma sua clarita spera9. Nello stesso autore compare anche alluminareIo che t’alluminai10.

Per il secolo successivo:

Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, XX, 1: Quando colui che tutto ‘l mondo alluma.   Per gli autori che seguono, anch’essi del XIV secolo, il testo è tratto da Ludovico Frati, Le rime del codice isoldino2, Romagnoli-Dall’Acqua, Bologna, 1913.

Giannotto Calogrosso di Salerno, Cantilena per Donna Nicolosa de Sanutis di Bologna, I, 7: Altra non è che allumi il nostro mondo.

Francesco Petrarca, Canti per Cicco di Ascoli, I, 1: Tu sei il grande Ascholan che ‘l mondo allumi.

Antonio De Lerro di Forlì, Canti e cantilene, I, 29: Alluma, priego, ormai l’ingrata mente.

I, 102: In ogni parte ove ‘l mio cuor alluma. XV, 2: Che col tuo bel parlar il mondo allummi. XVIII, 13: Perché no allumi tu mia vita obscura?

Giovanni Boccaccio, Amorosa visione, : e più nel cor sentia ‘l foco allumarsi.

Il francesismo non fu disdegnato nemmeno successivamente:

Torquato Tasso (XVI secolo), Gerusalemme Liberata, LXXIV, 6: Que’ pochi, a cui la mente il vero alluma.

Matteo Maria Bandello (XVI secolo), LXXVIII, 12: Febo, ch’allumi il mondo, e questa mia. LXXXVI, 10: ch’alluma e scalda il mondo freddo e cieco. CXL, 10: e quando casca, e alluma il ciel la luna. CLXXIX, 32: non fanno il corso, n’alluman la notte. CLXXX, 9: non vuo’ ch’altrui splendor mai più m’allume? CLXXXII, 36: che potrebbe allumar l’oscuro inferno. CCXXXIII, 98: e tu (la tua mercé) gl’allum’ il core e 157: e tu (la tua mercé) gl’allum’ il core. CCXXXIX, 7: per allumar le tenebrose menti.

Non deve meravigliare in ‘ddumare il passaggio –l->-d-, fenomeno antico presente, per esempio, in sedano, che è dal greco σέλινον (leggi sèlinon) e, nella sequenza inversa (-d->-l-), in Ulisse, che è dal latino Ulìxes, a sua volta dal greco Ὀδυσσέυς (leggi Odiussèus)  e in lacrima,  che è dall’omonimo latino, a sua volta dal greco δάκρυμα (leggi dàcriuma).  Aggiungo che per quanto riguarda sedano la l originaria è stata recuperata dal romanesco sèllero, dal sardo sèllere, dal ligure sello, dal lombardo selar,   dall’emiliano e romagnolo serral/seler e , fuori d’Italia, dall’inglese celery e dal francese céleri. Non è finita: chi, a prima vista, direbbe che sedano e prezzemolo sono parenti non solo botanicamente ma anche etimologicamente? Tutto apparirà chiaro se si pensa che prezzemolo non è altro che la deformazione, attraverso un latino volgare *petrosèmolu(m), del classico petrosèlinu(m), a sua volta dal greco πετροσέλινον (leggi petrosèlinon), composto da πέτρα (leggi petra=pietra) e dal già citato σέλινον.

 

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1 https://www.cnrtl.fr/etymologie/allumer

2 Da Giuseppe Isoldi, nome del proprietario, letterato del XVIII secolo. S’ignora la data del manoscritto che il Crescimbeni definisce bellissimo codice di carta in quarto assai antico contenente molti Poeti antichi, e da me chiamato il Codice Isoldiano (Istoria della volgar poesia, Antonio De Rossi, Roma, 1714, introduzione, s. p.)

3 Testo tratto dall’edizione Bulzoni, Roma, 1979.

4 Testo tratto da Guido Zaccagnini- Amos Parducci, Rimatori siculo-toscani del Dugento, Laterza, Bari, 1915. I versi appartengono alla canzone Avegna che partensa.

5 Canzone Madonna vi voglio, v. 25.

6 Canzone Amor che lungiamente m’ài menato, v. 40.

7 Canzone Ancor che l’aigua per lo foco lassi, v. 13.

8 Membrando ciò c’Amore, v. 60.

9 Canzone Come lo sol che tal’ altura passa, v. 2.

10 Canzone La mia amorosa mente, v. 54.

Dialetti salentini: gliòne, tàccari e asche

di Armando Polito

È tempo, per chi ha la fortuna di avere un camino, di fare la provvista di legna da ardere, anche se i capricci meteorologici figli del cambiamento climatico ci costringeranno a breve a tenerlo spento in inverno e, forse, qualche giorno acceso in estate. Questo post non sarebbe nato, se non avessi letto sul suo profilo facebook (https://www.facebook.com/ciccio.danieli/videos/3625181364210008) quello di Francesco Danieli, che ha frequentato qualche lustro fa il ginnasio di Nardò al tempo in cui io vi insegnavo già da alcuni decenni. Non è stato mio allievo, ma ho potuto apprezzarne la vivacità intellettiva, manifestantesi, fra l’altro, già allora con uno spiccato senso dell’autoironia, quando più di una volta ha trascorso parte dell’intervallo nella mia classe. Oggi, perciò, mi è particolarmente gradito integrare la sua lezione estemporanea e en plein air utilizzando, senza il suo permesso due fotogrammi tratti dal suo video (cosa non grave finché il loro utilizzo non è per fare soldi, non necessariamente per ricatto) e con altre voci emerse nei commenti. Chi mi conosce, avrà già capito che da me ascolterà la solita musica, vale a dire leggerà qualche nota etimologica sulle voci dialettali presenti nel titolo. Quando la musica, quella vera, non piace, oggi basta premere il tasto “MUTE” (è inglese, e questa volta, essendo una voce di origine onomatopeica, non scomoderò né l’aggettivo latino mutus/muta/mutum (=muto) né il verbo greco μύω (=mi calmo, mi chiudo, sto in silenzio); quando, poi, non piace quella metaforica, come nel nostro caso, basta un clic …

gliòne/lìune/lèune/lìvene sono tutte varianti (non sto a specificare il territorio, comunque salentino, in cui ognuna di esse è usata) e indicano la legna da ardere in generale (tocca ffazzu la pruista ti li glione=mi tocca fare la provvista della legna). Le tre voci sono il frutto di una commistione non rara tra genere e numero; e mi spiego meglio partendo dall’italiano legna. Esso è dal latino ligna, plurale di lignum (che ha dato vita a legno. Non a caso, infatti, legno è maschile singolare e legna femminile, sempre singolare, ma con valore collettivo. Le voci dialettali, perciò, sono tutte plurali (li gliòne/li lìune/li lèune) e non esiste il singolare (la gliòne/la liune/la lèune) avendo adattato al plurale il ligna latino, cambiandogli la desinenza -a tipica dei nomi della prima declinazione (ma lignum, di cui ligna, come detto prima, è il plurale, di declinazione appartiene alla seconda) in -e.

 

tàccaru  è forma aggettivale dal germanico tak (=ramo); è in uso anche il diminutivo taccarièddhu (nella foto parzialmente animata dalla mano).

asca (àschia a Gallipoli) è dal latino medioevale ascla [la forma gallipolina presenta l’esito fonetico- cl->-chi– più normale, come succede, per esempio, in chiaro che è da claru(m)]. Ascla, a sua volta è, per sincope, dal latino, sempre medioevale, àscula (=frammento; da esso deriva il diminutivo salentino asculeddha), il quale è forma dissimilata di assula, che è (sembra il gioco delle scatole cinesi adottato dalle società per evadere il fisco; questo gioco giova alla singola società ma non a quella nel suo insieme, il nostro, invece, anzi quello della filologia giova, o dovrebbe giovare, a tutti …), e siamo giunti finalmente alla meta (che poi è il principio …)!, diminutivo del latino classico axis (da cui il nostro asse)=pezzo di legno, tavola.

cugnatu è l’ascia, strumento un tempo indispensabile per ricavare le asche (oggi il pezzo di tronco e i rami più grossi vengono scissi meccanicamente). Con questo attrezzo vostro cognato non ha nulla a che fare, anche se ve ne ha fornito uno con il filo rovinato, perché la voce è dall’aggettivo latino cuneatu(m)=a forma di cuneo.

E, come dicevano i latini, de hoc satis o, come ama particolarmente dire un politico (il nome? Si dice il peccato, non il peccatore: posso solo dire che è di sesso femminile) con arcaismo volutamente (?) esibito, detto questo, mi taccio

Nardò: il Maestro Amilcare Vernich e il suo addio alla scuola

di Armando Polito

Non vorrei essere accusato di uso privato di un blog che si occupa di cultura, dunque, in un certo senso, di emulare ciò che sembra avvenire molto frequentemente da un po’ di tempo sulle reti televisive nazionali e non, dove personaggi più o meno noti (loro …) approfittano del mezzo pubblico per metterci al corrente di dettagli personali in una crescente orgia di sindrome autoreferenziale.

Certo, Amilcare Vernich è stato il mio Maestro (spiegherò dopo perché qui, come nel titolo e dopo, lo scrivo con l’iniziale maiuscola) delle Scuole Elementari (in questo caso, invece, le iniziali maiuscole le spiego subito: mi piace scrivere così pensando al passato, mentre oggi mi pare eccessivo pure per università, e assolutamente non per colpa di chi esercita il mestiere più bello del mondo …).

Certo, nella foto di testa compaio pure io e gli unici compagni che dopo tanti anni ho riconosciuto, cioè Salvatore Calabrese ed Adelchi Vergari (se qualcun altro si riconosce, mi farà piacere esserne informato).

Certo … fino ad ora ho parlato solo di me alla faccia di quanto stigmatizzato all’inizio, ma prima di tacere, una premessa (si salvi chi può …) è necessaria, non, a quanto potrebbe sembrare, a mia discolpa.

Il dottore Tarcisio Vernich, padre di Amilcare, è uno dei lettori di questo blog (vedi, per esempio, https://www.fondazioneterradotranto.it/tag/amilcare-vernich/) ed ha pensato di farmi cosa gradita inviandomi qualche giorno fa alcune delle foto custodite dal padre. Allora il digitale non era nemmeno fantascienza, però era un rito obbligato che ogni classe immortalasse la fine dell’anno scolastico con una foto affidata al talento ed all’attrezzatura di un fotografo professionista (all’epoca gli unici studi fotografici erano Mauro (la foto è sua) e Mazzarella (specializzato nei ritratti e nella ripresa del paesaggio). Insieme con la foto Tarcisio mi ha fatto pervenire anche una poesia in dialetto neritino del padre1, al quale cedo, finalmente, la parola riservandomi l’onore, forse immeritato, di aggiungere di mio (e ti pareva …) la traduzione a fronte e qualche nota in calce, operazione indispensabile dato che non tutti i termini dialettali hanno l’esatto corrispondente, formale e semantico, in italiano e per alcuni di loro nemmeno una lunga circonlocuzione è in grado di renderne efficacemente la poeticità.

Da notare nella prima strofa l’alternanza chiastica di concordanze tra ulitate (con anime), ndacquata (con spica), ncurmata (con spica) e crissciùte (con anime), a sottolineare lo stretto legame tra il tutto (spica, metafora di scuola) e le singole componenti umane (anime). Il resto, volta per volta, sarà sottolineato nelle note.

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1 Non so se sia inedita, ma so che, purtroppo, non esiste una raccolta organica. A parte numerosi suoi contributi apparsi sulla stampa locale (cito, per esempio:  Pippi Cardone, Maestro di Cappella  e  Musica e Musicisti Neretini in un’intervista di Amilcare Vernich al Maestro Egidio Schirosi, Maestro di Cappella della Cattedrale nel periodico  La Voce di Nardò, 1987 e 1981, nonché Dalla gavetta del Purgatorio nacque un grande artista: Michele Gaballo, in Artisti neritini, collana di cultura neritina (diretta da Antonio Martano), a cura del Circolo cittadino di Nardò, Nardò, 1993, pp. 27-29), due sue poesie, sempre in vernacolo (Pumitori ti iernu, pumitori ti prèndula del 20 febbraio 1990  e Evviva Santu Martinu! dell’11 novembre 1991), sono nel calendario Terra noscia realizzato dalla IV B dell’Istituto Tecnico “Ezio Vanoni” di Nardò per l’anno scolastico 2017-2018 a cura di Diana Rizzello (http://www.istitutovanoninardo.gov.it/ivn/wp-content/uploads/2016/12/calendario2.pdf).

2 Efficace metafora a sottolineare come una classe, pur essendo un organismo unitario (spiga), è pur sempre formata da entità individuali strettamente connesse, come i chicchi di grano nella spiga. La metafora continuerà nella seconda strofa per spegnersi lentamente nella terza.

3 Per ulitate vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/02/22/quando-il-rohlfs-sbaglio-nel-voltare-e-volo-fuori-pista-forse/

4 Dal latino adaquata (participio passato di adaquare, che è da ad+forma verbale da aqua) con aferesi, raddoppiamento di compensazione e dissimilazione (trafila: adaquare>‘ddacquare>ndacquare.

5 Nell’originale miessi, potente metonimia: il nome del prodotto (le messi) invece del mese.

6 Dal latino area.

7 L’originale ndi è dal latino inde=di là.

8 L’originale muddhrìculi è, con cambio di genere per sottolineare il passaggio metaforico dalla cosa inanimata alla persona, di muddhrìcule, plurale di muddhrica (corrispondente all’italiano mollica). Vale la pena notare come la metafora è perfettamente in linea con quella già vista della spiga.

9 l’originale ardhieddhru è per aferesi da vardhieddhru, diminutivo di varda, che, come l’italiano fardo è dall’arabo farḍ=carico del cammello. Se il precedente bardare non fosse da barda (armatura del cavallo da battaglia), a sua volta dall’arabo barda῾a, saremmo stati in presenza di una figura etimologica.

10 Nell’immaginario collettivo di allora la riga era solo un asse di legno, normale strumento educativo con cui mettere … in riga con un adeguato numero di palmate lo scolaro reo di comportamento scorretto o risposta sbagliata. Oggi, invece, ci sono per un nonnulla le spedizioni punitive dei genitori, con i risultati, anche sociali, che tutti facciamo finta di non vedere.

11 A parte le virgolette, da notare l’iniziale maiuscola, a sottolineare l’importanza, anche metaforica dei Maestri, senza tuttavia, ombra di compiacimento narcisistico ma con la consapevolezza della responsabilità e della dignità che il ruolo esige. Mi vien, perciò, da ridere quando qualcuno ha bisogno di sfoderare titoli magari solo per presentarsi e ancor più, nella fattispecie, quegli educatori che preferiscono, non per modestia ma per ignoranza, farsi chiamare insegnanti o professori e non maestri (sia pure con l’iniziale minuscola …), mentre si inorgoglirebbero se, una volta datisi alla politica, diventassero ministri, ignorando che ministro è dal latino ministru(m), a sua volta composto da minus=meno e da –ter, suffisso comparativo che indica il confronto tra due, per cui la voce latina non a caso significa servo (con tutto il rispetto per quest’ultimo); va da sè che maestro è da magistru(m), composto da magis=più e dal suffisso comparativo di cui si è appena detto.

12 Detto parallelo nella sostanza al napoletano Mazz’ e panell’ fanne ‘e figli bell, panell’ senza mazz fann e’ figl pazz.

13 Mette duramente alla prova chi non sa rispondere. L’immagine è tratta dal gioco del tresette dove un giocatore può calare una carta battendo un colpo sul tavolo e dicendo busso, il che equivale a chiedere al proprio compagno di rispondere giocando la carta più alta dello stesso seme. La mezza tragedia, o quasi, è non solo quando non si ha la carta più alta, ma, addirittura, nessuna dello stesso seme.

14 Nell’originale nnòtica, da nnuticare=fa sentire un nodo alla gola , che è da un latino *nodicare, a sua volta da nodus=nodo. La tecnica di formazione col suffisso -icare è la stessa che ha portato, per esempio, da barba a barbicare.

15 Nell’originale nzùccaru la n– è per influsso del verbo ‘nzuccarare (inzuccherare) attraverso il processo inverso che porta dal sostantivo al verbo (zucchero>zuccherare) e credo pure che  non sia estranea a quest’uso popolare la sua presenza nelle nota cantilena natalizia Bambieddhu ‘nzuccaratu.

16 L’originale bròtissi (deformazione del latino prosit=giovi) a Lecce si presenta nella variante bròsitti, più fedele all’originale; la forma neritina rispetto alla leccese presenta una metatesi (-tissi<-sitti) che, negli oscuri meandri psicologici messi in moto dall’ignoranza (lo dico senza disprezzo), potrebbe essere stata indotta anche da brotu (=brodo), come mi è rimasta impresso un greco scatti in pace per requiescat in pace ascoltato anni fa da una vecchierella.

17 Nell’originale siri, plurale di sire, che è dal francese sire, a sua volta dal latino senior, comparativo di senex=vecchio. Tenendo presente quest’ultimo riferimento all’età ed al fatto che pure in italiano sire è stato l’appellativo con cui ci si rivolgeva al sovrano, si può comprendere il rispetto un tempo riservato al genitore (sia pure, almeno formalmente, a quello di sesso maschile …).

18 Nell’originale cannaliri, plurale collettivo usato per lo più al posto del singolare cannalire che è da canna (col significato metaforico di gola) con doppio suffisso (il primo aggettivale): canna>cannale>cannalire.

19 Nell’originale ddifriscu=refrigerio, deverbale da ddifriscare, secondo la trafila friscu (=fresco)>addifriscare (protesi delle due preposizioni ad e de e assunzione del suffisso verbale)>ddifriscare (aferesi). Da notare che l’orinario nesso ddifriscu, Signore  nella pronuncia popolare è così rapido da aver soppresso la virgola che precede il vocativo. Da qui la mia resa con grazie, della cui infelicità sono perfettamente consapevole, poiché sarebbe stato più fedele (ma troppo lungo) il riposo dopo la fatica finalmente è arrivato.

Scipione Puzzovivo di Nardò: frammenti

di Armando Polito

Come ben sanno gli addetti ai lavori, si definisce tradizione indiretta la trasmissione di un testo del passato, facente parte di un testo mai pubblicato o andato perduto. In parole povere si tratta di citazioni, impossibile dire se a memoria o meno,  riportate da autori successivi. Possono essere brevi (più spesso è così) che lunghe ed è cura dei filologi raccogliere i frammenti relativi ad una o più opere dello stesso autore in un unico corpo, in pratica un’antologia in cui il compilatore sarebbe stato ben felice di inserire il maggior numero possibile di brani, nella quale non ha voce la sua scelta ma la maggiore o minore ampiezza delle fonti, cioé degli autori citanti.

Se il fenomeno coinvolge tutti i secoli passati, difficilmente si porrà per quelli attuali (e, probabilmente, futuri), in cui il desiderio di esibirsi e di conservare memoria di sé contrasta con una sincera consapevolezza dei propri limiti, il cui ricordo non converrebbe lasciare all’eventuale residuo spirito critico di qualche postero. E se anche molti autori del passato avrebbero fatto probabilmente meglio a ridurre la loro prolificità, per non pochi c’è il rimpianto per un talento che avrebbe meritato un ben diverso destino, alimentato da quel poco che di loro si sa e da qualche frammento che della loro produzione  è rimasto.

Di entrambi i filoni, relativamente alla sfuggente figura del Pozzovivo, fornisco in sequenza gli unici dati a me noti:

1) Pietro Angelo Spera, De nobilitate professorum Grammaticae, et Humanitatis utriusque linguae, Francesco Savio, Napoli,  1641, p. 365:

Scipione Pozzovivo salentino di Nardò, nel quale non mediocremente risplendettero le luci dei filosofi greci, in patria per non pochi anni precettore dei figli dei primi (cittadini) e poeta pregevolissimo in lingua latina  e  toscana, venne infine a Napoli, dove tra persone come lui raggiunse un posto di condizione non inferiore.

2) Giovanni Bernardino Tafuri, Dell’origine, sito ed antichità della città di Nardò, in Opere di Angelo, Stefano,  Bartolomeo,  Bonaventura,  Giovanni Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò ristampate ed annotate da Michele Tafuri, Napoli, Stamperia dell’Iride, 1848, v. I, pp. 333-334 (cito da questa edizione, ma il primo dei due libri di cui consta quest’opera di Giovanni Bernardino era uscito nel tomo XI degli Opuscoli scientifici e filologici a cura di Angelo Calogerà, Venezia, Zane, pp. 1-315:

Extat MS. apud Jo. Bernardinum Tafuri=Il manoscritto si trova presso Bernardino Tafuri (sulla perdita di tale manoscritto vedi la nota 2 del brano xuccessivo).

pp. 487-488:

In rapporto a questo secondo brano sono doverose le seguenti precisazioni: 

a) sulla sua fine ecco cosa si legge in Lorenzo Giustiniani, Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, s. n., Napoli, 1804, tomo VII, p. 10:

b) Credo che il Succinto ragguaglio del sito della Città di Nardò sia una variante di Descrizione della città di Nardò che si legge in 2). Un’ulteriore variante dovrebbe essere il Notizia dell’antichissima città di Nardò, e sua Chiesa Vescovile che si legge in  Lorenzo Giustiniani, Dizionario geografico …, op. cit. p. 10, insieme con l’informazione la quale rimase manoscritta, e fu involata dalla casa de’  signori Tafuri  (credo che qui involata non stia nel significato specifico di rubata ma in quello generico di volata via, scomparsa).

c) L’epigramma latino a p. 104 della raccolta del Grandi non è di Scipione Puzzovivo ma di Stefano Catalano, letterato nato a Gallipoli nel 1553 ed ivi morto nel 1620. Nella biografia che di lui scrisse Giambattista de Tomasi di Gallipoli, inserita nel settimo tomo della Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli uscito per i tipi di Gervasi a Napoli nel 1820 sono ricordati i seguenti titoli, tutti rimasti manoscritti ed andati perduti: De origine urbis Callipolis (opera dedicata all’amico e concittadino Giambattista Crispo), Descrizione della città di Gallipoli, Vita di Giambattista Crispo.

d) Il libro che il Tafuri cita nella nota 2 e che recherebbe un epigramma del Puzzovivo in onore di Scipione Spina (che fu vescovo di Lecce dal 1591 al 1639) è, com’era facile ipotizzare, quasi irreperibile e l’OPAC segnala l’esistenza di un solo esemplare custodito nella Biblioteca Provinciale Nicola Bernardini a Lecce. Impossibilitato a muovermi agevolmente, lascio ad altri il compito di consultarlo e di integrare, se si riterrà opportuno, questo post. In compenso, però, ne ho trovato un altro , che più avanti commenterò, a p. 8 di Peregrini Scardini Sancticaesariensis epigrammatum centuria, Vitale, Napoli,1603 (come si vede è lo stesso autore del libro dedicato  al vescovo Spina):

Su Pellegrino  Scardino di San Cesario vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/06/una-sponsorizzazione-femminile-dellanfiteatro-di-rudiae-nella-travagliata-storia-di-una-fantomatica-epigrafe-cil-ix-21-prima-parte/.

3) Giovanni Bernardino Tafuri, Serie degli scrittori nati nel Regno di Napoli cominciando dal secolo V fino al secolo XVI, in Raccolta di opuscoli scientifici e filologici, a cura di Angelo Calogerà, Zane, Venezia, 1738, Tomo XVI, pp. 184-185:

… [L’accademia del Lauro] …

4) Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Severini, Napoli, 1753, tomo III, parte III, p. 4:

5) Giambattista Pollidori, De falsa defectione Neritine civitatis ad Venetos regnante Ferdinando I ,  in Raccolta di opuscoli scientifici e filologici, a cura di Angelo Calogerà, Occhi, Venezia, 1739, tomo XIX, p. 225:

Scipione Puzzovivo Seniora coetaneo del  Marcianob  nel libro che ha il titolo ….

a E il Puzzovivo Iunior  molto probabilmente è lo Scipione Puzzovivo menzionato più volte (ma il testo non dà la certezza che si tratti della stessa persona, dal momento che l’omonimia è sempre in agguato anche in sussistenza di compatibilità cronologica) nel Libro d’annali de successi accaduti nella città di Nardò, notati da D. Gio. Battista Biscozzo di detta Città (cito dal testo edito da Nicola Vacca in Rinascenza salentina, anno IV (1936), n. 4:

A 22 Febraro 1646, andarono carcerati in Napoli, Notaro Alessandro Campilongo, Giandonato Ri, Scipione Puzzovivo, Nobile, e otto altre persone del popolo, per imposture fatteli dal Sig. Conte.

A 13 detto [Gennaio 1654] venne ordine dalla Regia agiunta fatta in Napoli, per la morte del D.r Mario Antonio Puzzovivo, che si conferiscanp, il Sindaco del Popolo,Gio. Donato Ri, e Scipione Puzzovivo, figlio del morto Puzzovivo, ordinando nella Regia Udienza di Lecce,che gli sia data quella gente che è di bisogno per la strada, e che possano andare con armi proibite.

A 20 detto [Gennaio 1654] partì per Napoli Scipione Puzzovivo, per la detta chiamatapartì solo senza il Sindaco del Popolo, havendolo portato sino a Conversano Gio. Ferrante de Noha, suo cugino, di là fu provvisto dal Sig. D. Tommaso Acquaviva di cavalcatura e denaro.

A 5 Marzo 1654 furono chiamati da venti persone dal detto Auditore, esamenandoli se il D.r Mario Antonio Puzzovivo era agente in Napoli della città di Nardò, e se avesse inimicizia con il Patrone, se fusse ammazzato, se Gio. Ferrante de Noha havesse portato  Scipione Puzzovivo in Conversano quando fu chiamato da S. E., se avessero inteso, che Mariantonio Puzzovivo fusse stato annazzato in Napoli, ad istanza del sig. duca delli Noci.   

A 16 Giugno 1654 fu carcerato Gio. Tommaso Sabatino per haver andato per servitore a Gio. Ferrante de Noha, e Scipione Puzzovivo, quando andarono a Conversano, acciò testifica che detto Puzzovivo, quando andò in Napoli chiamato da S. E., andò da Conversano, e negozziò con D.Tommaso Acquaviva.   

b Girolamo Marciano (1571-1628), autore di Descrizione, origine e successi della provincia di Otranto, opera pubblicata postuma per i tipi della Stamperia dell’Iride a Napoli nel 1855.

Alla data del 1739, dunque, il manoscritto del Puzzovivo ancora esisteva prima di fare la fine di cui si parla, come abbiamo visto,  nella nota 2 relativa al secondo brano del n. 3.

 

6) Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Mosca, Napoli, 1752, tomo III, parte I, p. 378:

7) Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Mosca, Napoli, 1752, tomo III, parte II, p. 23:

 

È giunto ora il momento di riportare, enucleati,  tutti i frammenti che le fonti (tra parentesi tonde il numero relativo) appena passate in rassegna mi hanno consentito di individuare.

Frammenti della Descrizione della città di Nardò:

(2) Nardò una delle città più cospicue della Salentina provincia, o s’ave riguiardo all’antichità della sua origine, vantando i popoli Coni per suoi fondatori, o all’eccellenza del suo sito, vedendosi piantata in una amena, e fertile pianura, e sotto d’un Cielo Benigno, o alla nobiltà degli abitanti, potendo andar gonfia, ed altiera sopra d’ogn’altra del Regno di Napoli , vantando, oltre molti nobili, ventiquattro Baroni di Feudi.

(4) L’Amore costante, La Tirannide abbattuta, ovvero la crudeltà di Tiridate vinta dalla costanza di S.Gregorio Armeno, L’Erminia  (Titoli delle opere sceniche di  Raimondo De Vito).

(5) Sotto Ferdinando I d’Aragona patisce ancora molti danni, per la batteria, et assalto fattali dal Campo Venitiano dopo la presa di Gallipoli.

(6) Visse in questo tempo in qualità d’ottimo, ed esperto Medico Gregorio Muci, a cui da più parti concorreva la gente, o di persona, o con lettere per avere di lui la direzione nelle proprie infermità, ed indisposizioni, e quasi di continuo era fuori di casa chiamato ora in un luogo, ora in un altro. E se la Natura gli fu assai proprizia acciò lasciasse parti ben degni delsuo vivace, e spiritoso ingegno, avendo composte molte opere mediche, e filosofiche, delle quali solamente corre per le mani di tutti un suo dotto parere intorno il cavar sangue alle donne gravide, gli fu molto avara a provvederlo di figliuoli  non ostante d’esser stato ammogliato con Prudenzia Filieri. Gregorii Mucii Medici Neritini Opus Practicis perutile. De Vena sectioni in utero gerenti adversus negantes huiusmodi auxilium pro cautione ab Abortu. Neapoli apud Joannem Sulerbachium 1544 in 4°.

Sui dubbi che suscita il titolo del Muci tramandato dal Tafuri vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/06/06/gregorio-muci-medico-nardo-del-xvi-secolo-suo-libro-fantasma/

(7) L’antica, e nobile Famiglia Longo s’estinse in Alberigo, il quale siccome per la suua gran dottrina apportò somma gloria, e riputazione alla sua Patria,ed al suo Casato, così per amor della verità, e per difesa degl’Amici mancò miseramente di vivere in Roma da un colpo di Archibugio.

Frammento della commedia in endecasillabi sdruccioli Fortunio:

(2) Così vengo or più pronto a te medesimo/per dedicar la mia nuova Comedia.( Questa, è pur ver, fu parte di quel carcere,/ch’io già provai per le colpe imputatemi,/  e Tu per tormi da man de’ Satelliti,/che mi volean straziar per non requiescere/volesti mai finché me render libero/non vedesti da que’ lacci corporei,/onde legata fu per sempre l’anima.

Epigrammi

(3) Quae fuerant Lauri Phoebo sacra pascua quondam/Musarum cultrix Infima turba colit./Aruerant herbis, Cytisi vel flore carentes/saltus,nec Cantum qui daret, ullus erat./Contulit illa atavis felicia serta Camoenis/vaticinor nostris gloria maior erit./At modo quae gaudet Vatum Turba infima dici/certabit, Phoebo tum decus omne feret. 

Quelli che un tempo erano stati pascoli di alloro sacri a Febo (ora) li cura la schiera Infimaa adoratrice delle Muse. Erano inariditi a causa delle erbe, le balze prive pure del fiore del citiso e non c’era chi intonasse alcun canto. Essab ha recato alle antenate Camenec ricche corone. Annunzio: per i nostri ci sarà gloria maggiore. Ed ora quella schiera di poeti che gode a chiamarsi infima gareggerà, tributerà allora a Febo ogni onore.

 

a L’Accademia degli Infimi (per la storia di quest’accademia, sorta sulle cenwri di quella del Lauro, vedi Notizie delle accademie istituite nelle provincie napolitane, in Archivio storico per le province napoletane, anno III, fascicolo I, Giannini, Napoli, 1878, pp. 293 e seguenti).

b L’accademia.

c Nome romano delle Muse; molto probabilmente connesso con cànere=cantare e carmen=canto.

 

In quest’epigramma composto da distici elegiaci colgo una dichiarazione di modestia, forse anche troppo ostentata, anche se abilmente, attraverso la ripetizione nel secondo e nel penultimo verso (simmetria strutturale)  dell’accoppiamento delle parole infima e turba con inversione chiastica (Infima turba/Turba infima) e grammaticale in una sottile inversione dei ruoli: nella prima sequenza turba con iniziale minuscola, nome comune con significato iniziale notoriamente dispregiativo  ed Infima con iniziale maiuscola (nome proprio dell’accademia); il contrario nella seconda, dove Turba esprime una sorta di già avvenuta nobilitazione, prontamente ridimensionata, però, da infima abbassatosi ad aggettivo dal significato non certo esaltante. Tuttavia va detto che a p. 55 del tomo II dell’edizione della Istoria uscita per i tipi di Mosca a Napoli nel 1748  in testa al componimento si legge AD SCIPIONEM PUTEVIVUM e, poco prima, che l’autore è Tommaso Colucci di Galatone; insomma, dedicante e dedicatario risultano invertiti e buon senso vuole che l’ultima versione sia quella corretta.

(2,  nota d) Ardua res epigramma solet Scardine videri/nec multis unum saepe placere potest./Namque alii verba, et flores sectantur amoenos,/hic pondus rerum, scommatis ille salem,/fabula nonnullis arridet, priscaque multis/historia in laudem ritè retorta virum./Sed benè cunctorum retines tu corda libello/hoc decies claudens carmina dena tuo/queis neque verborum flores, nec copia rerum,/nec doctrinae laus nec charis ulla deest.

O Scardino, l’epigramma suole sembrare cosa difficile e a molti spesso può non piacere una sola cosa. Infatti alcuni amano le parole e i piacevoli fiori di eloquenza, questi l’importanza degli argomenti, quegli il sale del detto faceto, a parecchi piace la favola ed a molti la storia antica giustamente rivolta a lode degli uomini. Ma tu avvinci felicemente i cuori di tutti includendo in questo tuo opuscolo cento canti ai quali non mancano né fior di parole né abbondanza di argomenti né lode della dottrina né alcuna grazia.

Da notare queis, forma arcaica  per quibus, che ha la funzione di conferire solennità più che obbedire ad esigenze metriche.

Della serie dei componimenti elogiativi posti nella parte iniziale dell’opera di Ferdinando Epifanio Theoremata medica et philosophica, Balliono, Venezia, 1640 fa parte un epigramma del nostro formato da tre distici elegiaci, preceduto dall’intestazione Scipionis Puteivivi u(triusque) i(uris) d(octor) hexastichon ad auctorem: Nec melius quisquam te, Ferdinande, medetur/quos mala vis ferri, vel mala febris agit,/Nec facile invenias, doceat qui rectius artes;/quarum mille locos explicat iste liber./Ad te igitur veniat quicumque aud doctus haberi,/aut fieri sanus cum ratione velit.

(Esastico di Scipione Puzzovivo dottore di entrambi i diritti all’autore:  Nessuno meglio di te, Ferdinando, cura coloro che agita la maligna violenza della spada o una febbre maligna e non si potrebbe trovare facilmente chi insegnui più correttamente queste arti, delle quali questo libro spiega mille punti. Da te dunque venga chiunque voglia o essere considerato dotto o diventare sano con serietà scientifica).

Nella presentazione, ormai datata (http://www.lavocedinardo.it/bacheca3-03/ripresa0503-1.htm), di una sua imminente pubblicazione di una storia di Nardò del XVII Giancarlo De Pascalis così scriveva: … Il resto della storia prosegue segnalando le personalità di spicco nell’ambito culturale della città: in particolare sono da rilevare le presenze di Scipione Puzzovivo (che molti studiosi ritenevano non essere affatto vissuto ma pure invenzione storica del Tafuri) …

Non mi è stato possibile fino ad ora leggere tale documento (estremi della pubblicazione in http://www.storiadellacitta.it/associati%20CV/de%20pascalis.pdf:  Nardò nel Seicento: un manoscritto inedito di Girolamo de Falconibus, nella rivista “NERETUM – Annuario della Società di Storia Patria – Sez. di Nardò”, Congedo, Galatina 2003) e, quindi, non sono in grado di dire cosa eventualmente  aggiunga a queste note la parte dedicata al nostro Scipione, né conosco i nomi di coloro che, forse un po’ troppo frettolosamente condizionati dal vizietto della falsificazione notoriamente caro al Tafuri, hanno pensato che fosse un personaggio fittizio. Per fugare definitivamente questo dubbio credo, visto  che l’epigramma 3, per quanto detto, molto probabilmente andrebbe escluso dalla produzione del nostro, basti  il 2, nota d “ospitato” da Pellegrino Scardino proprio all’inizio della sua centuria. Ho detto ospitato, ma avrei fatto meglio a scrivere esibito, insieme con altri tre, rispettivamente di Giovanni Alfonso Massaro, Filippo Antonio Leone e Francesco Mauro, secondo la consuetudine, abbastanza frequente nella letteratura encomistica di quel tempo, di far precedere l’opera da recensioni poetiche di personaggi di una certa notorietà. L’epigramma in questione, inoltre, testimonia, da parte di Scipione, di un certo mantenimento di contatti  con l’ambiente culturale salentino.

Dialetti salentini: “pete” e derivati

di Armando Polito

– Ne ha fatta di strada l’Umanità! – si sente spesso dire, ma sarebbe opportuno chiedersi se altrettanta ne ha fatta la nostra umanità. Credo che le due immagini di testa (separate cronologicamente da cinque millenni e mezzo) la dicono lunga, soprattutto se operiamo una parallela contrapposizione con un’altra coppia in cui siano rappresentate le condizioni antiche e quelle attuali del nostro pianeta , al quale abbiamo fatto le scarpe con la nostra presunta superiorità, senza rispetto per gli altri esseri viventi, animali e vegetali, e pure minerali, che costituiscono l’ambiente.  Continuiamo a pretendere di avere un  piede  in due scarpe illudendoci che il nostro sciagurato modello di sviluppo, basato unicamente sul profitto, possa in qualche modo conciliarsi con i problemi ecologici che, per quanto riguarda la soluzione, appaiono ormai più che inderogabili, irreversibili. Mi verrebbe da dire che abbiamo curato più i piedi che la testa e che il passaggio dall’agricoltura (senza la chimica …) all’industria ci ha portati a dimenticare il vecchio proverbio Contadino: scarpe grosse e cervello fino.

Dopo questa sparata o, per i pacifisti, pistolotto (da epistola, con la pistola non ha nulla a che fare …), consapevole che qualche lettore possa imputarmi (ma deve esibire le prove …) di aver scritto questo posto con i piedi, entro in argomento.

Comincio dal capostipite, cioè da pete, che corrisponde all’italiano piede, rispetto al quale presenta una maggiore fedeltà fonetica per quanto riguarda il comune etimo: il latino pede(m), accusativo di pes/pedis, connesso con il greco πούς (leggi pus), genitivo ποδός (leggi podòs)1. Per i nessi in cui è usato a designare metaforicamente  qualcosa di particolare, oltre a pete ti puercu (piede di porco, l’attrezzo degli scassinatori, ma, col significato particolare (evoca la forma del piede dell’animale)ad Alessano di nuvola presaga di temporale e a Salve di arcobaleno che resta imperfetto, il vocabolario del Rohlfs registra, solo per Nardò, pete di lupu col significato di arcobaleno incompleto2; solo  per Galatone pete ti mosche e solo per Ruffano nella variante pete te mùschie a designare il bagolaro (Celtis australis L.)3; pede de capra per Leuca (peti ti crapa a Brindisi), a designare il bivalve chiamato in italiano Arca di Noè4.

Passo ora ai principali derivati di pete, con la preghiera al lettore di segnalarmi eventuali, tutt’altro che improbabili omissioni, soprattutto laddove la voce pone interrogativi o consente di fare riflessioni di un certo interesse.

PETALE (in italiano pedale), latino pedale(m) forma sostantivata col significato di oggetto della larghezza, lunghezza o altezza di un piede, dell’aggettivo corrispondente che significa della larghezza, lunghezza o altezza di un piede, dalla radice ped– di pes (genitivo pedis) + suffisso aggettivale. 

PITALORA (non conosco corrispondente italiano)= tralcio nato sul tronco della vite. Dal precedente in una forma *pitale, da non confondersi conl’omonimo ,designante il vaso da notte, che è dal greco πιϑάριον (leggi pithàrion), che significa orcio.

PITANTE (il corrispondente italiano pedante ha, con lo stesso etimo, un altro significato)=passeggero, soprattutto nell’espressione pitante ti mare (persona che ama frequentare i luoghi in riva al mare). La voce è participio presente di un inusitato *pitare, a sua volta dal latino medioevale pedare usato nel senso di misurare a passi.

PITATA (in italiano pedata, participio passato di un inusitato *pedare, forma verbale da piede, della quale permane il composto appiedare.

PITICINU sinonimo di picciolo, peduncolo. Come le voci italiane appena ricordate è diminutivo sostantivato dell’aggettivo  del latino medioevale pedicus5=relativo al piede, dal citato pes.

PITICUNE usato (non a Nardò)  nel significato di ceppaia. Stesso etimo del precedente, ma con suffisso accrescitivo.

‘MPITICUNARE è usato nel significato di mettere in condizione di non muoversi o in quello traslato di impegnare totalmente . La voce è dalla preposizione in (con aferesi di i- e normale passaggio –n->-m-davanti a -p-) + una forma verbale derivante dal precedente piticune.

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1 Da una radice indoeuropea ped– presente anche nell’inglese foot.

2 Pur essendo di Nardò, è la prima volta che incontro questa locuzione e sarei grato a chiunque fornisse qualche notizia (o fondata supposizione) circa l’origine della metafora. Posso solo dire che qualche collegamento è ipotizzabile con il piede di lupo o Lycopus europaeus L. [Lycopus è dal greco λύκος (leggi iùcos)=lupo + πούς (leggi pus)=piede], in rapporto ai colori dominanti del perianzio (bianco, rosa, rosso, purpureo (vedi   https://www.actaplantarum.org/flora/flora_info.php?id=4911. Tuttavia questo comporterebbe un doppio passaggio metaforico (dal mondo animale a quello vegetale e da questo all’atmosferico), per cui è più probabile che l’imperfezione abbia evocato l’immagine del piede dell’animale come credo sia successo per il pete ti puercu di Salve.

3 Anche qui il passaggio metaforico dal mondo animale a quello vegetale dovrebbe essere basato su un rapporto di somiglianza, ma non riesco ad intravvederlo, sfruttando, questa volta, la scheda presente in https://www.actaplantarum.org/flora/flora_info.php?id=1825. Faccio presente che il piede di mosca (o piede sporco), indicato con ❡ o ¶,è un antico segno tipografico che in passato segnava la ripartizione di un capitolo e che negli attuali programmi di videoscrittura segna la fine di capoversi e paragrafi; non credo proprio che la nostra metafora possa avere questa origine dotta.

4 A Nardò chiavatone. Probabilmente le sue decantate proprietà afrodisiache hanno propiziato la paretimologia (parziale, perché protagonista, come vedremo, è sempre il chiodo)da chiavare (non nel suo significato letterale di inchiodare ma in quello metaforico alludente al coito maschilisticamente inteso, tanto per cambiare …. Mi sarei aspettato, sotto questo punto di vista, un chiavantone (accrescitivo del participio presente attivo  e non di quello passato che, per i verbi transitivi, come chiavare,  ha significato passivo …).  In realtà chiavatone è accrescitivo, sì, ma da clavatus  (=a forma di clava), a sua volta da clava, che ha la stessa radice di clavis=chiave e di clavus=chiodo (in fondo un chiodo è la forma più semplice di chiave). Chiavatone, perciò, nasce dalla sua somiglianza con una clava, poi la fantasia popolare ha fatto il resto …  Ne approfitto per ricordare che fungu ti crapa è chiamato a Nardò quello che con nome italiano è detto piede di capra (Albatrellus pes caprae), per cui il nome neretino evoca la forma e non una particolare predilezione caprina per esso.

5 Da non confondere con l’omografo del latino classico pèdicus=relativo ai fanciulli, che è trascrizione del greco παιδικόϛ (leggi paidicòs), a sua volta da  παῖς (leggi pàis)=fanciullo. Il pèdicus (da pes) è stato quasi riesumato nell’italiano pèdice [(detto anche  deponente),   segno, lettera, numero che, in formule chimiche o in espressioni matematiche, è collocato in basso rispetto ad altri segni], che è formazione moderna modellata sul latino àpicem (non a caso àpice, tipograficamente parlando, è il contrario di pèdice), che significa sommità.

Nardò, due pergamene certamente (una addirittura, una bolla papale), due scultori forse, anzi, decisamente no!

di Armando Polito

Dopo le ultime “creazioni” di Christo e di Cattelan il lettore si chiederà, letto il chilometrico titolo che farebbe invidia a a quelli di tanti  libri a stampa dei secoli scorsi, quali saranno mai questi scultori prima annunziati e subito dopo schizofrenicamente rinnegati alle prese con pergamene. Anche se avessero rimediato gli onori della cronaca, avrei perso il mio tempo con loro solo per un liberatorio sfogo intriso di sarcasmo. La questione, invece, è stata, almeno all’inizio, maledettamente seria e ci porterà, comunque, a ritroso nel tempo per più di quattro secoli.

Comincio col presentare la bolla, non di sapone né finanziaria …, cioé quella con cui papa Gregorio XIII sancì l’elezione di Cesare Bovio1 a vescovo di Nardò il 15 aprile 1577.

Riproduco la pergamena, che è custodita nell’archivio della curia vescovile di Nardò, da http://www.sapuglia.it/Schedatura/Pergamene/iviewer/viewer/viewer.php?id_perg=7780&offset=0, aggiungendo di mio la trascrizione (le abbreviazioni sciolte in parentesi tonde, le lacune integrate2 nelle quadre), la traduzione e le dovute note.

bolla diocesi Nardò

Gregorius ep(iscopu)s servus servo(rum) Dei Dilecto filio Cesari Electo Neritonen(si) Sal(u)t(em) et A [p(osto)licam) Ben(edictionem)].

Apostolatus officium meritis licet imparibus nobis ex alto commissum quo ecclesiarum omnium regimini divina dispositione presidemus utiliter exequi coa[diuvante Domi]no cupientes soliciti corde reddimur et solertes ut cum de Ecclesiarum ipsarum regiminibus agitur committendis tales eis in Pastores preficere studeamus,  qui [Populum] sue cure creditum sciant non solum doctrina verbi, sed etiam exemplo boni operis informare commissasque sibi ecclesias in statu pacifico et tranquillo velint et [valeant], auctore Domino salubriter regere et feliciter gubernare Dudum siquidem provisiones Ecclesiarum omnium tunc vacantium et in posterum vacaturarum ordinationi et disp[ositioni nostre] reservavimus decernentes ex tunc irritum et inane, si secus super his per quoscumque quavis auctoritate scienter vel ignoranter contigeret attentari. Et deinde ecclesia N[eritonensis auctoritati] apostolice immediate subiecta cui bone memorie Ambrosius Episcopus Neritonensis dum viveret presidebat per obitum dicti Ambrosii Episcopi qui extra Romanam Curiam  de[bitum] persolvit pastoris solatio destituta Nos vacatione huiusmodi fide dignis relationibus intellecta ad provisionem eiusdem ecclesie celerem et felicem de qua nullus preter [nos hac] vice se intromittere potuit sive potest reservatione et decreto et sistentibus  supradictis ne ecclesia ipsa longe vacationis exponatur incommodis paternis et solicitis [studiis] intendentes post deliberationem quam de preficiendo eidem ecclesie personam utilem et etiam fructuosam cum fratribus nostris habuimus diligentem demum ad te Rectorem [ecclesie] beate Marie Virginis Assumptionis nuncupate Licien(sis) in presbiteratus ordinem constitutum et ex civitate Bononien(si) oriundum cui apud Nos de literarum scientia vite munditia honestate morum spiritualium providentia et temporalium circumspectione aliisque multiplicium virtutum donis fide digna testimonia perhibentur direximus oculos nostre mentis. Quibus omnibus debita meditatione pensatis de persona tua nobis et eisdem fratribus ob tuorum exigentiam meritorum accepta eidem ecclesie Neritonen(si) de ipsorum fratrum consilio Apostolica auctoritate providemus teque illi in Episcopum preficimus et pastorem curam et administrationem ipsius ecclesie Neritonen(sis) tibi in spiritualibus et temporalibus plenarie committendo in illo qui dat gratias et largitur premia confidentes quod dirigente Domino actus tuos prefata ecclesia Neritonen(sis) per tue diligentie laudabile studium regetur utiliter et prospere dirigetur ac grata in eisdem spiritualibus et temporalibus suscipiet incrementa. Iugum igitur Domini tuis impositum humeris prompta devotione suscipiens curam et administrationem predictas sic exercere studeas solicite fideliter et prudenter quod ecclesia ipsa Neritonen(sis) Gubernatori provido et fructuoso Administratori gaudeat se com(m)issam. Tuque preter eterne retributionis premium benivolentiam nostram et nostre sedis benedictionem et gratiam exinde uberius consequi merearis. Volumus autem quod antequam possessionem seu quasi regiminis et administrationis dicte ecclesie Neritonen(sis) vel illius bonorum aut maioris partis eorum assequaris seu in illis te immisceas fidem catholicam iuxta articulos pridem ab eadem sede propositos iuxta formam quam [sub b]ulla nostra   mittimus introclusam in manibus venerabilium fratrum nostrorum Archiepiscopi Idruntusin(ensis)  et Episcopi Castren(sis) seu alterius eorum quibus et eorum cuilibet per alias nostras literas man[dam]us quatenus ipsi vel eorum alter professionem a te recipiant seu recipiat antedictam omnino profiteri et facte huiusmodi professionis fidei formam in scriptis tuo sub sigillo per proprium [n]uncium ad sedem autem quantocitius destinare tenearis alioquin provisio et prefectio huiusmodi nulle sint. Datum Rome apud Sanctumpetrum Anno incarnationis dom[inic]e millesimoquingentesimoseptuagesimoseptimo decimo septimo (ante) Calendas Maii nostri pontificatus anno [quin]to.

Da notare che nella prima linea le iniziali G di Gregorius, D di dilectus, C di Cesari, E di Electo, N di Neritonen(sis), la S di Sal(u)tem hanno l’estetica dei capilettera imitanti le miniature medioevali; inoltre, in modo meno appariscente, delle linee verticali uniscono al capolettera la s di servus e di servorum, la l di dilecto, la f di filio, la s di Cesari e la l di Electo.

Ecco la traduzione:

Gregorio vescovo servo dei servi di Dio al diletto figlio Cesare eletto a Nardò (rivolge) il saluto e l’apostolica benedizione.

Desiderando che l’ufficio dell’apostolato a noi affidato dall’alto pur con impari meriti, con il quale per divina disposizione presiediamo al governo di tutte le chiese, sia eseguito utilmente con l’aiuto di Dio siamo resi solleciti nel cuore e solerti affinché, quando si tratta di affidare Il governo delle stesse chiese, curiamo di dare l’incarico di presiederle a pastori tali che credano che il popolo sia stato affidato alla loro cura non solo per l’insegnamento della parola (di Dio) ma anche vogliano e valgano con l’esempio della buona azione educare e con l’aiuto di Dio reggere e felicemente governare in uno stato pacifico e tranquillo li chiese a loro affidate. Da tempo poiché abbiamo riservato al nostro governo e comando la cura di tutte le chiese allora vacanti e in seguito destinate ad esserlo giudicando da allora  nullo o inutile se diversamente su queste cose toccasse di transigere da chiunque con qualsiasi autorità consapevolmente o inconsapevolmente e di conseguenza la chiesa di Nardò, immediatamente soggetta all’autorità apostolica, alla quale presiedeva finché era in vita il vescovo di Nardò Ambrogio di buona memoria priva di conforto per la morte del detto vescovo Ambrogio che fuori della curia romana assolse al dovere di pastore, Noi per una sospensione di questo tipo compresa mediante relazioni degne di fede per una cura celere e felice della medesima chiesa circa la quale nessuno eccetto noi questa volta potè o può intromettersi con riserva o decreto e stanti le cose prima dette intendendo che la stessa chiesa non sia esposta lungamente agli inconvenienti della sospensione dopo la diligente deliberazione che abbiamo avuto con i nostri fratelli sul preporre alla medesima chiesa persona utile e anche fruttuosa alla fine abbiamo diretto gli occhi della nostra mente a te rettore della chiesa leccese chiamata della Beata Vergine dell’Assunzione post nell’ordine dei presbiteri e oriundo della città di Bologna, dal quale sono offerte a noi testimonianze degne di fede sulla conoscenza delle lettere, la purezza di vita, l’onestà dei costumi, la prudenza delle cose spirituali e l’avvedutezza di quelle materiali e altri doni di molteplici virtù. Meditate con la dovuta profondità tutte queste cose, circa la tua persona gradita a noi ed ai medesimi fratelli per esigenza dei tuli meriti provvediamo con apostolica autorità su decisione degli stessi fratelli alla chiesa di Nardò e ti eleviamo a capo di quella e a pastore affidando plenariamente a te la cura e l’amministrazione della stessa chiesa di Nardò nelle cose spirituali e temporali in (nome di) colui che dà le grazie e largisce i premi confidando che dirigendo il Signore le tue azioni la predetta chiesa di Nardò grazie al lodevole impegno della tua diligenza sarà retta utilmente e prosperamente diretta e conseguirà graditi progressi nelle cose spirituali e temporali. Accettando dunque con pronta devozione il giogo del Signore posto sulle tue spalle impegnati ad esercitare la cura e l’amministrazione predette così sollecitamente, fedelmente e prudentemente che la stessa chiesa di Nardò goda di essere stata affidata ad un governatore provvido e fruttuoso. E tu possa meritare oltre al premio dell’eterna ricompensa la nostra benevolenza e la benedizione della nostra sede e di conseguire più abbondantemente da questo gratitudine. Vogliamo poi che prima che tu consegua il predetto possesso sia quasi di governo e amministrazione della detta chiesa di Nardò o dei suoi beni o della loro maggior parte, o che in essi ti immetta, che tu faccia aperta dichiarazione di fede cattolica secondo la forma che sotto la nostra bolla mandiamo chiusa nelle mani dei venerabili nostri fratelli l’Arcivescovo di Otranto ed il vescovo di Castro o di uno di loro. Ad essi ed a ciascuno di loro per altre nostre lettere diamo l’incarico che essi o uno di loro ricevano o riceva da te la dichiarazione di fede, che tu sia tenuto a fare in tutto la predetta professione e a far pervenire quanto più presto possibile a questa sede per iscritto la forma di professione di fede di tal genere fatta sotto il tuo sigillo tramite proprio messaggero, che in caso contrario il provvedimento e la nomina a capo di tal fatta siano nulli. Emesso a Roma presso San Pietro nell’anno dell’incarnazione del Signore 1577 il 15 aprile, del nostro pontificato anno quinto.

La bolla in calce mostra ben cinque scritture spurie, cioè estranee al testo ma aggiunte senz’altro subito dopo la sua stesura. Riproduco in dettaglio ingrandito quella che ci interessa.

Leggo più o meno agevolmente Franc(iscu)s Bellottus p(ro) Mag(istr)is.

La traduzione sarebbe: Francesco Bellotto per i maestri. Credo che il riferimento sia ai magistri plumbi (alla lettera maestri del piombo), cioè a coloro che realizzavano il sigillo, della cui presenza la bolla oggi presenta solo tracce, com’è detto nella scheda di catalogazione che l’accompagna. Ciò che, però, a prima vista fa sobbalzare, a patto di averlo sentito nominare, è Francesco Bellotto, cioè il nome di uno scultore neritino del secolo XVI3.

E, tenendo conto che di lui ben poco si sa, uno sobbalza credendo di averne rinvenuto, addirittura, la firma e giunge pure a supporre che nella realizzazione del sigillo di Gregorio XIII ci sia il suo zampino. Poi comincia a riflettere ed a nutrire qualche dubbio, a cominciare dal fatto che a livello cronologico siamo proprio al limite. Un controllo effettuato sulle altre cinque bolle di Gregorio XIII conservate nel detto archivio ha fatto rilevare la presenza della firma del Bellotto in due altre bolle, sempre del 15/4/1577. Nella prima  (il papa assolve Cesare Bovio da ogni censura o pena ecclesiastica in cui sia eventualmente finora incorso):

 

Nella seconda (il papa dispensa Cesare Bovio dalla rinunzia alle cariche e ai beni che teneva a vita prima della sua elezione, concedendogli, cioè, di conservare la chiesa di S. Maria dell’Assunzione di Lecce, de iure patronatus di D. Filippo De Matteis, la chiesa di S. Andrea dell ‘Isola e quella di S. Maria de Formellis, di Brindisi:

Nel corso di questo controllo, poi, è avvenuto qualcosa che da un lato ha definitivamente messo da parte il sospetto di aver fatto una scoperta, se non eccezionale (!), quanto meno interessante (tanto più, come ho detto, che del Bellotto sia sa poco o niente), dall’altra di prendere una madornale cantonata con un’ipotesi abbastanza evanescente, seppur suggestiva.

In calce ad un’altra pergamena, questa del 23/6/1577, in cui Cesare Bovio, in presenza del Capitolo, impartisce istruzioni per il servizio nella Cattedrale di Nardò, leggo, sempre in calce, quanto segue.

Placidus Buffellus ca(ncell)ar(ius) causarum ep(iscopa)lis neritonens(is) Not(arius)

Placido Buffelli cancelliere delle cause, notaio neritino del vesc

Faccio presente che Buffellus alla lettera sarebbe Buffello, ma ho tradotto Buffelli per l’uso invalso nel latino di declinare al singolare anche i cognomi dalla forma evocante il plurale. Un esempio per tutti, connesso con l’epoca e col territorio: il Galateo, com’è noto, dedica il De situ Iapygiae a Giovan Battista Spinelli e Spinelle (vocativo singolare=o Spinelli, ma alla lettera sarebbe o Spinello) ricorre più volte,senza contare la stessa procedura adottata per altri cognomi “plurali” di autori di opere latine, com’è regola fino al XVIII secolo.

Placido Buffelli, dunque, non è una forzatura, e legittima il ricordo di Placido Buffelli di Alessano 1635-1693), anche lui scultore, autore, fra l’altro, di tre fastosi altari realizzati nel 1668 nella cattedrale di Nardò.

Le date appena ricordate, però, a differenza di quanto era successo per il presumibile scultore neritino, non lasciano scampo e sanciscono un caso di omonimia, il che, d’altra parte, era sospettabile tenendo  conto dei titoli che nella pergamena ne accompagnano il nome.

E desolatamente bisogna prendere atto, non solo per la proprietà transitiva, che, se il notarius Buffelli non è lo scultore alessanese, nella bolla da cui siamo partiti il magister plumbi Bellotto non è lo scultore neritino. Insomma, poteva essere uno scoop, è stato un flop …

La pergamena con la firma di Francesco Bellotto direi che non viene da Nardò,o perlomeno tutti i firmatari non sono locali. Probabilmente fanno parte della Curia romana

Invece l’altra riporta i membri del Capitolo della Cattedrale di Nardò, tutti abati, che firmano la pergamena:

Gio: Francesco Nestore arcidiacono

Cesare Sizzara preposito

Leonardo Gaballo cantore

Antonio Massa tesoriere

Ercole  Sombrino arcipresbitero

Ferrero Campanella canonico

 A… Phontonius (Fontò)  canonico

Leonardo Trono canonico

Pietro Scopetta  canonico

Giulio Cesare Rapanà  canonico

Domenico Antonio Vernaleone  canonico

Gio: Antonio Giulio canonico

Vincenzo De Matteis  canonico

Domizio…  canonico

Lucio Guerrieri   canonico

Cola Piccione  canonico

Domenico Bia  canonico

Gio: Carlo Colucci  canonico

Gio: dello Pinto  canonico

Gio: Antonio de Pantaleonibus  canonico

Placido Buffelli actuarius causarum episcopalis

Placido Buffelli, notaio, nel 1596 vive a Nardò. Aveva sposato Claudia della Penta , con cui aveva generato Nicola nel 1585, Desiderio nel 1589, Virginia nel 1590, Betta nel 1583, Ippolita nel 1588. La famiglia proveniva da Alessano e viveva in Nardò “pro exercendo offitio auctuarii” nella curia vescovile di Nardò.

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1 La biografia più completa è quella manoscritta di Pietro Pollidori (1687-1748) De sacris, et profanis antiquitatibus Neritinae urbis et dioecesis, anch’essa custodita nell’archivio della curia di Nardò. Una copia manoscritta fu fatta nella seconda metà del XVIII dall’abate canonico bibliotecario Michele Foggetta ed è inserita in una miscellanea custodita nelle Biblioteca pubblica arcivescovile Annibale De Leo a Brindisi (ms_B/54, cc. 33r-59r).

2 Operazione facilitata dall’abbondante uso di locuzioni formularie agevolmente ricavabili da documenti analoghi.

3 Condivido, infatti l’osservazione contenuta nella prima delle righe in blu, che sono di Marcello Gaballo.

Dialetti salentini: “mùsciu”

di Armando Polito

* Sarò contento quando finirai di perdere tempo in sciocchezze e andrai a comprarmi le crocchette, che sono quasi finite.

 

Correva l’anno 2000 ed il sottoscritto, ad un anno dalla pensione, non aveva perso l’atavico vizio di infarcire le sue lezioni, oltre che di riferimenti all’attualità,  con le etimologie, pure di voci salentine, così come i miei allievi quello di dirottare con scaltrezza le incombenti interrogazioni verso due percorsi certamente più attraenti , soprattutto l’attualità …, della grammatica più o  meno fine a se stessa, con quesiti posti da loro.

Siccome, poi, non ero (e tanto meno sono diventato) un Rohlfs, non sono mancati nella circostanza i casi in cui ho dovuto confessare la mia impotenza a dare una risposta scientificamente valida o a formulare ipotesi di una qualche attendibilità, chiedendo tempo per riflettere e/o documentarmi, rinviando la risposta al giorno dopo.

Così, in un giorno del bimillennio della nostra era, Luigi Scarlino1, mi chiese se mùsciu non fosse da interpretarsi come macchina per topi (testuali parole), con derivazione dal latino mus (genitivo muris), che significa, appunto, topo. e che è trascrizione del greco  μῦς (stesso significato).  L’ipotesi appariva suggestiva e semanticamente accettabile, ma restava da spiegare la parte terminale che, nel caso la proposta  di Luigi fosse stata valida, avrebbe dovuto avere un valore strumentale, che di solito nel dialetto salentino è affidato ad un suffisso aggettivale2. Inoltre dal punto di vista fonetico l’esito -sci-, che nel dialetto salentino è figlio di un originario –iz- (latino baptizo/italiano battezzo/salentino attìsciu o -ps- (latino capsa/italiano cassa/salentino càscia) o –str– (latino fenestra/italiano finestra/salentino finèscia) o -ste- (latino mùsteum/italiano moscio/salentino mòsciu), faceva supporre iniziali quanto incongruenti (nel senso che non solo non c’era corrispondente italiano ma nulla pure potevano dire dal punto di vista etimologico) *mùizu/*mussu/*mustru.

Nemmeno i derivati italiani di mus (lasciando volutamente da parte quelli, tutti dell’ambito scientifico e, in particolare medico, inizianti per mio-), aggiunsi,sarebbero potuti venire in soccorso. E, dopo aver ricordato che l’inglese mouse (nel significato originario dell’animale e in quello metaforicamente derivato dell’accessorio del pc) non era altro che il latino mus, citai l’unico che al momento mi venne in mente: muscolo, dal latino musculu(m), diminutivo di mus (alla lettera piccolo topo, per i movimenti guizzanti).

Prima di passare ad altro (ma poi il suono della campanella, tanto per cambiare, non me lo consentì …) più consono al programma ministeriale …, mi balenò micio e, sapendo che è voce infantile onomatopeica, ipotizzai che pure mùsciu lo fosse, quasi una sua variante fonetica.

All’epoca la scuola, pur avendo un’aula informatizzata, che noi puntualmente frequentavamo per la realizzazione di un cd (!) su Nardò, non era connessa ad internet e nemmeno io a casa, pur usando il pc, potevo fruire di quel formidabile strumento. Perciò quel giorno, rientrato da scuola, mi abbandonai ad un gesto rituale, cioè mi precipitai a capofitto sul dizionario del Rohlfs: ebbi  così  il conforto della conferma dell’origine onomatopeica, e, nel riferire l’esito alla classe il giorno dopo, un pizzico di modestia mi spinse a non pavoneggiarmi troppo …

La parentesi di mùsciu terminò con l’assicurazione da parte di Luigi, su mia esplicita domanda, che la sua ipotesi non era stata indotta da lettura alcuna, nemmeno occasionale. L’accertamento era necessario pèrché qualche settimana prima in combutta con un altro allievo, Antonio dell’Anna, aveva tentato di mettere alla prova le mie capacità filologiche esibendo un documento in latino, a suo dire antico, un frammento di foglio contenente quattro righe. Di antico, ma neppure tanto, quel foglietto aveva solo la carta, perché il testo era infarcito di tanti errori grammaticali (faccio presente che già nel  2000 la traduzione dall’italiano in latino non era più prevista, mentre oggi, lasciamo perdere…) che in un attimo compresi chi ne erano stati gli autori. Gradii lo scherzo, procedemmo, tra le risate via via scemanti, alla correzione del testo  e l’unico rammarico che espressi fu per il libro che, per mettermi alla prova, era stato mutilato …

Oggi, a distanza di venti anni, l’esperienza maturata nella ricerca delle fonti e l’aiuto della rete mi consentono di far rivivere provvisoriamente, prima dell’archiviazione definitiva, l’ipotesi di Luigi.

Intanto integro preliminarmente  la citazione  dei derivati italiani di mus con l’aggiunta a muscolo  di migale (o toporagno), dal latino tardo mygale(m), trascrizione del greco μυγαλῆ (leggi miugalè), composto da μῦς (leggi miùs)=topo+γαλέη (leggi galèe)=donnola . L’integrazione non comporta progressi o cambiamenti rispetto a quanto provvisoriamente a suo tempo  definito in classe.

Passo poi dal dizionario italiano al Glossarium mediae et infimae Latinitatis del Du Cange, dove trovo registrato un MUSCULUS, il cui lemma riproduco in formato immagine con la mia traduzione a fronte.

A MUSCLUS 1.

A CATUS 2

Scopro poi che il MUSCULUS del tardo latino sopravvisse nell’italiano moscolo o muscolo, attestato nel Vocabolario della Crusca (seconda edizione, 1863; trascrivo il testo perché l’immagine non è molto chiara).

La parte finale delle definizione lascia sconcertati, tanto più che muscolo oggi è anche  il nome comune dei molluschi della famiglia dei Mitilidi, specialmente delle cozze. Ad ogni buon conto ecco come la macchina è rappresentata in una tavola a corredo del volume di Giusto Lipsio3 Poliorceticon sive De machinis, tormentis, telis libri quinque uscito per i tipi dell’Officina plantiniana, presso la vedova e Giovanni Moreto  ad Anversa nel 1596. Essa sintetizza graficamente quanto trattato subito prima nelle pp. 49-57. La figura A rappresenta il muscolo secondo la descrizione di Cesare (Musculus Caesaris=Il muscolo di Cesare), la B (Musculus vulgi, falsus=Il muscolo del volgo, falso) secondo quella, contestata dal Lipsio, di alcuni autori di meccanica o cose militari, ingannati dalla definizione che Isidoro di Siviglia (VI-VI secolo) aveva dato del muscolo4 , nella quale l’immagine del coniglio li aveva spinti ad immaginare che la macchina bellica avesse anteriormente un rostro acuto per perforare il muro e non scavarne le fondamenta. E il Lipsio conclude:  Credo in verità che è chiamato muscolo poiché a mo’ di quell’animaletto [il topo] scavavano sotto di esso la terra oppure perché i soldati, come topi, si accostavano sotto di esso cavo.

Mentre mi chiedo se la manovella che si vede all’opposto del rostro avesse la funzione di aggiungere alla percussione anche la rotazione,  se non fossi più che sicuro della sincerità di Luigi (e della quasi impossibilità all’epoca, del reperimento delle fonti in tempi che non fossero biblicamente lunghi), sospetterei (dopo 20 anni, bel risultato!) che proprio la figura B e la lettura di CATUS 2 gli abbiano  ispirato a suo tempo la metafora del gatto macchina contro i topi.

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1 Son riuscito a … beccarlo, con la speranza che si faccia vivo in  https://www.facebook.com/SeminarioMilano/photos/a.1158761847502454/3329254307119853/?type=3&theater 

2 Vedi , per esempio,  ‘mbruffarola in  https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/28/la-mbruffalora-linnaffiatoio/ e strattarola in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/06/sscercule/

3 1547-1706, filosofo, umanista e filologo fiammingo.

4 Etymologiae, XVIII, 11, 4: Musculus cuniculo similis fit, quo murus perfoditur, ex quo et appellatus, quasi murusculus (Il muscolo è simile ad un coniglio , dal quale il muro viene scavato, dal quale pure è chiamato, quasi piccolo muro). Secondo Isidoro, dunque, musculus trarrebbe il nome da murusculus, diminutivo di murus. Va detto che murusculus è attestato solo in Isidoro, anche se la sua formazione ricalca quella di flosculus (da flos=fiore)=fiorellino e dello stesso musculus (da mus).

5 Poliorceticon, op. cit., p. 50.

Dialetti salentini: “sine” e “none”

di Armando Polito

Nell’era del poco tempo riservato alla riflessione, qual è la nostra. probabilmente sono gli avverbi più usati. Troppo dispendioso di tempo ed energie mentali, infatti, risulta alla gente comune articolare una risposta non secca, positiva o negativa ad una domanda, come se tutta la verità o, se preferite, il mistero della vita fosse condensabile in un (in salentino sine) o in un no (in salentino none). Solo la politica ha conservato, invece, la vecchia abitudine di tergiversare girando attorno all’ostacolo per non tentare non dico di saltarlo, ma almeno di studiare il gesto tecnico da adottare, mentre chi ha posto la domanda non è in grado di farlo notare per mancanza di preparazione o, peggio ancora, per convenienza, se non preventivo accordo o ordini di scuderia …

E tra le scienze in cui l’opzione sì/no è tutt’altro che scontata, vi è la filologia e la sua branca dell’etimologia. Se immediato e pacifico è l’etimo di [dal latino sic (est)=così (è)] e di no (dal latino non (est)=non (è), quello di sine e none richiede qualche approfondimento.

A prima vista sine e none appaiono come forme rafforzate, rispettivamente, di e di no e –ne la loro particella deputata a questa funzione.  Da dove potrebbe derivare quel –ne? Il Rholfs1 non propone alcun etimo e si limita a definire sine come forma rafforzata che si usa in posizione isolata e none come forma enfatica.

Va detto pure che none appare usato nella lingua italiana a partire dal XIV secolo: fra gli altri,  Francesco di Cambio, L’Esopo di Udine e Simone da Cascina, Colloquio spirituale. Per il secolo successivo basti citare Leonardo da Vinci, Codice del volo degli uccelli, Paolo da Certaldo, Libro di buoni costumi. Va detto, però che none non è mai usato assolutamente, cioè da solo nelle risposte, come, invece, avviene, pure per sine, nel salentino.

Per sine e none dell’italiano antico l’opinione dei linguisti è che si tratti di un fenomeno di epitesi, cioè dell’aggiunta di qualche fonema (e e talora ne) alla fine di una parola tronca; in particolare.  per ne vengono citati come esempi sine, none e quine.

Io credo che, se per –e di faroe, ameroe, piue, etc. etc. è difficile rivendicare un valore etimologico di un solo fonema, non lo è invece, per sine e none, in cui i fonemi coinvolti sono due.

Escludendo che quel  –ne abbia un qualche rapporto col ne?, l’esclamazione interrogativa di carattere enfatico in uso specialmente in Piemonte e Lombardia2, esso potrebbe derivare dal latino nae, che significa certamente e che, a sua volta, è dal greco ναί  (leggi nai), con lo stesso significato.  Insomma, sine e none sarebbero, rispettivamente, da sic nae e non nae.  Col passare del tempo, poi, il nae, all’inizio distinto, si sarebbe fuso con il primo componente e, attraverso il passaggio intermedio si ne/no ne, avrebbe assunto  nella pronunzia le caratteristiche del suffisso. Perciò potrebbe non trattarsi di epitesi se quel –ne il valore etimologico che ho avanzato.

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1 Gherard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976.

2 Corrisponde all’italiano nevvero? (abbreviazione di non è vero?) e porebbe essere abbreviazione di non è?.

Taranto ed Ebalo: un mito sempre vivo

di Armando Polito

Su Ebalo e derivati non mi pare il caso di ripetere quanto ho avuto occasione di scrivere in https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/01/08/taranto-piazza-ebalia-le-origini-di-un-toponimo/.

Rischierei, da parte di chi a suo tempo mi lesse, l’accusa di autoriciclaggio o, se preferite, di autocopia-incolla, oppure di avanzata arteriosclerosi …

A chi, invece, sente questo nome per la prima volta e non vuole precludersi la possibilità di comprendere più agevolmente quanto dirò, faccia una visita preliminare al link appena segnalato.

E allora? Qui integrerò aggiungendo i riferimenti testuali ad un autore lì citato con scarne notizie e presentando ex novo un altro più vicino a noi.

Tommaso Niccolò d’Aquino (1665-1721) nel 1706 entrò nell’Arcadiaed assunse lo pseudonimo di Ebalio Siruntino2. Fu sindaco di Taranto, subentrando al padre, nel 1705-1706. In vita non pubblicò nulla. Il suo Deliciae Tarentinae, il cui autografo risulta disperso, fu pubblicato per i tipi della Stamperia Raimondiana a Napoli nel 1771 da Cataldantonio Artenisio Carducci (1733-1775), che lo corredò di traduzione in endecasillabi del testo latino in esametri e di commento.

Ne riporto fedelmente i versi che ci interessano, con la mia traduzione perché quella del Carducci raramente coincide con l’estensione del verso originale:

LIBRO I

1 Oebaliae canimus silvas, bimarisque Tarenti (Cantiamo le selve di Ebalia e di Taranto dai due mari)

82 magna per Oebalios volant examina campos (grandi sciami volano per i campi ebalii)

137 explicat, Oebaliae qua surgunt moenibus arces (elargisce, per dove le rocche di Ebalia sorgono con le loro mura)

151 Oebalii exultant, et amabilis ora Phalanti (esultano gli Ebalii e l’amabile contrada di Falanto)

166 Oebaliam iuxta, nec longo dissita tractu (Presso Ebalia, né lontana per lungo tratto)

232 Oebalias parit, unda tamen sua munera nutrit ([il clima caldo] genera le ebalie [qualità], l’onda tuttavia nutre i suoi doni)

237 Perpetuus micat Oebaliae thesaurus aquarum (In Ebalia brilla il perpetuo tesoro delle acque)

244 Oebaliam propter felicibus ora fluentis (presso Ebalia una contrada dalle copiose acque)

298 Alluit Oebaliam longi molimine tractus (Bagna Ebalia un corso d’acqua dal lungo tratto con argine)

326 Oebaliam ingreditur, secum arcubus ipsa triumphans [l’acqua entra in Ebalia, trionfando essa stessa con getti arcuati)

335 civibus Oebaliis: agitant sub nocte choreas (per i cittadini ebalii: di notte intrecciano le danze)

372 appulit Oebalios fines spartana iuventus (la gioventù spartana

437 Oebalii plaudunt, tolluntque ad sidera nomen (Gli Ebalii applaudono ed elevano il nome alle stelle)

456 Instant adversi Oebalii, ferroque coruscant (Gli Ebalii oppongono resistenza e brillano nell’armatura)

493 nutriit Oebaliae divino nectare alumnos (nutrì gli allievi col divino nettare di Ebalia)

544 Oebalii: fors astra, novo seu Cinthia ([del mare] di Ebalo: per caso gli astri o la luna col nuovo)

LIBRO II

4 sit pecori: Oebalio quanta experientia nautae (ci sia per il gregge di Nereo; quanta esperienza per il marinaio ebalio)

35 Oebalius certo piscator tempore jactat (il pescatore Ebalio in tempo opportuno getta)

72 Oebalio illuxit quondam medicata veneno (trattata col veleno ebalio un tempo superò)

263 Oebaliae servant, riguo data munera coelo (custodiscono [le conchiglie] di Ebalia, doni concessi dal cielo ricco di piogge)

269 vir fuit Oebaliae quo non praestantior alter (ci fu un uomo di Ebalia del quale un altro non fu più forte)

459 Oebalio vel quae nascantur in aequore conchae (di Ebalia o le conchiglie che nascono in mare)

473 O decor Oebaliae, si quid mea carmina possunt (O decoro di Ebalia, se i miei canti possono qualcosa)

611 Oebaliam pacis regat inviolabile foedus (un inviolabile patto regga la pace ebalia)

LIBRO III

23 te vocat Oebaliae lucus, te nota Galaesi (te chiama il bosco di Ebalia, te le note del Galeso)

51 Oebalii, generose, soli tu numine vindex (tu, o generoso, vendicatore con la tua potenza del suolo ebalio)

82 quae Oebalios fines oris accedat Hyberis (che dalle coste iberiche approdi ai confini ebalii)

468 panditur Oebaliis, frondentibus undique ramis (si apre agli ebalii, mentre da ogni parte verdeggiano i rami)

LIBRO IV

12 Oebaliae assurgunt tibi prata nitentia gazis (sorgono per te i prati ebalii splendenti di ricchezze)

24 Oebalios per agros, Coelum ditavit amicum (per le campagne ebalie arricchì il clima favorevole)

35 laudibus Oebaliae certent. Rhodos aurea neve (potrebbero gareggiare con le lodi di Ebalia. né Rodi con l’aurea neve)

65 Italicus sic Oebalios ad sidera lucos (così Italicoquesti boschi alle stelle)

72 visitur Oebalium variabile floribus arvum (vien vista la campagna ebalia ricca di fiori)

111 Oebalias inter silvas celebrabitur Hymen (tra le selve ebalie sarà celebrato l’imeneo)

158 Oebaliae nunc silva, et nostri placet aura recessus (piace ora la selva di Ebalia e il clima del nostro erifugio)

168 jugiter Oebaliis spes prodiga nata secundo (subito la prodiga speranza nata agli ebalii col favorevole)

273 Oebalii vernare horti, vernare recessus (rinverdire i giardini ebalii, rinverdire i rifugi)

313 dulce solum Oebaliae, et foecunda fruge superbit (dolce il suolo d’Ebalia e sarà orgoglioso dell’abbondante messe)

359 caesa gravi, queis Oebaliae praecepta ministrans (intagliati nel duro i precetti con i quali insegnando  ad Ebalia)

393 Hannibal Oebalius tollit victricia signa (l’ebalio Annibale solleva le insegne vittoriose)

419 Oebaliam reperet, praeeritque potentibus armis (entrerà in Ebalia e dominerà con le potenti armi)

423 attulit Oebaliae, et victricia cornua miscens (

431 Oebaliae plaudent arces, collesque supini (applaudiranno le rocche di Ebalia e gli inclinati colli)

448 Hoc reget Oebaliam, gaudens sua sceptra, caputque (questo reggerà Ebalia godendo il suo scettro e la testa)

464 Hoc genus Oebaliae praeerit, vix Regis habenas (questa stirpe reggerà Ebalia, a stento le redini del re)

503 haesit et Oebalio nimium dilecta Phalanto (restò unita e troppo amata dall’ebalio Falanto)

507 gloria, et Oebalii cecidit laus pristina fastus (la gloria e cadde la primitiva lode del fato ebalio)

515 Haec super Oebaliis ludens ad barbita plectro (queste cose sugli ebalii dilettandomi col plettro alla cetra)

Nel 1964 il tarantino Carlo D’Alessio rinveniva a Roma tra alcuni manoscritti arcadici Galesus piscator, Benacus pastor, ecloga del D’Aquino che venne pubblicata a cura di Ettore Paratore per i tipi di Laicata a Manduria nel 1969 con traduzione in prosa dell’originale latino in esametri (uno incompleto, in gergo tecnico tibicen=puntello: il v. 18). Procedo come sopra:

106 curabo, Oebaliumque Galesum hic Arcades inter (mi prenderò cura, e qui tra gli Arcadi che l’ebalio Galeso)

116 muricis Oebalii Clamydes, haec munera tandem ([mantelli tinti col colore] della conchiglia ebalia, questi doni finalmente) 

Giuseppe Dell’Antoglietta, discendente di Francesco Maria3, nel 1846 ristampava presso l’editore Pansini a Bari con le sue aggiunte l’opera di Scipione Ammirato Della famiglia Dell’Antoglietta di Taranto,  uscita per i tipi di Marescotti a Firenze nel 1597, col nuovo titolo Storia della famiglia dell’Antoglietta scritta da Scipione Ammirato stampata in Firenze appresso Giorgio Marescotti nell’anno 1597 con licenza dei superiori arricchita ed ornata di varie altre antichissime notizie storiche.

Giuseppe pensò bene di chiudere la pubblicazione con un componimentoin onore dell’avo già pubblicato nel 1717 da Carlo Maria Lizzani detto l’Accademico Ritirato5. Ai vv. 83-84: la Signoria donò di Fragagnano/nell’Ebalia maremma6.

 

Alessandro Criscuolo7, Ebali ed Ebaliche, Vecchi, Trani, 1887.

La voce di cui mi sto occupando non compare all’interno del volume, ma la sua presenza nel titolo al maschile ed al femminile è allusiva ai personaggi protagonisti delle undici storie raccontate ed al loro rapporto con Taranto. E sotto questo punto di vista spicca Lalla tarantata, che occupa le pp. 127-142.

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1 Giovanni Mario Crescimbeni, L’Arcadia, Antonio de’ Rossi, Roma, 1711, p.  367.

2 Per Siruntino vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/23/gli-arcadi-di-terra-dotranto-3-x-tommaso-niccolo-daquino-di-taranto-1665-1721/

3 Per quest’ultimo vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/15/gli-arcadi-di-terra-dotranto-2-x-francesco-maria-dellantoglietta-di-taranto/

4 Il titolo è Composizione epiditticha d’un illustre Ingegno, ovvero dell’Accademico Ritirato riguardante l’istoria della famiglia Dell’Antoglietta dirizzata al quindicesimo Signore, e Marchese di Fragagnano D. Francesco Maria Dell’Antoglietta stampata in Napoli presso Domenico Roselli l’anno 1717 col dovuto permesso.

5 Soprannome che aveva nell’Accademia degli Infuriati di Napoli. Pubblicò Manipolo di primizie dell’ingegno, Tommasini, Venezia, 1714, dove è inserito in lode dell’Antoglietta un sonetto.

6 Nel significato etimologico (la voce è dal latino maritima) di zona marittima.

7 (1850-1938), principe del foro, brillante conferenziere e letterato tarantino. Riporto le principali pubblicazionibed alcuni frontespizi:

Intorno a due artisti tarantini, S. Latronico & figlio, Taranto, 1874

Discorso intorno alla vita di Cataldo Sebastio, Tipografia Paisiello di S. Parodi, Taranto, 1880

Efesina: ricordi della Magna Grecia, Latronico, Taranto, 1881

Discorso letto il dì 5 giugno 1881 premiandosi gli alunni del Comune, Latronico, Taranto, 1881

Per Giuseppe Garibaldi celebrandosi la civile commemorazione dalle tre società: Operaia, de’ Muratori e de’ Figli del mare, In Taranto, il dì 11 giugno 1882, Latronico, Taranto, 1882

Difesa di Giuseppe e Vito Modesto Greco, Francesco Buttai e Domenico Scudieri accusati di grassazione, Latronico, Taranto, 1883

Discorso letto nel giorno della festa nazionale 7 giugno 1885 : premiandosi gli alunni del Liceo, delle scuole Tecniche ed Elementari del Comune di Taranto, Vecchi, Giovinazzo, 1885

Ebali ed Ebaliche, Vecchi, Trani, 1887

Ricordi di Nicola Mignona, Latronico, Taranto, 1888

Per Camillo Callari (appellato) contro G. N. De Crisci: valore di contro-dichiarazione fatta per privata scrittura contro il terzo, Latronico, Taranto, 1888

Nei testamenti la condizione di farsi prete deve aversi per non apposta? (Art. 849, C. C.) : causa Ricci contro Ricci, Latronico, Taranto, 1891

Della corruzione di persona minore dei sedici anni mediante atti di libidine che infettino malattia venerea : interpretazione degli articoli 335, 336, 351 Codice Penale, Tipografia del Commercio, Taranto, 1892

Alligazione per il sig. Augusto Pegazzano tenente di vascello querelato per rapimento, Tipografia del Commercio, Taranto, 1895

Cronaca giudiziaria tarantina, Latronico, Taranto, 1895

Bugie e pregiudizi, Mazzolino, Taranto, 1896

Il giorno augurale del nuovo Palazzo degli Uffizi in Taranto 28 giugno 1896, Martucci, Taranto, 1896

Taranto ai suoi illustri cittadini D. Acclavio e G. De Cesare, Vecchi, Trani, 1907

Giureconsulti politici e libertà italiche, Spagnolo & Guernieri, Taranto, 1910

Le Alpi: orazione pronunziata in Taranto al Teatro Orfeo il 2 marzo 1916, Società tipografica Leonardo Da Vinci, Città di Castello, 1916

Discorso del gr. uff. avv. Alessandro Criscuolo nel Foro tarantino per Luigi Perrone, L’ora nuova, Taranto, 1924

Per l’inaugurazione della biblioteca Ugo Granafei, Società tipografica Leonardo da Vinci, Città di Castello, 1926

Medaglioni tarantini della storia e della leggenda, Pappacena, Taranto, 1926 (a p. 20 è trascritta la lapide in onore di Tommaso Niccolò d’Aquino collocata dal Comune di Taranto nell’aprile 1921 nella via a lui dedicata)

Discorso ai giovani, Il popolo ionico, 1927

I funerali di G. B. Vico in L’almanacco dell’avvocato 1934, La Toga, Napoli, 1934

Epigrafi, Lodeserto, Taranto, 1921 e Pappacena,Taranto, 1937

Nella ricorrenza del suo giubileo professionale : discorso pronunziato nel Palazzo di Giustizia di Taranto il 3 maggio 1925, Biblioteca dell’ Eloquenza, Roma, 1938

Maglie, un’epigrafe del 1769 dal contenuto millenario ma con l’aggiunta moderna di un errore

di Armando Polito

La seconda foto foto è di Vincenzo D’Aurelio, che qui pubblicamente ringrazio per avermi consentito di utilizzarla per scrivere questo post. L’ho trovata sul suo profilo facebook al link

https://www.facebook.com/photo?fbid=10216317774609541&set=a.1481069759265 e, come tutte le iscrizioni datate, essa ha subito suscitato il mio interesse. Riproduco il dettaglio che ci interessa, opportunamente ingrandito compatibilmente con una definizione che non ne comprometta la lettura.

NE JUPITER OMNIBUS PLACET A(NNO) D(OMINI) 1769

L’epigrafe, collocata in via Ospedale1, è datata 1769 ma il suo studio comporta un tuffo nel passato e l’incontro con Teognide, un poeta greco vissuto fra il VI e il V secolo a. C., che in Elegie, I, 24-26 così scrive:

Ἀστοῖσιν δ’ οὔπω πᾶσιν ἁδεῖν δύναμαι·/οὐδὲν θαυμαστόν, Πολυπαΐδη· οὐδὲ γὰρ ὁ Ζεύς/οὔθ’ ὕων πάντεσσ’ ἁνδάνει οὔτ’ ἀνέχων.

Traduzione: Non posso piacere a tutti i cittadini: nulla di strano, figlio di Polipao, neppure Zeus piace a tutti né quando fa piovere, né quando tiene lontana la pioggia.

Dal tempo di Teognide ci spostiamo ora a quello di Erasmo da Rotterdam (1467-1536) e precisamente all’anno 1508, quando Aldo Manuzio pubblicò a Venezia Adagiorum chiliades2 (di seguito il frontespizio ed il colophon) di colui che forse è più noto come autore dell’Elogio della follia (titolo originale Moriae3 encomium).

Riproduco da p. 157 il brano che ci riguarda.

Trascrivo e poi traduco per poter agevolare la comprensione del commento.

Ne Iupiter quidem omnibus placet.

Theognis in sententiis, Οὐδὲ γὰρ ὁ Ζεύς/οὔθ’ ὕων πάντεσσ’ ἁνδάνει οὔτ’ ἀνέχων. Neque Iuppiter ipse sive pluat seu non unicuique placet. Hodieque vulgo dicunt. Neminem inveniri, qui satisfaciat omnibus. Nam aliis alia probantur. Et tres mihi convivae prope dissentire videntur poscentes vario multum diversa palato. Cui simile est illud evangelicum, quod in operis initio retulimus, cum de paroemiae dignitate loqueremur:  Ὑλήσαμεν ὑμῖν, καὶ οὐκ ὠρχήσασθε, ἐθρηνήσαμεν, καὶ οὐκ ἐκλαύσατε.

 

Traduzione: Neppure Giove piace a tutti

Teognide nelle sentenze: Infatti neppure Giove piace a tutti, sia che piova, sia che non. E oggi popolarmente si dice che non si trova nessuno che soddisfi tutti. Infatti uno approva una cosa, un altro un’altra. E a me sembrano non andare d’accordo tre commensali che chiedono cibi molto diversi per il differente gusto. E mi sembra simile a questo quel detto evangelico che ho riportato all’inizio dell’opera, parlando della dignità del proverbio: Cantammo per voi e non danzaste,  ci lamentammo e non piangeste.

Appare evidente la derivazione della nostra epigrafe dalla traduzione che Erasmo a suo tempo fece del proverbio estratto da Teognide, con l’unica differenza dell’assenza in quella del QUIDEM presente in questa.

NE JUPITER OMNIBUS PLACET A(NNO) D(OMINI) 1769

NE IUPITER QUIDEM OMNIBUS PLACET

Tale assenza non è irrilevante, perché pone una serie di problemi, grammaticali e non.

L’avverbio nemmeno in latino si esprime con nequidem in tmesi, cioè tagliato  nei suoi componenti [nec=e non e quidem=certamente], per cui, ad esempio, nemmeno un uomo in latino è ne homo quidem, vale a dire tra le due componenti risulta sempre inserito un altro termine; infatti correttamente in Erasmo Jupiter funge, per così dire, da inserto.

Nella nostra iscrizione, mancando quidem, che non può essere sottinteso, il ne dev’essere considerato a sè stante. E allora? Intanto in latino di ne ce ne sono diversi: un ne congiunzione con valore finale (=affinché) o dopo verbi che indicano preghiera, rifiuto, timore, condizione negativa, sempre col congiuntivo (nella nostra iscrizione placet è indicativo). Oltre al ne congiunzione, poi, esiste anche un ne con valore di avverbio col significato di davvero ma anche di forse, in entrambi i casi senza alcun rapporto con il precedente e nel secondo solo come enclitica (aggiunta in coda al verbo nelle proposizioni interrogative in cui la risposta è incerta). Nel primo, in cui il significato negativo non compare neppure parzialmente, è ipotizzabile che sia trascrizione del greco ναί (leggi nai)=certamente; nel secondo di μή (leggi me)=forse.                                                                                                                              Visto, come sì è detto, che placet è indicativo, il ne dell’iscrizione può avere solo valore avverbiale e, quindi, la traduzione sarà CERTAMENTE GIOVE PIACE A TUTTI. NELL’ANNO DEL SIGNORE 1769 (da escludersi, per quanto s’è detto prima a proposito del ne enclitico nelle interrogative, FORSE GIOVE PIACE A TUTTI. NELL’ANNO DEL SIGNORE 1769. In un caso o nell’altro essa sarebbe, comunque, semanticamente diversa (totalmente la prima, parzialmente la seconda) rispetto a quella di Erasmo. Quando le epigrafi anche moderne, seppur datate, come la nostra, sono delle citazioni, non ci sono molte varianti rispetto al testo originale e, se rimaneggiamento c’è, non è tale da cambiarne o solo renderne equivoco il significato.

Quando poi, come nel nostro caso compare quello che è a tutti gli effetti un errore di grammatica, si può ipotizzare che esso sia da imputare al committente (evento presumibilmente raro in una persona che, appartenendo certamente ad un censo elevato, non avrebbe avuto alcuna difficoltà, ammesso che non conoscesse il latino, a ricorrere all’aiuto di qualcuno competente) o allo scalpellino.

Eppure sarebbe bastato aggiungere a NE una C (le dimensioni dello spazio disponibile avrebbero giustificato l’omissione di QUIDEM ma quel fonema in più sarebbe potuto entrato comodamente4)  e con NEC JUPITER OMNIBUS PLACET (Né Giove piace e a tutti) il significato prima teognideo e poi erasmiano sarebbe stato salvo.

Tuttavia, a parziale discolpa della nostra epigrafe, c’è da dire che quell’omissione assassina di QUIDEM non reca la sua paternità, stando a quanto leggo in L’Esposizione di Parigi illustrata, Sonzogno, Milano, 1878, v. I, p.  22: L’Olanda ha voluto che l’architettura della facciata della sua sezione ritraesse il carattere del suo popolo, che predilige la bellezza solida e seria. Ai Paesi Bassi toccò la sorte di aprire la sfilata imponente e grandiosa delle architetture di tutti i popoli della terra, e l’aperse colla facciata d’un piccolo monumento del Secolo XVI, dove il mattone e la pietra, ammirabilmente uniti, danno l’uno all’altro lustro e splendore. in questa costruzione sono stati impiegati più di 120 mila mattoni d’una piccolissima forma e le fasce che formano si alternano colle pietre bianche scolpite, offrendoci un aspetto veramente gradevole. E una vera casa: la casa di uno di quei ricchi ed eruditi borghesi d’Olanda che vivevano due o tre secoli fa, i quali amavano la simmetria, l’ordine, la squisita pulitezza soprattutto nelle abitazioni. Ha il tetto acuminato, nascosto in parte dal corpo mediano dell’edificio che va decorato di statue e di ornati. Presso alla casa sorge una torricella graziosa, dal cui culmine si spicca l’asta, sulla quale s’arrampica il leone, stemma del paese. E lo stemma si scorge pure sulla parte più elevata della facciata, al disopra del motto: Ne Jupiter omnibus placet.

Ho definito quasi incolpevole la magra figura perché il motto senza quidem lo esibisce, come si legge, un manufatto del XVI secolo, a dimostrazione che Erasmo veniva già allora citato piuttosto disinvoltamente. Chi, poi, ha in antipatia gli Olandesì dirà che gli organizzatori avrebbero fatto meglio a scegliere e ad esporre un altro manufatto …

Anche le opera a stampa non scherzarono di lì a poco: Georg Engelhard von Loeneiss, Aulico-politica, darin gehandelt wird 1, Remlingen,, 1622, p. 101:

Georg Engelhard von Loeneiss (1552-1622) fu uno scrittore ed editore tedesco (l’immagine che segue è un’incisione custodita nella Biblioteca Universitaria di Heidelberg).

Le sue pubblicazioni si distinguono per la ricchezza delle incisioni, ma la sua opera più famosa  Bericht vom Bergwerk (Rapporto dalla miniera) del 1617 appare come un clamoroso plagio (un copia-incolla ante litteram da Lazzaro Ercker e da Giorgio Agricola), pur avendo ricoperto l’incarico di amministratore della miniera e della ferriera di Oberharzer. Con queste credenziali è tutt’altro che inverosimile (anche per un tedesco, ma come lui …) che abbia citato Erasmo a memoria mangiandosi il QUIDEM. Succede, purtroppo, che l’autorevolezza reale o presunta, quando non viene sottoposta a controllo, propizia il perpetuarsi dell’errore, come mostrano i dettagli tratti da pubblicazioni successive e di altri autori.

Jacob Dentzler, Clavis linguae Latinae, König, Basilea, 1709, p. 957:

 

Friedrich Wilhelm Breuninger, Johann Christian Neu , Fons Danubii, A spese degli autori, Tübingen, 1719, p. 2:

 

Joachim Ernst von Beust, Consiliarius in compendio, Mevio, Jahr, 1743, p. 196:

Georg Engelhard von Loeneiss, Hof-Staats und Regier-Kunst, s. n., Francoforte sul Meno, 1679:

La citazione risulta, invece, correttamente incisa in questo bicchiere della prima metà del XVIII secolo come motto (ingrandito nel dettaglio) della famiglia Van Hogendorp, il cui blasone è rappresentato nella parte superiore.

 

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1 Aiutandomi con Google Maps credevo di aver individuato come numero civico il 45 e tale data avevo riportato nel testo. Successivamente, grazie al commento di Andrea Cagnazzo, il 41 ha preso il posto del 45 e, ispirato dal commento di Francesco D’Agostino, ho aggiunto in testa una foto d’insieme. Infine, non mi sono lasciato sfuggire l’occasione di aggiungere altri documenti emersi nelle ultime ore.

2 Alla lettera: Migliaia di proverbi. Già nel 1500 Jean Philippe a Parigi aveva pubblicato di Erasmo una silloge di proverbi latini col titolo di Adagiorum collectanea (Raccolta di proverbi) ma nell’opera del 1508 risultano inserite parecchie citazioni greche, con la sua traduzione in latino, fra cui quella che qui ci interessa.

3 Non attestato in latino, è creazione erasmiana, trascrizione del greco μωρία (leggi morìa).

4 A tal proposito JUPITER (variante del più ricorrente jUPPITER) da un lato obbedisce a questa esigenza di gestione dello spazio e dall’altro a quella di mantenersi fedele al modello erasmiano.

Quando i concorsi di poesia erano una cosa seria e non un affare

di Armando Polito

 

Non bastavano i maghi e gli indovini ad approfittare della credulità popolare ed ecco farsi avanti persuasori più sofisticati a sfruttare il narcisismo di persone che, consapevoli di non potersi collocare nella categoria dei santi e dei navigatori, presumono di essere poeti. In fondo cosa costa mettersi in gioco quando la posta potrebbe essere la celebrità e il costo corrisponde solo alla cifra, non certo astronomica, richiesta per partecipare? E cosa costa comporre una commissione di sedicenti esperti che, bene che vada, sono autori di una sola pubblicazione per la quale si sono dissanguati e che nessuno ha letto e mai leggerà? Ecco, così, da qualche decennio a questa parte imperversare concorsi letterari in un paese in cui gran parte della popolazione non sa esprimersi correttamente e non capisce neppure il significato letterale di ciò che legge, ammesso che sia in grado di compiere correttamente pure tale operazione. Per me è un’attività ai limiti del lecito, come tutte quelle (alle quali non sono estranee banche, compagnie telefoniche, etc. etc.) che giocano sui grandi numeri. Nella fattispecie supponendo, al ribasso, una quota minima di partecipazione pari a 20 euro e 200 partecipanti, s’incassano già 4000 euro, più che sufficienti a coprire tutte le spese di organizzazione. Con la cultura autentica non si mangerà, ma con quella fasulla si sbafa …

Non vorrei apparire come un laudator temporis acti, un nostalgico (aggettivo pericoloso …, comunque da me distante anni luce) del tempo che fu, ma come non trarre le dovute  conclusioni dal documento presentato nell’immagine di testa e tratto da Rassegna pugliese di Scienze, Lettere ed Arti,  Anno XXX, novembre-dicembre 1913, vol. XXVIII, nn. 11-12, p. 479?

Il lettore che voglia approfondire troverà al link https://books.google.it/books?id=B08osAbEIb4C&pg=PA479&dq=non+credo+che+alcuno+dei+componimenti&hl=it&sa=X&ved=2ahUKEwi-5-79mNHqAhWR16YKHb3lAncQ6AEwAHoECAQQAg#v=onepage&q=non%20credo%20che%20alcuno%20dei%20componimenti&f=false i dettagli del concorso, compresi tutti i 21 titoli delle poesie partecipanti, con motivazione per due di esse dell’esclusione e per le rimanenti del giudizio, che nei casi migliori è sempre parzialmente negativo. Ne ricordo di seguito il nome degli estensori, tutti personaggi di spicco, come, fra l’altro, dimostrano le loro pubblicazioni: Pasquale De Lorentiis1, appassionato paleontologo, nonché padre di Decio, fondatore nel 1960 del Museo Paleontologico di Maglie; Arturo Tafuri2, Giuseppe Macario3, Umberto Bozzini4,  Nicola Serena Di Lapigio5.

Il loro giudizi negativi sono confermati da quello conclusivo e decisivo  del presidente della commissione esaminatrice, Armando Perotti6, personalità di certo non da meno delle altre appena nominate, la cui fama dovrebbe andare ben al di là di ciò che possono evocare toponimi come Punta Perotti a Bari con il suo ecomostro rimasto in vita per troppo tempo o, in questo caso senza superfetazioni mostruose, Piazza Perotti a Castro.

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1 Commemorazione dei caduti supersanesi nella guerra d’Italia del 1915-1918, Diena, Matino, 1920

Discorso funebre per armando Perotti, in Per Armando Perotti: onoranze rese in Castro il 7 settembre 1924, Raeli, Tricase, 1924

Grotta Romanelli: stazione paleolitica in Terra d’Otranto, Tipografia La modernissima, Lecce, 1933 

2

Parva favilla, La tipografia cooperativa, Lecce, 1899

Sebetia Venus: poema lirico, Treves, Milano, 1900

Poema della folla: lirica nova, Nerbini, Firenze, 1904

Luci ed ombre : poesie, Giannotta, Catania, 1911

Ortiche: 1908-1914,  Editoriale italiana contemporanea, Arezzo, 1928

Stelle cadenti: nuove liriche, Contemporanea, Arezzo, 1930

Ave, Salento,  Quaderni di poesia di Emo Cavalleri, Milano- Como, 1932

l pellegrinaggio di un’anima: poema eroico, Cavalieri, Como, 1935

Odi bizantine : Napoli 1888-1893, Tipografia Sorace e Siracusa, Catania, 1937

Scrasce e paparine te la serra, Editrice salentina, 1968

3

L’amante: romanzo, Pierro e Veraldi, Napoli, 1902

Al lavoro: ode, Pierro e Veraldi, Napoli, 1902

Per la guarigione della mia bambina: ode, Stabilimento tipografico vesuviano, Napoli, 1902

Ode al suicida,  Società editrice Meridionale, Napoli, 1904

L’offerta: versi, Società Editrice Meridionale, Napoli, 1905

4

Fedra: tragedia in quattro atti, Mancino, Lucera, 1910

Manfredi: poema drammatico in un prologo e tre episodi, Mancino, Lucera, 1911

ll cuore di Rosaura: capriccio comico in 3 atti in versi, Lapi, Città di Castello, 1914

Ritmo antico, Cappetta, Lucera, 1922

5

Piccole anime e piccole cose: novelle, Cogliati, Milano, 1909

Le isole Tremiti, Frattarolo, Lucera, 1915

Panorami garganici, s.n., s.l., 1933

Vecchi motivi: racconti, Il solco, Città di Castello, 1933

6

Sul Trasimeno: 15 sonetti, Vecchi, Trani, 1887

Il libro dei canti, Vecchi, Trani, 1890

Castro: terze rime, Tipografia Alighieri, 1904

Giorgio Antonio Paladini : uomo d’arme nel secolo XVII, Stabilimento  tipografico  Giurdignano, Lecce, 1905

Ricerche etimologiche sui nomi diversi in Terra d’Otranto, Stabilimento  tipografico  Giurdignano, Lecce, 1905 (Estratto dalla Rivista Storica Salentina, n. 9 e 10).

Tricase : note e documenti, Stabilimento  tipografico  Giurdignano, Lecce, 1906

Bari ignota : curiosità e documenti di storia locale, Vecchi, Trani, 1907

Da Le Nereidi : nuovi canti del mare (estratto dalla Rassegna Pugliese, v. 23, 1907, n. 5-8).

Bari ignota: curiosità e documenti di storia locale, Vecchi e C., tRANI, 1908

Bari 1813-1913, Laterza, Bari, 1913

Onoranze al barone di Castiglione d. Filippo Bacile in Spongano il 14 settembre 1913: discorso commemorativo, Lecce, Martello, 1913

Il coro della Cattedrale di Bisceglie, in Napoli nobilissima, v. I (1920), pp. 97-100

Bibliografia storica della Terra di Bari per gli anni dal 1915 al 1920, Società tipografica editrice barese, 1921

Storie e storielle di Puglia, Laterza, Bari, 1923

 

Salentini o Sallentini?

di ArmandoPolito

Credo che, se questa domanda fosse posta a chi è mio conterraneo o a chi non lo è, quasi tutti risponderebbero: – Salentini, no? -.  E io ribatterei: – Perché?-. La risposta, questa volta, sarebbe forse più scontata della prima: – Perché è da Salento e non da Sallento -.

Eppure, se cercate nell’Enciclopedia Treccani on line (http://www.treccani.it/enciclopedia/sallentini/) non troverete la voce Salentini, ma digitando Sallentini apparirà la schermata che riproduco.

Perché questa secondarietà di Salentini rispetto a Sallentini, tanto da renderne impossibile il reperimento diretto? E perché, se anziché nell’enciclopedia cerco nel vocabolario, sempre on line (http://www.treccani.it/vocabolario/salentino/) non trovo nulla per sallentino e invece compare quanto segue per salentino?

La spiegazione dell’apparente contraddizione sta anzitutto nella natura prevalentemente scientifica di un’enciclopedia rispetto ad un comune vocabolario e nello specifico tutto è dichiarato nell’antica che accompagna la definizione di Sallentini.

La sfortuna sembra accanirsi contro di noi perché, contrariamente al solito (potete provare con altri nomi propri), l’enciclopedia non mi propone alcun etimo, mentre il vocabolario mi dà il Salentinus, anche, se più correttamente, sarebbe dovuto essere Salentinu(m), che essendo un etnico, cioè un nome di popolo (comunque un aggettivo derivante da un nome proprio), suppone la derivazione da un toponimo, nel nostro caso Salentum.

Trasferendo il processo alla voce dell’enciclopedia, ci saremmo aspettato di leggere: da Sallentum o Salentum. Dico subito che né SallentumSalentum è attestato da qualche fonte1, mentre l’etnico Sallentini o Salentini lo è ampiamente, ma nel modo che segue (riporto gli autori in ordine cronologico e nella tradizione manoscritta più accreditata):

SALLENTINI 

Polibio (II a. C.), Storie (in greco), frammento citato da Plinio (vedi più avanti) in Naturalis Historia, III, 5, 75.

Il Sallentinos che vi compare, però, non è detto che corrisponda ad un originale greco Σαλλεντίνους (leggi Sallentìnus) e non Σαλεντίνους (leggi Salentìnus), tanto più che nella Naturalis Historia Plinio usa costantemente la forma con doppia l.

Varrone (I a. C.), De re rustica, I, 24, 1 e II, 3, 10

Virgilio (I a. C.), Eneide, III, 400

Sallustio (I a. C.), Storie (per tradizione indiretta: citato da Servio (IV-V d. C.)nel suo commento al passo dell’Eneide di Virgilio prima citato)

Ovidio (I a. C.-I d. C.), Metamorfosi, XV, 51

Livio (I a. C.-I d. C.), Ab urbe condita, IX, 42, 4; X, 2, 1; XXIII, 48, 3; XXIV, 20, 16; XXV, 1, 1; XXVII, 15,4; XXVII, 22, 2; XXVII, 36, 13; XXVII, 40, 10

Mela (I), Chorographia, II, 59; II, 68

Plinio (I), Naturalis historia,  II, 107, 240; III, 5, 38; III, 11, 9; III, 11, 104; III, 11, 105; III, 23, 145; XV, 4, 20

Silio Italico (I), Punica, VIII, 573

Frontino (I-II), Stratagemata, II, 3, 21

Floro (II), Epitome delle Storie di Tito Livio, I, 15

Festo (II), De verborum significatu, frammenti  alle  pp. 196 e 441 dell’edizione Lindsay

Solino (III), Memorabilia, 2, 10

Eutropio (IV), Breviarium ab Urbe condita, II, 17

Macrobio (IV-V ), Saturnalia, III, 20, 6

Servio ((IV-V ), Commento all’Eneide di Virgilio, III, 121); Commento alle Georgiche di Virgilio, IV, 119

Marziano Capella, De nuptiis Philologiae et Mercurii, VI, 639

Giulio Capitolino (V?), Vita di Marco Aurelio Antonino il Filosofo (in Historia Augusta, 1, 8)

Scholia Bernensia in Vergilii Georgica  (VII-IX), III, 1

Stefano Bizantino (V-VI), Ethnica (in greco), alla voce Σαλλεντία (leggi Sallentìa)

 

SALENTINI

Varrone (I a. C.), frammento delle Antiquitates rerum humanarum citato dallo Pseudo Probo (probabilmente V d. c.), nel suo commento alle Bucoliche (VI, 31) di Virgilio, ma il Salentini che vi compare contrasta con il Sallentini usato, come abbiamo visto, da Catone nel De re rustica e non appare, dunque, come voce originale attendibile.

Dionigi di Alicarnasso,  ( I a. C.), Antichità romane (in greco), I, 51, 3

Verrio Flacco (I a. C.-I d. C.), citato da Festo (II) nel De verborum significatu

Strabone (I a. C.-I d. C.), Geographica (in greco), VI, 3, 1; VI, 3, 5

Tolomeo (II), Geografia (in greco), III, 11 ; III, 67

Tabula Peutingeriana (la redazione originale risale al IV secolo), VI 5- VII 2)

Jordanes (VI), De summa temporum vel origine actibusque gentis Romanorum,  161

Guidone (XII), Geographica , 28 (citando Virgilio, Eneide, III, 400) e 67

 

Quanto finora riportato mostra la prevalenza della forma con una sola l negli autori greci, di quella con due nei latini e nella statistica globale. Per quanto riguarda la cronologia il primato spetta ai greci con Polibio, pur con tutti i limiti della tradizione indiretta di cui s’è detto. Se escludiamo Polibio, il conto, dal punto di vista cronologico, è pari, essendo dello stesso periodo Dionigi di Alicarnasso da una parte e Varrone, Virgilio e Sallustio dall’altra.

Conclusioni: Salentini e Sallentini appaiono entrambe forme corrette e in ambito scientifico l’uso dell’una o dell’altra potrebbe essere ispirato, più che dalla maggiore simpatia riservata alla cultura greca o a quella latina, dalle risultanze statistiche che fanno prevalere Sallentini su Salentini. Per questo motivo, se la voce dev’essere scomodata, mettiamo, per dare un nome latino ad una collana di pubblicazioni, potrebbe porsi, per esempio, il dilemma: la chiamiamo Sallentina fragmenta o Salentina fragmenta? Non sarei intellettualmente onesto se continuassi a spacciare tale dilemma  come esempio e non come esperienza vissuta, nel senso che avevo optato per la seconda soluzione, quando non un illustre sconosciuto, ma Marcello Gaballo mi ha orientato verso la prima, obbligandomi, senza volerlo, a scrivere questo post (se nel leggerlo la noia è progressivamente montata, sapete con chi dovete prendervela …).

Tutt’altra piega ha preso, com’è noto, la voce nell’uso comune, in cui domina incontrastato Salentini, non certo, credo, per suggestione della forma greca ma per scempiamento di –ll– interpretato, forse, come una volgare geminazione, fenomeno che contraddistingue molti dialetti meridionali, in primis il salentino; e non mi riferisco solo al raddoppiamento della consonante iniziale: bbinìre (venire), bbitìre (vedere), etc. etc.

Così  Sallentini, la forma filologicamente e storicamente (se riferita al mondo romano) più corretta, divenne un ricordo sempre più sbiadito, essa che aveva avuto un uso costante nelle pubblicazioni a stampa dalla sua invenzione fino al secolo XIX; di seguito due esempi: il frontespizio del manoscritto autografo dell’Atlante Sallentino di Giuseppe Pacelli (1803) custodito nella Biblioteca Marco Gatti di Manduria (MS. Rr/5) e quello di una pubblicazione del 1833.

 

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1 È creazione del tutto moderna, anzi contemporanea, il Sallentum nel quale ci si può imbattere: dal titolo di un libro o di una rivista,

alla proposta di uno stemma territoriale o a quello di un club,

e, per citare prodotti più volatili,  il Salentum di una serie di deodoranti per l’ambiente e di un profumo per l’uomo dinamico e carismatico,

nonché, e poteva mancare?, il Salenzio di cui ho avuto già occasione di occuparmi in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/16/tuttal-piu-me-lo-bevo-ma-non-me-la-bevo/.

La Xylella e il passato che non ritorna

di Armando Polito

L’immagine è un’incisione di Philippe Galle su disegno di Jan Van Der Straet e fa parte di una serie di venti tavole a corredo di Nova reperta (Nuove scoperte), opera uscita ad Anversa nel 1589. Dal titolo OLEUM OLIVARUM (L’olio delle olive) raffigura tutte le fasi della produzione dell’olio cronologicamente ordinate dallo sfondo (raccolta delle olive) fino al primo piano (trasporto del prodotto finito). La didascalia recita: Decussae olivae adhuc acerbae, ex arbore, pressaeque, pinguis dant olivi copiam (Le olive scosse dall’albero ancora acerbe e pressate danno abbondanza di pingue olio).

Chi nel XVI secolo, celebrando quell’impianto allora avveniristico, avrebbe immaginato che nel XXI proprio nel Salento nello stesso tipo di impianto, anch’esso al passo con i tempi, sarebbe giunto il tempo della desolazione e dell’abbandono?

 

Diego Ferdinando di Mesagne (1611-1662), ovvero raramente il figlio d’arte supera il padre, per lo più nemmeno lo eguaglia (1/2).

di Marcello Gaballo e Armando Polito

La vita dei cosiddetti “figli d’arte” ha probabilmente aspetti più negativi che positivi e il fenomeno che possiamo chiamare “professione ereditaria”, non è certo recente.

I personaggi di oggi costituiscono una coppia, una delle tante, del passato i cui componenti, padre e figlio, sono caratterizzati dall’aver esercitato la stessa professione: quella di medico. Nel nostro caso il figlio è Diego, il padre Epifanio (1569-1638).

Cominciamo, per motivi, come si conviene, anzitutto cronologici da Epifanio. E lo facciam nel modo più immediato, oggi alla moda, cioè con il suo ritratto, riservandoci dopo un approfondimento meno frivolo di quanto, in generale, lo sia la sola immagine.

La tavola è a corredo della biografia di Epifanio Ferdinando in Domenico De Angelis, Le vite de’ letterati salentini, Raillard, Napoli, t. II, 1713.

Ingrandiamo due dettagli:

Nel primo: Epiphanio Ferdinando Messapien(si) Medico et Philosopho/Dominicus De Angelis Lycien(sis) D(onum) D(edit) D(edicavit)

A Epifanio Ferdinando di Mesagne1 medico e filosofo/Domenico De Angelis di Lecce come dono diede dedicò.

Nel secondo: F. De Grado sculp(sit).

Francesco De Grado incise.

Il De Grado fu un apprezzatissimo incisore (sculpsit=incise) attivo a Napoli tra il 1694 ed il 1730.

Questa seconda  tavola è a corredo della biografia di Epifanio Ferdinando a firma di Pasquale Panvini in Biografie degli uomini illustri del Regno di Napoli, a cura di Domenico Martuscelli, tomo VI, Gervasi, Napoli, 1819. Da notare che la data di morte (1635) che non coincide con quella (1638) registrata nella biografia scritta dal De Angelis. Nel dettaglio ingrandito: 

 

C(arolus) Biondi inc(idit)=Carlo Biondi incise

Anche Carlo Biondi fu un incisore abbastanza famoso, attivo a Napoli nel XIX secolo. La derivazione del suo ritratto da quello del De Grado è troppo evidente  per parlarne. Non possiamo, però, non fare osservare che, se per i tratti somatici il Biondi era giocoforza costretto a seguire il De Grado, sul piano dell’originalità avrebbe potuto farsi sentire meglio, magari giocando sui dettagli. Lo ha fatto sì, ma rendendo uniforme lo sfondo con l’eliminazione del tendaggio che nel primo ritratto conferiva profondità e per il resto conservando l’ovale ma riducendolo col taglio (di mano e libretto) all’altezza della penultima coppia di bottoni. Come vedremo alla fine con Ferdinando e Diego, anche qui l’ultimo arrivato non rimedia una bella figura.

Per chi ha interesse a conoscere tutti i dettagli registrati della vita di Epifanio rinviamo alle due opere appena citate, il che consentirà di cogliere la grande differenza di spessore professionale tra padre e figlio.

Siamo un popolo che scrive tanto, senza saperlo fare e legge poco o nulla, non sapendo fare, nemmeno quello, complice il degrado sempre più spinto della scuola.

Fino a qualche decennio fa non era così e non lo era ancor più qualche secolo fa, sicché nel passare al vaglio quegli autori si può assumere come parametro di giudizio il numero delle loro pubblicazioni, prima ancora della qualità.

Nel nostro caso, poi, giudicare in base a questi parametri è ancora più semplice, dal momento che Diego, come brutalmente anticipiamo, non pubblicò nulla, per Epifanio, invece, lascimo parlare i titoli (con i relativi frontespizi quando reperiti in rete).

Theoremata medica et philosophica, Tommaso Baglioni, Venezia, 1611

+

Ci piace segnalare che dei quattro componimenti encomiastici in latino che precedono il testo vero e proprio uno è del nostro concittadino Scipione Puzzovivo. Il lettore non neritino ci perdonerà se lo riportiamo e lo traduciamo:

(Esastico di Scipione Puzzovivo, dottore di entrambi i diritti, all’autore

Nessuno meglio di te, Ferdinando, cura coloro che agita la maligna violenza della spada o una febbre maligna e non si potrebbe trovare facilmente chi insegni più correttamente queste arti, delle quali questo libro spiega mille punti. Da te dunque venga chiunque voglia o essere considerato dotto o diventare sano con serietà scientifica)

De vita proroganda, seu iuventute conservanda et senectute retardanda, Gargano e Nuccio, Napoli, 1612.

Purtroppo in rete non è reperibile alcun esemplare di questa edizione. Dato il tema trattato, il libro dovette andare a ruba, ma è strano che non abbia avuto subito una o più ristampa. La ristampa anastatica con traduzioni  a cura di Maria Luisa Portulano-Scoditti e Amedeo Elio Distante è uscita nel 2004 per i tipi di Sulla rotta del sole,  Mesagne. Gli stessi autori hanno il merito, con questa ed altre pubblicazioni che volta per volta verranno segnalate,  di aver riportato alla ribalta la figura del mesagnese, a parte la citazione fatta da Ernesto De Martino in La terra del rimorso (1961) di alcune testimonianze sul tarantismo presenti nell’opera del mesagnese che subito dopo nominerem.

Centum historiae, seu observationes, et casus medici, omnes fere medicinae partes …, Tommaso Baglioni,  Venezia, 1621

Segnaliamo: Amedeo Elio Distante, Maria Luisa Portulano-Scoditti Epifanio Ferdinando: le “Centum Historiae” e la medicina del suo tempo, s. n., Mesagne, 2000.

Aureus de peste libellus, varia, curiosa, et utili doctrina refertus, atque in hoc tempore unicuique apprime necessarius, Domenico Maccarano, Napoli, 1626.

Segnaliamo l’edizione a cura degli stessi autori menzionati per Centum historiae: La peste. Epifanio Ferdinando,  s. n., s. l., 2001.

Oltre alle quattro opere a stampa ricordate, il De Angelis nella sua opera citata all’inizio ci ha lasciato un lungo elenco di titoli di Epifanio rimasti manoscritti. Lo riproduciamo da p. 229 in modo che il lettore abbia contezza della molteplicità di interessi nutriti dal mesagnese (dalle voglie delle donne in gravidanza al vulcanismo, dal tarantismo alle api, dai gechi all’obesità, dalle comete al modo per generare figli maschi, etc. etc.

Purtroppo, a quanto ne sappiamo, di tanta produzione solo della Messapographia, seu Historia Messapiae è custodita nella Biblioteca Arcivescovile Annibale De Leo a Brindisi una copia (ms. D/13), dal titolo Antiqua Messapographia,  eseguita da Ortensio De Leo nel 1752 (come recita una nota a c. 2r). Di seguito il frontespizio.

A proposito di quest’opera ricordiamo che la stessa biblioteca custodisce un manoscritto (ms. M/4) del XIX secolo che ne contiene in due libri la traduzione fatta dal latino all’italiano da Antonio Mavaro, giurista mesagnese vissuto tra il XVIII e il XIX sec. (di seguito il frontespizio.

Nella carta 1r che più avanti riprodurremo il Mavaro ha avuto la felice idea di riportare due composizioni scritte, una in latino l’altra in italiano, in lode di Epifanio e della sua Messapographia dal canonico Francesco Roma, all’epoca vicario foraneo. In calce le trascriveremo, tradurremo la prima e commenteremo entrambe, non senza aver prima  sottolineato che questo tipo di omaggio è frequente nelle opere a stampa di quei tempi (vedi l’esastico di Scipione Puzzovivo prima riportato) e che la loro presenza, di cui nessuno avrebbe sospettato l’ esistenza senza la pubblicazione  pur manoscritta del Mavaro, alimenta l’ipotesi che tutto fosse pronto o quasi  per consegnare il libro alla stampa ma qualcosa lo impedì. Forse le pessime condizioni di salute nell’ultimo decennio di vita e la volontà venuta meno a causa della malattia di fare l’ultima revisione. Scrive il De Angelis a p. 227 della sua opera:

carta 1r

Ad Epiphanium Ferdinandum Medicum praestantissimum in Librum de antiqua Messapographia D. Franciscus Roma Canonicus Messapiensis. Epigramma.

Messapi! Regale decus ne longa vestustas/obrueret tenebris, dirueretque solo/Ferdinandus, adest, fama clarissimus atque/Euboica fulcit moenia ducta manu./Et solide munit sic cuncta, ut temporis ictus/non timeant imbrem, praecipitemque Notum./Perpetuo stabunt cunctis miranda per Orbem,/sed magis a casu, qui eripuit Patriam./Qui inde fugat morbos. Qui Cives eripit Orco,/et famae tradit nomina cuncta virum.   

Traduzione: Ad Epifanio Ferdinando medico validissimo per il libro sull’antica Messapografia Don Francesco Roma canonico mesagnese. Epigramma.

Messapi! Perché il lungo trascorre del tempo non avvolgesse nelle tenebre una nobiltà regale e non l’abbattesse al suolo è venuto Ferdinando chiarissimo per fama e sorregge con la mano tesa le mura euboiche2. E fortifica tutte le cose  così saldamente che esse non temono le offese del tempo, non la pioggia e l’impetuoso Noto3. Tutte resteranno per sempre degne di ammirazione per tutti sulla Terra, ma più (lontano) dalla sventura che ci ha rapito la Patria. (Ferdinando) che mette in fuga da qui le malattie. (Ferdinando) che sottrae i cittadini alla morte e consegna alla fama tutti i nomi degli uomini.

L’epigramma è costituito da cinque distici elegiaci di buona fattura. Da notare i congiuntivi imperfetti obrueret e dirueret in dipendenza dal presente abest. Secondo la consecutio temporum classica ci saremmo aspettato obruat e diruat. Tuttavia c’è da ipotizzare che quel presente sia stato usato, non sappiamo quanto consapevolmente, quasi a mo’ del perfetto greco, per cui, per esempio un οἶδα  alla lettera significherebbe vidi ma si traduce con so. Qui il processo, però, è inverso, cioè adest alla lettera significherebbe è presente ma è come se derivasse da un è arrivato. Questo valore logico di perfetto attribuito a ciò che grammaticalmente è presente giustifica gli imperfetti congiuntivi, non solo, ma dà quasi l’idea che Epifanio sia in grado non solo di frenare gli effetti nefasti del tempo ma, addirittura, di sanare in qualche modo quelli già atto.

                                                           Sonetto dello stesso Autore

Visse Messapia già da mano altera/eretta e cinta da superbe mura:/ma qual cosa mortal che poco dura/sull’alba del natal vidde4 la sera./Cadde, ma ne’ tuoi scritti oggi qual’era5/anzi più bella assai si raffigura;/cadde ma la tua penna oggi la fura6/a morte, e la richiama a vita vera./Tanto può dotta penna. In marmi egreggi7/tuo nome inciso il Mondo già ne attende./Già ti cede Messapo i suoi gran preggi8./Eresse egli Città che alle vicende/del tempo cader vide i propri freggi9/ma eterna il tuo saper oggi la rende.

Che rabbia fa leggere nell’elenco dei titoli dei manoscritti lasciatoci dal De Angelis quel Dilucida, et compendiosa tractatio de Terraemotu, et incendio Montis Vesuvii, et de remediis  ad futuros Terraemotus pensando che sicuramente l’eruzione del Vesuvio è quella disastrosa del 1631 e che il nostro sarebbe stato una fonte salentina  certamente attendibile da aggiungere altre salentine in passato oggetto di studio.

Per oggi basta con Epifanio. Alla prossima, con Diego.

(CONTINUA)

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1 Alla lettera Messapiensis significa messapo, della Messapia, ma in dediche ed iscrizioni assume il significato ristretto di mesagnese. Sui problemi etimologici posti da Mesagne vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/05/16/la-menza-e-giove-menzana-altre-perle-dalla-rete/.

http://www.vesuvioweb.com/it/wp-content/uploads/Aniello-Langella-e-Armando-Polito-Leruzione-del-Vesuvio-del-1631-letta-attraverso-le-epigrafi-di-Torre-del-Greco-e-di-Portici-vesuvioweb-2011.pdf.

2 Strabone (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Geographia, IX, 2, 13: Ἐν δὲ τῇ Ἀνθηδονίᾳ Μεσσάπιον ὄρος ἐστὶν ἀπὸ Μεσσάπου, ὃς εἰς τὴν Ἰαπυγίαν ἐλθὼν Μεσσαπίαν τὴν χώραν ἐκάλεσεν (Nel territorio di Antedonia [regione della Beozia] c’è il monte Messapio [così chiamato] da Messapo, colui che dopo essere andato in Iapigia chiamò la regione Messapia).

3 Vento del sud.

4 Forma normalmente in uso nel XVII secolo.

5 Su questa grafia errata che si trascina e prolifera fino ai nostri giorni vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/07/05/quale-il-problema-e-che-sei-una-capra-direbbe-vittorio-sgarbi/. Non ho mai incontrato qual’era per qual era nella letteratura del XVII secolo, ragione per la quale penso che molto probabilmente l’errore di scrittura qui è da imputare più al Mavaro che al nostro Epifanio.

6 ruba, sottrae.

7 Forma normalmente in uso nel XVII secolo, giustificata dal fatto che egregio deriva dal latino egrègiu(m), composto da e-=fuori+grex/gregis=gregge. La geminazione della g in egreggio è dovuta proprio al gregge e non grege italiano.

8 Forma normalmente in uso nel XVII secolo.

9 Forma normalmente in uso nel XVII secolo.

10 https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/01/12/leruzione-del-vesuvio-del-1631-nella-poesia-di-un-salentino-e-di-un-napoletano-con-una-sorpresa-finale/

 

Francesco Porrata Spinola di Galatone e l’eruzione del Vesuvio del 1631

Quando l’Amazzonia era vicina a noi, ma c’è speranza …

di Armando Polito

Vicina a noi Salentini, intendo dire, e andrò a dimostrarlo. Prima, però, vale riassumere ciò che di essa a tutti, o quasi, è noto. Che sia il polmone della terra attaccato da quel virus nefasto che è per il pianeta l’uomo  è un concetto da tutti accettato finché non si decide seriamente di porvi rimedio …, che il toponimo trae origine dall’idronimo Rio de Amaxones, nome dato al fiume dall’esploratore spagnolo Francisco de Orellana quando lo scoprì nel 1540, è nozione da tempo consegnata alla storia. Lo spagnolo non doveva essere digiuno di mitologia, altrimenti non avrebbe messo in campo le Amazzoni (in greco Ἀμαζόνες (leggi Amazònes1) a lui evocate  dagli scontri avuti, secondo quanto riferì al ritorno in patria, con tribù locali di donne guerriere. Altrettanto noto è che l’etimo più ricorrente per  Ἀμαζόνες è da α- con valore privativo e μαζός (leggi mazòs), che significa mammella, in linea con le antiche testimonianze letterariesecondo le quali donne della zona del Mar Nero si mutilavano della mammella destra per tendere meglio l’arco,  ma in contraddizione costante con tutte le rappresentazioni artistiche dove il seno (e in particolare il destro) appare ben integro e fiorente.

Dettaglio di un rilievo con scena di combattimento tra un greco ed un’amazzone su un sarcofago da Tessalonica risalente circa al 180 d. C.

Per questo quell’α- secondo altri non avrebbe un valore privativo ma esattamente opposto, cioè intensivo, per cui  Ἀμαζόνες significherebbe donne dal seno fiorente.

Lo spagnolo aveva fatto corrispondere al salto all’indietro nel tempo un salto in avanti nello spazio, nel senso che, partendo da un etnico che aveva avuto il suo habitat originario nella regione del fiume Termodonte sulla costa meridionale del Mar Nero era andato a finire nell’America del sud con un idronimo che alla fine avrebbe dato al toponimo che designa il vastissimo territorio circostante, l’Amazzonia appunto.

Io col toponimo mi accingo a fare esattamente l’opposto. Ἀμαζονία (leggi Amazonìa) è il titolo di una delle opere attribuite ad Omero dalla Suda o Suida, una sorta di enciclopedia in greco del X secolo. Alla voce Ὅμηρος (leggi Òmeros) si legge: … Ἀναφέρεται δὲ εἰς αὐτὸν καὶ ἄλλα τινὰ ποιήματα· Ἀμαζονία, Ἰλιὰς μικρὰ … (Gli sono attribuiti anche alcuni altri poemi: Amazzonia, Piccola Iliade …).

Come nome di donna compare in un epicedio (epigramma funerario) di anonimo dell’Antologia Palatina (raccolta di epigrammi risalente al X secolo). È il n. 667 del libro VII: Τίπτε μάτην γοόωντες ἐμῷ παραμίμνετε τύμβῳ;/Οὐδὲν ἔχω θρήνων ἄξιον ἐν φθιμένοις./Λῆγε γόων καὶ παῦε, πόσις, καὶ παῖδες ἐμεῖο/χαίρετε, καὶ μνήμην σώζετ᾿ Ἀμαζονίης. (Perché gemendo invano state davanti alla mia tomba? Tra i morti non ho nulla degno di gemiti. Cessa e cessa di gemere, o marito, e state bene, figli miei,  e conservate il ricordo di Amazzonia)

Diodoro Siculo (I secolo a. C.), Bibliotheca Historica

II, 3 Τοῖς δ’ ἀνδράσι προσνεῖμαι τὰς ταλασιουργίας καὶ τὰς τῶν γυναικῶν κατ’οἴκους ἐργασίας. Νόμους τε καταδεῖξαι, δι’ὧν τὰς μὲν γυναῖκας ἐπὶ τοὺς πολεμικοὺς ἀγῶνας προάγειν, τοῖς δ’ἀνδράσι ταπείνωσιν καὶ δουλείαν περιάπτειν. Τῶν δὲ γεννωμένων τοὺς μὲν ἄρρενας ἐπήρουν τά τε σκέλη καὶ τοὺς βραχίονας, ἀχρήστους κατασκευάζοντες πρὸς τὰς πολεμικὰς χρείας, τῶν δὲ θηλυτερῶν τὸν δεξιὸν μαστὸν ἐπέκαον, ἵνα μὴ κατὰ τὰς ἀκμὰς τῶν σωμάτων ἐπαιρόμενος ἐνοχλῇ· ἀφ’ ἧς αἰτίας συμβῆναι τὸ ἔθνος τῶν Ἀμαζόνων ταύτης τυχεῖν τῆς προσηγορίας.(Agli uomini [la regina delle Amazzoni] assegnava la filatura della lana e gli altri lavori domestici delle donne. Essa stabiliva leggi in base alle quali guidava le donne alla guerra e destinava gli uomini ad uno stato umile ed alla schiavitù. Dei figli ai maschi mutilavano gambe e braccia rendendoli inadatti alle necessità della guerra, bruciavano la mammella destra delle donne affinché non fosse d’impaccio durante gli sforzi del corpo)

III, 53: Φασὶ γὰρ ὑπάρξαι τῆς Λιβύης ἐν τοῖς πρὸς ἑσπέραν μέρεσιν ἐπὶ τοῖς πέρασι τῆς οἰκουμένης ἔθνος γυναικοκρατούμενον καὶ βίον ἐζηλωκὸς οὐχ ὅμοιον τῷ παρ᾽ἡμῖν. Ταῖς μὲν γὰρ γυναιξὶν ἔθος εἶναι διαπονεῖν τὰ κατὰ πόλεμον, καὶ χρόνους ὡρισμένους ὀφείλειν στρατεύεσθαι, διατηρουμένης τῆς παρθενίας· διελθόντων δὲ τῶν ἐτῶν τῶν τῆς στρατείας προσιέναι μὲν τοῖς ἀνδράσι παιδοποιίας ἕνεκα, τὰς δ᾽ἀρχὰς καὶ τὰ κοινὰ διοικεῖν ταύτας ἅπαντα. Τοὺς δ᾽ἄνδρας ὁμοίως ταῖς παρ᾽ἡμῖν γαμεταῖς τὸν κατοικίδιον ἔχειν βίον, ὑπηρετοῦντας τοῖς ὑπὸ τῶν συνοικουσῶν προσταττομένοις· μὴ μετέχειν δ᾽αὐτοὺς μήτε στρατείας μήτ᾽ ἀρχῆς μήτ᾽ ἄλλης τινὸς ἐν τοῖς κοινοῖς παρρησίας, ἐξ ἧς ἔμελλον φρονηματισθέντες ἐπιθήσεσθαι ταῖς γυναιξί. Κατὰ δὲ τὰς γενέσεις τῶν τέκνων τὰ μὲν βρέφη παραδίδοσθαι τοῖς ἀνδράσι, καὶ τούτους διατρέφειν αὐτὰ γάλακτι καὶ ἄλλοις τισὶν ἑψήμασιν οἰκείως ταῖς τῶν νηπίων ἡλικίαις· εἰ δὲ τύχοι θῆλυ γεννηθέν, ἐπικάεσθαι αὐτοῦ τοὺς μαστούς, ἵνα μὴ μετεωρίζωνται κατὰ τοὺς τῆς ἀκμῆς χρόνους· ἐμπόδιον γὰρ οὐ τὸ τυχὸν εἶναι δοκεῖν πρὸς τὰς στρατείας τοὺς ἐξέχοντας τοῦ σώματος μαστούς· διὸ καὶ τούτων αὐτὰς ἀπεστερημένας ὑπὸ τῶν Ἑλλήνων Ἀμαζόνας προσαγορεύεσθαι. (Dicono che nelle parti occidentali della Libia ai confini della terra comanda un popolo governato da donne e che conduceva una vita diversa dalla nostra. Infatti per le donne era costume occuparsi della guerra e per un tempo stabilito dovevano combattere mantenendo la verginità. Trascorsi gli anni del servizio militare si univano agli uomini per procreare ed esercitavano il potere e tutti gli affari pubblici. Gli uomini trascorrevano la vita in casa, come presso di noi le mogli, obbedendo agli ordini delle consorti. Non partecipavano al servizio militare né al potere né ad alcun’altra facoltà nelle cose pubbliche, da cui prendendo coscienza potessero opporsi alle donne. Alla nascita dei figli affidavano i piccoli agli uomini e questi li nutrivano con il latte e con gli altri alimenti come conveniva all’età dei bambini)

Quinto Curzio Rufo (incerta l’epoca in cui sarebbe vissuto, ma compresa tra il I e il IV secolo d. C.), Historiae Alexandri Magni Macedonis, VI, 5: Erat, ut supra dictum est, Hyrcaniae finitima gens Amazonum, circa Thermodonta amnem Themiscyrae incolentium campos. Reginam habebant Thalestrin, omnibus inter Caucasum montem et Phasin amnem imperitantem. Haec cupidine visendi regis accensa finibus regni sui excessit et, cum haud procul abesset, praemisit indicantes, venisse reginam adeundi eius cognoscendique avidam. Protinus facta potestas est veniendi. Ceteris iussis subsistere, trecentis feminarum comitata processit atque, ut primum rex in conspectu fuit, equo ipsa desiluit duas lanceas dextera praeferens. Vestis non tota Amazonum corpori obducitur: nam laeva pars ad pectus est nuda, cetera deinde velantur. Nec tamen sinus vestis, quem nodo colligunt, infra genua descendit. Altera papilla intacta servatur, qua muliebris sexus liberos alant: aduritur dextera, ut arcus facilius intendant et tela vibrent. (C’era, come sopra s’è detto, il popolo confinante delle Amazzoni che abitavano i campi intorno al fiume Termodonte. Avevano come regina Talestri che dominava su tutte le terre tra il monte Caucaso e il fiume Fasi. Questa, presa dal desiderio di vedere il re, uscì dai confini del suo regno e quando non fu molto distante mandò avanti alcuni ad avvertire che la regina era venuta desiderosa di conoscerlo. Subito le fu concessa la facoltà di venire, Comandato agli altri di star fermi, venne avanti accompagnata da trecento donne e, non appena fu al cospetto del re, saltò giù dal cavallo tendendo con la destra due lance. Non tutta la veste cinge il corpo delle Amazzoni: infatti la parte sinistra è scoperta fino al petto, le restanti parti sono coperte. Tuttavia l’orlo della veste, che stringono con un nodo, non arriva alle ginocchia. Un seno è conservato intatto per allattare i figli di sesso femminile. La destra viene bruciata perché più agevolmente tendano l’arco e scaglino le frecce)

Stefano Bizantino (probabilmente VI secolo d. C.), Ἐθνικά (leggi Ethnicà), alla voce  Ἀμαζόνες (leggi Amazònes): ἔθνος γυναικεῖον πρὸς τῷ Θερμωδόντι, ὠϛ  Ἔφορος, ἅς νῦν Σαυροματίδας καλοῦσι. φασὶ δὲ περὶ αὐτῶν ὅτι τῇ φύσει τῶν ἀνδρῶν διαφέροιεν, αἰτιώμενοι τοῦ τόπου τὴν κρᾶσιν, ὡς γεννᾶν εἰωθότος τὰ θήλεα σώματα ἰσχυρότερα καὶ μείζω τῶν ἀρσενικῶν. Ἐγὼ δὲ φυσικὸν νομίζω τὰ κοινὰ πάντων πάθη, ὥστ’ ἄλογος ἡ αἰτία. Πιθανωτέρα δ’ ἥν φασιν οἱ πλησιόχωροι. Οἱ γὰρ Σαυρομάται ἐξ ἀρχῆς ἐπὶ τὴν Εὐρώπην στρατεύσαντες καὶ πάντες διαφθαρέντες, τὰς γυναῖκας οὔσας μόνας …. καὶ αὐξησάντων τῶν ἀρρένων, στασιάσαι πρὸς τὰς γυναῖκας, ὑπερεχουσῶν δὲ τῶν γυναικῶν καταφυγεῖν τοὺς ἄρρενας εἰς δασύν τινα τόπον καὶ ἀπολέσθαι. Φοβηθεῖσαι δὲ μή πως ἀπὸ τῶν νεωτέρων τιμωρία τις γένηται, δόγμα ἐποίησαν ὥστε τὰ μέλη συντρῖψαι καὶ χωλοὺς πάντας ποιῆσαι. Ἐκαλοῦντο δὲ καὶ Σαυροπατίδες παρὰ τὸ σαύρας πατεῖν καὶ ἐσθίειν, ἢ [Σαυροματίδες] διὰ τὸ ἐν τῇ Σαυροματικῇ Σκυθίᾳ οἰκεῖν. Ἔστι καὶ Ἀμαζονία πόλις Μεσσαπίας. Λέγεται καὶ Ἀμαζών ἀρσενικῶς. Λέγεται καὶ Ἀμαζόνιον τὸ οὐδέτερον διὰ τοῦ ι καὶ Ἀμαζονίδης. (popolo di donne presso il Termodonte, come dice Eforo, che ora chiamano Sarmati. Dicono che per natura differiscono dagli uomini adducendo a causa il clima del posto, come se fosse abituato a generare i corpi femminili  più forti e validi di quelli maschili. Io invece ritengo cosa naturale le caratteristiche comuni di tutti, sicché  la causa addotta è assurda. Ritengo più verosimile quella che adducono i vicini. Infatti dicono che i Sarmati da principio avendo combattuto contro l’Europa ed essendo morti tutti, le donne che erano sole …. ed essendosi gli uomini moltiplicati entrarono in competizione con le donne, poi, però, essendo più numerose le donne, gli uomini fuggirono in un luogo boscoso e morirono. Esse, temendo che ci fosse una qualche vendetta da parte dei più giovani, stabilirono il principio per cui le loro membra dovevano essere compresse e che tutti fossero resi storpi. Erano chiamate anche Sauropatidi per il fatto che mangiavano e si nutrivano di lucertole o [Sauromatidi] per il fatto che abitavano nella Scizia sarmatica. C’è anche Amazzonia città della Messapia. Si dice anche Amazzòne al maschile3 . Si dice anche Amazzonio neutro con (aggiunta di) i e Amazzonide.

Dove fosse con precisione l’Amazzonia messapica o con quale centro antico o attuale possa identificarsi io non lo e non so nemmeno se qualcuno si sia mai posto il problema. L’unica speranza è che qualcosa possa venire dagli organizzatori della prossima Notte della taranta che, apprendo, hanno l’intenzione di portare sul palco gli Indios dell’Amazzonia … (https://www.virgilio.it/italia/lecce/ultima-ora/notte_taranta_2020_con_indios_amazzonia-59744853.html). A quando gli Esquimesi?

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1 In latino, con retrazione dell’accento,  Amàzones (per via di o greco che è breve), da cui la voce italiana.

2 In Περί ἀέρων, ὑδάτων, τόπων (Arie, acque, luoghi), attribuito ad Ippocrate (V-IV secolo a. C.), 17:  Ἐν δὲ τῇ Εὐρώπῃ ἐστὶν ἔθνος Σκυθικὸν, ὃ περὶ τὴν λίμνην οἰκέει τὴν Μαιῶτιν, διαφέρον τῶν ἐθνέων τῶν ἄλλων, Σαυρομάται καλεῦνται. Τουτέων αἱ γυναῖκες ἱππάζονταί τε καὶ τοξεύουσι, καὶ ἀκοντίζουσιν ἀπὸ τῶν ἵππων, καὶ μάχονται τοῖσι πολεμίοισιν, ἕως ἂν παρθένοι ἔωσιν. Οὐκ ἀποπαρθενεύονται δὲ μέχρις ἂν τῶν πολεμίων τρεῖς ἀποκτείνωσι, καὶ οὐ πρότερον ξυνοικέουσιν ἤπερ τὰ ἱερὰ θύουσαι τὰ ἐν νόμῳ. Ἣ δ’ ἂν ἄνδρα ἑωυτῇ ἄρηται, παύεται ἱππαζομένη, ἕως ἂν μὴ ἀνάγκη καταλάβῃ παγκοίνου στρατείης. Τὸν δεξιὸν δὲ μαζὸν οὐκ ἔχουσιν. Παιδίοισι γὰρ ἐοῦσιν ἔτι νηπίοισιν αἱ μητέρες χαλκεῖον τετεχνημένον ἐπ’ αὐτέῳ τουτέῳ διάπυρον ποιέουσαι, πρὸς τὸν μαζὸν τιθέασι τὸν δεξιὸν, καὶ ἐπικαίεται, ὥστε τὴν αὔξησιν φθείρεσθαι, ἐς δὲ τὸν δεξιὸν ὦμον καὶ βραχίονα πᾶσαν τὴν ἰσχὺν καὶ τὸ πλῆθος ἐκδιδόναι. (In Europa c’è il popolo degli Sciti che vive intorno alla Palude Meotica, differente dagli altri popoli e col nome di Sauromati. Le loro donne vanno a cavallo, tirano con l’arco e dal cavallo lanciano il giavellotto finché sono ragazze. Non perdono la verginità fino a quando non abbiano ucciso tre nemici e non possono convivere prima di aver compiuto i sacrifici previsti dal loro costume. Quella che prende un uomo per sé cessa di andare a cavallo finché non c’è la necessità di un servizio militare comune a tutti. Non hanno la mammella destra. Ad esse quando sono ancora bambine le madri pongono sul seno destro un arnese infuocato fatto di bronzo e il seno viene bruciato così da impedirne la crescita, per dare alla spalla e al braccio destro tutta la forza e l’estensione)

3 Da non confondere (perché tramandato con l’iniziale maiuscola, ma i manoscritti dettano legge fino ad un certo punto sulla distinzione rispetto alle minuscole) con il comune ἀμαζών (leggi amazòn), che significa alla lettera privo di pagnotta e per traslato uomo povero, avendo tutt’altra etimologia :da α– privativo+μάζα (leggi maza)=focaccia d’orzo.

Gallipoli, Nardò e Taranto, tre città fortificate in altrettante mappe del XVII secolo

di Armando Polito

D’Voornaamste fortresse van Koningryc Napels en Sisielie in Italie è il titolo  (nel cartiglio in basso) di una stampa  di mappe di 18 città fortificate attribuite a Cornelis  Danckerts (1664-1717), pubblicata ad Amsterdam tra il 1635 ed il 1645 e custodita nella Biblioteca nazionale di Francia.

Tre sono dedicate al Salento. Le riproduco di seguito opportunamente ingrandite.

La Terra d’Otranto in sette vedute ottocentesche

di Armando Polito

Credo che il potere dell’immagine, e non mi riferisco solo a quella artistica quale può essere una pittura, sul testo sia incontrovertibile, solo pensando all’effetto immediato e d’insieme (sul suo livello di profondità non m’attardo) che essa produce in chi l’osserva. La tecnologia digitale negli ultimi decenni ha favorito la prevaricazione, spero non definitiva, dell’immagine sul testo portando all’estreme conseguenze ciò che in passato era una rarità costosa che pochi, autori e lettori, potevano permettersi. E il pensiero corre alle miniature dei manoscritti medioevali e, dopo l’invenzione della stampa, alle tavole destinate a corredare testi per lo più scientifici o riguardanti la letteratura greca e latina (penso, in particolare alle innumerevoli  cinquecentine con le Metamorfosi di Ovidio tradotte e illustrate, sulla scia di analogo processo di “moralizzazione” innescato fin dal secolo XIV), prodotti oggi diremmo di nicchia, per arrivare poi nel XIX secolo alle edizioni illustrate di opere letterarie contemporanee (spicca tra tutte la quarantana dei Promessi sposi con le tavole di Francesco Gonin). In tempi in cui ci sentiamo quasi obbligati dalla sezione virtuale della nostra vita sociale a rendere partecipe tutto il mondo, soprattutto con foto e video, dei momenti anche più futili ed idioti della nostra esistenza, vacanze in luoghi più o meno esotici e … visite più o meno frettolose al bagno comprese, restiamo perfino perplessi se troviamo poche (rispetto alla mole dell’opera) illustrazioni in una produzione letteraria che nei secolo XVIII e XIX ebbe grande risonanza: i resoconti di viaggi. Chi non ha letto o  almeno una volta non ha sentito nominare, per esempio, il Voyage pittoresque ou Description des Royaumes de Naples et de Sicile di Jean-Claude Richard de Saint-Non, uscito a Parigi in quattro volumi dal 1781 al 1786? Avremo fra poco occasione di ritornarci a proposito di alcune tavole, ma intanto mi preme ricordare che non a caso le prime due parole del titolo ricorreranno in una caterva di opere consimili uscite nel secolo successivo e che pittoresco non sta nel dominante significato attuale di curioso, ma eredita quello che aveva nel secolo precedente, cioè si riferisce ad un gusto pittorico che rappresenta prevalentemente paesaggi solitari, specialmente con imponenti architetture o rovine, caratterizzato da forti effetti chiaroscurali. E due tra i periodici più diffusi del secolo XIX, entrambi napoletani,  erediteranno questa tendenza, non solo nel nome: il Poliorama pittoresco uscito dal 1830 al 1860 e L’omnibus pittoresco dal 1838 al 1854; al primo, guarda caso, farò fra poco riferimento anche per un dettaglio iconografico.

Nel novero delle innumerevoli relazioni di viaggio del secolo XIX un posto di rilievo spetta certamente a quella napoletana di Domenico Cuciniello e Lorenzo Bianchi dal titolo Viaggio pittorico nel regno delle due Sicilie, uscita in tre volumi dal 1830 al 1833.

Di quest’opera, che rappresenta certamente per quanto dirò a breve,  un gesto di coraggio imprenditoriale oltre che di sfida culturale, ignorerei ancora l’esistenza se non me l’avesse segnalata qualche giorno fa l’amico napoletano Aniello Langella1, grande conoscitore e cultore di storia locale,  titolare del blog Vesuvioweb (http://www.vesuvioweb.com/it/ ), che invito a visitare, non solo per gli aspetti che ha in comune con quello che mi ospita, non ultimo l’assenza di qualsiasi forma di pubblicità.

Un esemplare è custodito nella  ETH-Bibliothek di Zurigo (https://doi.org/10.3931/e-rara-51757) e da questo sono tratte le immagini che seguiranno relative all’argomento, cominciando dal frontespizio.

In basso si legge: NAPOLI Presso gli Editori Vico di S. Anna di Palazzo N° 38 presso Nicola Settembre negoziante di carta strada Toledo n° 290.

Questo spiega i concetti di coraggio e di sfida messi in campo qualche riga fa. Gli autori, infatti, avevano costituito fin dal 1825 un’impresa litografica che già nei due anni successivi si distinse per un primo album di tavole aventi come soggetto figure tipiche del popolo napoletano, cui seguì, con successo maggiore, un secondo.

Di seguito una parziale carrellata.

Il venditore di maccheroni cotti/Il segretario degli idioti*

* Era al servizio di chi non sapeva scrivere; idiota sta in senso etimologico, dal latino idiota(m)=ignorante, a sua volta dal greco ἰδιώτης (leggi idiotes) che dal significato di privato cittadino passò in un disgraziato climax a quello di popolano (non degno di pubblici incarichi) e poi a quello di ignorante; mi viene in mente per associazione parziale di idee il grande successo riscosso nel XIX ed oltre dal segretario galante, genere editoriale basato su opuscoli contenenti lettere preconfezionate, cui potevano attingere utenti, soprattutto innamorati, che sapevano leggere e scrivere ma non erano dotati di grandi capacità linguistiche o di sufficiente fantasia.

Il cambiamonete/Il pescivendolo

 

Il ciabattino/Lo zoccolaio

 

Il franfellicaro*/La venditrice di castagne infornate

* Venditore di franfelliche, pezzetti di zucchero e miele colorati; dal francese fanfreluche=fronzolo, a sua volta dal dal latino medioevale  famfaluca o famfoluca (Du Cange, p. 409, a sua volta dal greco dal πομϕόλυξ  (leggi pomfòliux=bolla d’aria,  vescichetta, efflorescenza metallica.

Tuttavia fu proprio il Viaggio pittorico il loro capolavoro editoriale, anche se il nome del Bianchi rimase un po’ defilato, mentre quello del Cuciniello ebbe gli onori della cronaca, tanto che in occasione del trasferimento della sua salma dalla sepoltura comune a quella della cappella di famiglia a cinque anni dalla morte comparve sul settimanale Poliorama pittoresco, n. 25, del Gennaio 1845, un articolo corredato anche del suo ritratto in un’incisione di Gaetano Riccio (lo riproduco di seguito).

 

Alla Terra d’Otranto nella prima parte del secondo volume  sono dedicati vari pezzi testuali con questi titoli: Veduta di Otranto (pp. 87-88 con successiva tavola fuori testo); Veduta di Brindisi (pp. 193-194 con successiva tavola fuori testo); Colonna miliare di Brindisi (pp. 195-196 con successiva tavola fuori testo); Veduta di Taranto (pp. 101-102 con successiva tavola fuori testo)2; La piazza di Lecce (pp. 103-104 con successiva tavola fuori testo); Veduta di Lecce (pp. 105-106 con successiva tavola fuori testo); Veduta di Gallipoli (pp. 107-108 con successiva tavola fuori testo); La tribuna della cattedrale di Otranto (p. 109 con successiva tavola fuori testo). in calce recano tutte la firma del disegnatore Francesco Wenzel a sinistra e dei litografi Domenico Cuciniello e Lorenzo Bianchi a destra, ad eccezione di quella relativa ad Otranto, il cui disegno è di Gioacchino Forino.

Le riproduco nell’ordine appena riportato.

1) VEDUTA DI BRINDISI  

 

 

2) COLONNA MILIARE DI BRINDISI

 

3) VEDUTA DI TARANTO

 

 4) LA PIAZZA DI LECCE

 

   

5) VEDUTA DI LECCE

 

6) VEDUTA DI GALLIPOLI

 

7) LA TRIBUNA DELLA CATTEDRALE DI OTRANTO

  

Giunto a questo punto, non son riuscito a resistere alla tentazione di operare un confronto tra queste vedute e quelle riguardanti lo stesso soggetto che sono a corredo del Voyage del Saint-Non3. A sinistra le francesi, a destra le napoletane, che, secondo me, non hanno nulla da invidiare alle prime.

BRINDISI

LECCE

TARANTO

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1 Si tratta del dottore, non dell’omonimo, molto più giovane ballerino, anche lui napoletano (di Torre Annunziata, mentre il primo è originario di Torre del Greco) che s’incontra come prima ricorrenza in Google. Lo preciso  con tutto il rispetto  per i ballerini …

2 Per un errore di rilegatura questa sezione si trova qui e non prima.

3 Sono 9 e si trovano nel tomo III uscito nel 1783: due per Brindisi ed una ciascuna per Lecce, Squinzano, Maglie, Otranto, Soleto, Gallipoli e Manduria.

 

  

Vuoi pubblicare? Basta pagare! Parola di Giovanni Domenico Salviati, simpatico letterato leccese del XVII secolo e di Pietro Micheli, suo editore altrettanto simpatico, entrambi amanti del vino, almeno sulla carta …

di Armando Polito

Incisione di Geronimo Cock del 1556 (per comprendere il suo inserimento bisogna arrivare alla fine) tratta da https://lib.ugent.be/catalog/rug01:002293875

 

Uno dei fenomeni più diffusi del nostro tempo è la proliferazione dei concorsi letterari, farsesca imitazione degli storici Premio Strega e Premio Campiello. Facendo leva sul narcisismo di quel terzo della popolazione italiana appartenente in via del tutto autopresunta alla categoria dei poeti (le altre, com’è noto, sono quella dei santi e quella dei navigatori, ma come la prima, non sono a tenuta stagna, nel senso che a seconda della convenienza chiunque può ascriversi a ciascuna di esse, anche se ignora l’esatta sequenza delle lettere dell’alfabeto o cos’è la bussola o ha già ammazzato quattro suoi simili), si stimola la partecipazione dei concorrenti, il cui numero sarà, grazie alla quota d’iscrizione, direttamente proporzionale al guadagno finale degli organizzatori. L’editoria in genere, però sembra aver messo da parte l’ingrediente fondamentale di qualsiasi attività imprenditoriale, cioè il rischio, adagiandosi nel comodo letto di sponsorizzazioni private e pubbliche (penso soprattutto ai quotidiani), trascurando il parametro del talento e del merito ed assecondando il gusto dominante di una caterva di lettori superficiali e suggestionabili. Così è difficile che essa scopra e promuova (pardon, produca …) personalità che entreranno a far parte della storia, anche minore o, addirittura, locale della letteratura e sarà sempre costretta a costringere gli autori a darsi da fare per il lancio della loro creazione in una serie di presentazioni, dalla più visibile (in tv) alla meno (qualche pro loco). Nemmeno sotto tortura”editori” ed “autori” confesserebbero questo stato di cose che dal punto di vista valoriale presenta molti, se non solo, lati deboli e su domanda farebbero intendere l’esistenza di un rapporto di reciproca stima. Stavano così le cose pure in tempi in cui il libro, fosse anche il più leggero, era un prodotto riservato a pochi (oggi, magari, per non sentirsi fuori, molti lo acquistano, pochissimi lo leggono …), oggi diremmo di nicchia, perché la pubblicazione comportava costi elevati non esistendo i mezzi messi a disposizione dalla moderna tecnologia (basta pensare alle tavole che prima di arrivare alla stampa dovevano fare i conti con la penna del disegnatore e poi col rame dell’incisore), per cui non era neppure immaginabile l’abbassamento del prezzo che di regola l’economia di scala comporta? Chi ha dimestichezza con libri datati avrà notato che è immancabile una dedica, in alcuni casi chilometrica, a personaggi politicamente (ed anche allora il gemellaggio tra questo avverbio ed economicamente era quasi automatico) di rilievo, del quale padrone colendissimo il dedicatore si dichiarava umilissimo ed obbligatissimo servo osservantissimo (vada per il resto ma le due ultime due parole costituiscono una ridicola tautologia). E tutto nella speranza che il potente di turno, riconoscente per la dedica, gli concedesse qualche incarico o beneficio. Non si sottrae certamente a questa regola antica (in fondo anche a Roma i letterati dell’entourage di Mecenate erano mossi solo dall’amor patrio o dalla stima per il detentore di turno del potere) il letterato leccese il cui nome ho anticipato nel titolo.

La dedica, infatti, inizia con Al Sig.e Padron mio osservandissimo e termina con Di V. S. M. Illustre Servitore Affettionatissimo.

Sull’autore delle Rime non sono riuscito a reperire alcuna notizia e nemmeno la dedica contiene dati utili, consente solo di rilevare una certa familiarità col dedicatario: … havendo in diverse occasioni composto diversi Sonetti, parte Serii, parte Burleschi trattovi dalla natural mia vena, havendoli più volte letti ad Amici, et a V. S., essendone stato sollecitato da quelli, e comandatomi da lei, che dovesse stamparli, non hò potuto recusare. Si arguisce che si tratta di persona di un certo rilievo, come il dedicatario, del quale riproduce lo stemma e ricorda la provenienza genovese negli ultimi due versi del primo sonetto: MECENATE GENTILE (alta ventura)/venisti a Noi dal Ligure Parnaso). In mancanza di altri riscontri credo di poter avanzare come pura ipotesi di lavoro, in attesa di altri eventuali più proficui riscontri, l’identificazione con Giovanni Domenico Salviati, notaio sulla piazza di Lecce dal 1615 al 1635, il cui nome compare anche tra quelli delle persone designate ad essere aggiunte al collegio di amministrazione dell’Ospedale dello Spirito Santo di Lecce per l’amministrazione dell’eredità di Cesare Prato1.

Se la dedica rientra nella normalità, ciò che mi ha colpito del volume, a parte il sonetto iniziale di cui ho detto ed il successivo dedicato al figlio Giorgio del dedicatario, è la presenza subito dopo, quindi in una posizione ancora sufficientemente privilegiata in rapporto alla lettura, la presenza di quattro sonetti che costituiscono una sorta di simpaticissimo intermezzo tra l’autore e l’editore. Li riporto in formato immagine con, di mio, la trascrizione e le note di commento.

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a Nato a Dôle, in Borgogna, nel 1600, Pietro Micheli, dopo un apprendistato tipografico a Roma e a Trani e una prima società costituita a Bari, nel 1631 fu il primo stampatore a Lecce. morì nel 1689.

b attira, spinge, induce

c Non riesco a capire la funzione delle parentesi.

d rinunziare a stamparle

e raffinato rigore formale

f Plozio Tucca e Lucio Vario Rufo erano due poeti del circolo di Mecenate; a loro Augusto diede l’incarico di pubblicare l’Eneide di Virgilio rimasta priva di revisione per la morte dell’autore. Qui Vario è diventato Varo per esigenze di rima.

g Giovanni Della Casa (1503-1556), autore, fra l’altro, di ll Galateo overo de’ costumi.

h Annibal Caro, (1507-1556), famoso per la traduzione in endecasillabi sciolti dell’Eneide di Virgilio.

i Ludovico Castelvetro (1503 circa-1571), famoso per una polemica con Annibal Caro innescata da un giudizio negativo espresso da Castelvetro su una canzone del Caro, intitolata Venite all’ombra de’ gran gigli d’oro, e motivato dal mancato stile e linguaggio petrarchesco e dai contenuti deludenti. La situazione si complicò quando Alberico Longo di Nardò (su di lui vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/02/11/una-nota-su-alberico-longo-di-nardo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/21/alberico-longo-di-nardo-alle-prese-col-petrarca/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/08/nardo-alberico-longo-e-la-sua-inedita-doppiamente-versione-di-un-mito/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/06/nardo-alberico-longo-e-ursula/)

fu assassinato e il Castelvetro venne indicato dall’entourage del Caro come uno deimandanti. Lo stesso Caro nonsi lasciò sfuggire l’occasione per accusare di Eresia il Castelvetro, che nel 1560 fu condannato dall’Inquisizione subendo la confisca dei beni.

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a andate

b non mi rimproverate

c sistemato al suo posto

d la punta dello stilo

e Pseudonimo di Leonardo Salviati (1540-1589), la cui fama è legata alla fondazione dell’Accademia della Crusca, che si costituì ufficialmente nel 1585. Impossibile dire se il leccese ne fosse parente, caso in cui ci sarebbe da ravvisare quasi una sfumatura di autoironia.

f abituata a scrivere testi di protesta (lo stile, perciò è immediato)

g dettaglio difettoso 

 

La risposta dell’editore non si fece attendere.

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a punte

b saccente

Ecco la replica del leccese.

L’ultima parola, però, fu dell’editore.

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a bevute smodate nella quantità e nel numero

b ispirazione

c Divinità romane delle acque e e delle sorgenti; in epoca tarda furono identificate con le Muse, protettrici dlle arti.

d Fonte sacra alle Muse fatta sgorgare sul monte Elicona dal cavallo Pegaso con un colpo di zampa. Ma quella era una fonte di acqua, quella cui il salentino, per contrasto, sta per alludere è di vino.

e bevute; il verbo sgozzare è usato al participio passato sostantivato partendo dal significato tutto originale di riempirsi la gola fino a far comparire una specie di gozzo.

f La comprensione di questi quattro versi richiede la lettura del documento 1 riportato in appendice.

g Cavallino, alimentato dalla fonte Ipopocrene (vedi la nota d)

h Poeta greco del VI-V secolo a. C.

i Orazio, poeta latino del I secolo a. C., nativo di Venosa.

l è necessario chwe lo guidi Bacco

m abitudine; il verso è stranamente mancante della prima parte (quattro sillabe).

 

 

APPENDICE

Arcipoeta è il soprannome di Camillo Querno (circa 1470-1530). Riporto integralmente e traduco il paragrafo che alle pp. 51-52 gli dedicò lo storico Paolo Giovio nel suo Elogia veris clarorum virorum imaginibus apposita quae in Musaeo Ioviano Comi spectantur, Tramezino, Venezia, 1546: 

CAMILLUS QUERNUS ARCHIPOETA.

Camillus Quernus e Monopoli , Leonis fama excitus, quum non dubiis unquam praemiis, Poetas in honore esse didicisset in Urbem venit, Lyram secum afferens, ad quam suae Alexhiados supra vigintimillia versuum decantaret. Arrisere ei statim Academiae sodales, quod Appulo praepingui vultu alacer, et prolixe comatus, omnino dignus festa laurea videretur. Itaque solenni exceptum epulo in insula Tyberis Aesculapio dicata,potantemque saepe ingenti patera, et totius ingenii opes, pulsata Lyra proferentem, novo serti genere coronarunt; id erat ex pampino, Brassica, et Lauro eleganmter intextum, sic, ut tam false , quam lepide, eius temulentia, Brassicae remedio cohibenda notaretur; et ipse publico consensu Archipoetae cognomen, manantibus prae gaudio Lacrymis laetus acciperet, salutareturque itidem cum plausu, hoc repetito saepe carmine: 

Salve Brassica virens corona,

et lauro ARCHIPOETA pampinoque

dignus Principis auribus Leonis.

Nec multo post tanto cognomine percelebris productus ad Leonem infinita carmina in torrentis morem, rotundo ore decantavit; fuitque diu inter instrumenta eruditae voluptatis longe gratissimus, quum coenante Leone, porrectis de manu semesis obsoniis, stans in fenestra vesceretur, et de principis lagena perpotando, subitaria carmina factitaret; ea demum lege, ut praescripto argumento bina saltem carmina ad mensam, tributi nomine solverentur, et in poenam sterili vel inepto longe dilutissime foret perbibendum. Ab hac autem opulenta, hylarique sagina, vehementem incidit in podagram; sic, ut bellissime ad risum evenerit, quum de se canere iussu in hunc exametrum erupisset: 

Archipoeta facit versus pro mille poetis 

et demum haesitaret, inexpectatus Princeps hoc pentametro perargute responderit: 

Et pro mille aliis Archipoeta bibit.

Tum vero astantibus obortus est risus: et demum multo maximus, quum Quernus stupens et interritus, hoc tertium non inepte carmen induxisset:

Porrige, quod faciat mihi carmina docta Falernum. 

Idque Leo repente mutuatus a Virgilio subdiderit:

Hoc etiam enervat debilitatque pedes.

Mortuo autem Leone, profligatisque Poetis, Neapolim rediit; ibque demum, quum gallica arma perstreperent,et uti ipse in miseriis perurbane dicebat pro uno benigno Leone, in multos feros Lupos incidisset. Oppressus utraque praedurae egestatis, et insanabilis morbi miseria in publica hospitali domo, vitae finem invenit; quum indignatus fortunae acerbitatem, prae dolore, ventrem sibi, ac intima viscere forfice perfoderit.

CAMILLO QUERNO ARCIPOETA.

Camillo Querno da Monopoli, allettato dalla fama di Leone [papa Leone X], avendo saputo che i poeti con premi mai dubbi erano tenuti in onore, venne a Roma portando con sé la lira per cantare al suo suono gli oltre ventimila versi della sua Alessiade [di questo come si altri suoi poemi nulla è rimasto]. Piacque subito ai soci dell’Accademia, poiché allegro nel suo grassoccio volto apulo e capelluto sembrava assolutamente degno di una festosa laurea. E così, dopo averlo accolto in un solenne banchetto sull’isola tiberina dedicata ad Esculapio e mentre beveva spesso da una grande tazza e al suono della lira esprimeva le risorse di tutto l’ingegno, lo incoronarono di un nuovo tipo di corona. Essa era fatta di pampini, cavolo e alloro elegantemente intrecciata sicché tanto sul serio che spiritosamente si sottolineasse la sua ubriachezza e col pubblico consenso ricevesse lieto tra le lacrime di gioia il soprannome di Arcipoeta e similmente fosse salutato con un applauso, ripetuto più volte questo canto:

Salve, tu che verdeggi di una corona di di cavolo e di alloro e di pampini, degno ARCIPOETA alle orecchie del principe Leone.

Né molto dopo, celebre per tanto soprannome, portato al cospetto di Leone, recitò con la rotonda bocca  infiniti carmi a mo’ di torrente; e fu per lungo tempo graditissimo tra le risorse di erudito piacere quando, mentre Leone pranzava e con la mano gli allungava rimasugli di bocconi, lui li mangiava appoggiato a una finestra e bevendo a lungo  dal fiasco del principe dava vita a canti improvvisati, con la legge che almeno due canti fossero intonati a mensa  su un argomento prescritto, con la pena che per un esito insufficiente  o inadatto avrebbe dovuto bere vino annacquatissimo. A causa di questa ricca ed allegra alimentazione incorse in una severa podagra, sicché amenamente suscitò il riso quando, invitato a cantare di sé, se ne uscì con questo esametro:

L’Arcipoeta fa versi al posto di mille poeti

e mentre esitava il principe senza che nessuno se l’aspettasse gli rispose argutamente con questo pentametro:

E l’Arcipoeta beve al posto di mille altri

Allora sì che il riso sorse tra gli astanti e ancora maggiore quando Querno sbigottito ma intrepido proferì non a casaccio questo terzo verso:

Offrimi del Falerno, perché io componga dotti carmi

e Leone all’istante presolo a prestito da Virgilioa gli servì:

Anche questo snerva e debilita i piedi [qui il papa gioca sul doppio senso che in latino ha il piede, che, oltre al dettagli anatomico, indica anche un elemento fondamentale della metrica].

Morto poi Leone e allontanati i poeti, ritornò a Napoli. Qui infine, quando le armi dei Francesi facevano sentire il loro strepito ed egli, molto civilmente nel disagio diceva, invece di un benigno Leone si era imbattuto in molti feroci lupi. oppresso da ogni lato dal durissimo bisogno e dal tormento di un’insanabile malattia finì i suoi giorni in un pubblico ospizio, quando, indignato con la crudeltà della sorte, per il dolore con una forbice si trafisse il ventre e le viscere.

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a Da un epigramma facente parte delle opere giovanili attribuite a Virgilio (Appendix Vergiliana). Ecco i primi 4 versi: Nec tu Veneris, nec tu Vini capiaris amore,/namque modo Vina, Venusque nocent./Ut Venus enervat vires, sic copia Vini/et tentat gressus, debilitatque pedes (Non farti prendere dall’amore di Venere né da quello del vino; infatti allo steesso modo sono nocivi i vini e Venere. Come Venere snerva le forze, così l’eccesso di vino mette alla prova i passi e indebolisce i piedi). Ad esso si ispira pure la tavola di testa.

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1 Congregazione di Carità di Lecce O. P., Ospedale dello Spirito Santo, Actus aperturae testamenti inscriptis conditi per quondam D. Cesarem Prato, 22/06/1635-III, c. 1, b. 2, fasc. 18.

Lecce, S. Oronzo e la peste nel 1656 e nel 1690

di Armando Polito

La preziosità delle memorie storiche è inversamente proporzionale al tempo trascorso, soprattutto quando esse riguardano eventi dirompenti, come terremoti ed epidemie. Forse chi ha vissuto di persona un’esperienza spiacevole tende ad enfatizzarla, ma è certo che la sua testimonianza è destinata ad essere più affidabile di altre basate sul sentito dire. Può sembrare strano, però anche nel caso di uno scampato pericolo i toni, in questo caso di sollievo, possono essere dettati dalla sensibilità di ognuno di noi, dalla stessa fede religiosa e politica. Una volta tanto non sarò tanto invadente e presuntuoso dall’accompagnare il lettore nella lettura del documento che sto per presentare e del quale mi limito a riprodurre solo il frontespizio.

Esso si presenta mutilo. La la mutilazione, purtroppo, coinvolgerà pure le pp. 9-18 in misura più ridotta, per diventare, purtroppo, drammaticamente estesa fino a p. 26, dove il testo s’interrompe definitivamente e, se si pensa che verso la fine della pagina precedente era appena iniziata la parte relativa alla peste del 1690, si comprende come la lacuna debba essere estremamente estesa e ci priva di notizie di cui l’autore fu testimone diretto e  degno di fede, forse non solo perché era Michele Pignatelli, vescovo di Lecce dal 1682 al 1695.

La Relazione è indirizzata al papa Innocenzo XII (1691-1700), al secolo Antonio Pignatelli. Entrambi appartenevano alla stessa nobile famiglia e lo stemma parlante che campeggia sul frontespizio sarebbe comune se non recasse, oltre alle tre piccole pignatte1, la tiara e le chiavi. Sempre nel frontespizio, a restauro avvenuto, la mutilazione è stata integrata, dopo In Lecce  con, scritto a mano, dagli Eredi di Pietro Micheli 16912. Di seguito, con una parentesi tonda aperta ma non chiusa: Ved(i) Poliantea Salent(ina)3 vol(ume) n(umero) c(artella) 25 pag(ina) 103.

Il volume è custodito nella Biblioteca provinciale “Nicola Bernardini” di Lecce e lo troverete al link  http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?teca=MagTeca+-+ICCU&id=oai:www.internetculturale.sbn.it/Teca:20:NT0000:RMSE008409. Buona lettura!

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1 Pignatta si fa derivare dal latino medioevale pineata=simile a pigna, forma aggettivale dal classico pinea=pigna. La voce più vicina alla latina è lo spagnolo piñata, da cui il meridionale (compreso il salentino) pignata. La geminazione di t in pignatta potrebbe essere dovuto, secondo me, ad incrocio con piatto. Coerente con pignata è Pignatelli (er non Pignattelli), una delle più antiche e potenti famiglie napoletane.

2 Pietro Micheli, nato a Dole in Borgogna nel 1600, fu il primo stampatore riconosciuto attivo a Lecce dal 1631 (prima pubblicazione:  Philippi Formosi u(triusque) (iuris) d(octor) a Turri Susannia Carmina ad illustrissimum, & excellentissimum dominum d(ominum) Io(annem) Antonium Albricium Farnesium) fino al 1688 (ultima pubblicazione: La lira venosina in canto italiano: cioè, Oratio volgarizato, da Pietrantonio Epifani poeta salentino. Consacrato all’apostolica maestà di Giuseppe d’Austria Re d’Ungheria. Dove si racchiude la Poetica, ed altre erudite annotazioni), quando subentrarono gli eredi.

3 Collana di opere di autori salentini, a stampa e manoscritte, che Luigi De Simone raccolse arricchendola di annotazioni e commenti.

Francesco Porrata Spinola di Galatone e l’eruzione del Vesuvio del 1631

di Armando Polito

Il Vesuvio prima e dopo l’eruzione del 16 dicembre 1631 in due incisioni del francese Nicolas Perrey tratte da Gianbernardino Giuliani, Trattato del Monte Vesuvio e de’ suoi incendi, Longo, Napoli, 1632 (https://doi.org/10.3931/e-rara-10365)

Non sono pochi i salentini che nel corso dei secoli si sono occupati in prosa o in versi di ciò che nell’immaginario collettivo dell’intero pianeta è il simbolo di Napoli, dopo la pizza e il mandolino1. Nella sterminata schiera, poi, dei testi scientifici un posto preponderante è senz’altro occupato da quelli che si occuparono della catastrofica eruzione del 1631. Tra essi è da annoverare quello il cui frontespizio presento di seguito.

A parte la rarità2, il volume già nel titolo, conformemente all’uso del’epoca chilometrico, presenta qualcosa di insolito e, dunque, originale, cioè il pronostico di effetti maggiori, basato su concomitanze astrologiche riassunte nella figura di p. 20.

Non sono un medico o un filosofo o un astrologo (tanto meno eccellentissimo): forse so, più probabilmente presumo di sapere qualcosa di letteratura propriamente detta e ancora meno di filologia, e per questo lascio a lettori più qualificati di me il giudizio sul valore scientifico di tutto il Discorso, che ognuno potrà agevolmente leggere dal link prima segnalato per le tavole.

Mi limiterò, perciò, a prendere in considerazione e ad approfondire solo alcuni dettagli. Comincio dall’autore dicendo che le notizie sono estremamente scarne e non sapremmo nemmeno che era di Galatone senza il Galateo del provvidenziale e pretenzioso (per via dei titoli, ma allora non c’era la specializzazione spinta di oggi, cosa che, d’altra parte, aveva pure i suoi aspetti positivi …) frontespizio. debbo precisare, però, che la famiglia Porraca Spinola è di chiarissima origine genovese e che essa vantava anche uno zecchiere (Agostino). Di seguito una moneta del 1563 con la sua sigla (AS) nel verso.

Dal frontespizio apprendiamo pure che l’opera è dedicata è al nobile fiorentino Vincenzo Sirigatti, il cui stemma appare bene in vista, mentre dalla dedica interna che, stranamente breve, occupa solo le prime due pagine, apprendiamo che Vincenzo era dotato di rare e gentili maniere, ammirate e amate da tutti non solo in questa Provincia, dove al presente si ritrova, ma molto più di lungi e poco dopo l’autore dichiara di aver composto il Discorso in volgar lingua contro ‘l mio Genio, come V. S. e molti sanno , acciò in questa pubblica occasione ogn’uno publicamente goda l’utile, e ‘l diletto insieme. Insomma il nostro aveva intenzione di scriverlo in latino, poi prevalse l’intento divulgativo (di mercato, diremmo oggi, se non fosse che testi simili restavano pur sempre di nicchia). E quanto ad esibizione di titoli sbattuti nel frontespizio a concorrenza non sarebbe stata certamente da meno. Basta considerare il frontespizio che segue, tratto da  https://doi.org/10.3931/e-rara-23442.

Nel titolo, qui ancor più chilometrico, spicca il greco ῥιγοπύρετον che per il suo significato (febbre con brividi) conferisce una connotazione quasi umana al vulcano in eruzione e poi l’autore (Vincenzo Alsario della Croce) dopo essersi dichiarato di Genova, sventola la sua brava caterva di titoli: Professore di medicina pratica all’Università della Sapienza, già camerlengo segreto di Gregorio XV, ora camerlengo onorifico del papa Urbano VIII. Ma torniamo al volume del salentino.

Alla dedica seguono, secondo una prassi consolidata in pubblicazioni del genere, quattro componimenti elogiativi (tre sonetti ed un epigramma in distici elegiaci) che riproduco e, laddove è necessario, commento.

Il primo sonetto, dedicato Al Signor Vincenzo Sirigatti, è di Francesco San Pietro di Negroa   

Tu che del nobil Arno i tersi Argenti

rendi adorni di Glorie, e di splendoei,

tu che virtù difendi da furori

di nemica Fortuna, e d’empie genti,

tu col tuo chiaro nome, ch’eran spenti

questi d’Astrologia raccolti fiori

per dotta man sacrati  hor à tuoi honori

solo ravvivi con affetti ardenti

così ben pare sculto in lettere d’oro

perche il Vesuvio hà svelto arsi macigni

et omicide vampe à i vicin Campi;

e quando fia, che Marte non più avvampi

e la Pace trionfi del suo Alloro,

e gli altri influssi à noi rotin benigni. 

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a Da identificare forse con  Lagonegro, in Basilicata.

 

Gli altri due, dedicati all’autore, sono di Pietro Angelo De Magistris Galateob Academico Ociosoc detto il Tranquillo.

Sparse armato il Vessuvio à danni nostri

con Tremoti d’orror fiamme voraci,

ceneri spaventose, onde fugaci,

theatro infausto di Prodigi, e mostri.

E ‘l Tuon, che diè da suoi Tartarei Chiostri

rimbomba hor ne’ tuoi scritti aurei, e veraci,

e i baleni veggiam viè più vivaci

co’ lampi, e rai de’ tuoi purgati inchiostri.

Ammira il Mondo le raggioni, e l’arte

de la tua dotta Penna, e ‘l tuo lavoro

de gli Astri le Virtù pinge in gran parte.

Prendan dal tuo bel dir l’alme ristoro,

e contempli ogni cor nelle tue carte

la Cenere hor cangiata in pioggia d’Oro. 

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b Di Galatone.

c L’Accademia degli Oziosi era stata fondata a Napoli nel 1611.

 

T’impennò l’ali à la Celeste Metaa

girando ogn’hor con regolati errorib,

e dando all’almac tua lampi, e splendori

ogni Stella, ogni Segno, ogni Pianeta.

E già con dir facondo, e mente quieta

de le Ceneri sparse, e de gli ardori

sveli il ver, cause adduci, incendi i corid

con tua Virtù qual degna aurea Cometa.

Da foco di Vessuvio è il mondo offeso

quasi infermo di febre, e in sì ria sorte

in fumo si dissolve il mortal peso;

deh fà (volgendo al Ciel tue luci accorte

di quelle fiamme sempiterne acceso)

pronostichi di Vita, e non di Morte.

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a Consentì alla tua scienza astrolofica di innalzarsi

b In senso etimologico: movimenti.

c animo

d susciti discussioni

 

L’epigramma, indirizzato a Vincenzo Sirigatti,  è di anonimo, ma, dietro la dicitura cuiusdam perfamiliaris (di uno molto amico) non mi è difficile supporre che si nasconda l’autore dell’opera, in un’ulteriore dichiarazione di modestia …

Magnus Alexander sic Mundo sculptus ab uno

Lisippo, atque uno pictus Apelle, datur,

praeclarum, SIRIGATTE, tuum sic Spinola nomen

ingenio clarus (perlege) non maculat.

Traduzione: Così si tramandaa che Alessandro Magno fu scolpito dal solo Lisippoe dipinto dal solo Apellec, così, o Sirigatti, Spinola illustre per talento (finisci di leggere) non macchia il tuo nome illustrissimo.

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a Plinio, Naturalis historia, VII, 38: Idem hic imperator edixit ne quis ipsum alius quam Apelles pingeret, quam Pyrgoteles scalperet, quam Lysippus ex aere duceret (Quest’imperatore medesimo stabilì che nessun altro potesse raffigurarlo con la pittura se non Apelle, con la scultura in marmo se non Pirgotele, con quella in bronzo se non Lisippo).

b Scultore greco del IV secolo a. C.

c Pittore greco del IV secolo a. C.

 

Vi lascio immaginare quanto desidererei conoscere il pensiero del dedicatario, sempre che l’opera sia stata da lui letta …

E, in chiusura, non posso non ricordare il contributo etimologico che sul nome del vulcano il nostro offre a p. 4: Mons Vaesevus da Vae, cioè guai, e Saevus, cioè crudele, perché guai a chi lì fabrica, ò coltiva, o confida habitare, veggendosi poi esso o suoi discendenti all’improviso perder così la robba, e la vita. Essa ricalca nella prima parte  quella del contemporaneo Camillo Tutini3, che, riprendendo una tradizione popolare, sosteneva che Vesuvio è da Vae suis (Guai ai suoi!) partendo dalla considerazione che la sua attività distruttiva storicamente aveva preceduto o seguito disgrazie per la popolazione. Confesso che nella miriade di proposte etimologiche avanzate e citate in molti lavori  questa del salentino la leggo per la prima volta, anche se mi pare anch’essa una paretimologia. Un tocco di originalità, che pur con riserva sto campanilisticamente sottolineando (forse per farmi perdonare qualche spunto ironico al quale nemmeno qui ho saputo rinunciare) o semplicemente una mia lacuna di letture su questo argomento e non solo?

__________

1 Vedi, per esempio, https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/07/salento-vesuvio-poesia-pellegrino-scardino-san-cesario-lecce/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/03/nardo-vesuvio-anno-piu-anno-meno/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/01/12/leruzione-del-vesuvio-del-1631-nella-poesia-di-un-salentino-e-di-un-napoletano-con-una-sorpresa-finale/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/01/12/gli-arcadi-di-terra-dotranto-gregorio-messere-di-torre-s-susanna-20-20/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/01/26/marco-antonio-delli-falconi-di-nardo-tiene-a-battesimo-il-monte-nuovo/

Ad integrazione della produzione in versi in riferimento all’eruzione del 1631 di cui al terzo link appena segnalato a breve in un altro lavoro saranno aggiunti altri contributi di letterati salentini.

2 L’OPAC ne registra solo 4 esemplari.

La settecentesca accademia di S. Vito dei Normanni (2/2)

di Armando Polito

La settima riunione si tenne, come mostra la c. 213r di seguito riprodotta, il 1° gennaio 1738, cioè, almeno stando a quel che risulta registrato, a sette anni dalla precedente. Lacuna volontaria o no nella registrazione oppure sintomo di una progressiva stanchezza (fenomeno frequente per le accademie dopo l’entusiasmo e la prolificità dei primi anni)? Troppo il lasso di tempo per non credere nella prima ipotesi e la conferma viene dal fatto che più avanti (c. 221r) è riportato un sonetto di Ortensio De Leo e in calce una nota che recita: Il sopradetto Sonetto fu rappresentato nell’Assermblea Accademica per il compleanno del Signor Principe, tenuta nel palazzo di detto Signore a 7 Gennaio, Sabbato giorno di Santo Antonio Abbatead ore 21 1733. 

 

Problema Accademico. qual fosse il motivo principale della Santità di Santo Francesco Xaverio: l’umiltà di sé stesso, ovvero la carità esercitò verso del Prossimo. Tenuta la presente Accademia nella Chiesa Vecchia a primo del 1738 giorno di Giovedì, e Capo del’anno ad ore 20, l’apertura della quale si fe’ dal Reverendo Andrea De Leonardis

Questa volta il problema accademico non è discusso in prosa ma trattato direttamente nelle cc. 214r-231v nei componimenti di Ortensio De Leo (6; l’ultimo, a c. 221r, in realtà è del 7 gennaio 1733, come riportato in una nota aggiunta in calce e del quale ho detto poco fa), Teodomiro De Leo (4), Ortensio De Leo (3).

L’ottava riunione ebbe luogo il 12 febbraio 1738, come si evince dall’incipit di c. 228r.

S’invitano li Pastori della nostra Arcadia a festegiare le felicissime nozze del nostro invittissimo Regnante D. Carlo Borbone, Rè delle due Sicilie, etc. colla Serenissima Real Principessa di Polonia Donna Maria Amalia Primogenita del Rè Augusto 3 di Polonia. e Duca della Serenissima Casa di Sassonia nella presente Assemblea Accademica, che si celebra quest’oggi li 2 di Febraio 1738 giorno di Domenica.  

Seguono a partire dalla stessa carta fino a c. 231v tre componimenti di Ortensio De Leo.

Si direbbe che le riunioni dell’accademia, almeno quelle registrate, terminino qui, perché la c. 232r non fa nessun riferimento specifico ad una tenuta nella data che pure è indicata (giugno 1738).

Seguono (cc- 233r-244r) i componimenti di Giovanni Battista Notaregiovanni, Ortensio De Leo, Giovanni Scazzioto (3) di Brindisi, Vito Ruggiero, Lorenzo Cavaliere, Lorenzo Ruggiero (2), Carmine Ruggiero (2), Francesco Ruggiero (2), Pietro Matera di Francavilla (3), Padre Piertommaso Barretta di S. Vito Baccelliere dei carmelitani, un autore il cui nome è illegibile (c. 242r), dottor fisico signor Carlo Evaranta (?) di Francavilla, un autore il cui nome risulta abraso.

Dopo aver angustiato il lettore con questa descrizione che pure era necessaria per avere contezza del documento e conoscere nomi di poeti poco noti se non ignoti sui quali varrà la pena in seguito approfondire [(solo alcuni di loro, per giunta parzialmente, risultano pubblicati in Pasquale Sorrenti, La Puglia e i suoi poeti dialettali : antologia vernacola pugliese dalle origini ad oggi, De Tullio, Bari, 1962; ristampa Forni, Sala Bolognese, 1981 (1 copia nelle biblioteca “Achille Vergari” di Nardò)], concludo, nella speranza che non si sia già dileguato, con un assaggio per così dire, divertente e anticonformista. Divertente perché riguarderà due componimenti che potremmo inquadrare nell’enigmistica; anticonformista, come è la stessa raccolta, perché, cosa inusuale in quelle di altre accademie, essa contiene pure sei componimenti in vernacolo, e ne leggeremo uno.

c. 134r

In lode dell’Eccellentissimo Signor D. Giuseppe Marchese

Eloggioa latino

 

                                                     I

                                                 oseph

                                                 illustri

                                              Marchese

                                           edito familia

                                      vestigiis maiorum

                                    consequuto suorum,

                                 miris patris santi gestis

                                   virtute, iustitia, clementia,

                         charitate, magnanimitate atque robore

                            insigni praecellenti celebris tantae

            probitatis specimemb, onusto gloriae immortalium

               donanti cunctis per Orbem concelebrantibus

              ad piramidis insta relogium hocce Leo per me  

                        struitur            erigitur     dicatur

 

                                                      dello stesso Signor Carmine de Leo    

 

_________

a Forma che s’incontra anche nei libri a stampa dei secoli passati.
b Errore per specimen.

Traduzione: A Giuseppe Marchese nato da illustre famiglia. che ha seguito le orme dei suoi antenati, le mirabili gesta del padre santo, che per valore, giustizia, clemenza, carità, magnanimità e forza, insigne, eccellentissimo, conosciuto, che, carico della gloria degli immortali,  dona a tutti coloro che nel mondo lo festeggiano un esempio di tanta onestà, ecco, questo elogio a forma di piramide da me Leo viene costruito, eretto, dedicato.

Il componimento dal punto di vista iconografico appare ispirato dal carme ropalico [dal latino Rhopalicu(m), a sua volta dal greco ῥοπαλικός (leggi ropalicòs), derivato  di ῥόπαλον (leggi ròpalon)=clava], gioco metrico-grafico praticato già in Grecia a partire dal IV secolo a. C. poi in ambito latino presso i poeti neoterici del II secolo d. C., consistente nel costruire un verso con parole in cui ognuna ha un numero di sillabe pari a quello della precedente più uno, in modo che, sistemando le parole una sotto l’altra, esce fuori una forma che ricorda quella della clava. Qui, come si nota, rispetto al modello originale l’aumento progressivo delle sillabe è rispettato solo nelle tre righe superiori e la forma finale (che non è quella della clava ma della piramide) è ottenuta anche con un opportuno ingrandimento o rimpicciolimento dei caratteri (ragion per cui nella mia trascrizione, avendone adottato una dimensione fissa, la piramide è andata a farsi benedire. Oltretutto nelle composizioni latine similari la prima parola, anche e costituita da una sola lettera, doveva avere un senso compiuto. Qui, invece l’iniziale I (che in latino, imperativo presente del verbo ire, avrebbe significato va’) è parte integrante del successivo oseph: insomma, un giochetto di origine dotta ma furbescamente semplificato.

c. 138v

 

il medemo soggettoa

Programma

Donno Fabio Belpratob Marchese

Anagramma purissimo letterale

Febbo nomar se po’ perch’è natal dì 

________

a Festeggiamento del compleanno di Fabio Marchese..

b Vedi la nota n. 2  

Anche qui il purissimo con cui l’autore (Ferdinando De Leo) definisce il suo anagramma è velleitario, come appare a contare solo il numero di lettere che compongono la frase di partenza (26) e quella anagrammata (27), la quale, inoltre, presenta una p in più, una p  invece di b e una e invece di o.

c. 73r

Dellu patre Rusariu Mazzottia Letture domenicanu pe’ la muta addegrizzab di tutti l’emminic, e le fimmene de santu itud pe’ la enutae de lu segnore Princepe donnuf Fabbiug Marchese 

Sunettu 

Oh quantu ndé presciamuh, ch’è benutu

Fabiu lu Sirei nesciuj, e lu Segnore!

Staamuk propriu propriu senza core

penzando ndé le fosse ntravenutu.

Nui Santu itu nd’è preammul mutu

cù lu ziccam pe’ ricchian, e caccia foreo

de Napul’, e lu nducap quae a do ore

pur’a fazza la mosciaq, ci ae pè utur.

Se ndé varda cu’ l’ecchi, nò ndé sazia!

E vol’à se la mbarcias n’autrat otau?

Potta de craev, í  com’olew à nde strazia!  

Deh Santu itu fermande ddax rota

de la fortuna, e fandey st’autraz raziaza:

middzb‘anni a mienzuzc á nui cù se reotazd.

_________ 

a Di Brindisi.

b Da notare in questa parola, nella penultima del terzultimo verso e nella prima dell’ultimo la grafia di dd, in cui ciascuna lettera appare tagliata a metà da una barretta orizzontale. È come se il copista con quel segno diacritico avesse voluto precisare che il gruppo dd (esito di ll) nel dialetto brindisino presenta una pronuncia ben diversa dalla cacuminale retroflessa del leccese (perquest’ultima vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/01/il-solito-dubbio-di-trascrizione-per-un-fonema-salentino/).

c Plurale di ommu, che a prima vista potrebbe sembrare un francesismo (da homme). Tra l’altro gli etimologi considerano l’italiano uomo derivato dal latino homo, che è nominativo, contravvenendo alla regola che vuole i nomi formatisi dall’accusativo (hominem), mentre il plurale uomini mostra chiaramente la sua derivazione dall’accusativo plurale homines. Credo che proprio in –mm– stia la spiegazione dell’apparente stranezza, ipotizzando la seguente trafila: homine(m)>homne(m) (sincope)>homme (assimilazione)>ommu (regolarizzazione della desinenza; simile il napoletano ommo attestato ne Le Muse napoletane di Giambattista Basile (XVI-XVII secolo); lo stesso fenomeno, mediato dalla lingua parlata, avrebbe coinvolto uomo.

d Per apocope da Vito; da notare in itu l’iniziale minuscola, quasi la parola si ricordasse dell’aferesi e sottintendesse V.

e Per aferesi, come nel precedente itu,  da venuta.

f Parallelo al donno dell’italiano antico, dal latino dominu(m) attraverso il sincopato domnu(m) e l’assimilato donnu(m).

g Incoerenza grafica (non errore ortografico a quel tempo, perché in testi a stampa dei secoli passati si legge, per esempio, Fabbio Massimo)  rispetto al Fabiu del primo verso. 

h Alla lettera ci pregiamo che, cioè siamo onorati che. Nel salentino il verbo è usato anche assolutamente (sta mmi prèsciu=mi sto rallegrando) e il sostantivo prèsciu come sinonimo di gioia.

i Nel dialetto salentino sinonimo di padre. La voce è dal francese antico sire, a sua volta dal latino senior, comparativo di senex=vecchio. Qui probabilmente si carica ulteriormente del significato che la parola, di uso letteraria e oggi obsoleta, aveva in italiano, anche se il successivo Segnore sembrerebbe, se non escluderlo, almeno limitarlo.

j Passaggio str>sci abituale nel salentino (maestra>mèscia, finestra>finescia, etc. etc.).

k Per sincope da stavamo.

l Da priare, dal latino precari, con aspirazione, evanescenzae scomparsa della c, a differenza di quanto successo per l’italiano pregare.

m Da (z)ziccare, corrispondente all’italiano azzeccare, che è dal medio alto tedesco zecken=menare un colpo. La voce salentina ha il significato di prendere, afferrare.

n Per aferesi da orecchia.

o Nel salentino è usato anche col significato di in campagna e, col valore di sostantivo (enallage), in espressioni del tipo fore mia=la mia proprietà rurale.

p Da ‘nducire, dal latino indùcere

q Vedi la nota j.

r Aferesi per voto.

s Da mbarciare (a sua volta per dissimilazione da mmarciare, che è per aferesi da ammarciare (a sua volta per assimilazione da ad+marciare). il riferimento è al camminare impettito, ostentando serietà e, per traslato, togliersi d’impaccio facendo finta di nulla e continuando imperterrito.

t Da notare l’esito al>au, come nel francese hautre; in altre zone del Salento, invece, è in uso aḍḍa, che fa pensare ad una derivazione dal greco ἄλλη (leggi alle).

u Per aferesi da volta e consueta caduta di l come in càutu=caldo, motu=molto, etc. etc.

v Potta d’osci (vulva di oggipotta è voce fiorentina d’incerto etimo; osci è dal latino hodie)  e potta de crae (crae è dal latino cras) sono entrambe interiezioni. Non sorprenda che un uomo di chiesa abbia inserito un’espressione volgare: evidentemente già all’epoca lessa era tanto inflazionata dall’uso che aveva perso gran parte, se non tutta, della sua valenza oscena. Piuttosto è da notare come solo ai nostri giorni il suo corrispondente maschile (cazzo!) sia stato sdoganato nella lingua parlata e in quella scritta.

w Da vole, terza persona singolare dell’indicativo presente di ulìri, con abituale aferesi di v-.

x Per aferesi da chedda (=quella); per la grafia di dd vedi la nota b.

y Per dissimilazione da fanne (fà a noi).

z Vedi la nota t.

za Per progressiva lenizione da grazia attraverso crazia (sottoposto poi ad aspirazione di c-) in uso in altre zone del Salento.

zb Vedi la nota b.

zc Per dissimilazione -zz->nz.

zd Da riutare, composto dalla particella ripetitiva re– e da utare, che, come l’italiano voltare, è per sincope dal latino volutare (=concamerare, cioè fabbricare a volta; può significare anche ), a sua volta da    A Nardò il verbo è usato con riferimento al vento che cambia direzione (sta rriota=sta rivoltando).

 

(Del Padre Rosario Mazzotti lettore domenicano per la muta allegria di tutti gli uomini e le donne di San Vito per la venuta del signore principe Don Fabio Marchese

Sonetto

O quanto ci rallegriamo perché è venuto/Fabio  il padre e il signore nostro!/Stavamo proprio proprio senza cuore/pensando che non sarebbe intervenuto./Noi ne pregammo molto san Vito/perché lo prendesse per l’orecchio e lo spingesse fuori/da Napoli e lo conducesse qui in due ore/solo per mostrare che ci va per voto./Se ci guarda con gli occhi, non ci sazia!/e vuole svignarsela un’altra volta?/Puttana di domani, come lui vuole straziarci!/Oh san Vito ferma per noi quella ruota/della fortuna e facci quest’altra grazia:/che possa vivere mille anni in mezzo a noi)   

Prima, a c. 53r lo stesso tema era stato trattato in latino da Scipione Ruggiero in un componimento latino in sette distici elegiaci (numero che ricorda quello dei versi che compongono un sonetto).

Reverendi Domini Scipionis Ruggiero ad Eccellentissimum dominum nostrum Principem in eius reditum a Neapoli ad Patriam 

Principis adventum cives celebremus ovantes.

Laeta dies, nobis plaudite laeta quiete.

Viximus in tenebris, venit lux aurea ab Astris,

novimus ac cuncti, quam decet atque iuvat.

Omnes laetamur merito, sed maxime servus

qui vitam praebet pro sanitate tua.

Partenopesa, redeas, orat, nam bella moventur,

dextera tuta tua, te duce, seque tenet.

Vota, precesque deo dabimus ut proelia sistant.

Sic aderit nobis pax, et amica quies.

Quam tua nos hilares, Princeps, praesentia reddat,

en spectare potes, quo obsequio colimus.

Permaneas Patriae, cunctos solare rogantes

o domine, aspectu civica corda beas 

(Del reverendo don Scipione Ruggierob all’ eccellentissimo nostro signor principe per il suo ritorno in patria da Napoli

 

Cittadini, celebriamo esultando la venuta del principe. È un giorno lieto, applaudite per la calma a noi lieta. Vivemmo nelle tenebre, una luce aurea è venuta dagli astri e tutti sappiamo quanto conviene e giova.  Tutti ci rallegriamo a buon diritto, ma soprattutto il servo che offre la vita per la tua buona salute. Partenope prega che tu ritorni perché vengono mosse guerre e, sicura della tua destra, si difende. Rivolgeremo voti e preghiere a Dio perché cessino i combattimenti. Così verrà per noi la pacee l’amica quiete. Ecco, o principe, puoi vedere quanto la tua presenza ci renda allegri, con quanto rispetto ti onoriamo. Resta in patria, tu, o signore, rendi felici con lo sguardo tutti quelli che chiedono consolazione, i cuori dei cittadini)

_________

a Per Parthenopes.

b Era parroco della chiesa di S.Maria della Vittoria, in cui si tenne, come sopra s’è riportato, l’accademia del 14 marzo 1731. La cronotassi degli arcipreti, per la stessa chiesa, registra anche i nomi di Carmelo Ruggiero (1757-1759) e di Francesco Ruggiero (1760-1775), quasi una dinastia …; Per quanto riguarda Francesco, poi, egli non è cronologicamante incompatibile con il Francesco Ruggiero registrato come principe dell’Accademia del 5 marzo 1730.

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/04/25/la-settecentesca-accademia-di-s-vito-dei-normanni-1-2/

 

La settecentesca accademia di S. Vito dei Normanni (1/2)

di Armando Polito

Inutile cercarla  in rete o in biblioteca, almeno che non si ricorra, sapendolo, all’unica fonte esistente, vale a dire un manoscritto (ms_F/7) del XVIII secolo custodito nella biblioteca pubblica arcivescovile “Annibale De Leo” a Brindisi. Quello delle accademie è un fenomeno molto diffuso nei secoli passati e se ne ebbero di tutti i gusti, nel senso che i temi in esse dibattuti potevano essere di natura scientifica, filosofica o, in senso lato, letteraria. Tra le accademie letterarie chi non ha almeno una volta sentito parlare dell’Arcadia, fondata a Roma nel 1690 da Giovanni Mario Crescimbeni e della quale negli anni furono pastori (così si chiamavano i soci) anche parecchi salentini1?

Non tutta la produzione di ogni accademia ebbe il privilegio di esser data alle stampe e non mancano casi, come il nostro, in cui solo una fortuita e fortunata circostanza consente di liberarne, magari solo parzialmente, la memoria dalla polvere del tempo e dalla limitatissima frequentazione tipica dei manoscritti: in fondo, se è lecito paragonare le piccole cose alla grandi, pure Fleming scoprì la penicillina per caso …

Il manoscritto, in gran parte inedito (solo pochi componimenti di pochi autori sono stati pubblicati da Pasquale Sorrenti in La Puglia e i suoi poeti dialettali: antologia vernacola pugliese dalle origini ad oggi, De Tullio, Bari, 1962; ristampa Forni, Sala Bolognese, 1981; una copia è custodita nella biblioteca “Achille Vergari” di Nardò), del quale ci accingiamo a leggere una parte (è mia intenzione, se avrò vita e voglia, di pubblicarlo integralmente), è una sorta di diario, con allegata documentazione, delle assemblee tenute dai componenti di un’accademia che si riuniva a S. Vito in casa del principe Fabio Marchese2.

Il tutto ricalca perfettamente, anche nei dettagli (tra i quali spicca la finalità, in alcuni casi, dichiaratamente  encomiastica) le coeve pubblicazioni a stampa di altre accademie, in primis l’Arcadia, con l’unica differenza che non risultano indicati  i soprannomi  che i singoli pastori si davano. Se i temi trattati non fossero seri (con preponderanza di quelli religiosi) qualcuno potrebbe ritenere che l’Accademia di San Vito fosse un’associazione di buontemponi , anche perché, come vedremo, ad un certo punto gli associati l’11 giugno 1730 elessero a loro principe (un ruolo parallelo a quello che nell’Arcadia era ricoperto dal custode), come vedremo, Vito Petrino, un ragazzo di appena quattordici anni, al quale spettava esprimere un giudizio sulla questione del giorno trattata prima in due parti da due distinti componenti dell’assemblea; per giunta, l’imberbe fanciullo succedeva al principe della precedente (o, più precisamente, la prima registrata) riunione del 5 marzo 1730, il sacerdote Francesco Ruggiero, che molto probabilmente, come vedremo in seguito, è lo stesso che sarebbe diventato arciprete della chiesa maggiore (S. Maria della Vittoria) dI S. Vito dei Normanni.

Vito Petrino fu principe anche della terza riunione del  5 novembre 1730; le successive (17 gennaio, 2 aprile e 14 marzo del 1731 e 1 gennaio e 12 febbraio 1738) non ebbero principe. L’elezione a principe di Vito Petrino è celebrata nella carta che di seguito riproduco.

c. 54r

Eiusdem ad Illustrem Dominum Vitum Petrinum quarto decimo anno natum, qui prò excellentia virtutis Princeps praesentis Achademiae conspicitur. Sexasticon

 

Laudibus es dignus, laudes Petrine mereris,

rethoricas artes dum studiosus amas.

Tu puer egregia fulges Demostenis arte.

Laurea virtutum pendet ab ore tuo.

Sit tibi longa salus, sint Nestoris Anni,

ut Domui Lumen sis, patriaeque decus.

 

Ad Dominam Victoriam Avossa Matrem eiusdem, prae gaudio flentem. Octasticon

 

Mellifluo eloquio nati Victoria gaudes,

et lato ostendis corde tui lacrimas.

Mater amas, et amare licet sine crimine Natum,

virtutum comitem, moribus atque piis

apparent vultu, mentem quae gaudia tentant,

ex oculis meritò fletus ut unda fluit.

Laetare o felix, faciemque ostende serenam,

doctrinis Gnati laeta, iucunda fave.

           

(del medesimo [Scipione Ruggiero] all’illustre Don Vito Petrino a 14 anni, che per eccellenza di virtù viene considerato principe della presente accademia. Esasticoa

 

O Petrino, sei degno di lode, meriti lode, mentre diligente ami la retorica. Tu ragazzo risplendi nell’arte di Demosteneb dalla tua bocca pende l’alloro delle virtù. Abbia tu lunga vita, abbia tu gli anni di Nestorec, affinché tu sia luce per la famiglia e decoro per la patria.

 

A Donna Vittoria Avossa3 madre del medesimo, piangente per la gioia. Ottasticod

 

Tu, Vittoria, godi dell’eloquio del figlio e mostri per il tuo  gran cuore le lacrime. da madre tu ami ed è lecito amare senza distinzione il figlio compagno delle virtù e per i pii costumi appaiono in volto le gioie che accarezzano la mente, dagli occhi a ragione il pianto scorre come onda. Rallegrati, o felice e mostra il volto sereno, lieta del sapere del figlio, gioiosa applaudi)

______________  

a Epigramma di sei versi.

b Famoso politico e oratore greco del IV secolo a. C.

c Fu il più vecchio e il più saggio tra i sovrani greci che, sotto la guida di Agamennone, assediarono Troia.

d Epigramma di otto versi.

 

Le altre carte che ho estrapolato e che ora riproduco costituiscono, per così dire, l’ossatura dell’intero manoscritto. La prima riunione avvenne il 5 marzo 1730, come testimonia la carta che segue

c. 12v

Problema Accademico ove vieppiù approfittara si puose un virtuoso nell’Accademie, ovvero nello solitario studio. Sostenuto nella Casa delli Signori de Leo dalli Signori clerici Don Carmine di Leo, e Signor Don Ortenzio di Leo, e giudicato dal Reverendo Signor Don Francesco Ruggiero Prencipe dell’Accademia a 5 marzo seconda Domenica di Quaresima 1730 Santo Vito

________

a Nel senso etimologico di giovare (quando ancora la collaborazione non aveva assunto il concetto egoistico con cui il verbo viene usato oggi).

 

Spiccano i nomi della famiglia De Leo, soprattutto quello di Ortensio, esperto in legge, archeologo ed antiquario, zio di Annibale, il fondatore della biblioteca brindisina. Le carte 13r-14v riportano l’introduzione all’argomento a firma di Francesco Ruggiero, le 15r-19v l’intervento di Carmine De Leo, le 20r-25r quello di Oronzo De Leo (altro rappresentante della famiglia), la 25v il giudizio di Francesco Ruggiero, lo stesso che aveva introdotto l’argomento. Le carte 26r-36v contengono componimenti poetici di Carlo De Marco, Scipione Ruggiero (molto probabilmente parente di Francesco), Andrea De Leonardis (2), Vito Petrino (4), Oronzo Calabrese (2), Anselmo De Leo (2), Giuseppe Ruggiero (probabilmente parente di Francesco e di Scipione) (2), Francesco Ruggiero (2) (non recitato/come Prencipe non potè recitare), Giuseppe Milone, Ferdinando De Leo.

Di Carlo De Marco la stessa biblioteca conserva molti manoscritti costituenti il fondo del suo epistolario (alcune lettere sono indirizzate a Ferdinando De Leo).

Per quanto riguarda la famiglia De Leo a Carmine ed Ortensio (di lui nello stessa biblioteca si custodisce un manoscritto contenente la Vita di Gianfrancesco Maia Materdona di Mesagne, datata 1780, per cui vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/02/19/mattarella-la-cagnetta-mesagne-larcivescovo-brindisi/) si sono aggiunti Anselmo e Ferdinando, per la famiglia Ruggiero a Francesco si sono aggiunti Scipione e Giuseppe. La partecipazione, tenendo conto del numero dei componimenti inseriti per ciascuno o per ciascuna famiglia, appare abbastanza bilanciata. Al numero di contributi di Vito Petrino potrebbe non essere estraneo il fatto che appartenesse, magari solo per parentela, allo stretto entourage di Fabio Marchese2.

 

La seconda riunione ebbe luogo il 14 giugno 1730, come si legge nella carta che segue.

c. 39r

Problema accademi: se San Vito avesse dimostrato magior costanza nella Fede per non sgomentarsi dalli minaccie de’ Tiranni, o pure per resistere alli vezi di bellissime sonzelle. Sostenuto nella Casa dell’Eccellentissimo Sig. Principe di Santo Vito dalli Signori Dottori D. Giacomo de Leonardis,e Ferdinando di Leo; e giudicato dal Signor Vito Petrino Principe dell’Accademia alli 14 di Giugno vigilia del detto Santo. 1730 ore 22

Le carte 40r-41v  contengono l’introduzione di Vito Petrino, le 42r-45v l’intervento di Giacomo De Leonardis, le 46r-50v quello di Ferdinando De Leo, le 51r-51v il giudizio di Vito Petrino, le 52r-89r i componimenti poetici di Scipione Ruggiero (6, il secondo3 e il quarto4 presentano un tema che ha dei punti di contatto con quanto riportato in nota 2), Andrea Felice De Leonardis (3), Domenico Oronzo Ruggiero (4), Fra’ Rosario Mazzotti di Brindisi, lettore filosofo dell’Ordine dei Predicatori (7; il sesto e il settimo, carte 73r-73v sono in dialetto), Lorenzo  (6), Teodomiro De Leo (4), Giuseppe Giovanni Greco (2), Carmine De Leo (11), Francesco Ruggiero (8), Fra’ Luigi Maria dell’ordine dei Predicatori (2), Fra’ Domenico dei Minori Osservanti, Fra’ Rusino da S. Vito dei Minori Osservanti (3), Fra’ Anselmo da S. Vito dei Minori Osservanti, Salvatore Calcagnuti, Giuseppe Ruggiero, Giuseppe Bardari (5), Ortensio De Leo (2), Giacinto Greco, Cosmo Greco di Taranto (2).

Da notare come ai precedenti sisono aggiunti nuovi nomi, come ai rappresentanti della famiglia De Leo si è aggiunto Teodomiro e come nell’elenco che ho riportato la parte del leone la recitano con il loro elevato numero di contributi Rosario Mazzotti con 7 componimenti e, soprattutto, Carmine De Leo con 11.

La terza riunione ebbe luogo il 5 novembre 1730, come si legge nella carta che segue.

c. 91r

Problema accademico. Qual renda più glorioso un principe: l’uso dell’esatta giustizia, o quello della clemanza? Tenuta in Casa dell’Eccellentissimo Signor Principe di S. Vito a 5 novembre giorno di domenica nell’anno 1730 coll’intervento dell’Illustrissimo D. Cono Del Vermea Vescovo d’Ostuni ad ore 22

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a Fu vescovo di Ostuni dal 1720 al 1747; di lui fu pubblicata la Dichiarazione fatta in favore della causa della venerabile madre suor Rosa Maria Serio carmelitana, s. n., Ostuni, 1747. Di Maria Serio si parlerà più avanti in riferimento a Vito Petrino.

Fino c. 92v prosegue l’introduzione di Vito Petrino Principe dell’Accademia. le carte 93r-100v  contengono l’intervento di Francesco Ruggiero, le 101r-108r quello di Giuseppe Bardari, le 108v-110r il giudizio di Vito Petrino Principe dell’Accademia, le 110v-129r i componimenti poetici di Vito Petrino, Cono Dello Verme Monsignore d’Ostuni (10), Giuseppe Marchese (probabilmente parente di Fabio), Angelo Lauresich canonico d’Ostuni (5), Carmine De Leo (4), Teodomiro De Leo (4), Fra’ Raimondo Arcuti di Ruffano lettore filosofo dell’Ordine dei Domenicani (2, il secondo, a c. 128r è in dialetto leccese), Giuseppe Ruggiero (2).

Altri nomi si sono aggiunti e tra essi spicca, anche per il numero di contributi, quello del vescovo dimOstuni Cono Luchini del Verme.

La quarta riunione si svolse il 17 gennaio 1731, come apprendiamo dalla carta che segue.

c. 129v

Assemblea accademica in occasione del natale dell’Eccellentissimo Signore D. Fabio Marchese tenuta nella Sala del detto Eccellentissimo Signore alli 17 gennaio giorno di mercordì festa di S. Antonio Abbate1731 ad ore 22.

Le carte 130r-140v contengono i componimenti poetici di Carmine De Leo (3, il secondo a c. 134r è ropalico), Ferdinando De Leo (7; il terzo a c. 138v è un anagramma purissimo letterale).

La c. 141r contiene il sonetto introduttivo di Teodoro De Leo alla sua commedia, che occupa le cc. 141v-146r. Le cc. 146v-156v ospitano componimenti di Ortensio De Leo (3), Giuseppe Ruggieri (2), Girolamo Bax, Oronzo De Leo (2), Francesco Ruggiero.

La quinta riunione si ebbe il 2 aprile 1731, come testimonia la carta che segue.

c. 161r

Problema accademico. Qual sia stato maggior portento del Glorioso San Francesco di Paola; l’entrar nel fuoco, e non abbruggiarsi o il passar il mare e non annegarsi. Tenuta nella Chiesa del Convento dei PP. Antoniani di Santo Vito a 2 aprile 1731 lunedì ad ore 21 giorno del detto Glorioso Santo

Le cc. 162r-171v contengono il discorso di Andrea Felice De Leonardis, le 172r-190v i componimenti di Scipione Ruggiero, Giuseppe Giovanni Greco (3), Francesco Ruggiero (2), Carmine De Leo (2), Ferdinando De Leo (5),Teodomiro De Leo (5), Ortensio De Leo (4).

La sesta riunione si svolse il 14 marzo 1731, come attesta la carta che segue.

c. 191r

 

Problema accademico. Qual fusse stato magiore: il piacimento di Modesto nel’aver il Glorioso San Vito abbracciata la fede Cattolica, o la dispiacenza d’Ila nel’aver il detto Santo suo figlio lasciato l’infedeltà? Sostenuta la prima Parte dal Reverendo Signor D. Andrea Felice De Leonardis licenziato in Teologia, e la 2a parte fu sostenuta dal Dottor Signor D. Ferdinando di Leo. E la detta Accademia fu tenuta nella Maggior Chiesa della Terra di Santo Vitoa sotto li 14 del Mese di Giugno del 1731 Giorno di Giovedì viggilia del menzionato nostro Protettore Martire di Cristo Glorioso S. Vito. E s’incominciò ad ore 22 del suddetto giorno. Li discorsi de quali sono l’infrascritti.

14 marzo 1731 ore 22

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a È la chiesa di S. Maria della Vittoria.

Le cc. 192r-197v contengono L’intervento di Andrea Felice De Leonardis, le 198r-203r quello di Ferdinando De Leo; seguono alle cc. 204r-211r i componimenti di Francesco Ruggiero (2), Carmine De Leo, Teodomiro De Leo (3), Ortensio De Leo (4)

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1 Sul tema vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/ 

2 Casimiro di S. Maria Maddalena, Cronica della provincia de’ Minori Osservanti Scalzi di S. Pietro Alcantara, Abbate, Napoli, 1729, tomo I, p. 234: Nell’anno 1698 la Terra di Martano assieme con Calimera dal medesimo D. Orazio Trani, Duca di Corigliano fu venduta a D. Girolamo Belprato Marchese, Principe di Crucoli, e S. Vito. Tomo 3 del Repertor. fog. 594, e Quintern. 185 fog. 86. Questa nobilissima Famiglia: Marchese prese ancora il Cognome Belprato, allorchè D. Giuseppe Marchese Principe di Crucoli, restò erede di D. Pompeo, e D. Bernardino Belprato, Conti d’Anversa in Appruzzo, che morirono senza Figli. A D. Giuseppe succedè D. Girolamo suddetto suo Figlio primo Signor di Martano. Nel mese di Novembre dell’anno 1676, aveva già presa per Moglie D. ELeonora Caracciolo de’ Marchesi dell’Amorosa. Da Lei ebbe il presente D. Fabbio suo Figlio Principe di Crucoli, e S. Vito, e secondo Signor di Martano. A’ 7 di Febbraio del 1700 sposò D. Fulvia Gonzaga, ch’er de’ più stretti Parenti del Duca di Mantova. Egli vive con una generosità, e magnificenza propria di Principe, onde pare, ch’abbia accresciuto maggiore splendore alla sua cospicua Famiglia. Sugli antenati di Fabio Marchese fino a quasi la metà del secolo XVII vedi Ferrante della Marra, Discorsi delle famiglie estinte, forastiere, o non comprese nei seggi di Napoli, Beltrano, Napoli, 1641, pp. 224-236.

3 Giuseppe Gentili, Vita della Venerabile Madre Rosa Maria Serio di S. Antonio, Recurti, Venezia, 1742, pp. 338-340: Molti altri miracoli trovo ancora registrati ne’ processi, operati dalla Serva di Dio nella Terra di S. Vito, uno de’ quali fu in persona dell’Eccellentissimo Signor Principe D. Fabio Marchesi Padrone di detta Terra. Ritrovandosi egli nel mese di Luglio dell’anno 1726 attaccato da Febbre maligna con pessimi segni, e sintomi mortali, e vedendo, che il male ogni giorno più l’opprimeva, senza ricevere giovamento alcuno da tanti medicamenti sperimentati, un giorno, in cui per la violenza del male neppure poteva sofferire un picciolo spiraglio di luce, onde gli conveniva star totalmente all’oscuro, gli sovvenne di ricorrere alla Serva di Dio Suor Rosa Maria, di cui aveva avuto in dono dalla Superiora del monastero di Fasano un Berrettino intriso del suo sangue. Chiamato pertanto un Giovane, che gli assisteva, per nome Vito Domenico Petrini, e fattogli prendere dal suo scrigno il detto Berrettin, con gran divozione, e con viva fede nei meriti della Serva di Di, applicollo alla sua testa, e indi a non molto comandò a’ suoi domestici, che aprissero le Finestre, e ad alta voce esclamò: – Io sto bene, ed ho ricevuto la grazia -. Quasi nel tempo medesimo sopraggiunsero i Medici, e disse loro, che voleva alzarsi, sentendosi bene in salute, per ispeciale miracolo della Serva di Dio; e quantunque i Medici lo trovassero netto di Febbre, nulladimeno non volevano accordargli l’uscir da lett, mentre non avendo egli avuta crisi alcuna, era cosa facile, che ritornasse la Febbre. Ma egli affidato nella protezione della sua liberatrice: – No – soggiunse loro – non tornerà, perché questa è grazia, ed io ho viva Fede nella Serva di Dio, che me l’ha fatta -. E in loro presenza volle alzarsi dal letto, né più lo molestò la Febbre, godendo poi una perfetta salute. Da questa miracolosa guarigione concepì il detto Signor Principe tale affetto, e fiducia verso la Serva di Dio, e tal confidenza nella sua Reliquia, che quante volte deve accingersi a qualche viaggio, la prima cosa, a cui rivolge il suo pensiero, è il premunirsi con la detta prodigiosa Reliquia, tenendo per certo, avere in essa uno scudo contra ogni pericolo, ed un forte riparo da tutte le disgrazie. Per mostrar poi la dovuta gratitudine, si è più volte portato apposta a venerarne il Sepolcro, e le Religiose di quel Monastero riconoscono nella persona di questo Principe uno de’ maggiori  Protettori del loro Istituto, ed un singolar promotore della Santità della loro V. Madre. Lo stesso Vito Domenico Petrini, del quale abbiamo poco di anzi fatto menzione, fu nel mese di Gennaio 1729 sorpreso da un gravissimo dolore di petto con febbre ardente, e affannoso respiro accompagnato da sputo sanguigno, e da un totale stordimento di capo. Li Medici giudicarono essere il male pericoloso, e mortale, perciocché da’ segni esterni argomentavano esser pontura; determinarono però di non applicargli per allora, che erano le 21 ore, rimedio alcuno, volendo aspettare la mattina vegnente, acciò che il male si fosse maggiormente manifestato. La Madre vedendo il Figlio estremamente angustiato, e li Medici molto lenti nell’operare, desiderosa di porgergli qualche presentaneo sollievo, prese una Reliquia della Serva di Dio Suor Rosa Maria (ed era appunto una di quelle pezze intrise nel sangue, che usciva dalle ferite del suo cuore) avuta dalla Superiora del Monastero, applicolla con fede viva al cuore dell’affannato Figliuolo, e poi fece scrivere una lettera alle Religiose del Monastero di Fasano, dando loro contezza del pessimo stato del medesimo, acciocché colle sue orazioni gl’impetrassero dalla Ven. Madre la grazia. Prima però di spedire la lettera, fece ritorno alla Stanza dell’Infermo, ed interrogatolo come se la passasse, egli rispose di star bene, di non sentir più dolore, né affanno, né calore febbrile … Un fratello minore del sopradetto Vito Domenico, chiamato Andrea, non uno, ma due portentosi miracoli ricevette, coll’applicargli Vittoria Accossa loro Madre le Reliquie della Serva di Dio …  

Alla fine del brano riportato apprendiamo che la madre di Vito si chiamava Vittoria Accossa. Su questo nome la carta 54r, che sopra abbiamo analizzato, pone un problema con il suo Vittoria Avossa. Errore del copista del nostro manoscritto o di stampa del volume del Gentili?

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/04/28/la-settecentesca-accademia-di-s-vito-dei-normanni-2-2/

 

 

 

 

 

 

 

L’Arcadia salentina (Tommaso Perrone, Ignazio Viva, Pasquale Sannelli, Pietro Belli e Lucantonio Personè) e la peste di Messina (2/2)

di Armando Polito

Passo ora ai tre arcadi rimasti fino ad ora, almeno per me, sconosciuti.

Il primo è PASQUALE SANNELLI del quale, sotto il nome pastorale di Alfenore (probabilmente dal nome di uno dei compagni di Ulisse in Ephemeris belli Troiani, traduzione fatta nel IV secolo d. C. da Lucio Settimio di un’opera, perduta, scritta in greco da Ditti Cretese, autore del III-II secolo d. C.) sono riportati due sonetti (A e B), rispettivamente alle pagine 54 e 57.

A

Questa, che ricomporsi al fasto usato

e riprender l’onor d’alta Reinaa

del Sebetoa si mira alla vicina

sponda, è l’Italia; e tien fra ceppi il Fato.

Dal suol più adustob, e fin dal mar gelato

ciascun’Abitator sua gloria inchina.

Ceda il Trace, o s’aspetti alta rovina,

se non compie l’onor, che gli altri han dato.

Sì gran sorte serbata al secol nostro

fu per Carlo dal Ciel. Carlo ripose

lei c i nel suo stato del primier valore.

Or se industre scalpello e dotto inchiostro

serbano ad altre Età l’opre famose,

godrà l’Italia d’eternar suo Onore.

___________

a Vedi la nota b del componimento precedente.

b caldo; dal latino adustu(m)=bruciato.

c l’Italia

 

B

Mille cignia sublimi e mille Ingegni

volgan lor penne alla grand’opra e l’arte,

che più che ‘n marmi ad eternarla in carte

tutti ha mossi l’Idumeb i suoi disegni.

D’Orfeoc, d’Omerod in vece, i non men degni,

che onora il secol nostro in questa parte

faccian le Imprese del novello Marte

illustri e conteea’ più remoti Regni.

Io, cui fu il Ciel sì d’arte e ingegno avaro,

che non ispero aver dell’alta fronda

ornato il capo, e gir con quelli a paro,

son pur pago che Apollo ad essi infonda

tanta virtù per Carlo, ond’Ei sia chiaro

del nostro Idumef alla sinistra spondag.

___________

a poeti

b Vedi la nota a del componimento precedente.

c Mitico cantore che col suono della sua lira ammansiva le belve.

d L’aedo dell’Iliade e dell’Odissea.

e note

f Il nesso sembra  un ricalco dal verso iniziale (Del re de’ monti alla sinistra sponda) del petrarchista Angelo Di Costanzo (XVI secolo), che, a sua volta, può essersi ispirato, con le dovute differenze di situazione al ponsi del letto in su la sponda manca (Petrarca, Canzoniere, CCCLIX, 3)

g Vedi nella prima parte la nota b al secondo componimento di Tommaso Perrone.

 

Il secondo è PIETRO BELLI (1680-1750 circa), del quale a p. 79 è riportato l’epigramma in distici elegiaci che fra poco leggeremo, mentre la nota 1 recita: Patrizio Leccese, detto tra gli Arcadi Ario Idumeneo … ci ha fatto avere il presente suo purgatissimo  Componimento, posto nel presente sito, non perché questo sia il suo propio [sic, ma la forma in passato era in uso anche in testi a stampa] luogo, ma solamente perché ci perviene in questo medesimo istante, nel quale il nostro Stampatore cerca por fine alla Stampa della presente Raccolta. Nonostante qui il Belli sia utilizzato come tappabuchi, debbo dire che non mi pare affatto un intruso, perché, come vedremo, l’epigramma riguarda sempre Carlo Borbone, con riferimento alla sfera personale non privo di valenza pubblica. Prima di passare alla lettura dell’epigramma debbo dire che il Belli fu il traduttore dell’edizione napoletana per i tipi di Parrino del 1731 (testo abbastanza raro, tant’è che l’OPAC ne registra solo dieci esemplari, di cui uno custodito nella Biblioteca comunale “Achille Vergari” di Nardò) del Syphilis sive de morbo gallico di Girolamo Fracastoro. Il volume reca la prefazione di Giambattista Vico, preceduta  dalla dedica del Belli a Monsignor Ernesto de’ Conti di Harrac Uditore della Sacra Ruota Romana. Tuttavia, a proposito di quest’ultima  Carlantonio De Rosa marchese di Villarosa nell’edizione da lui curata degli  Opuscoli di Giovanni Battista Vico, Porcelli, Napoli, 1818, a p. 7 in nota 1 scrive:  Quantunque la presente dedica si vegga impressa col nome del traduttore del Poema Pietro Belli, pure da uno squarcio di essa da me ritrovato fra le Carte del Vico deducesi esserne costui stato l’Autore. Ed oltre a ciò dallo stile, e dalle cose che contiene tutte uniformi ai pensieri del Vico, chiaramente si scorge averla egli distesa interamente. E a p. 327 ulteriormente precisa:  Il Signor Pietro Belli gentiluomo Leccese fu dotato a sufficienza di beni di fortuna, ed avendo contratta stretta dimestichezza con Vico l’aiutò bene spesso in urgenti bisogni … Grato il Vico al suo benefattore, ed amico si assunse la cura dell’edizione corredandola di una sua Prefazione, e distendendone anche la Dedica, del che io sono stato assicurato, avendo fra le Carte autografe di Vico ritrovato anche il principio di tale lettera dedicatoria scritta di suo carattere. Tradusse il Belli anche il Satyricon di Petronio, e scrisse molti altri Poetici Componimenti, le quali produzioni sono ite a male. Morì verrso la metà del secolo passato.

Per quanto riguarda il nome pastorale, se Ario potrebbe essere dal latino Ariu(m), a sua volta dal greco ᾿Αρεύς (leggi Arèus), nome di due re di Sparta (meno bene, perché poco confacente ad un arcade, dal greco  Ἄρειος, leggi Àreios, =di Marte, marziale, Idumeneo è certamente connesso con Idomeneo per quanto detto nella prima parte nella nota b al componimento A di Tommaso Perrone.                                                                                

Praesagium

Ad Amaliam

Da Natum Mundo tandem, Regina precanti,

cum Patre, qui regnet, iam seniore, senex.

En quot  regna fili Pater,et quot sceptra paravit,

et quot, vincendis hostibus, arma parat.

Nascere, parve Puer, sed maximus inde futurus,

nascere cunctorum maxime, Patre minor.

 

Presagio

Ad Amaliaa

Dà, di grazia, o Regina, un figlio al mondo che lo chiede,

che regni vecchio insiemecol padre ancora più vecchio.

Ecco quanti regni e quanti scettri del figlio il padre ha apprestato

e quante armi prepara per vincere i nemici!

Nasci, fanciullo piccolo ma destinato poi a diventare grandissimo,

nasci, o il più grande di tutti, minore del padre.

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a Amalia di Sassonia (1724-1760), moglie di Carlo, regina consorte di Napoli e Sicilia dal 1738 al 1759 e di Spagna dal 1759 fino alla morte.

 

L’ordine di entrata, dicono, è importante e il primo e l’ultimo posto sono i più ambiti; per questo chiudo con l’ultimo arcade ritrovato, mio compaesano, LUCANTONIO PERSONÈ di Nardò, che va ad unirsi ad Antonio Caraccio, del quale mi sono occupato a più riprese1. E, per fare le cose come si deve, riproduco in formato immagine il suo componimento.

DI D(ON) LUCANTONIO PERSONÈ

Barone di Ogliastroa, tra gli Arcadi

Alcinisco Liceanitideb

 

Menic i giorni ciascun lieto e sereno

più che non feo nell’aurea età d’Augustod

il Popol di Quirinoe omai vetustof,

della cui gloria il vasto Mondo è pieno.

Poiché sul Trono del sicano adustog,

di Partenopeh bella accolto in seno,

regna il gran Carlo di virtù ripieno

e di trionfi e d’alte spoglie onustoi.

E tempo è già che la Regal Sirena

rimembril i pregi avitime il priscon usatoo

verso ripigli col suo dolce canto,

or chè rimbomba in questa Piaggiap amena

il nome del gran Carlo in ogni lato,

fugati i mali, e già sbanditoq il pianto.

____________

a Antico feudo di Nardò. Vedi Marcello Gaballo, Vicende della masseria e del feudo di Ogliastro in  https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/04/28/vicende-della-masseria-e-feudo-diogliastro/

b Per Alcinisco il riferimento potrebbe essere al greco Ἀλκίνοος (leggi Alkìnoos)=Alcinoo, il mitico re dei Feaci, con aggiunta del suffisso diminutivo -ίσκος (leggi –iscos); Liceanitide potrebbe essere connesso con il greco Λύκειος (leggi Lùkeios)=della Licia, epiteto di Apollo.

c trascorra                                                                                                                                                            

d più di quanto fece durante l’età dell’oro al tempo di Augusto 

e il popolo romano; Quirino era il dio romano protettore delle curie.

f vecchio

g siciliano bruciato (dal sole). Per sicano vedi nella prima parte la nota t al primo componimento di Tommaso Perrone; per adusto vedi anche la nota b al primo componimento di  Pasquale Sannelli.   

h Metonimia per Napoli. Partenope era una delle tre sirene (le altre erano Ligeia e Leucosia) che si suicidarono buttandosi in mare e tramutandosi in scogli, perché battute nel canto da Orfeo secondo una tradizione, per non essere riuscite ad ammaliare Ulisse secondo un’altra. Ad ogni modo, Partenope finì alla foce del Sebeto e lì sarebbe stata fondata Napoli.

i carico

l ricordi

m degli avi, antichi

n antico

o abituale

p paese

q messo al bando, esiliato

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1 Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/17/gli-arcadi-di-terra-dotranto-7-x-antonio-caraccio-di-nardo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/07/antonio-caraccio-di-nardo-e-le-sue-ecfrasi/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/06/antonio-caraccio-nardo-1630-roma-1702-note-iconografiche/

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/04/13/larcadia-salentina-tommaso-perrone-ignazio-viva-pasquale-sannelli-pietro-belli-e-lucantonio-persone-e-la-peste-di-messina-1-2/?fbclid=IwAR36ToHbAWsBK3BlP0zscMfqWEStp6PD5hmmZX4DT-vcMXV_1eWFBrvMLdI

Lecce: quando l’Accademia degli Spioni si schierò contro quella della Crusca

di Armando Polito

Non posso fare a meno di fare a meno, scusate il gioco di parole, della famigerata premessa, ma prometto, augurandomi di mantenerlo, che essa sarà veramente breve. Lo faccio introducendo il vero protagonista di questa storia, cioè il senese Girolamo Gigli (1660-1722): professore di eloquenza all’Università di Pavia dal 1698 al 1708 (si capirà a breve perché lo fu per un solo decennio …), socio delle due più prestigiose accademie di quell’epoca e non solo: l’Arcadia (nella quale ebbe lo pseudonimo di Amaranto Sciaditico) e la Crusca, nonché di altre d’importanza, per così dire, locale: quella degli Intronati di Siena (con lo pseudonimo di Economico), degli Accesi di Bologna e dei Timidi di Mantova, il Gigli fu un letterato i cui punti di forza erano l’arguzia e l’ironia. La vera ironia, tuttavia, è quella che ciascuno manifesta nei propri confronti, il che è forse l’unico modo serio per non prendersi troppo sul serio. Così Girolamo, dopo aver tartassato il bigottismo in Il Don Pilone, ovvero il bacchettone falso (commedia rappresentata a Lucca nel 1711, pubblicata nel 1721), non risparmiò frecciate all’indirizzo della sua stessa famiglia in L’avarizia più onorata nella serva che nella padrona ovvero la sorellina di don Pilone (rappresentata nel 1708 e pubblicata nel 1721) e sistematicamente tra il 1712 e il 1714 le ridicolezze del suo tempo negli Avvisi ideali o Gazzettino.

La premessa che ho annunziato non sarebbe più breve se dovessi citare innumerevoli altre opere del Gigli e non andare direttamente alla pietra dello scandalo: dopo aver curato la pubblicazione di alcune opere di S. Caterina da Siena, da esse egli trasse il Vocabolario cateriniano sostenendo la superiorità del senese sul fiorentino. Si attirò, così, i fulmini della Crusca, che lo espulse, e la pubblicazione del Vocabolario si interruppe nel 1717 alla lettera R (già nel 1708 per lo scalpore suscitato dal Don Pilone aveva dovuto rinunciare alla cattedra universitaria) e il libro venne condannato al rogo. Ecco cosa si legge, annotato a penna, su un esemplare superstite del 1717.

(Questo libro pieno di facezie, e motteggi contro l’Accademia della Crusca, de’ Fiorentini, e d’altre Persone di qualità, e forse di chi ci governa, e regge, non solo a Roma fu proibito per Decreto del Maestro del Sacro Palazzo del 21 Agosto 1717, ma bruciato per le mani del Boia nel dì IX Settembre dell’istesso Anno al Bargello a suono di Campana; oltre l’essere stato l’Autore raso a pubblica voce da 40 Accademici della Crusca a ciò adunati la mattina de’ 2 Settembre di detto mese d’ordine del Serenissimo Principe di Toscana Protettore della predetta Accademia; e l’Autore esiliato da Roma per 40 miglia)

Analogo destino subirà poco dopo Il Don Pilone con decreto del 7 febbraio 1718. Ma andiamo avanti.

Correva il 1° gennaio 1720 e da Lecce partiva la missiva che riproduco integralmente, dopo l’antiporta e il frontespizio del volume I, da Collezione completa delle opere di Girolamo Gigli, All’Aia, 1797, v. II, pp. CLV-CLVII.

La lettera reca la firma di Girolamo Palma, Salvador Perrone ed Ignazio Viva, tutti dell’accademia leccese degli Spioni o Speculatori1. In particolare va detto che un dettaglio accomuna Ignazio Viva2 a Girolamo Gigli: anche lui fu socio dell’Arcadia col nome pastorale di Verino Agrotereo, il che ne fa il più coraggioso dei tre3.

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1 Per saperne di più vedi Archivio storico per le province napoletane, anno III, fascicolo I, Giannini, Napoli, 1878, pp. 150-15 e L’ Accademia degli spioni di Lecce, sua origine, progressi, e leggi: dove si fa menzione nommen de’ viventi, che de’ morti accademici, fondata l’anno 1683 dedicata da Oronzio Carro vicesegretario della medesima al glorioso martire di Cristo, patrizio, e primo vescovo di Lecce, S. Oronzio, Chiriatti, Lecce, 1723 (ristampa anastatica  a cura di Giuliana Iaccarino, Eurocart, Casarano, 2000); Raccolta di componimenti de’ signori accademici Spioni di Lecce composta in occasione della natività del serenissimo primogenito reale infante don Filippo. Intitolata alla maestà di Carlo Borbone dall’illustrissimo signor don Domenico Maria Guarini patrizio, e general sindaco della città di Lecce, Viverito, Lecce, 1747.

2 Per saperne di più vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/11/gli-arcadi-di-terra-dotranto-ignazio-viva-di-lecce-11-x/

3 Dell’Arcadia era socio dal 1715 Tommaso Perrone, pure lui di Lecce (vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/03/gli-arcadi-di-terra-dotranto-10-x-tommaso-perrone-di-lecce/), ma non so se di Salvatore fosse parente e tanto meno di che grado.

 

L’Arcadia salentina (Tommaso Perrone, Ignazio Viva, Pasquale Sannelli, Pietro Belli e Lucantonio Personè) e la peste di Messina (1/2)

di Armando Polito

Della tragedia che si abbattè su Messina dal 20 febbraio 1743 fino al 23 febbraio 1745 (data in cui la città ricevette la certificazione dalla liberazione dal morbo dopo che erano passati nove mesi senza che si registrasse un solo caso di contagio) una relazione dettagliata è nella memoria di Orazio Turriano, della quale riproduco di seguito il frontespizio.

contagio a Messina

Com’era naturale, il flagello destò preoccupazione anche in continente e sul comportamento del governo centrale ecco quanto scrive il Turriano a p. 4: Lodevolissima intanto è stata la condotta del Monarca Carlo Borbone, e de’,suoi Ministri pietosissimi, che non solo scandalizzati non si mostrarono per lo fatal’avvenimento di Messina, ma più tosto ritrassero motivo d’usar seco maggiore pietà, e compassione. La soccorsero a maraviglia, tantochè fu effetto, dopo il Divino aiuto, della reale Munificenza, il non essere rimasta totalmente distrutta come più appresso diremo.

Anche se il Turriano ricopriva la carica di segretario della città e la mia diffidenza nei confronti dei gestori del potere (dal più al meno importante nella scala gerarchica, anche, forse soprattutto, nel settore burocratico) rimane sempre attiva, tuttavia, debbo credergli sulla fiducia, non avendo da esibire prove in contrario.

Se, dunque, il sovrano verosimilmente si preoccupava dei sudditi e si occupava dei loro bisogni (oltretutto il duplice cordone sanitario per impedire che l’epidemia si diffondesse in Calabria funzionò), altrettanto si può dire dei sudditi, almeno quelli leccesi, nei suoi confronti. Infatti il sindaco dell’epoca, Angelo Antonio Paladini in nome della città aveva offerto al sovrano ed a tutta la casa reale di ricoverarsi in Lecce, come Città, che con tutta la Provincia, sotto la Protezione del Gloriosissimo S. ORONZO Primo Vescovo di Lecce, era stata sempre esente dal morbo contagioso, come si legge in un rapporto sulla risposta del sovrano stilato da Francesco Saverio De Blasi Consolo dell’Accademia dei signori Spioni di Lecce a nome della medesima ed indirizzato al sindaco. Tale rapporto, del quale di seguito riproduco il titolo, è all’inizio del secondo volume del Saggio istorico della città di Lecce di Pasquale Marangio, uscito a Lecce per i tipi di Marmi nel 1817 e ristampato da Giuseppe Saverio Romano, sempre a Lecce, nel 1858.

 

Il volume è importante perché una sezione intitolata Componimenti in loda di S. Maestà l’invittissimo Carlo Borbone Re delle due Sicilie comprende versi di autori salentini, tra i quali alcuni soci conosciuti della famosa accademia romana dell’Arcadia (che era stata fondata nel 1690) ed altri molto probabilmente ignorati fino ad ora non solo da me, tanto più che il loro nome non compare in nessuno dei cataloghi della detta accademia. Certo, avrei preferito parlare di loro ad integrazione, sempre provvisoria, della collana Gli Arcadi di Terra d’Otranto  fin qui pubblicata in 20 puntate su questo blog, non in coincidenza della tragedia sanitaria che stiamo vivendo; ma le poesie che presenterò, in cui la celebrazione del sovrano prende quasi il sopravvento sulla tragica esperienza di quel tempo col riferimento, direi apotropaico, a s. Oronzo, possano essere di buon, anzi migliore auspicio per tutti, ma in particolare per coloro che invocano l’aiuto divino dopo aver violentato l’ordine naturale delle cose.

Comincio da TOMMASO PERRONE, del quale, nell’ambito della collana citata, mi ero già occupato in  https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/03/gli-arcadi-di-terra-dotranto-10-x-tommaso-perrone-di-lecce/. 

Le pagine 50-53 e 59 ospitano di lui, rispettivamente,  un carme (A) ed un sonetto (B).

 

A

Questa, che miri ogn’or memoria Augusta

e tanto al suo splendor chiarore aggiunge,

città, che l’ortoa da Malenniob avesti.

è ben dover, c’alla futura etade

passi de’ Figli tuoi. Perché i tuoi Figli,

premendo l’ormec de’ Maggiorid  loro,

sieguanoe ad illustrartif in ogni tempo.

Che bel misto di glorie in lei traluce!

Glorie, che vanno a terminare al Santo

tuo Difensorg da questa Terra al Cielo,

ad emularh quella verace gloria,

ond’Eii fruisce in sì stupende guise.

Il tuo gran Santo ha in Ciel la gloria vera,

che gli cagiona la vision di Dio,

vista soave, che Beato il rende

pe ‘l diffuso piacer, che sempre abbonda.

__________

a nascita

b Secondo la tradizione, discendente di Minosse, fondò Lecce. Ebbe un figlio di nome Daunio e una figlia, Euippa, che andò sposa ad Idomeneo re di Creta.

c seguendo l’esempio

d antenati

e continuino

f darti fama

g S. Oronzo, protettore della città.

h tentare di uguagliare

i Egli (s. Oronzo)

 

Ved’egli Dio, com’è in sè stesso. Vede,

che l’unità della Divina essenza

non contraddica all’esser Uno, e Trino.

Vede ingenito il Padre ed il Figliuolo

dal solo Padre generato e d’Ambo

(come da un sol Principio) procedente

lo Spirtossantok e tutto quel che sempre

a lui dispensa della gloria il lume

in quell’abisso d’infinito Bene.

Ma dalla Terra ha un’altra gloria il Divol,

gloria, c’accidental da noi si noma.

Nasce da quell’onor, dal sacro culto,

c’assi di lui, da’ Templi e sacri Altari,

dalle Colonne, dagli Archi e Colossi

eretti al nome suo: da’ dì festivi

a lui sacrati, dalle molte cere,

da’ lieti fuochi, da’ notturni lumi,

c’ardon per lui, dalle diverse lodi

che gli si danno e dall’immenso Stuolo

c’accorre ad onorarlo. Ei tutto accoglie

in lieto aspetto, e ne dimostra i segni

dal Ciel, donde largisce in copia i doni.

Quindi, se Iddio, per vendicar le offese

che l’uomo ingrato ogn’or gli fa peccando,

scuota la terra, ovver di strage l’empia,

che dal contagio, o dalla guerra nascam,

Ei supplice lassù, pregando, il placa

____________

k Ricorre, invece di Spirito Santo (quasi una resa grafica del concetto di uno e trino), anche in opere in prosa dei secoli scorsi. Qui, però, la scelta era obbligata per motivi metrici.

l divino (S. Oronzo).

m Viene qui ripresa la concezione medioevale del Dio punitore con sciagure di ogni tipo.

 

in tuo favore; e tu sicura osservi

da lungi il colpo dell’ultriceo destra

altrove con furor di già vibrato.

S’avvien che il Ciel da lungo tempo nieghi

l’umor vitalep alle tue piante e accorri

divota all’Ara a lui sacrata, tosto

benigno manda lor l’attesa pioggia.

Se mai le mandre del tuo gregge assalga

spiacevol morbo, che le uccida, basta

che tu le segni con fiducia ferma

del pingue umorq che dalle olive spremi,

che sempre arde in su’ onor presso l’Altare,

e in simil guisa ne riporti lieta

grazie, e favori allor, c’a lui ricorri.

Ma la parte miglior di questa gloria,

c’or dalla Terra al tuo gran Santo ascende,

è quella, che dal Regio onor diriva.

Il Re, accogliendo con pietoso affetto

l’Olio del Santo in auree Ampolle accolto,

che il provido tuo Padre  in don gli porse,

baciolle e in sacri accenti il labbro sciolse,

per onorarlo, in sì divote forme,

che degli Astantir umoris dagli occhi estrasse,

allor che parte del Sicaniot suolo

era di peste nel malore involta.

E a te si espresse, che se il mal seguisse

ad infestar questo bel Regno, il seno

 ____________

o vendicatrice

p la pioggia

q l’olio, simbolo della grazia divina (oleum divinae gratiae)

r presenti

s lacrime

t siciliano; i Sicani, insieme con i Siculi e gli Elimi errano antichi popoli della Sicilia.

 

del tuo ricinto ad onorar verrebbe,

come di tanto mal sicuro asilo.

Or chi sa dunque se invitato e mosso

dall’innata pietà, che in lui risplende,

non porti il culto del tuo Santo dove

bagna il Betiu, la Vistolav e Garonnaw,

non che al vicin suo Regno di Trinacriax?

O chi sa ancor, che non l’avesse un giorno

per la Città Regale, ov’Ei dimora,

ad ottenere in suo Padrone, e Donnoy,

che ben può farlo? e sì a tal gloria aggiunga

gloria maggiore, a sè medesmo ancora?

Ma chi di sì bel fatto e sì bell’opra

ne porta il vanto? Egli è il tuo Padre, e Duce,

che ti governa, e regge. Il Duce, e Padre

è quegli, c’or da Sindaco presiede,

vegghiando in tuo vantaggio. Ei basta solo

che sia dal sangue Paladinz disceso,

per dir che sia di nobiltade adorno.

di generosi spirti, di prudenza,

di senno, di valore e di pietade.

Viva egli dunque il tuo gran Santo in Cielo.

Viva egli in Terra dentro il cuor di Tutti,

e nella lingua. Viva il tuo gran Rege,

che tanta gloria a Lui divoto accresce

e di tal gloria la cagion pur viva.

_____________ 

u Fiume della Spagna; da Baetis, nome latino del Guadalquivir.

v Il principale fiume della Polonia.

w Fiume della Francia.

x Sicilia. Trinacria è l’antico nome, dal greco τρινακρία (γῆ)=(terra) a tre punte.

y signore, dal latino dominu(m).

z La nobile famiglia Paladini, della quale parecchi rappresentanti eccelsero nelle armi (d’altra parte, con quel cognome, sembravano predestinati …)

 

B

Sia principio il gran Carlo, e fine al canto

di nostre rime, o bei cignia d’Idumeb.

Da lui prendiam, nel dir, vigore e lume,

che largo spande oltre i confin del vanto.

Cantiam com’Ei, divoto al nostro Santoc,

renda più Santo il suo Regal costume,

poiché, qual fiamma, ch’altra fiamma allumed, accresce a sua pietà pietade ahi quanto!

Per ciò, benigno, a noi volgendo il petto,

le prove del suo amor ne ha rese contee.

Or quale onor può compensarlo appieno?

Escano a schiere dall’ondoso letto,

e ‘l Regio piè per noi gli bacin pronte

Ninfe e Tritonif onor del bel Tirreno.

____________  

a poeti

b Fiume leccese; vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/04/18/alle-fonti-dellidume-idronimo-inventato/

c S. Oronzo

d illumina; francesismo, da allumer.

e cognite, note.

f creature fantastiche, metà uomo e metà pesce.

 

Passo ora ad IGNAZIO VIVA, integrando quanto già registrato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/11/gli-arcadi-di-terra-dotranto-ignazio-viva-di-lecce-11-x/

Alle  pagine 62 e 93 ii due sonetti (A e B) che seguono.

A

De’ più be’ fiori ornando il crine, e ‘l seno

surge il Sebetoa in fra gli eletti cori

dell’Almeb Ninfe e in mezzo alli splendori

di CARLO passa al mar lieto, e sereno.

Mira intorno le sponde del Tirreno

cinte di Palme, e di veraci Allori;

mira de’ Gigli d’oroc i nuovi onori

sul Po, la Dorad, e sulla Mosae e ‘l Renof.

Mira di CARLO il forte invitto Brando,

che strinse in sua difesa, e per suo vanto

là sul Tebrog in quel Giorno memorando.

Poi si riposa dolcemente a canto

(l’alte Ghirlande dell’Eroe membrandoh)

all’ombra del Reale inclitoi Manto.

 _____________

a Fiume di Napoli.

b che danno vita

c I tre gigli dello stemma.

d Nome generico di due affluenti del Po (Dora Baltea e Dora Riparia).

e Fiume che nasce in Francia e scorre attraverso il Belgio e i Paesi Bassi.

f Tra i più lunghi fiumi europei, attraversa sei stati (Svizzera, Liechtenstein, Austria, Germania, Francia, Paesi Bassi).

g Tevere, dal latino Tibri(m). Allude ai fatti primavera del 1736, quando una serie di gravi abusi commessi a Roma dagli arruolatori napoletani e la violenta reazione popolare portarono a un punto di rottura i rapporti con la Chiesa: ne seguirono l’espulsione del nunzio da Napoli e duri provvedimenti militari contro le popolazioni laziali dalle truppe spagnole di stanza nello Stato pontificio.

h illustre 

 

B

A S. Eccellenza il Signor Marchese di Salasa

 Non perché in te, Signor, l’alto splendore

del Nome Illustre è di sè pago e degno,

sdegnar tu dei che ogni divoto ingegno

del nostro Idumeb offra il suo puro Amore.

Non giugnec, è ver, tanto alto un parco onore

del nostro umile Amor verace segno;

ma pur si appaga di un sincero pegno

di rispetto, e di fede il tuo gran Core.

Movesi il bel desiod che ne conduce

a spiegar l’opre eccelse e in van fa mostra

di giugnere là dove Virtù ti adduce.

Ma godiamo in pensar che l’età nostra,

or che di Astreaf tu sei la guida e il Duce

coll’età degli Eroi si agguaglia, e giostrag.  

___________ 

a Giuseppe Gioacchino di Montealegre, Segretario di Stato e di Guerra.

b Vedi la nota b al componimento B di Tommaso Perrone.

c giunge

d desiderio

e giungere

f Dea greca dell’innocenza e della purezza. Scesa sulla terra nell’età dell’oro, diffuse i sentimenti di bontà e di giustizia ma, disgustata dalla degenerazione morale del genere umano si rifugiò nelle campagne e sopraggiunta l’età del bronzo, scelse di ritornare in cielo dove oggi risplende nell’aspetto della costellazione della Vergine

g gareggia

Nella seconda parte passerò in rassegna gli arcadi salentini dei quali fino ad ora ignoravo l’esistenza, anche se, ribadisco, sarebbe stato opportuno che ben altre circostanze me ne avessero propiziato la “scoperta”. L’augurio è che, tra voglia di conoscere, tenacia, intuito, circostanze magari fortuite ma fortunate ben altri ricercatori giungano presto a conoscere completamente ed a consegnare, cancellandola, alle pagine della storia della medicina la minaccia che incombe.

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/04/16/larcadia-salentina-tommaso-perrone-ignazio-viva-pasquale-sannelli-pietro-belli-e-lucantonio-persone-e-la-peste-di-messina-2-2/?fbclid=IwAR1TWkuUrfKzk5EXpPV2Hjtgu_rMgAPOcbrkTYcxqQaeMzgUpiZMrdgi65Q

Giovanni Bernardino Tafuri di Nardò (1695-1670) e Giovanni dello Presta (1683-1765), il suo insegnante di lettere in difficoltà con l’aritmetica

di Armando Polito

Ciò che sto per presentare potrebbe pure apparire come una testimonianza di narcisismo particolarmente diffusa nei secoli passati, se non fosse che essa, tuttavia, permane nei nostri giorni sotto le forme della dedica, della prefazione e della postfazione (queste due ultime, addirittura, non raramente multiple). La prima, la dedica, magari era solo un po’ più sfacciata di oggi, perché sbattuta in faccia già a partire dal frontespizio. E da questa comincio. Nel 1727 usciva  per i tipi di Oronzo Chiriatti a Lecce un’edizione del De situ Iapygiae di Antonio De Ferrariis alias Galateo (1444-1517) curata da Giovanni Bernardino Tafuri e  dedicata a Giovanni Nicastro, vescovo di Claudiopoli.

La dedica annunciata nel frontespizio ha il suo svolgimento nelle cinque pagine iniziali, cui seguono nella successiva due imprimatur. Inizia, poi, quella che oggi chiameremmo prefazione e che all’epoca consisteva per lo più in componimenti, naturalmente anche loro elogiativi, in latino (esametri o distici elegiaci). Essa consta di un componimento di Ignazio Maria Como (sul quale sorvolerò per non tediare il lettore ed anche perché non è funzionale a quanto fra poco vedremo), cui segue la pagina che riproduco, aggiungendo, come ho fatto per il frontespizio la traduzione e qualche nota di commento.

a Inizia la parte, per così dire, enigmistica dell’elogio in cui 69, 113 e 69 dovrebbero essere  i totali risultanti dalla somma del posto che ciascuna lettera che compone ogni parola ha nell’alfabeto. Dico dovrebbero perché i conti non tornano: infatti, se 69 nasce correttamente  da 10+15+1+14+14+5+19 e 44 da 1+11+2+1+7+5+17, lo stesso non è per 69, in quanto  la somma di 18+1+6+19+16+19+17 è 96 e il totale di 69+113+96 è 278. A questo punto il creatore del giochetto dev’essersi distratto (o ha barato), per cui, invece di segnare 96, ha segnato l’inverso, cioè 69 e poi, operando la somma di 69+113+69 ha ricavato il totale definitivo di 251. La matematica, probabilmente, non doveva essere il cavallo di battaglia del nostro enigmista perché nella seconda parte, se 16 nasce correttamente da 5+3+3+5, lo stesso non può dirsi per 93, in quanto 17+13+10+20+5+12+17 dà 94, mentre corretti sono 44 (da 1+11+2+1+7+5+17) e 98 (da 14+16+9+13+16+19+11).

Il totale corretto (16+94+44+98) è 252. il 251 che si legge è figlio del 93 invece di 94, errore indotto, anche qui non so dire quanto in buona fede, dalla necessità che la somma fosse 251, cioè uguale a quella della prima parte, a sua volta, come abbiamo visto, figlia di errore. Probabilmente l’intera frase piaceva troppo e non sarebbe stato facile cambiarla in un’altra di senso compiuto (e che anche aritmeticamente fosse corretta), dal momentio che tradotta suona così: GIOVANNI BERNARDINO TAFURI, ECCO CHI RISOLVE I DUBBI DEI PREDECESSORI (il riferimento è alle difficoltà incontrate dai precedenti commentatori dell’opera del Galateo).

E il giochetto piacque tanto all’autore che pensò bene di incastonare la seconda parte dell’anagramma nel componimento in distici elegiaci che viene subito dopo. Così apprendiamo che l’autore di entrambi  è Giovanni dello Presta precettore del Tafuri.

b Epiteto di Atena, dea greca della guerra, ma anche della sapienza e delle arti.

 

Non tutto il male viene per nuocere, perché, se l’inserimento di quanto appena esaminato fu un atto narcisistico1, senza di esso, tuttavia, non avremmo conosciuto il nome di chi seguì il Tafuri negli studi letterari e nulla di lui ci sarebbe pervenuto. Provvide poi un discendente di Bernardino a fornirci qualche altro dato. Si legge in  Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò stampate ed annotate da Michele Tafuri, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1848, v. I, p. 494, dopo altri nomi di autori che diedero lustro a Nardò: Giovanni dello Presta. Nacque a 22 novembre 1683, e morì agli 11 di marzo 1765. Fu prete, e di poi eletto canonico della chiesa cattedrale di Nardò da monsignor Sanfelice. Fu maestro di lettere amene nel Seminario Diocesano della stessa città di Nardò. ________

1 Ridimensionato, però, dal fatto che l’anagramma e l’epigramma non compaiono nella successiva edizione inserita in Angelo Calogerà (a cura di), Raccolta d’opuscoli scientifici, e filologici, Zane, Venezia, 1732, tomo VII, pp. 35-205.

 

Francavilla Fontana: una probabile superfetazione celebrativa del suo stemma?

di Armando Polito

Nella Biblioteca Pubblica Arcivescovile “Annibale De Leo” di Brindisi è custodito un volume manoscritto (ms_B/62 ) della prima metà del XVIII secolo dal titolo Copia de “Constitutiones Religionis Clericorum Regularium Pauperum Matris Dei Scholarum Piarum”. Le carte 1r-50v contengono il testo delle Constitutiones come vennero promulgate da Gregorio XV il 31 gennaio 1622, dopo che aveva elevato la compagnia ad ordine regolare il 18 novembre 1621. Le carte 50v-51v ospitano il breve pontificio che le accompagna; le carte 52r-52v contengono l’indice. In calce all’ultima carta (52v) compare lo  stemma che ho appena riprodotto e che replico con a fronte quello attuale.

 

Sulla fondazione delle Scuole Pie a Francavilla Fontana un quadro esauriente è quello tracciato da Pietro Palumbo in Storia di Francavilla, Tipografia editrice salentina, Lecce, 1869, pp. 171-174, in cui ricostruisce il ruolo avuto da protagonisti quasi a gara tra loro. Andrea Imperiali rimasto fino al 1677 in Genova, dove aveva sposato Pellina Grimaldi, sorella del principe di Monaco, nel 1678 si trasferì a Napoli distinguendosi per la munificenza, ma trascorse gli ultimi mesi della sua vita a Francavilla, dove morì il 25 novembre di quello stesso anno, dopo aver dettato le sue ultime volontà al notaio Paolo La Marina.

Di chi doveva egli ricordarsi? Certamente dei suoi poveri, e dei vassalli che da un anno appena aveva conosciuti! Lasciò molti legati pii e fra questi ducati duemila da comperarne beni, per introdurre i Padri delle Scuole Pie, e di questo lasciò l’esecuzione alla madre e alla moglie, tutrici del figlio Michelino … Brigida e Pellina Grimaldi1 aperto ai 28 novembre il testamento del defunto principe Andrea, e conosciute le disposizioni, s’affrettarono ad eseguirle. Comperarono a nome dei Padri delle Scuole Pie mille ducati di censi da Giuseppe Maddalone di Lecce; altri ducati settecento cinquantasette investirono in una masseria su quel di Ceglie. All’annunzio del testamento di suo fratello Giuseppe Renato Imperiale, allora chierico della Camera Apostolica, volle concorrere a beneficare il suo luogo natio (essendo egli nato ai 28 aprile 1651 nel Castello di Francavilla) e vi aggiunse il dono di altri cinquecento ducati. L’Università la quale ammirava il lustro che derivava alla Terra da questa fondazione, entrò terza a gareggiare con gl’Imperiali e dopo Parlamento tenuto il 7 luglio 1680 entre tre mesi ottenne regio assenso di permutare alcuni ulivi e case vicino la chiesa di S. Sebastiano A questo l’Università aggiunse un’annua rendita di ducati trecento assicurata su diversi dazi. Niente più mancava per l’introduzione dei padri, nemmeno il consenso del Papa e quello di monsignor Cuzzolini vescovo di Oria, per la qual cosa il 20 gennaro 1682 giunti da Brindisi il P. Gregorio da San Gennaro, P. Giuseppe da S. Giovanni, P.Francesco da S. Lorenzo e P. Felice M. da S. Vittore, ricevettero dalle mani del Dr Giuseppe Benaducci sindaco dell’Università il possesso del luogo e ne ascoltarono i patti in presenza del Notare Marrucci . I monaci promisero “e solennemente (adoperiamo le parole della scrittura) s’obbligarono d’allora in poi  fondare la loro casa o convento nella Terra di Francavilla e proprio nella chiesa di S. Sebastiano ed ivi fare le scuole con imparare tanto grammatica quanto altre dottrine ai figliuoli e giovani da essere approvati dal loro superiore, dal Marchese e dall’Università, con ogni carità a zelo in conformità delle loro Regole e Costituzioni, con mettere le suddette scuole ad ogni richiesta della M. Università.2

Per quanto riguarda l’origine dello stemma, ecco cosa si legge in Giovanni Battista Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva, Parrino, Napoli, 1703, tomo II, p. 120: Nel 1310 il Principe [Filippo I D’Angiò, principe di Taranto] cominciò la fabbrica della Collegiata cento passi in circa lontana dalla Villa del Salvadore, dove poi dagl’Antichi fu trasportata la Sacra Imagine, e perché concorrevano d’ogni tempo le genti ad ottenere molte grazie, il Principe osservando la gran divozione de’ Popoli, publicò per i contorni, che donava à chi voleva venire à fabricare vicino à detta Villa, comodità di poderi gratis per dieci anni, franchi, ed immuni d’ogni peso, e però le diede nome di Francavilla, alla quale dal medesimo Principe fu dato all’Università Francavillese per impresa l’Olivo simbolo della pace, e dell’Abondanza.

Confrontando l’aspetto attuale dello stemma con quello del manoscritto, l’attenzione è subito attratta dai due putti alati che sorreggono lo scudo. Mi chiedo se questo dettaglio sia puramente decorativo o abbia una funzione più complessa, alluda, cioé, ad un’informazione supplementare.

A  Francavilla nella chiesa di S. Sebastiano l’altare dedicato a sant’Elzeario de Sebran reca uno stemma che è stato oggetto di dettagliato studio da parte di Marcello Semeraro, del quale è pure la foto che di seguito riproduco3.

Si tratta, egli ci ci informa, dello scudo di Irene Delfina di Simiana (1670*-1725), figlia di Carlo, marchese di Pianezza e principe di Montafia, e di Giovanna Maria Grimaldi. Nel 1691 andò sposa a Michele Imperiali (*1673-1738), principe di Francavilla, acquisendo, così, il titolo di principessa. Lo scudo reca, perciò, a sinistra per chi guarda l’insegna degli Imperiali (di argento, al palo cucito di oro, caricato di un’aquila col volto abbassato di nero, coronata di oro, a destra quella dei Simiana di Piemonte (di oro, seminato di gigli alternati a torri). Irene Delfina, continua il Semeraro, fu, in virtù di una speciale devozione al santo4, la committente dell’altare a lui dedicato.

Chiudo con una raffica di domande, la cui sintesi era già nel titolo e alle quali, essendo, oltretutto, totalmente digiuno di araldica, non so rispondere. La presenza dei due putti nello stemma del manoscritto è casuale, oppure fu ispirata proprio dall’analogo dettaglio di quello dell’altare? Se è così, è legittimo supporre che esso sia la sintesi grafica di quanto a proposito degli attori protagonisti della fondazione dell’ordine è detto nel brano su riportato del Palumbo, cioè Imperiali/Grimaldi, con successivo aggiornamento/coinvolgimento Simiana (cui, oltre ai putti, potrebbero essere riferiti i tre gigli che campeggiano sul pino?),  e l’Università (per la parte dello scudo coincidente con lo stemma attuale)?

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1 Su Brigida Grimaldi vedi Castrignano dei Greci, Francavilla e il Principato di Monaco in https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/07/castrignano-dei-greci-oria-francavilla-principato-monaco-12/

2 Op. cit., passim

3   Note di araldica: lo stemma della principessa di Francavilla Irene Delfina di Simiana, in Il delfino e la mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn. 6-7, gennaio 2018, pp. 441-443

4 Le figure del santo di origine francese e di sua moglie, la beata Delfina di Signe, ispirarono infatti l’onomastica dei primogeniti usciti dal matrimoniotra Carlo di Simiana e Giovanna Maria Grimaldi (op. cit, p. 443)

La Terra d’Otranto nel ricordo di un viaggiatore olandese del XVIII secolo, ovvero una grande occasione mancata

di Armando Polito

Jacques Philippe d’Orville nel ritratto di Jan Maurits Quinkhard (1688-1772) custodito nella Bodleian Libraries dell’Università di Oxford

 

Sarebbe riduttivo catalogare Jacques Philippe d’Orville (1696-1751), è lui il viaggiatore del titolo, come un protagonista, anche se tra i più importanti, del Grand Tour, un fenomeno che durò dal XV al XVIII secolo e che vide l’incontro tra i resti della cultura classica in Italia e giovani artisti, aristocratici e uomini di stato.

Per il filologo, storico e poeta neolatino1 olandese, infatti, il viaggio in Italia, iniziato verso la fine di aprile del 1727,  fu determinante per la sua carriera universitaria, grazie all’acquisizione accurata di tutta la documentazione possibile sulle fonti letterarie  latine e greche relative ai luoghi visitati.

Fa perciò rabbia a noi salentini che proprio il suo passaggio per la Terra d’Otranto sia stato molto fugace, aleggiando uno strano pericolo, addirittura di morte, come fra poco leggeremo. Chissà quanto e cosa di noi e sul nostro passato sicuramente l’olandese avrebbe scritto, anche se la meta privilegiata del viaggio era la Sicilia, come mostra chiaramente il frontespizio dell’opera, uscita postuma, da cui ho tratto la pagina 273, che ci riguarda, facendola seguire dalla mia traduzione!

Si  dice che dal Promontorio Lacinio fino allo Iapigio o Salentino, oggi Capo di S. Maria, c’è uno spazio di circa settanta miglia, che forma il golfo di Taranto. Al centro del golfo la vista verso l’uno e l’altro lido è gradevole. Nel pomeriggio abbiamo avvistato  Gallipoli ma non potendo fruire di un vento  favorevole  non abbiamo potuto in questo giorno entrare in porto. Infatti l’impeto del mare ci ha sospinti contro un vento  abbastanza forte per alcune miglia. In queste zone per lo più il vento cambia e verso sera suole cadere. Gallipoli pure da lontano appare abbastanza magnifica, perché tutte le pareti degli edifici sono imbiancate col gesso. Essa è sita su una piccola isola unita al continente da un ponte.  Sebbene sia antica, non mi sono imbattuto in nessun rudere, è difesa da una modesta rocca e da altre fortificazioni. Ci eravamo proposto di visitare Otranto, Brindisi, Taranto ed altre celeberrime città dell’Apulia ma ci distolsero dal proposito  gli amici, i quali affermavano che a questi posti pericolosi e in tempo  autunnale e di per sé non ci si poteva avvicinare senza incombente pericolo di morte e qui consigliavano di attendere una stagione più mite. Ma non avendo già tenuto conto abbastanza spesso di tali presagi con esito felice, preferimmo correre qualsiasi rischio piuttosto che morire di noia in questa cittadina.  Decidemmo dunque di dirigerci verso Napoli a cavallo quanto più attentamente possibile. La mattina presto del 17 agosto partiti in carrozza  giungemmo a Lecce dopo mezzogiorno per una strada molto accidentata. Vicino abbiamo lasciato a sinistra Nardò, un tempo Nerito sita in un posto ameno ed aperto. La città di Lecce ha molti abitanti, tanto elegantemente edificata che sotto quest’aspetto non la paragonerei a nessun’altra. Le case e tutti gli edifici  sono in massima parte elegantissimi in candide pietre quadrate estratte nei paraggi. Questa pietra è molto facile da estrarre: infatti comincia dalla stessa superficie della terra e non si spinge oltre i dieci piedi. Quasi tutte le città dell’Apulia fino a Barletta sono state costruite con una pietra quasi uguale, ma non tanto elegantemente. Ma avendo accelerato questo passaggio, infatti indugiare non sembrò sicuro, non abbiamo potuto osservare nulla degno di essere riferito. Partiti da Lecce all’inizio della notte, compimmo quattro tappe di un viaggio non pessimo, lasciata a destra Brindisi fino ad un luogo ridente chiamato S. Vito. Da qui fino a Bari la via è sassosa e da ogni parte ci sono oliveti.

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1 Non a caso nel corso del suo viaggio ebbe occasione di intrattenere rapporti con moltissimi soci dell’Arcadia, l’accademia romana fondata nel 1690 che al mondo classico s’ispirava: Francesco Valletta, Francesco Beretta, Francesco Farnese, Ludovico Antonio Muratori, Scipione Maffei, Giovanni Antonio Volpi, Domenico Lazzarini, Apostolo Zeno, Giovanni Battista Recanati, Giusto Fontanini, Domenico Bianchini.

VIRUS, OVVERO LA VALENZA PROFETICA DI ALCUNE PAROLE

di Armando Polito

Tanto per non cambiare, chi ci dovrebbe rappresentare, soprattutto all’estero, sembra continuare a perdere l’occasione per dimostrare, parole alla bocca, chi siamo, anzi dovremmo essere, se la cultura nel nostro paese avesse un minimo di considerazione. Così, dopo i problemi di “waind” accampati a suo tempo da Alfano a giustificazione di un ritardo, l’attuale ministro degli esteri ci ha deliziato di recente col suo “vairus”, infilato, per giunta,  in un discorso in italiano. Voglio essere generoso e lasciarmi prendere dall’infondato sospetto che la sua intenzione era quella di ingraziarsi le simpatie di quel genio, e tanto altro ancora …, di Trump. D’altra parte non ci si può illudere che i collaboratori e gli addetti alla comunicazione, anche loro pagati profumatamente con i nostri soldi, siano ad un livello culturale, come teoria pretenderebbe, almeno un gradino superiore rispetto a quello di chi li fa mangiare. Sotto questo punto di vista la situazione è identica a quella che intercorre tra il livello culturale degli elettori e quello degli eletti. Tornando al “vairus”, c’è da dire che, nel quadro dell’anglofilia imperante, siamo caduti dalla padella inglese nella brace americana, perché i figli di Albione almeno pronunciano così come sono scritte le parole derivanti dal latino, che non sono poche. Per non scomodarne una caterva tra quelle scientifiche, mi limito a citarne solo una di uso comune, anzi comunissimo: “monitor”.  Essa tal quale dal latino, in cui significa in generale suggeritore, consigliere (da monère=informare; in senso specialistico, poi, monitor era il servo  che suggeriva al padrone il nome delle persone che incontravano per strada. E virus? Appartiene alla seconda declinazione, i cui nomi al nominativo escono in -us (o in -er o in -ir) quando sono maschili (pochi i femminili solo in -us, per lo più nomi di piante) quando sono maschili e in -um quando neutri. “Virus”, che in latino significa “veleno”, rappresenta un’eccezione, perché, pur uscendo in -us, non è di genere maschile né femminile, ma neutro e presenta solo il singolare.  Siccome, poi, le disgrazie non vengono mai da sole, esso, sempre al singolare, è usato solo nei casi diretti (nominativo, accusativo e vocativo), mentre in quelli indiretti (genitivo, dativo e ablativo) viene adoperato “venenum” (da cui il nostro “veleno”). Tutto questo per evitare che alcune forme da esso assunte nella declinazione seguendo l’usuale procedura creassero confusione con le omofone di altri sostantivi come “vir” (che significa “maschio”, “eroe”) e di “vira” (che significa “donna”). Di seguito le “mutazioni” cui si è dovuto sottoporre “virus”. In questo e nei successivi specchietti il grassetto in  contraddistingue le forme “vietate”.

* La mutazione, che nel singolare si manifesta solo nei casi obliqui, qui li coinvolge tutti. Essendo di genere neutro, avremmo dovuto avere i casi diretti terminanti in –a (ma ciò avrebbe creato confusione con il femminile singolare vira, mentre nei casi obliqui la confusione sarebbe avvenuta con il maschile plurale viris.

Oltre a VIRUS e a VIR, però, c’è un altro sostantivo, questo della terza declinazione, che significa “forza”: VIS. Anche lui è un povero disgraziato, nel senso che nei casi indiretti del singolare è integrato da quelli corrispondenti di ROBUR (da cui i nostri “rovere” e “robusto”), che significa “quercia e, per traslato, “robustezza”. Ecco la sua declinazione con le mutazioni alle quali si è dovuto adattare.

*A differenza del singolare, conserva il suo tema (vir-) perché le forme da esso generate non comportano nessun rischio di confusione.

Non è un caso che VIS, VIR e VIRUS appaiano come tre incarnazioni del concetto di “forza” (basti pensare ai derivati: non tanto “virtù” (pure nativamente riferita a quella militare) e “virilità” (di solito confinante col “machismo”) quanto “violenza” e “virulenza”. Vale la pena riflettere, però, sul fatto che la “forza” umana, che troppo spesso è solo “violenza”  deve fare i conti con la “forza” della natura, della quale la “virulenza” degli agenti patogeni, forse soprattutto di quelli parzialmente o, peggio, totalmente “nuovi”, rappresenta il normale, da noi meritato  portato.

C’è solo da augurarsi che il Covid-19 incontri un destino più o meno simile a quello del suo nome comune, che, cioè, subisca mutazioni di poco rilievo rispetto al “modello” originale, tali da creare, al massimo, una confusione passeggera tra i ricercatori e che questi trovino rapidamente la soluzione, come, presumibilmente in poco tempo, la trovarono i parlanti, nostri ascendenti, per “virus” individuando e sostituendo quei segmenti causa di confusione e di probabili equivoci. Poi, nel XXI secolo, con  “vairus” pure il nominativo avrebbe subito una mutazione, quella dell’ignoranza e del “trendysmo”, contro la quale non c’è vaccino che tenga.

 

 

Dialetti salentini: spichettu

di Armando Polito

La voce è usata da tempo solo nella locuzione trasire ti spichettu, corrispondente all’italiana entrare di straforo, intrufolarsi. Essa trae origine dal lessico sartoriale, in cui spichetto è sinonimo di gherone (dal germanico gairo=punta del giavellotto), lembo triangolare di stoffa applicato in passato (quando anziché buttare si adattava …)  alle cuciture laterali di un capo di vestiario, specialmente una camicia, per aumentarne l’ampiezza1. Trasire2 ti spichettu, perciò, è il frutto di un doppio slittamento metaforico (punta del giavellotto>pezzo di stoffa triangolare o gherone>inserirsi come un gherone).

Lo stesso processo è ravvisabile nell’italiano intrufolarsi, che ha comportato un doppio slittamento metaforico in quanto composto da in (=dentro)+trufolare =frugare, rimestare, denominale da un latino *tufer, variante del classico tuber (da cui tubero), incrociato, per di più, con grufolare (è il raspare il terreno col muso cercando cibo e grugnendo, tipico del maiale e del cinghiale). Ed a tuber pare collegarsi tartufo, che per i più deriva da terrae=della terra+*tufer/tuber 3 e con quest’etimo è connesso anche trifolare, essendo da trifola, voce settentrionale alterazione del latino tardo tubera (plurale, usato con valore collettivo, del classico tuber). A coronamento di questo festival degli slittamenti semantici concludo dicendo che, partendo dai connotati sotterranei e nascosti di ogni tubero e del tartufo in particolare, quest’ultimo poteva sfuggire al periodo letterario che segna il trionfo della metafora, cioè il Barocco?  E così esso è pure l’appellativo riservato  a chi ostenta falsa bontà e devozione religiosa, inventore Molière con il suo Le Tartuffe ou l’Imposteur. Ancora una volta il mondo vegetale scomodato per stigmatizzare un difetto umano. Ma almeno il tartufo, quello vero, può rivendicare nei confronti dei suoi simili vegetali come la zucca, il cetriolo, il finocchio, una quotazione di mercato di altissima rilevanza …

La lunga parentesi dedicata al tartufo mi stava quasi facendo sfuggire il fatto che nulla ho detto sull’etimo di spichettu4. Tolto l’evidentissimo suffisso diminutivo (il triangolo di stoffa deve giocoforza essere molto piccolo rispetto alla camicia da allargare), rimane spic-, tema del latino spica=punta (e lo spichettu è di norma un triangolo isoscele), da cui il nostro spiga, spigolo, e spicchio. In italiano sarebbe stato spichetto e infatti, anche se i moderni vocabolari non lo registrano, spichetto s’incontra in pubblicazioni del passato. L’immagine che segue è tratta da Tariffa generale della riscossione de’ dazi doganali nel Regno di Napoli, Stamperia reale, Napoli,1789, p. CXIX.

Tenendo conto che il palmo è equivalente a poco più di 26 cm e la canna a 2,10 m, ne risulta una stoffa che in larghezza ben si prestava a ricavarne aggiunte; e questo sarebbe sufficiente ad escludere che il riferimento sia alla tessitura spigata. Che spichetto, poi, sia l’italianizzazione di una voce napoletana o, comunque, meridionale me lo fa pensare il fatto che esso ricorre anche al di fuori del Regno di Napoli, come mostra l’immagine successiva tratta da Capitoli del Consolato dell’arte della seta di questa nobile, fedelissima ed esemplare città di Messina, Chiaramonte e Provenzano, Messina, 1727, p. 26.

E, infine, a sostegno dell’origine napoletana, in Vocabolario napoletano-toscano domestico di arti e mestieri di Raffaele D’ambra, Chiurazzi, Napoli, 1873, p. 487.

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1 In araldica è una pezza triangolare delimitata da due linee che si incrociano al centro dello scudo; in marina è un rinforzo applicato alla vela nei punti di maggiore sforzo e logorio

2 Dal latino transire=entrare, composto da trans=oltre+ire=andare.

3 Il calabrese tiritùfulu sembra confermarlo.

 

La terra d’0tranto in una sorta di guida francese del 1656 non indenne da “grandeur”

di Armando Polito

1 Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/25/gallipoli-le-cavallette-e-i-gabbiani/

2 Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/11/il-ponte-tra-otranto-e-apollonia-con-uno-sguardo-al-presente-e-purtroppo-anche-al-futuro/

3 Singola unità familiare soggetta a fiscalità; in particolare su esso si basava la tassa personale detta focatico.

4 È l’episodio delle guerre civili noto come l’assedio di Brindisi (49 a. C.).

5 E furono le cosiddette guerre pirriche, condotte da Pirro alleato dei Tarantini contro i Romani dal 280 al 275 a. C.

6 Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, II, 11: Eodem tempore Tarentinis, qui iam in ultima Italia sunt, bellum indictum est, quia legatis Romanorum iniuriam fecissent. Hi Pyrrum, Epiri regem, contra Romanos in auxilium poposcerunt, qui ex genere Achillis originem trahebat. Is mox ad Italiam venit, tumque primum Romani cum transmarino hoste dimicaverunt. Missus est contra eum consul P. Valerius Laevinus, qui, cum exploratores Pyrri cepisset, iussit eos per castra duci, ostendi omnem exercitum tumque dimitti, ut renuntiarent Pyrro quaecumque a Romanis agerentur. Commissa mox pugna, cum iam Pyrrus fugeret, elephantorum auxilio vicit, quos incognitos Romani expaverunt. Sed nox proelio finem dedit; Laevinus tamen per noctem fugit, Pyrrus Romanos mille octingentos cepit et eos summo honore tractavit, occisos sepelivit. Quos cum adverso vulnere et truci vultu etiam mortuos iacere vidisset, tulisse ad caelum manus dicitur cum hac voce: se totius orbis dominum esse potuisse, si tales sibi milites contigissent (Nello stesso tempo ai Tarantini, che sono nell’Italia meridionale, fu dichiarata guerra poiché avevano offeso gli ambasciatori dei Romani. Essi contro i Romani chiesero aiuto a Pirro, re dell’Epiro, che traeva origine dalla stirpe di Achille. Egli venne subito in Italia e allora per la prima volta i Romani combatterono con un nemico d’oltremare. Fu inviato contro di lui ilconsole Publio Valerio Levinio, il quale, avendo catturato i ricognitori di Pirro, comandò che fossero condotti per l’accampamento, che fosse mostrato loro tutto l’esercito e che poi fossero lasciati andare per riferire a Pirro tutto ciò che dai Romani si faceva. Attaccata subito battaglia, Pirro, mentre si dava già alla fuga, vinse con l’aiuto degli elefanti dei quali I Romani, non conoscendoli, ebbero paura. Ma la notte pose fine al combattimento: Levinio tuttavia durante la notte fuggì, Pirro catturò milleottocento romani  e li trattò col massimo onore, seppellì quelli uccisi. Si dice che, avendoli visti giacere pure da morti col petto ferito e con lo sguardo fiero, levò le mani al cielo dicendo che gli sarebbe stato possibile essere il padrone di tutto il mondo se gli fossero toccati tali soldati).

7 Qui considerata come appartenente alla Terra d’Otranto per la sua posizione al confine con l’odierna provincia di Taranto.

8 Oggi Mottola.

9 Oggi Nardò.

10 Si tratta del tentativo di Enrico II di Lorena, duca di Guisa, d’impadronirsi del Regno di Napoli.

11 Cesare Miroballo; acquisì il titolo di principe di Castellaneta nel 1633 alla morte della moglie Giovanna Bartirotti d’Aragona, marchesa  d’Illicito e 4a principessa di Castellaneta. Da notare come l’autore della guida, dopo le notizie datate sulle altre località, ha voluto chiudere la sua descrizione della Terra d’Otranto con un episodio recentissimo riguardante Castellaneta, in omaggio a quello spirito di grandeur che non ci rende certo simpatici i nostri cugini francesi …

Dialetti salentini : benettanima e cancarena

di Armando Polito

Se dovessi sintetizzare con un’espressione semplice e da tutti comprensibile  le caratteristiche che per motivi opposti contraddistinguono i due vocaboli, potrei direi che c’è chi perde e c’è chi acquista. Nel nostro caso in linguistica il primo fenomeno si chiama sincope, il secondo epentesi.

Benettanima è ciò che resta, addirittura, di un’originaria locuzione benedetta anima.

Sistemato il vocabolo sul piano formale,  va aggiunto che l’appellativo è riservato al trapassato e, siccome i morti meritano, comunque, rispetto, non deve far meraviglia se benettanima è chiamato pure chi in vita ne combinò di cotte e di crude, tanto da essere definito, magari anche dai parenti più stretti, fino a qualche istante prima di spirare, nna cancarena.

E qui siamo ad una voce in cui si osserva l’epentesi di a rispetto a cancrena. Il fenomeno è antico e non esclusivo del salentino e dei dialetti meridionali, tant’è che ricorre in testi di medicina del XVI secolo  (p. e. : in Camillo Ferrara, Nova selva di cirugia,  Carampello, Venezia, 1596.  p. 92r si legge:  Prima, acqua, e buona per le piaghe vecchie, et il cancaro, et cancarena , et lupa …; tuttavia ho l’impressione che nel salentino l’epentesi assolva ad un’esigenza più di enfasi espressiva che di facilitazione articolatoria.

 

Dialetti salentini: ‘mpiticunare

di Armando Polito

Appartiene alla vastissima serie di vocaboli legati alla civiltà contadina e perciò il primo che l’inventò ed i successivi utenti a loro insaputa utilizzarono quella figura retorica che si chiama similitudine. Ora che la civiltà contadina non è più in contrapposizione rispetto a quella che in passato poteva essere chiamata “dotta” e ha instaurato un rapporto con la natura teso unicamente al profitto (nell’immediato massimo e col minimo costo) per il quale il rispetto della natura, e non solo, poco o nulla conta, la sola etimologia è in grado di ricostruire, ma non di recuperare …, valori, anche estetici, universalmente considerati obsoleti, con il rischio, fra l’altro, che la sua ricostruzione non procuri nemmeno un momento di riflessione o, addirittura, sia non compresa o fraintesa.

In ‘mpiticunare vanno isolati due segmenti: il primo è ‘m, che è ciò che rimane della preposizione in dopo l’aferesi e il normale passaggio fonetico di n in m davanti a p; il secondo è *piticunare (l’asterisco ad indicare che questa voce semplice non è attestata nell’uso). *Piticunare è voce verbale derivante dal sostantivo *piticone, non in uso a Nardò, ma variante di petacune e petecune, in uso in altre zone del Salento, dove designa il tronco dell’olivo o il gambo di un frutto (per quest’ultimo a Nardò è in uso piticinu, per cui vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/02/26/dialetti-salentini-piticinu/);  petecune, poi, è usato in senso traslato ad indicare un uomo pesante che si muove poco e, con ulteriore passaggio dal corpo all’anima, anche uno avaro.

Petacone e petecune suppongono un latino *pedicone(m) accrescitivo di pes/pedis (piede)1, come in Cicerone(m), il celebre oratore Marco Tullio, da cicer=cece, cui somigliava una verruca sul naso, suo o di qualche antenato; per altri legumi coinvolti:  Lentulo da Lentulu(m), da lens=lenticchia, Fabio da Fabiu(m) da faba=fava, Pisone da Pisone(m), da pisum=pisello. Mentre Cicerone(m) e Pisone(m) appaiono formati dai rispettivi temi del nome primitivo (cicer– e pis-) con aggiunta del suffisso accrescitivo –one(m) , *pedicone(m) mostra aver aggiunto al tema del nome primitivo (ped-) un infisso –ic– già utilizzato da pedica=laccio (evidentemente applicato al piede) e poi il suffisso accrescitivo –one(m).

Se in petacone/petecune dal significato originario di piede, tronco dell’olivo c’era stato un primo slittamento semantico nel particolare significato di uomo pesante che si muove poco e, ancor più, in quello di avaro, ‘mpiticunare porta alle estreme conseguenze l’iniziale similitudine, perché significa trattenere qualcuno nell’immobilità o in uno stato d’incertezza.

Lasciando ad ognuno la libertà di trarre le sue conclusioni, non posso non condensare le mie nell’amara constatazione che il padre di tutto  quanto fin qui detto, l’ulivo, un tempo simbolo di vita, fermezza, solidità,  maestosità e sacralità, già umanamente traviato nel significato traslato del verbo appena analizzato, non è più patrimonio, anche estetico, della nostra terra e il suo destino è diventato emblema di precarietà e morte. E la già dolente immagine di testa a breve farà la stessa fine di quella del patriarca che nelle famiglie di ogni grado sociale  fino a qualche decennio fa almeno campeggiava devotamente sul comò …

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1 Per gli altri suoi derivati vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/09/21/un-post-scritto-con-i-piedi/

Dialetti salentini: piticinu

di Armando Polito

Il corrispondente italiano è peduncolo e con esso condivide la base etimologica, cioè il latino pes (pedis al genitivo), che vuol dire piede. A questa base risulta aggiunto un suffisso diverso: in peduncolo il suffisso è -uncolo, che ha valore diminutivo, a volte con connotazione peggiorativa, come in foruncolo (da una base fur, genitivo furis, che significa ladro; infatti in origine indicava la gemma della vite che toglie linfa al ramo principale), ladruncolo (da una base latro, genitivo latronis, che può significare soldato mercenario, bandito, cacciatore, pedina degli scacchi), omuncolo da una base homo, genitivo hominis, che significa uomo. La connotazione peggiorativa di questo suffisso è presente perfino nel nome di un fiore, il ranuncolo, la cui base è, con tutto il rispetto per l’anfibio, rana. Lo stesso dicasi di carbuncolo (da una base carbo, genitivo carbonis, che significa carbone), sul cui significato obsoleto di rubino aleggia l’ombra nefasta di carbonchio, che ha lo stesso etimo. Stando a quanto si vede nella realtà e nelle foto di testa, solo il peduncolo della ciliegia sembrerebbe meritare per le sue dimensioni esagerate in rapporto alla taglia degli altri frutti la sfumatura peggiorativa del suffisso.

Più gentile e quasi riconoscente, comunque, a madre natura appare, invece, piticinu, che alla base già vista (in salentino piede è pete/pede) aggiunge il suffisso –icinu (corrispondente all’italiano –icino, sempre con valore diminutivo, ma talora con connotazione affettiva o attenuativa: lumicino, cuoricino, morticino, ossicino, etc. etc.).          

Zinzulusa: una grotta e un toponimo tra fantasia e realtà (2/2)

di Armando Polito

Tra i numerosi lavori non inclusi in Opera omnia c’è anche Descrizione della grotta della Zinzanusa, ossia dell’antico tempio della dea Minerva in Castro Minerva ne’ Salentini, s. n., Napoli, 1807 (estratto dal Giornale enciclopedico di Napoli, anno II, tomo I, gennaio 1807). La descrizione del Monticelli trovò ospitalità anche all’estero, tanto da comparire, con alcuni rimaneggiamenti dovuti molto probabilmente all’anonimo giornalista (l’articolo reca il titolo Description de la grotte Zinzanusa, ou de l’ancien temple de Minerve, près de laville de Castro, dans la Pouille e subito dopo si avverte il lettore che si tratta di un extrait d’una lettre de Naples, écrite vers la fin de mai 1809) sulla parigina Gazette nationale ou Moniteur universel del 13 settembre 1809. A conferma del detto nemo propheta in patria debbo dire, però, che il primo lancio della notizia avvenne sul Journal de Paris di lunedì 29 settembre 1806.  Il lettore che ne voglia fare conoscenza diretta troverà di tutti e tre la riproduzione integrale, corredata della mia traduzione, nell’appendice documentaria alla fine del post (rispettivamente: l’articolo del 1806 al n. 1, quello del 1897 al n. 2 e quello del 1809 al n. 3). Potrà, così, condividere o meno ciò che a me è apparso evidente, cioè il contrasto tra l’accesa e forse interessata fantasia del vescovo, l’enfasi giornalistica e l’acribia dello scienziato che, al di là delle pur pertinenti osservazioni di erudizione storica, subordina il giudizio finale alla constatazione de visu della situazione da parte di persone d’indubbia e disinteressata competenza, nonché il pudore e l’umiltà con cui un mineralista di fama internazionale, qual era il Monticelli, giudica, con riserva (perché costretto a fidarsi della descrizione del vescovo), i suoi cristalli di Rocca. Mi meraviglio come un ricercatore come il brindisino non abbia sentito il bisogno di fare una capatina alla Zinzulusa e con malizia formulo il sospetto che avesse capito tutto, pur senza vederla. Quanto al mancato intervento del re, nonostante i rispettosi ma incalzanti inviti del vescovo che nell’ultima lettera rinunzia al colloquio diretto col sovrano e cerca la raccomandazione del cardinale Stefano Borgia, mi chiedo se oggi le cose siano granché cambiate …

Tornando all'”interpretazione” della grotta, il primo a liberarla dalle superfetazioni del vescovo fu Gian Battista Brocchi. In Osservazioni geologiche fatte nella Terra d’Otranto, in Biblioteca italiana o sia giornale di letteratura, scienze ed arti, tomo XVIII, anno V, aprile, maggio e giugno 1820, pp. 52-67 e poi in Giornale costituzionale del Regno delle due Sicilie di mercoledì 21 marzo 1821, il geologo di Bassano del Grappa, fra l’altro, scrive: Sotto Castro … sta la grotta Zinzolosa più celebre per le bugie che ne sono state dette, che per quello che realmente presenta. Una capricciosa descrizione ne fu pubblicata nel giornale enciclopedico di Napoli (gennaro, 1807) [vedi il documento nell’appendice della prima parte] ove per primo si sbaglia nel nome chiamandosi la grotta della Zinzanusa, quando realmente s’intitola così come ho scritto , essendo quello un epiteto derivato dal sostantivo zinzoli che nel dialetto del paese significa cenci, epiteto che fu suggerito dalle stalattiti pendenti. Monsignore del Duca, vescovo di Castro, estinto da pochi anni fa, volle un singolar modo di nobilitare questa caverna immaginando che in essa fosse il tempio di Minerva fabbricato da Idomeneo. Il buon vescovo, come fui accertato, non penetrò mai in quel sotterraneo, ma in sua vece inviò due canonici onde esplorare il luogo, i quali lo ragguagliarono delle grandi cose ivi vedute. S’immaginarono quei messaggieri di vedere tronchi di colonne, e capitelli, e cornici nelle stalattiti naturalmente formate dall’acqua, e d’altro non fu mestieri per trasformarsi quella caverna in un tempio, e nel tempio di Minerva. Conviene pur credere che sia questo un luogo fatale riguardo alle bugie, poiché oltre a queste che sono stampate, altre a me ne spacciarono gli abitanti di que’ paesi. In Otranto fui assicurato che trovasi colà gran copia di testacei impietriti, quando non ve n’ha il menomo indizio. A Minervino mi si disse che potevasi senza sussidio di fiaccole spaziare per la caverna, essendo bastevolmente rischiarata da alcuni alti spiragli, quando ivi tutto è buio e soltanto in un luogo v’ha un pertugio donde trapela un filo di luce. A Cerfignano fui ragguagliato essere essa distante tre miglie e mezzo da Castro, e che è forza di fare questo tragitto per mare, quando la lontananza non è che di mezzo miglio all’incirca, e se il mare sia turbato si può calare agevolmente da una rupe contigua, ed essendo ivi pronta una barca col traghetto di cinquanta passi più o meno si approda all’imboccatura. Questa grotta adunque è riposta in un curvo seno del mare di Castro, dove la rupe calcaria incavata a guisa di mezza cupola o di padiglione sovrasta ad un basso fondo in cui vegetano sott’acqua molte piante marine. Copiosissima è l’Ulva umbilicalis che con le sue frondi bigie accartocciate a guisa d’imbuto diguazza in quelle onde, mentre la Corallina cristata copre di un rubicondo tappeto le pareti degli scogli circostanti. Arrampicandosi per una via non difficile su per li greppi si giunge ad una prima spelonca, che può essere risguardata come il vestibolo dell’altra più interna. Molte stalattiti pendono dalla sua volta formate di calcare lamellare e spatosa, ed havvi nel piano uno sprofondamento che era in quel tempo ricolmo d’acqua. Girando intorno al margine di quel baratro, e poco più su montando trovasi una stretta apertura la quale conduce in altri reconditi penetrali che non tutti ho visitato, dove di maggior mole, ed in maggior quantità sono le stalattiti: esse potranno avere sorpreso chi vide per la prima volta simili sotterranei, ma riescono pressoché indifferenti a coloro che si sono internati in tante altre più magnifiche grotte negli Appennini, fra le quali certamente primeggia quella di Collepardo ne’ monti degli Ernici. Il sig. Monticelli che pubblicò per compiacimento un transunto della memoria del vescovo di Castro, non erasi recato sul luogo, altrimenti quell’oculato naturalista ne avrebbe somministrato una più veridica descrizione.

E Giuseppe Ceva-Grimaldi nel suo Itinerario da Napoli a Lecce e nella provincia di Terra d’Otranto nell’anno 1818, uscito, però, a Napoli nel 1821 (cioè un anno dopo le osservazioni del Brocchi) per i tipi di Porcelli a Napoli non rinunciava all’ironia e, dopo aver riportato in traduzione parte dell’articolo francese del 1806 (senza citare la testata) a p. 61 così commentava: Peccato che questa bella descrizione serva appena ad ornare uno dei moderni romanzi! E, alla fine della sua descrizione: Qui terminala grotta Zinzanusa o Zinzolusa,secondo la denominazione del paese; originata forse dagli stalattiti che a guisa di cenci, chiamati nel paese zinzoli, si vedono pendere nella seconda conca, già descritta.   

Chiarita definitivamente l’origine totalmente naturale della grotta, passo ora ad un argomento che non esclude a priori, come nessun campo dello scibile umano, la fantasia, ma richiede che essa sia asservita ad un vigile spirito critico: l’etimo di Zinzulusa. È questo il toponimo attuale, ma in passato erano in uso altre varianti. Prima di intraprendere l’analisi etimologica è opportuno prenderne contezza.

Così della grotta scrisse Girolamo Marciano (1571-1628) in Descrizione, origine e successi della provincia d’Otranto, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1855, p. 372: Giace la città di Castro sopra un’alta ed inespugnabile rupe, la quale dall’oriente ha il mare basso e profondo, dall’occidente e tramontana il castello, che soprastà ad una profonda valle, e dall’istro la stretta schiena di un colle eminente al mare, che la rendono fortissima e di sito inespugnabile. Sono intorno alla marina di essa città valli dilettevoli, e freschissime grotte, alcune asciutte, ed altre con acque marine e dolci, ricetti di varie specie di pesci; delle quali la più nobile e meravigliosa chiamano la grotta Zenzenosa.  Il lettore non si lasci ingannare dalla data di pubblicazione del volume, che uscì postumo con le aggiunte di Domenico Tommaso Albanese (1638-1685).

Allo Zenzenosa del Marciano subentrano, via via, già incontrati, lo Zinzanusa nel Del Duca, nell’Alfano, nel Monticelli e nel Romanelli, Zinzolosa nel Brocchi (come in Ulderigo Botti, La Zinzolosa. Monografia geologico-archeologica, Firenze, Barbèra, Firenze, 1874 e in Cosimo De Giorgi (Note geologiche sulla provincia di Lecce, v. I, Tipografia Garibaldi, Lecce, 1876, passim), Zinzanusa o Zinzolusa nel Ceva-Grimaldi. S’incontra poi Zinzulusa o Zinzinusa in Archivio per l’antropologia e la etnologia, Stab. Tip. Lit. ed Elettro Galv. G. Pellas, Firenze, 1905, p. 163. Tuttavia Gianluigi Lazzari nel lavoro che più avanti citerò, in particolare, per quanto riguarda la variante Zinzinusa, scrive che l’attestazione più antica è nelle copie degli atti della Platea di Castro del 1665 e nel Catasto della città dell’anno 1742/1749. Faccio notare che l’attestazione del Marciano (Zenzenosa)  è anteriore, sia pure di poco.

E siamo all’etimo. il Rohlfs nel Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo, Galatina, 1976 così tratta il lemma Zinzulusa: Grotta naturale che si apre sul mare nelle vicinanze di Castro, piena di stalattiti [chiamata così per i coni pendenti: ‘stracci di una veste lacera’]; v. zìnzulu, zinzulusu.

E a zìnzulu: cencio, straccio e grappoletti d’uva di tarda maturazione [cfr. il cal. zìnzulu id., gr. mod. τσάντσαλον” (leggi tsàntsalon) id.].

Il maestro tedesco mostra di seguire l’opinione corrente che collegherebbe il nome proprio della grotta con le sue stalattiti che sembrano cenci. Questa interpretazione metaforica risale proprio (anche se lì il riferimento è all’ingresso frastagliato dalle onde del mare) al nostro vescovo (vedi a p. 389 del documento riportato nell’appendice a corredo della prima parte la parte di testo sottolineata), ripresa successivamente nella citata memoria del Brocchi.

Lavorando sulla variante Zinzinusa, Armando Perotti (1865-1924), basandosi sul fondato assunto che spesso i toponimi sono legati ad una specie vegetale particolarmente abbondante in loco, aveva ipotizzato agli inizi del secolo scorso che il toponimo Zinzinusa fosse legato al giuggiolo. Tale ipotesi è stata ripresa e sviluppata da Gianluigi Lazzari e Sotirios Bekakos in A proposito del toponimo “Zinzinusa”, la celebre grotta di Castro in Terra d’Otranto, in Thalassia Salentina, v. XXVI, suppl. (2003) (già pubblicato in parte in Note di Storia e Cultura Salentina, X-XI, Argo, Lecce, 1998/99, pagg. 117-129). Di seguito, riprodotta in formato immagine,  la trafila da loro ipotizzata, partendo dal nome del giuggiolo in greco classico: ζίζυφον (leggi zìziufon).

 

Quando si parte da un’ipotesi di lavoro (in questo caso il collegamento toponimo-specie vegetale), è fatale che il metodo deduttivo diventi condizionante e spinga a “forzare” qualche dato pur nel nobile intento di confermarla. Ecco le mie osservazioni anche su passaggi fonetici che ritengo non proprio lineari:

a) Non capisco per quale motivo dal minuscolo (a parte l’iniziale di ζίζυφον) si sia passati al maiuscolo (sia pure non greco) di 3, 4 e, in parte 5, dove alla fine, nonché nelle conclusioni, viene ripreso il minuscolo (a parte, sempre, l’iniziale). Può darsi che il set di caratteri greci allora disponibili non consentisse di fare meglio.

b) Al n. 1 in ΖΙΖΨφΟΝ compare al quarto posto Ψ (si legge psi) che ha sostituito, senza giustificazione alcuna, la υ di ζίζυφον, per cui la lettura di ΖΙΖΨφΟΝ sarebbe zìzpsfon.

c) Al n. 2 in ZINZIFO si nota l’epentesi di N, che sarebbe giustificata solo se partendo dalla voce latina zizyphum si fosse ipotizzata una geminazione espressiva (zizzyphum) e successiva dissimilazione (zinzyphum).

d) Al n. 3 viene proposta una sostituzione di F con L senza il supporto di altri casi.

e) Al n. 4 viene attribuito a Galeno ZIZULA’. Pur tenendo presente la giustificazione da me stesso addotta alla fine del punto a), non posso fare a meno di dire che l’esatta scrittura sarebbe stata in maiuscolo ΖΙΖΟΥΛΑ e in minuscolo ζιζουλά (in entrambi i casi si legge zizulà). Se l’inghippo si riducesse a questo dettaglio formale, non avrei perso tempo, tanto più che ZIZULA’ corrisponde esattamente alla pronuncia che ho appena annotato. Il problema è che tale voce (ζιζουλά) a quanto ne so, non compare nemmeno una volta in Galeno, nel quale, invece, si legge, per indicare il giuggiolo, la voce σηρικά (leggi sericà). Ecco il brano che ci interessa, di Περὶ τῶν ἐν ταῖς τροφαῖς δυναμένων (Le proprietà negli alimenti), libro I, capitolo 32; nel testo σηρικῶν è genitivo plurale (il nominativo è σηρικά).

Περὶ τῶν καλουμένων σηρικῶν. Οὐδὲ τούτοις ἔχω τι μαρτυρῆσαι πρὸς ὑγιείας φυλακὴν ἢ νόσων ἴασιν.  Ἔδεσμα γάρ ἐστι γυναικῶν τε καὶ παιδίων ἀθυρόντων, ὀλιγότροφόν τε καὶ δύσπεπτον ὑπάρχον ἅμα τῷ μηδ’ εὐστόμαχον εἶναι. Τροφὴν δὲ δῆλον ὅτι καὶ αὐτὰ δίδωσιν ὀλίγην τῷ σώματι (Su quelle che sono chiamate giuggiole. Non ho per esse da attestare alcunché per la protezione della salute o la cura di malattie. Infatti sono alimento delle donne e dei fanciulli che giocano, essendo cibo di scarso nutrimento e di difficile digestione insieme col fatto che non è gradito allo stomaco. È chiaro che anche queste danno poco nutrimento al corpo).

Ad integrazione va detto che  ζιζουλά è presente in greco (non comunque, come ho detto, in Galeno) in Alessandro di Tralles (VI-VII secolo), Libri duodecim de re medica, VI, 5. Ecco la parte che ci interessa tratta dal capitolo che reca il titolo Περὶ ἐμπυημάτων (Gli ascessi): … ἀπὸ τῆς Ἀλεξανδρίας μικρὸν ϕασίολον ἢ τὸ λεγόμενον ζιζουλὰν ἢ ἔλυμον ( … da Alessandria un piccolo fagiolo o quella che è detta giuggiola o miglio). Debbo dire che solo se (o) ha valore disgiuntivo, cioè non vale come altrimenti detto, ζιζουλὰν, vale giuggiola, altrimenti sarebbe sinonimo di miglio e, come quello, simile ad un piccolo fagiolo, immagine che non evoca certo quella della giuggiola.

Infine in un epigramma di Pallada (IV-V secolo), Antologia Palatina, IX, 503,  è presente la variante δίζυφον (leggi dìziufos) che sembra, rispetto a ζίζυφον , foneticamente parlando, un passo indietro, dal momento che ζ nasce dalla fusione di δ+j: Οὐκ ἀλόγως ἐν διζύφοις δύναμίν τινα θείαν/εἶναι ἔφην. Χθὲς γοῦν δίζυφον ἐν χρονίῳ/ἠπιάλῳ κάμνοντι τεταρταίῳ περιῆψα,/καὶ γέγονεν ταχέως, οἷα κρότων, ὑγιής (Non senza motivo ho detto che nelle giuggiole c’è una qualche forza divina. Ieri per esempio l’ho somministrata ad uno che era malato cronico di febbre terzana e rapidamente è divenuto sano come se fosse stato ricino).

Sempre al n. 4 la L, che in 3 aveva sostituito la F ritorna in campo,  con uno strano ed opportunistico andirivieni, in ZINZINU.

E quasi a sigillare l’incertezza che, a differenza della natura della grotta, continua ad aleggiare, secondo me, sull’etimo del toponimo, chiudo con una poesia, che a tal proposito sembrerebbe profetica, del citato Perotti:

Dormi nel tuo mistero o Zinzulusa!/Noi lo tentammo questo tuo mistero/con la religione di chi sospetta/ch’oltre la realtà cominci il vero.

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/02/22/zinzulusa-una-grotta-e-un-toponimo-tra-fantasia-e-realta-1-2/

 

 

                                                                   APPENDICE DOCUMENTARIA

1)

Dal Journal de Paris n. 272 del 29 settembre 1806

Traduzione:

Italia, Napoli, 3 settembre. Scopriamo ogni giorno nuovi tesori dell’antichità. Un magnifico tempio è stato ritrovato sul promontorio iapigio. Alla base della montagna di questo nome, che forma una punta avanzata nel mare, c’è una vasta grotta nella quale penetra il mare. Questa grotta serve d’asilo a degli alcioni e ad altri uccelli di mare. Il vescovo di Castro volle ultimamente entrarvi: prese una barca e si accorse che avanzando in questa grotta iol mare continuava ad essere navigabile. La grotta si allargava man mano che egli entrava. La curiosità del vescovo fu stimolata. Egli ritornò il giorno seguente per fare una visita più accurata. In effetti l’indomani penetrò fino al fondo e fu lì che con sua grande sorpresa coprì un magnifico tempio sostenuto da bellissime colonne del marmo più bello, dello stile più puro e dell’architettura dei bei templi della Grecia. Non ci si fermerà a questa prima scoperta.

 

2)

dal Giornale enciclopedico di Napoli, anno II, tomo I, gennaio 1807, pp. 341-354

 

3)

Dalla Gazette nationale ou Moniteur universel n. 256 del 13 settembre 1809.

Trascrizione:

MÉLANGES-ANTIQUITÉS

Description de la grotte Zinzanusa, ou de l’ancien temple de Minerva, près la ville de Castro dans la Pouille (Extrat d’un lettre de Naples, écrite vers la fin de mai 1809)

Près la petite ville de Castro, sous des rochers suspendus à pic, se trouvent plusieurs grottes où l’on descend dans de petits canots. La plus remarquable est la grotte Zinzanusa, qui a donné son nom aux autres, et dont les flancs sans cesse battus et creusés par les vagues, ressemblent de loin à des vêtemens déchirés. Ces grottes sont plateés au fond d’un petit golfe qui, s’avançant en demi-circle forme une espece de port. De ce port on n’apperçoit qu’un amas de quartiers de roc, disposés comme les marches d’un escalier; sur la plus haute de ces marches parait une voûte soutenue par un centaine de colonnes de pierre de taille. Au milieu de ces colonnes jaillit une source d’eau douce, et non loinde là se prolonge una galerie de rochers dangereux à parcourir, a cause de l’inégalité su sol et du gouffre d’eau effrayant au-dessus duquel elle s’avance. C’est au  bout de forme rectangulaire, la plus belle et la plus intéressante de toutes celles que l’on a visitées jusqu’ici dans ces rochers. Quatre rangs de colonnes soutiennent et decorent ce palais de la nature; les deux premiers ne sont formés que de demi-colonnes destinées à orner les murs; les deux autres offrent des colonnes entiers s’elevant isolées ou deux à deux. Elles sont toutes dans les mêmes proportions et divisent le rectangle en trois parties; les murs sont couverts d’inscriptions dont personne n’a su encore déterminer  le sens et même la langue. On y voit aussi de petites idoles et des statues, des images d’animaux, entr’autres celle du hibou, symbole de Minerve ἀθήνη, des fleurs, des fruits et des arabesques en pierre de taille et d’un dessin très pur. Dans l’une des trois divisions se trouve une large table soutenue de chaque côté par deux colonnes; le plafond est formé par la cavité elle-même à laquelle les murs sont adossés. La voûte un peu affaisée est garnie de cristaux brillans et assemblés sous les formes les plus élégantes; des stalactites du même genre tapissent les colonnes  et tout l’intérieur de la grotte; a la clarté des flambeaux, j’ai cru voir tous les prestiges dont l’imagination du poöte a peuplé le palais d’Armide. Les colonnes les plus élevées ont environ 70 palmes (20 pieds) de hauteur; leur diamètre a un peu plus de 2 palmes (8 pouces). De petites ouvertures pratiquées dans la muraille et fermées avec des pierres qui se déplacent, conduisent dans des grottes moin vastes, moins intéressantes, mais curieuses à voir. Par-tout  on reconnait la main de l’homme. Des restes de cendres et de charbons annoncent que ces lieux ont été autrefois habités. On y a même découvert des ossemens et des tombeaux. Dans l’une des cavités se troive un puits. Dans une autre est  une colonne plus haute que celle du temple; il y en a même une qui parait n’avoir pas été dressée et qui reste encore couchée sur le sol. Les grottes que l’on a découvertes renferment l’espace d’un mille. La plus grande est celle qui vient aprés la grotte rectangulaire; elle n’a pas encore été visitée. Sa profondeur, la boue dont elle est pleine et la puanteur qui en sort ont empêché d’y descendre. Dans toutes les cavités que l’on a parcourues, on n’a vu qu’une seule petite ouverture par où le jour puisse pénétrer. Le savant prélat, Mgr. Duca, évêque de Castro, avait envoyé à l’ancien gouvernement napolitain una petite statue et des morceaux de cristal que l’on avait eu beaucoup de peine à détacher; il proposait de faire visiter soigneusement cette grotte et de faire dessiner tout ce qui méritait  d’être  examiné; il donnait en même tems des détails sur l’antiquité et la destination de ces grottes, mais personne n’appuya ses conseils, et l’un des monumens les plus remarquables qui nous restent des tems anciens fut oublié. Il faut sans contredict attribuer cet ouvrage aux premiers habitans du royaume de Salente ou aux Grecs qui s’y établirent sous la conduite de Iapyx ou sois celle d’Idoménée. La fable et l’histoire se réunissent pour accorder à ce temple de Minerve, l’antoquité la plus reculée, et les merveilles qu’elles en racontent, l’avaient dejà rendù célebre chez les Anciens. Diodore, dans son 4e livre, et Strabon, au 5e et  6e livre de sa Géographie, rappellent qu’Iapyx fut envoyé par son grand-pere à la recherche de son pere Dédale qui avait pris la fuite; il aborda au promontoire d’Iapyx, nommé alors Leuternia, où Hercule, secouru par Minerve, avait défait les géans Leuterniens. Du sang des géans entassés se forma une source d’une eau puante. Cette source et les osemens non ensevelis indiquerent à Iapyx le théâtre de la victoire d’Hercule, et, soit par pitié, soit que la religion fût aussi alors le moyen dont se servaient les chefs des sauvages pour civiliser leurs barbares sujets, Iapyx éleva un temple à Minerve.

Ce récit, iu ce qu’il peut avoir de vraisemblabe, sert à déterminer assez exactement l’ancienneté du temple de Zinzanusa. Iapyx vivait à-peu-près cent ans avant la guerre de Troye, et comme d’après les marbres d’Arundel trouvés à Paros, il s’est écoulé 1209 ans entre cette guerre et la naissance de J. C., ce temple existe depuis 3117 ans. Plusieurs écrivains anciens, ent’autres Denys d’Halicarnasse, Servius et Vergile, s’accordent à dire que, long tems avant la chûte de Troye, il y avait sur la côte d’Iapyx un temple de Minerve trè-riche et très fameux. Quelques-uns joutent que l’on y gardait le Palladium, ou statue de Minerve, enlevé aux Troyens par Ulysse et par Diomede; d’autres disent que Diomede, après le sac d’Ilion, consacra à Minerve les armes d’or qu’il avit reçues de Glaucus, fils de Priam. Virgile s’est servi de la cèlèbrité de ce temple et l’a encore accrue en faisant border sur ce rivage Enée parti des bords Acro-Cérauniens ou de l’Epire, qui se trouvent vis à vis. Essayons de fixer, d’après la description, la place du temple de Minerve. Enée arrive en Epire, apprend d’Hélénus quelle route il doit suivre. Hélénus lui recommande de ne pas aborder ou du moins de ne pas s’arrêter sur la côte opposée à celle de l’Epire:

Proxima quae nostri profunditur aequoris aestu

effuge; cuncta malis habitantur moenia Graiis.

                                                  Aeneid. lib. 3, v. 397

Mais fuis la mer perfide et la côte d’Epire (1);

des Grecs, nos ennemis, ce bord est infesté.

Trad. de M.  Delille

Enée devait donc traverser la Mer-Adriatique; et comme les anciens navigateurs s’eloignaient peu des côtes, longer la presqu’il de Salente pour diriger ses voiles vers la Sicile. Il  devait descendre de nuit et sacrifier sur le rivage de l’Italie, mais selon les rits des habitans, pour ne pas être attaqué et traité en ennemi:

Hic et Narycii posuerunt moenia Locri

et Salentinos obsedit milite campos

Lyctius Idomeneus, etc.

Là des fiers Locriens s’éleve la cité …

et de Salente enfin inondant les sillous,

Idoménée au loin répand ses bataillons.

Enée part, et tandis qu’il fait voile le long des rivages Acro-Cérauniens, la nuit arrive; il s’arrête sur la côte la plus voisine de l’Italie:

Provehimur pelago vicina Ceraunia iuxta,

unde iter Italiam.

Nous côtoyons d’abord ces sommets escarpés

que les traits de la foudre ont si souvent frappés;

de là vers l’Italie un court trajet nous mene.

 

A minuite Palinure se leve et donne à la flotte le signal du départ; elle fait voile vers l’Italie:

Nec dum orbem medium nox horis acta subibat,

haud segnis strato surgit Palinurus.

 

Mais les heures déjá dans le silence et l’ombre

au milieu de sa course ont guidé la nuit sombre;

Palinure s’éveille et consulte les mers.

 

A la pointe du jour, Achates découvre l’Italie, Anchise invoque la faveur des dieux, et des vents favorables les poussent au port le plus voisin du royaume de Salente: c’est là que s’etrouve le temple de Minerve:

Cum procul obscuros colles, humilemque videmus

Italiam …..

……………………..Portusque patescit

Jam propior, templumque apparet in arce Minervae.

 

Lorsqu’insensiblement un point noir et douteux

de loin parait, s’eleve et s’agrandit aux Yeux:

C’etait le Latium (2)

On entrevoit le port, et voisin de la nue

le temple de Pallas se découvre à la vue.

 

Enée décrit le port; il est creusé en cercle vers l’Orient et ceint de rochers qui l’enviromnent comme des tours: on ne voit pas le temple quand on est dans le port:

Portus ab Eoo fluctu curvatir in arcum,

objectae salsa spumant aspergine cautes:

ipse latet. Gemino demittunt brachiamuro

turristi scopuli; refugitque a littore templum. 

Creusée à l’orient, son enceinte prosondé

contre les vents fougueux et les assauts de l’onde;

est ecourbée en arc où le flot mugissant

sans cesse vient briser son courroux impuissant.

A l’abri des rochers son rau calme repose;

des remparts naturels qu’à la vague il oppose

les fronts montent dans l’air comme une double tour;

leurs bras d’un double mur en ferment le contour,

et le temple que l’oeil croyait voir sur la plage,

recule à votre approche et s’en fuit du rivagé.

Qui ne reconnaît ici la description du port de Zinzanusa, tel que je l’ai donnée? Enée fait un sacrifice à Minerve; il part pour Tarente. Il voit de loin le temple de Junon Lucinia; tout cela convient partaitement à la position de Zinzanusa. J’ajouterai qu’à un mille de ces rochers se trouve encore une source d’eau soufrée, dont Aristote a fait mention. Je ne déciderai pas si le temple de Minerve, placé dans la grotte, était le seul consacré dans ces lieux à la déesse; peut être y avait-il au-déssus des rochers un édifice attenant à la forteresse. J’en ai dit assez  pour montrer que la grotte  de Zinzanusa merite de fixer l’attention de ceux qui observent la nature, et de ceux qui étudient l’antiquité; il serait très-interessant d’examiner  si ces vastes cavités ont été reusées par les eaux ou formées par de feux souterrains.

_________________________

(1) Ce vers est une erreur; c’est la côte opposée à l’Epire qu’Helenus recommande à Enée d’éviter.

2) Cette partie de l’Italie n’était pas le Latium.

Traduzione:

Miscellanea-antichità

Descrizione della grotta Zinzanusa o dell’antico tempio di Minerva, presso la città di Castro in Puglia (estratto da una lettera da Napoli scritta verso la fine di maggio 1809)

Presso la piccola città di Castro, sotto a rocce sospese a picco, si trovano parecchie grotte in cui si scende con piccole barche. La più degna di nota è la grotta Zinzanusa, che ha dato il suo nome alle altre e i cui fianchi senza posa battuti e scavati dalle onde somigliano da lontano ad abiti strappati. Queste grotte sono poste nel fondo di un piccolo golfo che, avanzando in semicerchio, forma una specie di porto. Da questo porto non si vede che un ammasso di gruppi di rocce disposti come i gradini di una scalinata, sul più alto di questi gradini appare una volta sostenuta in alto da una centina di colonne di pietra da taglio. Al centro di queste colonne sgorga una sorgente d’acqua dolce e non lontano da lì si prolunga una galleria di rocce pericolose a percorrerle a causa del dislivello del suolo e di un pozzo d’acqua da far paura al di sopra del quale essa avanza. È a corridoio di forma rettangolare, la più bella e la più interessante di tutte quelle che si sono visitate finora tra queste rocce. Quattro gruppi di colonne sostengono e decorano questo palazzo della natura; i primi due non sono formati che da semicolonne destinato ad ornare i muri; gli altri due presentano colonne intere elevandosi isolate o a due a due. Sono tutte delle medesime proporzioni e dividono il rettangolo in tre parti; i muri sono coperti da iscrizioni dellr quali nessuno ancora ha saputo determinare il senso  e neppure la lingua. Si vedono pure dei piccoli idoli e delle statue, immagini d’animali, tra le altre quella della civetta, simbolo di    Minerva Atena, fiori, frutti e arabeschi in pietra da taglio e di un disegno purissimo. In uno dei tre settori si trova una larga mensa sostenuta da ciascun lato da due colonne; il soffitto è formato dalla stessa cavità alla quale i muri sono addossati. La volta un po’ abbassata è guarnita di cristalli brillanti e assemblati sitto le forme più eleganti; stalattiti del medesimo genere tappezzano le colonne e tutto l’interno della grotta; alla luce delle torce ho creduto di vedere tutti i pregi dei quali l’immaginazione del poeta ha popolato il palazzo di Armida. Le colonne più alte hanno circa 70 palmi (20 piedi) di altezza; il loro diametro ha un po’ più di 2 palmi (8 pollici). Piccole aperture praticate nella muraglia e fermate con pietre che si muovono conducono in grotte meno vaste, meno interessanti, ma curiose a vedersi. Dappertutto si riconosce la mano dell’uomo. Resti di venere e carbone dicono che questi luoghi sono stati una volta abitati. Si sono scoperti pure ossa e tombe. In una delle cavità si trova un pozzo. In un’altra vi è una colonna più alta di quella di un tempio.

Ce n’era pure una che sembra non essere stata innalzata e che resta ancora coricata al suolo. Le grotte che si sono scoperte comprendono lo spazio di un miglio. La pioù grande è quella che viene dopo la grotta rettangolare; non è stata ancora visitata. La sua profondità, il fango di cui essa è piena e la puzza che se sorge hanno impedito di discendervi. In tutte le cavità che si sono percorse non si è vista che una sola piccola apertura attraverso la quale la luce possa entrare. Il saggio prelato monsignor Duca, vescovo di Castro, aveva inviato all’antico governo napoletano una piccola statua e dei pezzi di cristallo che si sera con molta fatica riusciti a staccare; egli proponeva di far visitare accuratamente questa grotta e di far disegnare tutto ciò che meritava di essere esaminato; dava allo stesso tempo dettagli sull’antichità e la destinazione di queste grotte, ma nessuno ha dato retta ai suoi consigli e uno dei monumenti più rimarchevoli che ci restano dei tempi antichi è stato dimenticato. Bisogna senza smentita attribuire quest’opera ai primi abitanti del regno di Salento o ai Greci che vi si stabilirono sotto la guida di Iapige o sotto quella d’Idomeneo. Il mito e la storia si uniscono per accordare a questo tempio di Minerva l’antichità più spinta e le meraviglie che esse ci raccontano l’avevano già resa celebre presso gli antichi. Diodoro nel suo 4° libro e Strabone nel 5° e 6° della sua Geografia ricordano che Iapige fu inviato da suo nonno alla ricerca di suo padre Dedalo che si era dato alla fuga; egli sbarcò sul promontorio di Iapige allora chiamato Leuternia, dove Ercole, soccorso da Minerva, aveva sconfitto i giganti Leuterni. Dal sangue dei giganti ammassato si formò una sorgente di un’acqua puzzolente. Questa sorgente e le ossa insepolte indicarono a Iapige il teatro della vittoria di Ercole e, sia per pietà, sia che la religione anche allora fu il mezzo del quale si servivano i capi dei saggi per civilizzare i loro barbari sudditi, Iapige elevò un tempio a Minerva. Questo racconto o ciò che esso può avere di verosimile serve a determinare assai esattamente l’antichità del tempio di Zinzanusa. Iapige viveva circa cento anni prima della guerra di Troia e, siccome come in base ai marmi di Arundel trovati a Paros sono passati 1209 anni tra questa guerra e la nascita di Gesù Cristo, questo tempio esiste da 3117 anni. Parecchi scrittori antichi , tra gli altri Dionigi di Alicarnasso, Servio e Virgilio sono d’accordo nel dire che parecchio tempo prima della caduta di Troia c’era sulla costa di Iapige un tempio di Minerva ricchissimo e famosissimo. Alcuni aggiungono che vi si custodiva il Palladio o statua di Minerva sottratto ai Troiani da Ulisse e da Diomede; altro dicono che Diomede, dopo il sacco di Troia, consacrò a Minerva le armi d’oro che aveva ricevuto da Glauco, figlio di Priamo. Virgilio si è servito della celebrità di questo tempio e l’ha ancora accresciuta facendo sbarcare su questa costa Enea partito dalle sponde  Acroceraunie o dall’Epiro, che si trovano di fronte. Proviamo a fissare, dopo la descrizione, la posizione del tempio di Minerva. Enea arriva in Epiro, apprende da Eleno quale rotta debba seguire. Eleno gli raccomanda di non accostarsi o almeno di non fermarsi sulla costa opposta a quella dell’Epiro:

Evita i luoghi vicinissimi che sono bagnati dall’onda del nostro mare; tutte le città sono abitate dai cattivi Greci. Eneide libro 3, v. 397

Ma fuggi il mare perfido e la costa dell’Epiro (1);

questa costa è infestata dai Greci, nostri nemici.

Traduzione di M. Delille

Enea doveva dunque attraversare il mare Adriatico e, siccome gli antichi navigatori si allontanavano poco dalle coste, costeggiare presso il Salento per dirigere le sue vele verso la Sicilia. Egli doveva sbarcare di notte e sacrificare sulla riva d’Italia, ma secondo i riti degli abitanti per non essere attaccato e trattato da nemico:

Qui pure i Naricii locresi hanno posto le mura e il licio Idomene occupa con la milizia i campi salentini, etc.

Là s’innalza la città dei fieri locresi … e infine invadendo i campi di Salento Idomeneo spande lontano le sue schiere.

Enea parte e mentre fa vela lontano dalle sponde acroceraunie arriva la notte; si arresta sulla costa più vicina dell’Italia:

Ci spingiamo per mare lungo i vicini Cerauni, donde la rotta per l’Italia.

Costeggiamo lungo questi scogli a precipizio che i colpi dell’onda hanno così spesso flagellato; da lì una corta rotta ci porta verso l’Italia.

 

A mezzanotte Palinuro si leva e dà alla flotta il segnale della partenza; essa fa vela verso l’Italia:

Non ancora la notte spintasi con le ore  era entrata nella metà del corso, si leva dal letto il non pigro Palinuro.

Ma le ore già nel silenzio e l’ombra hanno guidato la nera notte a metà della sua corsa; Palinuro si sveglia e osserva il mare.

Allo spuntare del giorno Acate scorge l’Italia, Anchise invoca il favore degli dei e i venti favorevoli li spingono al porto al porto più vicino del regno di Salento; è là che si trova il tempio di Minerva:

Quando lontano vediamo oscuri colli e la bassa Italia … e si apre un porto sempre più vicino e in cima appare il tempio di Minerva.

Quando poco a poco un punto nero e dubbio appariva da lontano, si eleva e s’ingrandisce agli occhi: era il Lazio (2). Si intravvede il porto e vicino al nudo il tempio di Pallade si scopre alla vista.

 

Enea descrive il porto; esso è scavato in cerchio verso oriente e cinto di rocce che lo circondano come giri: non si vede il tempio quando si è nel porto: 

Il porto dal mare orientale s’incurva ad arco,

le rocce battute dall’onda salata spumeggiano:

esso si nasconde. Allungano le braccia con un doppio muro

scogli a forma di torre e il tempio si allontana dal lido.

Scavato ad oriente, il suo circuito inondato

contro i venti furiosi e gli assalti delle onde;

è curvato ad arco dove il flutto che muggisce

senza posa viene a frantumare la sua ira impotente.

Al riparo delle rocce la sua acqua calma riposa;

delle barriere naturali che esso oppone all’onda

sollevano la fronte nell’aria come un doppio cerchio;

le loro braccia con un doppio muro fermano il profilo

e il tempio chel’occhio credeva di vedere sulla spiaggia

indietreggia al vostro avvicinamento e se ne fugge dalla costa.      

Chi non riconoscerebbe qui la descrizione del porto di Zinzanusa, tal quale io ho dato? Enea fa un sacrificio a Minerva, poi parte per Taranto. Vede da lontano il tempio di Giunone Lucinia.Tutto questo conviene dettagliatamente alla posizione di Zinzanusa. Aggiungerei che ad un miglio da queste rocce si trova ancora una sorgente d’acqua solforosa, della quale ha fatto menzione Aristotele. Io non arriverei alla conclusione se il tempio di Minerva posto nella grotta era il solo consacrato in questi luoghi alla dea; forse c’eta al di sopra delle rocce un edificio attinente alla fortezza. Ho detto abbastanza per mostrare che la grotta di Zinzanusa merita di fissare l’attenzione di coloro che osservano la natura e di coloro che studiano l’antichità; sarebbe interessantissimo esaminare se queste vaste cavità sono state create dalle acque o formate da fuochi sotterranei.

(1) Questo verso è un errore; è la costa opposta all’Epiro che Elena raccomanda ad Eleno di evitare.

(2) Questa parte dell’Italia non era il Lazio.

PER LA PRIMA PARTE: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/02/22/zinzulusa-una-grotta-e-un-toponimo-tra-fantasia-e-realta-1-2/

Zinzulusa: una grotta e un toponimo tra fantasia e realtà (1/2)

di Armando Polito

“Fantastico” è l’aggettivo più usato come sinonimo di “stupendo“, “bello“, ma pure per indicare “ciò che è frutto della fantasia“. Alla nostra grotta si addicono entrambi i significati e, se per spiegare il primo, basta visitarla o accontentarsi dell’album che apre questo post, per il secondo bisognerà ricorrere alla storia e alla filologia.

Diversi sono, come si vedrà, pure per formazione, i personaggi coinvolti e il rispetto della cronologia, anche se non mancheranno riferimenti ancora più lontani nel tempo,  vuole che inizi con un vescovo, l’ultimo di Castro, cioè Francesco Antonio Duca (o Del Duca), La grotta era certamente già nota al popolo, ma il prelato ebbe quanto meno il merito di pubblicizzarla adeguatamente, forse con l’intento furbesco di dare lustro alla sua diocesi. D’altra parte siamo nel secolo XVIII, lo stesso in cui a Nardò Giovanni Bernardino Tafuri partoriva false cronache antiche e documenti simili. Della sua esistenza il vescovo mise al corrente il sovrano corredando la notizia della sua interpretazione, che attribuiva più all’uomo, cioè al mitico Idomeneo, col tempio di Minerva da lui ivi realizzato, che alla natura il pregio di quel sito.

Il lettore che ha interesse troverà nell’appendice documentaria che correda in fine questo post il testo integrale delle tre lettere (così come apparvero pubblicate, oggi diremmo in tempo quasi reale, sulla Gazzetta di Parma) dal vescovo scritte e indirizzate due a Ferdinando IV  (il 17 ed il 24 settembre 1793) ed una alla Nunziatura di Napoli il (15 ottobre dello stesso anno).

L’eco della “scoperta” fu vasta e duratura. Ecco come a distanza di cinque anni ne parla Giuseppe Maria Alfano in Istorica descrizione del regno di Napoli diviso in dodici provincie, Manfredi, Napoli, 1798, pp. 121-122: L’odierno Vescovo, Monsignor D. Francescantonio del Duca, facendo uso da’ suoi vasti, e colti talenti nella Storia naturale, e nella scienza delle antichità ha scoperto fra le viscere di una Montagna, nominata Zinzanusa il famoso Tempio di Minerva, tanto mentovato da Virgilio; quello appunto, che Strabone nel lib. 6 de Salentinis disse, parlando della Fortezza dedicata a Minerva. Hic vero fuit , et Minervae templum dives olim, et Scopulus, quem vocant promontorium Japigium, multum procurrens in mare contra Ortum Hybernum. Il detto Prelato ne avanzò subito una relazione alla Maestà del Sovrano sotto il dì 17 Settembre, ed altra a’ 30 Ottobre dello scorso anno 1793, rappresentando, che questa Montagna racchiude nel masso una Grotta, la di cui apertura scorgesi dal mare, che la circonda. Questa Grotta si estende moltissimo; essendosi camminata direttamente circa 300 passi, e circa un miglio con le tortuosità, e per le laterali strade si è giunto in una Galleria grandissima, ed altissima, e non si è entrato, perché vi è fango, e vi si sente una puzza assai fastidiosa. Non si sa dove conduca la divisata Galleria, e quali altre vie ci sieno. Si sono scoverte molte stanze, pozzi, e fonti d’acqua buona. Entrandosi in una stanza vi sono quattro grosse colonne di circa tre palmi di diametro, poste in regolar ordine, ed una di esse distesa a terra, Vi sono poi innumerabili altre colonne, grosse e picciole, tutte cristallizzate, che col lume delle candele risplendono come i brillanti. Vi sono delle lapidi, che cuoprono, e chiudono Sepolcri, nascondigli, ed altre aperture. Moltissime produzioni vi si scorgono d’ogni grandezza, lavorate tutte dall’arte, o dalla natura. Vi è una mensa, ne i lati della quale son poggiate in regolar situazione due colonnette per ogni lato. Vi è sospeso in aria (sebbene attaccato nel suo incominciamento al muro laterale) un baldacchino, ed indi si vede calare un panneggio tutto lavorato con pomi, ed altri intrecci; formando un padiglione di delicato gusto; e non si è passato innanzi, perché si attendono le sovrane disposizioni.  

A distanza di venti anni, sempre dalla “scoperta”, Domenico Romanelli, citando l’Alfano solo alla fine, scriveva in Antica topografia istorica del regno di Napoli, Stamperia Reale, Napoli, 1818, p. 33, nota a: Gli avanzi del tempio di Minerva a Castro si sono scoverti in una montagna appellata Zinzanusa. Qui in una lunga grotta scavata dall’arte, dove non si respira, che un odore solfureo, si sono trovate gallerie, stanze, pozzi, moltissime colonne, mense e marmi lavorati, che richiamavano l’attenzione di monsign. del Duca a farne nel 1793 un rapporto al governo.

Prima di proseguire, a beneficio del lettore che non abbia ancora preso visione delle tre lettere, ricordo che il vescovo, dalla posizione dubbiosa sulla Zinzulusa opera dell’uomo oppure della natura espressa nelle prime due, passa nella terza all’assoluta certezza, che, però, non esclude l’ambiguità, nel senso che secondo lui, si tratterebbe senz’altro del tempio di Minerva con un arredo, per così dire, misto, cioè in parte naturale ed in parte artefatto.

Come si evince dai brani che ho citato, né l’Alfano né il Romanelli si lasciano sfiorare dall’ombra del dubbio, il primo, forse, troppo condizionato dai vasti, e colti talenti nella Storia naturale, e nella scienza delle antichità del prelato.

Eppure tra i due s’inserisce, cronologicamente parlando, un brindisino, Teodoro Monticelli. Nato a Brindisi nel 1759 era un tipo che passava con una disinvoltura pari solo alla competenza dalla teologia all’apicoltura, dalla mineralogia alla vulcanologia. Nell’attuale era della frantumazione del sapere mi chiedo spesso se la conseguente specializzazione professionale non sia il portato del prevalere della formazione scientifica rispetto a quella umanistica, con un ribaltamento totale rispetto al passato, che non è stato certo avaro di conquiste in ogni campo. E penso, per esempio, a quando il buon medico di famiglia era in grado di diagnosticare le più svariate malattie, mentre oggi, a meno che non si tratti di un banale raffreddore, ti manda dritto dritto da uno specialista (che, magari, non fa nemmeno al caso tuo …).

Indietro, purtroppo, non si torna, ma anche gli scettici debbono riconoscere che la cultura umanistica era, prima che fosse scientemente e, direi … scientificamente, umiliata, in grado di conferire una marcia in più che, nel prosieguo degli studi, fossero anche di taglio esclusivamente scientifico, garantiva un’apertura ed un’elasticità mentale in grado di valorizzare l’eventuale innato intuito sempre al servizio di uno spirito profondamente critico.

Senza scomodare Leonardo da Vinci, fino al secolo scorso non era difficile incontrare figure di studiosi che si sono cimentati in campi che tra loro non sembrano avere nulla in comune. E torno a Teodoro con lapidarie ma significative informazioni.

Monaco benedettino, fu professore di morale nell’Università di Napoli negli anni 1792-94; imprigionato per sei anni nell’isola di Favignana per aver partecipato alla rivoluzione del 1799, fu nel 1808 nominato professore di chimica nella stessa università, della quale sarà poi rettore nel 1826-1827.

Siccome il numero e la qualità delle pubblicazioni oggi è il criterio, almeno teorico, per sancire la degnità (e la dignità …) accademica di un insegnante, se il nostro fosse vissuto ai nostri tempi, avrebbe potuto aspirare a buon diritto almeno a tre cattedre contemporaneamente.

È raro che  tutti o i principali lavori  di un autore, risalenti a tempi diversi, trovino ospitalità in una pubblicazione detta in gergo opera omnia, mentre egli è ancora in vita; se questo avviene, lungi dal tradire la volontà di attendere un po’ (giusto il tempo che muoia, per intenderci …) per evitare di dover sprecare carta, inchiostro ed energia per altri flop editoriali, è per riconoscimento dell’importanza degli studi fin lì fatti. E di questo privilegio godette Teodoro (morirà nel 1845) con Opere dell’abate Teodoro Monticelli, Stabilimento tipografico dell’Aquila, Napoli 1841-18431.

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/02/24/zinzulusa-una-grotta-e-un-toponimo-tra-fantasia-e-realta-2-2/

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1 Un esemplare è custodito nella Biblioteca comunale “Achille Vergari” di Nardò. Di seguito riporto i titoli inclusi in ognuno dei tre volumi.

VOLUME I 

Su l’economia delle acque da ristabilirsi nel Regno di Napoli (quarta edizione; la prima era uscita nel 1809). Trattato ispirato a lungimiranza anche politica, esemplare ed attualissimo alla luce dell’emergente coscienza (?) ecologica.

Memoria del cav. Teodoro Monticelli sull’origine delle acque del Sebeto, di Napoli antica, di Pozzuoli, ec. letta nella tornata de’ 15 giugno 1828 del Real Istituto d’incoraggiamento alle scienze naturali, ed inserita nel 5 volume degli Atti di detto Istituto (prima edizione 1830)

In agrum Puteolanum Camposque Phlegraeos commentarium (prima edizione nel 1826)

Su la pastorizia del Regno di Napoli

 Del trattamento delle api in Favignana (la prima edizione è del 1807)

 

VOLUME II

Descrizione dell’eruzione del Vesuvio avvenuta ne’  giorni 25 e 26 dicembre dell’anno 1813 (seconda edizione; la prima era uscita nel 1815)

Rapporto del segretario perpetuo  della Reale Accademia delle Scienze sulla eruzione del Vesuvio del (sic) dì 22 al 26 dicembre 1817 letto nella tornata del 9 marzo 1818

Relazione sulla doppia paraselene osservata dal signor Egg in Piedimonte d’Alife il 1° maggio 1817 estratta dal secondo volume degli atti della Reale Accademia delle Scienze di Napoli

Relazione umiliata a S. M. dalla Reale Accademia delle Scienze onde impetrare il permesso di analizzare le acque minerali e termo-minerali del Regno riferita nel secondo volume degli atti della Reale Accademia delle Scienze di Napoli (il volume citato era uscito a Napoli nel 1825).

Notizia di un’escursione al Vesuvio, e dell’avvenimento che vi ebbe luogo il 16 gennaio 1820, quando il francese Coutrel vi precipitò in una di quelle nuove bocche. Letta alla Reale Accademia delle Scienze nell’adunanza del 20 gennaio  

Escursioni fatte sul Vesuvio in compagnia d’illustri soggetti, e celebri dotti stranieri dal 1817 al 1820

Memoria sopra le sostanze vulcaniche estratta dal secondo volume degli atti della Reale Accademia delle Scienze di Napoli

Memoria su le vicende del Vesuvio letta nella tornata del 10 di Agosto 1827 ed approvata con rapporto nella tornata del 18 dicembre detto anno

Memoria sulla lava della Scala rimessa alla Società Reale Geologia di Londra, cui come socio estero appartiene l’autore 

Osservazioni dello stato del Vesuvio dal 1823 al 1829

 Altre escursioni fatte sul Vesuvio

 Risposta alla lettera del celeberrimo sig. barone Alessandro De Humboldt

 Del zoogeno e della fibrina, pretese scoperte del commendatore de Gimbernat ne’ vapori del Vesuvio e nelle acque di Senogalla in Ischia

Storia de’ fenomeni del Vesuvio avvenuti negli anni 1821, 1822 e parte del 1823 con osservazioni e sperimenti. Questo lavoro era già uscito nel in tedesco col titolo Der Vesuv in seiner Wirksamkeit wahrend der Jahre 1821, 1822 und 1823, nach physikalischen, mineralogischen und chemischen Beobachtungen und Versuchen dargestellt, Schonian’sche Buchhandlung, Elberfeld, 1824  ed ancor prima in francese col titolo Observations et expériences faites au Vésuve pendant une partie des années 1821 et 1822, Cabinet Bibliographique et Typographique Rue S. Liguori num. 41, Napoli, 1822. A riprova della stima che i colleghi vulcanologi avevano per lui, va ricordato che nel 1831 Henry James Brooke chiamò monticellite un minerale scoperto sul Vesuvio.  

 

VOLUME III

Philippi Caolini vita (1a edizione nel 1812)

Elogio di Vincenzo Petagna

Note lette nella Reale Accademia delle Scienze nella tornata del 13 marzo 1832

Prodromo della mineralogia vesuviana (scritto con Nicola Covelli; la prima edizione era uscita nel 1825) 

 

Fuori restano:

Analisi del fango dell’Etna, s. l, s. n., s. d. (scritto con Nicola Covelli)

Theoremata ex mathesi, ac philosohia selecta quae D. Theodorus Monticelli in tyrocinio regalis coenobii S. Crucis de Lycio auditor sub auspiciis Xaverii Marincola facit, cathedram moderante D. Petro Maria Kalephato, De Dominicis,  Napoli, 1776. Del volume l’OPAC registra solo un esemplare custodito nella Biblioteca pubblica arcivescovile “Annibale De Leo” di Brindisi.

Propositiones theologico-dogmaticae, morales, et canonicae quas publice discutiiendas proponit D. Theodorus Monticelli congr. Coelestinorum ord. S. Benedicti monac. et in collegio S. Eusebii de urbe sac. theol. audit. sub assistentia D. Raphaelis Chiumaroli, et D. Xavierii Bassi theologiae lectorum, Barbiellini, Roma, 1780. La pubblicazione risale al periodo in cui il Monticelli era nel collegio di S. Eusebio a Roma per gli studi di teologia, filosofia e matematica ed aveva, quando il lavoro uscì, 21 anni.

Catechismo di agricoltura pratica, e di pastorizia per la pubblica istruzione de’contadini del Regno di Napoli, Cons, Napoli, 1792. Anticipando l’analisi di problemi ancora oggi irrisolti (o risolti male …), individuava la necessità di maggiore libertà di mercato, della riduzione delle tasse, dell’introduzione di nuovi macchinari e colture, di interventi strutturali (bonifiche, rimboschimenti ecc).

Descrizione della grotta della Zinzanusa, ossia dell’antico tempio della dea Minerva in Castro Minerva ne’ Salentini, s. n., Napoli, 1807 (estratto dal Giornale enciclopedico di Napoli).

Atlante della mineralogia vesuviana, Tramater, Napoli, 1825 (con Nicola Covelli)

Memorie sopra alcuni prodotti del Vesuvio ed alcune vicende di esso, Stamperia Reale, Napoli, 1844

I titoli riportati danno un quadro eloquente delle molteplici scienze che il Monticelli coltivò con rigore metodologico e del prestigio internazionale di cui godette, come mostrano le decine di corrispondenti, tra cui sovrani e uomini politici, letterati e scienziati italiani, europei e statunitensi, nonché  le onorificenze conferitegli da numerose società e accademie, italiane e straniere, di molte delle quali fu membro.

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/02/24/zinzulusa-una-grotta-e-un-toponimo-tra-fantasia-e-realta-2-2/                                

 

                                                            APPENDICE DOCUMENTARIA

 

Le tre lettere inviate dal vescovo di Castro a Ferdinando IV

a) prima lettera del 17 settembre 1793 (dalla Gazzetta di Parma, venerdì, 6 dicembre 1793)

 

b) seconda lettera (prima parte) del 17 settembre 1793 (dalla Gazzetta di Parma, venerdì, 13 dicembre 1793)

c) seconda lettera (seconda ed ultima parte) del 17 settembre 1793 e terza lettera del 13 ottobre 1793 (dalla Gazzetta di Parma, venerdì, 20 dicembre 1793)

 

Dialetti salentini: ‘nduccicare

di Armando Polito

Tamme nna manu cu ‘ndòccicu lu lanzulu! (Dammi una mano per piegare il lenzuolo!). Nell’era dell’usa e getta, non solo in riferimento alle lenzuola, ma anche a tovaglie e tovaglioli monouso, l’invito, normale fino a qualche decennio fa, rischia di diventare un pittoresco ricordo, a meno che non ci sia una rapida e globalmente concorde  inversione di tendenza. Lo stesso vale per il suo uso come sinonimo di avvolgere, almeno come riferimento al gomitolo , visto il declino di quelli che un tempo erano normalissimi lavori femminili. Meno male che la voce conserva una certa vitalità quando è usata  come sinonimo di incartare. Ad un antiquario dilettante della lingua come me non rimane, comunque, che dire qualcosa sul suo etimo. Essa risulta dall’aferesi di induccicare, cioè in origine era composta dalla preposizione in (come l’italiana, dal latino in).  Togliendo in– rimane duccicare. Se dicessi che esso corrisponde all’italiano duplicare che è dall’identica voce latina formata da du– (da duo=due)+plicare=piegare, nessuno ci crederebbe. Conviene, allora, partire da lontano. Ecco gli esiti del digramma pl latino (naturalmente seguito da vocale) in italiano e in salentino: planus>piano>chianu; plenus>pieno>chinu; plicare>piegare>piecare; plovere o pluere>piovere>chiuire. Si nota come puntualmente pl in italiano è passato a pi e nel salentino in ch. Con questa premessa ci saremmo aspettato  per quanto riguarda duplicare un italiano dupiegare ed un  salentino dupiecare. Non si sono formati né l’uno né l’altro, perché l’italiano (che pure dal primitivo plicare aveva dato piegare) ha conservato il duplicare latino. Lo stesso non è successo, però, con il nostro ‘nduccicare, che ha seguito la seguente trafila: *induplicare> ‘nduplicare (aferesi)>‘nducchiecà (passaggio –pl->-ch-, con geminazione di –c-; la forma è in uso nel Tarantino). La variante neretina ‘nduccicare ha semplicemente eliminato l’aspirazione, per cui alla fine, non si è avuta la consueta evoluzione pl>ch ma pl>cc. Per questa volta almeno credo di non essere rimasto ‘nduccicatu

Due lettere di raccomandazione di Maria d’Enghien

di Armando Polito

Questo post è l’integrazione di un altro mio sulla contessa di Lecce piuttosto datato (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/24/la-condizione-degli-ebrei-a-lecce-al-tempo-di-maria-denghien/) ed è il frutto di un commento allo stesso apparso recentemente a firma di Luigi Leone. A conferma  di quanto per l’occasione ebbi a dire sul suo comportamento equilibrato ed illuminato (oggi, con l’aria che tira, sarei costretto  a dire, umano, nonostante la nebulosità pratica  che sembra avvolgere questo concetto sul quale tutti si dichiarano d’accordo) nei confronti degli Ebrei, propongo oggi due sue lettere pubblicate da Andreas Kiesewetter nel suo L’epistolario di Maria d’Enghien. Nuovi rinvenimenti e precisazioni, in Quei maledetti Normanni, CESN, Ariano Irpino, 2016, pp. 571 e 576-577. Entrambe risultano inviate all’Università (cioè a quello che oggi si dice Comune) di Bari, la prima da San Pietro in Galatina (oggi Galatina) l’11 ottobre 1422, la seconda da Lecce il 10 ottobre 1425. Ne riproduco il testo dal volume citato (dallo stesso è tratta l’immagine di testa, che si riferisce alla seconda), aggiungendo la trascrizione in italiano corrente e qualche nota.

1)

Viri nobiles providi atque discreti carissimi, nobis post salutem. Peroche mastro Christi, figlio di mastro Manu de Simone, marito de donna Dolce, matre de mastro Iacobo, iudeo habitante et morante in Baro, nostri servituri et lu so fratelli, et matre  delo dicto mastro Iacobo, lo quale e medico, nostro vassallo de Lecce, vi volimo pregare, che in nostro placitho li predicti mastro Christi et Simone con la dicta donna Dolce vi siano recomandati, che per vui universalmente per nostro respetto in singulis oportunis siano ben trattati, et di questo ne farete piacere tanto ad nui, quanto allo prencipe, nostro figlio, sincomo a simili facessimo per vui. Datum in Sancto Petro de Galatina, die XI octobris prime indictionis.

Nobili uomini, previdenti e giudiziosi1, a noi carissimi, dopo il salutoa. Poiché mastro Cristo, figlio di mastro Emanuele de Simone, marito di donna Dolce, madre di mastro Iacopo, giudeo abitante e residente in Bari, nostri servitori e i suoi fratelli e madre del detto maestro Iacopo, il quale è medico, nostro vassallo di Lecceb, vi vogliamo pregare che in nostro placito i predetti mastro Cristo e Simone con la detta donna Dolce che vi siano raccomandati, che da voi unanimementec per nostro rispetto nelle singole opportunità siano ben trattati; e con questo farete piacere tanto a noi, quanto al principe nostro figlio, come in circostanze simili avremmo fatto per voi. Emesso in San Pietro di Galatina il giorno 11 ottobre della prima indizione.

______________

a La virgola dopo carissimi va spostata dopo discreti, come correttamente è nella lettera successiva. Dopo salutem è sottinteso un nesso in latino che in italiano suonerebbe esponiamo quanto segue.

b L’urgenza di presentare i protagonisti ha propiziato l’omissione del verbo di questa dipendente causale, collegando quasi direttamente la principale (vi vogliamo pregare) con i destinatari della missiva (Nobili uomini …)

c “Traduco” così l’universalmente dell’originale, avverbio che non poteva essere più adatto riferito al destinatari della missiva, cioè un’Università, qui, come nella lettera successiva, quella di Bari.

 

2)

Viri nobiles et discreti, devoti nostri carissimi, post salutem. Simone Iudio, vassallo nostro, ny ave informato, che isso ave a rescotere in Bari certi denari e roba; et per tanto piaczia vi de lo avere recomandato et favorirelo  in tucto quello, che bisoghiasse, azocche pocza rescotere quello che deve avere. Ancora mastro Crissi, vassallo nostro, ny diche devere rechiperea alcuni denari, imprestati per isso alli sindici vostri de l’anno de la XVa indictione, et foro’li ‘nde dati certi pyghy. Et per tanto piaczave dare’li li sui denari, et esso rendera li dicti pighy, azocche non sdia bisoghio de si vendere, fariti vostro devere, et ad nuy ‘nde placheriti. Dat. in castro Licii, X octobris, IIII indictionis.

Nobili uomini e giudiziosi, nostri carissimi devoti, dopo il saluto. Simone Giudeo, vassallo nostro, ci ha informato che egli ha da riscuotere in Bari certi denari e roba; e pertanto vi piaccia di averlo come raccomandato e favorirlo in tutto quello che bisognasse, affinché possa riscuotere quello che deve avere. Ancora mastro Crissi, vassallo nostro, ci dice dover ricevere alcuni denari prestati da lui ai vostri sindaci dell’anno della quindicesima indizione e gliene furono dati certi pegni. E pertanto vi piaccia dargli i suoi denari ed egli renderà i detti pegni, affinché non ci sia bisogno che siano venduti; farete il vostro dovere ed a noi ne farete piacere. Emesso nel castello di Lecce il 10 ottobre della quarta indizione.

______________

a Dal latino recipere, da cui il nostro ricevere.

La popolazione della Terra d’Otranto nel 1803 e nell’ultimo rilevamento ISTAT

di Armando Polito

Il lettore si chiederà perché proprio il 1803 è il protagonista iniziale della storia. È presto detto: perché è la data a cui risale l’Atlante sallentino o sia la provincia di Otranto divisa nelle sue diocesi ecclesiastiche di Giuseppe Pacelli, manoscritto autografo del quale ho già avuto occasione di occuparmi a più riprese1.

Questa volta sfrutterò proprio la suddivisione in diocesi annunziata nel suo titolo per fare la comparazione annunziata nel mio. Così volta per volta saranno presi in considerazione i dati relativi alle diocesi (del 1803) di Taranto, Mottola e Castellaneta, Oria, Brindisi, Ostuni, Otranto, Lecce, Nardò, Gallipoli, Castro, Ugento e Alessano. Ho conservato la forma con cui i toponimi compaiono nell’atlante, riservando alle note le eventuali variazioni.

DIOCESI DI TARANTO

PACELLI ISTAT (all’1/1/2019) VARIAZIONE N. DI VOLTE
TARANTO+TALZANO* 17253 196702 (incluso Talsano, oggi quartiere di Taranto) 11
MARTINA** 13295 48510 3,6
MONTEMESOLA   1367 3763 2,75
GROTTAGLIE   4493 31856 7
MONTEIASI   1367 5547 4
CAROSINO   1331 6924 5,2
SANGIORGIO***   1611 14989 9,3
MONTEPARANO     704 2367 3,36
SAN MARTINO       25 oggi frazione di Roccaforzata
ROCCAFORZATA     696 1808 2,59
FAGGIANO     959 3476 3,62
SAN CRISPIERE        98 oggi frazione di Faggiano 8,9
LUPRANO****      908 8143 8,9%
PULSANO    1134 11429 10
LIZZANO     1101 9867 8,9
MONACIZZO       219 oggi frazione di Torricella
TORRICELLA       374 4183 11,18
FRACAGNANO*****    1012 5173 5,11
SAN MARZANO******       893 9143 10,23

* Oggi Talsano

** Oggi Martina Franca

*** Oggi San Giorgio Ionico

**** Oggi Leporano

Il totale degli abitanti nel 1803 ammontava a 49052, all’1/1/2019 a 363880. Variazione numero di volte: 7,41

 

­

DIOCESI DI MOTTOLA E CASTELLANETA

PACELLI ISTAT (all’1/1/2019) VARIAZIONE N. DI VOLTE
CASTELANETA* 4460 16908 3,79
MOTOLA** 2000 15843 7,9
MASSAFRA 9000 32772 3,6
PALAGGIANO*** 2000 16038 8
PALAGGIANELLO****   600 7812 13

* Oggi Castellaneta

** Oggi Mottola

*** Oggi Palagiano

**** Oggi Palagianello

Il totale degli abitanti nel 1803 ammontava a 18060, all’1/1/2019 a 89373. Variazione numero di volte: 4,9

­

(continua)

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1

Le torri costiere del Salento nelle mappe di Giuseppe Pacelli

L’Albania salentina nell’atlante del Pacelli (1803) posseduto a suo tempo da Giuseppe Gigli e il giallo di una nota

La Grecìa salentina nell’atlante del Pacelli (1803)

I laghi Alimini nell’atlante del Pacelli (1803)

 

Facebook e i misteriosi “stompi” di Maria d’Enghien

di Armando Polito

E poi qualcuno, magari per atteggiarsi, dice peste e corna di Facebook e simili, ma per pubblicizzare la sua opinione è costretto ad usarlo. Come non tutto il male vien per nuocere, non è detto che questo social, come altri, al pari di qualsiasi altro strumento, non possa servire a qualcosa di utile. Esempio recente: qualche giorno fa (per la storia … il 26/1/2020) Marcello Gaballo, come abitualmente ha cominciato a fare da qualche tempo, sulla sua bacheca ha riproposto un post già apparso, a mia firma, su questo blog il 24/6/2013 (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/24/la-condizione-degli-ebrei-a-lecce-al-tempo-di-maria-denghien/?fbclid=IwAR2lPDvrfXq_ko8JjT1ByJ4dR63CgAY_dwkJsnm6tbDLzNZCLS1Ek0d11Ys).

Confesso che, nonostante l’arteriosclerosi non mi abbia intaccato vistosamente, almeno credo …, la capacità mnemonica, mai riesco a resistere alla tentazione di rileggermi, alla ricerca di qualche strafalcione o con lo scopo di apportare qualche integrazione. Così è successo anche questa volta e, se il risultato di questo nuovo intervento lascerà deluso il lettore, siccome sono testardo, oltre che presuntuoso …, nessuno pensi che rinuncerò a priori qualora si dovesse presentare occasione più o meno simile.

Lì avevo manifestato la mia impotenza di fronte alla voce stompi che si legge negli statuti emessi per Lecce da Maria d’Enghien il 4 luglio 1445 (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/20/riflessioni-su-alcuni-bandi-leccesi-del-xv-secolo/).

Riporto il passo contenente la voce: … che nulla persona christiano, oy iudeo, citadino oy forestieri habitante in la dicta cita non ausa ne degia vendere arbori de arangi, citri, oi stompi a forestieri: li quali volessero quelli portare fore de lo territorio de leze.

Nel commentare il mio stesso post scrivevo due giorni dopo: Nell’edizione della Pastore (Congedo, Galatina, 1979) a pag. 29 leggo: “Vieta la vendita di alberi di aranci, cetri o stompi (grossi limoni) a forestieri che intendano esportarli”. La definizione “(grossi limoni)” è evidentemente presa tal quale (non sarebbe stato meglio ricordarne l’autore con una noterella? …) dalla nota 49 del commento agli statuti che Ermanno Aar (pseudonimo di Luigi De Simone) pubblicò in Archivio storico italiano, tomo XII, anno 1883, che di seguito riporto: “Stompi stempi sono una specie di grossi limoni”. Questo conferma il mio sospetto che si trattasse di un agrume, ma l’etimo (anche di “stempi”, variante o italianizzazione che sia di “stompi”) rimane al momento un mistero.

Non pretendo di aver risolto il mistero ora, ma, rileggendo la definizione del De Simone, ho pensato che stompi potrebbe essere italianizzazione di stuempi, plurale del leccese stuempu (stompu in altre zone) che significa mortaio.

Su stuempu e stumpare non mi dilungo e rimando a https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/01/28/stumpisciare-calpestare/ e chiudo dicendo che quello che sicuramente è un agrume potrebbe aver tratto il nome dialettale non tanto dal mortaio (che è, in un certo senso, il pestato) quanto dal pestello (il pestatore), in dialetto stumpaturu, in uno scambio metonimico tutt’altro che infrequente anche nel dialetto. E se in cetri o stompi quell’o non è disgiuntivo ma vale per ossia, l’ipotesi non appare poi tanto peregrina, pensando alla forma di certi cedri, come quello della foto di testa. E il fatto che l’albero e il frutto abbiano lo stesso genere non è certo una novità per il nostro dialetto.

A questo punto a chi mi chiede se era proprio infame destino che trascorressero più di sei anni per giungere a tale risultato, ribatto che, ad ogni buon conto, è meglio tardi che mai e, se la mia riflessione è apparsa assolutamente improponibile, allora sì ha ragione quel qualcuno che dice peste e corna di Facebook … e poi lo usa. A questo punto, lo spazio riservato ai commenti è pure qui disponibile …

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