Vuoi pubblicare? Basta pagare! Parola di Giovanni Domenico Salviati, simpatico letterato leccese del XVII secolo e di Pietro Micheli, suo editore altrettanto simpatico, entrambi amanti del vino, almeno sulla carta …

di Armando Polito

Incisione di Geronimo Cock del 1556 (per comprendere il suo inserimento bisogna arrivare alla fine) tratta da https://lib.ugent.be/catalog/rug01:002293875

 

Uno dei fenomeni più diffusi del nostro tempo è la proliferazione dei concorsi letterari, farsesca imitazione degli storici Premio Strega e Premio Campiello. Facendo leva sul narcisismo di quel terzo della popolazione italiana appartenente in via del tutto autopresunta alla categoria dei poeti (le altre, com’è noto, sono quella dei santi e quella dei navigatori, ma come la prima, non sono a tenuta stagna, nel senso che a seconda della convenienza chiunque può ascriversi a ciascuna di esse, anche se ignora l’esatta sequenza delle lettere dell’alfabeto o cos’è la bussola o ha già ammazzato quattro suoi simili), si stimola la partecipazione dei concorrenti, il cui numero sarà, grazie alla quota d’iscrizione, direttamente proporzionale al guadagno finale degli organizzatori. L’editoria in genere, però sembra aver messo da parte l’ingrediente fondamentale di qualsiasi attività imprenditoriale, cioè il rischio, adagiandosi nel comodo letto di sponsorizzazioni private e pubbliche (penso soprattutto ai quotidiani), trascurando il parametro del talento e del merito ed assecondando il gusto dominante di una caterva di lettori superficiali e suggestionabili. Così è difficile che essa scopra e promuova (pardon, produca …) personalità che entreranno a far parte della storia, anche minore o, addirittura, locale della letteratura e sarà sempre costretta a costringere gli autori a darsi da fare per il lancio della loro creazione in una serie di presentazioni, dalla più visibile (in tv) alla meno (qualche pro loco). Nemmeno sotto tortura”editori” ed “autori” confesserebbero questo stato di cose che dal punto di vista valoriale presenta molti, se non solo, lati deboli e su domanda farebbero intendere l’esistenza di un rapporto di reciproca stima. Stavano così le cose pure in tempi in cui il libro, fosse anche il più leggero, era un prodotto riservato a pochi (oggi, magari, per non sentirsi fuori, molti lo acquistano, pochissimi lo leggono …), oggi diremmo di nicchia, perché la pubblicazione comportava costi elevati non esistendo i mezzi messi a disposizione dalla moderna tecnologia (basta pensare alle tavole che prima di arrivare alla stampa dovevano fare i conti con la penna del disegnatore e poi col rame dell’incisore), per cui non era neppure immaginabile l’abbassamento del prezzo che di regola l’economia di scala comporta? Chi ha dimestichezza con libri datati avrà notato che è immancabile una dedica, in alcuni casi chilometrica, a personaggi politicamente (ed anche allora il gemellaggio tra questo avverbio ed economicamente era quasi automatico) di rilievo, del quale padrone colendissimo il dedicatore si dichiarava umilissimo ed obbligatissimo servo osservantissimo (vada per il resto ma le due ultime due parole costituiscono una ridicola tautologia). E tutto nella speranza che il potente di turno, riconoscente per la dedica, gli concedesse qualche incarico o beneficio. Non si sottrae certamente a questa regola antica (in fondo anche a Roma i letterati dell’entourage di Mecenate erano mossi solo dall’amor patrio o dalla stima per il detentore di turno del potere) il letterato leccese il cui nome ho anticipato nel titolo.

La dedica, infatti, inizia con Al Sig.e Padron mio osservandissimo e termina con Di V. S. M. Illustre Servitore Affettionatissimo.

Sull’autore delle Rime non sono riuscito a reperire alcuna notizia e nemmeno la dedica contiene dati utili, consente solo di rilevare una certa familiarità col dedicatario: … havendo in diverse occasioni composto diversi Sonetti, parte Serii, parte Burleschi trattovi dalla natural mia vena, havendoli più volte letti ad Amici, et a V. S., essendone stato sollecitato da quelli, e comandatomi da lei, che dovesse stamparli, non hò potuto recusare. Si arguisce che si tratta di persona di un certo rilievo, come il dedicatario, del quale riproduce lo stemma e ricorda la provenienza genovese negli ultimi due versi del primo sonetto: MECENATE GENTILE (alta ventura)/venisti a Noi dal Ligure Parnaso). In mancanza di altri riscontri credo di poter avanzare come pura ipotesi di lavoro, in attesa di altri eventuali più proficui riscontri, l’identificazione con Giovanni Domenico Salviati, notaio sulla piazza di Lecce dal 1615 al 1635, il cui nome compare anche tra quelli delle persone designate ad essere aggiunte al collegio di amministrazione dell’Ospedale dello Spirito Santo di Lecce per l’amministrazione dell’eredità di Cesare Prato1.

Se la dedica rientra nella normalità, ciò che mi ha colpito del volume, a parte il sonetto iniziale di cui ho detto ed il successivo dedicato al figlio Giorgio del dedicatario, è la presenza subito dopo, quindi in una posizione ancora sufficientemente privilegiata in rapporto alla lettura, la presenza di quattro sonetti che costituiscono una sorta di simpaticissimo intermezzo tra l’autore e l’editore. Li riporto in formato immagine con, di mio, la trascrizione e le note di commento.

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a Nato a Dôle, in Borgogna, nel 1600, Pietro Micheli, dopo un apprendistato tipografico a Roma e a Trani e una prima società costituita a Bari, nel 1631 fu il primo stampatore a Lecce. morì nel 1689.

b attira, spinge, induce

c Non riesco a capire la funzione delle parentesi.

d rinunziare a stamparle

e raffinato rigore formale

f Plozio Tucca e Lucio Vario Rufo erano due poeti del circolo di Mecenate; a loro Augusto diede l’incarico di pubblicare l’Eneide di Virgilio rimasta priva di revisione per la morte dell’autore. Qui Vario è diventato Varo per esigenze di rima.

g Giovanni Della Casa (1503-1556), autore, fra l’altro, di ll Galateo overo de’ costumi.

h Annibal Caro, (1507-1556), famoso per la traduzione in endecasillabi sciolti dell’Eneide di Virgilio.

i Ludovico Castelvetro (1503 circa-1571), famoso per una polemica con Annibal Caro innescata da un giudizio negativo espresso da Castelvetro su una canzone del Caro, intitolata Venite all’ombra de’ gran gigli d’oro, e motivato dal mancato stile e linguaggio petrarchesco e dai contenuti deludenti. La situazione si complicò quando Alberico Longo di Nardò (su di lui vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/02/11/una-nota-su-alberico-longo-di-nardo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/21/alberico-longo-di-nardo-alle-prese-col-petrarca/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/08/nardo-alberico-longo-e-la-sua-inedita-doppiamente-versione-di-un-mito/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/06/nardo-alberico-longo-e-ursula/)

fu assassinato e il Castelvetro venne indicato dall’entourage del Caro come uno deimandanti. Lo stesso Caro nonsi lasciò sfuggire l’occasione per accusare di Eresia il Castelvetro, che nel 1560 fu condannato dall’Inquisizione subendo la confisca dei beni.

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a andate

b non mi rimproverate

c sistemato al suo posto

d la punta dello stilo

e Pseudonimo di Leonardo Salviati (1540-1589), la cui fama è legata alla fondazione dell’Accademia della Crusca, che si costituì ufficialmente nel 1585. Impossibile dire se il leccese ne fosse parente, caso in cui ci sarebbe da ravvisare quasi una sfumatura di autoironia.

f abituata a scrivere testi di protesta (lo stile, perciò è immediato)

g dettaglio difettoso 

 

La risposta dell’editore non si fece attendere.

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a punte

b saccente

Ecco la replica del leccese.

L’ultima parola, però, fu dell’editore.

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a bevute smodate nella quantità e nel numero

b ispirazione

c Divinità romane delle acque e e delle sorgenti; in epoca tarda furono identificate con le Muse, protettrici dlle arti.

d Fonte sacra alle Muse fatta sgorgare sul monte Elicona dal cavallo Pegaso con un colpo di zampa. Ma quella era una fonte di acqua, quella cui il salentino, per contrasto, sta per alludere è di vino.

e bevute; il verbo sgozzare è usato al participio passato sostantivato partendo dal significato tutto originale di riempirsi la gola fino a far comparire una specie di gozzo.

f La comprensione di questi quattro versi richiede la lettura del documento 1 riportato in appendice.

g Cavallino, alimentato dalla fonte Ipopocrene (vedi la nota d)

h Poeta greco del VI-V secolo a. C.

i Orazio, poeta latino del I secolo a. C., nativo di Venosa.

l è necessario chwe lo guidi Bacco

m abitudine; il verso è stranamente mancante della prima parte (quattro sillabe).

 

 

APPENDICE

Arcipoeta è il soprannome di Camillo Querno (circa 1470-1530). Riporto integralmente e traduco il paragrafo che alle pp. 51-52 gli dedicò lo storico Paolo Giovio nel suo Elogia veris clarorum virorum imaginibus apposita quae in Musaeo Ioviano Comi spectantur, Tramezino, Venezia, 1546: 

CAMILLUS QUERNUS ARCHIPOETA.

Camillus Quernus e Monopoli , Leonis fama excitus, quum non dubiis unquam praemiis, Poetas in honore esse didicisset in Urbem venit, Lyram secum afferens, ad quam suae Alexhiados supra vigintimillia versuum decantaret. Arrisere ei statim Academiae sodales, quod Appulo praepingui vultu alacer, et prolixe comatus, omnino dignus festa laurea videretur. Itaque solenni exceptum epulo in insula Tyberis Aesculapio dicata,potantemque saepe ingenti patera, et totius ingenii opes, pulsata Lyra proferentem, novo serti genere coronarunt; id erat ex pampino, Brassica, et Lauro eleganmter intextum, sic, ut tam false , quam lepide, eius temulentia, Brassicae remedio cohibenda notaretur; et ipse publico consensu Archipoetae cognomen, manantibus prae gaudio Lacrymis laetus acciperet, salutareturque itidem cum plausu, hoc repetito saepe carmine: 

Salve Brassica virens corona,

et lauro ARCHIPOETA pampinoque

dignus Principis auribus Leonis.

Nec multo post tanto cognomine percelebris productus ad Leonem infinita carmina in torrentis morem, rotundo ore decantavit; fuitque diu inter instrumenta eruditae voluptatis longe gratissimus, quum coenante Leone, porrectis de manu semesis obsoniis, stans in fenestra vesceretur, et de principis lagena perpotando, subitaria carmina factitaret; ea demum lege, ut praescripto argumento bina saltem carmina ad mensam, tributi nomine solverentur, et in poenam sterili vel inepto longe dilutissime foret perbibendum. Ab hac autem opulenta, hylarique sagina, vehementem incidit in podagram; sic, ut bellissime ad risum evenerit, quum de se canere iussu in hunc exametrum erupisset: 

Archipoeta facit versus pro mille poetis 

et demum haesitaret, inexpectatus Princeps hoc pentametro perargute responderit: 

Et pro mille aliis Archipoeta bibit.

Tum vero astantibus obortus est risus: et demum multo maximus, quum Quernus stupens et interritus, hoc tertium non inepte carmen induxisset:

Porrige, quod faciat mihi carmina docta Falernum. 

Idque Leo repente mutuatus a Virgilio subdiderit:

Hoc etiam enervat debilitatque pedes.

Mortuo autem Leone, profligatisque Poetis, Neapolim rediit; ibque demum, quum gallica arma perstreperent,et uti ipse in miseriis perurbane dicebat pro uno benigno Leone, in multos feros Lupos incidisset. Oppressus utraque praedurae egestatis, et insanabilis morbi miseria in publica hospitali domo, vitae finem invenit; quum indignatus fortunae acerbitatem, prae dolore, ventrem sibi, ac intima viscere forfice perfoderit.

CAMILLO QUERNO ARCIPOETA.

Camillo Querno da Monopoli, allettato dalla fama di Leone [papa Leone X], avendo saputo che i poeti con premi mai dubbi erano tenuti in onore, venne a Roma portando con sé la lira per cantare al suo suono gli oltre ventimila versi della sua Alessiade [di questo come si altri suoi poemi nulla è rimasto]. Piacque subito ai soci dell’Accademia, poiché allegro nel suo grassoccio volto apulo e capelluto sembrava assolutamente degno di una festosa laurea. E così, dopo averlo accolto in un solenne banchetto sull’isola tiberina dedicata ad Esculapio e mentre beveva spesso da una grande tazza e al suono della lira esprimeva le risorse di tutto l’ingegno, lo incoronarono di un nuovo tipo di corona. Essa era fatta di pampini, cavolo e alloro elegantemente intrecciata sicché tanto sul serio che spiritosamente si sottolineasse la sua ubriachezza e col pubblico consenso ricevesse lieto tra le lacrime di gioia il soprannome di Arcipoeta e similmente fosse salutato con un applauso, ripetuto più volte questo canto:

Salve, tu che verdeggi di una corona di di cavolo e di alloro e di pampini, degno ARCIPOETA alle orecchie del principe Leone.

Né molto dopo, celebre per tanto soprannome, portato al cospetto di Leone, recitò con la rotonda bocca  infiniti carmi a mo’ di torrente; e fu per lungo tempo graditissimo tra le risorse di erudito piacere quando, mentre Leone pranzava e con la mano gli allungava rimasugli di bocconi, lui li mangiava appoggiato a una finestra e bevendo a lungo  dal fiasco del principe dava vita a canti improvvisati, con la legge che almeno due canti fossero intonati a mensa  su un argomento prescritto, con la pena che per un esito insufficiente  o inadatto avrebbe dovuto bere vino annacquatissimo. A causa di questa ricca ed allegra alimentazione incorse in una severa podagra, sicché amenamente suscitò il riso quando, invitato a cantare di sé, se ne uscì con questo esametro:

L’Arcipoeta fa versi al posto di mille poeti

e mentre esitava il principe senza che nessuno se l’aspettasse gli rispose argutamente con questo pentametro:

E l’Arcipoeta beve al posto di mille altri

Allora sì che il riso sorse tra gli astanti e ancora maggiore quando Querno sbigottito ma intrepido proferì non a casaccio questo terzo verso:

Offrimi del Falerno, perché io componga dotti carmi

e Leone all’istante presolo a prestito da Virgilioa gli servì:

Anche questo snerva e debilita i piedi [qui il papa gioca sul doppio senso che in latino ha il piede, che, oltre al dettagli anatomico, indica anche un elemento fondamentale della metrica].

Morto poi Leone e allontanati i poeti, ritornò a Napoli. Qui infine, quando le armi dei Francesi facevano sentire il loro strepito ed egli, molto civilmente nel disagio diceva, invece di un benigno Leone si era imbattuto in molti feroci lupi. oppresso da ogni lato dal durissimo bisogno e dal tormento di un’insanabile malattia finì i suoi giorni in un pubblico ospizio, quando, indignato con la crudeltà della sorte, per il dolore con una forbice si trafisse il ventre e le viscere.

____

a Da un epigramma facente parte delle opere giovanili attribuite a Virgilio (Appendix Vergiliana). Ecco i primi 4 versi: Nec tu Veneris, nec tu Vini capiaris amore,/namque modo Vina, Venusque nocent./Ut Venus enervat vires, sic copia Vini/et tentat gressus, debilitatque pedes (Non farti prendere dall’amore di Venere né da quello del vino; infatti allo steesso modo sono nocivi i vini e Venere. Come Venere snerva le forze, così l’eccesso di vino mette alla prova i passi e indebolisce i piedi). Ad esso si ispira pure la tavola di testa.

_________________

1 Congregazione di Carità di Lecce O. P., Ospedale dello Spirito Santo, Actus aperturae testamenti inscriptis conditi per quondam D. Cesarem Prato, 22/06/1635-III, c. 1, b. 2, fasc. 18.

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