Dai Redentoristi ai Missionari della Consolata: una storia di tentativi, speranze e opere al Santuario della Madonna della Coltura di Parabita

foto Emanuele Toma

di Marcello Gaballo

La storia del Santuario della Madonna della Coltura di Parabita, oggi saldamente affidato ai Padri Domenicani, è segnata da una lunga e complessa vicenda di affidamenti e tentativi di conduzione religiosa. Nei primi decenni del Novecento, sotto l’episcopato di mons. Nicola Giannattasio (1908-1926), numerose furono le interlocuzioni con diversi ordini religiosi per garantire una presenza stabile e operosa presso il santuario, divenuto fulcro della devozione mariana locale e sempre più centro attrattivo per il culto e la vita spirituale del territorio.

I tentativi falliti con i Redentoristi, i Guanelliani e i Carmelitani

Nel marzo del 1923 il vescovo Giannattasio si rivolse alla Congregazione del Santissimo Redentore, cercando il favore del superiore generale, padre Patrick Murray, per l’istituzione di una comunità redentorista presso il Santuario della Coltura. La risposta, datata 9 marzo 1923, è chiara e netta: l’istituto, dedito principalmente al ministero delle missioni popolari e degli esercizi spirituali, era impedito dalle proprie regole a gestire opere parrocchiali o sociali stabili, come quella desiderata a Parabita. Inoltre, l’ordine era già impegnato in nuove fondazioni a Francavilla Fontana e in Calabria, e non poteva dunque accollarsi ulteriori incarichi. L’ipotesi fu quindi definitivamente accantonata.

In estate, Giannattasio tentò un nuovo approccio, stavolta con l’Opera Don Guanella. Grazie all’intermediazione del sacerdote Mauro Mastropasqua, amico personale del vescovo, la proposta fu presentata al vicario generale dell’istituto, don Leonardo Mazzucchi. In una lettera dell’11 settembre 1923, Mazzucchi comunicò l’interesse dei Servi della Carità ma anche la loro difficoltà logistica: la lontananza delle case guanelliane esistenti rendeva complicata l’assegnazione immediata di personale idoneo. Fu chiesto un rinvio di almeno un anno, ma in assenza di possibilità di attesa, anche questo tentativo venne abbandonato.

Il vescovo si rivolse allora ai Carmelitani Scalzi, avviando contatti attraverso la Madre Priora del monastero di Gallipoli, dove era monaca la sorella dello stesso presule. I padri visitarono il Salento per conoscere direttamente la realtà di Parabita, e da Napoli giunse un segnale d’entusiasmo per l’ipotesi di fondazione. Tuttavia, non si giunse ad alcuna concretizzazione. È evidente che anche questo tentativo si risolse in un nulla di fatto, nonostante il coinvolgimento personale e affettivo del vescovo.

il santuario oggi (foto di Emanuele Toma)

L’arrivo dei Missionari della Consolata (1930)

Dopo il susseguirsi di rifiuti e rinvii, la soluzione definitiva giunse all’inizio del 1930, quando il Santuario fu finalmente affidato ai Missionari della Consolata, istituto fondato da mons. Giuseppe Allamano nel 1901, con una forte vocazione missionaria e pastorale. Il decreto formale dell’erezione canonica e dell’affidamento risale al 1° febbraio 1930, anche se già nel 1932, come riferisce il vicario foraneo Gaetano Ferrari, i Missionari erano stabilmente presenti a Parabita con due sacerdoti e una scuola apostolica. La comunità religiosa prese sede accanto al santuario, dando impulso a una serie di iniziative spirituali, formative e assistenziali.

A dare notizia del clima fervente che si respirava in quegli anni è, tra le altre, una lettera del 1938 indirizzata al vescovo Gennaro Fenizia da Vincenzo Gerbino, il quale si dichiarava “fondatore del Santuario della SS. Vergine della Coltura e del Convento per i Padri della Consolata ed Opere annesse”. Gerbino sollecitava un intervento dell’Ordinario per rafforzare la presenza dei missionari, reinserire le suore e ripristinare l’attività degli apostolini, lamentando una gestione che, a suo dire, rischiava di svuotare il santuario della sua forza attrattiva e religiosa.

Il legame tra i Consolatini e la diocesi fu ancora formalizzato nel 1948, con una lettera del card. G. Marmaggi, Prefetto della Sacra Congregazione del Concilio, che confermava l’amministrazione del Santuario ai Missionari, ma con la prescrizione di una convenzione scritta in cui fossero definiti ruoli, responsabilità e modalità di gestione economica e pastorale. La convenzione prevedeva che il Santuario mantenesse la sua natura secolare, con l’ufficiatura affidata ai religiosi; che vi fosse una contabilità separata tra la comunità religiosa e il Santuario; che i missionari presentassero un rendiconto annuale al vescovo e che la comunità fosse composta da almeno cinque religiosi.

Un periodo di fioritura spirituale e artistica

Gli anni Quaranta e Cinquanta furono un periodo di grande vitalità per il Santuario, anche grazie all’apporto delle Suore Missionarie della Consolata, la cui “umile e zelante opera” viene lodata in un articolo dell’epoca. Si ricorda come “il forestiero sosta volentieri sotto le arcate e ammira l’ordine e la pulizia: frutto del loro intelletto pieno di fede”. Allo stesso modo, il documento sottolinea il servizio dei sacerdoti: nell’ufficiatura, nell’assistenza agli ammalati, nella formazione degli Apostolini, e nella realizzazione di importanti interventi artistici e strutturali, come gli affreschi interni (1943), l’altare di san Giuseppe, il corridoio absidale, la zoccolatura marmorea e il pavimento lucidato.

Nel 1952, il rettore padre Federico Civilotti, allora anche direttore della “Compagnia della Coltura”, presiedette una riunione in cui si discusse l’avvio del Bollettino del Santuario e si programmarono attività assistenziali e artigianali, come il laboratorio delle Dame della Coltura, destinato a promuovere la pietà e l’impegno sociale femminile.

Foto Emanuele Toma

Il declino e l’uscita dei Missionari della Consolata

Ma negli anni Sessanta, con il progressivo ridimensionamento delle vocazioni e la riorganizzazione degli ordini missionari, la presenza dei Consolatini a Parabita cominciò a vacillare. Un documento del 2 aprile 1962, durante l’episcopato di mons. Antonio Rosario Mennonna, testimonia la cessazione dell’officiatura da parte dei Missionari della Consolata.

Con la partenza dei Consolatini si chiuse un importante capitolo della storia del Santuario della Madonna della Coltura, un capitolo contrassegnato da fervore pastorale, apertura missionaria e crescita strutturale. La loro presenza, benché non perpetua, lasciò un’impronta visibile e duratura, contribuendo a consolidare Parabita come uno dei centri più significativi della devozione mariana nel Salento.

I tentativi falliti prima dell’arrivo dei Domenicani: una lunga ricerca per il Santuario della Madonna della Coltura

Foto Emanuele Toma

di Marcello Gaballo

Prima che il Santuario della Madonna della Coltura in Parabita fosse affidato stabilmente ai padri domenicani – oggi suoi custodi – si susseguirono, nei primi anni Venti del Novecento, diversi e complessi tentativi da parte del vescovo di Nardò, Nicola Giannattasio (1908-1926), di affidarne la gestione spirituale e materiale ad altre famiglie religiose.

Le fonti documentarie conservate nell’Archivio Storico Diocesano di Nardò, restituiscono con chiarezza un quadro articolato di proposte, speranze, interlocuzioni e, infine, rinunce che costellarono questo travagliato percorso.

Le date cruciali del 1923 segnano una serie di approcci falliti con tre importanti congregazioni religiose: i Redentoristi, i Servi della Carità (Opera Don Guanella) e i Carmelitani Scalzi. Queste vicende, poco note ma illuminanti, raccontano non solo le difficoltà logistiche e organizzative di quegli anni, ma anche la determinazione del vescovo Giannattasio nel voler affidare il Santuario a una presenza religiosa solida e capace di animare la vita spirituale e sociale della comunità.

Il primo approccio: i Redentoristi

Il primo tentativo, risalente al marzo 1923, coinvolse la Congregazione del Santissimo Redentore. Il vescovo si rivolse direttamente al Superiore Generale, padre Patrick Murray, per sondare la disponibilità della congregazione a prendere in carico non solo la parrocchia della Madonna della Coltura, ma anche una fondazione annessa di tipo pastorale e sociale. La risposta, datata 9 marzo 1923 e inviata dalla Curia Generalizia di Roma, fu cortese ma sostanzialmente negativa. Padre Murray spiegò che, secondo le regole interne dell’istituto, l’iniziativa spettava prima al Provinciale (nella fattispecie il padre Biagio Parlato, della provincia redentorista di Pagani, in provincia di Salerno), il quale avrebbe dovuto valutare con i propri consultori la proposta.

Più rilevante, tuttavia, fu il contenuto sostanziale del diniego: i Redentoristi, per statuto, sono dedicati al ministero apostolico e missionario, e le regole interne proibiscono ogni altra forma di occupazione che possa distogliere da tale missione. Inoltre, la provincia napoletana era già impegnata in due nuove fondazioni – una in Calabria, l’altra a Francavilla Fontana – e dunque non era in grado di avviare una nuova opera a Parabita in tempi brevi. La possibilità di una futura apertura “fra alcuni anni” non poteva soddisfare le urgenze pastorali del Vescovo.

I Servi della Carità e l’intercessione personale

Deluso dal primo tentativo, Giannattasio si rivolse allora all’Opera Don Guanella, cercando un’intercessione personale: quella di don Mauro Mastropasqua, sacerdote guanelliano e amico personale del vescovo e della sua famiglia. L’interesse iniziale sembrò promettente. Tuttavia, nella lettera dell’11 settembre 1923, il vicario generale dell’Opera, don Leonardo Mazzucchi, pur esprimendo simpatia e apertura, fu costretto a comunicare un rinvio o, in caso di urgenza, un rifiuto.

Le motivazioni erano pratiche e prudenti: la grande distanza di Parabita dalle case già esistenti dell’Opera Don Guanella rendeva difficile reperire, con prontezza, religiosi adatti alla nuova fondazione. La proposta fu ritenuta degna e interessante, ma necessitava almeno un anno di preparazione. In caso contrario, scrisse con rammarico don Mazzucchi, si sarebbe rischiato di “agire sconsideratamente”, con il rischio di “ingannare la fiducia di Monsignore” e “nuocere” all’Opera stessa. La lettera si chiude con un tono di sincero dispiacere, sottolineando quanto il progetto avesse suscitato speranze anche all’interno della congregazione.

L’ultima via prima dei Domenicani: i Carmelitani Scalzi

A seguito dell’esito negativo anche con i guanelliani, il vescovo Giannattasio si rivolse a un terzo ordine religioso: i Carmelitani Scalzi della Provincia di Napoli. Lo fece tramite un canale personale e spirituale: la Madre Priora del monastero delle Carmelitane di Gallipoli, dove era stata monaca anche la sorella del vescovo. L’intercessione fu efficace: un gruppo di padri si recò effettivamente nel Salento per una visita esplorativa, alloggiando presso le Carmelitane gallipoline.

La risposta del Provinciale, padre Cirillo dell’Immacolata, datata 21 settembre 1923, lasciava intravedere un possibile esito positivo. La proposta fu accolta con entusiasmo a Napoli e fu inviata a Roma, in attesa di approvazione da parte del Definitorio Generale dell’Ordine. Il tono della lettera, pur non vincolante, era carico di fervore e di fiducia nella Provvidenza. Il Provinciale invitava la Priora a intensificare le preghiere affinché “la Beata Maria spianasse tutte le vie”. Tuttavia, anche questo tentativo, per motivi non documentati nei materiali conservati, non giunse mai a compimento.

Una ricerca lunga e faticosa

I documenti dell’ASDN mostrano come nel solo anno 1923, il vescovo Giannattasio si adoperò con tre importanti famiglie religiose, mobilitando reti di amicizie personali, contatti istituzionali e relazioni spirituali. Il suo intento era chiaro: garantire al Santuario della Madonna della Coltura una guida religiosa stabile, capace di coniugare spiritualità, predicazione e azione sociale, in un contesto – quello di Parabita – in crescita e bisognoso di solide strutture pastorali.

L’insistenza del vescovo si spiega anche con il significato crescente che il Santuario aveva assunto nella pietà popolare e nella vita ecclesiale locale. La ricerca di un ordine religioso a cui affidare il culto, la gestione della parrocchia e, possibilmente, l’apertura di un convento, fu un tentativo lungimirante, anche se ostacolato da limiti oggettivi, come le distanze geografiche, la scarsità di personale e le priorità interne delle congregazioni.

L’arrivo dei Domenicani

Soltanto dopo questi tentativi falliti, maturò l’affidamento del Santuario ai Domenicani, che ne divennero poi i custodi e promotori. La loro presenza, radicatasi negli anni successivi, rispose infine al desiderio del vescovo: un ordine capace di coniugare la predicazione colta e popolare, l’animazione del culto mariano e la gestione pastorale della comunità. Ma questa tappa, spesso considerata scontata, fu in realtà l’esito di un lungo e articolato discernimento, in cui si alternarono aperture, entusiasmi, delusioni e rinunce.

La memoria di questi tentativi rimasti incompiuti offre oggi un quadro prezioso della vita ecclesiale del primo Novecento, restituendo dignità e rilievo a quel processo – non privo di fatiche – che portò alla configurazione attuale del Santuario di Parabita. Un processo che testimonia, più che un fallimento, la serietà e la determinazione con cui fu cercata, con preghiera e lungimiranza, la soluzione più adatta per custodire e sviluppare un luogo sacro tanto caro alla devozione salentina.

Una protesta del 1900 per difendere la patrona di Parabita

foto Emanuele Toma

Quando la Madonna della Coltura fu “dimenticata”: una protesta del 1900 per difendere la patrona di Parabita

di Marcello Gaballo

Nel gennaio del 1900, un accorato appello venne inoltrato alla Curia vescovile di Nardò da don Gaetano Ferrari, vicario foraneo e figura di riferimento per la comunità parabitana. Oggetto della missiva: la cancellazione, apparentemente per errore, della festa della Madonna della Coltura dal calendario liturgico diocesano, a favore di quella di San Francesco di Paola. Un cambiamento che suscitò sconcerto e profonda inquietudine tra i fedeli.

Il sacerdote scrive al Vicario generale con tono deciso, chiedendo “la correzione” di quanto avvenuto, e argomentando la richiesta con precisione canonica e passione pastorale. Richiama, infatti, l’autorità di due antichi decreti della Santa Sede, conservati presso l’Archivio Capitolare. Il primo, datato 1° dicembre 1847, dichiara la Madonna della Coltura “Padrona principale” di Parabita, elevandone la festa liturgica al rito doppio di prima classe con ottava, un segno inequivocabile del rango riconosciuto alla Vergine nel culto cittadino. Il secondo decreto, del 24 novembre 1848, stabiliva lo spostamento della festa di San Francesco di Paola, anch’essa di uguale dignità liturgica, ma non prevalente.

Per il parroco, dunque, l’inversione nel calendario non era solo un errore tecnico, ma una ferita inferta alla tradizione e alla devozione popolare. “Non so per colpa di chi si è commessa una tale omissione” – scrive Ferrari – “ma il vero si è che […] la SS. Vergine della Coltura [è] nominata Padrona principale”. E la memoria liturgica della Madonna, da sempre celebrata la seconda domenica dopo Pasqua, “non può muoversi, senza un generale disturbo delle sacre funzioni”.

Ma a preoccupare non era solo la precisione del calendario. Il sacerdote sottolinea con forza il legame affettivo e spirituale della comunità con la Madonna della Coltura, parlando di una “sconfinata divozione”, alimentata da pratiche secolari, come i nove sabati precedenti alla festa e la solenne Novena. Persino l’andamento delle offerte per il restauro della cappella era legato al fervore popolare: spostare la festa, temeva il vicario, avrebbe rischiato di “intiepidire la devozione colla correlativa diminuzione delle offerte”.

In conclusione, Ferrari avanzava una proposta di compromesso: spostare la festa di San Francesco alla quarta domenica dopo Pasqua, così da evitare sovrapposizioni e rispettare le priorità cultuali sancite dai decreti papali.

Questo episodio, oggi forse dimenticato, restituisce uno spaccato vivido di come il culto locale – pur nella cornice della disciplina liturgica – fosse anche un fatto identitario, capace di mobilitare l’intera comunità. La Madonna della Coltura, che ancora oggi occupa un posto centrale nella pietà popolare di Parabita, dimostra come la devozione non sia solo affetto, ma anche memoria storica, diritto liturgico e, in certi casi, orgogliosa difesa delle proprie radici.

L’antica chiesa di Santa Maria della Coltura prima del santuario: un ritratto del 1829 (seconda parte)

il santuario oggi (foto di Emanuele Toma)

 

di Marcello Gaballo

 

Un beneficio restituito

Il documento, relativo alla restituzione dei beni al padre cassinese don Giuseppe Logerat, investito della cappellania di Santa Maria della Coltura dal 1827, elenca numerosi terreni e beni annessi al beneficio. Ma il cuore spirituale del complesso era proprio la cappella, situata “a circa passi sessanta distante dall’abitato” di Parabita. Essa si trovava in un’area strategica, confinante con il giardino del duca di Parabita, con una chiusa olivata del Capitolo, con un’area demaniale e con una cisterna pubblica: segno evidente della sua centralità non solo religiosa, ma anche sociale.

La descrizione architettonica della cappella offre un raro scorcio sull’edificio.

Era “composta ad una nave, di una mediocre grandezza a lamia”, con copertura a volta e due ingressi: uno principale, rivolto a occidente, e uno laterale più piccolo, rivolto a mezzogiorno. Le porte erano in ordine, munite di ferri e maschiature. Due finestroni, uno sopra la porta maggiore e uno sull’altare, garantivano luce all’interno.

L’altare, in pietra leccese dorata “a guazzo”, custodiva un’immagine affrescata della Madonna della Coltura, racchiusa in un ovato di pietra, così come fu “ritrovata”. È qui che affiora il cuore leggendario della devozione: «si diete la denominazione Coltura perché fù svelta coll’aratro, mentre si coltivava quel luogo, ove si denominava nei tempi antichi Le Colture». Il legame tra sacro e terra, fede e agricoltura, appare profondissimo.

Alla cappella erano annessi due ambienti “a lamia” sul lato sud: uno destinato a sagrestia e l’altro all’oblato. Entrambi comunicavano con l’aula sacra mediante porte in ordine. All’interno della sagrestia si trovavano tre stipi in legno, anch’essi in buone condizioni. Il primo custodiva una statua della Madonna in carta pesta verniciata, con piede dorato in legno. Il secondo conteneva l’apparato dell’altare, in foglia dorata e argentata, mentre il terzo era adibito alla custodia degli arredi sacri.

L’inventario degli oggetti liturgici è sorprendentemente ricco per una cappella rurale: un calice con coppa e patena in argento dorato, ampolline di vetro, vesti liturgiche variopinte (pianeta, amitto, stola, borsa, velo), corporali, purificatori, tovaglie d’altare, cuscini per il messale, una tovaglia per il lavabo e persino un bacile da sagrestia.

 

Il contesto fondiario

Il beneficio comprendeva anche numerosi fondi agricoli, estesi su Parabita e Matino: oliveti, seminativi, vigne con toponimi come Conche, Carignani, Signora Vecchia, Pigno, Tammali, Paduli, Insite, Boggi. Questi erano affittati a coloni locali, con un sistema ben regolato di canoni e scadenze. Il documento riferisce che la rendita complessiva ammontava a 83 ducati e 5 grana annui, somma non trascurabile, che contribuiva al sostentamento del cappellano.

 

Una memoria da recuperare

Questa testimonianza del 1829, oltre al suo valore storico-documentario, permette di ricostruire la fisionomia di una chiesa oggi scomparsa, ma fondamentale per comprendere le origini del culto mariano a Parabita.

Prima del maestoso santuario che oggi domina la piazza, esisteva quindi un luogo più modesto ma profondamente radicato nella pietà popolare, custode di una leggenda contadina e di un patrimonio artistico e devozionale di sorprendente ricchezza.

La cappella della Coltura, con il suo altare, gli affreschi, le suppellettili e l’intima semplicità architettonica, rappresenta un importante tassello nella storia religiosa e sociale del territorio, un’eco di una spiritualità antica che merita di essere riscoperta.

 

Per la prima parte vedi qui:

L’antica chiesa di Santa Maria della Coltura prima del santuario: un ritratto del 1829 (seconda parte) – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto

L’antica chiesa di Santa Maria della Coltura prima del santuario: un ritratto del 1829 (prima parte)

 

di Marcello Gaballo

In occasione dell’imminente festa patronale dedicata alla Madonna della Coltura, si propone ancora un articolo volto a far riscoprire la storia e la devozione che lega Parabita alla sua celeste protettrice. Sempre sulla base di documenti d’archivio, testimonianze e memorie del passato, si vuole offrire un viaggio nel tempo, per comprendere come si sia evoluto il culto mariano e quali siano le sue radici più profonde. Un sentito ringraziamento va al fotografo Emanuele Toma, che ha generosamente messo a disposizione il suo sguardo e la sua sensibilità artistica per corredare questi contributi con immagini che accompagnano e arricchiscono il racconto.

 

Nel cuore di Parabita, prima che sorgesse l’attuale santuario neogotico di Santa Maria della Coltura, esisteva un edificio più modesto ma ricco di storia e significati devozionali: una cappella campestre, con annessi poderi e suppellettili, che affondava le sue radici nella tradizione popolare e nella spiritualità locale.

Un documento del 1829, conservato nell’Archivio Storico Diocesano di Nardò, ci restituisce un’immagine dettagliata di questa antica chiesa e del beneficio ecclesiastico a essa legato, offrendo una preziosa testimonianza di com’era la Coltura prima della trasformazione ottocentesca.

 

Un beneficio legato all’abbazia di Cava

Il documento del 1829 menziona come titolare del beneficio di Santa Maria della Coltura un religioso benedettino: padre Giuseppe Logerat, monaco cassinese proveniente dall’antichissima abbazia della Santissima Trinità di Cava de’ Tirreni, in Campania. La sua investitura ufficiale come cappellano avvenne il 31 agosto 1827, data in cui, per effetto di un Real Decreto, il beneficio gli fu conferito e la rendita cominciò a essere percepita dal suo procuratore a Parabita, Giovanni Dolce.

Questa designazione non fu casuale: l’abbazia di Cava aveva da secoli un’importante rete di benefici ecclesiastici e possedimenti anche nel Regno di Napoli, grazie a donazioni e privilegi ricevuti nei secoli medievali e moderni. Non era raro che chiese rurali o piccoli benefici parrocchiali del Sud Italia fossero messi sotto la cura spirituale e amministrativa di ordini religiosi di antico prestigio, come appunto quello cassinese.

La cappella della Coltura rientrava evidentemente tra i beni assegnati all’abbazia, che, pur distante geograficamente, ne traeva sostentamento economico e affidava la cura pastorale a religiosi o procuratori locali.

Tuttavia, nel clima complesso di riforme post-napoleoniche e restaurazione borbonica, molti benefici furono temporaneamente sequestrati dallo Stato. È questo il caso anche del beneficio della Coltura di Parabita, che fu sottoposto a sequestro (non meglio specificato nel documento), fino a quando, con decreto ministeriale del 30 luglio 1828, fu ordinato il dissequestro, eseguito materialmente il 1° aprile 1829. Da quel momento, tutti i possedimenti e le rendite tornarono nelle mani del padre Logerat, che ne poté disporre pienamente fino alla naturale scadenza della concessione.

Questo passaggio chiarisce come la chiesa della Coltura, ben prima dell’attuale santuario, fosse inserita in una più ampia rete di relazioni giuridico-religiose che collegavano Parabita a una delle abbazie più influenti dell’Italia meridionale, e come la sua gestione fosse tutt’altro che marginale, essendo regolata da decreti reali, canoni di affitto e contratti ben formalizzati.

(continua)

 

Profilo bio-bibliografico di Luigi Mariano

di Paolo Vincenti*       

Luigi Mariano nasce a Lecce il 10 Luglio 1899. Consegue nel 1918 il diploma di Ragioniere presso l’Istituto Tecnico “Costa” di Lecce, con licenza d’onore e con l’abilitazione all’insegnamento. Nel 1921 si laurea a Venezia, presso l’Università “Ca Foscari” in Economia e Commercio “a pieni voti assoluti e con lode”[1]. Nel 1922 supera gli esami per l’abilitazione all’insegnamento della ragioneria e computisteria nelle Scuole Medie e nelle Scuole Superiori. Prende servizio nel 1922 presso l’Istituto Tecnico di Lecce, che lascerà nel 1969, dopo quasi 50 anni di attività, per raggiunti limiti di età. Nel 1924 consegue il Diploma di Magistero in Ragioneria presso la stessa Università di Venezia, con il massimo dei voti, il che conferma la grande passione per questa materia che ha sempre accompagnato il Mariano[2]. Nello stesso anno, dopo essere stato supplente nella cattedra di ragioneria e computisteria all’Istituto Tecnico leccese, come vincitore di concorso, viene promosso ordinario, ossia diventa docente di ruolo ed impartisce a tante generazioni di studenti le fondamentali nozioni di ragioneria, computisteria e anche di tecnica commerciale[3]. Nel 1926 vince una borsa di studio della stessa Università che gli permette di effettuare una pratica commerciale in Belgio, a Liegi, dove viene a contatto con alcune importanti realtà commerciali del luogo e prende anche parte al Congresso Internazionale della Cooperazione di Gand.

È spesso nominato commissario negli esami di stato. Inizia la sua attività di conferenziere con apprezzate relazioni che tiene in varie scuole, in enti pubblici e privati. Vince diversi concorsi in pubbliche amministrazioni ma non utilizza questi titoli perché già docente di ruolo e ragioniere commercialista[4]. Negli stessi anni inizia la sua attività di giornalista per «Il Giornale di Roma», come corrispondente per la provincia di Lecce, e per la «Rivista Italiana di Ragioneria» per cui pubblica i suoi primi saggi di carattere economico. Nel 1925 pubblica Le Banche Cooperative dei Principali Stati[5] e L’Orizzonte Economico del Salento[6].

Nel 1930 esce la monografia Le Aziende Enologiche[7] in cui tratta della organizzazione del comparto vinicolo salentino all’epoca in forte crescita. Nel 1931 pubblica, edito da Laterza, il compendio Le Associazioni Sindacali[8], ed edito da Trevisini il manuale Nozioni di Contabilità Agraria[9]. Continua intanto proficuamente la sua collaborazione con la «Rivista Italiana di Ragioneria». Nel 1932/33 collabora attivamente con la rivista «Il Faro Salentino», sulla quale pubblica vari pezzi di carattere economico e finanziario, fra cui tra l’altro, “Il Monopolio Sindacale” e “Le Associazioni in Partecipazione”.

Inizia la sua collaborazione con «La Gazzetta del Mezzogiorno», a cui segue anche quella con il giornale cattolico «L’Ordine».

Nel 1935 pubblica, editi da Conte di Lecce, i libri Istituzioni di ragioneria commerciale. Note di rilevazione contabile e statistica nel sistema del reddito[10] e Forme, Fasi e Bilanci d’Impresa[11]; nello stesso anno, su richiesta della «Rivista Italiana di Ragioneria», scrive l’articolo I Limiti della Moderna Ragioneria, che ebbe una risonanza internazionale[12].

Negli anni 1936/1939 pubblica, editi da Giuseppe Guido & F., Il Mercato Bisettimanale di Lecce[13], I giacimenti salentini di bauxite[14], Rivalutazioni di bilancio monetarie e congiunturali delle imprese commerciali[15].

Negli anni, Mariano affianca all’attività professionale quella imprenditoriale di banchiere. Fondamentale nella sua carriera è l’incontro con il barone Angelo Comi di Corigliano d’Otranto con il quale fonda, nel 1924, la cassa Agricola “Angelo Comi”, un istituto di credito che ha come prima sede Corigliano. La banca cresce subito grazie ad una vasta platea composta prevalentemente da contadini e imprenditori agricoli che in anni di forte sviluppo per il credito cooperativo decretano il successo della banca di Mariano e Comi. Nel 1928 alla sede di Corigliano si affianca quella di Martano. Nel 1959 muore il Barone Comi che lascia in eredità l’intera attività a Mariano. La banca cambia così ragione sociale diventando Banca Agricola Salentina e apre anche la filiale di Cavallino[16].

Nel 1940 pubblicato da Paravia, esce Ragioneria Generale per gli Istituti Tecnici Commerciali[17], che è il primo di una lunga serie di ineguagliati testi scolastici. Nel 1941 Mariano viene nominato Preside Reggente presso l’Istituto Tecnico di Lecce; nello stesso anno collabora attivamente con l’Opera Salesiana per l’insediamento dei Figli di San Giovanni Bosco nella città di Lecce, tanto da meritare grande riconoscenza dal Rettore Generale[18]. A proposito della sua figura di Preside, scrive Gianfranco Mazzotta in una pubblicazione commemorativa del prestigioso Istituto Costa: “Non poche volte [Mariano] entrava in classe, in assenza del docente, per conversare con noi, per conoscerci, per saggiare la nostra preparazione e per darci i consigli più appropriati. Spesso con noi pendolari, che venivamo a scuola da Squinzano, da Trepuzzi e da altri comuni viciniori con la bicicletta e non poche volte con la pioggia addosso e con pochi fichi secchi al posto della merenda, senza riscaldamenti tranne quelli di cui madre natura ci aveva dotato, in pantaloni corti per l’alto costo del tessuto, si intratteneva a ricordarci i suoi anni di giovinezza e di studio trascorsi con duri sacrifici che, egli diceva, in conclusione sono serviti e servono per corroborare il carattere e la personalità dello studente, migliorandone la capacità di affrontare e risolvere i mille e mille problemi che la vita gli pone”[19]. Nel 1946 Mariano pubblica, edito da Tipografia Editrice Salentina, la monografia La Regione Salentina[20], un lungo excursus sulle tante potenzialità economiche ancora inespresse della regione. Nel 1947 pubblica, sempre da Tipografia Editrice Salentina, la monografia tecnico-economica La potenzialità economica e finanziaria del Salento. Note illustrative[21], che ebbe un enorme successo, tanto da indurre il Sindaco di Lecce dell’epoca ad inviarla a tutte le massime autorità del Paese. Sempre nel 1947 vince il concorso a Preside Titolare degli Istituti Tecnici. Nel 1948 esce L’Istruzione Tecnica in Provincia di Lecce[22], che è il preludio per la fondazione del “Consorzio per l’Istruzione Tecnica” di cui fu Direttore per lunghi anni. Intensa la sua attività pubblicistica che lo porta a collaborare anche con le riviste «Il Carroccio di Taranto», «Cronache Salentine», «Il Salento Agricolo» e «Terra di Puglia».

Nel 1954 vede finalmente coronati i suoi sforzi nei confronti della categoria dei Ragionieri: la Corte di Appello di Lecce istituisce l’Albo dei Ragionieri e Periti Commerciali, assegnandogli il primo numero di iscrizione e anzianità. Successivamente Mariano diventa Presidente dell’Albo e ricopre la carica fino alla morte. L’Albo verrà poi intitolato allo stesso Mariano ancora egli vivente. Nel 1955, dopo un triennio di intensissima attività quale Direttore del Centro Provinciale di Cinematografia Scolastica, riceve dal Ministero un particolare elogio per l’opera svolta. Nello stesso anno, pubblica, edito da Vincenzo Conte, Istituzioni di Ragioneria Generale[23], altro importante testo scolastico. Continua intanto, rafforzandosi, l’attività della Banca Agricola Salentina, fra tutte probabilmente l’attività più amata. Inizia ad affiancarlo il fratello Francesco, la cui famiglia, composta dalla moglie Vincenza Covelli e dal figlio, chiamato Luigi come lo zio, Mariano sente come propria. Francesco diviene direttore della sede centrale di Cavallino della Banca[24].

Nel 1956 il Nostro collabora attivamente con Mons. Minerva e le altre autorità ecclesiastiche per la organizzazione del settore economico-finanziario del “Congresso Eucaristico” che si tenne in quell’anno nel capoluogo salentino[25].

Rimarchevoli sono i suoi tre volumi di ragioneria: Ragioneria Applicata Vol.II e Ragioneria Applicata Vol. III[26]. Nel 1958 viene confermato Consigliere onorario della sezione minorenni della Corte di Appello di Lecce e pubblica, editore Conte, Ragioneria Professionale[27] e Compendio di contabilità agraria per gl’Istituti Tecnici Agrari[28].

Nel 1960 è la volta di Quadro economico e sviluppo produttivo nel Salento[29], particolarmente apprezzato del Governo dell’epoca. Nel 1962 viene nominato “Esperto in Materie Economiche” dalla Commissione Provinciale dell’Artigianato.

Nel 1966 compie uno studio sulle risorse dell’Idume, che pubblica sulla rivista «La Zagaglia»[30]. Viene nominato dall’Amministrazione Provinciale “Componente della Commissione Giudicatrice del Concorso di Ragioneria e Tecnica”; sempre nel 1966, con decreto del Guardasigilli, gli viene conferito il Diploma e Medaglia d’Oro al Merito della Redenzione Sociale.  In questi anni collabora attivamente con il giornale «Il Salento Agricolo», in cui si occupa delle sorti della malandata agricoltura locale, che gli sono particolarmente a cuore. Nel 1969 lascia, per raggiunti limiti di età, l’incarico di Preside dell’Istituto Tecnico “Costa” di Lecce ricevendo attestazioni di stima da tutto il mondo intellettuale e politico dell’epoca.

Nel 1972 il Presidente della Repubblica lo insignisce della Medaglia d’Oro al merito della Cultura.

Mariano spende molte energie per sviluppare il Consorzio per l’Istruzione Tecnica di cui è Direttore e il Collegio dei Ragionieri di cui è Presidente[31]. Colpisce lo straordinario attivismo di questo mercuriale imprenditore salentino. Probabilmente favorito dalla condizione di celibe, egli si dedicò interamente alla carriera con una capacità di impegno fuori dal comune. Non doveva essere solo attrazione per il guadagno a muoverlo, se seppe spendersi anche in attività no profit, rivestendo cariche sociali che non gli portavano un immediato ritorno ma che anzi erano volte al progresso della propria classe professionale o alla crescita culturale del proprio territorio. Assommò infatti svariate cariche nel corso della carriera. Sarebbe davvero improduttivo citarle tutte ma alcune di queste crediamo meritino attenzione. Fu socio fondatore e sindaco del Consorzio Agrario Provinciale, della Casa dei Mercanti di Lecce, della Associazione degli Oleifici Salentini, della Banca Popolare San Lazzaro, oltre che della già citata Banca Agricola Salentina. Fu Revisore dell’Azienda Autonoma di Soggiorno e Cura di Santa Cesarea Terme e sindaco dell’Opera Nazionale Mutilati del Lavoro di Lecce. Un foglio inedito manoscritto probabilmente autografo dice: “Non ha mai coperto cariche nel cessato regime [fascista] dal quale anzi è stato angariato per la sua capacità professionale e per il suo stato civile di celibe”. Mariano rivendica la propria autonomia politica e soprattutto la non compromissione con il regime dittatoriale dal quale, pare di capire, avrebbe potuto ottenere maggiori vantaggi professionali che egli invece non curò[32]. Non di meno, negli anni successivi ricoprì un numero elevato di cariche. Per esempio, la Banca d’Italia e il Ministero del Lavoro gli affidarono molte perizie tecniche e gli incarichi di Commissario speciale per il risanamento di alcune banche in crisi come la Cassa Rurale di Copertino, la Banca Popolare di Gallipoli, il Monte di Pegno di Alezio. Ci sentiamo di escludere che il suo dinamismo fosse dovuto a ragioni di visibilità o tornaconto elettorale perché fu evidentemente alieno da tentazioni politiche, se intendiamo la politica nel senso ristretto del termine di attività di governo e amministrazione della cosa pubblica (nella sua deriva di “politica come professione” denunciata da Max Weber), e non invece nel senso più generale di impegno personale e volontaristico a favore del miglioramento e della crescita del proprio territorio, ovvero della pόlis secondo l’etimologia greca e quindi dei polī́tēs, cioè i propri concittadini.

Nel 1979, come già detto, è nominato Presidente Onorario del Collegio dei Ragionieri che viene intitolato, ancora vivente, al suo nome.

Nel 1981 l’Arcivescovo di Lecce Mons. Minerva lo nomina Ministro Straordinario della Santa Eucarestia.

Nel 1982 pubblica, editori F.lli Palumbo, Sintesi storica di Lecce dalle origini e nel tempo[33].

Un importante avvicendamento intanto c’è stato alla guida della Banca Agricola Salentina le cui redini passano nelle mani del nipote Luigi, detto Ginetto, già Direttore Generale, anche se Luigi resta sempre Presidente. La Banca Agricola Salentina nel 1995 si fonde con la Banca Sella e la Banca di capitanataGinetto viene anche adottato da Luigi che lo ha sempre considerato come un figlio proprio. Nel 1983 Mariano pubblica i saggi: Caposaldo viario[34] e Capisaldi italiani di politica economica e finanziaria[35], che tanta favorevole accoglienza hanno avuto nel mondo bancario. “Il suo costante insegnamento”, scrive Gianfranco Mazzotta, “che si desume da ogni suo scritto in tema di economia e finanza, è quello che ha per tema il risparmio. Da questa ricchezza accumulata, dose dopo dose, scaturiscono tutte le fortune sia individuali sia collettive. Egli è così convinto di questo principio economico che qualsiasi problematica economico-finanziaria non può trovare soluzione se non si pone in giusta relazione con il risparmio. Convinto assertore dell’economia di mercato dove il valore dei beni è determinato dalle leggi economiche della domanda e dell’offerta, sia pure corretto dall’intervento non devastante dello Stato. Egli afferma che il risparmio è il centro motore di ogni sviluppo economico produttivo”[36]. Il 7 novembre 1983 muore a Lecce a seguito di incidente stradale.

Il suo ultimo lavoro è un corposo libro sul poeta latino Quinto Ennio, che viene pubblicato postumo dalla Banca Agricola Salentina[37].

Nello stesso anno 1983 esce una pubblicazione a cura della Banca Agricola Salentina; nello scritto dedicatorio nella prima pagina, Mario Paone scrive: «Alla memoria dell’illustre Preside LUIGI MARIANO, figura esemplare di studioso di versatile ingegno, animatore intrepido ed alacre di molteplici attività culturali che onorò la vita con la specchiata dedizione alla causa dell’Istituto Tecnico Commerciale “Costa” e della Banca Agricola Salentina che fondò e diresse con amore grande pari soltanto al vuoto che la sua dolorosa dipartita lascia nella cultura di Terra d’Otranto. Lecce, dicembre 1983 »[38]. 

Nel 1989 il comune di Lecce gli ha intestato un via nel centro della città, mentre nel 1992 l’Università di Lecce gli ha intitolato il “Centro Studi Economici”.

Presso il Liceo Scientifico Banzi Bazoli di Lecce è istituita una Borsa di Studio voluta dalla “Fondazione Luigi Mariano” che ogni anno premia gli studenti maturati più meritevoli. «La “Fondazione Luigi Mariano”», è scritto nella motivazione, «è stata costituita dalla famiglia per ricordare e mantenere viva la memoria di Luigi Mariano, che per oltre 60 anni illuminò con il suo sapere, in ogni campo dello scibile, la cultura del Salento: egli stesso voleva essere ricordato come educatore più che come economista. È desiderio della famiglia che il nome di Luigi Mariano sia legato allo sviluppo della cultura di Lecce e del Salento, al fine di dare spinta e stimolo alle intelligenze leccesi»[39].

 

 

BIBLIOGRAFIA DEGLI SCRITTI

Le Banche Cooperative dei Principali Stati, Lecce, Editrice Salentina,1925; L’Orizzonte Economico del Salento, Lecce, Editrice Salentina, 1925;

Le Aziende Enologiche, Lecce, Editrice Salentina, 1930;

Le Associazioni Sindacali, Bari, Laterza, 1931;

Nozioni di Cantabilità Agraria, Milano, Trevisini, 1931;

Associazioni sindacali. Compendio di amministrazione e ragioneria, Bari, Giuseppe Laterza e figli, 1932;

Prefazione, in Mario Moscardino, Il Ragioniere nello Stato Fascista. Interessi e problemi di classe, Roma-Lecce-Capri, Edizioni Promessa dirette da Gaetano Cafaro, 1933;

Istituzioni di ragioneria commerciale. Note di rilevazione contabile e statistica nel sistema del reddito, Vol. I, Lecce, Tip. Editrice Vincenzo Conte, Lecce, 1935;

Forme, Fasi e Bilanci d’Impresa, Lecce, Tip. Editrice Vincenzo Conte, 1935;

Il Mercato Bisettimanale di Lecce, (Estratto da «La Gazzetta del Mezzogiorno» e da «L’Ordine») Lecce, Tip. G.Guido, 1937;

I giacimenti salentini di bauxite, Lecce, Ed. Giuseppe Guido e figli, 1938; Rivalutazioni di bilancio monetarie e congiunturali delle imprese commerciali, Lecce, Tipografia Giuseppe Guido & Figli, 1939;

Ragioneria Generale per gli Istituti Tecnici Commerciali, Torino, Paravia, 1940;

La Regione Salentina, Lecce, Tipografia Editrice Salentina, 1946;

La potenzialità economica e finanziaria del Salento. Note illustrative, Lecce, Tip. Editrice Salentina Frat. Spacciante, 1947;

L’Istruzione Tecnica in Provincia di Lecce, Lecce, Tipografia Editrice Salentina, 1948;

La centrale delle cantine, Estratto da «Salento Agricolo», n.11 – novembre 1952, Lecce, Editrice Salentina (manca la data);

Istituzioni di Ragioneria Generale, Lecce, Editrice Vincenzo Conte, 1955;

Ragioneria Applicata. Ad uso degli Istituti Tecnici Commerciali, Volume III, Lecce, Corrado Conte Editore, 1957;

Ragioneria Professionale, Lecce, Conte Editore, 1958;

Compendio di contabilità agraria per gl’Istituti Tecnici Agrari, Milano, Edizioni Tramontana, 1958;

Quadro economico e sviluppo produttivo nel Salento, Lecce-Galatina, Tipografia Editrice Salentina, 1960;

Una grande risorsa naturale per l’agricoltura e per l’industria. L’Idume di Lecce, Estratto da «La Zagaglia» – n.30, Lecce 1966 (senza data nè luogo di stampa);

Riforma monetaria internazionale, Estratto da «Salento Agricolo», nov-dic. 1975, Galatina, Editrice Salentina (manca la data);

Unità monetaria ed economica della Comunità Europea, estratto da Banca e banchieri, anno IV, n. 9, settembre 1977;

Valuta comunitaria e unione monetaria europea, estratto da «Salento Agricolo», nn. 5-6, maggio- giugno 1978 (manca data e luogo di stampa);

Avvio al risanamento economico italiano, Galatina, Editrice Salentina, 1981;

Sintesi storica di Lecce dalle origini e nel tempo, Lecce, Editrice F.lli Palumbo, 1982, ristampa, Milella, Lecce, 2019;

Caposaldo viario, Lecce, Editrice F.lli Palumbo, 1983;

Capisaldi italiani di politica economica e finanziaria, Lecce, Editrice F.lli Palumbo, 1983;

Quinto Ennio e Lecce, Banca Agricola Salentina, Lecce, Centro grafico editoriale Orantes, 1985.

*Società Storia Patria per la Puglia, paolovincenti71@gmail.com.

[1] Traggo queste notizie da un foglio manoscritto, Notizie sulla operosità scientifica e sulla carriera didattica, inedito, opera dello stesso Luigi Mariano (s.d.).

[2] Ibidem.

[3] La data in cui vince il concorso viene da Mariano approssimativamente collocata nel 1924, nel sopracitato scritto autobiografico, anche se non è specificata, mentre in un altro foglio inedito intitolato Luigi Mariano Economista-Educatore (senza data né luogo di stampa) si indica il 1928: “1° in graduatoria nazionale – boll. Uff. del 7/3/1929 n.10”.

[4] Ibidem.

[5] Le Banche Cooperative dei Principali Stati, Lecce, Editrice Salentina, 1925.

[6] L’Orizzonte Economico del Salento, Lecce, Editrice Salentina, 1925.

[7] Le Aziende Enologiche, Lecce, Editrice Salentina, 1930.

[8] Le Associazioni Sindacali, Bari, Laterza, 1931.

[9] Nozioni di Contabilità Agraria, Milano, Trevisini, 1931.

[10] Istituzioni di ragioneria commerciale. Note di rilevazione contabile e statistica nel sistema del reddito, Vol. I, Lecce, Tip. Editrice Vincenzo Conte, 1935.

[11] Forme, Fasi e Bilanci d’Impresa, Lecce, Tip. Editrice Vincenzo Conte, 1935.

[12] Si trova in Luigi Mariano Economista-Educatore, inedito, cit., ma non sono pervenuti gli estremi bibliografici.

[13] Il Mercato Bisettimanale di Lecce, (Estratto da «La Gazzetta del Mezzogiorno» e da «L’Ordine») Lecce, Tip. G.Guido, 1937.

[14] I giacimenti salentini di bauxite, Lecce, Ed. Giuseppe Guido e figli, 1938.

[15] Rivalutazioni di bilancio monetarie e congiunturali delle imprese commerciali, Lecce, Tip. Giuseppe Guido & Figli, 1939.

[16] S. Famularo, Pionieri del Salento. Storie di vite straordinarie oltre il loro tempo, Lecce, Edizioni Grifo, 2015, pp. 121-126. La Famularo indica erroneamente la data di morte del Mariano nel 2003. Su Mariano si veda anche C. Stasi alla voce Luigi Mariano, in Dizionario Enciclopedico dei Salentini, Tomo II (M-Z), Lecce, Edizioni Grifo, 2018, pp. 635-636 (Anche Stasi indica come data di morte il 2003).

[17] Ragioneria Generale per gli Istituti Tecnici Commerciali, Torino, Paravia, 1940.

[18] Notizie tratte da Luigi Mariano Economista-Educatore (senza data né luogo di stampa), inedito, cit.

[19] G. Mazzotta, Luigi Mariano – Economista, in Istituto Tecnico Oronzo Gabriele Costa-Lecce, Nel centenario della fondazione (1885-1886/1985-1986), 1987 (s.l.s.), p. 1. Mazzotta, divenuto a sua volta Preside dell’Istituto Costa, ricorda il suo predecessore Luigi Mariano, “Preside integerrimo di questa scuola per quasi un cinquantennio ed economista insigne, pubblicista ed uomo di vasta cultura”, Ibidem.

[20] La Regione Salentina, Lecce, Tipografia Editrice Salentina, 1946.

[21] La potenzialità economica e finanziaria del Salento. Note illustrative, Lecce, Tip. Editrice Salentina Frat. Spacciante, 1947.

[22] L’Istruzione Tecnica in Provincia di Lecce, Lecce, Tipografia Editrice Salentina, 1948.

[23] Istituzioni di Ragioneria Generale, Lecce, Editrice Vincenzo Conte, 1955.

[24] S. Famularo, Pionieri del Salento. Storie di vite straordinarie oltre il loro tempo, cit.

[25] Notizie tratte da Luigi Mariano Economista-Educatore (senza data né luogo di stampa), cit. Stranamente questo manoscritto non menziona l’attività, pure fondamentale, di banchiere, dello stesso Mariano. Non una parola sulla fondazione della Banca Agricola Salentina che costituisce la pietra miliare della sua lunga carriera di operatore economico e finanziario.

[26] Ragioneria Applicata. Ad uso degli Istituti Tecnici Commerciali, Volume III, Lecce, Corrado Conte Editore, 1957.

[27] Ragioneria Professionale, Lecce, Conte Editore, 1958.

[28] Compendio di contabilità agraria per gl’Istituti Tecnici Agrari, Milano, Edizioni Tramontana, 1958.

[29] Quadro economico e sviluppo produttivo nel Salento, Lecce-Galatina, Tipografia Editrice Salentina, 1960.

[30] Una grande risorsa naturale per l’agricoltura e per l’industria. L’Idume di Lecce, Estratto da «La Zagaglia» – n.30, Lecce 1966 (senza data nè luogo di stampa).

[31] Luigi Mariano Economista-Educatore (senza data né luogo di stampa), cit.

[32] Ci risulta invece la sua regolare iscrizione al PNF (Federazione dei Fasci di Combattimento di Terra d’Otranto). Documento n.6560/c. Archivio personale Mariano.

[33]Sintesi storica di Lecce dalle origini e nel tempo, Lecce, Editrice F.lli Palumbo, 1982, ristampa, Milella, Lecce, 2019.

[34] Caposaldo viario, Lecce, Editrice F.lli Palumbo, 1983.

[35] Capisaldi italiani di politica economica e finanziaria, Lecce, Editrice F.lli Palumbo, 1983.

[36] G. Mazzotta, Luigi Mariano – Economista, in Istituto Tecnico Oronzo Gabriele Costa-Lecce, Nel centenario della fondazione (1885-1886/1985-1986), 1987 (s.l.s.), cit., pp.  4-5.

[37] Quinto Ennio e Lecce, Banca Agricola Salentina, Lecce, Centro grafico editoriale Orantes, 1985.

[38] M. Paone, Le previsioni bancarie. Lineamenti di tecnica del credito. Studio in onore di Luigi Mariano, Lecce, Il Notiziario Editore, 1983.

[39] https://www.liceobanzi.edu.it/42-news/2892-borsa-di-studio-fondazione-luigi-mariano

 

Aneddoti e vicende sulla plurisecolare festa di Sant’Antonio di Padova a Seclì

la chiesa di S. Antonio a Seclì

 

Il Patavino, il protettore acclamato dal popolo

Aneddoti e vicende sulla plurisecolare festa di Sant’Antonio di Padova a Seclì

 

di Antonio Epifani

 

L’uomo per sua natura è sempre alla ricerca di qualcosa che gli permetta di vivere appieno la sua stessa esistenza. In ogni modo di fare e in ogni realtà sociale c’è sempre una dinamica storica, religiosa e antropologica che ci permette di delineare in maniera attenta e documentaria una vicenda, un fatto o una realtà di varia natura. Con l’approssimarsi delle festività antoniane nella piccola Seclì, risulta interessante capire il legame che unisce ormai da secoli questa piccola comunità al Santo dei miracoli. Appare quasi spontaneo e naturale associare questo Santo a Seclì, ma le motivazioni o per meglio dire i tanti documenti e testimonianze che attestano tale devozione sono sconosciute ai più.

Sfogliando l’archivio storico, conservato nell’attuale chiesa parrocchiale,  ci si accorge della vastità di documenti, fogli, elenchi, foto che delineano figure, personaggi e vicende che hanno segnato la storia di questo piccolo centro. In realtà una documentazione molto antica non esiste più. Purtroppo è andata persa per varie vicende che hanno interessato lo spostamento dell’archivio parrocchiale dalle abitazioni private dei prelati del posto alla chiesa matrice antica.

Tuttavia in alcune mozioni degli arcipreti di Seclì leggiamo: “in queste sacre mura da secoli il popolo di Seclì invoca il tuo nome, oh Santo amabile” del Sac. don Giovanni Cardinale, mentre agli inizi del 1900 il Sac. don Luigi Piccinno scrive a chiare lettere: “il simulacro di S. Antonio di Padova – Angelo tutelare del popolo di Seclì – è fresco di riparazione”.

Poche annotazioni che delineano un profilo importante riguardo a questa devozione particolare degli abitanti di Seclì.

Altri fogli annotano donazioni e Messe a maggior gloria del Santo Patavino.

Si conserva anche un foglio, purtroppo deteriorato e ricalcato nella scrittura che non ci permette di compiere un’analisi scientifica a livello storico, ma che annota l’elezione del Santo a protettore secondario della comunità.

Anche sfogliando il Registro dei morti e dei battesimi, così come quello delle nascite conservato nell’archivio del Comune di Seclì, si nota un numero considerevole di registrazioni con il nome di Antonio, Antonia, Fernando, Fernanda che interessava la maggior parte della comunità di Seclì e questo annovera la devozione popolare degli abitanti che imponevano il nome del Santo alla propria prole.

Mettendo da parte queste significative testimonianze, tuttavia interessante risulta capire quando questo culto sia stato introdotto a Seclì. E in aiuto ci vengono le fonti. Già sul finire del 1500, quando Guido D’Amato insieme alla moglie Giulia Spinelli commissionarono la chiesa e il convento fuori le mura per voto fatto alla Vergine per lo scampato pericolo di morte durante la famosa battaglia di Lepanto, i frati che alloggiarono nel convento introdussero questo culto con la realizzazione di un altare laterale dedicato al Santo, rimaneggiato poi nel 1700. Inoltre promossero una serie di momenti di preghiera e devozioni varie che interessarono tutto l’apparato delle pie pratiche che ancora oggi si celebrano nella Rettoria di S. Antonio.

Una chiesa che nel 1587 fu intitolata alla Vergine degli Angeli, ma che fin da subito fu chiamata dal popolo con il nome del Santo dei miracoli, come è tutt’ora in uso.

A livello architettonico interessante è l’arco che permette l’accesso al piazzale antistante l’ingresso principale del convento. Lo stesso è sormontato da una statua di recente fattura che raffigura il Santo di Padova. Tuttavia quella originale seicentesca voluta e commissionata dai frati fu trafugata nella seconda del 1900.

Fondamentale per il culto di Sant’Antonio a Seclì fu frate Francesco da Seclì, uomo dotto e di grande cultura, che oltre a scrivere il famoso testo Viaggio a Gerusalemme, elabora un opuscolo intitolato “Opusculum Francisci a Seclì in laudes S. Antonii Patavini” edito a Trani nel 1637. Stiamo tra il tardo Cinquecento e la prima metà del Seicento e il culto verso il Santo è ben radicato.

Nel 1649 si conclude la realizzazione del ciclo di affreschi del chiostro del convento di Seclì, commissionata molto probabilmente da Antonio D’Amato primo duca del borgo e uomo di grande cultura che volle affrescare anche le stanze del Palazzo.  La mano del pittore che lavora nella dimora gentilizia è simile a quella che lavora nel chiostro del convento. Ad essere raccontati, nelle lunette che stabiliscono un percorso regolare e quadrangolare, sono le storie e i miracoli della vita di San Francesco d’Assisi e di quella del suo primo seguace Sant’Antonio di Padova.

Molto probabilmente fu proprio questo il periodo di massimo rilievo a livello devozionale che portò allo spostamento dei festeggiamenti del Santo alla fine di luglio. Una data insolita che coincideva con la fine della raccolta nei campi, soprattutto con la mietitura del grano. Chiesa e convento divennero meta di continui pellegrinaggi che iniziavano con la Tredicina e terminavano con la festa civile di fine luglio. Tale data non era fissa, tant’è vero che da un documento dell’archivio di Stato di Lecce si legge: “Seclì, 19 luglio 1739: festività di S. Antonio. Botte da orbi tra Galatonesi e Seclioti”.

Una testimonianza importante che ci permette non solo di comprendere la storicità di tale festa ma ci dà uno spaccato di quella che era Seclì nel 1739. La presenza di una porta dove avvenne il fatto e il nome utilizzato per la chiesa del convento ovvero: la chiesa di S. Antonio extra moenia di Seclì dove si solennizza la festività del medesimo Santo.

Nella relazione del Sac. don Luigi Piccinno redatta agli inizi del 1900, la festa di Sant’Antonio oltre a quella religiosa del 13 giugno,  si celebrava la quarta Domenica di Luglio in pompa magna.

Tali circostanze che hanno dunque una motivazione storico/sociale hanno portato gli abitanti di Seclì ad utilizzare un appellativo quasi curioso nel denominare le due feste, ma che assume un significato storico importante. Sant’Antoni Picciccu la festa liturgica del 13 giugno preceduta dalla tradizionale e sentita Tredicina e la festa di Sant’Antoni Crande che da più di 300 anni scandisce la vita della piccola Seclì alla fine del mese di Luglio.

Una denominazione che allude all’evento religioso ma che è legata alla presenza nel piccolo centro di ben due strutture religiose dedicate al Santo una dentro le mura ovvero S. Antoni Picciccu e una fuori le mura ossia S. Antoni Crande.

L’avvento dell’emigrazione all’estero dei seclioti ha portato poi a stabilire una data fissa che è quella del 29,30,31 luglio. I figli di Seclì ritornavano puntuali per onorare il Santo che tutta la comunità sente proprio come se fosse uno di famiglia.

Un altro dato interessante da sottolineare è la presenza nella Rettoria del Convento della statua in pietra di sant’Antonio di Padova che sostituisce quella settecentesca in legno. Il basamento della stessa riporta la data 1932.

Pochi sanno che è un dono dei reduci della Prima Guerra Mondiale. Un voto che soprattutto le mamme dei seclioti fecero al Santo durante il grande conflitto armato. Dinanzi a queste vicende devozionali si intrecciano tuttavia dinamiche come abbiamo detto storiche importanti.

Facendo un passo indietro risulta fondamentale stabilirci al secolo 1700, quando a Seclì c’era la famiglia Severino. Antonio Maria Severino nella seconda metà dello stesso secolo commissiona a Napoli il reliquiario del Santo e fa incidere oltre al suo nome e al titolo ducale anche lo stemma della famiglia.

Molto probabilmente in questa occasione commissionò la statua settecentesca del Santo che tutt’ora si venera nella chiesa del convento, alla quale fu donata la corona in argento e un giglio sempre in argento andato perduto.

Tali manufatti sono menzionati nell’interessante relazione del 1867 redatta a Nardò dal ricevitore Giovanni Orsi quando chiuso il convento, la chiesa rimase aperta al culto e tutti gli arredi sacri furono affidati alla custodia temporanea del sindaco dell’epoca. Anche la duchessa Severino, non si sa con certezza se Camilla Filomarino, fa dono a S. Antonio della sua personale collana in oro. Gli stessi duchi saranno sepolti nella chiesa del Santo.

Un legame che senz’altro è rimarcato anche dalla presenza a Pisignano, un piccolo centro in provincia di Lecce, di un altare dedicato sempre a S. Antonio di Padova nella chiesa Matrice, con un tumulo riservato alla famiglia Severino, in quanto le figlie di Anna D’Amato sorella del duca di Seclì andranno in spose a Francesco Severino che si stabilisce a Seclì e ad Antonio Severino che si stabilisce a Pisignano.

Anche il 1800 fu segnato da un episodio importante. Fu realizzata, sul finire del 1800 da una famiglia del posto una statua in cartapesta di piccole dimensioni che per voto fatto al Santo doveva peregrinare per le abitazioni di Seclì. Tale statua da più di 100 anni compie un viaggio silenzioso ma importante nelle famiglie del paese.

Sempre nel 1800 i sacerdoti di Seclì fecero dono alla chiesa matrice di un quadro con l’effige del Santo, per maggior gloria del Santo Patavino.

 

La stessa chiesa, conserva una campana dedicata al Santo in cui si nota in maniera chiara l’effige dello stesso caratterizzata dalla presenza di S. Antonio con in braccio il Bambino, nella mano destra il giglio e il tutto sorretto da una nuvola. Anche la chiesa del convento conserva una campana ottocentesca dedicata a Sant’Antonio di Padova con l’immagine sbalzata del Santo e realizzata da Francesco Olita da Lecce.

Anche la nuova campana realizzata nel 1995 in sostituzione di quella antica è dedicata al Santo con la seguente iscrizione: a devozione del popolo di Seclì.

Anche la nuova parrocchiale ha dedicato una delle sue cinque campane a Sant’Antonio di Padova.

Nella relazione della visita pastorale di Mons. Ursi nel 1955 nella scheda relativa alla Rettoria di S. Antonio come speciali solennità si annovera soltanto la festa di S. Antonio mentre per le Messe feriali si fa cenno a qualcuna in giorni feriali ad onore di S. Antonio.

Un culto dunque ben radicato testimoniato anche dalla presenza di numerosissime edicole votive dedicate al Santo disseminate all’interno del paese così come nelle campagne.

Interessantissimo è l’affresco settecentesco di S. Antonio di Padova, che fiancheggia la Vergine insieme a San Paolo Apostolo che è posto in un’abitazione denominata “la casa del canonico”, in aperta campagna.

Devozione, religiosità, fede, architettura e scultura si intrecciano insieme nel comunicare un messaggio affettivo importante.

L’appello del 1912 per la nuova chiesa della Madonna della Coltura a Parabita

L facciata dal santuario della Madonna della Coltura di Parabita (foto Emanuele Toma)

 

“Si eriga il nuovo Tempio alla Madre nostra!”
L’appello del 1912 per la nuova chiesa della Madonna della Coltura a Parabita

di Marcello Gaballo

Nel maggio del 1912, il Comitato per la costruzione del nuovo Tempio dedicato a Maria SS. della Coltura in Parabita diffondeva un accorato appello a stampa, rivolto non solo ai cittadini del luogo ma anche e soprattutto ai “forestieri”, cioè ai devoti lontani che avevano sperimentato la protezione e le grazie della Vergine.

Il documento, conservato presso l’Archivio Storico Diocesano di Nardò, si presenta come una lettera collettiva, firmata dal Comitato, nella quale si racconta la vicenda miracolosa dell’origine del culto e si chiede con fervore un’offerta generosa per l’edificazione del nuovo edificio sacro.

Il testo comincia con toni solenni: “Ill.mo Signore, L’Invenzione della Immagine miracolosa della Vergine SS. della Coltura è il più grande avvenimento che interessa il Popolo di Parabita. Di questo avvenimento parla una tradizione antichissima, ed afferma che un pio aratore nel 1600 ritrovò nel fondo detto ‘Pane della Corte’ un bellissimo affresco dell’immagine della Madonna, avente fra le braccia il suo divin figliuolo. Di questo avvenimento parlano la luce celeste che apparve, i buoi che s’inginocchiarono, la stessa Immagine miracolosa, che con meraviglia di tutto il popolo non si fece trovare nella Parrocchia, dove Le si era dedicato un altare; ma bensì fuori le mura del paese, per esserne la difesa e lo scudo.”

Il culto della Madonna della Coltura, così radicato nella memoria collettiva, si era mantenuto vivo nei secoli, nonostante l’antico tempio, costruito nel luogo del prodigioso ritrovamento, fosse divenuto con il tempo “angusto, indecente e mal sicuro per le molte e larghe lesioni minaccianti rovina”.

La demolizione, imposta per motivi di sicurezza, rivelò un’ulteriore sorpresa che rafforzò la volontà popolare di ricostruire: “Nella demolizione s’è palesato l’affresco in tutta la sua smagliante bellezza; ed in luogo del mezzo busto, quale appariva in sull’altare, è venuta fuori per intero la maestosa figura della Vergine.”

A quel punto, il desiderio di tutta la cittadinanza si fece unanime: “Ora una è la voce che parte da tutti i cuori, uno il desiderio più vivo di uomini e donne, grandi e piccini, ricchi e poveri ‘Si eriga il nuovo Tempio alla Madre nostra’ e mercè la cooperazione di tutti la ricostruzione del nuovo Tempio è un fatto compiuto: più ampio, decente, maestoso, ricco di pitture e decorazioni; in una parola degno di Colei che venne a stringere con noi legami di amore e di predilezione: di Colei, verso cui moltissimi forastieri non ci son secondi nell’amore e nella fede.”

Ed è proprio a questi “forestieri” che il Comitato si rivolge con fiducia, confidando nel loro affetto e nella loro gratitudine verso la Madonna: “Parabita nel fare il massimo dei sacrifici, elargendo denaro, ciascuno sopra le proprie forze, domanda la cooperazione dei forestieri, ed in nome della Madonna che tanto amano e venerano fa appello alla loro munificenza, perché concorrano anch’essi con un cospicuo obolo, certi che sarà contracambiato le mille volte colle grazie celesti.”

Alla lettera era allegata una “scheda di sottoscrizione di offerte per la costruzione del Tempio”, da restituire al Presidente del Comitato, con l’indicazione della somma offerta.

Un’operazione tanto semplice quanto potente, che coinvolgeva l’intera rete di devozione mariana diffusa nel territorio e oltre. Il testo si concludeva con un saluto riconoscente e fiducioso: “Per questo scopo nobile e santo il Comitato si rivolge alla S.V. pregandola vivamente di voler mandare una generosa offerta. Il Comitato, sicuro appieno ch’Ella accoglierà benignamente la sua preghiera, Le anticipa i più sentiti ringraziamenti, pregando la Vergine Santissima che gliene renda merito. Parabita, Maggio 1912. Il Comitato.”

Questo documento, di tono semplice e popolare, ma intriso di fede e partecipazione, è oggi una preziosa testimonianza del sentimento religioso e del dinamismo civile che animava la comunità di Parabita nel primo Novecento. La nuova chiesa che sorse da quello sforzo collettivo resta il monumento visibile di una devozione che sapeva trasformarsi in azione concreta e condivisa.

1906: Il grido di Parabita per la Vergine della Coltura

Il monolito di Parabita nel santuario della Madonna della Coltura (foto Emanuele Toma)

1906: Il grido di Parabita per la Vergine della Coltura

Una cappella pericolante, la mobilitazione civile e il sogno della ricostruzione

 

di Marcello Gaballo

 

La Cappella della Coltura sorgeva alla periferia sud-est dell’abitato di Parabita, in un’area che, fino alla seconda metà dell’Ottocento, era ancora marcata da un paesaggio agrario dominato da oliveti e vigne. Il titolo “Coltura”, non a caso, richiama la vocazione agricola del luogo e rimanda a un’antica devozione rurale alla Vergine, vista come custode dei raccolti e delle fatiche contadine. Già documentata nei secoli precedenti come cappellania dotata di beni fondiari, la chiesa costituiva un importante riferimento spirituale, ma anche sociale, per le fasce più umili della popolazione.

Nella seconda metà del XIX secolo, con l’ampliamento del centro abitato e l’intensificarsi dei collegamenti stradali verso Tuglie e Matino, l’area iniziò gradualmente a trasformarsi: la zona della cappella, un tempo isolata, fu sempre più integrata nella trama urbana, pur mantenendo il suo carattere di luogo di pellegrinaggio e raccoglimento. Non a caso, già nel 1906, il documento parla della cappella come “comparrocchiale”, segno del suo ruolo complementare e indispensabile rispetto alla chiesa madre, ormai insufficiente a contenere i fedeli.

La decisione di ricostruirla, quindi, non rispondeva solo a un’urgenza strutturale, ma anche a una chiara esigenza urbanistica e pastorale: garantire un luogo sicuro e adeguato per il culto in un’area in espansione, profondamente legata alla memoria e alla devozione popolare.

Nel cuore dell’estate del 1906, la comunità di Parabita si trovò a vivere un momento delicato della propria storia religiosa e civile. Il 7 luglio di quell’anno, il Consiglio Comunale si riunì in una seduta straordinaria per discutere delle sorti della Cappella della Coltura, luogo di culto amato e venerato da generazioni di fedeli, ma ormai giunto a un punto critico di degrado strutturale.

La seduta, oggi conservata in originale presso l’Archivio Storico Diocesano di Nardò, riporta un documento prezioso che restituisce la voce autentica dei protagonisti di quel momento.

Presieduto dal dott. Giovanni Caggiula, il Consiglio era rappresentato da una nutrita schiera di membri, tra cui il cav. Tommaso Ravenna, Luigi Giannelli, gli avvocati Raffaele Elia e Vincenzo Ferrari, Francesco e Domenico Ferrari, Donato Pierri, Rocco e Felice Serino. Fu proprio Rocco Serino, consigliere, a presentare una relazione dettagliata sullo stato della Cappella e sulle misure necessarie per affrontarne la ricostruzione.

Scriveva Serino:

«Egregi Colleghi.
A tutti è noto il Culto verso la Vergine della Coltura, protettrice di Parabita, da questa popolazione e dai vicini e lontani paesi, tanto da fare della misera cappella un grande Santuario: in tutte le ore del giorno è un vero pellegrinaggio, un accorrere continuo di fedeli.
D’altra parte sono conosciute purtroppo le condizioni di stabilità in cui trovasi la Cappella della Coltura, condizioni per nulla migliorate dopo che si è quasi fasciata di catene in ferro: le lesioni sono sempre enormi, e l’edificio minaccia di rovinare da un giorno all’altro con grave pericolo dei fedeli che continuamente vi stanno a pregare.
Pensare a radicali restauri è inutile, la Cappella così come ora si trova deve demolirsi. Intanto questa popolazione vuole esplicare sempre il suo culto verso la Protettrice, ed essendo la Cappella comparrocchiale, deve esistere assolutamente, in vista della insufficienza della Chiesa parrocchiale e di tutte le piccole Cappelle che sorgono nel nostro paese, quindi la necessità di ricostruirsi.»

Un progetto per la nuova costruzione era già stato redatto dall’ingegnere Vincenzo D’Elia, professionista salentino attivo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Nato presumibilmente a Matino o nella stessa Parabita, D’Elia fu autore di vari lavori pubblici e religiosi nel territorio neritino e gallipolino, distinguendosi per uno stile sobrio ma attento alle esigenze liturgiche e statiche degli edifici. Nel caso della Cappella della Coltura, egli redasse un progetto completo, con un preventivo di spesa di 35.000 lire, accompagnato da relazione tecnica. La cittadinanza, tramite sottoscrizione, aveva già raccolto 20.000 lire, e si confidava di reperirne altre 10.000 durante i lavori. Restavano 5.000 lire ancora da reperire.

È su questo punto che il Consiglio Comunale si appella all’Economato Generale dei Benefici Vacanti di Napoli, richiamando anche la memoria di un’antica istituzione:

«Da tempo immemorabile esiste qui una Cappellania sotto il titolo di “Beneficio della Coltura”. Ne è stato investito finora il Canonico Michele Corbino da Nardò, il quale non ha mai pensato, per quanto mi consta, agli obblighi che gli erano imposti per officiature, messe, lampade ed altre spese di Culto, né alla manutenzione della Cappella, per cui si è ridotta nello stato che tutti deploriamo. Con la morte del Corbino, i beni son passati all’Economato Generale dei Benefici Vacanti di Napoli, e li amministra a mezzo del Sub Economo di Nardò. […] si dovrebbe domandare all’Economato Generale che detti beni siano amministrati da quest’Amministrazione Comunale, che vede più da vicino i bisogni della Cappella comparrocchiale […].»

Nel caso in cui l’amministrazione diretta non fosse concessa, si chiedeva almeno:

«1° – Una somma annua almeno di £ 200 per le ordinarie spese di culto […].
2° – La somma mancante per la ricostruzione della Cappella in £ 5.000 […].»

La proposta si concluse con un ordine del giorno chiaro e articolato, in cui si domandava il passaggio dell’amministrazione del beneficio al Comune per gestire:

«1° – Tutte le spese di culto che si richiedono da una Chiesa comparrocchiale.
2° – Le somme mancanti per la ricostruzione della Cappella della Coltura.
3° – Gli obblighi connessi ai Benefici dell’Assunta e di San Giorgio, inerenti al Beneficio Coltura.»

Il Consiglio Comunale di Parabita approvò all’unanimità e per appello nominale la proposta, esprimendo la volontà unanime di sostenere la causa della Cappella:

«Fa vive istanze al prelodato Economato Generale poiché faccia buon viso alla presente domanda, sicuro di far opera di giustizia e rispettare la volontà del fondatore, con le rendite derivanti dai fondi che donava, all’esplicamento del Culto alla Vergine della Coltura in Parabita.»

L’ordine del giorno, che traduceva la relazione di Serino in forma deliberativa, fu approvato all’unanimità con voto per appello nominale. Il presidente e i consiglieri ne proclamarono l’esito con piena soddisfazione.

Quella seduta rappresenta oggi una pagina esemplare di civismo popolare e di partecipazione democratica al servizio della fede.

La Cappella della Coltura non era solo un edificio: era il simbolo di una comunità agricola unita da una devozione semplice ma tenace, radicata nella terra e nella memoria. Il sogno della sua rinascita nacque così, tra le crepe di un edificio pericolante e le voci di un consiglio comunale che seppe farsi eco della volontà del popolo.

Libri| La Grammatica Simpatica

La comunicazione nel linguaggio e la “Grammatica Simpatica” di Mirella Corvaglia

 

di Giuseppe Corvaglia

Il linguaggio è una modalità per esprimersi, fatta di suoni, gesti, movimenti, posture, sovrastrutture e quant’altro, capaci di comunicare agli altri messaggi o informazioni, esprimere i propri pensieri e i propri sentimenti e stabilire un rapporto di interazione fra individui.

Simone (1985) dice che il linguaggio è la capacità astratta di codificare il pensiero e di trasformarlo in una forma fisica percepibile allo scopo di manifestarlo.

Certo, con il linguaggio si emettono segnali fisici (suoni, gesti, sguardi …), ma si comunicano significati. Proprio perché la comunicazione sia efficace, il segnale che inviamo deve essere adeguato all’interlocutore e al contesto.

La gran parte degli esseri viventi ha un linguaggio: gli animali comunicano con suoni, movimenti, danze, voli, posture; i fiori comunicano con colori sgargianti, strutture vegetali o profumi, atti ad attirare o respingere, ma ogni messaggio è sempre necessario per raggiungere uno scopo che sia la procreazione, la mimesi, la difesa…

Solo l’uomo ha, però un linguaggio strutturato, capace di comunicare e trasmettere agli altri suoi simili, con suoni articolati o segni scritti, concetti, informazioni e sentimenti, nella maniera più efficace ed efficiente.

In particolare, la parola, è il modo più funzionale ed economico per comunicare: non necessita di strumenti particolari (come la scrittura), è meno faticosa e più efficace della mimica o della gestualità, consente di comunicare anche al buio e anche a distanza.

Secondo le teorie neuro scientifiche, e in particolare quelle di Noam Chomsky, esistono i presupposti nel cervello umano, perché si formi una grammatica universale, fatta di regole che consentono di collegare fonemi in combinazioni variegate, capaci di esprimere: concetti, esigenze, pulsioni e sentimenti con una varietà pressoché infinita.

Gli altri animali comunicano pure, ma con un numero di espressioni vocali molto limitate e stereotipate.

Il linguaggio si sviluppa con l’individuo e, pur avendo un substrato genetico, è condizionato nella sua maturazione dal contesto sociale, non solo per lo sviluppo del lessico, ma proprio per lo sviluppo della sua funzione.

I due accenti

 

Ci sono diversi tipi di linguaggio.

Il principale è il linguaggio verbale, composto da linguaggio orale e linguaggio scritto, ma poi c’è anche il linguaggio non verbale, dato da gesti, atteggiamenti paralinguistici (smorfie, intonazione dell’eloquio, sospiri, pause…), mimica facciale (espressioni del viso volontarie o involontarie significanti) e sguardo, prossemica o uso dello spazio (tenere a distanza o avvicinarsi e cercare il contatto), artefatti (abiti, cosmetici, accessori dell’abbigliamento)

Quindi noi uomini abbiamo uno strumento unico per esprimere i nostri bisogni, per affermare la nostra personalità, per difenderci dalle accuse, per corteggiare la persona amata, per consigliare la persona alla quale vogliamo bene…

Tuttavia, come tutti gli strumenti, perché faccia il suo lavoro a regola d’arte, il linguaggio deve essere efficace, cioè deve consentirci di fare un buon lavoro.

Tagliereste un alimento con un coltello che non sia tagliente?

Lo stesso vale per il linguaggio, che deve essere uno strumento adeguato e il mezzo per renderlo adeguato è la Grammatica con le sue regole.

Infatti se noi usiamo le regole grammaticali in modo adeguato, non solo facciamo una bella figura, ma soprattutto esprimiamo quello che vogliamo dire senza equivoci e il messaggio arriverà all’interlocutore preciso e la nostra comunicazione sarà efficace.

Le parole, in fin dei conti sono solo aria che esce dai polmoni e, passando attraverso le corde vocali, diventa suono, parola, concetto…

Ma perché diventi comunicazione la parola deve essere chiara e significante.

La Grammatica ci dà questa possibilità ed è triste il fatto che questa grande risorsa oggi venga trascurata, proprio quando i mezzi per esprimere i nostri messaggi si sono vieppiù espansi. Il linguaggio, soprattutto quello parlato e quello di buona parte dei social, è povero, scorretto e per questo non più bello e nemmeno efficace. È l’effetto che gli studiosi chiamano analfabetismo di ritorno.

È per questo che il libro di Mirella Corvaglia, “La Grammatica Simpatica… e oltre” è importante, perché rende gradevole un argomento che può sembrare ostico e complesso, ma che è davvero necessario.

Per parlare di grammatica, sintassi e ortografia, Mirella, che una creativa lo è sempre stata, sceglie la strada delle filastrocche di modo che regole un poco noiose, ma necessarie, possano essere meglio digerite dai piccoli alunni.

Ne parliamo con l’autrice.

L’aggettivo veste il nome

 

Come ti è venuto in mente di scrivere un libro di filastrocche per descrivere le regole grammaticali?

Mirella Corvaglia. L’idea nacque dalla necessità di far imparare le coniugazioni e le forme verbali ai piccoli alunni che facevano fatica a ricordare le regole apprese, esprimendosi poi in maniera sgrammaticata.

Le coniugazioni in particolare erano per loro una vera e propria bestia nera. Così nacque “La filastrocca del verbo coniugato” che sortì un effetto prodigioso e fu pubblicata anche sul giornalino di classe.

Il risultato mi stimolò a provarci anche con altre regole e ne venne fuori, con il tempo, un libro vero e proprio.

 

Ma era un effetto sporadico? Occasionale?

Mirella Corvaglia. No. Per me la filastrocca per descrivere un evento o parlare di qualcosa di utile alla didattica, è stata sempre uno strumento importante, direi essenziale e spesso, le filastrocche che usavo per le lezioni, non erano solo farina del mio sacco, ma composizioni condivise e create con gli alunni.

Col tempo mi sono resa conto che il metodo era efficace e che i bambini, se stimolati a creare, apprendevano meglio.

Non ho mai visto i miei alunni come contenitori statici, ma come soggetti che, grazie alla risoluzione dei problemi, si sforzavano per trovare una soluzione che rinforzava la loro capacità di apprendere.

 

Questo libro è una riedizione: perché una nuova edizione?

Mirella Corvaglia. Il libro era andato in esaurimento e le richieste erano tante, ma col tempo avevo scritto altre filastrocche in cui regole, lettere, accenti e parole parlavano e agivano fra loro, dando vita a vere e proprie piccole drammatizzazioni.

Questa nuova esperienza si è poi concretizzata in maniera eccellente con l’aiuto di una brava illustratrice, Gianna Cezza, la quale ha saputo figurare lettere, regole e situazioni con disegni davvero belli.

Devo dire che i disegni e le illustrazioni ravvivano molto il libro e credo che i miei piccoli lettori, potranno apprezzarlo meglio rispetto alla precedente edizione.

 

Ma è solo una lettura per piccoli?

Mirella Corvaglia. No. Anche i lettori adulti potrebbero trarre beneficio da questa lettura amena, gradevole, ma molto importante. Oggi qualcuno potrebbe aver dimenticato qualche regola e un ripasso in questa forma leggera potrebbe essere utile e dilettevole.

 

Ma dove si può acquistare?

Mirella Corvaglia. Intanto sarà possibile acquistarlo giovedì 8 maggio 2025 alle ore 19:30, quando lo presenteremo al pubblico a Spongano, presso il Centro di Aggregazione Giovanile in via Pio XII, poi sarà possibile acquistarlo presso lo store di Youcanprint, Amazon e altri store in rete.

La Madonna della Coltura di Parabita: storia di un culto nel cuore del XIX secolo

di Marcello Gaballo

 

Tra i santuari più identitari e suggestivi dell’intera diocesi di Nardò-Gallipoli, quello della Madonna della Coltura a Parabita occupa un posto di primo piano, tanto per la forza del legame devozionale che unisce la Vergine al popolo parabitano quanto per la storia stratificata che nel tempo ha modellato il culto. La denominazione “della Coltura”, da intendersi nel significato antico di “cultura agricola”, rimanda immediatamente alle origini rurali e popolari della devozione, le cui radici affondano con ogni probabilità nel tardo Medioevo.

Secondo una consolidata tradizione, un contadino avrebbe rinvenuto l’immagine della Madonna durante la lavorazione dei campi nei pressi dell’attuale santuario, generando un culto che si consolidò nei secoli, fino a diventare il centro spirituale e simbolico della comunità. Questo culto, inizialmente legato a un’immagine votiva e a un piccolo luogo di preghiera, ha conosciuto nel tempo fasi di ampliamento architettonico, definizione liturgica e soprattutto riconoscimento canonico. L’attuale santuario, chiesa giubilare, ricostruito nel corso del Novecento in forme neoromaniche e oggi meta di pellegrinaggi, custodisce ancora l’effigie originaria, oggetto di profonda venerazione, soprattutto nella grande festa del mese di maggio.

Tuttavia, in questa sede si intende soffermare l’attenzione su un segmento specifico della lunga vicenda del santuario: gli anni compresi tra il 1847 e il 1897, in cui il culto mariano della Madonna della Coltura fu oggetto di importanti sviluppi canonici, giuridici e pastorali, come attestano numerosi documenti conservati presso l’Archivio Storico Diocesano di Nardò.

 

Il riconoscimento canonico del patrocinio (1847–1848)

La fase più significativa di questo periodo si apre con il riconoscimento ufficiale della Madonna della Coltura come patrona principale del paese di Parabita. Il 17 settembre 1847, infatti, la Santa Sede rispose positivamente alla supplica elevata dagli abitanti di Parabita nel 1836, accogliendo l’istanza di affidare alla Madonna il patrocinio civico. Il decreto, rogato in latino dalla Congregazione dei Riti, fu sostenuto dal cardinale Costantino Patrizi, proposto dal cardinale Gabriele Ferretti, e infine controfirmato dal cardinale Luigi Lambruschini e da I.S. Fatati, segretario della medesima Congregazione. Di rilievo è il fatto che il rescritto andò oltre la richiesta di un compatronato, riconoscendo alla Madonna il titolo esclusivo di patrona principale di Parabita, in sostituzione di san Francesco da Paola.

Il processo di ridefinizione liturgica e simbolica del calendario patronale fu completato l’anno seguente: il 24 novembre 1848 la Congregazione dei Riti decretò lo spostamento della festa di san Francesco da Paola alla quarta domenica dopo Pasqua, per fare spazio alla nuova centralità mariana nel ciclo festivo della comunità.

 

Le vertenze postunitarie e la difesa dei beni parrocchiali (1869–1874)

L’Unità d’Italia e l’introduzione delle leggi eversive degli enti ecclesiastici misero a dura prova la stabilità patrimoniale della parrocchia di Parabita, compresa quella del santuario mariano. Nel 1869, una causa legale opponeva la Chiesa locale al Demanio dello Stato, che rivendicava la titolarità di alcuni beni ecclesiastici. A tutela della parrocchia intervenne l’avvocato Florestano De Simone, che difese le ragioni del clero parabitano con una memoria giuridica stampata e diffusa a livello regionale (Per la Chiesa e Clero Parrocchiale di Parabita contro il Demanio dello Stato, Trani 1869), accompagnata da un’appendice argomentativa.

L’esito della causa fu favorevole alla Chiesa. Il 24 gennaio 1874, il Sub Economo dei Beni Vacanti della diocesi di Nardò, Giuseppe De Pascalis, rilasciò una dichiarazione ufficiale di dissequestro delle rendite della parrocchia a favore del nuovo arciprete Gaetano Ferrari, regolarmente nominato con Regio Exequatur il 14 ottobre 1873. Nella dichiarazione erano elencati dieci suoli e terreni ubicati nel territorio di Parabita e nove capitali censi, a dimostrazione dell’importanza economica e funzionale della parrocchia, in grado di mantenere un culto solido e ben radicato anche grazie a tali risorse.

 

Progetti di rinnovamento spirituale: gli Alcantarini a Parabita (1897)

La figura dell’arciprete Gaetano Ferrari, protagonista di questa fase di ricostruzione materiale e spirituale, emerge ancora una volta in una lettera dell’11 luglio 1897, indirizzata alla Curia Diocesana di Nardò. In essa, Ferrari esprimeva il desiderio di vedere insediata a Parabita una comunità di Alcantarini, i Francescani riformati, piuttosto che nella vicina Casarano, dove – notava con realismo – “non sono stati mai Alcantarini, e dovrebbero occupare un Convento ch’era un dì dei Cappuccini e che un giorno potrebbero reclamarlo”.

La proposta si inseriva nel più ampio quadro di riorganizzazione pastorale promosso a fine secolo, e puntava a rafforzare la vita spirituale del santuario mariano attraverso la presenza di un ordine particolarmente legato alla predicazione, alla povertà evangelica e alla devozione popolare, in sintonia con la spiritualità che da sempre contraddistingueva il culto della Madonna della Coltura.

Il periodo compreso tra il 1847 e il 1897 rappresenta per il santuario della Madonna della Coltura una stagione decisiva di consolidamento istituzionale e rinnovamento pastorale. In un arco di cinquant’anni, il culto della Vergine passò da devozione popolare a patrocinio ufficialmente riconosciuto, mentre la parrocchia si confrontava con le trasformazioni dello Stato unitario, difendendo con successo il proprio patrimonio.

Per un breve profilo artistico di Antonio Bortone

di Paolo Vincenti

 

Antonio Ippazio Bortone, scultore prolifico e ispirato, nato a Ruffano nel 1844, dopo la formazione napoletana, si trasferisce a Firenze dove raggiunge la gloria, divenendo uno dei più ammirati artisti italiani dell’epoca. Basti pensare che a Firenze viene chiamato a lavorare alle due chiese più importanti della città: Santa Maria del Fiore e Santa Croce. Per la facciata di Santa Maria del Fiore realizza, tra gli altri, le due statue di Sant’Antonino e San Giacomo Minore (1887) e i due bassorilievi di Michelangelo e Giotto (1887). Per la Basilica di Santa Croce realizza il monumento funebre a Gino Capponi (1876) e poi il Michele di Lando (1895), collocato nella Loggia del Mercato Nuovo. A Biella realizza il monumento funebre a Quintino Sella (1888); a Stradella il monumento ad Agostino Depretis (1893)[1].

Per quanto riguarda le opere salentine, molte sono quelle degne di menzione, fra le quali: il busto di Giuseppe Garibaldi (1867), in marmo, che si trova presso il Castello Carlo V di Lecce; i busti in marmo di Giulio Cesare Vanini (1868), di Francesco Milizia (1872), di Antonio Galateo (1873) e di Filippo Briganti (1875), presso la Biblioteca Provinciale N. Bernardini di Lecce; la statua in marmo di Sigismondo Castromediano (1890), che si trova nel Museo omonimo di Lecce, e il Monumento a Sigismondo Castromediano (inaugurato nel 1905), nella omonima piazzetta leccese; il monumento a Salvatore Trinchese (1907) a Martano; il ritratto di Pietro Cavoti (1912), presso il Convitto Colonna a Galatina; non potendo soffermarci su tutte per esigenze di spazio, ci concentreremo solo su alcune, rinviando ai testi in bibliografia per una maggiore conoscenza ed un’analisi più dettagliata delle altre.

Una delle sue opere maggiori fu Il Fanfulla (1877), che gli valse l’appellativo di “mago salentino dello scalpello”, come lo definì Brizio De Santis, nel basamento dell’opera. Il Fanfulla gli diede fama anche in Francia, poiché all’Esposizione Universale di Parigi nel 1878 il modello in gesso ottenne la medaglia di 3° grado. Questo monumento venne fuso in bronzo nel 1921 e inaugurato l’anno seguente. Oggetto pochi anni fa di un intervento di restauro, inizialmente allocato nella centrale Piazza Sant’Oronzo di Lecce, dopo essere stato a lungo nella Villa Comunale della stessa città, si trova oggi in Piazza Raimondello Orsini.

 

Scrive Aldo de Bernart: «Antonio Bortone è scolpito sul plinto, che regge la famosa statua, nel testo epigrafico del prof. Brizio De Santis: Sono/ Tito da Lodi /detto il Fanfulla/ un mago di queste contrade /Antonio Bortone/ mi tramutò in bronzo/ Lecce ospitale mi volle qui/ ma qui e dovunque/ Dio e l’Italia nel cuore/ affiliamo la spada/ contro ogni prepotenza/ contro ogni viltà/ MCMXXII. La statua raffigura il Fanfulla, uno dei tredici cavalieri della “Disfida di Barletta”, ritratto ormai avanti negli anni quando orbo di un occhio e col saio domenicano faceva penitenza nel fiorentino convento di S. Marco, mentre affila la misericordia, un acuminato spadino che all’inquieto lodigiano era servito in tante battaglie»[2]. Il personaggio di Fanfulla da Lodi è tratto dal romanzo di Massimo D’Azeglio, Ettore Ferramosca, o la disfida di Barletta del 1833 (incentrato sulla contesa fra tredici cavalieri italiani e tredici francesi, combattuta nelle campagne pugliesi nel 1503), e poi dal successivo Niccolò de’ Lapi ovvero i Palleschi e i Piagnoni del 1841, ambientato durante l’assedio di Firenze del 1530.

L’opera diede al suo autore grandissima notorietà e l’apprezzamento della stampa dell’epoca. Si legge infatti: “Capolavoro pressoché sconosciuto in margine ad una piccola piazza di Lecce, è il Fanfulla da Lodi del pugliese Antonio Bortone. […] Nel Fanfulla l’azione eroica è ricostruita con piena compenetrazione nel soggetto; la naturalezza plastica risulta, nell’assieme aspro e grezzo, da un’armonia temperatissima fra forma, attributi e sostanza. Il prode vecchio ormai guercio aveva chiesto ricovero nel convento fiorentino di San Marco, ma al mugghiar delle prime bombe dell’Orange nel cielo della città tradita, scorda di aver addosso il saio di novizio domenicano e sentendosi ancora in petto il bollore guerresco, raccatta la riposta armatura che conobbe le prodezze di Barletta e il Sacco di Roma, si mette a brunire l’elmo e la corazza. Quanta schiettezza d’animo nell’atto che rivela la fremente intolleranza di gioghi e minacce straniere! Non poterono non avvertirla i parigini che, all’Esposizione Universale del 1878 furono tanto presi dalla estrosa statua bronzea da scordare persino che doveva essere stato il Cavaliere di Lodi a disarcionare il primo cavaliere di Francia nella prima disfida di Barletta”[3]. Ancora, si scrisse che il Bortone “compose un monumento antimonumentale per eccellenza e pur impressionante e anche nuovo, per cui merita un posto anche nelle vicende della scultura italiana della seconda metà dell’Ottocento”[4].

Degno di nota è anche il monumento alla Duchessa Francesca Capece di Maglie, realizzato nel 1896-98. Si deve ad Alessandro De Donno, grande amico e protettore di Antonio Bortone, la proposta dell’erezione della statua, per la quale si costituì a Maglie anche un comitato cittadino. L’opera, realizzata in marmo, in stile neoclassico, raffigura la Duchessa ormai anziana ma dall’espressione serena, con un fanciullo accanto, seminudo e con il perizoma alla greca, che regge con la mano sinistra lo scudo civico di Maglie e riceve con la destra il libro della sapienza dalla Duchessa, allegoria della missione educatrice della nobildonna e del suo istituto. Scrive Ilderosa Laudisa: “Il monumento proponeva due figure trattate in modo ben diverso. La donna, scolpita con meticolosa attenzione ad ogni particolare dell’abbigliamento e del viso, sul quale il tempo e le vicissitudini avevano lasciato evidenti tracce, è una figura reale; sembra quasi un’immagine ricavata da fotografia. Il fanciullo, in quanto figura allegorica, è seminudo, di belle fattezze e fortemente idealizzato. I simboli della Conoscenza e della Fede legano i due personaggi.  Alcuni particolari, quali le mani della Capece sulla spalla del ragazzo e la posizione di quest’ultimo, riportano alla mente una delle opere eseguite nel primo periodo fiorentino: la Carità religiosa”[5].

A Maglie Antonio Bortone fu molto amato, se è vero che diverse committenze gli vennero affidate: oltre alla statua in onore del patriota Oronzio De Donno, situata nella centrale Piazza Capece, anche il busto bronzeo del giovane Salvatore Cezzi (1912-1926), che fu voluto dalla famiglia e inaugurato nel 1831 proprio nell’atrio del Ginnasio-Liceo Capece dove il fanciullo era studente[6].  E ancora, il busto all’Avvocato Nicola De Donno, un “Gladiatore morente” ed un “Ippocrate” per il palazzo del Senatore Vincenzo Tamborino, un busto a Achille Tamborino, i busti per Zoraide e Maria Luisa, ovvero moglie e figlia dell’On. Paolo Tamborino[7].

All’inaugurazione della statua della Capece, lo scultore Bortone non era presente, ma la stampa locale e nazionale ne diede ampio risalto. “Credo che sia il più bel monumento alla cultura di tutto il Salento”, scrive Aldo de Bernart, in un articolo dedicato allo studioso Nicola De Donno, che tanto ha scritto proprio sulla Duchessa e sull’Istituto Capece[8]. Sul plinto della statua, l’iscrizione “Lettere e Religione: Luce intellettual piena d’amore” (tratta dal XXX Canto del Paradiso di Dante) e “ego plantavi… sed Deus incrementum dedit” (versetti tratti dalla Lettera di San Paolo ai Corinzi)[9]. “Il seme”, scrive Emilio Panarese, “è quello simbolico della beneficenza, della promozione civile e culturale magliese, della donazione di tutti i beni ducali…”[10]. La statua venne inaugurata il 29 luglio 1900, con una grande cerimonia[11].

Il terzo filone della produzione bortoniana che qui prendiamo in considerazione è quello della monumentalistica bellica. Dei monumenti ai caduti di Parabita, Ruffano, Tuglie e Calimera si è occupata Maria Lucia Chiuri nel dettagliato saggio Antonio Bortone e i Monumenti ai Caduti per la Patria nel Salento[12]. Il monumento di Ruffano è unanimemente ritenuto il più bello. Raffigura la Vittoria Alata (1924), secondo la sua classica iconografia, rappresentata da una donna con leggero chitone, che impugna una tromba in una mano e la corona di alloro nell’altra. Sulla base di marmo, ai quattro lati, sono scolpiti i nomi dei caduti ruffanesi nelle due guerre mondiali. Questa statua, che campeggia al centro di Piazza IV Novembre, è espressione anche dell’amore del Bortone per il suo paese natale, tanto che egli volle farne omaggio[13]. Tuttavia, nonostante l’atto di prodigalità dello scultore, l’iter per la realizzazione della statua fu molto travagliato, come si può evincere dalla cronaca delle vicende amministrative riportata da Ermanno Inguscio e dalla Chiuri sulla base della documentazione archivistica[14]. La statua è stata recentemente interessata da un intervento di restauro poiché danneggiata a seguito di una rovinosa caduta dovuta al forte vento. Molto simile a quella ruffanese è la Vittoria Alata per il monumento di Tuglie, che ricalca dappresso la figura allegorica del monumento a Gino Capponi che si trova in Santa Croce a Firenze (1876) e che a sua volta è molto simile al monumento di Mons. Trama (1932), nella Cattedrale di Lecce. La realizzazione del monumento di Tuglie fu molto travagliata fino alla sua inaugurazione nel 1922, nella centrale Piazza Garibaldi[15]. Luigi Scorrano si occupa della statua nel suo articolo La donna del monumento[16], in cui analizza il particolare della corona che cinge il capo della Vittoria e che raffigura lo stemma civico di Tuglie ed è quindi «allegoria del paese o, meglio, della comunità tugliese che rende un doloroso, benché composto, omaggio ai suoi concittadini caduti sui campi di battaglia». Il monumento di Tuglie è realizzato con un gusto classicheggiante, così come quello di Calimera, realizzato nel 1927, in bronzo e marmo, che all’inizio si trovava su un’ampia esedra che è poi stata rimossa. Questa statua è impreziosita da una palma e da una bandiera. Dopo svariate vicissitudini, legate a motivazioni di carattere economico, il Monumento ai Caduti venne finalmente inaugurato nel 1930, VIII anno dell’era fascista, in una domenica di giugno, alla presenza del gerarca fascista On. Starace, del prefetto comm. Formica e del Segretario federale della Provincia Cav. Palmentola. L’orazione venne tenuta dal Senatore Brizio de Sanctis. La statua venne consegnata alla devozione dei famigliari dei caduti e all’ammirazione generale ma i debiti contratti dal Comune per la sua realizzazione restarono a lungo insoluti. Durante la Seconda Guerra Mondiale, a causa dell’estremo bisogno di ferro e bronzo dell’industria bellica, la statua calimerese rischiò di essere abbattuta per realizzare cannoni, cosa che sarebbe accaduta se nel frattempo non fosse intervenuto un provvedimento governativo a salvare la statua da un triste destino. Vennero però rimossi la catena, le due lastre in bronzo che ricordano i 90 Caduti in guerra Calimeresi, così come la lapide che era posta al lato dell’ingresso del Municipio. Negli anni Quaranta, la statua venne rimossa dalla collocazione iniziale in Piazza Littorio e negli anni Cinquanta risistemata nella nuova Piazza Del Sole, con notevoli interventi di modifica[17].

Il monumento di Parabita, posto al centro di un grande parco, era costituito da una statua di donna in bronzo, raffigurante Parabita, nell’atto di appoggiare la mano sinistra sull’ara della stele mentre nella destra reggeva lo stemma civico del paese. Nelle lastre in bronzo, i nomi dei caduti in guerra. Purtroppo la statua non è più esistente poiché durante la Seconda Guerra Mondiale venne fusa per realizzare armi e, dopo la guerra, venne sostituita da due fusti di cannone[18].

Ad A. E. Foscarini si deve la pubblicazione del bozzetto in gesso preparatorio del monumento di Parabita il quale, proveniente da collezione privata, è stato poi donato insieme ad altri dello stesso Bortone al Museo di Arte Sacra del leccese Convento di Sant’Antonio a Fulgenzio[19]. Come informa Aldo D’Antico[20], anche a Parabita si verificarono degli intoppi che fecero ritardare l’esecuzione dell’opera, la quale venne consegnata finalmente solo nel 1924[21]. Intorno alla statua, vennero piantumati degli alberi, uno per ogni caduto, come per tutti i parchi delle Rimembranze d’Italia, e inoltre l’aiuola fiorita fu cinta da una pregevole ringhiera realizzata dall’architetto Napoleone Pagliarulo, ideatore del Santuario della Madonna della Coltura[22]. Come detto, il monumento venne rimosso e il suo bronzo fuso per fabbricare armi[23].

Bortone partecipò anche, sia pure indirettamente, con un proprio contributo, all’asta di beneficenza che fu organizzata a Lecce nel giugno del 1916, quindi in piena guerra mondiale, dal Comitato per l’Assistenza civile. Alla Lotteria, organizzata dal Comitato di Assistenza, pervenne una sua opera, il busto in bronzo di Cicerone, insieme a quelle di altri artisti, come Michele Massari, Agesilao Flora, Paolo Emilio Stasi, che donarono loro quadri, così come fecero Giovanni Lazzaretti, Egidio Lanoce, ecc.[24].

Nel 1926, nel Cimitero nuovo di Lecce, si deve sempre al Bortone il monumento al sottotenente Francesco De Simone, morto il 30 giugno 1915 a Podgora di Gorizia, medaglia d’argento al valore militare, come si legge nella lastra in marmo bianco di Carrara che si trova ai piedi della statua[25]. Al 1926 risale anche l’inaugurazione della grande targa in memoria degli alunni dell’Istituto Tecnico Costa di Lecce caduti nel conflitto. La targa in marmo reca tutti i nominativi degli studenti, ben 92, dei quali alcuni vennero decorati con medaglia d’argento e con medaglia di bronzo. Il testo è scritto dal prof. Brizio De Santis, all’epoca Preside dell’Istituto. Nel 1924, in occasione del Cinquantenario del prestigioso Collegio Argento, l’istituto dei Gesuiti leccesi, venne scoperta una lapide dedicata a tutti i caduti in guerra ex alunni del Collegio, come riportato dagli organi di stampa dell’epoca. In quella solenne occasione, la salma di Padre Argento, grazie all’opera infaticabile del Rettore P. Giovanni Barrella, venne traslata dal Cimitero di Lecce alla Cappella dell’Istituto e fu anche inaugurato il busto del fondatore, opera di Antonio Bortone; nel locale d’ingresso venne apposta una targa ricordo con il testo di Brizio De Santis, Preside dell’Istituto Tecnico di Lecce e che già era stato allievo dell’Argento presso il Regio Liceo San Giuseppe[26]. La targa in memoria degli ex allievi venne poi rimossa durante i lavori di trasformazione del Collegio Argento in sede della Biblioteca Provinciale fra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta del Novecento. Di essa si perse da allora ogni traccia[27].

Bortone venne anche coinvolto, insieme a Eugenio Maccagnani, nella realizzazione del Monumento ai Caduti voluto dall’Amministrazione Comunale di Lecce nell’allora Piazza Libertini (oggi Piazza D’Italia), sostenuto da un Comitato promotore presieduto dal Principe Sebastiano Apostolico Orsini Ducas e inaugurato nel 1928. Tuttavia, il ruffanese rinunciò all’incarico, sicché l’imponente opera venne realizzata dal solo Maccagnani, al quale Bortone non mancò di esprimere vive felicitazioni per il brillante risultato ottenuto. Per altro, Bortone era grande amico del Maccagnani con il quale aveva condiviso gli anni del praticantato a Lecce, quand’erano allievi entrambi del maestro cartapestaio Antonio Maccagnani[28]. Bortone ammirava, ricambiato, il talento del collega di diversi anni più giovane, al di là della rivalità fra i due grandi artisti: rivalità, più presunta che vera, attribuita loro per via della mancata assegnazione al Bortone della realizzazione a Lecce del Monumento al Re Vittorio Emanuele II, nel 1880, affidata invece dal Comitato Promotore al Maccagnani, il cui bozzetto venne ritenuto più convincente[29].

Nel 1925 Bortone realizza il busto in bronzo del sottotenente Luigi Falco, morto sul Monte Grappa nel 1918, al quale è dedicato anche un cenotafio nel Cimitero Comunale dove è insieme al cugino, il maggiore Carlo Falco, morto durante la Seconda Guerra Mondiale, in Albania nel 1941[30]. Il busto di Luigi Falco appartiene a collezione privata[31].

Nel 1926, nel Palazzo Comunale di Guagnano, al Nostro si deve il busto in bronzo del sottotenente Benedetto Degli Atti, medaglia d’argento al valore militare, morto il 19 novembre 1917 sul Monte Grappa[32]. Un altro ritratto in gesso del sottotenente è conservato in collezione privata[33].

Bisogna dire che all’indomani della caduta del fascismo un moto di generale riprovazione nel Paese per i misfatti del regime finì con il coinvolgere anche i monumenti ai caduti che, nell’immaginario collettivo, vennero identificati con la propaganda fascista. L’ondata di indiscriminato rifiuto nei confronti della monumentalistica bellica iniziò ben prima, ossia già nel corso della Seconda Guerra Mondiale, quando moltissimi busti e statue in bronzo vennero distrutti, in nome di una equivoca concezione estetica che vedeva in queste opere delle risultanze del pessimo gusto di artisti non accreditati. Come precedentemente scritto, molte opere in bronzo vennero divelte dai loro basamenti e fuse per costruire cannoni, a partire dagli odiati fasci littori che ornavano moltissimi monumenti, per far fronte alla incessante richiesta che proveniva dall’industria bellica. In provincia di Lecce diede molto risalto alla rimozione dei monumenti in bronzo il giornale cattolico «L’Ordine». Venne per esempio distrutto il monumento a Gaetano Brunetti, opera di Eugenio Maccagnani del 1922[34], e stessa sorte toccò alle figure in bronzo del grande Monumento ai Caduti di Lecce dello stesso Maccagnani; per quanto riguarda il nostro Bortone, vennero sottratte le parti in bronzo e l’aquila del Monumento a Quinto Ennio, del 1913, il busto a Cosimo De Giorgi, del 1925, ed altri.

E non possiamo non fornire brevi cenni proprio sul monumento a Quinto Ennio[35]. Questo, inaugurato nel 1913 in piazza Sant’Oronzo, sorgeva di fianco all’inferriata che cingeva la porzione dell’Anfiteatro Romano riportata alla luce in quegli anni. Era formato da “«un basamento sul quale si eleva una colonna prismatica ed un’aquila romana poggia sopra fasci littorii»; l’aquila in bronzo si ergeva su una pergamena recante uno scritto del grande poeta romano”[36]. Come ricorda Giovanna Falco, “in occasione dell’ultimo conflitto mondiale l’aquila fu fusa per costruire armi”[37]. De Bernart, in una plaquette del 2012[38], si soffermava sulla figura del grande poeta latino Quinto Ennio, pubblicando una foto d’epoca nella quale compare ancora la statua sormontata dall’aquila.

Fra le opere leccesi del Bortone, infine, il ritratto di Dante Alighieri, in una targa in bronzo che si trova sulla facciata di Palazzo Carafa[39]. La scultura fu occasionata dal VI centenario della morte di Dante Alighieri, nel 1921. L’opera è realizzata in bronzo. Su una lastra di marmo è collocato il labaro del Comune di Firenze e al centro è posta la testa del Sommo Poeta di profilo. Sul nastro in bronzo che delimita il labaro, la scritta “Lecce nel VI centenario”. La targa venne inaugurata il 15 gennaio 1922 con “una cerimonia di tutto rispetto”, scrive Paolo Agostino Vetrugno. “La stampa del tempo ricorda la singolare manifestazione come «un tributo con cui anche Lecce, il capoluogo dell’estremo e remoto Salento, ha voluto e saputo partecipare alle solenni onoranze centenarie rese da tutta la Nazione alla memoria immortale del Divino Poeta» (La festa inaugurale del 15 gennaio, in «Corriere Meridionale», anno 33, n.2, 19 gennaio 1922, p. 2). […] La scultura è segnalata da Amilcare Foscarini nella sua Guida storico-artistica di Lecce (p.78) del 1929 come un’opera degna di attenzione, e al tempo stesso appariva allo studioso collocata sulla facciata municipale tra il Busto di Felice Cavallotti (inaugurato il 4 giugno 1904) ed il Busto di Giovanni Bovio (inaugurato il 4 luglio 1907), sculture in bronzo realizzate dallo stesso Bortone”[40]. Nell’opera, Dante non reca sulla testa la corona di lauro come nella più collaudata iconografia ma dietro la figura si scorgono appena le Alpi ed il confine della Patria. Lasciamo parlare Vetrugno: “La cerimonia dell’inaugurazione fu descritta dalla stampa dell’epoca con ricchezza di particolari. L’inizio della manifestazione era stato fissato alle ore 10,30 e già dalle prime ore del giorno, che cadeva di domenica, l’intera via Rubichi appariva completamente affollata. Presenziarono molte rappresentanze della autorità civili e militari, funzionari, istituti, associazioni, che intervennero con le proprie bandiere, docenti e studenti, cittadini comuni. La Banda dell’Ospizio Garibaldi diede una singolare interpretazione dell’Inno Reale e, alla fine dell’esecuzione, fu scoperta la targa dantesca. Tenne la prolusione l’avvocato Nicola De Simone Paladini, al tempo assessore comunale e presidente del Comitato cittadino costituito per le Celebrazioni dantesche. L’intervento era stato concepito articolandolo su due linee distinte ma complementari: la prima tendeva a presentare il poeta-esule fiorentino come «cantore dell’umanità, assertore dei sacri diritti d’Italia»; la seconda parte puntava a chiarire il significato ed il valore del ricordo con cui Lecce partecipava doverosamente al tributo nazionale delle celebrazioni nel sesto centenario della morte del poeta. Dopo l’inaugurazione della Targa dantesca, la manifestazione si spostò nelle immediate vicinanze, dove fu inaugurato il Monumento in bronzo di Fanfulla da Lodi, opera realizzata in bozzetto in gesso dallo stesso Bortone nel 1876, ma che solo allora vedeva la luce con la fusione in bronzo presso la ditta di Firenze F.A.F. G. Vignoli, scultura degnamente recuperata nel 2012 e restituita al suo splendore con un buon intervento di restauro (Cfr. Città di Lecce, Settore Lavori Pubblici, Interventi di Restauro Recupero funzionale, Fanfulla da Lodi. I Monumenti Cittadini, Editrice Salentina, Galatina, 2012). C’è da pensare che la stessa ditta avesse fuso la targa dantesca”[41]. La scultura purtroppo non è facilmente leggibile a causa dell’usura del tempo e a tal proposito lo storico dell’arte lamenta la mancanza di attenzione da parte dell’Amministrazione leccese nei confronti di questo monumento, ancor più grave se si pensi che è stata lasciata passare infruttuosamente la data del 2021, ovvero del VII centenario della morte del poeta. Un altro busto di Dante Alighieri del 1920 si deve al Bortone ma purtroppo quest’opera è perduta. Ne riporta una foto, dovuta ad A. E. Foscarini, il Catalogo delle opere ma di più non sappiamo[42]. In mancanza di riscontri, possiamo verosimilmente congetturare che si trattasse di una committenza del Comune di Firenze alla quale Bortone rispose da par suo, come si può intuire dalla scolorita foto.

Moltissime sono le sue opere sparse per il Salento e l’Italia, come tantissimi sono ancora gli amanti della sua arte e notevole la sua fortuna critica[43]. Antonio Bortone muore a Lecce il 2 aprile 1938.

Note

[1] Per una bibliografia sul Bortone, fra i contributi più recenti, si segnalano: I. Laudisa, L’opera di Antonio Bortone, in Aa.Vv., Antonio Bortone, Pro Loco Ruffano, Lecce, Conte Editore, 1988, pp.15-34; A. de Bernart, Antonio Bortone nella stampa periodica salentina, Ivi, pp. 37-45; A. Laporta, Rarità bibliografiche: un sonetto dedicato ad Antonio Bortone, Ivi, pp.49-51; A. E. Foscarini, Lettere edite ed inedite di Antonio Bortone, Ivi, pp.53-67; A. de Bernart, Antonio Bortone e le figure dei suoi monumenti. Nel 150° di sua nascita (1844-1994), in «Bollettino storico di Terra d’Otranto», 4, 1994, pp. 72-78; O. Casto, Bortone a Firenze, in Aa.Vv., Colloqui 150° Anniversario della nascita di Antonio Bortone. 1844-1994, Pro Loco Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis, 1994, pp. 3-8; A. E. Foscarini, Bozzetti in gesso di Antonio Bortone, Ivi, pp.27-28; E. Inguscio, Della “vittoria alata” di Antonio Bortone in Ruffano, in «Il Bardo», Copertino, a. VII, n.2, dicembre 1997, p.13; Idem, La civica amministrazione di Ruffano, 1861-1999, Galatina, Congedo, 1999, p.71; A. de Bernart, Antonio Bortone e la sua casa natale in Ruffano, Amministrazione Comunale Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis, 2004; Idem, La statua della Duchessa Capece nella piazza di Maglie, in «Note di Storia e Cultura salentina», Società Storia Patria Puglia, Sezione di Maglie, n. XVI, Lecce, Argo Editore, 2004, pp.55-56; Idem, I grandi salentini. Antonio Bortone, in «Anxa News», Gallipoli, settembre-ottobre 2008, p.14; Idem, Nel primo centenario del Monumento di Antonio Bortone a Quinto Ennio (Memorabilia 33), Ruffano, Tipografia Inguscio e De Vitis, maggio 2012; P. Vincenti, Dal Fanfulla a Quinto Ennio nel segno di Antonio Bortone, in «Il Filo di Aracne», Galatina, n.3, luglio-settembre 2019, pp.42-43; Idem, Una statua per Francesca Capece, in «Nova Liberars», Novoli, n.1, 2019, pp.22-26; Idem, L’arte commemorativa postbellica. Antonio Bortone da Ruffano e una sua opera inedita, in «L’Idomeneo», Società di Storia Patria per la Puglia, sez. Lecce- Università del Salento, n.26 -2018, Castiglione, Grafiche Giorgiani, 2019, pp.247-282; Idem, “L’ombra sua torna ch’era dipartita”. Il culto dei caduti in Terra d’Otranto nelle opere di Antonio Bortone, in Storia e storie della Grande Guerra Istituzioni, società, immaginario dalla Nazione alla Terra d’Otranto, a cura di Mario Spedicato e Paolo Vincenti, Società Storia Patria Puglia, sez. Lecce, Novoli, Argomenti Edizioni, 2020; Idem, L’iconografia Vaniniana nel tempo: da Antonio Bortone a Donato Minonni, in www.fondazioneterradotranto.it, maggio 2021.

 

 

 

 

 

 

[2] A. de Bernart, Antonio Bortone e la sua casa natale in Ruffano, cit., pp.5-10. Continua de Bernart: “Modellata a Firenze nel 1877, l’opera è figlia della tensione tra i circoli artistici fiorentini e il Bortone, che si era prodotto, e bene, nel nudo, con il Gladiatore morente, ma non aveva ancora dato prova di sé nel drappeggio. Tale prova il Bortone la darà appunto con la statua del Fanfulla, inviata alla Mostra Internazionale di Parigi, dove però giungerà ammaccata in più parti. Invitato a ripararla, il Bortone non andò mai nella capitale francese, forse per il suo carattere che a volte lo rendeva spigoloso e quasi intrattabile […]. Comunque la statua fu esposta ugualmente a Parigi e vinse il terzo premio, previo il restauro praticato dal grande scultore napoletano Vincenzo Gemito, che si trovava nella capitale francese a motivo della stessa Esposizione”.

[3] F. Sapori, Scultura italiana moderna, Roma, 1949, p. 31, cit. in Antonio Bortone, cit., p.20.

[4] F. Lavagnin, L’arte moderna, Vol. II, Torino, 1956, p.154, cit. in Ivi, pp. 20-21.

[5] I. Laudisa, L’opera di Antonio Bortone, in Antonio Bortone, cit., p.24.

[6] E. Panarese, Le iscrizioni latine di Maglie, in «Note di storia e cultura salentina», Società Storia Patria per la Puglia, sez. Maglie, N. VII, Lecce, Argo Editore, 1995, p.190.

[7] E. Panarese, Francesca Capece e il suo monumento, Lecce, Argo Editore, 2000, p.13

[8] A. de Bernart, La statua della Duchessa Capece nella piazza di Maglie, cit.

[9] L. Leone, Francesca Capece: da “Stabilimento di carità cristiana” a “Fondazione”, in «L’Idomeneo», Miserere nobis: aspetti della pietà religiosa nel Salento moderno e contemporaneo. Atti del convegno di studi, Società Storia Patria per la Puglia, sez. Lecce -Università del Salento, n. 22, Lecce, 2016, pp.  9-16.Inoltre, Eadem, Francesca Capece, un sogno divenuto realtà, in «Ego Plantavi», Fondazione Francesca Capece, Liceo Capece, 2013, p.3.

[10] E. Panarese, Le iscrizioni latine di Maglie, in «Note di Storia e Cultura salentina», Società Storia Patria Puglia, sez. Maglie, N. VII, 1995, Lecce, Argo Editore, p.192.

[11] Si rinvia ancora a P. Vincenti, Una statua per Francesca Capece, in «Nova Liberars», cit.

[12] M. Chiuri, Antonio Bortone e i Monumenti ai Caduti per la Patria nel Salento, in «Leucadia», Miscellanea storica salentina “Giovanni Cingolani”, III, n.1, 2011, pp.181-213.

[13] E. Inguscio, Della “vittoria alata” di Antonio Bortone in Ruffano, cit., p.13; Idem, La civica amministrazione di Ruffano, 1861-1999, cit, p.71; A. de Bernart, Antonio Bortone e le figure dei suoi monumenti. Nel 150° di sua nascita (1844-1994), cit., pp.72-78.

[14] Si veda M. Chiuri, Antonio Bortone e i Monumenti ai Caduti, cit., pp.208-211.

[15] Ivi, p.192.

[16] L. Scorrano, La donna del monumento in «Nuovalba», Parabita, n.3, dicembre 2008, pp.6-7.

[17] M. Chiuri, Antonio Bortone e i Monumenti ai Caduti, cit., pp.207-208.

[18] A. de Bernart, Note a margine di alcune foto, in   Aa.Vv.,  Noi il tempo le immagini. Album di vita parabitana, Centro di Solidarietà Madonna della Coltura-Italia Nostra sezione di Parabita, Galatina, Editrice Salentina, 1993, p.18.

[19] A. E. Foscarini, Bozzetti in gesso di Antonio Bortone, in Colloqui 150° Anniversario della nascita di Antonio Bortone. 1844-1994, cit., pp.27-28.

[20] A. D’Antico, Il monumento ai caduti e la bella statua di Parabita, in «NuovAlba», Parabita, n.2, luglio 2004, pp.9-11.

[21] Ibidem.

[22] La statua di Parabita che regge in mano lo scudo civico campeggia sulla copertina di un numero della rivista «NuovAlba» all’interno della quale si ritorna sul non più esistente monumento: A. de Bernart, Lo stemma civico di Parabita in un’aiuola fiorita, in «NuovAlba», Parabita, n.3, dicembre 2005, p.2.

[23]  Si rinvia a A. de Bernart, Note a margine di alcune foto, in Noi, il tempo, le immagini, cit., p.17.

[24] V. De Luca, Lecce negli anni della Grande Guerra, Galatina, Editrice Salentina, 2019, pp.179-180.

[25] Ivi, p.72.

[26] V. De Luca, “Stringiamoci a coorte siamo pronti alla morte l’Italia chiamò” La Prima guerra mondiale nei monumenti e nelle epigrafi di Lecce, Galatina, Editrice Salentina, 2015, pp.61-64. Si veda: G. Barrella, P. Nicodemo Argento S.I. e il suo “Istituto”, nel primo cinquantenario della fondazione dell’“Istituto Argento” 1874-1924, Lecce, Tip. Masciullo, 1924.

[27] Ivi, p.64.

[28] I. Laudisa, L’opera di Antonio Bortone, in Antonio Bortone, cit., p.15.

[29] Ivi, pp.20-21.

[30] V. De Luca “Stringiamoci a coorte, cit., pp.50.51.

[31] Catalogo, in Antonio Bortone, cit., p.170.

[32] V. De Luca, Lecce, cit., p.72.

[33] Catalogo, in Antonio Bortone, cit., pp.170-171.

[34] Bortone era grande amico dell’On. Brunetti. La statua del politico salentino venne spedita a Milano nel 1942 per essere fusa:V. De Luca, Lecce, cit., p 239.

[35] P. Vincenti, Dal Fanfulla a Quinto Ennio nel segno di Antonio Bortone, in «Il Filo di Aracne», cit.

[36] G. Falco, Fanfulla da Lodi e altre opere leccesi di Antonio Bortone, in  http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/12/30/antonio-bortone-da-ruffano-1844-1938-il-mago-salentino-dello-scalpello/

[37] Ibidem.

[38] A.de Bernart, Nel primo centenario del Monumento di Antonio Bortone a Quinto Ennio, cit.

[39] Catalogo delle opere, in Antonio Bortone, cit., p.166.

[40] P. A. Vetrugno, Palazzo di Città, la targa dantesca di Antonio Bortone dimenticata,  in https://www.spazioapertosalento.it/news/palazzo-di-citta-la-targa-dantesca-di-antonio-bortone-dimenticata, 15 gennaio 2022.

[41] Ibidem.

[42] Catalogo delle opere, in Antonio Bortone, cit., p. 156.

[43] L’estensore di questo articolo ha recentemente pubblicato un saggio in cui attribuisce ad Antonio Bortone una statua inedita, in marmo bianco di Carrara, intitolata The Girl Knitting For the Front, che si trova nella cittadina di Christchurch, in Nuova Zelanda, e che viene censita per la prima volta. Attraverso la stampa neozelandese dell’epoca e un’indagine ad ampio raggio della produzione bortoniana, dello stile e dei rapporti personali e professionali dello scultore, ricostruisce la genesi ed il lungo percorso fatto dalla statua. P. Vincenti, L’arte commemorativa postbellica. Antonio Bortone da Ruffano e una sua opera inedita, in «L’Idomeneo», cit.

 

Dialetti salentini: tilaru, tilarettu e tiralettu

di Armando Polito

Niente sfugge all’oblio e la labilità delle nostre memorie, quasi consacrata ormai dalla messa al bando dello studio, anche di parte, della storia, coinvolge spirito e materia, sentimenti e oggetti e le parole che li designano, come quelle del titolo. È naturale, perciò, che uno non della mia età si fermi al fatto che le prime due hanno il loro esatto corrispondente italiano in telaio e telaietto. Per lui, trasurando la terza, il discorso sarebbe chiuso, sul piano formale e su quello semantico. Gli chiederei, allora, di distogliere, per pochi minuti se ce la fa, lo sguardo dallo schermo, volevo dire display, del suo strabiliante telefonino, volevo dire  smartphone, e, per cominciare dalla forma, gli farei notare che da un primitivo tilaru è normale aspettarsi, com’è stato, un derivato diminutivo tilarettu; ma tiralettu? Supponendo,  quasi per assurdo, che non sbotti in uno sbrigativo e reprensivo  – È uguale! – o, peggio, in un deciso – E chi se ne fotte? -, metterei in campo il principio dell’analogia, che non è valido solo per la linguistica ed è la prima e spesso l’ultima, se non l’unica, spiaggia per dirimere qualsiasi problema. Fidando, forse un po’ troppo, sulla tracotanza giovanile che, in forma repressa covò un tempo pure in me, gli farei l’esempio di palora e di mille altre parole (proprio mille no, perché, giustamente, mi manderebbe subito a quel paese, non solo a parole) per fargli notare come palora, rispetto all’italiano parola, mostra il fenomeno della metatesi, cioè dello scambio di posizione tra uno o più fonemi, in questo caso –rol->-lor-, passaggio propiziato dal fatto che –l– e –r– sono due consonanti della stessa qualità, cioè liquide. Lo stesso, ecco l’analogia, è avvenuto in tiralettu rispetto a tilarettu. A questo punto sarebbe d’obbligo l’obiezione: – Allora, che bisogno c’era di tiralettu doppione di tilarettu? -.

La risposta la darei passando dalla fonetica alla semantica.

Nonostante immagini che a questo punto molto probabilmente mi troverei a parlare da solo, continuo a … danno di chi ha la malsana intenzione di continuare nella lettura. Il tilaru per millenni è stato uno strumento di lavoro esclusivamente femminile e la parola evoca oggi solo un oggetto da museo. Più felice è stato il destino di telaio, che nel passaggio dalla civiltà contadina a quella industriale ha continuato ad indicare lo stesso strumento di tessitura ma con tante implicazioni tecnologiche ed umane, queste ultime legate all’introduzione, grazie all’informatica, della digitalizzazione, della robotica e dell’intelligenza artificiale. In più telaio, sfruttando le due componenti concettuali (trama+ordito) della parola (tela) di cui è forma aggettivale sostantivata, ha esteso il suo significato a quello di struttura portante, soprattutto di un mezzo di locomozione. E se telaietto allude a sue dimensioni ridotte o, peggio, alla sua qualità, tilarettu e tiralettu, invece sono da tempo morti e sepolti, insieme con gli oggetti da loro designati. Tilarettu, infatti, era un telaio usato non per tessere ma per ricamare e per questo portatile e, naturalmente, di dimensioni infinitamente ridotte rispetto al tilaru, che quasi occupava un’intera stanza. Tilarettu morto insieme con quel ricamo che ha dato vita ad autentici capolavori di fronte ai quali quelli di oggi rimediano la stessa squallida figura di un’automobile di serie rispetto ad una Ferrari, tanto più se quest’ultima non è di recentissima o recente costruzione.

Di dimensioni, per così dire, intermedie era il tiralettu, dove le corde (foglie infilzate insieme dallo spago con l’acuceddha1 ) di tabacco, ognuna per mezzo di due chiodi, venivano appese orizzontalmente per essere essiccate. Se la tessitura col tilaru e il ricamo col tilarettu erano esclusivamente di competenza femminile, lo erano prevalentemente le attività connesse col tabacco, dalla raccolta delle fogli alla loro sistemazione sui tiraletti. Proprio la tensione dei due capi di ogni corda potrebbe spiegare, secondo me, tiralettu rispetto a tilarettu come frutto di un doppio fenomeno e cioè non solo, come prima indicato per parola/palora, di metatesi –lar­->-ral– ma pure di incrocio con tirare, fino ad un esito non voluto di differenziazione semantica. In fondo, tela ha la stessa radice di tessere, azione nella quale convergono il sostenere e il tendere, il tirare i fili, proprio come avveniva con le corde del tabacco e, per l’essiccazione dei fichi, in cui il tiralettu sosteneva  quella specie di tela fatta di canne intrecciate che era il cannizzu, il quale, a sua volta, sosteneva i fichi.

Quasi sicuramente pure l’unico lettore rimasto fino a qualche tempo fa sarà andato via e io sto ancora qui a tirare per le lunghe con questo tiralettu

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1 Vedi  https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/11/22/e-oggi-disquisiamo-di-aghi/

 

 

Dialetti salentini: mammone, ovvero tra favola, parassiti dei legumi e briganti

di Armando Polito


Di fronte ad una parola dialettale chiunque si chiede inizialmente se essa abbia il suo corrispondente, non solo formale ma anche semantico, in italiano. Nel nostro caso i vocabolari italiani di mammone ne registrano tre:1

mammone1: derivato da mamma, nel linguaggio familiare definisce chi è molto legato alla mamma.

mammone2: derivato da mamma, definisce il siconio del caprifico, che porta fiori prevalentemente femminili.

mammone3: dall’arabo maimūn], nome di un Macaco e, con sign. più generico, scimmia. Da esso è derivato il gattomammone delle favole.

A  questo elenco andrebbe aggiunto anche un Mammone, soprannome di Gaetano Coletta, un famoso brigante della fine del XVIII secolo, che ebbe tutte le carte più che in regola per meritarsi quel soprannome. La digressione che ora gli dedicherò può sembrare un pretesto per allungare il brodo, ma in realtà è funzionale  alla sua riuscita e, spero gradita, degustazione..

Di seguito l’autorevole testimonianza lasciataci da un suo compagno di prigionia, il famoso giurista e storico napoletano Vincenzo Cuoco, nel Saggio storia sulla rivoluzione di Napoli, Sonzogno, Milano, 1806, p. 205, nota 1.

Gaetano Mammone, però, divenne e rimase per lungo tempo, sia pure limitatamente all’ambito napoletano, sinonimo di spauracchio, per una sorta di procedimento antonomastico al contrario, come fa intuire l’iniziale maiuscola di Mammone in questo trafiletto che ho tratto dal giornale Lo cunto de Napole e lo Sebeto  (Anno II Parlata 13 del 16 gennaio 1861. Fra l’altro Il lettore della mia età ravviserà nella sparmata (palmata) una delle punizioni quotidiane ancora in vigore nel sistema educativo dei nostri verdi anni, mentre oggi il Mammone dei giornalisti, ammesso che esista una stampa indipendente, è impersonato da un potere legislativo sempre più nerte, con l’esecutivo e il giudiziario diventati reciproci mammoni …

 

 

Con Mammone si verificò una sorta di antonomasia inversa (da nome comune a nome proprio, anzi cognome (mammone>Mammone)  e non viceversa come, per esempio, in Cicerone/cicerone, tant’è che, dopo il Mammone Gaertano del Cuoco, tale rimase negli storici contemporanei e successivi1. D’altra parte lui stesso andava fiero del suo soprannome, come mostra il suo autografo, che riproduco in dettaglio tratto dalla tavola 110 (didascalia: Autografi dei capimasse) in Benedetto Croce-Giuseppe Ceci-Michelangelo D’Ayala-Salvatore Di Giacomo, La rivoluzione napoletana del 1799, Morano & figli, Napoli, 1899.

Credo, invece, che non sia attendibile, anche e soprattutto per la mancante indicazione della fonte, il ritratto riportato in Pierluigi Moschitti, Briganti e musica popolare dal nord del sud, s. n., s. l., 2007 (?)

È tempo di lasciare la Campania e di tornare a casa.

Nel dialetto salentino mammone manca dei primi due significati registrati in italiano e in compensazione ne assume due che appaiono connessi col terzo della voce italiana.

Così sono registrati nel vocabolario del Rohlfs:

Se Il rapporto tra la scimmia, il gatto mammone, lo spauracchio (dei bambini) e l’orco appare evidente, meno immediato lo è col tonchio, cioè il parassita che nei legumi, soprattutto fave, fagioli e piselli, scava vere e proprie gallerie. È proprio questo dettaglio, però, a stabilire il legame tra la sua voracità e quella bestiale dell’orco delle favole antiche, comodo strumento terroristico, al pari del lupo, usato per dubbie finalità pedagogiche, mentre era in libera circolazione la metaforica voracità tutta umana dei pedofili.

Lo slittamento di mammone dal mondo infantile a quello degli adulti presente nel trafiletto ricorre pure nel modo di dire neritino no tti mintire mmammuni an capu/quiddhu porta mmammuni an capu (non ti mettere in testa strani pensieri/quello ha cattive intenzioni), in cui il cattivo pensiero corrisponde al parassita, al tarlo che rode in testa, dannoso per chi lo ospita e pericoloso per chi con lui ha a che fare.

Se il mammone infantile ha origini antichissime e antiche le ha la sua consacrazione nella letteratura2, va rivendicata al Salento, a quanto ne so, l’originalità ed unicità della metafora che lo ha portato alla sua ulteriore identificazione nel parassita dei legumi.

A volte, del tutto casualmente, i sinonimi sono la conferma di certi passaggi metaforici. Nel nostro caso succede nello specchietto poco fa riportato con gorgoglione, che è dal latino gurgulione(m)=gola, il cui nominativo (gurgulio) con la sua variante (curgulio)  ha dato vita a Curculio,  il personaggio (un vorace parassita) protagonista dell’omonima commedia di Plauto (III-II secolo a. C.). Connessi con gurgulio sono in latino gurges=vortice e, in senso traslato, divoratore, dissipatore (da cui l’italiano gorgo) e alla sua radice onomatopeica si collega gula=gola (da cui la voce italiana). Da gurgulio, poi, è derivato l’italiano gorgogliare. Molto probabilmente, infine, connesso con la sua variante curculio è il salentino scurcugghiare=rovistare; qui lo slittamento metaforico sembra aver attinto l’integralità della sua origine con l’evocazione della frenesia insita nell’atto vorace e nello stesso tempo del rumore che di solito l’accompagna..

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1 Filippo Galli, Memorie storiche sulla presa di Roma, Puccinelli, Roma, 1800, p. 40; Pietro Colletta, Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825, Tipografia e libreria elvetica, Capolago, 1836, p. 349); Francesco Carta, Storia del reame delle due Sicilie, Androsio, Napoli, 1848, p. 667. Il nome anagrafico del nostro compare la prima volta in Tarquinio Maiorino, Storie e leggende di briganti e brigantesse, Piemme, Casale Monferrato, 2017, p. 215: Mammone si chiamava per l’anagrafe Gaetano Coletta.

2 Già in Lo specchio della vera penitenza di   Iacopo Passavanti (XIV secolo): E alcuna volta grida la persona e piagne in fra tale sogno, rammaricandosi: e chiamano alcuni questo sogno demonio, o vero incubo, dicendo ch’è uno animale a modo d’uno satiro, o come un gatto mammone, che va la notte e fa questa molestia alle genti: e chi la chiama fantasia.  E nella letteratura dialettale napoletana in Lo cunto de li cunte trattenemiento de li peccerille di Giambattista Basile (XVI-XVII secolo): A la quale voce l’Uorco co ttutte l’animale, che lo servevano, tanto che da ccà te vedive no gatto maimone, da llà n’urzo de lo Prencepe, da chesta parte no lione, da chella no lupo menaro, pe ffarene mesesca. A proposito del titolo dell’opera del Basile non escluderei che trattenemiento abbia avuto la sua eco  e traduzione il salentino ‘ntartieni (intrattieni), termine quasi magico nella sua  indeterminatezza semantica usato in codice un tempo per tener buoni i bambini in espressioni del tipo  va’ ddha lla nonna e ffatte tare nnu picchi ti ‘ntartieni (vai dalla nonna e fatti dare un po’ di intrattenimento). Così ‘ntartieni potrebbe essere una voce di origine dotta, a dimostrazione della popolarità dell’opera napoletana.

 

“Quando i sogni si avverano…”. Centocinquant’anni di storia del Teatro di Nardò

 

di Gilberto Spagnolo

Il teatro, come forma d’arte e di comunicazione, ha origini molto antiche. Ha origini che affondano nelle radici più profonde della storia umana e continua ad essere ancora oggi un elemento centrale nella vita culturale e sociale della comunità. Il teatro rende visibile la storia dell’umanità e i temi essenziali dell’esistenza. Il suo valore culturale è certamente legato alla sua capacità di raccontare storie, di preservare tradizioni e di stimolare la riflessione, mentre il suo valore sociale si esprime nella sua stessa funzione di aggregazione, educazione e denuncia. Il teatro perciò è un potente strumento di trasformazione, un luogo di incontro, di crescita e di riflessione, che rimane di fondamentale importanza in tutte le epoche e in tutte le società. Fatta questa premessa, nel nostro caso e più specificatamente la Terra d’Otranto, oggi nota come provincia di Lecce, ma un tempo parte integrante del grande territorio salentino, ha visto nella seconda metà dell’Ottocento, un fiorire di teatri popolari che, pur inserendosi in una tradizione teatrale più ampia, hanno saputo mantenere tratti distintivi legati alla cultura locale e alle trasformazioni sociali e politiche di quell’epoca.

Mirabili testimonianze di tale fenomeno, sono stati ad esempio i teatri sorti a Lecce, Nardò, Novoli, Gallipoli, Galatina, Maglie, Taranto; teatri protagonisti di un’intensa attività teatrale che rispecchiava le peculiarità sociali, economiche e culturali della Terra d’Otranto. Indubbiamente i teatri popolari ottocenteschi della Terra d’Otranto furono soprattutto preziosi luoghi vitali di aggregazione sociale, di educazione e di espressione culturale. La loro costruzione e sviluppo rispecchiavano il desiderio delle comunità salentine di rafforzare la propria identità e di rispondere ai cambiamenti sociali ed economici che caratterizzavano l’epoca.

Pur con le diversità di “forma e contenuto”, questi teatri in concreto e fondamentalmente ebbero un ruolo importante nella vita culturale e politica del Salento, preservando e trasmettendo tradizioni popolari e valori comuni attraverso le generazioni. E ancora oggi, la memoria di queste strutture e delle attività teatrali che vi si svolgevano, rappresenta una testimonianza fondamentale della ricchezza culturale della Terra d’Otranto stessa. In tale contesto perciò è da considerare semplicemente “monumentale” e di incomparabile bellezza il volume Centocinquant’anni di storia del Teatro a Nardò, che narra la storia del suo teatro comunale, un capolavoro editoriale stampato recentemente dell’editore Claudio Grenzi di Foggia e curato da Marcello Gaballo e Andrea Barone. Una non malcelata emozione e un grande stupore ho potuto provare infatti nello sfogliare queste pagine di grande formato; pagine in cui “l’idea di costruire un teatro, ove incontrarsi per ascoltare musica, assistere a rappresentazioni teatrali, discutere di problemi vitali per lo sviluppo del paese, si radicava in una antica tradizione culturale che aveva fatto di Nardò un centro di studi umanistici e di ricerca scientifica ed artistica” (A. Barone, p. 21).

Un capolavoro perciò non solo editoriale ma soprattutto un capolavoro che ha saputo tracciare, come meglio non si poteva fare, la storia di centocinquant’anni di vita di questo monumento della città neretina, una delle città più importanti del Salento, centro fondamentale per la vita culturale e teatrale della regione stessa.

Anni iniziati esattamente il 3 febbraio 1872, allorquando il tre volte sindaco Giovan Battista De Michele (patriota con un passato mazziniano ed idee liberali) all’inizio del suo primo mandato, nella sua prima seduta consiliare, nel vasto piano di opere pubbliche da realizzare, propose di costruire in Piazza Municipio (oggi Piazza Salandra) un teatro comunale esattamente accanto alla chiesa di S. Trifone (la Prefettura bocciò questo primo progetto accogliendo invece nel 1893 quello dell’ing. Quintino Tarantino redatto per la sua costruzione nella piazzetta del Carmine, luogo più adatto individuato dal Consiglio Comunale nel 1891).

Il libro infatti, si presenta come un possente racconto, oserei dire un grande romanzo scritto con una singolare potenza storica e intellettuale e in cui si raccolgono una serie di pregevoli contributi che ripercorrono e ricostruiscono, con una puntuale dettagliata disamina, la storia e le attività del Teatro popolare di Nardò, una delle realtà più significative e appassionanti della tradizione pugliese. Introdotta dagli interventi del Sindaco Pippi Mellone e dell’Assessora alla cultura e all’istruzione della città di Nardò Giulia Puglia, l’opera, pietra miliare anche per la sua coralità di ricerca capillare e per i suoi molteplici e importanti aspetti completamente inediti, resa possibile soltanto per la passione e il grande amore della nobile città di Nardò nel senso più alto del termine, si dipana esemplarmente attraverso ben otto contributi (per complessive 253 pagine) raccolti (a cui segue una corposa e preziosa bibliografia) che documentano sia il percorso di ricerca di ogni singolo autore che la sua competenza culturale, evidenziando nel contempo sull’argomento aspetti diversi ma fortemente complementari.

 

Sostanzialmente il volume (pur non avendo una indicazione in tal senso) si sviluppa a nostro parere in due parti: una parte prettamente di carattere storico-archivistico con l’esplorazione dei più importanti archivi istituzionali e privati in merito (cuore pulsante del libro) e una parte, di fatto, artistica e culturale. La parte più consistente, nell’impianto della ricerca, è quella che comprende i contributi di Pantaleo Dell’Anna con Il primo ventennio di storia del Teatro Comunale di Nardò (1872-1892) (pp. 21-34) e quella di Marcello Gaballo con Lineamenti per una storia dello spettacolo a Nardò e del suo teatro (pp. 35-144). Dell’Anna, alla luce dei documenti municipali rintracciati, pone le basi della ricerca stessa, a partire dalla prima seduta consiliare del 3 febbraio 1872 del Sindaco Giovan Battista De Michele, seduta in cui si delibera per la prima volta la costruzione di un teatro affidando l’incarico di redigere il progetto all’architetto Gregorio Nardò fino alla seduta straordinaria del Consiglio Comunale del 18 febbraio 1892 con “l’approvazione del progetto per la costruzione del teatro dell’Ing. Quintino Tarantino, personaggio di rilievo nella storia cittadina di fine Ottocento”. “La parte del leone”, e non si può dire diversamente, è sostenuta certamente dal contributo “meritevole di encomio” di Marcello Gaballo, studioso emerito e di straordinario talento e valore. Al di là delle sue indubbie competenze specialistiche di notevole spessore (autore di innumerevoli ed eccellenti monografie), il ruolo di Marcello Gaballo risalta fortemente nel quadro complessivo di questo lavoro di anni, perché ha soprattutto un grande merito: quello di aver comunque avviato, con risultati straordinari una storia dello spettacolo a Nardò e di conseguenza del suo teatro e della sua storia travagliata, a partire dalla prima fonte in argomento che sono le Costituzioni Sinodali del 1579 del Vescovo di Nardò Cesare Bovio (1577-1583) (in cui viene stabilito che durante le celebrazioni sacre che si tenevano in città nei giorni di precetto non potevano esibirsi ciarlatani, canti in banca, zanni, rappresentatori di Comedie) fino alle vicende del teatro svoltesi tra il 1982 e il 2006, allorquando dopo ben 32 anni di fermo, e a 88 anni dalla sua fondazione, finalmente il 6 febbraio 1982, il Teatro Comunale riaprì i battenti e il Sindaco Cosimo Sasso ufficializzò la sua riapertura al pubblico con tre concerti d’apertura che si tennero dal 15 al 17 maggio, eseguiti da Elementi del Gruppo da Camera “I Solisti Veneti”.

Nella sua “travagliata storia”, il teatro venne inaugurato nel 1909 con la rappresentazione del Mefistofele di Arrigo Boito, rischiò di essere distrutto durante le serate danzanti del carnevale nel 1925, fu adibito a sala cinematografica, fu chiuso per mancanza di requisiti di sicurezza fino ad essere abbandonato completamente e riportato in vita nel 1982 con i lavori di restauro. In tale percorso è significativo anche ricordare che dopo il collaudo effettuato il 19 luglio 1900 dall’Ing. Francesco Nicola De Pace, il teatro per meglio accordare dal punto di vista artistico ed estetico i lavori già eseguiti, fu affidato all’ingegnere leccese Oronzo Greco di provata esperienza in questo settore essendo stato progettista anche del Teatro Comunale di Novoli (1885), del Politeama di Lecce voluto da suo fratello Donato e di altri rimasti inattuati in comuni delle province di Bari e Taranto. Oronzo Greco, pur esercitando validamente e con successo l’attività d’ingegnere, non possedeva la laurea in ingegneria. Lo fece presente lui stesso al Sindaco di Novoli, come risulta in una sua risposta personale alla nota prefettizia intorno all’autorizzazione sulla sua nomina deliberata dal Consiglio Comunale di Novoli il 17 novembre 1883 per il completamento del Teatro novolese.

Alcuni dei manifesti riprodotti nel volume, oggi nell’archivio dell’associazione Piccolo Teatro “Città di Nardò”

 

 

 

Nel contributo di Gaballo, frutto certamente di un lungo e rigoroso lavoro di ricerca e di uno studio scrupoloso e accurato, oltre a una mole sconfinata di documenti di prima mano, ciò che colpisce maggiormente di questo percorso organico di un luogo realmente simbolo per la città, è il prezioso e copioso materiale documentario sugli spettacoli della prima stagione teatrale nel 1909, illustrati dalla collezione di Giuliano Cacciapaglia, acquisita di recente dall’Associazione Piccolo Teatro “Città di Nardò” e aggiuntasi a quella già posseduta dal loro Archivio Storico in fase di organizzazione (di questa raccolta documentale se ne parla nel saggio di Adele Perrone, ultimo saggio del libro). Dalla consultazione di questa raccolta cartacea di manifesti e locandine dell’epoca, si sono potuti così conoscere, come scrive lo stesso Gaballo, i nomi delle compagnie, degli Autori e degli interpreti, ricostruendo infine l’intensa e sconosciuta attività teatrale di quei decenni.

Il logo dell’Associazione

 

Di grande importanza ovviamente sono anche i contributi che occupano e si sviluppano nella parte artistica e culturale e che sono i seguenti: Andrea Barone, Presidente “illuminato e mecenate” dell’Associazione Amici Museo Porta Falsa e della Compagnia del Piccolo Teatro “Città di Nardò”, con Cinquant’anni di emozioni e Cinquant’anni di attività del Piccolo Teatro “Città di Nardò”; impeccabile e completa la sua ricostruzione dell’epoca, con personaggi, scene, interpreti, di tutte le rappresentazioni teatrali che si sono svolte nei cinquant’anni di attività, a partire dallo spettacolo di “arte varia” “Sacrificio di una mamma” messo dal gruppo di sostenitori cittadini per la salvaguardia del teatro voluto da Paolo Zacchino nel 1974, fino al 28 aprile 2024 con “Passaportu Pi llu ‘Nfiernu”, commedia in due atti di Mimino Spano realizzata per celebrare il cinquantesimo anniversario della costituzione del Piccolo Teatro “Città di Nardò”. Seguono Riccardo Quaranta con Due meravigliose realtà cittadine; Andrea Barone, Luigi Conte, Marcello Gaballo, Adele Perrone, Gabriella Schirosi con Figure salienti nei cinquant’anni di storia del Piccolo Teatro; Paolo Marzano con Quando la storia è di scena; Adele Perrone, infine con Cinquant’anni di attività del Piccolo Teatro “Città di Nardò”.

I contributi qui raccolti, offrono un’analisi accurata e approfondita di come il Teatro si sia sviluppato in questa area del Salento, tanto da diventare un punto di riferimento per le comunità locali e un importante veicolo di espressione sociale, culturale e politica. In sostanza, un luminoso esempio sul ruolo del Teatro come luogo di socializzazione e di aggregazione, dove diverse generazioni si sono incontrate e hanno interagito attraverso il linguaggio teatrale. Emergono così nelle loro narrazioni l’impegno civile, la determinazione, l’abnegazione, il lavoro, le storie delle due “realtà meravigliose” che rispondono ai nomi dell’“Associazione Amici Museo Porta Falsa” e della “Compagnia del Piccolo Teatro “Città di Nardò””.

Nella loro narrazione i ricordi e le commoventi emozioni delle loro esperienze teatrali s’intrecciano felicemente con i dati storici. Su questo grande palcoscenico di vita s’innalzano, con il loro carisma e il loro impegno civile le “figure salienti” del Piccolo Teatro che rispondono ai nomi di Gino Alemanno, Gregorio Caputo, Claudio Contaldo, Egidio Presicce, Federico Schirosi, Mimino Spano, Giovanna Zacchino, Paolo Zacchino, “l’eroe” come lo definisce il sindaco Pippi Mellone, a cui si deve la nascita nel 1974 della Compagnia del Piccolo Teatro “Città di Nardò”, che tanto si prodigò per la riapertura del teatro dopo il lungo periodo di inattività a causa della chiusura e che prima di morire, nell’aprile del 2013, ebbe cura di consegnare, o meglio di donare, ad Andrea Barone tutto il materiale documentario da lui raccolto sul Teatro Comunale.

Infine, tra i pregi del volume, oltre la rigorosità scientifica e la ricchezza dei contributi, “un libro nel libro” di estremo interesse, splendida veste tipografica, edizione a stampa pregevole dell’editore Grenzi di Foggia, stampata presso la benemerita Industria Servizi Grafici Panico di Soleto, nella collana di Storia e tradizioni locali, con un’immagine dell’interno del teatro che emoziona fortemente, bibliografia esaustiva e aggiornata, un “libro nel libro”, dicevamo, è l’apparato iconografico; “la cura iconografica” per meglio dire che arricchisce e orna il testo scritto con il potente mezzo comunicativo dell’illustrazione, composto da numerose e pregevoli foto opera di Lino Rosponi, antichi documenti, cromolitografie, litografie, antiche piante e tavole, foto d’epoca. In conclusione, il testo si presenta come una risorsa fondamentale per comprendere non solo la storia di un importante fenomeno teatrale locale, ma anche per riflettere sulla funzione sociale ed educativa del teatro in una comunità.

La raccolta dei vari contributi offre pertanto una panoramica più che completa e ben documentata, che potrà interessare ulteriormente altri studiosi di storia, ma anche di antropologia, teatro e cultura popolare, e chiunque sia appassionato (come noi e i Neretini) di tradizioni locali e della loro capacità di sopravvivere e trasformarsi nel tempo.

Oggi, dopo tante tribolazioni e un felice epilogo, orgogliosi di una storia comunque meravigliosa per uomini e idee, dal 2008 il Teatro Comunale è anche diventato “la casa di una vera e propria compagnia teatrale, la TerramMare Teatro, essendo una delle Residenze Teatrali Pugliesi, grazie al forte impegno e collaborazione della città di Nardò e alla promozione del Teatro Pubblico Pugliese, della Regione Puglia, del Ministero delle attività culturali e della Comunità Europea (sito Web https://terrammareteatro.it).

I giornali neritini del XIX secolo diretti da Luigi Maria Personè e i loro motti

di Armando Polito

N, B. Le immagini delle testate sono tratte da https://www.nardofotoartestoria.it/testate-di-giornali-neritini-di-altri-tempi-da-fine–800-ai-primi-del–900.html

Da sempre il motto ha avuto una funzione che potremmo tranquillamente definire identificativa e pubblicitaria. La fine del regime feudale prima e  quella del riconoscimento a fini pratici e concreti dei titoli nobiliari poi sancita nella Costituzione hanno fatto anche dei motti spesso campeggianti sugli scudi oggetto di valenza esclusivamente storica. Negli ultimi tempi, infine, all’araldica scientificamente intesa si è affiancata quella commerciale, che, sfruttando la dabbenaggine e il narcisismo di non pochi, è capace di fornire, a prezzi non propriamente modici, un pedigree del quale solo un ignorante, nonché imbecille, può andare orgoglioso.

Dei motti legati al potere oggi sopravvivono solo quello del papa e quelli  dei vescovi, destinati a durare una vita; più, comunque, di uno dei moderni slogan pubblicitari del passato e ancor più di quelli attuali, avvezzi come sono ad annusare e soddisfare bisogni sempre più cangianti e indotti dal demone del massimo profitto.  Non è raro che questi siano integralmente in inglese, mentre è molto probabile  che non tutti i destinatari, oltretutto più presi dall’immagine che li accompagna, siano in grado di correttamente tradurre e capire; il che, bella consolazione a celebrare la superficialità e l’ignoranza!, li accomuna a quelli che sono in latino, di regola nessi non originali ma  citazioni tratte da testi del passato sfruttando l’autorevolezza degli autori e l’aureola di fascino che l’antichità assume. Di seguito non certo per anacronistiche nostalgie quello della famiglia Personè col motto Et pace et bello come appare sulla facciata del fu Castello Acquaviva, poi Palazzo Personè, attualmente sede del Municipio1.

 

Un posto a parte occupano, infine, i motti di rilievo istituzionale minore, non campeggianti su scudi o simili, come quelli di alcuni giornali del passato, il cui orientamento politico in un clima di scontro particolarmente acceso e senza esclusione di colpi, emergeva già dal titolo e il motto rappresentava la punta del proprio fioretto. Questo clima respirava Nardò nella seconda metà del XIX secolo2.

Protagonista assoluto per la sua caratura culturale, che non si espresse solo nell’attività giornalistica, fu Luigi Maria Personè (1830-1898).

Oggi il giornalista, anche quello locale, ha, grazie anche alle collaborazioni esterne e, soprattutto ai moderni strumenti di comunicazione, una visibilità imparagonabile rispetto a quella alla quale poteva aspirare solo pochi decenni fa. Non deve perciò sembrare strano che, almeno per questo aspetto del suo impegno culturale, la notorietà di Luigi Maria Personè non abbia valicato i confini di Nardò. Eppure era, come si dice, più che attrezzato per farlo, come dimostrano le Etimologie neritine, l’unico suo scritto pubblicato, a puntate, su una prestigiosa rivista napoletana3. Fa rabbia pensare come per un talento a quell’epoca non fosse facile esprimersi ed essere utile, cioè fruibile dal maggior numero possibile di lettori, mentre oggi l’autopubblicazione consento anche ad un ignorante cialtrone di spacciarsi per intellettuale, anche perché è latitante il buonsenso, sintesi di quelli del limite e del ridicolo.

Tre furono i giornali che lo videro protagonista in tempi successivi, tutti stampati a Lecce dalla Tipografia Lazzaretti. Ne fu direttore, anche se questa figura e la connessa responsabilità legale nascerà nel 1848. È normale perciò che nelle testate di allora non ne compare il nome, ma le nostre tre, a differenza di quelle coeve della concorrenza, mostrano gli articoli privi della firma del loro autore. Tale anonimato, che potrebbe dare adito a sospetti di vigliaccheria, è a mio avviso la prova di una notorietà ed autorevolezza di un direttore che si assumeva in toto la responsabilità morale di quanto pubblicato, essendo difficile immaginare che tutti gli articoli li scrivesse lui o sottoponesse quelli degli altri ad una forma di censura preventiva.

Il primo giornale fu Lo sprone (nell’immagine il numero 6 del 22 maggio 18834).

Delle tre questa è la sola testata il cui nome non è immediatamente riconducibile ad alcuna citazione, ma rappresenta l’estrema sintesi del motto tramite la sua parola chiave. In esso, infatti, collocato in posizione di sottotitolo, si legge: Buon cavallo e mal cavallo vuole sprone. Boccaccio.

Questa specie di motto è tratto dalla nona novella della nona giornata del Decameron. Chiara è la valenza politica della metafora, in cui il cavallo è il cittadino che, buono o cattivo, ha sempre bisogno di essere guidato e stimolato da chi lo cavalca, cioè da chi detiene il potere.

Segnalo come fortuita coincidenza e senza maliziose illazioni al cui alimento non sono in grado di fornire neppure un indizio, che lo stesso nome avrà una testata brindisina il cui primo numero uscì il 6 settembre 18915.

La citazione di quello che ho chiamato specie di motto diventa più dettagliata in La mascella d’asino, il cui primo numero uscì il 14 febbraio 18866 (nell’immagine  il numero del 6 maggio 1886; manca qualsiasi indicazione sulla periodicità), dove si legge: In maxilla asinidelevi  Giud. Cap. XV Ver. 16.

Dopo il cavallo presente nel motto della testata precedente, qui si è passati, col meno nobile asino, presente sia nel titolo che nel motto (In maxilla asini7), al racconto biblico (Giudici, XVI, 16) di Sansone, che con una mascella d’asino uccise mille Filistei. La metafora, qui parzialmente umanizzata, ha la stessa valenza politica della precedente.

E siamo al Dies irae, la cui pubblicazione iniziò il 2 febbraio 18928  (nell’immagine il n. 9  del 13 luglio 1893).

Il sottotitolo è: Giornale serio ed al bisogno umoristico.  Insieme con le testate precedenti forma un climax ascendente (sprone>violenza>ira di Dio), quasi a scandire un percorso professionale (sia pure limitato, come s’è detto, al giornalismo locale) e nella scelta dei titoli e dei sottotitoli non è azzardato supporre che il nostro sia stato protagonista e non solo comprimario, con quella acribia e onestà intellettuale che è una costante metodologica di Etimologe neritine4, dove per tutti i lemmi, ogni volta che riporta un’ipotesi etimologica diversa in parte o in tutto dalla sua, cita sempre la fonte con estremo rigore anche bibliografico.

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1 Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/08/su-due-dettagli-della-decorazione-della-facciata-dellattuale-municipio-palazzo-persone-di-nardo/

2 Sul tema vedi Ennio D’Amico, Nardò e i suoi giornali: trent’anni di storia civile, 1885-1913, Edizioni del Grifo, Lecce, 1990, pp. 28-30..

3 Un assaggino in https://www.fondazioneterradotranto.it/2025/02/25/dialetti-salentini-nnizzu-ovvero-nardo-avellino-0-2/

4 Si legge in Guida della stampa periodica italiana, R. Tipografia Editrice Salentina dei fratelli Spacciante, Lecce, 1890, p. 485, nella sezione Giornali cessati: Lo Sprone, settimanale, n. 1885; direttore Luigi Maria Personè. Fu sostituito dalla Mascella d’asino. La data di nascita riportata è sicuramente un errore di stampa (1885 per 1883) più plausibile in una guida che nella testa, il cui n. 6 reca, come inequivocabilmente si legge nell’immagine riprodotta, la data del 1883. Nella stessa testata, inoltre, si legge: Il giornale si pubblica per ora la I e la III domenica d’ogni mese.

5 Giornale politico, amministrativo, letterario, commerciale. “Sarò di tutti e di nessuno”. Si pubblica la domenica (da Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Bollettino delle pubblicazioni italiane ricevute per diritto di stampa,  ricevute per diritto di stampa, Successori di Le Monnier, Firenze, 1891, scheda n. 10366). Nei precedenti numeri del bollettino compaiono regolarmente, cone specificato nelle note 6 e 8, le altre due testate neritine.

6 Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze Bollettino delle pubblicazioni italiane ricevute per diritto di stampa,  ricevute per diritto di stampa, Successori di Le Monnier, Firenze, 1886, scheda n. 2884).

7 Il testo originale completo è: In maxilla asini, in mandibula pulli asinarum delevi eos, et percussi mille viros (Con la mascella di un asino, con la mandibola di un piccolo d’asine li ho annientati e ho percosso mille uomini).

8 Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Bollettino delle pubblicazioni italiane ricevute per diritto di stampa,  ricevute per diritto di stampa, Stabilimento Tipografico Fiorentino, Firenze, 1892, scheda n. 2260).

Sergio Sebaste tra angeli e putti barocchi

Tra angeli e putti barocchi.
L’arte della bellezza e il “Canto del Vangelo” di Sergio Sebaste

 

di Gilberto Spagnolo

L’arte come massima espressione dell’umano (“che non finirà mai finché esisterà il mondo, in quanto ne coinvolge la sua materia e il suo spirito”) trova certamente nel cammino pluridecennale e artistico dell’ottantunenne Sergio Sebaste, pittore pieno di grazia e di straordinaria sensibilità tecnica e umana, una grande forza espressiva. Artista novolese, altamente apprezzato dai critici e tra i più noti e significativi, affermatosi a livello nazionale e internazionale, mette in scena infatti nelle sue opere e nelle sue mostre personali una pregevole pittura connotata da un’attitudine scultorea (suo primo interesse artistico, con un maestro come Pericle Fazzini) che si espande nello spazio e nelle figure con un volume concreto attraverso disegni colorati a rilievo, particolari volumetrici spaziali ed espressivi.

Mostra Galleria “Il Canovaccio (Studio del Canova)”, 1985

 

Mostra Galleria “Il Canovaccio (Studio del Canova)”, 1985

 

Spessori materici elaborati mediante un procedimento personalissimo che si esplica appunto nella materia come unione di spazio e luce, di gesto e memoria, di realtà e storia. Gioca infatti un ruolo fondamentale la presenza assoluta di una tecnica personale che offre una matrice plastica ineguagliabile, con risultati fortemente realistici, frutto di una ricerca artistica rigorosa, concettuale, ricca nel contempo di grande umanità e capace di coinvolgerci profondamente e, soprattutto, d’incantarci ed emozionarci. Un gesto artistico autentico e originale il suo, fondato quindi da tempo su processi trasformativi dell’immagine e della materia (attraverso disegno, grafica, china, acquerello, pittura, scultura, eccetera) e da un vivo interesse soprattutto per la sua terra, il Salento, il suo popolo e la sua storia.

Mostra Hotel President, Lecce, 1989

 

L’inconfondibile paesaggio rurale e prettamente storico del Salento, in particolare con le sue decorazioni barocche (colonne tortili, fregi, antiche chiese e dimore, linee perfette di muri e di sassi che sembrano animarsi) felicemente unite ad aspetti ambientali e naturalistici, con un supporto grafico di forte espressività comunicativa nella raffigurazione dei suoi segni e soprattutto della sua gente, sono infatti la chiave imprescindibile e indispensabile per scoprire e capire la sua opera pittorica e la sua arte. I tronchi maestosi, contorti e tortuosi degli ulivi salentini (struggente espressione identitaria ridotta oggi a tragiche “macerie” abbandonate e imperfette) sono un mirabile esempio di uno dei suoi temi prediletti, che Sebaste sente particolarmente (rappresentandoli in tante sue opere) in maniera simbiotica vicina al proprio mondo spirituale e memoriale e, soprattutto, esempio lungimirante e testimonianza commovente prettamente culturale del suo genio e della sua tecnica creativa.

Mostra Hotel President, Lecce, 1989

 

La sua pittura è influenzata particolarmente dagli impressionisti francesi e questo dà inoltre certamente anche vitalità poetica ai suoi paesaggi tipicamente salentini. C’è infatti una innegabile somiglianza soprattutto con Monet che trasforma il quadro in monocromia e tutto il paesaggio in qualcosa di etereo e d’impalpabile (levità, senso di vaporosità o una quasi inconsistenza). Monet considerava infatti la natura “il più bello degli spettacoli” e Sergio Sebaste, quadro dopo quadro, disegno dopo disegno, ma anche scultura dopo scultura, ha costruito un edificio formale, espressivo e narrativo talmente autonomo e originale, che è nel contempo in continuità con tale grande tradizione pittorica.

Altre tematiche non meno importanti caratterizzano la sua produzione e le sue opere; da quelle prettamente religiose (come ad esempio la Natività, la Crocifissione, l’Ultima Cena, eccetera, con chiari riferimenti a volte anche a grandi e famosi artisti di levatura internazionale come ad esempio la Sagrada Familia, ultima opera di Gaudì a Barcellona) a quelle di carattere sociale e di valenza esistenziale come la maternità e il corpo femminile, la vita e l’approssimarsi della morte nei volti dei vecchi e dei bambini. O ancora, come le perfette scene o le evocazioni, con minuzia di particolari, di chiara appartenenza alle antiche radici e tradizioni del suo luogo natio.

Mostra “Sergio Sebaste Opere Recenti”, Palazzo Viani Visconti, Pallanza – Verbania, 1999

 

Mostra “Sergio Sebaste Opere Recenti”, Palazzo Viani Visconti, Pallanza – Verbania, 1999

 

Mostra “Sergio Sebaste Opere Recenti”, Palazzo Viani Visconti, Pallanza – Verbania, 1999

 

Mostra “Tra i due mari… a Sud”, Castello Carlo V, Lecce, 2002

 

Ritratti e paesaggi, volti e corpi perfetti nelle loro forme, nelle loro emozioni e nelle loro storie, marcatamente realistici, si susseguono o si alternano perciò tra rigorosi impianti prospettici, tra antiche chiese sconosciute, tra angeli e putti barocchi e misteriose dimore diroccate. Tutto si mostra quasi come in un sogno, segreto e inafferrabile, che rimarca il legame dell’artista con la propria terra. Sebaste “scrive” di fatto con i colori e affida a miracolosi effetti cromatici le sue emozioni. I colori magistralmente usati si manifestano armoniosamente, quasi irreali nel dipingere sfumature, immagini note e ricordi delle stesse, evocando appunto spazi e persone. “Mescolando” poi i colori, tracciando segni e armonizzando anche gli spazi, Sebaste configura infine rappresentazioni che si spingono, sempre più, oltre una realtà immediatamente riconoscibile e di assoluta bellezza. Sono perciò capolavori preziosi che rendono eterni luoghi nostalgici ed evocativi di tempi passati ed estremamente poetici e immortali.

Mostra “Tra i due mari… a Sud”, Castello Carlo V, Lecce, 2002

 

Serie di 20 opere di Sergio Sebaste contenute nel volume Nel Canto del Vangelo, Pensieri e colori, 2007

 

Sergio Sebaste, cultore dell’arte in tutte le sue forme, ha sempre parlato poco delle sue opere. Opere straordinarie del suo interesse per la scultura sono ad esempio a Novoli il Sant’Antonio Abate in piazza Gaetano Brunetti realizzato nel 2001; il bassorilievo rappresentante l’Eucarestia nella Chiesa di Sant’Andrea, opera presentata in occasione della mostra di Arte Sacra parrocchiale organizzata nell’anno santo 1975; il busto di Oronzo Parlangeli ora presso la scuola elementare che porta il suo nome e, inoltre, il monumento a Carlo Collodi collocato nel 1991 nel parco di Pinocchio a Collodi, omonimo pae­se toscano. La trattazione della tematica religiosa, emerge invece chiaramente con tutta la sua tecnica, tutto il suo talento e la bellezza della sua arte, nelle venti opere (che misurano cm. 50×65) fatte con pennini su carta cartonata con tecnica mista a rilievo e che impreziosiscono il libro Nel Canto del Vangelo. Pensieri e colori realizzato assieme a Ulisse Mascheretti, poeta teologo di Bergamo, e pubblicato nel 2007.

Serie di 20 opere di Sergio Sebaste contenute nel volume Nel Canto del Vangelo, Pensieri e colori, 2007

 

Serie di 20 opere di Sergio Sebaste contenute nel volume Nel Canto del Vangelo, Pensieri e colori, 2007

 

Venti capolavori assoluti, mirabili opere scorrono in queste pagine e illustrano la parola del Vangelo, opere che abbiamo il piacere e il privilegio di presentare ai lettori (grazie al suo dono di una copia di questo libro): Annunciazione, Natività, I Magi, Battesimo, Cana, Samaritana, Alla piscina di Betzata, Gesù cammina sulle acque, l’Adultera, Lazzaro, La Pecora perduta, Le Palme, La Vera Vite, Getsemani, Giuda, la Via Dolorosa, Un Grande Grido, Risurrezione, La Pesca Miracolosa, Ascensione. Pittura e Poesia insieme, in un connubio perfetto, dialogano con la parola eterna (dalla prefazione).

Serie di 20 opere di Sergio Sebaste contenute nel volume Nel Canto del Vangelo, Pensieri e colori, 2007

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In “spazioapertosalento.it”, 2 aprile 2023 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 519-522, Novoli 2024.

IDRUSA DI OTRANTO. Storia di una leggenda fatta passare per storia

di Armando Polito

 

Le favolette melense intrise di facile buonismo, ipocrita moralismo ed espedienti retorici per lo più rozzi, hanno uno strepitoso successo editoriale grazie pure alla potenza pubblicitaria e divulgativa della tv e della rete. Parto proprio da quest’ultima per iniziare questo viaggio attraverso fesserie propalate nel tempo in fede cattiva più che buona e che oggi rimbalzano clamorosamente dalla carta stampata alla rete e viceversa, destinate ad una rapida clonazione da parte di utenti sempre più superficiali, creduloni ed ignoranti. Nel nostro caso basta cercare “Idrusa” e Google ti risponderà con La Leggenda di Idrusa di Otranto come primo link. Se sei un lettore pigro, ti consiglio di non cedere controvoglia a quella curiosità morbosa, spesso subdolamente suscitata, che ti ha spinto tante volte a continuare. Lascia perdere; anzi non continuare la lettura di questo post, perché non ci capiresti nulla.

Per te, invece, reduce da un viaggio infarcito di biscottini-ricatto, senza la cui ingurgitazione non puoi accedere al link iniziale, che è, guarda caso!, “Idrusa”, mi corre l’obbligo, anche se non ce ne sarebbe stato bisogno, di fare una rapida distinzione tra leggenda, storia e romanzo storico.

La leggenda è la narrazione di un fatto storico che nell’arco di un lungo, a volte lunghissimo tempo, ha subito superfetazioni popolari che rendono pressoché impossibile individuare il nucleo di verità storica da cui tutto è partito. Emblematica è per il mondo pagano la mitologia, per il cristiano l’agiografia. La storia è anch’essa una narrazione, un’interpretazione pur sempre della realtà, ma condotta sulla scorta di prove documentali controllabili, per quanto, come scienza vuole, soggette a confutazioni, revisioni, integrazioni, conferme; e queste sono le fonti, che vanno sempre citate con rigorosa accuratezza e fedeltà.

Il romanzo storico, infine, fa riferimento a fatti realmente accaduti ed a personaggi realmente esistiti, ma che si muovono sulla ribalta della narrazione grazie alla fantasia dello scrittore; in un certo senso il romanzo storico può essere considerato come la versione moderna del genere  leggendario con l’unica differenza che qui la superfetazione non è di origine popolare. E un certo modo, oggi inammissibile, di fare storia e una responsabilità indiretta e non voluta degli autori di romanzi storici, sono alla base della tragica fine fatta fare ad Idrusa più che dai Turchi da chi mi accingo ad accusare, primo fra tutti chi l’ha fatta truffaldinamente nascere.

E lo faccio con una domanda: Idrusa è veramente esistita, come ad un lettore sprovveduto potrebbe far credere nel link segnalato quel una giovane donna che esisteva ai tempi dell’eccidio turco in contrasto, pur parziale per la distinzione che ho fatto rispetto alla storia e al romanzo storico, col leggenda del titolo?

Non perdo tempo ad affermare senza tema di smentita (a meno che, a distanza di secoli non venga fuori qualche documento confezionato con l’ausilio dell’intelligenza artificiale …) che nessuna delle fonti cronologicamente più vicine alla vicenda del 14801 né i verbali dei processi nella causa di beatificazione che si tennero dal 1539 (il primo, Historia delli martiti, da considerare per motivi facilmente intuibili il più attendibile, con la deposizione di dieci testimoni2) al 1751 hanno tramandato questo nome.

Idrusa come personaggio femminile3 compare per la prima volta in Francesco D’Ambrosio, Saggio istorico della presa di Otranto e stragge de santi martiri di questa città successa nel 1480 …, Giuseppe De Bonis, Napoli, 1751.

Come si legge nel frontespizio, l’autore è un Sacerdote Salentino da Castiglione Accademico Porticese e l’opera è dedicata al merito grande dell’Eccellentissimo Signore D. Lorenzo Brunassi Duca si San Filippo, Marchese di Martano, e Calimera.  

A p. 49 si legge: Nell’incamminarsi, dunque, al destinato luogo, occorse, che una bellissima (sottolineo questa parola on attesa di tornarci sopra a breve) Giovane, per nome Idrusa, menata da due Capitani Turchi, i quali contendevano tra loro, chi ne fusse il Padrone, vedendo due suoi fratelli legati esser condotti fori della Città, spargendo dagl’occhi amare lagrime, disse loro: Fratelli miei cove andate così legati? Cui rispose uno di essi: andiamo a morire per Giesù Cristo: Alle quali parole cascò tramortita a terra la povera Donzella: onde un Turco volendola far alzare con impazienza, ed ira le diede un colpo sulla testa sì empiamente, che la fe subito morire; e così cessò la briga tra i sue Pretensori Turchi.

 Va notato, anzitutto, che al titolo pomposo di Saggio istorico corrisponde un raccontino in cui si riportano pure i dialoghi senza la citazione di alcuna fonte, come avviene nella peggiore storiografia settecentesca e meno male che, nonostante la cifra narrativa tipica dell’agiografia  medioevale, non venga ricordato qualche miracolo …

Sotto questo punto di vista, però, va riconosciuto che il suo quasi coetaneo neritino Giovanni Bernardino Tafuri, che i falsi documenti li confezionava, era più di cinque spanne a lui superiore …

Da tenere presente, come rilevato dal frontespizio, che il D’Ambrosio era Accademico Porticese, modo diplomatico per non nominare l’Accademia Pontaniana, allora quasi fuorilegge per motivi politici, riesumando il nome del luogo, Portici appunto, dov’era stata fondata più di due secoli prima.

Tutto, però, si spiega anche considerando il dedicatario, famoso magistrato dai molti titoli nobiliari (a parte quelli indicati nel frontespizio e, per restare nel territorio salentino, fu dal 1732 marchese di Martano e Cavallino. Quando il D’Ambrosio gli dedicò il suo libro, ritiratosi a a vita privata per motivi di salute, si era dedicato alla letteratura ed aveva già pubblicato per i tipi di Giovanni di Simone a Napoli La passione di nostro Signore Giesù Cristo e La Gineviefa nel 1745 e S. Perpetua martire nel 1747, cui seguirà, sempre per i tipi dello stesso editore, Il Marcelliano nel 1752.

Tutte tragedie di argomento religioso, e non è difficile intuire come la tragedia autentica del 1480 fosse in linea con il settore letterario in cui si era specializzato. Sarebbe stato troppo pretendere da un ex magistrato un’indagine su Idrusa, martire presunta ma dal nome ben noto, a differenza dei tanti altri, quasi tutti, anonimi, ma reali …

Ogni contestualizzazione, compresa quella appena fatta non può e non deve fungere da giustificazione per la menzogna, a maggior ragione quando essa è consapevole, dunque in malafede.

Nel D’Ambrosio, oltretutto, si cristallizza, per usare un termine processuale, il dettaglio di Idrusa bellissima. D’altra parte, si poteva credere, allora come oggi, che una donna-preda fosse un cesso, oggetto poco appetibile come può esserlo una crosta di fronte ad un quadro d’autore?

Non desta meraviglia, perciò, che Idrusa ricompaia in opere dichiaranti correttamente l’alveo di appartenenza, che non è certo quello del saggio storico.  E viene fuori una Idrusa camaleontica, volta per volta adattata alla temperie spirituale, se non all’ideologia in quel momento particolarmente sentita.

La frittata storica autorevolmente (senza controllo e con una passiva coscienza fideistica tutti siamo potenzialmente e pericolosamente autorevoli …) era un alibi troppo ghiotto perché l’arte non ne approfittasse.

Riporto In ordine cronologico le schede in cui sinteticamente ho annotato le diverse vite letterarie di Idrusa.

Giuseppe Castiglione, Il rinnegato salentino ossia i martiri d’Otranto, Nicola Vanspandoch, Napoli, 1838.

Nel frontespizio l’opera è correttamente definita racconto storico del secolo XV e l’autore, gallipolino, ci fa conoscere un’Idrusa totalmente diversa da quella del precedente presunto saggio storico: figlia di Ghino, otrantino che ha rinnegato la fede nativa per l’Islam, si rende protagonista della riconversione del padre e, pur tra le difficoltà della situazione, salva la pelle.

Domenico PelisieriPatria e religione o I martiri d’Otranto, Stabilimento tipografico de’ fratelli De Angelis, Napoli, 1867.

Qui Idrusa è meno di una comparsa perché è ricordata solo  per nome e per la sua bellezza da il Berlabei  (atto I, scena IV; atto III, scena IV).

Francesco Tranquillino Moltedo, Idrusa ovvero i Musulmani in Otranto, Stabilimento tipografico di P. Androsi, Napoli, 1871

Nell’introduzione sono addirittura citate come fonti il Lagetto (che, come ho già detto, non fa menzione di Idrusa) e Giovanni Scherillo, autore di De’ beati martiri d’Otranto, De Bonis, Napoli, 1865. Alle pp. 37-38 vi si legge: Un’altra giovine, a nome Idrusa, che nei Processi è detta bellissima, menata per la medesima via ed egualmente in mezzo a due Turchi, è raggiunta da due suoi fratelli, legati come gli altri Confessori, ma che separatamente erano scortati dai soldati verso il monte della Minerva. Dove andate, fratelli miei? Ella loro domandò. A morire per Gesù Cristo, essi risposero. A questo la fanciulla, traendo dal petto un profondo sospiro, cadde in terra svenuta, ed uno di quei Turchi impaziente di non poterla rilevare, la percosse coll’elsa della scimitarra tanto brutalmente sul capo, che l’ebbe morta.Così talvolta Iddio ritrae inattesamente le anime a sé fedel dall’abisso della miseria al premio della loro virtù.

Lascio al lettore giudicare se si può, parlare di plagio o parafrasi del D’Ambrosio, però sarebbe interessante scoprire quali processi ha letto lo Scherillo in cui compare non solo il nome di Idrusa ma anche la sua valutazione estetica …

Il Tranquillino poi, come nelle più bieche saghe dei nostri tempi, approfitterà del momento con Poesie, Tipografia editrice degli orfanelli, Firenze, 1882, dove le pp. 83-148  contengono Idrusa ovvero i martiri d’Otranto, una trascrizione in terzine dantesche dell’opera precedente.

Il nuovo secolo registra proprio al suo inizio l’unica opera a mia conoscenza dedicata ai fatti del 1480 scritta in vernacolo, cioè Li matiri de Otràntu del cavallinese Giuseppe De Dominicis alias Capitano Black pubblicato per i tipi dello stabilimento tipografico Giurdignano a Lecce nel 1903.

Luigi Sansò, Idrusa. Poema tragico in 3 atti, Stefanelli, Gallipoli, 1928. L’autore, gallipolino, fu ispirato dal romanzo del concittadino Giuseppe Castiglione che prima ho citato.

Maria Corti, L’ora di tutti, Feltrinelli, Milano, 1962.

  

 

Qui Idrusa giunge all’ultima metamorfosi e la capacità camaleontica dell’arte di dare un tocco di originale novità ad un tema che altrimenti sarebbe ripetitivo, noioso e stucchevole, è felicemente raggiunto. Così la caratteristica della sua bellezza, costante nelle opere in cui compare come protagonista o comprimaria, sarà anche il dettaglio decisivo della sua fine, cioè il suicidio per evitare la doppia vergogna dell’abiura e dello stupro, mentre prima la sia esistenza era stata, sempre violentemente interrotta, da un colpo di spada o dalla scure.
E così il sentimento della fede, imprescindibile dal personaggio, dal suo ambiente e dalla sua epoca, si fonde con la sensibilità moderna, se non di una femminista, di una donna tormentata ma libera, consapevole dei doveri e dei diritti che in egual misura dovrebbero spettare in egual misura a tutti gli esseri animati, comprese le cosiddette bestie, e inanimati, comprese le pietre. E, mentre l’artista proprio in un romanzo storico incorre in un clamoroso anacronismo quando presenta padre Epifanio in procinto di innaffiare i pomodori nell’orto del convento (retrodatando l’introduzione in Europa di questa bacca dall’America, avvenuta nel 1540, cioè ben sessant’anni dopo la vicenda otrantina e quarantotto dalla stessa scoperta dell’America) quando presenta padre Epifanio in procinto di innaffiare i pomodori nell’orto del convento, la filologa non perde l’occasione per fotografare quasi il carattere indomito della ragazza, contaminando la lingua greca col detto latino nòmina òmina (=i nomi sono presagi), quando padre Epifanio spiega alla ragazza cosa significa il suo nome:
Epifanio mi ricevette nell’orto del convento, ove era occupato a innaffiare le piante delle zucchine e dei pomodori …
– Come ti chiami? – chiese.
– Idrusa –
– Idrusa? Sai che vuol dire? –
– Come che vuol dire? –
– Vuol dire che assomigli a una cavalla da corsa, grondante sudore –
– E che? I nomi vogliono dire qualche cosa? –
– Il tuo sì; è greco, come il mio –
– E il vostro che significa? –
– Oh, Gesù mio, – disse a mani congiunte – significa chiaro, pieno di luce; chissà come proprio a me, povero monaco …
Da notare che effettivamente il greco Ἱδροῦσα (leggi Idrusa), come nome proprio (perciò l’ho scritto con l’iniziale maiuscola) è, come ho già detto in nota 3,un’isola dell’Egeo, ma, aggiungo qui, anche participio presente di ἱδρόω (leggi idroo), col significato di colei che gronda sudore. La Corti, però, nella spiegazione etimologica messa in bocca al personaggio abilmente l’ha fatto precedere dalla metafora di un animale simbolo di bellezza e di libera e irrefrenabile energia, anche se in tutta la letteratura greca non compare un solo ἵππος ἱδροῦσα (=cavalla grondante sudore). E va sottolineato come nella stessa opera si realizza questo connubio tra filologia e poesia, tra scienza e arte, discretissimo, quasi dissimulato con pudica umiltà grazie a Idrusa, a padre Epifanio e, per l’etimo di Palascìa, il pescatore Antonio, per il quale vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/27/antonio-maria-il-pescatore-etimologo-di-punta-palascia/).
E proprio con Ἱδροῦσα mi piace chiudere dicendo che potrebbe essere un nome inventato per un’eroina che potrebbe pure essere esistita ma che si chiamava diversamente e per la quale, incarnazione simbolica di una città martire, fu assunto a posteriori questo pseudonimo evidentemente connesso con ὕδωρ (leggi iudor)=acqua e, oltre che col nome dell’isola prima ricordata, anche, per restare in Salento, col torrente Hydros e col nome latino di Otranto, Idruntum; insomma Idrusa sarebbe un eponimo al rovescio4. Con buona pace di chi afferma, senza lasciarsi nemmeno sfiorare dal dubbio, che Idrusa sia veramente esistita5.
Sotto questo punto di vista non mi sento di escludere che, dopo la biografia di Idrusa ricavata dal romanzo di Maria Corti, qualche sedicente divulgatore, riprendendo, senza o, peggio, con citazione, quel colei che gronda sudore, giunga ad affermare che Idrusa fu massacrata per l’insopportabile puzza di sudore da un turco, che, oltretutto, essendo un soldato in pieno servizio, certamente non profumava. Come dire: quando la credulità dell’uno fa slittare la rabbia dell’altro, col rischio di passare dalla poesia ad una fin troppo realistica volgarità.
Nonostante fosse difficile aggiungere qualcosa di originale all’accidentato percorso, tracciato da Maria Corti, per Idrusa alla ricerca della felicità (da miss otrantina a femminista ante litteram, da moglie, amante e mantenuta insoddisfatta a suicida per dare l’ultimo schiaffo al mondo), il filone era troppo allettante per non tentare ulteriori sfruttamenti, fosse il tutto limitato al nome presente solo nel titolo, come dimostrano le copertine di seguito riprodotte.

Sui risultati artistici, magari contrastanti con quelli commerciali, stendo un velo lasciando ai lettori l’aggiunta o meno dell’usuale attributo …5

E non è da escludersi a breve una fiction su Idrusa, Un’operazione semiseria, secondo me, non potrebbe prescindere, almeno per la sceneggiatura, dal romanzo della Corti, ricordandosi, però di non far pronunciare a padre Epifanio la parola pomodori, perché sarebbe assicurato lo stesso esilarante risultato di alcuni polpettoni storici degli anni ’60, dove pure allo spettatore più condizionato da nostalgici slanc imperialistici non poteva sfuggire l”orologio al polso della comparsa impersonante l’eroico legionario romano ….

Sembrerà strano, ma l’immagine con cui voglio chiudere, lungi dall’essere blasfema, è in realtà un affettuoso, rispettoso, omaggio all’umanità di chi morì per quella tragedia ed un ironico sberleffo a quanti hanno vissuto da speculatori di quella, a cominciare dal D’Ambrosio, responsabile della prima fandonia e delle altre che seguirono e, probabilmente, seguiranno.

Pure io, però, ho commesso tra i probabili errori (e non di semplice battitura) il più grave: quello di mettere in coda questa immagine che, collocata in testa, mi avrebbe forse assicurato mezzo lettore in più …

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1 Lucio Cardami (1410-1494), Memorie historiche de so’ tempi. Alcuni studiosi ritengono che l’opera, inserita dal neritino Bernardino Tafuri nella sua “Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli” (1750) sia uno dei falsi da lui confezionati; Antonio De Ferrariis alias Il Galateo, De situ Iapygiae (Perna, Basilea, 1553, pubblicazione postuma); Giovanni Michele Lagetto (1504-c.1571), Historia della Guerra d’Otranto, manoscritto custodito nell’archivio della cattedrale di Otranto; una copia settecentesca (D/11, carte 10v-14r) è custodita nella biblioteca arcivescovile “Annibale De Leo” a Brindisi.

2 Questa prima relazione sui fatti in gergo tecnico informativa, è stata pubblicata la prima volta da Francesco Antonio Capano per i tipi di Pietro Micheli a Lecce nel 1670. In tutte le testimonianze rese c’è il riferimento al rifiuto dei martiri di abiurare la propria fede, ma di nessuno di loro vien fatto il nome.

3 Come nome di isola dell’Egeo è in Strabone (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Geografia, IX.      Ἱδροῦσα

4 C’è pure una nobilitante eco omerica già nel titolo di  L’Idriade. Poema eroico sulla presa di Otranto del galatonese Antonio Megha (1626-1701), a lungo rimasto manoscritto e pubblicato a cura di Gabriella Margiotta, Congedo, Galatina, 1985. E non poteva mancare Li turchi a Utrantu. Poema eroicomico in dialetto otrantino di Gustavo Perrone alias Terenzio Buonsangue, a cura di Nicola G. De Donno, Congedo, Galatina, 1987. Invenzioni salentine simili a quella di Idrusa sono l’Idume (vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/04/18/alle-fonti-dellidume-idronimo-inventato/) e Leucasia (vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/16/leucasia-una-sirena-salentina-no-unaltra-bufala-e-lo-dimostro/), mentre rischiano di far passare nel lettore sprovveduto, tramite divulgatori improvvisati, per dati storici le gesta di Artas della saga di Fernando Sammarco o molto improbabili suggestioni toponomastiche (vedi per queste ultime  https://www.fondazioneterradotranto.it/?submit=Cerca&s=tricas).

5 Sul rischio che la leggenda diventi troppo facilmente storia vedi, anche per Idrusa, La conquista turca di Otranto (1480) tra storia e mito. Atti del Convegno internazionale di studio Otranto-Muro Leccese, 28-31 marzo 2007, a cura di Hubert Houben, Congedo editore, Galatina, 2008.

 

Il Kretu Vergari, preziosa testimonianza della cultura popolare novolese

“Il Kretu Vergari” (il credo volgare).

I 33 anni di Cristo in un’antica preghiera novolese

 

di Gilberto Spagnolo

Fernando Sebaste, amico carissimo, insegnante straordinario e geniale per anni nella scuola primaria di Novoli, fu anche un prezioso collaboratore di Oronzo Parlangeli, grande studioso novolese, glottologo di fama internazionale morto prematuramente, e tragicamente il 1/10/1969. Sebaste infatti ne fu, come scrive giustamente Piergiuseppe De Matteis, il suo “braccio destro” perché “oltre a curare i rapporti con i corrispondenti della Carta dei Dialetti d’Italia faceva parte insieme a padre Giovan Battista Mancarella, Pietro Salamac e Vittorio Zacchino della redazione leccese delle ricerche effettuate dal Parlangeli a tutto il 1969 anno della tragica scomparsa dello stesso”.

Fernando Sebaste in una foto del 1980 (coll. G. Spagnolo). La foto è del 1980 ed è stata scattata in occasione della presentazione del libro di Mario De Marco Storia di Novoli, presso la Scuola Media

L’idea di una Carta dei dialetti italiani come impresa scientifica destinata alla ricerca dialettologica maturò in Oronzo Parlangeli negli anni 1954-1964. Dal 1965 al 1969 (scrive G. Battista Mancarella), “fu poi esplorato tutto il Salento con la registrazione e trascrizione delle inchieste dialettali, destinate ad una monografia subregionale, nell’ambito delle pubblicazioni programmate dal Centro di studio per la Dialettologia Italiana del C.N.R. Tale associazione ebbe anche una rivista importante dal 1966 (fu fondata dal Parlangeli nel 1965) dal titolo: Studi linguistici Salentini e promosse inoltre diversi incontri con i soci per la discussione organizzativa e tecnica dei lavori di ricerca”.

Oronzo Parlangeli durante una conferenza (collezione Francesco Quarta). La foto è riportata sulla brochure del Comune di Novoli per l’intitolazione della Scuola Primaria a suo nome il 10 marzo 2003

 

Sotto la direzione del Parlangeli, per conto della Discoteca di Stato, verso la fine del 1967, furono esplorati 18 centri di otto regioni italiane tra cui la Puglia realizzando in tutto 126 bobine contenenti: A) materiale narrativo tradizionale; B) materiale narrativo a carattere leggendario, romanzesco, agiografico; C) indovinelli, Wellerismi, proverbi; D) blasoni popolari, motti e racconti sui paesi vicini; E) preghiere, scongiuri, formule varie (comprese quelle dei giochi).

I ricercatori impegnati furono otto e le inchieste nel Salento e nella Calabria furono condotte dal prof. A. Karanastasis. Per la Puglia i centri che realizzarono tale indagine furono Bitonto, Galatone, Manduria, Novoli e Vernole.

Per Vernole fu incaricato Luciano Graziuso, per Galatone Vittorio Zacchino e per Novoli Fernando Sebaste che su 10 nastri registrò ben 66 brani.

L’immenso patrimonio di antiche testimonianze etnografiche e linguistiche registrate da Sebaste su 9 bobine, fu poi raccolto e pubblicato meritoriamente, con note etimologiche, trascrizione e traduzione, da Pietro Salamac nel libro “Testi Novolesi”, pubblicato nel 2004 dall’Adriatica Editrice Salentina oggi non più attiva (sono riportati in esso racconti, proverbi e detti, indovinelli, indovinelli equivoci ed osceni, scioglilingua, filastrocche, poesie, preghiere, canzoni).

Sulla Rivista Studi linguistici Salentini fondata da O. Parlangeli, come risulta all’interno, nel 1965 (il cui ultimo volume, il n. 39 – fine serie è stato stampato in occasione del centenario della nascita di Oronzo Parlangeli), Fernando Sebaste pubblicò anche due saggi importanti che riguardano Novoli. Il primo, intitolato “Una vecchia preghiera di Novoli”, venne pubblicato sul n. 3 stampato a Bari nel 1970 (“Scritti in memoria di Oronzo Parlangeli”). Il secondo intitolato “Il gergo dei Commercianti a Novoli”, fu invece pubblicato sul vol. 7 (1974-75) stampato a Lecce da Milella.

Copertina della rivista “Studi linguistici Salentini”, numero che comprende il “Credo Volgare”.

 

Di essi Sebaste fece anche degli estratti che ebbe modo di donarmi nel corso dei miei primi due anni di insegnamento nella scuola primaria di Novoli, anni in cui insieme si collaborava al giornale locale Sant’Antoni e l’Artieri.

Questa Pasqua ci offre ora l’occasione per far conoscere questa preghiera novolese rintracciata da Sebaste oltre 50 anni fa e che oggi ormai è completamente dimenticata e scomparsa. Le fonti che all’epoca gli permisero di registrare questo documento singolare rispondono ai nomi di Addolorata Greco, di anni 92, una volta contadina; Luisa Scardia, di anni 89, casalinga; Annina Tondo, di anni 78, casalinga. Dopo una parte tecnica-informativa sulla ricerca che era stata svolta e portata a compimento, l’antica preghiera novolese, il “Kretu Vergari” (il Credo Volgare), viene introdotta da una breve sintesi sulla storia di Novoli (soprattutto le origini e il nome) e con notizie in quanto definito un “centro agricolo industriale”, sulle sue attività lavorative principali, sottolineando un fatto importante, ovvero che le donne (un tempo contadine e tabacchine) “confezionano a casa alamari , mostrine e gradi per militari, frange e biancheria lavorando a cottimo.

Non mancano annotazioni nostalgiche dei tempi vissuti in un confronto con “le fantasie moderne” e “le assurdità commerciali” del mitico “carosello” di cui si nutrivano allora i ragazzi. Il “Kretu Vergari”, preziosa testimonianza della cultura popolare novolese (e non solo), viene così prima trascritta fedelmente in dialetto con i suoi accenti e le sue strofe (e con qualche nota esplicativa) e poi con la relativa traduzione in italiano. Seguono poi gli importanti “Appunti lessicali” e infine, gli “Appunti tematici e morfologici”.

Il saggio di Fernando Sebaste meriterebbe oggi di essere ripubblicato interamente ma per ragioni di spazio dobbiamo limitarci a riportarne solo la versione in dialetto e la traduzione dell’antica preghiera in italiano, tralasciando sia la parte introduttiva e sia gli interessanti appunti lessicali, tematici e morfologici. È comunque, indubbiamente, un’occasione per onorare degnamente la memoria di Fernando, esempio nobile, umile e grande, indimenticabile maestro e amico.

Questa e le successive immagini che illustrano quella che, dalla sua lettura, si rivela come la parte più consistente e più significativa della preghiera, appartengono ad una collezione privata; sono tutte riprodotte, in cromolitografia, su tavolette di legno ottocentesche, in foglia oro, che rappresentano le varie stazioni della Via Crucis.

 

Kretu vergari

Kretu, nzennatu kretu (nzennalatu kretu) te la purissima mente. Rriveremu ddiu (é lliveratu ddiu). Tice ku nu llu ngannamu ka nu mmole éssere ngannatu ka ete sinnore nostru te lu celu e tte la terra; e llu celu ku lla terra stae tuttu nnu nubbiliu te angili e tte arkangili e stane tutti nnui ccirkundìa (e ssu ttutti nna celestìa). Ggesu kristu (lu sinnore) ku lla sua putenza è kkriata l akkua, lu celu, la terra e llu ientu.

Mo se parte la matonna e ssan ggiseppu e sse nne bbae alla città te lazzaru pe ffare nna profonda orazzione e ddisse all’eternu patre: – manna prestu l arkazzione. – Allu ticere pekkussine kumparse nn angilu ku fforma t omu ticennu ttre pparole amorose (amurose): – ave, ave maria piena (china) te krazzia.

La matonna se mpaurau ku nu pperde la sua verginità e ddisse: – nu vvol’l’u essere matre te ddiu, serva si e mmatre nno, ka su ffiia te lu spiritu santu.–

Kuannu idda kanussiu la sua mente, ka era angilu mannatu te lu sinnore tisse: – sikunnu verbu tou!–

Mo se parte la matonna e ssan gguseppe e sse nne bbae alla città te bbettelemme (mma ttroane tutte le stanze kkupate) e sse nne sera a mmienzu nnu kampu, a mmienzu ddu kampu ttruara nna rutticedda (nna rutta). Addai se kusiiaru la matonna e ssan ggiseppu (a ddai sse figge la matonna e ssan ggiseppu).

 

A mmenzanotte parturisse la matonna (kuannu foi la menzanotte la matonna parturiu; senza tulore e ssenza kravitanza (kravezza) figge la luce pe ttuttu lu munnu.

A pprim-ura te notte ggesu facia la cena (ssittau la cena) ku lli kari apostuli e sse sia tistribbuennu lu su karu sakramentu (e stituiu lu santissimu sakramentu).

Llau li pieti all apostuli e sse idde te pietru nikatu, te gguta tratitu, te ponziu a ppilatu, te skribbi e ffariséi purtatu te nnu tribbunale all auru, purtatu a kkasa te anna. Anna lu tese a ppilatu, pilatu lu tese alla plebba (alla pebba), la plebba ritane (la pebba ritau): – se krucifigga (se krucifigge), se krucifigga! viva parabba! ku mmore kristu alla kruce (muertu kristu a n kruce)! –

Ane piiatu lu ccu rruessu trai e ane kunfurmata la kruce te kristu. Lu piiara e llu purtara su mmonte karvariu.

 

O era la tebbulezza o erane li minikordi katiu ttre ffiate ku lla facce mortale pe tterra. Ane piiata dda kruce e ll ane misa a ll erta cima te monte karvariu (e llu misera subbra le ccu ierti cime te la kruce).

Li tisinni ci imu fatti nui: nu ggungiane nè tte le mane nnè tte li pieti, mma tantu tirara e ttantu stirara ka spizzara li niervi te le mane e tte li pieti te ggesu kristu.

Kuannu s è bbistu a dda ssubbra kkuidda kara kruce tisse: – ieni, liettu fioritu, kroce te st arma mia tisitirata. Ae trentattrè anni ka te sta spitta!–

Kuannu idde la sua kara mamma tisse: – iéni, kara mamma! ieni, kara mamma!–

Li ggutei (li minikordi) s-ane kritettu (s-ane supposti) ka sta ccirka te bbiere e ane piiata (e ppiiara) la sponza, l ane ssuppata intra llu fele, a llu citu e kkauce mmissikata, l ane misa a ppunta nna kanna e lla spattera ttre ffiate a lli musi te ggesu (a lli labbri). E kkristu tisse: – kunzumatum-éste.

Pe llu tulore lu celu skuriu, la terra trimau, lu mare se trauiau, lu sule figge kkrissi (kklisse), la luna se mmussau nzanguinata (zzanguinata) te sangu.

 

A bbintinura foi scuatu te la kruce e ddatu a lla sua kara matre ka lu mise intra nnu lanzulu nueu. Purtatu a ssibbitura noa ku nna petra marmura te susu lu siggillau. Kuannu siggillau lu speccu e llu sibburku tannu era sennu ka la sua kara mamma sta ssiggilla lu sou karu fiiu n zebburtura noa. Li minikordi mannara li surdati a nkoste nkoste ku nu rrubbane lu korpu te ggesu kristu.

 

Korpu komu omu se nne siu ne llimbu, te limbu siu a llu nfiernu pe trumientu te li tannati, pe ssumientu te li timoni. E ssiu alleternu patre e ddisse: – eternu patre, kuiste su lle piace te le mane e tte li pieti; tantu aggu patutu e ttantu aggu ppatire pe ttutti li pikkatori.–

Ci nui kritimu te fiteli kristiani, ggesu kristu a ppurmisu ka pirduna lu pikkatu veniale e llu pikkatu attuale: kuiddu veniale se nne llea ku lle nostre fatike. Kuiddu attuale se nne llea ku ll akkua te lu bbattesimu. (Figge atamu lu pikkatu origginale, ka se nne llea ku ll akkua te lu bbattesimu, e kuiddu ka facimu nui se nne llea ku la penitenza te le nosse fatike).

Le cese su ddistinte pe lli rei, pe lli skribbi e ppe lli farisei; trentattrè anni la vita nossa a bbinire ggutikata, la risulizzione te la karne, la vita iterna, amme.

 

TRADUZIONE

IL CREDO VOLGARE

Credo, insegnato credo (segnalato credo) della purissima Mente. Riveriamo Dio (si è rivelato Dio). Dice che non lo inganniamo ché non vuole essere ingannato ché è Signore nostro del cielo e della terra; e il cielo con la terra, è tutto una nuvola di angeli e di arcangeli e stanno tutti a noi intorno (e sono tutti una cosa celeste).

Gesù Cristo (il Signore) con la sua potenza ha creato l’acqua, il cielo, la terra e il vento.

Parte la Madonna e S. Giuseppe e se ne va alla città di Lazzaro per fare una profonda orazione e disse all’eterno Padre: – Manda presto la profezia. – Nel dire così comparve un angelo con forma d’uomo dicendo tre parole amorose: – Ave, ave Maria piena di grazia. – La madonna si preoccupò di non perdere la sua verginità e disse: – Non voglio essere madre di Dio, serva sì e madre no, ché son figlia dello Spirito santo.–

Quando Ella conobbe i suoi pensieri, che era un angelo mandato dal Signore disse: – Secondo la parola tua! [Si faccia la tua volontà!].– Parte la Madonna e S. Giuseppe e se ne va alla città di Betlemme (ma trovano tutte le stanze occupate) e se ne andarono in mezzo a un campo, in mezzo a quel campo trovarono una grotticella (una grotta). Lì si consigliarono la Madonna e S. Giuseppe (lì si mise la Madonna e S. Giuseppe).

A mezzanotte partorisce la Madonna (quando fu la mezzanotte la Madonna partorì); senza dolore e senza gravidanza fece la luce per tutto il mondo.

Alla prima ora di notte Gesù faceva la cena con i cari Apostoli e andava distribuendo il suo caro Sacramento (e istituì il santissimo Sacramento). Lavò i piedi agli Apostoli e si vide da Pietro negato, da Giuda tradito, da Ponzio a Pilato, da scribi e farisei portato da un tribunale all’altro, portato a casa di Anna. Anna lo consegnò a Pilato; Pilato lo consegnò alla plebe, la plebe gridava(no): – Si crocifigga (si crocifigge), si crocifigga! Viva Barabba! Che muoia Cristo alla croce (morto Cristo in croce)!

Hanno preso la trave più grossa ed hanno formato la croce di Cristo.

Lo presero e lo portarono sul monte Calvario.

O era la debolezza e orano i manigoldi, cadde tre volte con la faccia mortale per terra. Hanno preso quella croce e l’hanno messa sull’alta cima di monte Calvario (e lo misero sopra le più alte cime della croce).

Le previsioni che abbiamo fatto noi: non arrivavano né le mani né i piedi, ma tanto tirarono e tanto stirarono che spezzarono i nervi delle mani e dei piedi di Gesù Cristo.

Quando si vide su quella cara croce disse: – Vieni, letto fiorito, croce da quest’alma mia desiderata. È da trentatre anni che ti aspetto!–

Quando vide la sua cara Mamma disse: – Vieni, cara mamma! Vieni cara mamma!–

I giudei (i manigoldi) hanno creduto che stesse chiedendo da bere ed hanno preso (presero) la spugna, la inzupparono nel fiele, nell’aceto e nella calce bruciata; la misero sulla punta di una canna e la sbatterono tre volte sulle labbra di Gesù. E Cristo disse: – Consumatum est!–

Per il dolore il cielo si fece scuro, la terra tremò, il mare si rimescolò, il sole fece ecclissi, la luna si mostrò insanguinata.

Alla ventunesima ora fu schiodato dalla croce e consegnato alla sua cara Madre che lo depose in un lenzuolo nuovo, (fu) portato in un sepolcro nuovo, con una pietra marmorea di sopra lo sigillò. Quando sigillò la pietra ed il sepolcro volle dimostrare che stava sigillando il suo caro figlio in una sepoltura nuova. I manigoldi mandarono i soldati intorno affinché non rubassero il corpo di Gesù Cristo.

(Col) corpo come uomo se ne andò nel limbo, dal limbo andò all’inferno per tormento dei dannati, per sgomento dei demoni. E andò (poi) all’eterno Padre e disse: – Eterno Padre, eterno Padre; queste sono le piaghe delle mani e dei piedi. Tanto ho sofferto e tanto devo (ancora) soffrire per tutti i peccatori.–

Se noi crediamo da fedeli cristiani, Gesù Cristo ha promesso che perdonerà il peccato veniale ed il peccato attuale: quello veniale si cancellerà con le nostre fatiche, quello attuale con l’acqua del battesimo. (Fece Adamo il peccato originale, che si cancella con l’acqua del battesimo, e quello che facciamo noi si cancella con la penitenza delle nostre fatiche).

Le chiese si distinguono: per i rei, per gli scribi e per i farisei; trentatre anni la vita nostra deve essere giudicata; la risoluzione dei peccati, la vita eterna. Amen.

 

 

In “spazioapertosalento.it”, 23 marzo 2024.

 

Riferimenti bibliografici essenziali

A.a.V.v., Studi linguistici Salentini, nel centenario della nascita di Oronzo Parlangeli, vol. 39 fine serie, Edizioni Grifo, Lecce 2023.

P.L. De Matteis, Fernando Sebaste, il custode della tradizione, in “Lu Puzzu te la Matonna”, a. XV, 20 luglio 2008, pp. 46-49.

G.B. Mancarella, Oronzo Parlangeli: studiosi del Salento, in “Note di Civiltà Medievale”, numero speciale per l’inaugurazione del nuovo edificio universitario Oronzo Parlangeli, Ecumenica Editrice, Bari 1979, pp. 11-12.

P. Salamac, Testi novolesi, Adriatica Salentina, Lecce 2004, pp. 7-10 (introduzione)

Idem, Oronzo Parlangeli e la Carta dei dialetti italiani, in “Studi linguistici Salentini”, vol. 27, Edizioni Grifo, Lecce 2003, pp. 82-88.

F. Sebaste, Una vecchia preghiera di Novoli, in “Studi linguistici Salentini. Scritti in memoria di Oronzo Parlangeli”, n. 3, Bari 1970, pp. 85-97.

Idem, Il gergo dei commercianti a Novoli, in “Studi linguistici Salentini”, vol. 7 (1974-75), Milella, Lecce, pp. 209-220. Le regioni affidate dalla Discoteca di Stato al Parlangeli furono l’Emilia Romagna, Friuli Venezia-Giulia, Liguria, Marche, Piemonte, Puglia, Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta; le restanti dodici regioni al prof. Alberto M. Cirese.

 

 

 

La toponomastica di Corsano nella seconda metà del Seicento

di Pierluigi Cazzato

Nella ricostruzione dei paesaggi antichi lo studio della toponomastica ha, ancora oggi, un ruolo di primo piano. Soprattutto per territori fortemente antropizzati e quindi sottoposti ad una continua opera di sfruttamento e trasformazione, i nomi dei luoghi offrono una gran mole d’informazioni sull’organizzazione e sulla mentalità delle comunità che vi hanno abitato.

Il presente studio si propone di esaminare il caso di Corsano nella seconda metà del Seicento, attraverso la toponomastica conservatasi nelle donazioni e nei testamenti dell’epoca. Utilizzando i regesti di alcuni atti notarili rogati ad Alessano tra il 1663 e il 1699, contenuti nell’opera Per un posto in paradiso (AAVV), si è stilata una lista di 48 toponimi riconducibili al feudo corsanese. Per ogni voce si è cercato di ricavarne l’etimologia e contestualizzarne il significato, almeno per i casi in cui è stato possibile identificare il luogo. Per alcune località si è ritenuto utile aggiungere la breve descrizione contenuta nei regesti e delle piccole note storiche. I luoghi localizzati con certezza sono stati riportati sulle carte che accompagnano l’articolo (fig.1 e 2).

Abbreviazioni

IGM – Istituto Geografico Militare

QU – Quadro d’Unione di Corsano 1931-1939

sc – strada comunale

sv – strada vicinale

 

Note:

-un tomolo è composto da 8 stoppelli, lo stoppello equivale a 8 are

-il fuoco corrisponde ad una famiglia, cioè l’unità produttiva, e quindi tassabile, su cui si basava il sistema fiscale del Seicento

 

IMG 3497: scala intagliata nella roccia in località Ngratile

 

1.Burgo: m., dal salentino burgu, borgo (ROHLFS1, p.86), che deriva dal tardo latino burgus, luogo fortificato, torre di guardia oppure dal greco purgoς, torre. In italiano il termine borgo ha acquistato il significato di villaggio già nel XIII secolo, a cui si affianca quello di quartiere, sobborgo. (GRECO, p.72). Oggi indica una zona sulla vecchia sc Alessano-Corsano (oggi Strada Provinciale 188), al confine tra i due comuni, all’altezza della cappella della Madonna Addolorata (Madonna ‘u Vanni). Nel Seicento vi erano ubicati “tre orti di vigna con diversi alberi comuni”. Il toponimo si può forse mettere in relazione alla presenza di un piccolo insediamento medievale (alcuni graffiti riconducibili a quest’epoca restano in alcuni ambienti semipogei pertinenti alla vicina cappella).

2.Campo Loscobia: m., il primo termine viene dal latino altomedievale campus, spazio chiuso, superficie agraria coltivabile; nel Salento, in genere, qualifica un terreno pianeggiante ed arabile in contrapposizione a quello scosceso e roccioso detto munte. L’etimologia del secondo termine resta enigmatica, con tutta probabilità si tratta del nome o soprannome del proprietario del terreno.

3.Campomaggio: m., italianizzazione di campumasciu, campo grande, composto dai termini latini campus, terreno coltivabile e majus, maggiore. Ritroviamo la stessa costruzione in un altro toponimo corsanese: Scalamasciu, composto da scala, scala e majus, maggiore, ad indicare che si trattava della principale discesa a mare di Corsano. Nel Seicento a Campomaggio vi era “una vigna di cinque orti” (vedi 30.Puce (lo) seu Campomaggio).

4.Campo Martino: m., campo di Martino, classico andronimo (toponimo che deriva da un nome di persona) che designa il proprietario del terreno. Questa zona si trova a sud del paese, lungo la provinciale che porta a Gagliano (sv Campo Martino sul QU).

5.Campore: f. pl., il toponimo potrebbe indicare i fondi di proprietà demaniale: “campo del Re”. Suggestiva, seppur priva di fondamenta storiche, è l’interpretazione che ne da il Fino il quale collega questo nome ad una leggendaria discesa di Carlo Magno nel Capo di Leuca (FINO, pp.19-20). Omonima contrada è presente a Patù presso la Centopietre. La località si trova a sud-est del paese, lungo la strada per Novaglie, in verità a Corsano sembra che esso sia scomparso mentre si usa ancora nei territori limitrofi di Alessano (Campole) e Gagliano (Campre).

6.Canna[..]za (la): f., purtroppo il toponimo non si è conservato, potrebbe essere Cannazza dal salentino cannazza, graminacea, erba infestante (DDS, p.71).

7.Catrile, Gatrile: m., sulle carte IGM si trova sia nella forma Gratile sia in quella Grutile; nel dialetto locale è in uso la dizione Ngratile. Potrebbe derivare da grado/gradino/gradiata, con riferimento ad una discesa con scale e gradini (GRIECO, p.89). L’etimo ben si addice al luogo in questione che si trova per l’appunto lungo la calata a mare che porta a Canal del Rio/Canale ‘u Riu (in realtà la sua grafia corretta dovrebbe essere urio, orio, da ricondurre al tema indoeuropeo or-, elevato, alto) [PANARESE, pp.37-38], sul versante meridionale dell’altura della Rusia (forse dal latino medievale rausea, rosia, canna, canneto). Nella zona è presente anche una scala intagliata nella roccia che si inerpica per una quindicina di metri sulla parete strapiombante posta a nord. Qui Domenico Russo aveva “una possessione di olive di quindici macine e sei stoppelli di terra seminativa, con due orti di vigna e alberi comuni e con casa palazzata, corti, capanne e due cisterne”. I resti diruti della casa citata nel documento sono ancora visibili in questa località.

IMG 3493: casa “palazzata” in località Ngratile

8.Cemino (allo): forse è un fitonimo (nome di luogo che deriva dalla flora) da ricollegare al latino medievale cyminum, pianta dell’anice, dal greco kuminoς, cumino. Nel Salento Cimino/Cimine è sia un toponimo (a Sannicola e Tiggiano) sia un cognome (ROHLFS2, p.56). Nel XVII secolo in questa zona viene menzionata la presenza di “una vigna di due orti, con alberi comuni, pagliaio, grotta, palmento e pilaccio” (il pilaccio è la vasca scavata nella viva roccia che serviva a raccogliere l’acqua o per la spremitura dell’uva; dal greco pila, da cui i dialettali pila, pilacciu, pilune/palune).

9.Chiusa dello Schiavo (la): f., la chiusa (chiusura, cisura in dialetto salentino, dal greco bizantino cleisoura che viene dal latino clausura) [ROHLFS1, p.143] indica il campo chiuso recintato da muri, in genere adibito a uliveto o vigneto, il secondo termine potrebbe indicare sia l’etnico slavo sia un cognome di famiglia -un Johannes Sclavus è attestato nel 1115 in provincia di Lecce- (GRECO, p.463). D’altro canto, a causa della pressione turca, l’immigrazione di popolazioni provenienti dalla sponda orientale dell’Adriatico tra il XVI e XVII secolo divenne massiccia, essa è ben documentata per il territorio del Capo, infatti nel 1574 a Corsano si contano 6 fuochi “greco-albanesi”, 25 a Tricase, 9 a Gagliano, 8 a Montesardo, 4 ad Alessano, Castrignano e Morciano, 2 sia a S. Dana sia a Tutino e 1 a Tiggiano (VISCEGLIA, p.103).

10.Coci (li): m., probabilmente è l’errata trascrizione del salentino li cocci, piccolo rialzo del terreno, accumulo di pietre, geonimo (nome che attesta i più rilevanti fenomeni geomorfologici che caratterizzano il territorio nonché le particolarità naturali del terreno) presente a Maglie (ROHLFS2, p.141) e altre zone del Salento (vedi 24.Monte li Cocci).

11.Conca (la): f., dal salentino conca, conca, buca, pozza d’acqua, vasca d’acqua, conca di terreno (ROHLFS1, p.159). Il toponimo è ancora in uso per indicare un territorio caratterizzato da una leggera depressione ad est del centro abitato di Corsano; esso è attestato anche a Ruffano, Taurisano e Ugento. Nel Seicento vi era “un pezzo di terra seminativa di un tomolo e della capacità di sei macine di olive”.

12.Corona: f., l’etimologia rimane dubbia. Sul QU via Corona, l’attuale via A. Diaz, da largo S. Teresa portava a est verso il mare; oggi il dialettale Ncuruna designa una zona posta sull’altura che cinge il paese sul lato nord-orientale. In questa località Livia Arcella di Barbarano possedeva un terreno “di olive di ventiquattro macine”.

13.Cupa (alla): f., dal salentino cupa, strada tra due colline (ROHLFS1, p.189), cava, avvallamento circoscritto del suolo (DDS, p.138), che viene dal greco koph, precipizio. Il toponimo è in uso e oggi indica una zona nella parte sud-occidentale del feudo, omonime contrade esistono a Patù ed Ugento. Nel 1679 don Pantaleone Nigro di Corsano in località alla Cupa possedeva “un pezzo di terra seminativa di due tomolate con alberi comuni, pagliaio, palmento e pilaccio”.

14.Dalie (le): f., oggi è in uso il toponimo Talìe per indicare una zona nei pressi di S. Maura, la sua etimologia resta sconosciuta. Nel Seicento l’arciprete corsanese don Februario Nigro possedeva “la metà di una possessione di olive e seminativa” che donava ad Olimpia Cazzato.

15.Decorlo (lo), Decolo, Decorolo: m., l’origine di questo toponimo, che ci è pervenuto in tre varianti, resta sconosciuta; attualmente con il termine dialettale Dècolu ci si riferisce ad un’area nei pressi della zona industriale. Al tempo dei documenti presi in esame, vi erano diversi terreni seminativi: uno apparteneva a Antonio Baglivo di Tutino, altri ai corsanesi don Februario Nigro e Francesco Griso.

16.Fortello (lo): m.; potrebbe derivare da forte, fortilizio, fortezza. Purtroppo la località non è stata identificata e il toponimo sembra scomparso quindi permangono dubbi sull’origine del nome.

17.Gauda (la), vigna la Gauda, Oliva della Gauda (l’): f., è collegabile al toponimo di origine longobarda galdo, gaudo, bosco (dall’antico germanico wald). Si faccia il confronto con Gaudella, bosco di Palagianello (ROHLFS2, p.72), le Gaude a Specchia Gallone e con gauda/gauta che ritroviamo nella toponomastica salernitana (GRECO, p.232). La presenza di un toponimo longobardo in una parte così meridionale del Salento, che non è mai stata conquistata dagli invasori di lingua germanica, può sorprendere, tuttavia a Gagliano del Capo esiste una località denominata Fara (oggi inglobata nel centro abitato come “rione Fara”) che deriverebbe dalla voce germanica fara, che presso i Longobardi designava una famiglia, una schiatta, e, per estensione, il fondo agricolo dove essa risiedeva [FINO, p.38]. Il toponimo corsanese sembra essersi conservato nella sv Caute che, ancora oggi, dalla vecchia comunale Alessano-Corsano, porta all’unico “bosco” del paese (boscu ‘a Baronessa). Nella stessa zona si conserva anche il fitonimo Cerrate, Cirrate (dal latino medievale cercetum, cerretum, bosco di cerri) ricollegabile allo stesso contesto ambientale, il che ci porta a pensare, che in epoca medievale, qui si estendesse un’ampia area boschiva le cui tracce purtroppo sono rimaste solo nella toponomastica. Nella seconda metà del Seicento, in questa zona Domenica de Oliva di Alessano possedeva “due orti di vigna con alberi comuni, palmento e pagliaio”, altri terreni appartenevano a don Francesco Antonio Margiotta e Maria Arcella di Tiggiano, la vigna di quest’ultima “detta la Gauda sita nel feudo di Corsano e in quello di Montesardo”.

18.Gine (le): f., etimo sconosciuto, sul QU si conserva nella forma sv Guine. Il toponimo Ginii è attestato a Maglie nel 1483 (ROHLFS2, p.147). All’epoca la zona era coltivata ad uliveto.

19.Horto Grande (l’) detto il Pasteno: m., orto grande. I pastini, pastane sono i vigneti di recente impianto, dal latino pastinum, terreno lavorato con la marra, in salentino pastunu, vigna giovane (ROHLFS1, p.457). Nel XVII secolo, infatti, esso comprendeva “un orto e un terreno seminativo con vigna”.

20.Horto Lomuso (strada dell’): m., orto di Lomuso? Il secondo termine è probabilmente un andronimo, potrebbe trattarsi di un soprannome. L’area è da localizzarsi all’interno del vecchio centro abitato infatti, nel 1673, i coniugi Vincenzo Nigro e Margherita de Giorgio di Alessano donavano al figlio “una casa lamiata con cortile, cisterna, giardino piccolo con un albero di fichi ed un altro giardino con un albero di cedri ed una casa scoperta con due forni, site in Corsano nella Strada dell’Horto Lomuso“.

21.Lama: f., dal salentino lama, ampio solco o conca dal fondo coltivato e verdeggiante del terreno carsico, bassura di terreno [lat. lama=palude] (ROHLFS1, pp.284 e 987). Da identificare con l’omonimo rione di Corsano; nel XVII secolo vi era “una possessione di olive di dieci macine, con due tomolate di terra”.

22.Luceria (la), Luceria Grande (la), Luceria Piccola (la): f., toponimo di derivazione sconosciuta, non più in uso. Probabilmente la zona è da localizzarsi a sud del paese, in zona Campo Martino, e nel Seicento era coltivata a seminativo misto ad uliveto.

23.Monte: m., dal salentino munte, roccia, massa di roccia sotterranea (ROHLFS1, p.370), usato in tutta la provincia per indicare un qualsiasi tipo di altura. Il geonimo si conserva sul QU (sc Cazzamendola-Monte) e sta ad indicare una grande area di terreni rocciosi nella parte orientale del feudo. All’epoca vi si trovavano “una possessione seminativa di un tomolo con alberi di fichi” e un’altra “seminativa di due tomoli”.

24.Monte li Cocci seu Largo della Galia: il primo toponimo si potrebbe tradurre come “monte dei sassi” (vedi 10.Coci). Il secondo indica un largo, uno spiazzo. Il termine galia potrebbe derivare dal grico ta calia, le capanne (ROHLFS2, p.48) oppure dal salentino calia, specie di cicoria selvatica (ROHLFS1, p.904); a Taurisano esiste il toponimo di “specchia Galia”, ad Acquarica di Lecce “le cave di Galia”. Sul QU, per errore, viene riportato come Monte li Cicci. Nel Seicento, don Domenico Biasco possedeva in questa località “un pezzo di olive di tre macine, con terreno incolto”.

25.Monti Pezi Alti: m. pl., il secondo termine deriva dal salentino piezzu, macigno, sasso, blocco di tufo (ROHLFS1, p.477). Il toponimo sembra essere scomparso.

26.P[…]gante: non è stato possibile ricostruire il nome.

27.Piazza, strada della Piaza: f., dovrebbe trattarsi di quella che sul QU viene chiamata piazza Municipio, mentre la strada dovrebbe essere via G. Licchetta. Nel XVII secolo Giuseppe de Filippo di Corsano possedeva “una casa diruta sita […] nella Piazza” mentre don Pantaleone Nigro aveva “una casa terragna con cortile, cisterna vecchia, cisterna fuori e orticello dietro sulla strada della Piaza“. All’epoca il centro abitato di Corsano era estremamente piccolo e nel corso del secolo esso si era ulteriormente rimpicciolito, infatti, dopo una fase di crescita demografica che aveva caratterizzato il Cinquecento (dai 43 fuochi del 1508 si era passati ai 146 del 1595), si assiste ad un netto calo della popolazione con 116 fuochi tassati nel 1669 e addirittura solo 91 nel 1732 (VISCEGLIA, pp.89-91).

28.Pischeto (il): m., dalla desinenza in -eto parrebbe un fitonimo il cui significato resta incerto. Secondo il testamento di Carlo Ruberto di Tiggiano, rogato nel 1683, qui vi era “una possessione seminativa” lasciata in eredità al cugino don Carlo Bisanti di Gagliano.

29.Profico (lo): m., dal salentino pruficu, bruficu, caprifico, fico selvatico (ROHLFS1, p.505; DDS, p.54). In questa località vi erano “una possessione seminativa di un tomolo” e “tre orti di vigna e un pezzo di terra con alberi comuni e olivi giovani”.

30.Puce (lo) seu Campomaggio: m., si può confrontare con Puci, contrada di Spongano e con il cognome salentino Puce (ROHLFS2, p.104). Il toponimo è ancora di uso comune (zona Puce). In questa zona c’era “una possessione di terra seminativa […] di due tomolate, con pagliaio e aia” che, nel 1679, don Domenico Biasco donava, con testamento, alla chiesa di Alessano in cambio di messe in suffragio.

31.Puze (le): f. pl., dal salentino puzzu (m.), pozzo, è attestata la voce corsanese al plurale femminile le puzzere (ROHLFS1, p.520). Nel dialetto corsanese attuale è passato al singolare maschile u Puzze; sulle cartine IGM è riportato come le Pozze ed indica la località alla periferia di Corsano, ai piedi della collina di S. Maura, dove, ancora nella prima metà del secolo scorso, c’erano le cisterne da cui la popolazione locale attingeva l’acqua. Nell’Arditi si legge: “Per le acque d’uso, la classe abbiente, si avvale delle pluviali in cisterne, il popolo, delle sorgive, potabili, pure, e fresche che attinge in 50 pozzi, profondi circa 4 metri, aggruppati nell’altipiano di una collinetta distaccata dal paese un chilometro appena” (ARDITI, p.161). In realtà si tratta di strutture per la raccolta dell’acqua piovana conosciute come “pozzelle” o “pozzi dei laghi”, che sono attestate in tutto il Salento (Apigliano, Carpignano, Castrignano dei Greci, Corigliano, Felline, Galugnano, Martano, Martignano, Ortelle, Patù, Sogliano, Soleto e Zollino). La costruzione delle pozzelle era legata alle abbondanti piogge invernali e correlata alla presenza di bacini naturali (conche alluvionali e vore) in cui le acque meteoriche andavano a confluire. Secondo le indicazioni del De Giorgi, esse furono costruite attraverso un taglio nel banco roccioso permeabile, per una profondità tra i 3 e i 6 metri, fino a raggiungere lo strato di terreno argilloso. Le pareti interne dell’invaso, simile ad un imbuto rovesciato, erano rivestite con pietre irregolari. In genere la loro realizzazione viene collocata in età bizantina (TINELLI, pp. 57-60). Anche i testamenti del Seicento confermano la presenza di risorse idriche per questa località infatti si cita “una possessione di olive con acquai di tre macine” e “una possessione di vigna e olivi giovani”.

32.Quatrata: f., dal salentino quatratu, spazio quadrato (ROHLFS1, p.524). E’ possibile che si riferisca alla conformazione del territorio di forma quadrangolare. Nel 1682, Giovanni Romano di Montesardo, ma residente a Corsano, concedeva in dote alla figlia un oliveto sito in questa località.

33.Ramanda (la): f., di origine ignota, il toponimo non si è conservato. Da confrontare con Ramada/Remada, contrada di Maglie (ROHLFS2, p.147).

34.Rine (le), f. pl., dal salentino rina, arina, rena, sabbia (ROHLFS1, p.539). Il geonimo è presente anche a Lucugnano, San Dana e Tiggiano (AAVV, pp.193-196) e nella forma Arena/Rena in diversi altri comuni salentini, in genere indica un terreno di tufo molto friabile caratterizzato da sassolini e rena grossa (rascidda nel dialetto corsanese). In questa contrada, che si trova tra Puzze e Munte, vi era “un pezzo di venti alberi di olive”.

35.Rinelle (strada delle): f. pl.; è il diminutivo della voce precedente e designa una zona del centro abitato (l’attuale via e rione Arenelle). Nei registri corsanesi ottocenteschi è trascritto nella forma Orinelle, sul QU via Arenelle corrisponde all’odierna via Principe di Piemonte diversamente da oggi. Nel Seicento vi erano ubicati “una casa terragna con cortile, capanne, forno e due alberi di mandorle” e “una possessione con vigna” che Antonio Giardino di Corsano donava al nipote Giovanni Antonazzo.

36.Santa Maria: f., agionimo (toponimo derivante da un nome di santo) ancora in uso per indicare il rione nord-occidentale di Corsano, nei presi del quale si trova la cappella dedicata ai SS. Medici e alla Madonna dell’Alto. Nell’Ottocento l’edificio aveva la stessa intitolazione: “chiesina della Madonna dell’Alto e de’ Santi Cosmo e Damiano” secondo l’Arditi (p.161). Tuttavia potrebbe trattarsi della corruzione del nome originario visto che, come apprendiamo dalla relazione della visita apostolica del vescovo Perbenedetti, nel 1628 la sua intitolazione era diversa: “S. Maria de Laudo” (JACOB-CALORO, p.59). Infatti, ancora oggi, il dialettale Madonna ‘e Lotu designa la piccola cappella, e la zona limitrofa, che, a quanto sembra, conserva le labili tracce di pitture di epoca bizantina (CORTESE, p.41). Da notare che, nel 1639, esisteva a Corsano anche la grancia di S. Maria del Casale, che, da alcuni atti notarili, risulta essere tra i possedimenti dell’abbazia di S. Maria de Lomito (oggi masseria ‘u Mitu) situata a nord di Tricase (MASSARO, p.13).

37.Santa Sufia (strada di): f., S. Sofia è la vecchia chiesa matrice di Corsano andata distrutta il 17 Aprile 1932 sotto il crollo del suo campanile, ricostruita e riaperta al culto nel 1939. (DE MARCO, pp.49-50). L’antico edificio, probabilmente del XV secolo, si trovava qualche metro più a sud rispetto ad oggi e aveva la facciata rivolta ad est. Sul lato nord si trovava una piazzetta (“largo S. Sofia” sul QU) mentre su quello meridionale vi era una stretta viuzza che è con tutta probabilità la strada in questione. Nel 1679 don Februario Nigro, arciprete della chiesa corsanese, dà in eredità ai coniugi Elia Cazzato e Lucrezia Negro “una casa lamiata, camera, cortile, mulino in ordine con mula, stalla, forno, giardino e tutti i membri sita nel centro abitato di Corsano nella Strada di Santa Sufia”.

38.Scorpo (lo): m., dal salentino scorpu, pero selvatico, arbusto spinoso in genere (ROHLFS1, p.625). I fitonimi Scorpeto, Scorpi, Scorpo, sono frequenti in tutta la penisola salentina: Brindisi, Galatina, Melendugno, Soleto (ROHLFS2, p.116) e Supersano.

39.Sotto la Chiesa: il toponimo fa riferimento ad una zona nei pressi della chiesa di S. Sofia non precisabile (forse il Largo S. Sofia riportato sul QU).

40.Strada delli Verardi (la): f., nome di famiglia, il cognome è diffuso in tutta Italia. Nel Seicento, nella forma Verardo, è presente a Montesardo (AAVV, p.90) e Gagliano, ed esiste una strada omonima ad Alessano (Fino, pp. 107-108). Da identificare con Vico Verardi, vicolo che si trova alle spalle della chiesa di S. Sofia. Alla fine del XVII secolo, in questa via, è segnalata l’esistenza di “una casa con forno, mulino, stalla e orto retrostante”.

41.Tagliate (le): f. pl., dal salentino tajata, cava di pietra, cava di tufo (ROHLFS1, p.729). Le Tajate è utilizzato ancora oggi per indicare una zona al confine con il territorio di Alessano, ricca di cave antiche. Nel Seicento vi ritroviamo “un appezzamento di terra seminativa”.

42.Tarantini (li): m. pl., credo che derivi da un nome di famiglia, il cognome Tarantino è infatti diffuso in tutto il Salento. Sul QU viene menzionata la sv Canale dei Tarantini. Nel 1685, in questa località, il notaio Giovanni Antonio Licchetta possedeva “una possessione di vigne di due orti con fichi, pagliaio e forno”.

43.Terraminua: f., la seconda parte del nome dovrebbe derivare dal latino minus, minore da cui il significato di “terra piccola, terreno poco fertile”. Il fatto che nel Seicento il nome designasse una singola possessione di vigna rende plausibile l’etimo. Si ritrova lo stesso tipo di toponimo “in negativo” sia a Salve e sia a Castrignano del Capo, infatti in ambedue i comuni s’incontra la località Terramascia.

44.Tinarsi (li); m. pl.; etimo sconosciuto. La zona, il cui nome è scomparso, era al tempo coltivata a seminativo.

45.Tricelo (lo): m., dal salentino trisciulu, trisciunu, piazzale dinanzi alla masseria dove gli animali si riuniscono prima di entrare nel parco (ROHLFS1, p.764), per estensione indica un largo o una piazza dove s’incontrano tre strade, dal basso latino tricalium, trivio. Infatti nei registri corsanesi dell’Ottocento sarà italianizzato in Trivio (anche sul QU ritroviamo Largo Trivio). Toponimo molto diffuso nella provincia: Trisciole a Gagliano, Trisciulo a Noha, Patù e Presicce (ROHLFS2, p.126). Corrisponde all’attuale piazza XXIV Maggio, in dialetto u Trisciulu. Nel XVII secolo vi era “una casa terragna con forno, cortile e orto dietro”.

46.Urmenti (li): m. pl., forse dal salentino urmu, olmo ((DDS, p.494; ROHLFS1, p.789). Nel 1671 Giovanni Domenico Mauro di Corsano possedeva un terreno seminativo con ulivi sito in questa contrada.

47.Ursi (l’): m., probabilmente è un andronimo da ricollegare al cognome Urso, attestato nella zona già nel XVI secolo Il nome continua ad indicare un rione di Corsano. Nel Seicento Antonio Maria Felippo vi possedeva “una casa terragna scoperta con diritto sul cortile”, mentre don Pantaleone Nigro aveva “una casa terragna con una camera, cortile, cisterna, due fosse per le vettovaglie, orto e grotta, nella Strada dell’Ursi, […] nell’abitato di Corsano”.

48.Vadarello (lo): m., forse è il diminutivo del salentino vataru, varco, valico, passaggio, deriva da atu, uatu, vadu, vatu, entrata di un fondo rustico (ROHLFS1, p.802; DDS, p.41). Il toponimo pare non essersi conservato.

Vanni: semi-ipogeo nei pressi della cappella della Madonna ‘u Vanni, graffiti all’interno.

***

incisioni graffite in località Vanni

 

Bibliografia

AAVV: A. De Meo, S. Fracasso, A. M. Gustapane, D. Ragusa, Per un posto in paradiso. Donazioni e testamenti ad Alessano nel Seicento, a cura di C. Piccolo Giannuzzi e M. Spedicato, Lecce, 1994.

ARDITI: G. Arditi, La corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’Otranto, Lecce, 1885.

CORTESE: S. Cortese, L’iconografia di san Biagio nel Salento, in I Bizantini del XXI secolo, Atti dei convegni di studi nel Salento meridionale, Ugento (Le), 2013.

DDS: G. B. Mancarella, P. Parlangeli, P. Salamac, Dizionario dialettale del Salento, Lecce, 2011.

DE MARCO: M. De Marco, Corsano, Manduria (Ta), 1983.

FINO: R. Fino, Il Capo di Leuca e dintorni tra realtà, storia e leggende, Galatina (Le), 2004.

GRECO: M. T. Greco, Toponomastica storica di Tito, inedito, reperibile su: https://www.academia.edu/44336281/TOPONOMASTICA_STORICA_DI_TITO consultato il 13.05.2023.

GRIECO: Dizionario di toponomastica bonitese, a cura di E. Grieco, Flumeri (Av), 2012.

JACOB-CALORO: Luoghi, chiese e chierici del Salento meridionale in età moderna. La visita apostolica della città e della diocesi di Alessano nel 1628, a cura di A. Jacob e A. Caloro, Galatina (Le), 1999.

MASSARO: R. Massaro, La chiesa di Santa Maria della Scala di Alessano, in Controcanto, anno XVII n°3, Alessano (Le), 2021.

PANARESE: E. Panarese, Il toponimo “Maglie” e l’oronimia salentina, in Contributi, anno I, n° 2, 1982, pp. 5-54.

ROHLFS1: G. Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini, Martina Franca (Ta), 2007.

ROHLFS2: G. Rohlfs, Dizionario toponomastico del Salento, Ravenna, 1986.

TINELLI: M. Tinelli, Le pozzelle, in Apigliano un villaggio bizantino e medievale in Terra d’Otranto. L’ambiente, il villaggio, la popolazione, a cura di P. Arthur e B. Bruno, Galatina (Le), 2009.

VISCEGLIA: M. A. Visceglia, Territorio feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età Moderna, Napoli, 1988.

altre incisioni graffite in località Vanni

Benvenuti a “Gran Varietà”

di Eugenio Imbriani

 

Paolo Vincenti ama l’eccentrico, il dettaglio, la particolarità storica, la marginalità geografica, l’erudizione; ama esplorare le pieghe, introdursi nei grovigli o nei bozzoli della storia e della quotidianità e lo fa utilizzando la varietà degli strumenti che possiede, competenze storiche, linguistiche, il controllo delle antiche opere classiche e la dettagliata conoscenza della cultura pop, di fumetti, cartoni, cinema, canzoni. Non sembri strano, quindi, che in queste pagine Demetrio Stratos, Annalisa e Catullo si inseguano e si alternino ai meno noti Afranio, o Boncompagno, ad Apuleio e Minucio Felice, per fare solo qualche nome. Sa tenere insieme l’alto e il basso, e riesce a mescolarne gli elementi con notevole padronanza dei contenuti, modulando il registro retorico tra satira, ironia, serietà, gioco.
Nella presente raccolta, tutto ciò emerge, a mio parere, con limpidezza; e, d’altronde, aver letto i precedenti lavori letterari dell’autore aiuta a riconoscere il suo progetto stilistico, narrativo, il suo modo di pensare. Avevo già letto alcuni, buona parte, dei testi presentati in questo volume, grazie alla gentilezza di Paolo che si premuniva di inviarmeli di volta in volta: la mattina, aprendo il computer, trovavo il file che mi aveva spedito, magari in ore antelucane, e non era raro che cominciassi la giornata con quella lettura e con un sorriso abbozzato sul cammino trionfale delle corna o quello ancora più scintillante della fica, sulle fortune dell’asino, sul discredito della vecchiaia (con qualche eccezione), sul valore dell’adulterio (quando era ancora un frutto dal sapore sconvolgente), sulla Svizzera e gli emigranti, sul telefonino, e così via. Sia che si tratti della ricostruzione dell’intricato posizionamento politico e militare dei paesi dell’area mediorientale, o dell’indagine sui piccoli stati sconosciuti ai più, sia che vengano affrontati argomenti di tenore più leggero, rimangono il rigore della forma, una intenzione analitica e classificatoria, che a me paiono strumenti per mettere ordine, in qualche misura, a quella varietà che pure viene celebrata, cercare una logica ai fatti che sfuggono, significati ai modi di dire e ai comportamenti dettati dal costume.
Viviamo in un mondo pesante di avvenimenti e di storie, interconnesso, nel quale gli stessi mezzi che consentono la comunicazione la alimentano e la moltiplicano. Nel troppo pieno che caratterizza la nostra esistenza, nell’ambiente culturale e sociale nel quale si svolge, non c’è quasi agio di trovare una pausa, un poco di vuoto, un intermezzo, una vigilia. Le stesse vacanze non sono tali, in realtà, perché a loro volta impongono ritmi di cose da fare in una frenesia che invade spiagge, mostre di autori famosi, piazze, autostrade, navi da crociera, ristoranti, bar, ore notturne. Nella confusione prevale l’agorà virtuale, l’immersione in un dialogo senza sostanziale ascolto, il chiasso mediatico che non sostiene né richiede il formarsi di senso critico. Per le masse di solitari smanettatori di cellulari e rumorosi frequentatori di ritrovi assordanti, e forse per noi tutti (speriamo di no), è arrivata quella che Vincenti definisce “l’ora di nessuno”: e allora, in un sistema estremamente complicato, registriamo un diffuso rifiuto di scegliere, e, tra quanti lo fanno, l’opzione per il messaggio più semplice, diretto, duro, sostanzialmente menefreghista, rispetto a cui è sempre più necessario prendere le distanze, assumere una posizione netta, leggibile, a favore di un’etica del rispetto, di condanna dell’autoritarismo, della guerra, delle stragi.
Nel vagare in tanti argomenti, autori, letture, tra il serio e il faceto e voli pindarici, Vincenti ci fornisce una sorta di diario commentato dell’anno appena trascorso, con qualche sforamento in quelli che lo hanno preceduto: un eccellente promemoria e una rappresentazione di quanto la storia abbia accelerato nell’ultimo periodo; c’è già molto da raccontare in questo scorcio del nuovo anno, ci sono novità importanti nel mondo, mille spunti da cogliere. Il Gran Varietà continua, e non potrebbe essere altrimenti, con la sua folla di personaggi e spettacoli di arte varia e cambi di scena repentini; la scrittura rapida e sapida di Vincenti, ne sono convinto, riuscirà a stargli dietro.

Tre raffigurazioni dell’Annunziata a Castro

di Gianluigi Lazzari

 

Alla cara memoria del professore Carlo Guido

 

D(EO) O(PTIMO) M(AXIMO)
IN HONOREM
DEIPARAE VIRGINIS ANNUNTIATAE
A(NNO) D(OMINI) 1685

(“A Dio Ottimo Massimo / In onore della divina Madre di Dio, Vergine Annunziata / Nell’anno del Signore 1685”).

Così recita l’iscrizione sulla cimasa dell’altare maggiore della Cattedrale di Castro, dedicata anch’essa alla Divina Madre (Deipara) di Dio, la θεομήτωρ, la Meter Theou, ovvero la Santa Zzi Mita, la Madonna Santissima Annunziata.

In questo breve contributo, eviteremo di soffermarci sul gruppo scultoreo in cartapesta policromata dell’Annunciazione“, documentato in Cattedrale sin dal 1835, concentrandoci su tre dipinti, due dei quali conservati nella Cattedrale e uno situato in via don Gabriele Ciullo, su un muro esterno dell’abitazione che fu dell’arciprete Gabriele Ciullo, parroco di Castro dal 1880 al 1934.

I due dipinti presenti nella Cattedrale si trovano nella parte centrale e nella cimasa dell’altare maggiore, opera insigne in pietra leccese dello scultore Ambrogio Martinelli da Copertino (1616-1684 circa).

Frate Angelo da Copertino, Annunciazione, 1680 circa, Cattedrale di Castro

 

Il primo dipinto, olio su tela, è databile tra il 1680 e il 1685 ed è attribuito a frate Angelo da Copertino, al secolo Giacomo Maria Tumolo (1609-1685 circa). Misura 255 cm in altezza per 200 cm di base. La scena raffigura l’arcangelo Gabriele (a sinistra) nell’atto di annunciare alla Madonna genuflessa su un inginocchiatoio ligneo (a destra). Uno stuolo di angeli arricchisce la composizione, immersa nella cultura barocca, con uno sfondo architettonico che include un balcone con finestra e una colonna. In alto, al centro, l’Eterno Padre con lo scettro in mano e, poco sotto, la colomba dello Spirito Santo. Sulla parte destra, in basso, si trova un vaso di fiori, mentre sul lato opposto compare lo stemma di mons. Francesco Antonio de Marco, vescovo di Castro dal 1666 al 1681, committente dell’opera.

Due dipinti quasi identici, sia nello stile che nell’impostazione iconografica, dello stesso frate Angelo da Copertino, si trovano nella chiesa di San Francesco a Matera e nella chiesa confraternale dell’Immacolata di Spongano.

Frate Angelo da Copertino, Annunciazione, chiesa di san Francesco a Matera

 

Frate Angelo da Copertino, Annunciazione, 1680 circa, confraternita di Spongano

 

Il secondo dipinto, anche questo olio su tela, è attribuito al pittore e architetto spagnolo Pedro Machuca (Toledo 1485 – Granada 1550), attivo in Spagna e nel Regno di Napoli nella prima metà del XVI secolo. La tela, databile intorno agli anni Trenta del Cinquecento, potrebbe provenire da una collezione privata di mons. De Marco. Rimasta in Cattedrale alla sua morte (1681), fu inserita successivamente nella parte alta dell’altare maggiore, sotto il vescovado di mons. Giovan Bernardo Capreoli (1683-1712).

Pedro Machuca, Annunciazione,, prima metà del XVI secolo, Cattedrale di Castro

 

Dal punto di vista iconografico, la composizione presenta la Madonna genuflessa su un inginocchiatoio ligneo coperto da un drappo verde scuro con sopra un libro. Al centro della tela si trova la colomba dello Spirito Santo, mentre sul lato destro, leggermente arretrato rispetto alla Vergine, è raffigurato l’arcangelo Gabriele. L’intera scena si sviluppa all’interno di una quinta architettonica caratterizzata da arcate e un balcone. La particolarità di quest’opera risiede nella raffigurazione della Madonna già gravida nel momento dell’Annunciazione, con una colomba dalle forme rotondeggianti.

Entrambe le tele furono restaurate negli anni 1985-1986 dal prof. Carlo Guido e dai suoi collaboratori della Scuola di Restauro di Arezzo.

Il dipinto in Via Don Gabriele Ciullo è a tempera su lastra di pietra leccese (80 cm di altezza per 65 cm di base) ed è attribuito al pittore Alessandro Bortone di Diso (1848-1939), databile verso la fine del XIX secolo.

Alessandro Bortone, Annunciazione, fine sec XIX, collocazione esterna, Castro, via G. Ciullo

 

La scena si svolge in un interno con prospettiva appena accennata, con la Madonna inginocchiata a terra sul lato destro e l’arcangelo Gabriele inginocchiato su una nuvola sul lato sinistro. In alto, al centro, tra un gioco di nuvole e luci, compare la colomba dello Spirito Santo. L’attribuzione dell’opera a Bortone è confermata dalla testimonianza di maestro Antonuccio Lazzari (1911-2003) in un’intervista del marzo 1997, nonché da comparazioni stilistiche con altre opere dello stesso artista.

L’autenticità delle opere di frate Angelo da Copertino e Pedro Machuca è certificata dallo storico dell’arte Giovanni Giangreco, già funzionario della Soprintendenza ai beni artistici, ambientali e architettonici per la Puglia e la Basilicata, oltre che da studi e pubblicazioni in ambito storico-artistico. Analogamente, l’attribuzione dell’opera di Bortone è avvalorata da testimonianze dirette e riscontri stilistici.

L’arte, espressione viva del tempo nella storia umana, manifesta il divino che da sempre accompagna l’umanità. Questi dipinti di Castro, oltre a rappresentare un patrimonio artistico di inestimabile valore, hanno da sempre ispirato preghiera e conforto. Quanti occhi si sono posati su di loro tra lacrime di gioia e di dolore? Quante anime hanno trovato in essi un rifugio spirituale?

Possiamo immaginare che anche il poeta Armando Perotti abbia elevato la sua preghiera a Dio e alla Vergine Annunziata attraverso queste opere, trovando in esse ispirazione per celebrare la sua Castro, la nostra Castro, “ULTIMA TERRA DI POESIA”.

 

Annotazioni:

Le foto del dipinto di frate Angelo da Copertino è tratta da: Fernando Russo, Otto secoli di storia, la chiesa Maria SS. Annunziata a Castro dall’edificazione al restauro, Firenze, Nardini editore, 2021.

La foto del dipinto di frate Angelo da Copertino nella chiesa di San Francesco a Matera ci è gentilmente stata concessa dall’amico Emanuele Ciullo.

La foto del dipinto della chiesa confraternale di Spongano è tratta da: Filippo Giacomo Cerfeda, Loquar ad cor eius, La chiesa confraternale dell’Immacolata di Spongano e l’omonima Confraternita, Castiglione (Le), Giorgiani editore, 2014.

Le foto dei dipinti di Pedro Machuca e di Alessandro Bortone sono invece di proprietà personale.

Le notizie storiche su Castro sono tratte da: Vittorio Boccadamo, Castro, note storiche, Galatina, Editrice Salentina, 1971.

Dialetti salentini: canuscìre, ovvero un contributo tutto meridionale?

di Armando Polito

Il corrispondente italiano di canuscìre è senza ombra di dubbio, conoscere, che è dal latino cognòscere, composto dalla preposizione, in funzione rafforzativa, cum=insieme e gnòscere (variante di nòscere)=accorgersi. In canuscire, rispetto all’italiano conòscere e al latino cognòscere, assolutamente normale è l’esito in –ìre come, per fare solo due esempi tra gli innumerevoli, in critìre rispetto a crèdere (tal quale in latino) e incìre rispetto a vìncere (tal quale in latino). I conti sembrano, invece, non tornare con quell’iniziale ca– contro co-. A questo punto sento già fischiarmi nelle orecchie l’obiezione: – E il famoso fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza dove lo metti?

Intanto dico che quel ca– non è invenzione dantesca ma della Scuola siciliana, che proprio Dante celebrerà nel suo poema (Purgatorio, XIV, 5) insieme con quello che ne era stato uno dei maggiori rappresentanti, cioè Jacopo da Lentini1.

Per questo tutti i vocabolari registrano canoscenza come variante antica di conoscenza e non ho nulla da eccepire. Per molto tempo, però, sono rimasto con la curiosità di sapere la ragione di quel ca– più antico, a quanto pare, di co-. Ben sapendo che in un vocabolario non avrei trovato soddisfazione, ho volto direttamente la ricerca a studi specialistici di tutte le epoche. Si direbbe che nessuno si sia posto il problema, altrimenti, con tutti gli studi linguistici  consultati, avrei dovuto trovare una risposta, se non definitiva, almeno plausibile. Niente, nemmeno uno straccio di ipotesi magari fantasiosa. Quella che sto per formulare forse lo è, ma, talora, la fantasia fallace di uno può ispirare quella inaspettatamente fruttuosa di un altro, ragion per cui sarò grato al lettore di qualsiasi sua osservazione. Che potevo fare, se non andare a caccia di altre voci salentine in cui il ca– aveva chiaramente soppiantato il co- sia italiano che latino? La caccia ha fruttato una sola ma, secondo me, significativa preda: caniàtu. Il suo esatto corrispondente italiano è cognato, che è dal latino cognàtu(m)=consanguineo, composto da cum+gnatus, quest’ultimo variante di natus. Dal significato originario di nato con lo stesso sangue la voce, poi, è passata ad indicare il parente acquisito.

Come ho precisato all’inizio, il latino cognòscere deriva da cum+gnòscere (variante di nòscere) e, come si è appena detto, cognatus è da cum+gnatus (variante di natus). Facendo un bilancio, diciamo che canuscire e caniatu, pur  registrando un secondo componente diverso (gnosco/nosco per il primo e gnatus/natus per il secondo) sono accomunati da ca– davanti a –n– variante di –gn-.

Credo che il passaggio co->-ca da cui eravamo partiti, possa trovare spiegazione nel supporre che ca– sia composto da cum+ad e che per canuscire valga la scomposizione in cum=con+agnòscere (composto da ad+gnòscere)=individuare; analogamente per caniàtu varrà la scomposizione cum=con +adnatus (composto da ad+natus)=spuntato sopra o accanto. Da notare che non ho fatto precedere nessuna delle componenti da asterisco, perché si tratta di voci latine più che attestate, cioè di uso corrente. In tutti i composti latini in cui come primo componente entra la preposizione cum, questa si si presenta come co–  e –o– si conserva sempre, anche quando il secondo componente inizia per vocale (coadiuvare=aiutare; coaptare=adattare; cooptare=associare, etc. etc.). Dal latino Il co- si conserva sempre pure in italiano, dove sembrerebbe fare eccezione caglio (in salentino quàgghiu). Sembrerebbe, perché è la classica eccezione che conferma la regola. Caglio, infatti, è dal latino coàgulum (da cui pure l’italiano coagulo), a sua volta da cum+la radice del verbo àgere=muiovere. La trafila che da coagulum ha portato a caglio è pertanto: coagulum>*càgulum (in cui –a– è quella di àgere, che non poteva essere sacrificata perché legata al concetto principale espresso dal verbo, a differenza della –o– di co– (da cum, preposicione)>*caglo>caglio. Proprio come è successo in caniàtu.             

La conclusione finale, dopo le osservazioni di natura etimologica e le attestazioni della Scuola siciliana e il contributo tutto salentino di caniàtu, è che canoscenza è sì variante antica di conoscenza, ma dal punto di vista etimologico, con lo zampino in più della preposizione ad, oltre che origini chiaramente meridionali. E, se così è, perché nel dialetto salentino non esiste cagnome? Non esiste semplicemente perché sono delle circonlocuzioni ad esprimerne i concetti anagrafici ad esso connessi, per cui al’italiano qual è il tuo cognome? corrisponde comu ti tieni o, con riferimento deduttivo ti ci  sȋ ffigghiu?, mentre per il nome la domanda è comu tichiami? oppure comu ti tieni?. E per il soprannome? Questo in salentino è ‘ngiura, che è dal latino iniuria(m) per aferesi e, nonostante questa decurtazione e l’attenuazione della valenza offensiva a favore di quella identificativa (tant’è che spesso il soprannome, nei casi meno appariscenti semplice deformazione popolare del cognome, appare registrato negli atti notarili2) non si chiede certo al diretto interessato qual è la ‘ngiura?

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1 A titolo d’esempio solo alcune ricorrenze presenti nella sua produzione: guardate a Pisa di gran canoscenza (dalla canzono che inizia con Ben m’è venuto prima cordoglienza); come nochier c’à falsa canoscenza (dal sonetto che inizia con Donna, vostri sembianti mi mostraro). La compresenza di canoscenza e conoscenza in ambito toscano è attestata da Ruggieri Apuliese, senese, di pochi decenni posteriore a Jacopo:

… tant’aggio ardire e conoscenza

… i savi canosce [nti] lo dritto ogne istagione … …

 

Canoscenza tra i contemporanei di Dante è nel fiorentino Guido Cavalcanti e, a loro anteriore di non più di venti anni, il bolognese Guido Guinizelli (sono i due Guido della vignetta).

2 Un esempio per Nardò: Sciogli, deformazione con passaggio tutto popolare al plurale di Giulio (vedi Marcello Gaballo, La masseria Sciogli in territorio di Nardò. Dalle famiglie Giulio e Basta al monastero di Santa Teresa di Nardò, in Un palazzo, un monastero: i baroni Sambiasi e le Teresiane a Nardò, Congedo, Galatina, 2018, p. 70).

Libri| Gran Varietà

Appena pubblicato, Gran Varietà, di Paolo Vincenti (Agave Edizioni, 2025). Il libro, che raccoglie gli articoli prodotti dall’autore negli ultimi mesi, si avvale di un dotto saggio introduttivo del linguista Antonio Romano, di una Prefazione dell’antropologo Eugenio Imbriani e una Postfazione della musicologa Maria Antonietta Epifani (che si allegano sotto).

“Gran varietà è stato un programma televisivo di Rete 4 del 1983 trasmesso la domenica sera alle 20.30 per dieci puntate. Realizzato su testi di Amurri e Verde, era condotto e diretto da Luciano Salce, Loretta Goggi e Paolo Panelli. Gran varietà è anche il titolo di questo libro.

La definizione del Devoto-Oli (Vocabolario della lingua italiana, a cura di Luca Serianni e Maurizio Trifone) è la seguente: “Varietà. s.f. Molteplicità e diversità di elementi non incompatibili tra loro; talvolta implicando un apprezzamento non benevolo in quanto allusivo di una certa incostanza…”. Oppure: “s.m. Spettacolo di arte varia, articolato prevalentemente su un repertorio di musiche, danze e numeri di attrazione, inizialmente legato all’ambiente dei cafés chantants e poi presentato nei teatri o come accompagnamento di spettacoli cinematografici; anche, il teatro dove ha luogo lo spettacolo…”.

Varietà, come si spiega nell’Introduzione, è quella dei miei scritti, assai eterogenei per la difformità dei materiali. I diletti e le divagazioni erudite, interessi, ansie e ilarità aggallano in questo libello che, pur con i suoi pregi e difetti, fra articoli, saggi e note, costituisce, negli elzeviri qui raccolti, un significativo squarcio del più recente periodo della mia vita.”

(Dalla quarta di copertina)

Dialetti salentini: còndula e i suoi agganci; una metafora tutta neritina?

di Armando Polito

 

Gli agganci di cui si parla sono solo etimologici, poiché la voce sarebbe in grado di evocare, tutt’al più, lo sganciamento definitivo, come conferma il trattamento del lemma, quale appare nel vocabolario del Rohlfs.

 

 

Vi si registrano due sole varianti: cònnula per Manduria (registrato come lemma principale (e questo  probabilmente per un condizionamento, secondo me fuorviante, del quale dirò a breve) e còndula  per Nardò col significato evocato dal componente destro della vignetta, la cui ragion d’essere si comprenderà alla fine. L’etimo proposto, il latino, aggiungo medioevale, cunula (da leggere cùnula) non mi convince per i seguenti motivi:

1) Cùnula è diminutivo del classico cuna (sopravvissuto nell’italiano letterario) e ha dato vita all’italiano culla attraverso la seguente trafila: cùnula>cunla (per sincope)>culla (per assimilazione). Non si comprende per quale motivo il cònnula di Manduria avrebbe geminato la n.

2) Proprio la variante di Manduria col suo significato non funereo avrebbe, secondo me, indotto il maestro tedesco a pensare a cuna prima e a cùnula dopo.

3) Se cùnula fosse plausibile e se cònnula fosse la variante di partenza, dovremmo ipotizzare che il neritino còndula sia figlio di cònnula per dissimilazione. Tra i dialetti salentini però, proprio il neritino è uno dei pochissimi tra quelli del Leccese in cui il gruppo originario latino –nd– si conserva: p. e. dal latino quando nel neritino si ha quandu, in altri dialetti del Leccese e in tutti quelli del Brindisino e dl Tarantino quannu).

4) Per quanto fin qui osservato bisognerebbe, forse, percorrere un’altra strada e questo farò senza abbandonare di colpo il cammino avviato, anche perché, come vedremo, la nuova s’incontrerà con le vecchia, anche se non dal punto di vista etimologico.

Se la metafora della culla mi avesse convinto, fatta la tara per Nardò delle differenze dimensionali e d’uso, avrei parlato dell’accostamento del sonno o del riposo provvisorio e infantile a quello senza età ma eterno. Non avrei, poi, sprecato l’opportunità di  ricordare che il citato latino classico cuna ha dato vita al medioevale incunabula1, da cui poi, con passaggio al singolare, è nato l’italiano incunabolo. Incunabula, dall’iniziale significato coincidente con quello di cuna, assume quello bibliografico molto tempo dopo, ad invenzione della stampa avvenuta da più di due secoli e precisamente nel 1688, quando uscì ad Amsterdam il primo repertoriio di incunaboli col titolo di Incunabula tipographiae.

Incunabola typographiae sive catalogus librorum scriptorumque proximis ab inventione typographiae annis, usque ad annum Christi MD inclusivè, in quavis lingua editorum. Opusculum saepius expetitum, notisque historicis, chronologicis, et criticis intermixtum (Contenitore di cullette della tipografia ovvero catalogo dei libri e degli scrittori pubblicati in qualsiasi lingua negli ultimi anni, dall’invenzione della stampa fino all’anno di Cristo 1500 incluso. Opuscolo più volte richiesto, richiesto e fornito di note storiche, cronologiche e critiche).

 

Fatto questo doveroso omaggio alla nascita del libro, abbandono cuna, anzi ne continuo la demolizione come presunto etimo; e dico presunto e non presumibile, altrimenti il Rohlfs avrebbe aggiunto, come avviene per altri lemmi, un punto interrogativo).

Eppure, a prima impressione, sembrerebbe che còndula sia deformazione di gondola, una sorta di metafora funereamente turistica. Al primo acchito l’ho pensato pure io e per conferma ho effettuato il consueto e doveroso controllo che ha dato l’esito mostrato all’inizio suscitando le perplessità di cui ho già detto.

Appare arduo inizialmente trovare punti di contatto tra la gondola, la culla e la bara, e non certo perché il detto non è vedi Venezia e poi muori,  ma per il fatto che gondola ha il suo etimo più accreditato nel greco bizantino κονδοῦρα (leggi condùra), che era un tipo di barca. E allora? È il Nonostante questo, continuerò a cullarmi (lo ammetto, sono testardo …) ma sulla laguna, restando però, metaforicamente, con i piedi per terra …

Abbiamo visto come còndula/cònnula abbiano un bacino di utenza ristrettissimo, il che potrebbe essere indizio dell’adozione di una voce estranea all’ambiente salentino ma entratavi, attraverso gli imprevedibili percorsi, dalle tappe non agevolmente ricostruibili, che caratterizzano le vicende umane. Se già còndula non suscita allegria, guerra non è da meno, per cui sorvolerò sulle vicende che vide coinvolta la Terra d’Otranto, in particolare Nardò e Gallipoli, e l’armata veneziana al tempo della Congiura dei baroni. Ricorderò, invece, l’usanza, tipicamente neritina, di preparare nel giorni di Ognissanti (1 novembre) la veneziana, una cioccolata calda e cremosa che parenti, amici, fidanzati o semplici vicini di casa si scambiavano puntualmente, almeno fino a ieri … Le numerose leggende circolanti  sull’origine dell’usanza hanno, come tutte le leggende, un nucleo di verità storica che fa della veneziana in un colpo solo un prodotto (e una parola) importata da un luogo dove il cacao ed altre spezie erano ben conosciute, anche se fruibili solo da chi se lo poteva permettere. Se l’origine veneta della veneziana è certa, quella di còndula purtroppo, non gode del suffragio di alcuna leggenda, anche se alla veneziana l’accomuna la caratteristica aristocratica di essere, almeno inizialmente, un simbolo di condizione sociale (e questo vale pure per còndula, bara di lusso, per ricchi). Non sono rari, poi, i casi in cui una voce dialettale contiene un riferimento di origine dotta, se non un richiamo letterario, il cui gradimento popolare ha poi propiziato il passaggio di quuella parola dall’uso, per così dire, specialistico a quello comune. L’immagine della gondola-bara, infatti, è un topos, che, però, è in sintonia col sentimento in tutti suscitato dal colore nero, dal suo scivolare lento nel silenzio  (quando non c’erano i motoscafi …) dei canali: un’atmosfera, insomma, surreale, fuori dal mondo e dal modo di vivere e sentirsi quotidiano. Se l’uomo comune prova soltanto, l’artista prova ed esprime. Sul topos della gondola-bara riporto, tra le tante, alcune delle più significative variazioni.

Johann Wolfgang von Goethe (Venezianische Epigramme, 1790)

Diese Gondel vergleich’ ich der sanft einschaukelnden Wiege,

und das Kästchen darauf scheint ein geräumiger Sarg.

Recht so! Zwischen der Wieg’ und dem Sarg wir schwanken und schweben

auf dem großen Kanal sorglos durchs Leben dahin.

 

(Paragono questa gondola alla culla che dondola dolcemente,

e la scatola sopra sembra una spaziosa bara. Giusto! Tra la culla e la bara oscilliamo e galleggiamo

sul grande canale spensierati E la gondola va, negra E la gondola va, negra attraverso la vita.)

Matilde Serao (La grande fiamma, in Nuova antologia, terza serie, volume XIX, Direzione della Nuova antologia, Roma, 1889, pp. 338-339)

… incontrarono la più tetra barca della laguna. Era tutta nera, come le altre, ma mancava di quella grazia civettuola della gondola di passeggiata: non aveva, a prua, il rostro lucido; era più larga, più piatta, si dondolava goffamente sulle acque: e i due gondolieri, invece del solito gabbano fra cittadino e marinaro, invece del solito berretto, portavano una giacchetta nera e un cappello a cilindro, con una coccarda nera. Stava ferma, la gondola, innanzi a un portoncino aperto; due o tre donne erano sotto il portoncino. – Che è quella gondola? – disse Grazia al gondoliere, scattando in piedi. – È la gondola dei morti, eccellenza: quelli sono i becchini …  

Gabriele D’Annunzio (L’innocente, 1892)

…  Piovigginava. Le nebbie su l’acqua prendevano talvolta forme lugubri, camminando come spettri con un passo lento e solenne. Spesso nella gondola, come in una bara, io trovavo una specie di morte imaginaria. 

(Il fuico, 1900)

… Lei sola consente il tema inquietante e ossessivo del franare del tempo, con il corredo di figurazioni tardo rinascimentali e barocche: la “clessidra spaventosa”, la morte, con la sua rappresentatività macabra (i “drappi funebri” della gondola-bara, la maschera cupa della notte” …

Alessandro Varaldo (La gondola dal Letto di Rose, sonetto da 1° Libro dei Trittici, Tipografia di Pietro Gibelli, Bordighera, 1897, s. p.))

Passano i morti solo in questa pace

sopra quest’acque nere e lentamente?

Forse scorre veloce una silente

gondola di giustizia o di fallace

vendetta? Sul Canale Orfano sente

il marinaio un tremito: si tace

ogni canto, ogni bacio in questa pace

funebre: stanno le civette intente.

Ma una gondola passa in un istante

di terrore ed à rose in su i cuscini;

rose bianche d’amore e di desio,

 

e scorre sopra tanti morti e tante

vendette sola poi che ai mattutini

sogni i fantasmi cantano l’addio.

Thomas Mann (Der Tod in Venedig, S. Fischer, Berlin 1912, pp. 42-43).

Wer haette nicht einen fluechtigen Schauder, eine geheime Scheu und Beklommenheit zu bekaempfen gehabt, wenn es zum ersten Male oder nach langer Entwoehnung galt, eine venezianische Gondel zu besteigen? Das seltsame Fahrzeug, aus balladesken Zeiten ganz unveraendert ueberkommen und so eigentuemlich schwarz, wie sonst unter allen Dingen nur Saerge sind, es erinnert an lautlose und verbrecherische Abenteuer in plaetschernder Nacht, es erinnert noch mehr an den Tod selbst, an Bahre und duesteres Begaengnis und letzte, schweigsame Fahrt. Und hat man bemerkt, dass der Sitz einer solchen Barke, dieser sargschwarzlackierte, mattschwarz gepolsterte Armstuhl, der weichste, ueppigste, der erschlaffendste Sitz von der Welt ist?  (Chi non proverebbe un brivido fugace, una misteriosa timidezza nel salire per la prima volta o dopo molto tempo dalla prima di salire su una gondola veneziana? Quello strano veicolo, tramandato completamente immutato dai tempi delle ballate e così stranamente nere, come sono solo le bare, ricorda avventure silenziose e criminali nell’increspatura della notte, ricorda ancora di più la morte stessa, la bara e l’inizio oscuro e l’ultimo viaggio silenzioso. E tu hai notato che il sedile di una simile barca, questa bara nera, la poltrona imbottita laccata nera, opaca, la più morbida, soffice, è il sedile più decadente del mondo?)

 

Giulio Vitali, Spirito sovrano, in Rivista bibliografica italiana, a. XVII, n. 22 del 16 novembre 1912: E la gondola va, negra e severa come una bara, leggiadra e molle come una cuna.

 

Diego Valeri (Venise, da Poesie 1910-1960, Mondadori, Milano, 1962, p. 304)

La gondole, en sortant de la verte splendeur
du grand canal, s’enfuit, svelte, dans l’ombre bleue
d’un très petit rio. Un pan de mur, couleur
d’ambre, avale ce noir fantôme à longue queue.

(La gondola, uscendo dal verde splendore
del Canal Grande, se ne fugge fugge, affusolata, nell’ombra azzurra
di un piccolissimo rio. Una striscia di muro, colore
d’ambra, ingoia questo nero fantasma dalla lunga coda.)

 

E, a proposito di gondola, nella penultima  testimonianza associata, come nella prima di Goethe, a bara e a cuna, simbolo sinteticamente ossimorico del principio e della fine, della vita e della morte, è tutt’altro che irrilevante il fatto che già Francesco D’Ovidio, Il dialetto di Campobasso, in Archivio glottologico italiano, v. IV, Loescher, Roma, Torino, Firenze, 1878, p. 170, nota 1) si era chiesto se la voce potesse derivare da cùnula, manifestando la sua perplessità sulla geminazione di n (con successiva dissimilazione nn>nd) per mancanza di esempi nei dialetti veneti, come io, con analoga motivazione,  ho manifestato la mia per quanto riguarda i dialetti salentini.

Non voglio con questo insinuare che il Rohlfs potrebbe aver sfruttato la nota de D’Ovidio per salvare capra e cavolo, cioè culla e gondola-bara, ma forse sarebbe stato più opportuno collocare al primo posto la variante neritina.

Se le cose dovessero stare veramente così e queste riflessioni non fossero il frutto di una sorta di campanilismo etimologico (non so, è il caso di dire dove morirò, ma sono nato a Manduria e ho vissuto a Nardò) Nardò e Manduria, pur con risultati semantici opposti, avrebbero elevato al rango di sintetica metafora quello che nei letterati era una semplice ma, quasi paradossalmente, prolissa similitudine.

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1 Molto probabilmente in uso da tempo,  è presente in autori deL XIV secolo (Petrarca, Epistulae; Benvenuto da Imola, Comentum super Dantis Aldigherij Comoediam. Neutro plurale di un inusitato incunàbulum, modellato sul tipo dei classici cubìculum (=camera da letto), turìbulum (=incensiere), etc. etc.

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Libri| Le rivolte contadine nella Provincia di Terra d’Otranto dal 1890 al 1910. I gravi fatti di Scorrano

di Roberta Marra

 

Sabato 15 marzo 2025 alle ore 18.00, presso l’Istituto Scolastico “A. Manzoni” di Scorrano (Via G. D’Annunzio 157), sarà presentato il volume di Bruno Paolo Nicolardi dal titolo “Le rivolte contadine nella Provincia di Terra d’Otranto dal 1890 al 1910. I gravi fatti di Scorrano” edito da Edizioni Esperidi.

Introdurrà la serata Pietro Palumbo presidente Pro Loco Scorrano, porgeranno il saluto Mario Pendinelli sindaco di Scorrano, Annalisa Mariano assessore alla Cultura, Fausto Melissano dirigente dell’I.C. Scorrano. Insieme all’autore interverranno:
Giovanni Giangreco presidente del Centro Studi Scorranesi e Sara Bottazzo già dirigente scolastico.

Sarà presente l’editore Claudio Martino mentre l’intermezzo musicale sarà curato da Rocco Giangreco. Ingresso libero.

Il libro. Le rivolte dei contadini a Scorrano, ma anche in tutta Terra d’Otranto e in Puglia, furono la conseguenza di un malessere sociale ed economico che si protraeva da decenni ma che fu acuito dalla miseria e dalla fame nel ventennio trattato. I grossi proprietari furono colti di sorpresa dalla reazione violenta dei contadini, pensando che un loro atteggiamento paternalistico sarebbe stato sufficiente a far rientrare questi moti di ribellione. Sbagliarono, perché come recita il proverbio latino “Non vult scire satur, quid ieiunus patiatur”, essi non vollero vedere la miseria
più nera che attanagliava i contadini e i braccianti. Scrive Giovanni Giangreco nella prefazione: “A Scorrano gli avvenimenti di quella giornata contribuirono a creare le condizioni per un cambiamento politico e sociale, che, a distanza di circa un ventennio, avrebbero cambiato, purtroppo definitivamente, la cultura politica e, per certi aspetti, anche antropologica della comunità scorranese rispetto a quella dei secoli precedenti, accentuando fenomeni già in
corso e allentando alcuni legami sociali prima ritenuti fondanti per l’intera città.

In copertina, disegno di Silvia Giannotta.

 

L’autore.

Bruno Paolo Nicolardi (Scorrano 1954) dopo la laurea in Lingue e Letterature straniere presso l’Università degli Studi di Lecce, ha iniziato la carriera di insegnante nella Scuola Secondaria di II grado ed è diventato docente di ruolo in lingua francese, svolgendo la sua attività nella Scuola Secondaria di I grado di Arzignano (VI), Otranto, San Cassiano, Botrugno, Casarano e Cursi. É membro del Centro Studi Scorranesi. Ha pubblicato: Il culto di Santa Domenica (Il Raggio Verde, 2023); Poesia popolare a Scorrano. Canti della Passione, storie sacre, preghiere, canti popolari, filastrocche, poesie” (con Giuseppe Presicce) per Edizioni Esperidi nel 2024.

Antica ceramica salentina. Un inedito piatto delle officine novolesi

di Gilberto Spagnolo

 

Giovan Battista Pacichelli nelle sue Memorie, a proposito di un suo viaggio compiuto nel 1684 (citato dal Vacca) nel Salento dava questo “rendiconto” di quello che all’epoca è il fabbisogno ceramistico della famiglia salentina, in genere: “Dui scansie piene di faenze con piatti, boccali ed altro”; “un pisari dentro lo quale vi è uno staro uno d’aglio in circa”; “un altro pisari da tenere acqua”; “sette sottocoppe di Faenza, undici bucali di Faenza de la Terza e delle Gruttaglie e due bacili”; “dudici piatti (de) minestre et lancelle, quattro boccali de pesare de Nardò”; o tre boccali alla leccese”.

Da tutto ciò si può notare quanto fosse importante la ceramica per i nostri avi perché, è evidente, “oltre che per gli usi pratici, recipienti ed oggetti di ceramica, offrivano al popolo, a poco prezzo la possibilità di decorare l’ambiente domestico che si rendeva più accogliente e festoso.

Ognuno, a prezzi modesti poteva soddisfare tanta richiesta di stoviglie, per uso comune e per uso di decorazione, e per l’uno e per l’altro insieme”.

E questo era possibile in quanto le officine locali erano ricche di materia prima, l’argilla, che attingevano dal sottosuolo salentino che ne è fortemente provvista.

La ceramica salentina ha avuto dunque un certo rilievo non soltanto dal punto di vista storico, etnografico ed artistico, ma anche da quello economico, perché una non trascurabile parte della popolazione di detti paesi, traeva guadagno dai prodotti di questa piccola industria artigiana alla quale la classe dirigente dedicò anche qualche attenzione.

Nicola Vacca, indicato da Giuseppe Palumbo come un “profondo studioso di cose salentine in genere nonché diligente ricercatore in materia”, nel 1954 pubblicò su questo argomento un’esauriente monografia (già nel 1937 aveva pubblicato un interessante saggio su Rinascenza Salentina) che ancora oggi rappresenta un imprescindibile punto di riferimento per questo campo d’indagine, per antiquari, collezionisti e studiosi.

I centri in cui si sviluppò la ceramica salentina e che sono stati indicati e documentati dal Vacca furono: Laterza, Martina Franca, Grottaglie, Taranto, Francavilla, Mesagne, Brindisi, Salice, Lecce, San Pietro in Lama, Cutrofiano, Nardò, Lucugnano ed appunto Novoli. Una ceramica il cui carattere era spiccatamente di “tipo popolare e popolareggiante, lontana, quindi, dal carattere d’arte intesa crocianamente come rielaborazione fantastica della realtà. Una produzione istintiva che lascia intravedere nell’atecnicismo quelle manifestazioni arcaiche ed arcaistiche che giacciono su un unico piano dai tempi più remoti”. Una ceramica in cui, quel che più ti colpisce (scrive ancora il Vacca) “è la vivacità dei colori, la policromia che perfettamente s’intona in una gamma sorprendente. Non dallo studio è stato guidato l’artigiano nel fondere piani e forme e colori, perché studio non ha mai fatto, ma dal suo istinto naturale formatosi attraverso la tradizione. Ceramica rustica, non grossolana, saporita e sana come la giovane contadina che non al belletto e alla cipria o al maquillage affida il successo delle sue attrattive, ma alla soda opulenza delle forme, alla freschezza naturale della mente alla vivezza accesa del colorito, alla semplicità del suo atteggiamento e delle sue movenze”.

Per quanto riguarda Novoli, più in particolare, sappiamo che nella “Numerazione dei fuochi del 1658” che è andata distrutta e che era presso l’Archivio di Stato di Napoli, erano registrati alcuni figuli operanti in Santa Maria de Novis (antica denominazione di Novoli), rispettivamente i “Mastro Tomaso, Mastro Carlo, Mastro Pietro” tutti figli di Mastro Cesare Romano di Campi (ma a Campi, per quanto io sappia, non si produceva ceramica) e i “Mastro Francesco, Mastro Pietro, Mastro Giuseppe e Mastro Angelo” tutti figli invece di “Mastro Antonio Elia” di Cutrofiano.

I “fuochi di S. Maria de Novis” riportati nella numerazione del 1658 e la citazione nell’Apprezzo del 1707 (in N. VACCA, La ceramica salentina, Lecce 1954).

 

La più antica notizia documentata su Novoli risale comunque al 24 marzo 1707, anno dell’Apprezzo di Novoli e Nubilo fatto dall’ingegnere Gallerano. In questo documento si legge: “La decima delle codame e di tutte quelle opere e lavori di creta che si fanno in detto feudo la quale si paga per ciascuna cotta di fornace grana diece e grana quindeci per la grande ed il barone l’assegna il luogo per cavar la creta compensatamente annui ducati sei, tari due e grana dieci”.

In virtù di queste affermazioni a Novoli risultavano quindi in media 28 fornaci all’anno.

Sempre nel citato Apprezzo si legge ancora: “... una stanza terragna affidata ad un cretaro o codomaro per carlini 15 che tiene la fornace per cuocere pignate”, fornace che era in Piazza Castello, oggi denominata Regina Margherita.

Secondo quanto scrive ancora il Vacca, circa 60 anni or sono, in contrada Madonna di Costantinopoli (attuale Madonna del Pane), durante i lavori di demolizione di vecchie case fu trovata nel sottosuolo una fornace figulina con diverse stoviglie.

Lo Spoglio, invece, del Catasto Onciario del 1751 che è nell’Archivio di Stato di Lecce, non registra alcun figulo. Infatti, appaiono solo le voci quali “spiziale (farmacista), viticale (mulattiere), bracciale (contadino), ecc.”.

Ciò farebbe pensare alla scomparsa della figulina in questo paese.

Ma questo sembra non trovare riscontro poiché figuli dovevano esservi operanti nel 1761 e alla fine del secolo XVIII, in quanto, nota il Vacca, il Sacco nel suo Dizionario geografico-istorico-fisico del Regno di Napoli vi nota “una fabbrica di vari lavori di creta” (l’opera fu pubblicata a Napoli nel 1746). Il signor Santo Mancino di Novoli poi conserva un piatto (diam. cm. 41,5 fondo cm. 5) con nel campo la leggenda: “Novolli 1761”.

F. SACCO, Dizionario geografico-istorico-fisico del Regno di Napoli, Napoli MDCCXVI, Tomo II. Frontespizio.

 

Piatto proveniente dalle officine ceramistiche novolesi con l’iscrizione “Novolli 1761” appartenente a Ugo Mancino (in N. VACCA, La ceramica salentina, etc., figura 67; O. MAZZOTTA, Novoli nei secoli XVII-XVIII, Bibliotheca Minima, Tip. Rizzo 1986).

 

Il piatto dimostra anche che a Novoli si produsse ceramica decorata. Cosi infatti lo descrive il Vacca: “… è a fondo bianco con decorazione grossolana all’orlo di fogliami verdi e con listelli azzurri e neri; al centro è disegnato uno scudo cimato di elmo piumato volto a destra con visiera abbassata e graticolata a quattro cancelli.

Il signor Santo Mancino che conserva anche altri interessanti oggetti in ceramica (come ad esempio un bel catino finemente lavorato) che per tradizione di famiglia si affermano essere usciti dalle officine novolesi, ricorda con simpatia la “meraviglia” e lo gioioso stupore che provò il Vacca (trattandosi di un raro documento datato e con l’indicazione del sito di provenienza) allorquando Romeo Franchini, sindaco e studioso del passato novolese (che aveva all’epoca l’abitazione accanto alla sua), gli mostrò il piatto in questione, la “delicatezza” e la “religiosità” con cui lo osservò e lo misurò. Avrebbe fatto certamente qualunque cosa pur di averlo, ma dovette accontentarsi di fotografarlo e di immortalarlo nel suo libro.

Una “rarissima e fortunata eccezione” in quanto, come scriveva Giuseppe Palumbo, “i prodotti di queste popolari fabbriche di Terra d’Otranto non erano contrassegnati da marche, da sigle, da firme, da date”. Lo stesso Palumbo poi in un suo articolo, a proposito delle varie raccolte private che stava elencando, faceva presente che la sua era costituita “da una sessantina di pezzi procurati prevalentemente a Novoli e in misura ridotta a Lecce, Veglie, Strudà, Calimera, Serrano, Botrugno”. Lo studioso in un saggio successivo riguardante “Spunti sul paesaggio nella vecchia ceramica popolare di Terra d’Otranto” descriveva un “orciolo di vino” proveniente sempre da Novoli con una raffigurazione rappresentante “una torre sghembata a quattro piani affiancata da altre due torri e due piani pure queste sghembate. Tre i portali: molte e piccole le finestre. L’intero edificio è a sua volta affiancato da due pini”. Dopo la descrizione di questo importante pezzo scrive poi testualmente: “Il pezzo che non reca sigla di fabbrica né data mi è pervenuto da Novoli campo di ricerche sempre fruttuose prossimo al capoluogo provinciale nel 1946; e mi diceva il cortese donatore che secondo una vecchia tradizione familiare, la decorazione rappresenta la torre denominata di Pozzo Nuovo in agro dello stesso comune a Nord dell’abitato, abbattuta or è un cinquantennio durante la costruzione del tronco ferroviario Lecce-Francavilla. La notizia potrebbe forse trovare il suo credito nel fatto che la terracotta non pare di fattura recente ed ancora nella circostanza che a Novoli come è ormai risaputo si esercitò la figulina per lo meno fino al XVIII secolo”.

“La torre di Pozzo Nuovo” poi abbattuta (archivio fotografico Enzo M. Ramondini).

 

E in effetti il Vacca non si sbagliava perché la ceramica a Novoli è attestata ancora nei primi anni dell’Ottocento.

Infatti, nella memoria legale Per l’Università di S. Maria di Novoli e suoi naturali contro l’utile possessore di quella, datata Napoli 11 gennaio 1805, secondo il XXXIV capo d’accusa per gli abusi feudali dei Carignani il barone “pretende la decima da’ lavori de’ Cretaioli. Un carlino per il forno piccolo, grana quindici per il forno grande. Il Barone oppone che la decima delle crete fu venduta dal fisco, e nell’apprezzo si parla in questo modo: la decima delle codame di tutte quelle opere, e lavori, che si fanno in detto Feudo. Il Fisco ha fatto l’istanza: Baro se abstineat: la Regia Camera deve decretare non solo che si astenga per l’avvenire di esiggere la suddetta decima, ma che restituisca a Cretaioli l’indebito esatto. Egli è vero, che nell’apprezzo si menziona l’espressata decima, ma questa si corrispondeva un compenso dall’abitazione franca e del luogo d’onde la creta si dovea cavare siccome lo stesso Barone confessa nella sua istanza fd 89 e siccome costa dagli atti istessi dell’apprezzo. Se dunque il Barone ha esatta la decima senza dare l’abitazione o la creta, ragion vuole, che debba restituire quanto ingiustamente, e senza titolo ha esatto, e debba astenersi in avvenire di esiggere decima da lavori de’ miseri Cretaioli.

Memoria Legale “Per l’Università di S. Maria di Novoli e suoi naturali contro l’Utile possessore di quella”, Napoli 11 gennaio 1805 (all’interno “la decima de’ lavori de’ Cretaioli”, XXXIV capo d’accusa per gli abusi feudali dei Carignani), coll. privata.

 

Piatti (il primo recante la data 1796) provenienti dalle officine ceramistiche novolesi e appartenenti alla collezione privata Petraglione di Bari (in N. VACCA, La ceramica salentina etc., figg. 68 e 69).

 

“Orciolo di vino” proveniente dalle officine ceramistiche novolesi e appartenute alla col-lezione privata di G. Palumbo (in N. VACCA, La ceramica salentina, etc., fig. 70).

 

Il Vacca, inoltre, nel corredo illustrativo del suo libro, pubblica le foto di altri pezzi prodotti dalle officine ceramistiche novolesi e appartenenti alle collezioni: Petraglione, Palumbo, Ammassari e Serinelli, collezioni delle quali, attualmente, non se ne conosce l’esito e che purtroppo possono essere andate disperse. A Novoli, infine, capita spesso di ritrovare tra le fondamenta di vecchie case in demolizione o in antichi pozzi “nfucati” cioè riempiti e chiusi con materiale di risulta perché non utilizzabili pezzi o frammenti di ceramica probabilmente di produzione locale (io stesso conservo un oggetto in proposito, probabilmente una lucerna, molto caratteristica, a forma di candelabro, smaltata di verde e ritrovata in via Pendino nel corso appunto di alcuni lavori di demolizione e di scavo) e alcuni Novolesi custodiscono gelosamente “ursuli e ucale”, cioè orcioli e boccali ovvero gli orcioli da vino e le giare per bere o da riporvi alimenti secchi che per tradizione di famiglia si affermano usciti dalle officine dei “cutimari” novolesi (nella parlata locale è ancora vivo il proverbio: “Lu mesciu cutimaru, minte l’asula a ddu ole”).

Piatto proveniente dalle officine ceramistiche novolesi e appartenente alla collezione privata A. Ammassari di Lecce (in N. VACCA, La ceramica salentina, etc., fig. 71).

 

Piatto proveniente dalle officine ceramistiche novolesi e appartenente alla collezione privata Salvatore Serinelli di Surbo (in N. VACCA, La ceramica salentina, etc., fig. 73).

 

Piatto del sec. XVIII proveniente dalle officine ceramistiche novolesi e appartenente alla collezione privata di G. Palumbo di Lecce (in NICOLA VACCA, La ceramica salentina, etc., fig. 72).

 

Va aggiunta infine un’ulteriore e significativa testimonianza sull’argomento. In una delle ultime edizioni della mostra d’antiquariato che si svolgeva a Copertino qualche anno fa nel locale castello (esattamente la VI ovvero quella del 1992) furono esposte, per la prima volta, dall’antiquario barese Domenico Toto (oltre ad alcuni pezzi pregiati di Laterza e Grottaglie) alcune preziose ceramiche provenienti da Nardò e appunto da Novoli.

Tralasciando gli splendidi manufatti neretini brevemente annoto le caratteristiche dell’inedito pezzo uscito dalle officine novolesi; si tratta infatti di un piatto (molto raro come tipologia di produzione) le cui misure ricalcano quasi fedelmente quelle del piatto posseduto dal signor Santo Mancino. Il piatto della splendida collezione Toto ha invece molti punti in comune con un altro del secolo XVIII che Nicola Vacca pubblica nel suo libro sulla Ceramica Salentina e che nella didascalia risulta posseduto, all’epoca, da Giuseppe Palumbo. Come si può notare osservando le fotografie, i due manufatti sembrano essere usciti dalla mano dello stesso artigiano: coincidono, incredibilmente, il tipo di decoro lungo i bordi, la forma del vivace volatile posto nella stessa posizione (cioè al centro e in alto), la stessa idea che ha animato l’artigiano nella rappresentazione complessiva e che si differenzia solo nel tipo di fiorame rappresentato e nel numero dei volatili (tre in quello del Palumbo e uno in quello della collezione Toto).

Blu, verde e arancione i colori rappresentati con una decorazione quasi monocromatica essendo il blu impiegato in quantità maggiore.

Considerando il numero dei volatili, quello dell’antiquario barese, per possibile elaborazione cronologica, sembra aver preceduto quello del Palumbo che si presenta appunto leggermente più complesso.

Non ho avuto il tempo di approfondire con il signor Toto (che comunque ringrazio per avermi concesso di fotografarlo) la provenienza di questo piatto (smaltato e anche rotto, ma perfettamente restaurato) facente parte delle ceramiche novolesi che lo stesso Toto ha definito “le più preziose”, ma è fuor di dubbio, considerati gli elementi di confronto, la “matrice” del centro salentino, che evidenzia, come diceva il Palumbo, “il genio creativo del rozzo artigiano con concezioni quasi sempre elementari a volte schematiche, ma prettamente personali, da disegnatore e coloritore autodidatta qual egli era”; un genio che per fortuna ci ha lasciato qualcosa che il nostro popolo ancora ci conserva e ci tramanda per la gioia dei nostri occhi e del nostro spirito, che è sempre in ricerca perenne di ciò che è caratteristicamente nostro, e per rivalutare, in quel che è possibile, la storia della nostra terra, anche attraverso questa “rude arte dei vecchi figli salentini”, arte che il Palumbo definisce “modestissima, quasi primitiva, silenziosa, anonima”, ma anche (grazie a questo mistero che circonda la mite personalità dell’artefice) con un eccezionale “senso di seduzione e di grazia”.

Piatto proveniente dalle officine ceramistiche novolesi e appartenente alla collezione dell’antiquario di Bari Domenico Toto, sec. XVIII.

 

Lucerna ritrovata in Via Pendino a Novoli durante alcuni lavori di demolizione e di scavo (coll. privata).

 

In “Lu Puzzu te la Matonna”, a. XXII, Novoli 19 luglio 2015 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 135-140, Novoli 2024.

 

Riferimenti bibliografici

Archivio di Stato di Napoli, Sezione Amministrativa, Numerazione dei Fuochi, Santa Maria de Novis, anno 1658, vol. 889, foll. 8, 11, 19 t., 26, 29, 32 (citato da N. Vacca in La Ceramica Salentina, p. 75);

Archivio Privato, Mario Rossi, Novoli;                                                                        .

Apprezzo di Novoli e Nubilo Fatto dall’ing. Gallerano, datato 24 marzo 1707 (copia dattiloscritta, l’originale che si conservava presso l’Archivio di Stato di Napoli è andato perduto);

G. Palumbo, Figulina vinaria nel Leccese, estratto da “La Ceramica”, n. 9, Milano, settembre 1953;

Id., Note agiografiche sui figuli di Terra d’Otranto, Ivi, n. 6, Milano, giugno, 1953;

Id., Gli “Ursuli” e le “Ucale” nella vecchia Ceramica Salentina, estratto da “Faenza”, a. XXXVI, fasc. III, Faenza 1950;

Id., Gli ultimi figuli di Lecce, Ivi, a. XXXVII, fasc. II-III, Faenza 1951;

Id., Spunti sul paesaggio nella vecchia ceramica popolare di Terra d’Otranto, Ivi, a. XXXVIII, fasc. VI, Faenza 1952;

Id., Ceramica Popolare del 1800 in Terra d’Otranto: i Piatti e Bacili, in “La Ceramica”, a. IX, n. 3, Milano 1954;

O. Mazzotta, Novoli nei secoli XVII-XVIII, Bibliotheca Minima, Tip. Rizzo 1986;

F. Sacco, Dizionario geografico-istorico-fisico del Regno di Napoli, ecc. Napoli MDCCXLVI, Tomo II, p. 425; scrive il Sacco: “Novoli Terra nella Provincia di Lecce, ed in Diocesi di Lecce medesima, situata in una pianura, d’aria buona, e nella distanza di sette miglia dalla Città di Lecce, che si appartiene con titolo di Ducato alla Famiglia Carignano Marchese di Trepuzzi. In essa sono da notarsi una Chiesa Parrocchiale; un Convento de’ Padri Domenicani; tre Confraternite Laicali sotto l’invocazione del Sacramento, dell’Immacolata Concezione e della Buona Morte; un magnifico Palazzo Ducale con varj deliziosi giardini; ed una fabbrica di varj lavori da creta. Il suo territorio poi produce grani, vini, olj, e bambagia. Il numero finalmente de’ suoi abitanti ascende a duemila seicento novantadue sotto la cura spirituale d’un parroco”;

G. Spagnolo, La Ceramica salentina. La ceramica a Novoli, in “Paise Miu”, n.u. a cura del Gruppo Teatrale Novolese “La Focara”, Novoli 1972;

Id, Lu cuccu te Sant’Antoni. Una singolare testimonianza sulla devozione per il guardiano del fuoco, in “Sant’Antoni e l’Artieri”, a. XIV, Novoli 17 gennaio 1990, p. 4;

Id., Antica ceramica salentina: un inedito piatto delle officine novolesi, in “Lu Lampiune”, Anno VIII, n. 3, dicembre 1992;

B. Tizzani, N. Turfani, Per l’Università di Novoli e i suoi naturali contro l’utile possessore di quella, Napoli 11 gennaio 1805;

N. Vacca, Saggio Storico sulla moderna ceramica salentina, in “Rinascenza Salentina”, n. 4, Lecce 1937, pp. 281-333;

Id., La Ceramica Salentina, Lecce 1954.

Il Tarantismo, fra gesuiti, impostori e commedianti

In aure melos:d’una sympatica melodia per continuamente curarsi.

Il Tarantismo, fra gesuiti, impostori e commedianti

 

di Francesco Frisullo – Paolo Vincenti

Un testo del 1661 mai fino ad ora studiato né citato sul tarantismo, vale a dire su quel complesso fenomeno storico, medico, antropologico, etnico e musicologico su cui nei secoli è stata prodotta una corposa bibliografia scientifica. Il testo, che fa un chiaro riferimento al tarantismo pugliese, è il Pregio XXV ammirabile il santissimo nome di GIESU, come melodia d’ogni harmonia all’orecchio, opera del gesuita milanese Ortensio Pallavicino tratto da I PREGI MARAVIGLIOSI DEL SANTISSIMO NOME[1]. Rosario Quaranta, nel suo saggio La tarantola nella predicazione sacra (secoli XVII – XVIII)[2], affronta il tema del tarantismo o tarantolismo nella predicazione sacra. In particolare l’autore propone alcuni testi tratti dalle opere di quattro famosi predicatori dei secoli XVII-XVIII. Di Caspar Knittel (Glatz/Klodzko 1644-Telc 1702), gesuita boemo, famoso predicatore, matematico e filosofo, propone l’opera Conciones Academicae in precipua totius anni festa[3], ovvero “Discorsi accademici per le principali feste di tutto l’anno”, stampato postumo nel 1718 a Praga. «Abbiamo ritrovato, con nostra grande meraviglia», scrive l’autore, «un discorso dedicato alla “Festa della Visitazione della Beata Vergine Maria” in cui egli si serve con disinvolta arguzia (ma non sappiamo con quanta efficacia da un punto di vista spirituale e pastorale) appunto della nostra Tarantola per costruire un discorso strabiliante rivolto “a sollievo e a utile diletto per tutti gli amanti della parola di Dio” e specialmente alla prima nobiltà e a tutti gli Accademici che si riunivano per ascoltarlo nell’Auditorium»[4]. Secondo Knittel, la Tarantola è «il Peccato Originale, anzi ogni peccato mortale, perché, come afferma San Giovanni Crisostomo “il peccato lascia nell’anima un veleno”»[5].

L’altro predicatore è il cappuccino fra Girolamo da Narni, al secolo Girolamo Mautini (Narni 1560 – Roma 1634), con la sua opera Prediche fatte nel palazzo apostolico (Roma 1632)[6]. «Con Girolamo da Narni la tarantola diventa protagonista di una predica tenuta nel palazzo apostolico vaticano, addirittura nella “corte Romana”, alla presenza del pontefice, in un mercoledì della terza domenica d’Avvento di un anno dei primi del Seicento. Argomento della predica è l’insuperabíl costanza del Battista, il quale, richiesto se fosse lui il Messia che gli Ebrei attendevano, seppe resistere con fermezza alle lusinghe dell’adulazione come un monte intorniato da venti da gli Euri da gli Austri. È proprio sulla suggestione che l’adulazione può provocare nell’animo umano, al punto da far perdere la reale consapevolezza delle proprie virtù, capacità e limiti che si inserisce la lunga digressione sulla tarantola»[7].

Quindi Mario de Bignoni (Venezia, 1601- 1660), noto anche come Mario da Venezia, predicatore cappuccino del Seicento, il quale scrive, fra le tante opere, I Serafici splendori[8]Da quest’opera è tratto il brano dedicato alla tarantola, “precisamente dalla predica dal titolo: IL MARE CONGELATO. Gieroglifico de’ danni del Peccato, recitata nella terza Domenica di Quaresima”[9].

Ancora un altro autore è Luciano Montifontano (Lucien de Montafunertal, 1630-1716) frate cappuccino, che si occupa della tarantola nel libro di Sermoni domenicali e del Quaresimale[10]. Si tratta di un “discorso tenuto il mercoledì dopo la domenica di Passione sul tema: Tarantulae malum in viduis (la malattia della tarantola nelle vedove) sulla base di una citazione tratta dalla prima lettera di S. Paolo a Timoteo: Vidua quae in deliciis est vivens mortua est (la vedova che è nei piaceri è una morta vivente)”[11].

Veramente interessante notare come l’omiletica si fosse impossessata di un argomento che certo di sacro aveva ben poco, curvandolo a fini teologici.

E tuttavia Quaranta non cita il brano qui presentato[12].

Il milanese Ortensio Pallavicino (1608-1691) entrò nella Compagnia di Gesù nel 1624, insegnò retorica, filosofia e teologia nel collegio di Brera; compose panegirici latini e trattatelli dottrinali e devozionali[13]. In tutte le sue prediche raccolte nel libro spesso fa  riferimento alla musica a fini retorici, in particolare nella predica Pregio XXV in cui, dopo essersi sinteticamente soffermato sugli elementi musicoterapici negli autori classici a partire da Pitagora, “Il primo trà filosofanti Pithagora, pellegrinando in Egytto già ammaestrato per lo commercio d’alcuni secoli co’l popolo di Dio, in particolare, dagl’insegnamenti di Mosè”, giunge poi a descrivere efficacemente il fenomeno del tarantismo – “stravagante e prodigioso il morso di quel ragno pugliese”-, attraverso un climax retorico che partendo dagli effetti malefici del morso della taranta e curativi della musica, procede con l’instaurare una similitudine tra la taranta e il peccato fino ad approdare ad una costruzione allegorica secondo cui vita è uguale a ragnatela dove s’annida perniciosa la taranta (ovvero il diavolo): “questa a vita una tela di ragni velenosi”. I mortali vengono aggettivati come “attarantati” che in quanto tali necessitano del suono salvifico della parola “Gesù”: “habbiamo bisogno d’una sympatica melodia per continuamente curarsi. Questa è nel nome di GIESV in aure melos”. La musica è quindi la più efficace cura nel tarantismo. Rimanendo nell’ambito semantico-medico, Pallavicino più oltre scrive: “Et è l’istesso essere GIESU Salvatore e Salute che l’essere Medico e Medicina di tutti i nostri mali”[14].

Pallavicino spiega nella sua trattazione come il suono del nome Gesù sia per lui dolcissimo più di qualunque altro, paragonandolo ai cori angelici e lasciandosi trasportare nella sua esposizione dalla contemplazione estatica del mistero divino che gli fa trovare vibranti espressioni di giubilo. “È ammirabile il santissimo nome di GIESU, come melodia d’ogni harmonia all’orecchio”. Fa una lunga disgressione sugli effetti benefici della musica nei padri della chiesa [pp. 318- 321] e parlando dei filosofi, appunto dice:

Il primo trà filosofanti Pithagora, pellegrinando in Egytto già ammaestrato per lo commercio d’alcuni secoli co’l popolo di Dio, in particolare, dagl’insegnamenti di Mosè, che nella sua divina storia haveva descritto nella creatione del mondo la fabrica de’cieli fatta dall’onnipotente archetypo amore, concepì altissimo sentimento delle cose celesti. Ammirava il bell’ordine della successione della notte al giorno, la corrispondenza del maggiore, e minor luminare, la bellezza di quelli eterni pyropi, il pregio di quelle sfere d’incorrottibile zaffiro, gl’influssi, e movimenti di quel mondo fourano intorno a noi sempre pellegrinante, il regolato concerto di tanti maravigliosi oggetti, e gli pareva di sentire una sò quale harmonia, che di continuo gli feriva l’orecchio, e che quelle intelligenze motrici fossero innocenti cantatrici sirene. Ma in realtà, era un’intellettuale, e non sensibile harmonia sentita, e goduta dall’anima, a cui porgeva sommo diletto l’harmonioso concerto della providenza creatrice delle celesti maraviglie. Altra harmonia più che celeste fa sentire il nome sagratissimo di GIESV, mentre rappresenta non quello, quello, che dies diei eructat verbum, non quella, che nox nocti indicat scientiam, ma l’istesso Verbo increato fatto huomo, in quo sunt omnes thesauri sapientia,&scientia Dei , sussistente in due nature divina , & humana , quel Verbo ineffabile, che ha portato in un certo modo il cielo interra, e la terra in cielo: non il continuo pellegrinaggio delle sovrane sfere, mà l’immenso giro de’ meriti infiniti dell’unigenito Figlio di Dio [p. 322].

Una prosa infervorata, ridondante, barocca, come si può constatare, nello stile dei più ispirati predicatori del passato, i quali puntavano proprio sugli artifici retorici per colpire l’uditorio. Se pensiamo che il primo obiettivo dei predicatori era l’ammaestramento dei fedeli e che l’arma principale di cui essi disponevano era proprio l’ars oratoria, si comprenderà facilmente come i più bravi di essi fossero coloro che meglio padroneggiavano una simile arte, codificata in famosi trattati nella letteratura latina a partire da Cicerone e Quintiliano, fino a Sant’Agostino.

Pallavicino procede analizzando i riferimenti musicologici-musicoterapici in San Francesco e nella Grecia classica: Platone, Orfeo, Timotheo, Alessandro il Grande, Origene, ma sempre come contrappunto al “melodioso nome di Gesu” [pp. 323-328]. Scrive:

È stravagante, e prodigioso il morso di quel ragno pugliese, che con nome di tarantola comunemente s’ apella. Fà una ferita tanto occulta, e infonde un veleno tanto traditore, che il ferito, e avvelenato non se ne accorge. E veleno mortale sì, ma di longa vita: violento sì, perche micidiale, mà lento, viaggiando longo tempo prima d’arrivare al cuore: maligno, mà tanto codardo, e poltrone, che non vi  uccide, anzi non dà segno, se non dopo  molti /  mesi de’ suoi interni assassinamenti fatti alla strada contra incauti, e sopiti passaggieri Mà più maravigliosa è la cura, curandosi i colpi mortali di questo picciolo malefico assassino di strada con l’harmonia del suono, ogni volta, che si truova una tale melodia, che sia sympatica col misero infermo, e si confaccia al suo genio; quasi che con un’ incantesimo innocente si disfaccia il nocevole. Siamo tutti miseri figli de gl’huomini nel pellegrinaggio per lo deserto infelice di questa vita attarantati mentre in particolare stiamo poco cauti, e in qualche modo sonnacchiosi. Ella è questa a vita una tela di ragni velenosi. Ova aspidum dice il santo, profeta ruperunt, telas aranearum texuerunt. Ogni anno della nostra vita è una tarantola che ci da un morfo homicida. co’l veleno a tempo. Ma quel, che è peggio, se non siamo svegliati, e cauti, resta anche l’anima attarantata da morsi scelerati, e maligni delle infernali suggestioni. Si che habbiamo bisogno d’una sympatica melodia per continuamente curarsi. Questa è nel nome di GIESV in aure melos, ogni volta amiamo l’istesso GIESV; non essendo altro la sympathia, che il concorso di due vicendevoli amori, e se non manca il nostro, il suo non può mancare, perche egli è tutto infinito amore verso di noi. Eius nominis potentiam dice S. Giustino Martyre dæmones tremunt, e meglio la bocca d’oro di Giovanni Chrysostomo. Huiiusmodi incantatio non folum draconem a spelunca abigit, e in ignem coniicit, fed & vulneribus quoque medetur. Ufi pure l’astuto nemico con buggiardo, e traditore veleno tutta la malignità dell’arte sua. Si mens parata reperiatur disse quel Santo vescovo, Ut nomen Domini IESV serventi memoria retineat, et hoc sancto, gloriosoque nomine, tanquam armis adversus dolos usa fuerit, recedet diabolus fallax. S’hanno da vincere i demoni dell’inferno, come gl’effeminati Sibariti, con la melodia del canto, e del suono del dolcissimo, e potentissimo nome di GIESV. E che scioperaggine è la nostra havere nel solo nome di GIESV piamente proferito, e santamente invocato una bellissima musica di paradiso insegnataci dal divino amore, un’ harmonia  più che celeste, che rallegra l’anima in qualunque stato d’afflittione, ch’ella sia, e la solleva alla melodia sovrana della trionfante città di Dio che accorda in’ pacifica consonanza gl’affetti nostri  fra se più discordi, e di noi giurati nemici: che ci libera con pio, & innocente incanto dall’occulto veleno dei  serpenti infernali che tutti i nostri nemici abbatte, e vince; e trascurare ingratamente favore sì segnalato, e gratia si incomparabile lo mi maraviglio più tosto, che ciascuno non desideri d’essere tutto anima, e lingua per amare, e lodare continuamente questo santissimo nome del Signore Iddio; almanco come con tutte le potenze dell’anima sua, tutti gl’affetti, tutti i pensieri, e tutte le membra del corpo, come con tante bocche eloquenti sempre non lo benedica co’l santo profeta Davide dicendo. Benedic anima mea Domino, & omnia, que intra me sunt nomini sancto eius. Facciamo dunque conforme il santo avviso al defimo, psallite nomini eius, quoniam fuave. Egli è il nome santissimo di ĠIESV soave, cioè una soavissima  melodia d’ogni più ben concertata harmonia, diamoli perpetue lodi, e benedittioni, & assicuriamoci, che goderemo un’anticipato paradiso anche in questa terra; perche altro esercitio nõn  hanno i beati cittadini delle celeste Sione, che lodare, e benedire il nome del suo Signore, & il nome di GIESV, che è il più dolce, & il più sagrosanto de ‘loro eterni cantici ; intimandosi a tutti, quando stanno per entrare in quella patria d’ogni bene, che questa farà la loro gloriosissima occupatione per tutti i secoli de’ secoli[15].

Fra oratoria biblica e citazioni latine Pallavicino mira a convincere il lettore di quanto sia melodioso il nome santissimo di Gesù, alla cui invocazione spira una musica di paradiso che riporta la serenità all’anima travagliata. Il suono di questo nome libera l’uomo dalle pene e dalle afflizioni quotidiane, perfino dal peccato, “l’occulto veleno dei serpenti infernali”, tanto che il religioso si chiede come mai ciascuno non desideri essere tutto anima e lingua per potere questo nome continuamente santificare. C’è la lezione di Basilio, Gregorio Nazianzeno, Gregorio di NissaCrisostomo, tutti per altro citati, certamente quella di Sant’Ambrogio e di Sant’Agostino, ma si avverte soprattutto l’influenza della grande predicazione cristiana dovuta agli ordini religiosi medievali, su tutti i domenicani ed i francescani, grazie alla cui opera l’omiletica raggiunge la più alta perfezione, diviene prosa d’arte, in massima parte per l’interpretazione allegorica dei testi sacri: si pensi solo a Sant’Alberto Magno o a San Bonaventura da Bagnoregio, campioni di stile in questo campo. I sermoni che vibrano sulle bocche ispirate dei predicatori del Cinquecento e del Seicento sanno toccare le corde giuste di un uditorio predisposto, con un misto di esaltazione e ammonimento, sono come delle macchine di alta precisione, colpiscono nel segno, centrano l’obbiettivo della catechesi. Forse un punto di riferimento per il Pallavicino fu Egidio da Viterbo (14691532), cardinale agostiniano, il più grande predicatore dei suoi tempi, il quale grazie ad una straordinaria cultura multidisciplinare riusciva a confezionare dei sermoni che erano capolavori di oratoria sacra in cui disseminava citazioni dalle più svariate fonti, sacre e pagane, sortendo un effetto di corrispondenza ed entusiasmo nei suoi ascoltatori.

Non mancano altri passi in cui il gesuita, rifacendosi alla letteratura patristica, riprende il paragone Gesù-medico[16].

Un altro esempio di uso omiletico del tarantismo ci è fornito dal gesuita francese Etienne Binet (1569-1639) che nel 1615 pubblica in Francia I fiori dei salmi, tradotto in italiano nel 1661. In quest’opera, che è un commento dei salmi, il religioso invita il lettore a scegliere il versetto che si addice al proprio peccato ed è qui che si instaura la similitudine con il tarantismo:

quanti versetti, tante herbe medicinali per guarire le malatie dell’Anime nostre, che sono le passioni: Sciegliete quelle, che fanno à proposito per voi, e per il vostro humore peccante. Quelli, che sono morsicati dalla Tarantola, non guariscono, che per mano dell’harmonia pare un miracoloso ragguaglio il raccontarlo; e pure egli è verissimo, che talhora un bravo suonatore di liuto doppo, che hà fatto parlarė li suoi deti,e toccate mille ricercate, e canzoncine, se fi avviene in una per buona. forte che ferisce lo spirito della malato, lo guarisce, e ciascuno amalato vuole un suono particolare per il suo male”. Crea quindi il paragone peccato-demonio-tarantola:“noi tutti siamo stati morsicati mortalmente dalla Tarantola d’Inferno colà nel Paradiso, e che il peccato originale hà sconcertata tutta la bella, e dolce harmonia dei nostri corpi & anime?.

    Il profeta Davide viene presentato come un dono di dio che con i salmi cura i peccatori come il musico cura gli attarantati[17]. Tra i mali indicati dal gesuita da sanare con i salmi appunto “vi sono divotioni bellisime per i Cartusiani” [Cartesiani][18].

Un caso di uso poetico barocco dell’exemplum del tarantismo ci è fornito dal gesuita e panegirista napoletano Giacomo Lubrano (1619-1693). Sotto lo pseudonimo di Paolo Brinacio, Lubrano, nelle sue Scintille poetiche, pubblica il sonetto La Musica Rimedia in parte a lor tossico[19].  Dello stesso Lubrano è un sonetto, Stravaganza velenosa della tarantola, che sempre in forma poetica ma senza finalità retoriche descrive gli effetti del morso della taranta pugliese: “De l’Appulo terren rettile maga, / picciola Erinni in velenosi umori,/ onde apprendesti ad eternar la piaga ,/ viva al ferire e postuma ai dolori ?// Mordi insiem e tradisci ; e pur non paga / di tesser bave e vomitar malori/  fai  che di novi spasmi presaga/ […] Oh di strega natura empi dispetti !”[20]. Osserva Mina che il poeta “affianca il tossico dei ragni alle potenti fiamme estive, mostrando infine le piaghe della Ragione, la vana ambizione di ridurre fedelmente la realtà, che invece sfugge con inganni e i suoi enigmi”[21]. Va tenuto presente, come osserva Santoro, che la «cultura barocca considerava le malattie fisiche e mentali come l’espressione della presenza e “dissonanze” che facevano del corpo degli uomini una sorta di strumento male -accordato da sanare con una giusta intonazione coreutico-musicale»[22].

Un altro predicatore e apprezzato teorico, stavolta teatino, è il vescovo di Tortona Paolo Aresi. Si deve a lui, come evidenzia Doglio, l’ “archetipo” della “«predica a impresa» […] costruita su una «immagine significativa», simbolo o oggetto simbolico a valenza metaforica multipla”[23]. Aresi nel 1624 riprende il tema degli effetti del morso della taranta, “nelle parti della Puglia”, che si cura con la musica, che per l’infermo “ha diversa simpatia per diversi suoni”, quindi instaura l’analogia “tribolatione”- taranta: “Ne  tutte con una sorte di suoni si risanano, altra canzone suonar bisogna al povero altra all’infermo”, e il predicatore si presenta al pari di un musico che sperimenta i vari suoni per infine concludere sull’unico suono salvifico:

ho fatto sentire varie corde hor il canto dell’amor divino , hor il basso della sua giustizia, hor il tenore della sua providenza, e hor l’altre dei suoni diversi attributi, Vi  ho cercato diverse canzoni , della charità, della speranza, della fede, dell’utile, del dilettevole e dell’honesto, Non credo dunque vi sarà attarantato, che non habbia  udito suono corrispondente al suo male”[24].

Il tema demonio-taranta non è certo originale, come segnala Luisa Cosi; lo ritroviamo in una tarantella a cinque voci con violini: Per la Nascita del Verbo di Cristoforo Caresana (Napoli 1670), quando era universalmente riconosciuta l’efficacia della iatromusica: “Il ragno apulo viene identificato con Lucifero, tarantola d’abisso tarantola ribelle, con suggestiva insistenza di certe relazioni simboliche (nido, ragno d’oscurità, pianti, tremori …) fra demonologia e rito attarantato. Dimostrazione efficace di certa capacità controriformistica di accomodarsi alla cultura del popolo, attuando un traslazione di significati”[25]. A p. 120, nota 22, è riportato il testo: “Tarantola d’abisso, empio serpente [ …]  Tarantola ch’in cielo il nido avesti ma per troppo volar cadesti  […] Tarantola ribelle, fulminata or che in terra la luce è nata”. Le cantate natalizie, come osserva Catello, “fanno esplicito riferimento al ritmo della tarantella e della tarantola, metafora dello spirito infernale che verrà cacciato sprofondando negli abissi”[26].

Anche nella letteratura spagnola si assiste ad una progressiva trasposizione retorica   che unisce il tarantolato al demonio che nella drammaturgia del XVI secolo avrà grande fortuna, come documenta Casciano, tanto da fare della tarantata “un possibile archetipo”[27]. Spedicato individua nella presenza dell’episcopato spagnolo la via di trasmissione delle conoscenze del tarantismo pugliese in Spagna[28]. Tralasciando le molteplici trasposizioni drammaturgiche, che come è facile supporre sono il più naturale approdo delle manifestazioni del tarantismo, scevre di ogni implicazione clinico-patologica, il tarantismo stesso si può sinteticamente definire, come fa De Giorgi, una specie di “dramma sacro teatrico”[29].

Possiamo ora prendere in considerazione un certo uso retorico del fenomeno che ci è presentato da Scipione Ammirato, in due contesti differenti, quello poetico e quello della trattatistica. Il poeta, la cui  ispirazione è sopita da altri impegni mondani, secondo un topos letterario, si rianima per aver ricevuto una lettera -il mittente è Angelo di Costanzo- con l’invito di portarsi a Napoli e intraprendere la redazione dell’opera Delle famiglie nobili napoletane, e come succede per un tarantato all’udire una certa melodia, anche in lui si ridesta l’ispirazione: “Vedeste  un qua quì vui / Vecchio , o fanciul  ,che mai l’avesse morso/Quel verme che taranta appeliam nui ; quando gran tempo è già passato e scorso,/se avvien poi che la cornamusa  intenda, / Quasi Baccante agevolarsi al corso, /e porsi  in sul ballar ? Simil comprenda / Chi’io mi divenni: e saltellarmi il core /sentì più di una volta entro sua tenda”[30]. Ma Ammirato ricorre all’analogia suono-taranta in un’altra sua opera, i Discorsi intorno a Cornelio Tacito (Libro III, Discorso II),  laddove il  buon governante è paragonato a un medico in grado di saper diagnosticare il male e curarlo con gli opportuni rimendi: “Conviene esser ricco di rimedi, perche cosi non nuoca coi troppo leggieri, come farebbe coi troppo aspri; nella qual quantità di rimedi ; mi occorre di raccontare per ispiegar bene il mio intendimento, come si medica il mai della tarantola in terra d’Otranto”, e continua “Cerchi dunque, & procuri la carità del buon Principe di trovare il suono , & il modo appropriato a i gravi mali onde giace inferma la sua Repubblica”[31].

Un’altra drammatizzazione, che trae origine da situazioni reali, è quella del tarantolato che si finge tale per accattonaggio e per ottenere elemosine, fenomeno molto diffuso anche in Italia, come scrive il domenicano Giacinto Di Nobili (1594-? ), sotto lo pseudonimo di Frionoro:

Fingono questi esser stati morsi da alcuni animali che nascono nel territorio di Taranto (da cui son nominati), ed esser caduti in quella infirmità, che li rende come pazzi. Vibrano e sbattono la testa, tremano con le ginocchia; spesso al suono cantano o ballano”, quindi chiosa amareggiato l’autore: “piacesse a Dio che io avessi guadagnato tanto in questo anno con li miei sudori, studj e fatiche, quanto questi furbi si portano alla patria [Puglia]”[32].

Infatti, in particolare nel teatro del XVIII secolo è frequente il personaggio che per opportunismo si finge tarantato/a mentre nel contempo diventa sempre più ricca la letteratura negazionista del tarantismo[33]. Pini e Frionoro ci offrono un esempio di approccio critico al fenomeno del tarantismo attraverso un’ottica satirica: anche in questo caso non mancano esempi d’autore di approcci agli effetti del morso della tarantola ad incominciare da Anton Francesco Doni che, attraverso il topos del viaggio nell’oltretomba e la visione del mondo ultraterreno, denuncia “gli inganni e i pericoli del mondo, in una prosa eccentrica e umoristica, volta alla rappresentazione allegorica della condizione umana”[34]. Per il nostro studio, è interessane un cameo sul tarantismo che ritroviamo nelle pagine dell’Inferno de’ mal Maritati e delli amanti. L’oggetto di “burla” è il matrimonio mal riuscito di chi non più giovane sposa una donna di piacevoli fattezze, tra satira e velati doppi sensi. Il tarantismo diventa metafora dell’amore non sempre disinteressato:

Ella è una mira che ciascuno vi radrizza l’occhio, tutti sospiran per lei [giovani, i ricchi , i galantuomini] i poeti con parole che espugnano il cielo , non che una donna aguzza l’ingegno di qua, e chi di là; tanto il suono della sua tartantola ; perché i versi son tanti che egli è forza  che fa salti per qualche uno la liberalità, e un balletto dilettevole, l’oro ha il diavolo addosso, la giovinezza piace la bellezza non si disprezza”[35].

Un anonimo autore pubblica nel 1738 La rete de’ matti ordita (96 pagine) che con tono chiaramente ironico se non satirico dileggia l’astrologia e gli astrologi. Nel titolo stesso troviamo un primo riferimento al tarantismo, la “rete”, ma dopo l’avviso al lettore si promette l’uso della “Sapienza e della perfetta morale” che sono l’antidoto contro il veleno della Pazzia; anche qui i rimandi all’armamentario del tarantismo sono impliciti. Apre la sua trattazione dichiarando l’analogia tarantati-astrologi come due categorie di “Matti”:Evvi una specie d’ insetto, che chiamasi da Latini Falangium, e dagl’ Italiani comunemente, Tarantola Si genera in qualche Paese caldo in specie nella nostra Puglia”. Quindi descrive le manifestazioni coreutiche del fenomeno soffermandosi sul fatto che tali manifestazioni spesso si concentrano in un dato giorno dell’anno: “Qui però non è tutto il mirabile di questi avvelenati, perchè ogni Anno, almeno per una volta, da lor risentesi il furore medesimo”:  qui l’autore scrive di aver visto egli stesso degli “ attarantati “che ho vedu to anch’ io gli Attarantati, ed holli veduti annualmente replicare i furiosi lor balli”;  ma, come chiarisce dopo, questi tarantati sono gli astrologi agitati all’approssimarsi della periodica  apparizione di una certa formazione astrale[36].

Un esempio di dramma sacro, La Fenice d’Avila Teresa di Giesù, di Giuseppe Castaldo, musiche di Francesco Provenzale, in 3 atti, ripercorre la vicenda della monacazione contrastata di Teresa D’Avila. Tra i personaggi, il demonio tentatore che assume varie sembianze, ma anche Rodrigo, “un amante che in segreto soffre tace”, due popolani, ovvero Ciccotto Napolitano e Giampetro calabrese, i quali, sparsasi la voce del futuro matrimonio di Teresa, si preparano a recarsi alle nozze per approfittare del pranzo – “s’unchia la panza”-, presentandosi come musici. Passano in rassegna i vari balli e strumenti musicali per l’occorrenza e poi, per bocca di Giampetro, Vajia la tarantiella/ che è la più bella”. Con la “Tarantella” eseguita da Ciccotto, Giampetro e il coro, si conclude, con la scena XVI, l’atto II:

Tarantola d’amore è un bel sembiante/Che lo core mi va pungendo /Tirititiritommola, /Che lo core mi và pungendo, e non le piante, / E lo punge senza pietà, /Tirititiritommola,/Tarantola mmardetta, e quando Scumpe?/E lo cuollo non te lo rumpe, /Tirititiritommola, /E lo cuollo non te lo rumpe, /Mamma mia, ca ntroppeca: / Chi me lega m’asciogliarrà, /Tirititiritommola. /Tarantula m’afferra a lu ienucchiu,/ Lu talluni mi muzzicau, /Tirititiritummula. /Lu taluni mi muzzicau, e mo gunucchiu/Non mi pozzu chiú frizzicà, Tirititiritummola./Tarantola d’amore è gelosia,/Che pian piano rodendo và,  /Tirititiritommola./Che pian piano rodendo và la vita mia,  /Gran veleno è la beltà. Tirititiritommola/ Tarantola me sciacca, e vò, ch’abballa, /Statte fitto te rumpe la spalla, /Tirititiritommola/ Amore me fa mpazzire, ahi cecavoccola /Me fa fà capotommola,/ Tirititiritommola. /Taranta mi grattughia a cuzzicuni, /E mi vinni la smangiasumi, /Tirititiritummula./E mi vinni la smangiasumi  a li piduni, /Non mi stari chiù a stridià, /Tirititiritummula./ Tarantola vi batte, e dà tormento. /N’è tarantola nò, tirititiritommola, /N’è tarantola nò, ch’è abbattemiento: /Singhi aucisu. /M’havifte à sciacca, Tiritiritommola/[37].

     Il testo di Castaldo non è che un esempio del fenomeno di “spettacolarizzazione che ha portato a Napoli i santi a teatro, soprattutto nella seconda metà del Seicento”[38]. La scena della tarantella era già stata da Castaldo rappresentata nella commedia dedicata a santa Rosalia (1670), ovvero La colomba ferita, che ambientava le vicende di Rosalia nella fastosa corte di Ruggero II. Anche in questo caso le musiche sono di Francesco Antonio Provenzale (1632-1704), “uno dei maggiori compositori d’opera e musica sacra del Seicento e tra i maestri più influenti nella catena didattica napoletana”[39].

Quelli proposti sono solo testi esemplificativi della capacità pervasiva del tarantismo che ben si presta a svariati usi e strumentalizzazioni[40]. La bibliografia è sempre in aggiornamento ed è facile restare impigliati nella sua rete tra dotte citazioni, plagiari di ogni epoca e sorte e contemporanei  “tarantologi”, per finire di malavoglia come novelli Padron ’Ntoni  andando “ tutto il giorno di qua e di là, come se [si ] avesse il male della tarantola”[41].

[1] Il lunghissimo titolo dell’opera è I PREGI MARAVIGLIOSI DEL SANTISSIMO NOME DI GIESV ESPOSTI DAL P. ORTENSIO PALLAVICINO Della Compagnia di GIESV. Per eccitare tutti ad una divota riverenza, e pia invocatione di questo augustissimo nome. S’AGGIVNGONO I PARERII FRA IL NOME DI GIESV, E DI MARIA, Et alcune divotioni insigni pratticate da Santi ad honore del santissimo nome di GIESV, Milano, Filippo Ghisolfi, 1661, pp. 318-330.  Dell’opera conosciamo anche un’edizione ottocentesca: O. Pallavicino, I pregi maravigliosi del santissimo nome di Gesù e la rassomiglianza tra il nome di Gesù e quello di Maria non che alcune divozioni insigni praticate dai santi ad onore del SS. nome di Gesù / esposti dal p. Ortensio Pallavicino, Napoli, Stab. Tip. Dell’Ancora, 1869.

     [2] R. Quaranta, La tarantola nella predicazione sacra (secoli XVII-XVIII) https://www.academia.edu/30804409/Rosario_Quaranta_LA_TARANTOLA_NELLA_PREDICAZIONE_SACRA_SECC_XVII_XVIII_pdf

     [3] Conciones Academicae In Praecipua totius Anni Festa: Ad primariam Nobilitatem, populumque Academicum, Pragae In Auditorio Academico, ab Authore dictae: Opus posthumum (Pragae 1707, 1711, 1718, 1722).

     [4] R. Quaranta, La tarantola nella predicazione sacra (secoli XVII-XVIII), cit., p. 2.

     [5] Il curioso discorso sul “salto” della Tarantola del gesuita Caspar Knittel anche in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/25/un-curioso-discorso-sacro-sul-salto-della-tarantola/

     [6] Prediche fatte nel palazzo apostolico dal M. R. padre F. Girolamo Mautini da Narni vicario generale dell’ordine de frati minori cappuccini terza editione Romana, 1639. Il libro, oltre a quella del 1632, ebbe diverse ristampe: a Venezia (1637) a Roma (1639) e a Parigi (1637).

     [7] R. Quaranta, La tarantola nella predicazione sacra (secoli XVII-XVIII), cit., p. 9.

     [8] I Serafici splendori da gli opachi delle più celebri accademie e rilucenti tra l’ombre di vaghi geroglifici compartiti in concetti tratti dalle divine lettere, contrapuntati dalle professioni humane per li giorni ordinari di quaresima, noto anche come Quadragesimale, edito a Venezia nel 1649 e poi nel 1651, 1654, 1660, pp. 183-196.

     [9] R. Quaranta, La tarantola nella predicazione sacra (secoli XVII-XVIII), cit., p. 12.

     [10] Sacrarum moralium concionum Dominicale, nec non Quadragesimale, quae tanquam aera minuta duo cum vidua paupere in ecclesiae Gazophjlacium primo deponit humiliter a. v. p. lucianus montifontánus Ord. FFr. Min. S. Francisci Capucinorum in Provincia Anterioris Austriae Sacerdos Concionator, Typis Ducalis Monasterij Campidonensis, Anno 1688, pp. 107-113.

     [11] R. Quaranta, La tarantola nella predicazione sacra (secoli XVII-XVIII), cit., p.15.

     [12] Come pure non è citato in D. Rota, I Gesuiti e le Tarantole, Lucca, Libreria musicale italiana, 2012. Nella lettura del tarantismo anche in ambito musicale, imprescindibile riferimento è il gesuita Athanasius Kircker (1602-1680), di cui si occupa la stessa Rota.

     [13] Si veda: C. Sommervogel, Bibliothèque, IV, coll. 115-117, e XII, col. 1176, cit. in G. Signorotto, Inquisitori e mistici nel Seicento italiano. L’eresia di Santa Pelagia, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 217, nota 6. Ortensio Pallavicino fu chiamato a gestire la difficile posizione dei correligionari padri gesuiti vicini al movimento quietista dei Pelagini, che era stato tacciato di eresia. Questo movimento spirituale fu fondato dal laico Giacomo Filippo Casolo presso l’oratorio milanese di Santa Pelagia a metà del Seicento e si diffuse in Veneto e in Lombardia, caratterizzandosi per un’intensa attività devozionale basata sull’esercizio collettivo: Cfr. L. Roscioni, L’eresia della preghiera. Gesuiti e Pelagini tra Lombardia e Veneto nel Seicento, Ediz. Critica, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2021.

     [14] O. Pallavicino, I pregi maravigliosi, cit., p. 369.

 

[15] Nelle trascrizioni si riporta esattamente la grafia originale del testo, senza alcun emendamento.

     [16] O. Pallavicino, I pregi maravigliosi, cit., p. 369.

     [17] La figura evocata dai predicatori è sempre Davide con riferimento alle valenze terapeutiche della musica, secondo quanto riporta il Primo libro di Samuele: “quando dunque lo spirito sovraumano investiva Saul, Davide prendeva in mano la cetra e suonava: Saul si calmava e si sentiva meglio e lo spirito cattivo si ritirava da lui”. Samuele, I, cap .16, v. 23, in La Sacra Bibbia, Edizione ufficiale CEI, Roma, Edizioni San Paolo, 1980, p. 246. Quanto invece a San Paolo, è ben noto l’episodio che ne giustifica il ruolo nel tarantismo ed è riportato negli Atti degli Apostoli, cap. 28, vv. 3-5: “Mentre Paolo raccoglieva un fascio di sarmenti e lo gettava sul fuoco, una vipera, risvegliata dal calore, lo morse a una mano.  Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli indigeni dicevano tra loro: «Certamente costui è un assassino, se, anche scampato dal mare, la Giustizia non lo lascia vivere».  Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non ne patì alcun male”. La Sacra Bibbia, cit., p. 1116. Su tale episodio si innesta il rapporto San Paolo –Taranta: Cazzato e Vallone evidenziano come tale “equazione” si afferma nel Settecento e consolida nell’Ottocento a scapito di San Pietro che come documentano i due studiosi  era in passato riconosciuto come protettore dai morsi della tarantola. M. Cazzato, Da San Pietro a San Paolo. La cappella delle “tarante” a Galatina, Galatina, Congedo Editore, s.d., p. 27, e G. Vallone, Le donne guaritrici nella terra del rimorso: dal ballo risanatore allo sputo medicinale, Pref. di G. Galasso, Galatina, Congedo, 2004.

     [18] [Petronio Ferrifiori], Fiori De’Salmi, Et Affetti D’un’Anima Santa. Con Due Modi Per Viuere in Gratia Di Dio, & Essere Sempre Contento. Composti Dal P. Stefano Binetti Della Compagnia Di Giesu’, Venezia Appresso Nicolò Pezzana, 1661. Scrittore gesuita, nato a Dijon, Francia, nel 1569, Binet morì a Parigi nel 1639. Entrò nella Compagnia di Gesù nel 1690 e fu rettore dei collegi di Rouen e Parigi, e provinciale di Parigi, Lione e Champagne. Fu amico di San Francesco di Sales: Diccionario histórico de la Compañía de Jesús (4 volúmenes) bio-gráfico-temático, a cura di Charles E.O’Neill e Joaquín María Domínguez, Madrid, Universidad Pontificia Comillas, Roma, Insititutum Historicum Societatis Iesu, 2001, p.  950. Come scrive Pellandra, “Binet è uno di quegli autori gesuiti sui quali grava ancora la riprovazione di Pascal”, che lo cita nella lettera IX delle Provinciali: C. Pellandra, L’usage de la maladie chez le Père Étienne Binet, in Littérature et pathologie, Saint-Denis: Presses universitairesde Vincennes, 1989 <http://books.openedition.org/puv/1236>.

     [19] P. Brinacio, Scintille poetiche, o poesie sacre, e morali di Paolo Brinacio Napoletano. In Napoli, Con licenza deSuperiori, 1692, p. 65. Il primo testo a stampa del Lubrano era uscito molto tempo prima. Nell’opera Le egloghe simboliche (Lecce 1642) di Ascanio Grandi infatti, si trova un suo Elogium dell’autore. “Nonostante esprima una netta condanna degli eccessi della poesia marinista, il Lubrano delle Scintille si inserisce a pieno titolo in quel filone, di cui estremizza molti aspetti, riuscendo nel compito non facile di dare un’interpretazione molto originale di uno stile ormai giunto al tramonto. Supportato da un’inventività linguistica straordinaria (grazie alla quale conia un grandissimo numero di neologismi), mette in atto un’accorta strategia retorica, avvalendosi di figure già molto sfruttate nella poesia barocca [..]. Dal punto di vista formale va notata la grande ricchezza delle soluzioni retoriche (particolarmente sfruttata è la figura dell’antitesi), ben in linea con la tradizione della predicazione barocca”: Giacomo Lubrano, a cura di Luigi Matt, in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 66, 2006 (on line).

     [20] G. G. Ferrero, La Letteratura Italiana. Storia e Testi. Volume 37. Marino e i Marinisti, Milano, Ricciardi, 1954, p.1041. M. Niola, Il corpo mirabile. Miracolo, sangue, estasi nella Napoli barocca, Roma, Meltemi, 2002.

     [21] G. Mina, Introduzione, in W. Katner, L’enigma del Tarantismo. La malattia del ballo, a cura di Gabriele Mina, Nardò, Besa, 2002, p.18.

     [22] V. Santoro, Il tarantismo mediterraneo. Una cartografia culturale, Alessano, ItinerArti Edizioni, 2021, p. 76.

     [23] M.L. Doglio, Premessa, in Predicare nel Seicento, a cura di M.L. Doglio e C. Delcorno, Bologna, Il Mulino, 2011, p.11.

     [24] Lettioni di monsignor Paolo Aresi vescovo di Tortona nelle quali discorrendosi dell’essere, natura, cagioni et effetti della tribulatione, molti curiosi dubbi si risolvono, Appresso Nicolò Viola, 1624, pp. 817-818. Paolo Aresi (1574-1644) “è anche autore di Arte di predicare bene (Venezia 1611), edita più volte, anche nel compendio del confratello G. Morandi (Roma 1664)”: Paolo Aresi, a cura di Francisco Andreu, in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 4, 1962 (on line).

     [25] L. Cosi, Tarantole, folie e antidoti musicali del sec. XVII fra tradizione popolare ed esperienza colta, in Tarantismo, transe e possesione, musica, a cura di Gino L. Di Mitri, Nardò, Besa, 2001, pp. 57-58. Della Cosi, «Tirar con esca alla devozione». Musica e strategia missionaria dei Gesuiti nel Seicento, fra Napoli e Terra d’Otranto, in «L’Idomeneo», Rivista della Società di Storia Patria per la Puglia – sezione di Lecce, n. 10, 2008, Galatina, Panico, 2008, pp.

     [26] R. Catello, Il successo mondiale della tradizione del Presepe, in Patrimoni intangibili dell’umanità: il distretto culturale del presepe a Napoli, a cura di Stefano De Caro, Walter Santagata e Massimo Marrelli, Napoli, Guida, 2008, p. 175.

     [27] B. Casciano, Tarantole e Tarantolati e tarantelle nella Spagna del “Siglo de oro”, Elison Paperback, 2021, p. 85.

     [28] M. Spedicato, Chiesa e trasgressione: il tarantolismo in Terra d’Otranto in età post-tridentina, in Rimorso, La tarantola tra scienza e letteratura. Atti del convegno del 28-29 maggio 1991 a San Vito dei Normanni, Nardò, Besa, 2001, pp. 9-2. Si veda inoltre B. Montinaro, Il teatro della taranta tra finzione scenica e simulazione, Roma, Carocci editore, 2019, pp. 20-41.

     [29] P. De Giorgi, Tarantismo e rinascita, Lecce, Argo, 1999, p. 89. Non è forse un caso che in era moderna prima della missione di Carpitella e De Martino del 1959, il tarantismo ritornò alla ribalta nazionale con il fotodocumentario Le invasate di Chiara Samugheo e testo di Emilio Tadini sulla rivista «Cinema Nuovo» del 1955.

     [30] S. Ammirato, Costanzo non è forse ancora un mese, in Le Rime d’Angelo di Costanzo, Cavaliere Napoletano. Quinta edizione delle passate molto più illustrata, ed accresciuta. Si sono aggiunte le Rime di Galeazzo di Tarsia, Autore contemporaneo in Padova: appresso Giuseppe Comino, 1738, p. 114 (Alle pp. 114-124 si trovano le rime dell’Ammirato dedicate a Costanzo). Su Scipione Ammirato (1531-1601) si vedano tra gli altri, la voce a cura di Rodolfo De Mattei, in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 3, 1961 (on line); R. De MatteiVaria fortuna di Scipione Ammirato; Opere a stampa di Scipione Ammirato; Codici di Scipione Ammirato, in «Studi salentini», n. 8, 1960, pp. 352-407; Idem, Scipione Ammirato «Il vecchio» e Scipione Ammirato «Il giovane», in «Archivio Storico Italiano», vol. 119, n. 1, 1961, pp. 63-76, F. Tateo, Divagazioni sul Tacito di Scipione Ammirato, in «Esperienze Letterarie», vol. 28, n. 3, 2003, pp. 4-18; S. Ammirato, I trasformati, a cura di Paola Andrioli Nemola, Galatina, Congedo Editore, 2004; C. VasoliNote sugli «Opuscoli» di Scipione Ammirato, in Nunc alia tempora, alii mores. Storici e storia in età postridentina, Atti del Convegno internazionale, Torino, 2003, a cura di Massimo Firpo, Firenze, 2005, pp. 373-396; Idem, Unità e disunione dell’Italia? Uno storiografo della Controriforma. Scipione Ammirato e la sua replica al Machiavelli, in Le sentiment national dans l’Europe méridionale aux XVIe et XVIIe siècles, a cura di Alain Tallon, Madrid, 2007, pp. 189-203; I. Nuovo, Otium e negotium: da Petrarca a Scipione Ammirato, Bari, Palomar, 2007, pp. 361-387; C. Continisio, Federico Borromeo lettore di Scipione Ammirato (con 17 lettere), in Storia, rivoluzione e tradizione. Studi in onore di Paolo Pastori, a cura di Sandro Ciurlia, Firenze, Edizioni del Poligrafico Fiorentino, 2011, pp. 311-338,

     [31] S. Ammirato, Opere, a cura di Martino Capucci e Marco Leone, Galatina, Congedo Editore, 2002, p. 122.

     [32] R. Frionoro, Il vagabondo, overo sferza de’ bianti, e vagabondi. Opera nuova, nella quale si scoprono le fraudi, malitie, & inganni di coloro che vanno girando per il mondo alle spese altrui. Et vi si raccontano molti casi in diversi luoghi, e tempi successi. Data in luce per avertimento de’ semplici, In Venetia, appresso Anzolo Reghettini, 1627, pp. 51-52. Si riportano i testi sempre in trascrizione paleografica. L’opera, che avrà ampia fortuna anche fuori d’Italia, è una traduzione/rimaneggiamento dello Speculum cerretanorum di Teseo Pini, scritto probabilmente fra il 1484 ed il 1486, che conobbe solo circolazione manoscritta: T. Pini, Speculum cerretanorum, in Il libro dei vagabondi, a cura di P. Camporesi, Torino, Einaudi,1980, pp. 39-40. Diversamente, Tommaso Campanella riteneva i tarantati non dei simulatori («io non credo che quei poverelli pagassero tanto l’anno per finzione a sonatori»): T. Campanella, Del senso delle cose e della magia, p. 260, cit. in M. Combi, Tommaso Campanella, il morso della tarantola e la magia naturalis, in Antropologia e scienze sociali a Napoli in età moderna, a cura di Roberta Mazzola, Roma, Aracne editrice, 2012, pp. 20-21. Come scrive Di Mitri, il Frionoro ci trasmette un’immagine del falso tarantato “tra il picaresco e l’oleografico quasi che i protagonisti del racconto uscissero dalla commedia dell’arte o da una corte dei miracoli”: G.L. Di Mitri, Storia biomedica de tarantismo nel XVIII secolo, Firenze, Olschki, 2006, p.3.

     [33] G. L. Di Mitri, Storia biomedica del tarantismo, cit., p. 2. Per un raffronto tra teatro e interpretazione del fenomeno: B. Montinaro, Il teatro della taranta tra finzione scenica e simulazione, cit., pp. 43-60. P. Sisto, La metafora della tarantola: storia e leggenda dello stellione fra antichi e moderni, in «Esperienze letterarie», Pisa- Roma, Fabrizio Serra editore, XLIII, n. 4, 2018, pp. 53-65.

     [34] L. Spalanca, Il potere della parola. Gli Inferni di Anton Francesco Doni, in DNA – Di Nulla Academia Rivista di studi camporesiani, Vol. 2, n. 2 (2021), p. 30: Inferno e Post-Inferno I DOI: 10.6092/issn.2724-5179/ e A.F. Doni, I mondi e gli inferni / Anton Francesco Doni, a cura di Patrizia Pellizzari; introduzione di Marziano Guglielminetti, Torino, Einaudi, 1994.

     [35] Ibidem. Su Doni si veda Il segreto della Commedia dell’arte: la memoria delle compagnie italiane del XVI, XVII, XVIII. Secolo, a cura di Ferdinando Taviani, Mirella Schino, Firenze, La Casa Usher, 1986, p. 357.

     [36] La rete de’ matti ordita da deliri del grande stolto celeste calcolata al meridiano, ed orizonte di Brescia, sopra l’anno bisestile 1738, In Brescia: per Giacomo Turlino, 1738, pp. 9-10.

 

     [37] La Fenice d’Avila Teresa di Giesù melodrama sacro, del dottor Giuseppe Castaldo, Nella stampa di Michele Luigi Mutio (senza data), pp. 41-42. Croce ci fornisce alcune informazioni sulla fortuna di quest’opera da fonti d’epoca: B. Croce, I teatri napoletani: sec XV –XVII, Napoli, Presso Luigi Pierro 1891, p. 156; inoltre V. Viviani, Storia del teatro napoletano, Napoli, Guida editori, 1969, p. 202. Come osserva Surian, l’introduzione di elementi farseschi e di personaggi di carattere comico e coreografico e l’accostamento dell’aspetto agiografico spettacolare saranno fra i tratti tipici del teatro dal Seicento: E. Surian, Manuale di Storia della musica Vol. I Dalle origini alla musica vocale del Cinquecento, terza edizione riveduta, Milano, Rugginenti editore, 2002, p. 283. Su Castaldo: F. Dinko, Gennaro, Rosalia, Teresa e gli altri: i santi nel teatro musicale sacro del Seicento a Napoli, in «Sanctorum: rivista dell’Associazione Italiana per lo studio della santità, dei culti e dell’agiografia», n. 6, 2009, pp.116-119.

[38] F. Dinko, Gennaro, Rosalia, Teresa e gli altri, cit., p.  93.

     [39] Voce, a cura di Fabris Dinko, in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 85, 2016 (on line).

     [40] Vari sono i riferimenti al tarantismo riportati in F. M. Attanasi, Il tarantismo in musica: preliminari storici per un’indentificazione musicologica, in L’eredità di Diego Carpitella. Etnomusicologia, antropologia e ricerca storica nel Salento e nell’Area Mediterranea, Atti del convegno Galatina 21-23 giugno 2002, a cura di Maurizio Agamennone e Gino L. Di Mitri, Nardò, Besa, 2003, pp. 243-250. I. Nuovo, Presenze del tarantismo nella produzione letteraria umanistico–rinascimentale, in La Magia e le arti nel Mezzogiorno, a cura di Raffaele Cavalluzzi, Bari, Ed. B. A. Graphis, 2009, pp. 49-69. Una ottima bibliografia del tarantismo in G. Mina, La tela infinita: bibliografia degli studi sul tarantismo mediterraneo, 1945-2006, Nardò, Besa, 2006.

[41] G. Verga, I Malavoglia, Introduzione e note di Nicola Merola, Milano, Garzanti, 1983, p. 47.

 

Baiadere in gennaio

di Paolo Vincenti

Scennaru ssuttu se ccoje tuttu, secondo il detto popolare salentino.

Ma questo gennaio, come del resto tutti gli altri mesi, è infestato da un insopportabile scirocco sicché il vento umido credo favorisca ben poco la raccolta (allora, scennaru muddhatu, furese rruvinatu). L’aria malata che si respira la mattina quando si apre la porta di casa smorza quel caldo tepore procurato dagli umori soppannati del sonno appena lasciato, sottrae davvero le energie e la voglia di fare, toglie il consiglio che, secondo il noto adagio, la notte porta, strappa l’oro in bocca che, secondo un altro adagio, il mattino ha con sè; insomma, quando si esce a ritirare il secchio della spazzatura, in quel clima malarico e umidiccio, si vorrebbe solo ritornare a letto e rimandare gli impegni lavorativi al giorno dopo. Se poi il paese è avvolto da una fitta coltre di nebbia, peggio mi sento.

Quella pioggerella sottile che titilla il cranio e impregna di vapore acqueo i vestiti, gli scialli, le scarpe, rende sgradevole il pensiero di dovere attraversare la giornata, sicché, se fosse possibile, chiunque annullerebbe tosto gli impegni e gli spostamenti in macchina, che diventano più rischiosi con la scarsa visibilità. Non tutti, però, hanno il privilegio di potere organizzare la propria giornata a seconda degli umori o degli agenti atmosferici: in genere chiunque deve seguire una tabella di marcia già fissata, una prestabilita agenda giornaliera. Ieri, mentre meditavo sugli scherzi del tempo che subiamo qui a sud, e ristavo, tutto preso da simili burbanze, nel paesaggio bircio che mi si stagliava davanti, in quel vedo-non-vedo tipico dell’ora primomattutina, quando la foschia allaga la città, mi è sembrato di scorgere una figura femminile a me famigliare procedere a grandi passi verso casa mia sulla strada principale.

In realtà, man mano che si avvicinava mi diveniva più chiaro che non si trattava di un’amica o una parente, bensì di una perfetta sconosciuta. Avevo scambiato le sue fattezze per quelle di una donna a me cara. Ero stato confuso dalla caligine che rende i contorni incerti, come quando si ritorna al tramonto a casa, in macchina, e nel lusco e brusco dell’ora non si afferrano perfettamente le fattezze delle cose e le fisionomie delle persone. Si trattava di una bella donna, a giudicare dalla sua silhouette.

Oggi noi diciamo silhouette dal nome del ministro delle finanze francese Étienne de Silhouette (1709-1767) il quale emanò dei decreti fiscali talmente severi che si fece odiare dal popolo tassato oltremisura, ma anche dai nobili ai quali veniva imposto di versare tutti i propri averi in oro e argento all’erario. Alla fine dovette dimettersi. Si giunse ad indicare col suo nome quei ritratti che erano allora di moda, disegnati secondo l’ombra del volto ritagliata su un foglio, come dire che le imposizioni fiscali del ministro avevano portato le persone sul lastrico, riducendole ad ombre di sé stesse. Allo stesso modo vennero definiti “alla Silhouette” i pantaloni senza tasche.

I miei pantaloni invece hanno le tasche e dentro di esse io ho portato istintivamente le mani come per simulare indifferenza mentre invece attendevo con curiosità di capire chi fosse quella donna in avvicinamento. Mi sono accorto ben presto che si trattava di una passeggiatrice, pardon, una lavoratrice del sesso, dalla sua inconfondibile chincaglieria e dall’incedere plateale. Ma che ci fa una lavoratrice del sesso nei pressi di casa mia, mi sono chiesto, dal momento che mai in questo quartiere e nemmeno in tutto il paese se ne sono viste? La mia non era una preoccupazione di ordine morale, lungi da me, ma il desiderio di capire cosa avesse spinto quella prostituta ed il suo accompagnatore in una zona mai battuta dal meretricio. Sì, perché la signorina, che chiamare lucciola era più che mai appropriato in quel semibuio, si accompagnava ad un omaccione corpulento e dai modi spicci che pareva essere il suo protettore. Forse avevano sbagliato quartiere, magari la macchina era rimasta in panne, chissà quale ventura li aveva recapitati lì, ma essi procedevano a passo sicuro verso qualche mèta a me ignota. Che strana coppia. Lei, Clitennestra quadrantaria, ossia una bagascia da quattro soldi, seppur bella, come Cicerone definisce Clodia nella orazione Pro Coelio (XX)[1], e lui, il lenone, pornoboskòs in greco, che la seguiva passo passo quasi temendo che qualcuno potesse soffiargliela e sottrrargli, con lei, la possibilità di lauti guadagni[2]. Un detto popolare recita: fimmina te talaru, caddhina te puddharu, trija te scennaru.

Si addice a gennaio, dunque, secondo la mentalità patriarcale del passato, la donna che lavora al telaio, ossia la brava donna, devota alla casa e alla famiglia, morigerata, come la gallina di pollaio che non se ne va per i boschi libera e giuliva (ma quella è l’oca). Invece non è condecente al periodo la puttana, che nel passato era detta baiadera. Le baiadere (anbubaiae) erano nell’antica Roma le donne siriane suonatrici di flauto (anbub), per esteso le cortigiane. Della corporazione delle baiadere parla Orazio nella Satira II del Libro primo[3]. Siccome le cortigiane offrivano i loro servizi sui margini delle strade, venne dato loro il nome all’erba che cresce sul ciglio.

Quand’ero molto giovane e studiavo la cultura classica, mi piaceva far sfoggio di quelle acquisite conoscenze con i miei cari. Non ero allora certo entrato nell’ambiente degli studiosi e della promozione culturale sicché i miei referenti erano a volte gli amici più intimi o addirittura i genitori. Mi capitava in quel tempo, un po’ per sfoggio di bravura un po’ per provocazione, di sciorinare dei termini aulici per indicare cose prosastiche, nobilitare insomma con definizioni latine concetti terra terra. Definivo per esempio “lenone” o “prosseneta” il magnaccia e “baiadere” le prostitute. Beh, in effetti un conto è dire puttana ad una meretrice, un altro è dire baiadera.

Ricordo che di fronte a queste arguzie, mio padre, sempre scettico se non pegiudizialmente avverso a qualsiasi cosa uscisse dalla mia bocca, una volta esclamò: “ah poveri sordi mei. Aggiu spisi tanti sordi cu te fazzu studiare e ddici ste cazzate!”. In fondo mi sono sempre sentito un po’ giullare, un funambolo, un pagliaccio, un cantimpanca. Fatto sta che la passeggiatrice e il suo protettore sono spariti come erano giunti, assorbiti dalla nebbia che ancora veleggiava sulle contrade di un gennaio morto come le cose richiamate dal suo triste ricordo. Chissà da dove provenivano e dove erano diretti. Il mio paese, Ruffano, deve essere stato per loro solo una stazione, un luogo di passaggio, un transito obbligato per altre più lucrose mete o magari essi venivano qui in avanscoperta, avendo saputo che questo è ormai il paese dell’amore e avendolo eletto a nuova piazza di meretricio. Se è così, lo sapremo, magari in primavera: per restare ai detti nosci: scennaru face lu peccatu e maggiu se lu chiange.

Rientrato in casa, mi sono preparato per uscire perché l’ufficio mi attendeva e a baiadera e prosseneta non ho più pensato, tutto preso dal lavoro. Poi, stasera, sentendo là fuori i gatti in calore che emettono incredibili lamenti nelle loro schermaglie amorose, mi sono ricordato di quello strano incontro di ieri, in questo scennaru, menzu duce e menzu maru.

 

 

[1] Cicerone, Difesa di Marco Celio, Introduzione di Emanuele Narducci, Milano, Rizzoli, Bur classici greci e latini, 1989, p. 54.

[2] Si legga il divertente Mimo 2 di Eroda. Eronda, Mimiambi (I-IV), a cura di Lamberto Di Gregorio, Milano, Vita e Pensiero Pubblicazioni dell’Università Cattolica, 1997, pp. 10-18.

[3] Orazio, Satire, a cura di Mario Labate, Milano, Rizzoli, Bur classici greci e latini, 2018, p. 87.

Dialetti salentini: ‘nnizzu, ovvero Nardò-Avellino 0-2

di Armando Polito

Una doverosa, anche se un po’ campanilistica, premessa: l’incontro al quale fa riferimento il titolo fu disputato in campo neutro …
Di fronte ad una parola dialettale è quasi automatico pensare all’esistenza o meno di un corrispondente italiano e controllare la congruenza fonetica e semantica tra le due voci mettendo nel dovuto conto che la parziale differenza fonetica può essere il frutto di condizionamenti di varia natura, che possono rendere difficoltosa la ricostruzione della trafila; ancor più complesso, poi, può il controllo della congruenza semantica pensando ai molteplici, in alcuni casi apparentemente contraddittori, slittamenti metaforici. In alcuni casi la corrispondenza non appare immediatamente perché lo stesso etimo di base risulta perfettamente conservato nella voce dialettale e camuffato in quella italiana. Un esempio illuminante a tal proposito è rappresentato dal salentino crai=domani, che è dal latino cras: quest’ultimo in italiano sopravvive solo nel composto procrastinare. Può succedere pure di sbattere la testa per un bel po’ non trovando per la voce dialettale l’immediato corrispondente italiano, a causa delle trasformazioni finetiche e semantiche di cui sopra. ‘Nnizzu, con la sua storia etimologica, ne rappresenta la testimonianza pià concreta. Ma, prima di tutto, cos’è, anzi cos’era questo ‘nnizzu? Era una tacca posta all’interno di un recipiente come livello di misurazione.
Oggi sappiamo con certezza che la voce ha il suo perfetto corrispondente italiano in indizio, dal latino indiciu(m)=indicazione, segno, prova. Le trafile, poi, che hanno portato da indicium a indizio e a ‘nnizzu sono da manuale:
indicium>indizio: normale evoluzione di -ci- in -zi- come in iudicium>giudizio
indicium>’nnizzu: evoluzione di -ci- in -z-, ma con raddoppiamento di -z-, come in cannizzu da cannicium, con l’italiano che qui mostra il raddoppiamento dell’originario -c-; in più ‘nnizzu presenta un passaggio *indizzu>*innizzu (assimilazione) e, finalmente, ‘nnizzu (aferesi1).
Fino ad un passato più o meno recente, però, nessuno si era chiesto quale fosse l’etimo di ‘nnizzu. Era fatale, dunque, che come spessissimo succede in questo campo, prima o poi si verificasse uno scontro. Tutto ebbe inizio esattamente il 15 giugno del 1889, quando sul Giambattista Basile (a. VII, n. 6), prestigioso quindicinale napoletano, comparve il contributo del neritino Luigi Maria Personè (1830-1898) nella rubrica Etimologie neritine, spazio a lui riservato.

Alla stessa rivista collaborava pure un giovanissimo letterato di Avellino: Giulio Capone (1863-1892) nelo spazio a lui riservato, dal titolo Noterelle filologiche. Nel n. 11 del 1 ottobre dello stesso anno il Capone criticò ferocemente il neritino, come si legge nel dettaglio riprodotto.

 

Ad onor del vero va detto che lo scontro si concluse con la vittoria dell’avellinese sul neritino per 2-0, come premesso nel titolo, perché il Personé nulla poté ribattere alle osservazioni fatte dal Capone nello stesso contributo  sull’etimo di sularinu, avanzato dal neritino in un numero precedente della rivista. Raccontata così, sarebbe avventato credere che il Personè fosse uno sprovveduto. Egli fu tutt’altro e, nonostante questi due abbagli etimologici, non è certo casuale e senza significato il fatto che il Rohlfs nel suo Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto) cita tra le fonti le sue Etimologie neritine, anche se non poté servirsene a pieno per la difficoltà, ieri più di oggi, di reperimento di tutti i numeri del Giambattista Basile che ospitarono i contributi del neritino. È antipatico fare confronti (in questo caso con l’altra fonte neritina citata nell’opera, ma, prima di chiudere, voglio riportando quanto vi si legge:

Chiudo ricordando che con la toppa di ‘nnizzu il Personè pagava un tributo ad una “moda etimologica” inm auge fin dal principio di quel secolo e ripresa in tempi a noi più vicini da un altro salentino, Giovanni Semerano (Ostuni, 1911 – Avezzano, 2005). Dopo l’interesse iniziale suscitato dalla relativa nobità delle proposte etimologiche, la sua metodologia ha promosso un animato dibattito in cui il giudizio negativo, sostanzialmente basato sulle stesse osservazioni fatte dal Capome, ha finito per prevalere.

_____________

1 Proprio per questo fenomeno finale, incontrovertibilmente mostrato dalla trafila, ritengo più corretta la mia grafia (‘nnizzu) adottata nel titolo e replicata in tutto il post,  di quella del Personè, del Capone (che pure nella sua scheda conferma quella).

 

Libri| Gran Varietà di Paolo Vincenti

OMAGGIO AL POTERE DELLA PAROLA E ALLA SUA CAPACITÀ DI IN-CANTARE

 

di Maria Antonietta Epifani

Il linguaggio con il quale noi parliamo con gli altri, quello di tutti i giorni, si è modificato man mano in un linguaggio nel quale è difficile trovare la parola giusta, un linguaggio che porta a poco a poco a superficializzare i rapporti umani, appiattendoli nel dire consueto.

Essendo originariamente incantesimi, le parole conservavano ancora intatta la vis primordiale del suono che crea e dà contenuto alla realtà immaginata.  L’energia segreta della parola è stata custodita nella parola stessa, che può essere parlata, cantata e dunque ascoltata. Il soffio, l’alito della parola “incantata”, diviene strumento di attivazione di quel principio terapeutico interno alla realtà che ci consente di “leggere” la stessa realtà, condividerla e comunicarla.

Paolo Vincenti, ricercatore, scrittore e saggista, questo lo ha compreso, consegnandoci un saggio avido di conoscenza che non rimane chiusa nel suo forziere, ma che consegna alla comunità di lettori perché ne possano fare tesoro. Infatti, “i diletti e le divagazioni erudite, interessi, ansie e ilarità aggallano in questo libello che, pur con i suoi pregi e difetti, fra articoli, saggi e note, costituisce, negli elzeviri qui raccolti, un significativo squarcio del più recente periodo della mia vita”, dirà l’autore. Il suo è un parlare autentico che ha attinto alla ricchezza espressiva della nostra lingua e ha recuperato anche i perimetri destinati al silenzio. Le parole, in un continuo inseguirsi, formano una trama appetitosa: il risultato è una raccolta stuzzicante che permette al lettore di entrare in spazi insoliti.  E così, l’autore alterna parole “domenicali” a parole “feriali”, parole cariche di senso a parole svuotate, esperimenti verbali a consuetudini consolidate, pescando nella curiosità e creatività linguistica tipica del bambino, spazio elettivo dove il prestare attenzione è, ai suoi occhi, estremamente importante.

Questo è un libro per persone affette dal morbo della curiosità che penetra, come fosse un’idea guida, nelle pagine avvolgendo razionalmente ed emotivamente chi legge. In fondo cos’è la curiosità? È quella motivazione cognitiva che “spinge i creativi a comporre le proprie opere, si manifesta come ispirazione, fervore, uzzolo, ghiribizzo, sfizio, […] muove i ricercatori e gli esploratori, spinge i naviganti a mettersi in viaggio”. E riprendendo l’immagine di Ulisse, «l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto» (Inferno, XXVI, 98), si affaccia quella curiosità che rende l’uomo diverso dalle bestie: «considerate la vostra semenza/: fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e canoscenza»(Inferno, XXVI,118-120). In Simulacri scrissi che la curiosità, è un demone che «eccita la sperimentazione intellettuale e allontana dall’inquinamento culturale del consueto per fuggire dalla serialità del quotidiano e dalla norma»[1].

Il libro leggero (florealia, stromata o livre de chevet, come lo definisce il suo autore), composto da una serie di piccoli saggi altalenanti fra il sapere antropologico e sociologico, storico e sociale, letterario e musicale, gastronomico e massmediale, è appunto un “Gran Varietà”, così come recita il titolo. È un viaggio intellettuale che rende manifeste tutte le facce del proteiforme Paolo Vincenti, il quale ha fornicato con le diverse aree del sapere, divertendosi e facendoci divertire. È ancora una citazione di un programma televisivo “Il Cappello sulle Ventitrè”, trasmesso da Rai 2 dal gennaio 1983 a settembre 1986 nel palinsesto delle trasmissioni di seconda serata del sabato a fare da titolo all’introduzione.

I piccolo saggi, “quasi tutti figli di momenti alati di brio e ilarità”, sono occhiate sul tempo altro e sul nostro tempo, ritratti di tendenze, gusti, e interessi, frutto di una memoria erudita di chiara matrice libresca e di letture attinte alla contemporaneità. Il libro, che riprende ambiti di ricerca di cui l’Autore si è negli anni occupato, può essere letto preferendo ciò che desta l’interesse personale, senza che questo faccia perdere il filo della narrazione, che facilmente si ritrova.  Le peregrinazioni fra passato e presente sono la spia che il protagonista indiscusso di questi piccoli saggi è la necessità di comunicare. Così, nel tempo riservato alla lettura di vecchie e nuove narrazioni, si apre un varco verso una dimensione altra: lo spazio dell’anima. Un tempo senza tempo che si dilata o si ferma, procede in avanti o guarda indietro; un tempo che può somigliare a un istante o incontrarsi con l’eternità. In questo momento storico iper-connesso, l’orecchio è sordo ai richiami dell’anima e sappiamo quanto le storie siano terapeutiche, cosa ben nota agli antichi cantastorie.

Kafka nella lettera a Oskar Pollak affermava che si dovrebbero leggere solo quei libri che “mordono e pungono” e che abbiano sul lettore l’effetto di una disgrazia che fa male, come per esempio la morte di qualcuno al quale eravamo legati; i libri dovrebbero essere capaci di rompere quel blocco di ghiaccio che ognuno di noi ha e chissà che questo non sia stato il pungolo che ha mosso la stesura di Gran Varietà.

 

[1] Catalogo della mostra di Uccio Biondi del 2003, a cura di Massimo Guastella, presso Cantieri Teatrali Koreja di Lecce

Voltagabbana

“Per il galletto sulla torre ogni vento è buono”. Proprio come i galletti segnavento che ancora vediamo sulle terrazze di alcune abitazioni, i voltagabbana seguono il vento che tira e si comportano di conseguenza. Essi cambiano la casacca all’occorrenza e riescono sempre a riciclarsi con ogni governo, proprio come il protagonista del poemetto satirico Il Brindisi di Girella di Giuseppe Giusti (dedicato a Talleyrand) il quale riesce a seguire sempre il vento giusto e sa cogliere l’opportunità con sfacciata ipocrisia, “Franza o Spagna purchè se magna”, insomma. Il popolo è bue, si sa, ed allora oggi tutti dietro alla destra, come domani saranno dietro alla sinistra e domani l’altro magari al centro: “come intona l’abate, i frati rispondono”, tutti dietro a chi comanda, similmente al gregge che segue il cane pastore.

Certo, è difficile diventare “egregio” non solo sulle intestazioni delle lettere ma nella vita; bisogna sforzarsi almeno di tracciare un solco e non seguire semplicemente quello degli altri.

Anch’io provo onestamente quanto risolutamente ad allontanarmi dal luogo comune, come diceva Callimaco. Nella sua opera più importante, gli Aitia, nel Prologo, il poeta si scaglia contro i suoi avversari, gli invidiosi Telchini, dicendo: “…i luoghi per cui non passano i pesanti carreggi, quelli tu devi calcare; sull’orme comuni degli altri mai spingere il cocchio, né per il cammino di tutti, anzi le vie più strane, anche se di angusto passaggio, quelle tu prenderai. Giacché per coloro cantiamo che ambiscono l’armonico suono delle cicale, e non già amano il frastuono degli asini”[1].

Forse peggiori dei voltagabbana ci sono solo gli adulatori. “Vanità di vanità”, per citare la Bibbia: ad un plotone di adulatori corrisponde un esercito di adulati, cioè se il mondo è pieno di leccaculo evidentemente ci sono anche tanti vanesi che amano sentirsi blanditi, corteggiati. Ma se uno vuole essere incensato è probabilmente perché la sua anima puzza ed il fetore è talmente ributtante che ha bisogno di essere coperto, come le bagasce si truccano vistosamente per nascondere rughe e imperfezioni fisiche.

Sì sì, evitiamo gli adulatori. È facile finire da loro blanditi e cadere nella trappola. Essi direbbero qualsiasi cosa per compiacere. E a forza di leccare, questi servi fanno carriera e riescono ad arrivare nei posti di comando. Dice un adagio popolare: “Alla scuola dei ciuchini ogni astuto somarone, con moine ed inchini, si conquista il suo barone. Passa un giorno, passa l’altro, li ritrovi poi al liceo, e qualcuno, un po’ più scaltro, a ragliare all’ateneo”[2].

Le moine alla lunga stancano. Quelle svenevoli finte delicatezze molciono un animo predisposto all’adulazione ma non possono averla vinta su chi, come me, detesta l’affettazione. Io mi accorgo subito se un importuno è semplicemente scemo o è un lecchino. Anche perché i lecchini tanto si piegano che scoprono le terga e infatti hanno la faccia come il culo.

Poi ci sono quelli che non hanno un minimo di personalità e scimmiottano i gesti altrui. C’è chi trascorre tutta la vita all’ombra di qualcun altro. Si tratta di meschini replicanti che emulano il fare degli altri perché non gli riesce di avere una certa originalità o almeno una cifra personale e distintiva, e torniamo a Callimaco.

Il lecchino può essere petulante: “pussa via, lontano da me!”, mi vien fatto di dire. Ed anche il voltagabbana deve asolare da me lungi. Sloggiate, brutta gente, la mia non è casa vostra.

 

[1]Callimaco, Gli Aitia, in Guido Carotenuto, Letteratura greca. Storia testi traduzioni, Treviso, Canova, 1989, p. 157.

[2] Dal Calendario di Frate Indovino.

Per Franco De Paola, un gentleman salentino

di Paolo Vincenti

 

Franco De Paola ha saputo unire nei suoi studi, in fertile connubio, il Salento e l’Inghilterra, e proprio questo scambievole legame si è voluto esprimere nel 2019, in occasione del compimento del suo ottantesimo genetliaco, con il titolo del libro che la Società di Storia Patria per la Puglia di Lecce gli ha dedicato, ovvero: Dalla rupe di Leuca alle scogliere di Dover. In onore del viaggio di Francesco De Paola[1], un volume che giungeva a coronamento di una vita spesa al servizio della collettività, per la grande e la piccola patria, per quest’ultima soprattutto, a vantaggio della sua crescita culturale e per la sua edificazione morale. Ci si riferisce ai lunghi anni di esercizio della nobile professione di docente e alla altrettanto lunga militanza di studioso impegnato sul campo. Ci si riferisce del pari al costante impegno nelle ricerche archivistiche e bibliografiche e all’acribia nello svolgimento del faticoso e non di rado ingrato lavoro di scavo; ci si riferisce ancora alla costante generosità dimostrata a non pochi colleghi nel mettere la propria competenza a disposizione del tutto disinteressatamente, nel condividere i frutti delle proprie ricerche rispondendo solo ad un intimo desiderio di socializzare la cultura dei luoghi.

 Come scrive Mario Spedicato nella Presentazione del succitato volume:

Le due radici della sua formazione, anglista e salentina, convivono nella sua persona e si esprimono senza contrastarsi nel suo modo di essere, signorile nel suo aplomb di stampo britannico e caloroso nella relazione interpersonale propria della gente della nostra terra. E trovano efficace sintesi pure nella sua produzione culturale. Non è un caso che il primo destinatario delle sue attenzioni (primo sia in ordine cronologico che per profusione di energie e di tempo) sia quel Giulio Cesare Vanini il cui studio ha costituito un passaggio obbligato per tutti quegli studiosi salentini – di Taurisano in particolare – che non hanno resistito all’indubbio fascino esercitato da questo filosofo e che ne hanno fatto un banco di prova delle competenze archivistiche e storiografiche maturate. Proprio nell’esperienza umana e intellettuale del filosofo, De Paola ha identificato uno degli innumerevoli (e non sempre visibili) fili intessuti tra la Terra d’Otranto e i grandi centri dell’Europa che contava nel Seicento[2].

Con l’adesione alla sezione di Lecce della Società di Storia Patria per la Puglia, di cui diventa uno dei più attivi collaboratori, si apre la seconda stagione della sua vita di studioso, quella in cui De Paola si occupa più dappresso della storia locale, con specifico riferimento alle dinamiche economiche dei secoli scorsi in Terra d’Otranto, riservando una attenzione filiale alla propria terra. Ciò è evidente dalle ricerche più settoriali, che lumeggiano aspetti legati agli andamenti demografici delle realtà municipali, alle congiunture politiche fra Cinque e Ottocento, ai processi di eversione della feudalità, ai complessi rapporti fra popolo e baroni con pesanti strascichi che si protraggono fino all’inizio dell’età contemporanea, ai rapporti con la Chiesa e alle opere caritative assistenziali colte nella loro genesi e formazione[3]. Emblematiche in questo senso le due opere, L’Università di Casarano nel Catasto antico del 1722[4] e La civica Università di Taurisano nei Registri del ’600 dell’antica Terra d’Otranto[5].

De Paola sa bene quale sia il compito dello storico, ovvero quello di privilegiare sempre la ricerca della verità, distinguere il vero dal falso; e siccome lo scorrere del tempo rende molto labili i confini fra ciò che è certo e ciò che non lo è, questo compito può diventare ancora più insidioso. Non basta. Lo studioso non è alieno dalle umane passioni e da ideologie o appartenenze politiche. Tuttavia, lo storico di razza cerca di annullare il proprio punto di vista e le proprie convinzioni quando compulsa i documenti d’archivio e, pur consapevole che l’oggettività assoluta non esiste, dà tutto sé stesso, a volte anche con pesanti rinunce economiche e di carriera, per la nobile missione di tramandare la memoria del passato, scrostata dalle false credenze, dalle opinioni, dalle superstizioni, finanche dalla malafede di pessimi cronisti che per i calcoli del momento hanno tendenziosamente falsificato i documenti o distorto i fatti

A lui si deve anche l’impegno nel ricordare alcuni studiosi scomparsi quali: Luigi Crudo[6], Ottorino Specchia[7], Aldo de Bernart[8], Rocco De Vitis[9]. Sempre apprezzati i suoi interventi sulle varie riviste con cui collaborava, come «L’Idomeneo», rivista della SSPP di Lecce e dell’Università del Salento diretta da Mario Spedicato, e poi «Presenza Taurisanese», diretta da Luigi Montonato, «La Nuova Taurisano», direttore Santo Prontera, «Il delfino e la mezzaluna», di Marcello Gaballo.

Dedica attenzione anche all’arte dell’amico fraterno e sodale Donato Minonni, scultore taurisanese, anch’egli membro della SSPP di Lecce. Nel 2011 Minonni realizza un busto marmoreo di Giosuè Carducci che, posizionato nel cortile dell’omonimo edificio scolastico taurisanese e voluto dal Circolo Tennis “G. Verardi” di Taurisano, viene inaugurato in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Nell’occasione Aldo de Bernart stampa una plaquette dal titolo Giosue Carducci nei miei ricordi, Taurisano dicembre 2011, nella quale compare una breve nota storica di De Paola sull’edificio scolastico “Carducci”[10]. Dopo svariate realizzazioni di Donato Minonni dedicate a Giulio Cesare Vanini[11], nel 2015, un busto del 1969, conservato ma maldestramente legato con filo di ferro nell’edificio scolastico “Vanini” di Taurisano, viene rifatto per volontà dello stesso scultore. Nell’occasione esce, ad opera di De Paola, G.C. Vanini. Il busto di Minonni e la tradizione iconografia italiana[12]. Ancora, nel 2021, su iniziativa del taurisanese Circolo Tennis “G. Verardi”, pubblica Donato Minonni. L’artista salentino che ama inseguire il bello[13]. Intanto suoi contributi appaiono sulla rivista «Annu Novu Salve Vecchiu».

Lungo e saldo negli anni il suo rapporto di amicizia con il versatile studioso e collega docente Gino Pisanò, per il quale cura l’ultimo volume pubblicato in vita, pur non volendo comparire come curatore in copertina[14]. A Pisanò De Paola dedica un saggio nel volume di studi in memoria, pubblicato dopo la prematura scomparsa dell’umanista salentino[15]. Granitico, del pari, è il suo rapporto di amicizia con il presidente della SSPP di Lecce, Mario Spedicato, improntato a reciproca stima e unità di intenti. Quando nel 2019 viene pubblicato un volume di studi a Spedicato dedicato da amici e colleghi di tutta Europa, quella di De Paola non può mancare fra le illustri firme che impreziosiscono i due ponderosi tomi che compongono il libro[16].

Nel 2020, in occasione del compimento degli 80 anni, la SSPP di Lecce gli dedica il già richiamato volume Dalla rupe di Leuca alle scogliere di Dover In onore del viaggio di Francesco De Paola. Il libro viene presentato nella Parrocchia SS. Martiri G.nni Battista e M. Goretti Taurisano, l’11 settembre 2020, con Mario Spedicato, Giancarlo Vallone, Eugenio Imbriani, mons. Salvatore Palese. Una bellissima occasione per chi gli vuol bene di festeggiare lo studioso, il docente, l’amico. De Paola, visibilmente commosso, è quasi sopraffatto dal calore manifestatogli anche da vecchi alunni che rivede dopo svariati anni. In quel frangente, sull’onda lunga dell’emozione destata dalla presentazione del libro, su iniziativa di una sua ex alunna del Liceo Scientifico “Vanini” di Casarano, viene creato un gruppo whatsapp in cui sono inseriti moltissimi ex studenti di svariate annate scolastiche ed alcuni, pochissimi invero, docenti di quegli anni, in primis De Paola. Egli, poco confidente del mezzo tecnologico, pur ritrovandosi suo malgrado catapultato in una realtà amena quale quella del social, si lascia trasportare dall’entusiasmo dei partecipanti e, sul filo dei ricordi, interagisce rispondendo ai messaggi di stima con il garbo e la signorilità che gli sono propri.

Questi anni vedono Franco trascorrere il tempo fra studio e socialità. Le giornate sono scandite per lui da appuntamenti fissi, come quello del caffè della mattina, in un bar della zona, insieme ai più stretti amici, quali Minonni, Ivano Colona, Mario De Icco, Flavio Preite e Antonio Tornesello, e quello improrogabile ma sicuramente più fastidioso del disbrigo delle pratiche burocratiche, Poi, il pomeriggio è dedicato alla scrittura e alla riflessione. Spesso segue insieme alla consorte la compagnia taurisanese in viaggi di gruppo alla scoperta delle principali città d’arte italiane ed europee.

Le sue ultime iniziative pubbliche sono legate all’amico di una vita Donato Minonni. È al suo fianco quando il 9 febbraio 2022, dopo un lunghissimo iter burocratico, un nuovo busto di Giulio Cesare Vanini realizzato da Minonni e donato all’Università degli Studi del Salento, viene inaugurato nell’atrio del Dipartimento di Filosofia alla presenza del Magnifico Rettore dell’Unisalento, prof. Fabio Pollice, e di altri rappresentanti istituzionali, oltre che di un folto pubblico. Il 6 marzo 2022 si tiene poi nella città natale di Minonni e De Paola, presso il Teatro della Chiesa SS. Maria Goretti e Giovanni Battista, una manifestazione dal titolo “Il Vanini nell’arte di Donato Minonni”, organizzata dalla Società Storia Patria di Lecce e dal Circolo Tennis “Verardi” di Taurisano, con relazioni degli stessi Minonni e De Paola, di Mario Spedicato, Ivano Colona, Paolo Agostino Vetrugno e di chi scrive. Ancora, nel 2023, a Donato Minonni è dedicato un volume, quando tocca a lui tagliare il traguardo degli 80 anni[17]. Il saggio di De Paola è: Donato Minonni: non laudis amor nec gloria han scritto sulla sua arte[18]. Il libro viene presentato nell’Aula Consiliare del Comune di Taurisano il 18 febbraio 2023, con Mario Spedicato, il Sindaco di Taurisano Luigi Guidano, il Vescovo della Diocesi di Ugento Lino Angiuli, Ivano Colona, Paolo Vincenti e Paolo Agostino Vetrugno. È questa l’ultima occasione ufficiale in cui Franco è presente fra la comunità degli studiosi taurisanesi e salentini. De Paola scompare infatti il 7 marzo 2023, lasciando un vuoto che per tutti sarà difficile colmare.

Non facile racchiudere in una breve testimonianza la lunga vita in un intellettuale di vaglia, di vasto sapere e di rara gentilezza come Franco. Il professore De Paola, un vero gentleman salentino, è stato quello che si dice “un uomo d’altri tempi”, ma pur avvertendo quanto sia stridente l’alterità di quei tempi richiamati dalla nota locuzione aggettivale, non vorremmo che essi fossero quelli di un passato ideale, rifugio di nostalgici conservatori, sublimato dal ricordo e dal raffronto con la nequizia del presente, consegnati alla memoria di un periodo che non può tornare, ma piuttosto quelli reviviscenti animati da tanti uomini d’altri tempi come il nostro amico. Un augurio, questo, per un avvertito e quanto mai desiderabile miglioramento sociale, nel solco di Franco De Paola e del suo indimenticabile esempio.

 

    [1]Dalla rupe di Leuca alle scogliere di Dover. In onore del viaggio di Francesco De Paola, a cura di Giuseppe Caramuscio e Paolo Vincenti, «I Quaderni de L’Idomeneo», Società Storia Patria Puglia Sezione Lecce, Castiglione, Giorgiani Editore, 2020.

     [2] M. Spedicato, Presentazione, Ivi, p. 7. Nel volume, testimonianze di stima ed affetto di amici e colleghi studiosi che non sembra inopportuno elencare in questa sede. Nella sezione del Profilo bio-bibliografico: L. Crudo, La Civica Università di Taurisano nei registri del ’600. Su un libro di Francesco De Paola; S. Ciurlia, Poesia per Franco; D. Minonni, Un amico di vecchia data; C. Galati, Il ricordo di un’allieva; nella seconda sezione, Politica e religione in antico regime: M. spedicato, Il fenomeno confraternale nel Mezzogiorno di antico regime tra continuità e mutamenti. Una lettura di lungo periodo; A. D’Ambrosio “La cura del corpo non faccia languire lo spirito”. L’assistenza sanitaria nelle regole monastiche d’antico regime; A. Di Napoli, San Lorenzo da Brindisi e la sua città. Una prospettiva storico-documentaria; F. Frisullo – P. Vincenti, De Re Militari nella Spagna di Filippo IV: il gesuita salentino Francesco Antonio Camassa; F.G. Cerfeda, Il Promontorio di Leuca. Conflitti territoriali in un inedito processo di appello del 1727; nella terza sezione, Intellettuali e società: A.A.R. Maglie, Tra ateismo e virtù. Breve storia dello spinozismo; A. Laporta, Pancoucke e Vanini; M. Leopizzi, La luna ne “L’Autre Monde” di Cyrano de Bergerac: la denuncia criptica dell’utopia libertina; F.A. Mastrolia, La R. Scuola Superiore di Agricoltura di Portici (1877-1927). I salentini e non salentini dottori in “Scienze Agrarie” presenti in Terra d’Otranto; C. Scarcella, La responsabilità etica degli intellettuali. Rileggendo La scienza come professione (1919) di Max Weber; G. Montonato, Gli effetti speciali della lingua di Luigi Corvaglia; nella sezione successiva, intitolata Protagonisti e tappe della Storia della Scienza: M. De Carli, Itinerari del Tarantismo nell’Europa dell’età moderna: alcune riflessioni su Francisco Xavier Cid e Giorgio Baglivi; F. Primiceri, La verità nei linguaggi della Matematica è sempre evidente? Il contributo inconsapevole di Gerolamo Saccheri (1667-1733); E. De Simone, La presenza leccese di Giovanni Boccardi, astronomo e matematico; L. Ruggiero, Flora e Letteratura: due curiosità interessanti; nella quinta sezione, Tra Regione e Nazione, compaiono: S. Prontera, “Autonomie differenziate”: un altro modo per dividere ancor di più il Paese; A. Bonatesta, Oltre la “fine della storia”. Declino e scomparsa del corporatismo tabacchicolo del Salento; R. Orlando, Spiritualità e politica nell’età della Controriforma: Francisco Ruiz de Castro, conte di Lemos e di Castro e duca di Taurisano; R. Orlando, La vicenda del complesso statuario di Maria SS. della Strada a Taurisano; A. Di Seclì, Francesco Politi e la poetica di Maestro Scarpa. Elogio del dialetto; A. Romano, L’inchiesta di Taurisano nella Carta dei Dialetti italiani; M. Bondanese, Arcangelo Magli, medico e imprenditore, Sindaco e Senatore di Supersano; A. Brigante, Acquarica del Capo in Archivio; L. Tangorra, La Tipografia del Commercio di Lecce: un raro caso di salvaguardia dei mezzi pubblicitari. Segue l’Indice. La copertina del volume è affidata a Donato Minonni.

     [3] Dal suo proficuo rapporto con la Società di Storia Patria di Lecce nascono densi saggi storici, quali: La difficile via verso il possesso della terra. L’Università di Taurisano e le leggi eversive della feudalità (1809-1876), in «L’IdomeneoL’eversione della feudalità in Terra d’Otranto», Società di Storia Patria per la Puglia-Sezione di Lecce, VIII, 2006, Galatina, EdiPan, 2006, pp. 177-224; “O con Franza o con Spagna …”. Note sulla geografia feudale di Terra d’Otranto nel primo Cinquecento, in Segni del Tempo. Studi di storia e cultura salentina in onore di Antonio Caloro, a cura di Mario Spedicato, “Quaderni de L’Idomeneo”, 3, Galatina, EdiPan, 2008, pp. 83-128; “Dalla rendita per pochi al profitto per moltiˮ. Note sulla produzione e sulla distribuzione della ricchezza in alcune università di Terra d’Otranto secondo i catasti antichi, in Campi Solcati. Studi in memoria di Lorenzo Palumbo, a cura di Mario Spedicato, “Quaderni de L’Idomeneo”, 5, Galatina, EdiPan, 2009, pp. 89-113; L’effimero volo delle aquile dei Gonzaga sulle terre salentine (1549-1589), in I Gonzaga in Terra d’Otranto, Atti del Convegno di Studio di Alessano del 21 dicembre 2007, a cura di Mario Spedicato, Società di Storia Patria Puglia-Sezione di Lecce, Galatina, Panico, 2010, pp. 61-131.

     [4] F. De Paola, L’Università di Casarano nel Catasto antico del 1722, “Quaderni di Kèfalas e Acindino”, 4, Manduria, Barbieri Editore, 2004.

     [5] Idem, La civica Università di Taurisano nei Registri del ’600 dell’antica Terra d’Otranto, Casarano, Carra Editrice, 2005; cui segue L’Università di Taurisano negli archivi dell’antica Terra d’Otranto (secc. XIII-XVI), Casarano, Carra Editrice, 2006.

     [6] Humanitas et civitas. Studi in memoria di Luigi Crudo, a cura di Giuseppe Caramuscio e Francesco De Paola, Società di Storia Patria Puglia-Sezione di Lecce, «Quaderni dell’Idomeneo», n. 7, Galatina, Panico, 2010, con un accurato profilo bio-bibliografico dello studioso taurisanese.

     [7] Philoi Logoi. Studi in memoria di Ottorino Specchia a vent’anni dalla scomparsa (1990-2010), a cura di Giuseppe Caramuscio e Francesco De Paola, Società di Storia Patria Puglia-Sezione di Lecce, «Quaderni de L’Idomeneo», n. 11, Galatina, EdiPan, 2011.

     [8] Luoghi della cultura e cultura dei luoghi. In memoria di Aldo de Bernart, a cura di Giuseppe Caramuscio e Francesco De Paola, Società di Storia Patria Puglia-Sezione di Lecce, «Quaderni de L’Idomeneo», n. 24, Lecce, Edizioni Grifo, 2015.

     [9] Quando Ippocrate corteggia la Musa. A Rocco De Vitis medico e umanista, a cura di Francesco De Paola e Maria Antonietta Bondanese, Società di Storia Patria Puglia-Sezione di Lecce, «Quaderni de L’Idomeneo», n. 31, Lecce, Edizioni Grifo, 2017.

     [10] F. De Paola, Nota, in A. de Bernart, Giosue Carducci nei miei ricordi, Taurisano dicembre 2011, plaquette, Ruffano, Tipografia Inguscio e De Vitis, 2011, p. 4.

[11]Per la produzione vaniniana di Minonni si rinvia a: P. Vincenti, Giulio Cesare Vanini nel percorso iconografico di Donato Minonni, in «L’Idomeneo», Società Storia Patria per la Puglia, sezione di Lecce- Università del Salento, n.29 -2020, Castiglione, Giorgiani Editore, 2020, pp. 217-228.

     [12] F. De Paola, G.C. Vanini. Il busto di Minonni e la tradizione iconografica italiana, Taurisano ottobre 2015, plaquette, 2015.

     [13] F. De Paola, P. Vincenti, Donato Minonni. L’artista salentino che ama inseguire il bello, in XX Torneo di Tennis, brochure, Circolo Tennis Giovanni Verardi, Taurisano, 2021.

     [14] G. Pisanò, Studi di italianistica fra Salento e Italia: sec. XV-XX, Società Storia Patria per la Puglia Sezione Lecce, Galatina, Panico, 2012. La bellissima copertina è opera di Donato Minonni.

     [15]F. De Paola, Vanini, Corvaglia, Pisanò: Excellens in arte non debet mori, in ‟Qui dove aprichi furono i miei giorniˮ. La luminosa humanitas di Gino Pisanò, a cura di Fabio D’Astore e Mario Spedicato, «Quaderni de L’Idomeneo», n. 39, Lecce, Edizioni Grifo, 2019, pp. 63-71.

     [16]Idem, I Lopez de Noguera nella crisi della feudalità salentina tra il Cinque-Seicento, in La Compagnia della Storia. Studi in onore di Mario Spedicato, a cura di Giuseppe Caramuscio, Francesco Dandolo, Alberto Marcos Martìn e Gaetano Sabatini, Tomo I, Istituzioni ecclesiastiche e poteri tra centri e periferie dell’Europa mediterranea, «Quaderni de L’Idomeneo», n. 42, Lecce, Edizioni Grifo, 2019, pp. 557-575.

     [17]La mano e l’intelletto. Omaggio a Donato Minonni, a cura di Mario Spedicato, “I Quaderni de L’Idomeneo”, Società Storia Patria Puglia sezione Lecce, Taurisano, Tipografia Centrostampa, 2023.

     [18]F. De Paola, Donato Minonni: non laudis amor nec gloria han scritto sulla sua arte, Ivi, pp. 83-100.

Novoli, reggia di Bacco

“La Reggia di Bacco”. Novoli! Dolce culla del buon vino!

Lode ad “un’amena cittadina”

Novoli, Teatro Comunale, Stemma Municipale 1891 (foto O. Spagnolo).

 

di Gilberto Spagnolo

La viti-vinicoltura novolese ha avuto, sin dai tempi molto antichi, un’importanza rilevante nell’ambito sia della nostra economia che di quella salentina. Il valore della nostra viti-vinicoltura è, infatti, attestato da documenti che si trovano conservati presso l’Archivio di Stato di Lecce e raccolti da Domenico De Rossi in “L’antico commercio del vino e i traffici vinicoli e oleari del Salento”.

Le schede notarili dei registri del notaio Pandolfo di Brindisi, Protocollo anni 1578- 1579, riportano ad esempio che “nell’anno 1578 dal porto di Brindisi furono sportati nel mese di Aprile stara 9017 di vino rosso della Terra di Novoli sulla Marsiliana dì patron Pietro Nicolo… il primo fascicolo degli “Atti del Buon Governo (sempre in Archivio di Stato di Lecce) ci dice invece che “…quando il principe Giacomo della Marca, marito della regina Giovanna II, vendette il suo Principato di Taranto a Giovanni Antonio Orsini Del Balzo, Gallipoli, Novoli, Campi e la Terra di Parabita, ottennero dall’Orsini, la esenzione dei tributi sulla pigiatura delle uve, obbligandosi solo ogni Giunta Decurionale dei singoli paesi dare graziosamente al principe Del Balzo un crogiuolo di spirito di vino della prima spremitura, avvenuta nel giorno dello inizio del taglio dell’uva…”.

Il filosofo e medico di Leverano, Girolamo Marciano, quando venne e dimorò a Novoli dal 1615 al 1620, ospite dell’umanista e mecenate Alessandro Mattei, per porre “l’ultima mano” alla Descrizione di Terra d’Otranto, servendosi della sua “ricchissima” biblioteca che “non aveva pari nella Provincia”, a proposito del Casale di Santa Maria di Nove (antica denominazione di Novoli) scriveva nella sua opera che “era situato in una cretosa collina di vaghi e dilettosi giardini fertilissimi di tutte le specie di frutti, vini, oli ed anche di molta seta”.

Cosimo De Giorgi nella sua “Provincia di Lecce” del 1888, definisce addirittura Novoli come “la Reggia di Bacco” (reggia che “si estende però in tutte le direzioni intorno al paese tanto verso Campi, Squinzano e Salice, come a Veglie, Carmiano, Arnesano e Lecce coi quali Novoli è congiunto da una rete stradale di vie carrozzabili”) e considera quale principale fonte di ricchezza dei Novolesi proprio la viticoltura e la vinificazione che si eseguono (dice egli stesso) “con metodi razionali assai ricercati e premiati in parecchie mostre nazionali ed estere”. (Da un rarissimo “Almanacco” dell’epoca sappiamo, infatti, che già nel 1883, Novoli è fra i comuni che hanno maggiore estensione di vigneti nel circondario di Lecce e già da alcuni anni è in funzione la “fabbrica di spirito” di Luigi Capozza).

È proprio per le sue pregevoli qualità che la vite novolese, e in generale quella salentina, suscita l’interesse, alla fine del secolo scorso, di importanti case vinicole settentrionali tanto che le stesse si trasferiscono nei comuni del Salento più intensamente viticoli (e tra questi Novoli) e vi realizzano stabilimenti con l’intento di lavorare le uve locali.

Sempre il De Rossi, a tal proposito, nella sua Monografia economica del Salento ci fa sapere che “…nel quinquennio 1901-1906 e fino al 1911-1916, cioè quando la società delle ferrovie salentine mise in opera il tronco ferroviario Tricase-Manduria, vari stabilimenti vinicoli sorsero nelle adiacenze delle stazioni ferroviarie, molti dei quali costruiti da Ditte del Nord come i Lomazzi, i Ferrario, i Montanelli e i Martini a Novoli…”. Ma anche (aggiungiamo noi) i Bombardieri (Brescia), i Moreschi (Brescia) e i Capitani (Como).

Ferdinando Giovanni Martini (coll. Luigi Madaro).

 

Ferdinando Giovanni Martini

In quel periodo, fine ‘800 – inizi ‘900, epoca in cui la viticoltura e la produzione del vino segnarono un così notevole progresso (G. Arditi nella sua Corografia di Terra d’Otranto stampato negli anni 1879-1885, scrive infatti a proposito di Novoli “prevalente la produzione del vino che in media sale nell’anno da 20 a 30 mila ettolitri”) spicca la figura di Ferdinando Giovanni Martini che i Novolesi ricordano per le sue qualità umane e, soprattutto, per il suo ingegno dimostrato nel difficile campo dell’enologia. Ferdinando Giovanni Martini, figlio di Bernardino e di Margherita Del Santo, nasce a Torino l’11 gennaio 1886 (atto n. 24 P.I. uff.2). Il padre fece costruire lo stabilimento di via Milano (ora di proprietà delle cantine di Salvatore De Falco) a Novoli agli inizi del Novecento su progetto dell’ingegnere novolese Francesco Parlangeli. Conclusi i lavori verso il 1907-1908, lo affidò immediatamente al figlio che si dedicò con amore allo sviluppo e incremento del patrimonio di famiglia che già allora era consistente. I Martini possedevano la collina Pradleves nei dintorni di Cuneo. Lo stabilimento agli inizi della sua attività aveva 20-30 operai. In seguito con l’acquisto di efficienti macchine enologiche, il personale si ridusse a 10-12 unità lavorative. In poco tempo lo stabilimento divenne un grande centro di produzione vinicola tanto da immettere sul mercato, ininterrottamente, vermouth, marsala, marsalette e vini di tutte le specie.

Il 20 maggio 1913, Ferdinando Martini si sposa con la nobildonna Maria Flora Erminia Cosma figlia di Donato e Elisabetta Miglietta nata a Novoli il 26 novembre 1892. Testimoni del loro matrimonio furono l’avvocato Luigi Guerrieri di Novoli, l’avvocato Luigi Scardia di Lecce, il dottor Pietro Villani di Lecce, il signor Francesco Russo di Novoli. Sindaco a quei tempi era Antonio Cosma e segretario municipale Antonio Galati. Il 23 marzo 1914 nasce la primogenita Margherita Anna Antonia Maria. In seguito avrà altri due figli: Laura Anna Maria e Mario Donato Bernardino.

Avviato lo stabilimento, allo scoppio della I guerra mondiale, Ferdinando Giovanni Martini partì come soldato semplice nei Granatieri. Tornato dalla guerra riprese la sua consueta attività. Negli anni 1920-1936, lo stabilimento produsse incessantemente e i suoi prodotti vinicoli vennero ogni anno acquistati da famose ditte settentrionali. Un anno dopo però, precisamente il 10 agosto 1937, Martini vendette improvvisamene il suo stabilimento al signor Sante D’Elia e rientrò a Torino.

Ritornò a Novoli nel 1947 e vi rimase fino al 1970 abitando nei pressi del nostro convento dei Padri Passionisti. Passò poi gli ultimi anni della sua esistenza a Lecce svolgendo l’attività di incaricato per gli acquisti di vini del nostro Salento per varie ed importanti ditte settentrionali (quali la Gancia, Nebbiolo ed altre) che in lui avevano cieca fiducia. Muore nel giugno del 1978 all’età di 92 anni. Un anno prima aveva perduto la moglie.

Come già abbiamo accennato Ferdinando Giovanni Martini è ricordato dai Novolesi non solo per le sue doti umane (era un uomo generoso, socievole, molto attaccato al lavoro e alla famiglia, intelligente, conosceva molto bene il francese tanto da tradurlo lucidamente anche negli ultimi anni della sua vita), ma soprattutto per le sue continue ricerche nel campo dell’enologia che lo portarono, attraverso esperimenti e geniali modifiche, a trasformare e a rendere utili per la nostra produzione vinicola, macchine strumenti molto complessi e predisposti anche ad altri usi. I nostri concittadini ricordano principalmente la famosa Pompa Luna – Sistema Martini e le modifiche apportate all’Acidimetro. Ferdinando Giovanni Martini voleva sostituire nell’operazione della frollatura nella vinificazione la lavorazione manuale con quella meccanica al fine di migliorare tecnicamente il vino nelle regioni meridionali, follatura (in Puglia frollatura) specifica l’operazione di affondamento e sbattimento dell’uva pigiata prima e dopo l’inizio della fermentazione alcolica. Ha lo scopo di arieggiare la massa favorendo la moltiplicazione dei fermenti. Rende i medesimi più attivi ed ostacola pertanto le fermentazioni batteriche nocive al processo”.

Secondo Martini questa operazione manuale comportava “…un lavoro faticoso e dispendioso, produzione di acido lattico, dispersione di alcool per evaporazione, svinatura anticipata dopo sole 2-3 follature, deficienza di colore nel mosto”. Il Martini seguendo tale procedimento e cioè “…una lavorazione rapida, continua, intensa dell’uva a bassa temperatura coll’ausilio dell’anidride solforosa, svinatura e torchiatura delle paste non appena la massa accennava a toccare un limite critico di temperatura, una fermentazione da completarsi in botticelle o fusti da trasporto in locale fresco, cantinato potendo, o semplicemente arieggiato all’ombra, all’aperto” si proponeva di raggiungere, per una migliore qualità del vino meridionale, i seguenti risultati: “un minimo di acidità volatile, un’estrazione interna di colore, maggiore rapporto zucchero-alcool, migliore profumo, più sollecito illimpidimento”.

Per conseguire i suddetti obiettivi, il Martini aveva pensato ad “…una pompa centrifuga di forte portata adatta alla materia e che collo sbattimento interno centrifugo e la rivoluzione prodotta dal getto stesso entro al cappello della massa producesse il risultato ideale. La pompa deve aspirare in fondo al recipiente e rimandare al di sopra”. Dopo continue ricerche il Martini ebbe occasione, come dice egli stesso, di vedere il catalogo di una casa (purtroppo non indica quale) che fabbricava un tipo di pompa speciale per la vuotatura e il rimescolamento delle concimaie, fogne e pozzi neri. Tale pompa semplicissima, riusciva a far passare attraverso di essa ciottoli della grossezza di un limone, di stracci, di corde eccetera.

Era la famosa “Pompa Luna”, la macchina che Martini cercava per poter realizzare tutto quello che si era proposto. Dopo averne ordinato alla casa costruttrice qualche esemplare in metallo inattaccabile al mosto (ne ebbe due di una lega appropriata di alluminio) apportò delle ingegnose modifiche (esse sono riportate nel citato articolo) per mezzo delle quali raggiunse finalmente i risultati prefissi. Infine, bisogna dire, modificò l’Acidimetro, uno strumento utilizzato per misurare l’acidità fissa e volatile del vino. Tale apparecchio abbastanza complicato e costoso, fu dal Martini semplificato grazie alla scoperta di reagenti particolari.

Lettera autografa di Fernando Giovanni Martini, inviata all’Ing. Francesco Parlangeli di Novoli, datata 7 febbraio 1916 (coll. privata).

 

Lettera autografa di Enrico Capitani inviata all’Ing. Francesco Parlangeli di Novoli, datata 1 luglio 1907 (coll. privata).

 

Lettera inviata dallo stabilimento di Luigi Moreschi di Brescia, datata Novoli 10.3.1929 allo stabilimento di Gino Bombardieri di Brescia (coll. privata).

 

Una scuola enologica

La grande importanza che la vite aveva ormai assunto nell’economia novolese alla fine dell’800 e i primi del ‘900 è testimoniata da alcuni documenti rintracciati presso un archivio privato. Da essi sappiamo che il Municipio di Novoli, sindaco Miglietta, ebbe “l’idea” di fondare “una scuola enologica” (… “che annuente il Governo Centrale sorgerà in questo Comune e che per le Puglie sarà fonte di scienza e ricchezza”), tanto da organizzare un “Comizio” il 4 novembre 1906 alle ore 9,30 nel Teatro Comunale di Novoli, all’epoca già “luogo culturale” di riferimento della nostra comunità. L’ordine del giorno votato dal gran comizio (e che riportiamo nelle illustrazioni) fu poi trasmesso a tutti i sindaci della Provincia di Lecce che vi avevano partecipato invitandoli a contribuire “con una benché minima somma per l’attuazione dell’idea che reca gran vantaggio non solo alla nostra Provincia, ma anche all’intera regione pugliese”.

L’idea, purtroppo, non fu mai attuata (non sappiamo per quali ragioni, ma possono essere intuite) così come era miseramente fallita, anni prima, l’istituzione nel 1885 a Lecce (su proposta di Pasquale Ceino) di un “Museo vinicolo industriale provinciale, allo scopo di promuovere l’incremento, lo sviluppo, il perfezionamento dell’industria enologica, garantire i vini dalle possibili adulterazioni, offrire il mezzo ai produttori di entrare in rapporto immediato coi consumatori e commercianti e stabilire in Lecce un mercato del vino”.

Ordine del giorno Pro-Scuola Enologica a Novoli (coll. privata).

 

La V Fiera del vino a Lecce

Ad ogni modo anche per avere un’idea più completa su quanto fosse importante, sia a livello economico e sia a livello sociale, la viti-vinicoltura novolese, utilizziamo oggi “come sfondo” a quel periodo di “grande splendore” la “brochure” che il comune di Novoli realizzò per pubblicizzare la sua partecipazione alla V Fiera Nazionale del vino che si tenne a Lecce dal 23 maggio all’8 giugno del 1952, particolare “documento” inedito e rarissimo (coll. privata) che val la pena descrivere per la ricchezza di ulteriori informazioni che essa contiene.

Frontespizio brochure V fiera Nazionale del vino (coll. privata).

 

Caratterizzata da una significativa immagine come copertina, accompagnata dallo stemma municipale con i tre grappoli d’uva e da brevi versi di apertura (“Di Novoli gentil la bella piana produce il vino che ogni vin risana”), essa presenta innanzitutto una bella e interessante descrizione di Novoli che si riporta testualmente (Opera probabilmente di Romeo Franchini, cultore della storia novolese e Sindaco): “Chi lungo la nazionale Lecce-Taranto, passato lo scalo di Surbo, dai densi oliveti sbuca sull’ampia terrazza di Montedoro, vien subito attratto dalla visione di una vaga cittadina, che bianca, con molle abbandono ai suoi piedi si stende nel grembo di una pingue pianura che le sorride col suo verde perenne. È Novoli pulsante di vita feconda, nobile per vetustà di storia generosa per dovizia di frutti. Essa nacque all’alba del 1000, voluta dal genio normanno qual turrita cortina di Lecce gentile quando tra giostre e amori, nell’aurea magione del Conte Roberto, brillò fior di pura bellezza, la sventurata Sibilla. Dalla terra attratti i suoi figli, ad essa ben presto si dettero, ergendo sulle di lei zolle sudate il tormentato loro monumento secolare: il virgulto della vite feconda, per strapparne il succo prezioso che dona l’oblio. Le più pregiate varietà di vitigni, dal classico negro amaro, che si perde nella notte dei tempi, alla delicata malvasia che i Veneti qui trasmigrati nel 1400 felicemente introdussero, dalla profumata Moscatella al ricercato Zagarese che lasciò il nome ad una contrada, furono sempre oggetto delle loro amorose cure, delle loro più accurate selezioni. Ad esaltarne la coltura, a perpetuarne la tradizione, essi forgiando il loro civico stemma ne ornarono il campo non di spada o castello, ma d’un purpureo grappolo d’uva di quell’uva che ha la mistica essenza del sole. E dai 400 quintali di vino dei primordi del 1700, quando Novoli aveva 1200 abitanti, ai 160.000 quintali di oggi, lungo e aspro è stato il cammino, che pur cosparso di rari successi ed inevitabili disinganni, fu sempre tenacemente compiuto senza fretta ma senza riposo e sempre con fede. E quando nel 1906 s’inaugurò quel tanto atteso tronco ferroviario che ci collegò al resto d’Italia l’industria vinicola novolese ebbe la sua svolta decisiva. Arditi pionieri del Nord che, amando questa terra come patria seconda, v’eressero i loro grandiosi opifici aprirono al prezioso prodotto nuove vie e promettente avvenire. Né valse a frenare l’ascesa la furia selvaggia dell’esotico germe che tutto in breve distrusse, perché rapida ne fu la ripresa. E la vite d’incanto, risorta su piede novello ridette il sorriso ai campi deserti, radiosa regina di regni più vasti”.

Alle importanti notizie di carattere storico-economico si succedono quelle relative alla varietà e alla qualità delle uve e dei vini novolesi che così vengono elencati e descritti: “senza entrare in dettagli paleontologici, botanici e industriali, riportiamo poche note sulle principali varietà di uve da vino che per il clima molto adatto e per la favorevole natura del terreno della zona di Novoli, la vigna con sempre crescente rinomanza, produce.

NERO AMARO conosciuto anche coi sinonimi di Negro Amaro, Rosso di Lecce, Albese, Uva Cane, Uva Lacrima, Lacrima Nostra. Produce grappoli con acini color nero violaceo intenso, molto zuccherini: generalmente si coltiva consociato alla MALVASIA NERA in proporzione di due terzi del primo e un terzo del secondo. Ad essi spesso si trova pure associato il NERO DOLCE detto di San LORENZO o DELLA LORENA. La vinificazione frammista delle predette uve dà i caratteristici VINI DA TAGLIO NOVOLESI di colore rosso vivo intenso, di sapore neutro e lisci con un titolo alcolico che varia da un minimo di 13 gradi ad un massimo di 18, con acidità complessiva del 6-7 per mille. Attrezzature, moderne, selezione di prodotti, accuratezza nella lavorazione hanno reso questi vini apprezzatissimi nella media ed alta Italia dove sono impiegati nel taglio di prodotti deboli costituendo, specie nelle annate avverse, dei veri e propri correttivi. A tal uopo rinomati sono pure i MOSTI CONCENTRATI di Novoli dal tenore naturale bassissimo di acidità totale, il cui impiego nella rifermentazione dei vini, oltre ad aumentare la gradazione, ne migliora le caratteristiche ed il bouchet.

Bottiglia originale di Aleatico dello Stabilimento G. Ferrario prodotta nel 1947 (coll. privata).

 

Tappo di metallo del vino liquoroso Malasca prodotto dallo stabilimento G. Ferrario (coll. privata).

 

Una particolare citazione meritano i VINI ROSATI DI NOVOLI caratteristici per il loro profumo, colore e sapore, la cui produzione da qualche anno va estendendosi con un buon successo e l’ALEATICO il cui vitigno ha trovato facile adattamento nella zona di Novoli e produce un vino da dessert di gusto squisito e la fragranza delicata. Degna di rilievo, anche se limitata la coltivazione delle uve bianche che producono ottimi vini da dessert e da pasto. Ricordiamo: LA MALVASIA BIANCA che produce un vino molto pregevole che, opportunamente alcolizzato dà la tanto rinomata MALVASIA LIQUOROSA; IL BOMBINO da cui si produce un ottimo vino da pasto con una percentuale di alcool variabile dall’11 al 13%; IL MOSCATELLO che circoscritto a poche zone, dà il caratteristico MOSCATO DI NOVOLI. L’ASPRINO, IL GRILLO e IL MALAGA che producono vini da dessert molto alcolici, profumatissimi e di gusto gradevole e caratteristico”.

La descrizione si conclude con l’elenco degli “INDUSTRIALI e PRODUTTORI” partecipanti alla fiera leccese. Tra gli industriali sono menzionati: D’Elia Santo, Lomazzi Dante, Fava Andrea, Comerio Enrico, Metrangolo Francesco, Ferrario Giovanni, Carlino Giovanni, Visconti Luigi, Fitto Felice. Assai più numerosi i produttori che rispondono ai nomi di Romano Donato, Parlangeli Gregorio, Madaro Pietro, Centonze Salvatore, Ricciato Antonio, Fratelli D’Agostino, Parlangeli Raffaele, Carlino Cosimo, Nicolì Raffaele, Quarta Raffaele, Ruggio Vito, Madaro Ferruccio, Bruno Paolo, Madaro Salvatore, Mazzotta Luigi, Parlangeli Giovanni, Cucurachi Giuseppe, Madaro Ignazio, Eredi Leaci Paolo, Cosma Edoardo, Brescia Paolo, Bruno Antonio Santo, Sozzo Cosimo, Fratelli Greco fu Francesco, Cezzi Giovanni, Miglietta Oronzo, Russo Riccardo, Logoluso Antonio S.A., Duca Spinelli.

Foto d’epoca degli operai che lavoravano nel 1936 nello stabilimento di Produzione e Commercio Vini Moreschi Luigi e Co. (in precedenza era adibito a distilleria, collez. Annarosa Perrone).

 

Arricchiscono la brochure anche le pubblicità proposte da alcuni produttori come il Cav. Donato Romano per il “Grillo vino dorato di gran pregio per tutti i gusti, per tutti i pasti per tutti i posti”, Metrangolo Francesco per i Vini Rosati e Rossi da Taglio; la casa vinicola di Santo D’Elia per la specialità di vini bianchi e rosati e stabilimenti raccordati, Ricciato Antonio per i vini di produzione propria “i più belli di Novoli”, Carlino per i vini concentrati, distilleria e raffineria di alcool. Il famoso Aleatico di Giovani Ferrario – Riserva 1947 chiude l’aspetto pubblicitario, con i seguenti dati: Medaglia d’oro dell’Accademia della vite e del vino III Fiera Nazionale del Vino di Lecce 1950; gran premio città di Bologna I Mostra specialità alimentari festival Gastronomico 1950; medaglia d’oro Concorso mostra dei vini e liquori d’Italia Roma 1950. Stampata dalla benemerita tipografia F. Scorrano di Lecce in via G. Paladini 33, la brochure infine si chiude con una “lode” “all’amena cittadina novolese e ai vini della sua cantina (i versi, come si può notare, incolonnati rappresentano un calice di vino).

 

NOVOLI! Dolce culla del buon vino!!

Alma terra del nettare arcano:

bianco, biondo, rosato, rubino,

delizioso pel genere umano.

Un bicchiere del limpido

Licor dona salute,

scioglie le lingue mute

la gioia infonde

e la letizia

al core!

La mente

Tien desta;

rinfranca

la testa

brillante,

frizzante,

di grato sapore,

inneggia all’amore.

Salve! Oh Novoli! Amena cittadina!

Sia lode ai vini della tua cantina.

 

In www.spazioapertosalento.it, 18 Aprile 2021 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 91-100, Novoli 2024.

Cartolina d’epoca, Stabilimento Produzione Vini Luigi Moreschi, Novoli (situato in Via Campi). Ed. Unione Tipolitografia Bresciana. Cartolina viaggiata il 15 luglio 1913 da Brescia a Novoli, inviata da Luigi Moreschi a Oronzo Madaro (coll. privata).

 

Riferimenti bibliografici

G.Arditi, La corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’Otranto, Stabilimento Scipione Ammirato, Lecce 1879-1885.

P. Ceino, Progetto di un Museo Vinicolo Industriale Provinciale in Lecce, Tip. Editrice Salentina G. Spacciante, Lecce 1886.

D. De Rossi, L’antico commercio del vino e i traffici vinicoli e oleari nel Salento, Ed. Salentina, Galatina 1966. Id., Monografìa economica del Salento, Tip. Martano, Lecce 1968.

C. De Giorgi, Provincia di Lecce Bozzetti di viaggio, vol. II, Edizione fratelli Spacciante, Lecce 1888.

G. Ferro, Le strutture cooperative nel settore vitivinicolo in Provincia di Lecce stampato a cura delle Cantine Riunite del Salento, Ed. Salentina, Galatina 1982.

G. Marciano, Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto, Stamperia dell’Iride, Napoli 1885.

F.G. Martini, Un esperimento di Follatura Meccanica nella vinificazione in rosso, in “L’Italia vinicola ed agraria”, a. XVIII, n.33, Casalmonferrato 12 agosto 1928 pp. 515-519. Una breve annotazione. Cinque anni fa, ebbi il piacere di conoscere il sig. Antonio Sperone nipote di Ferdinando Martini e Maria Cosma. Era venuto a Novoli per rivedere i luoghi e la casa dove da bambino trascorreva il mese di settembre, in via Trento non lontano dalla cantina di via Milano ora di proprietà di Salvatore De Falco. Antonio Sperone legato ancora a Novoli perché ha dato i natali a sua madre, continua la tradizione di famiglia con due cantine al nord, una in provincia di Asti e una vicino Milano.

G. Spagnolo, Lo stemma dei misteri (qualche utile notizia sul nostro emblema municipale), in “Sant’Antoni e l’Artieri”, XV, Novoli 17/01/1991.

Id., Lu cuccu te Sant’Antoni, in Il fuoco sacro. Tradizione e culto di S. Antonio Abate a Novoli e nel Salento, Alezio 1988.

Scene di vendemmia nelle campagne novolesi (anni 40 del secolo scorso, archivio fotografico E.M. Ramondini).

 

Scene di vendemmia nelle campagne novolesi (anni 40 del secolo scorso, archivio fotografico E.M. Ramondini).

 

Scene di vendemmia nelle campagne novolesi (anni 40 del secolo scorso, archivio fotografico E.M. Ramondini).

 

Scene di vendemmia nelle campagne novolesi (anni 40 del secolo scorso, archivio fotografico E.M. Ramondini).

 

Scene di vendemmia nelle campagne novolesi (anni 40 del secolo scorso, archivio fotografico E.M. Ramondini).

 

Fu così significativo lo sviluppo economico che la nostra cittadina ebbe alla fine del secolo scorso, grazie alla diffusione del vigneto, che i Novolesi sostituirono l’effigie della Madonna di Costantinopoli nel loro antico stemma civico (che ancora oggi è visibile sulla colonna dell’Hosanna) con l’attuale, ovvero “uno scudo coronato con in mezzo un tralcio adorno di pampini” stemma che fu poi riportato (assieme a quello del patrono Sant’Antonio Abate) sulla bottiglia votiva “Lu cuccu te Sant’Antoni” realizzato in occasione della festa del 1946. Va detto infine che alcuni anni fa, esattamente nei giorni 18 e 25 giugno 1982 si svolse a Novoli presso la casa del fanciullo, la I Conferenza sul vino (e, purtroppo, anche l’ultima). Essa fu promossa e organizzata dalla Confraternita San Luigi Gonzaga il cui Padre Spirituale all’epoca era Mons. Alessandro Spagnolo vicario episcopale per le attività sociali. Con l’intento lodevole di “trattare insieme i problemi della viticoltura e della vinificazione che da sempre, come affermano gli storici salentini, hanno costituito non solo il fondamento della nostra economia, ma anche motivo di crescita e di sviluppo della cultura del nostro paese”, l’importante iniziativa (che vide alternarsi numerose personalità del settore) fu anche arricchita con l’allestimento della interessante mostra sulle tradizioni e sulla cultura viti-vinicola novolese.

 

Il presente contributo completa le ricerche sulla viti-vinicoltura novolese già avviate e pubblicate sulle riviste SPAZIO C.R.S.E.C., Novoli gennaio 1983 e “Lu Puzzu te la Matonna”, a. XIII, Novoli 16 luglio 2006.

Scene di vendemmia nelle campagne novolesi (anni 40 del secolo scorso, archivio fotografico E.M. Ramondini).

 

Scene di vendemmia nelle campagne novolesi (anni 40 del secolo scorso, archivio fotografico E.M. Ramondini).

 

Scene di vendemmia nelle campagne novolesi (anni 40 del secolo scorso, archivio fotografico E.M. Ramondini).

 

La “Focara” di Novoli 2025 in costruzione con le “sarmente” ricavate con la potatura delle viti (foto G. Spagnolo).

 

La “Focara” di Novoli 2025 in costruzione con le “sarmente” ricavate con la potatura delle viti (foto G. Spagnolo).

Andrea de Lizza, abate di Livry, “natif de Lecce”, nella Francia di Vanini

di Francesco Frisullo* – Paolo Vincenti**

 

La nascita della monarchia assoluta e nazionale in Francia alla fine del Cinquecento non poteva più ammettere l’esistenza di limitazioni del potere sovrano da parte di un monarca straniero, quale di fatto era il Papa, né forme di libero pensiero. È in questo frangente storico che si sviluppano le vicende che affronteremo. Tra i tanti personaggi che emergono dalla storia dell’“execrable” Vanini, ci soffermiamo sul salentino Andrea de Lizza, abate, vissuto come cappellano e musicista alle corte francese dal 1608 al 1617. Nella bibliografia vaniniana, il suo nome viene citato per primo da Bozzi[1], che riprende René Pintard[2]. Ma su de Lizza, a parte Tabacchi, che lo definisce uno dei confidenti di Leonora Dori Galigai[3], non vi è in Italia alcuna fonte. Invece è tutt’altro che sconosciuto alla storiografia francese, sia pure non per suoi meriti diretti ma per aver fatto la sua comparsa in quel cruciale momento di passaggio in Francia che segna la fine della reggenza di Maria de Medici, “sovrana sapientissima e di fama imperitura”[4], e l’ascesa al trono di Luigi XIII, in una fase caratterizzata da un diffuso sentimento anti-italiano che già covava sotto la cenere dai tempi della regina Caterina de Medici[5]. I coyons, come i parigini battezzarono gli esponenti della schiera italiana già ai tempi della regina Caterina, si erano abbattuti sulla Francia come un nugolo di uccelli rapaci[6]. Ma il coyon per antonomasia è Concino Concini, al cui cadavere, per estremo dileggio, il 26 aprile 1617, come scrive il Nunzio Apostolico Bentivoglio, “furono portate in alto per vari luoghi le parti pubende spiccate dal busto, con parole indegnissime contro la fama della Regina”[7]. Concini divennne l’emblema del parvenu e “raccolse su di sè la violenza dell’odio anti-italiano nella fase terminale della reggenza”[8]. Scrive il nunzio Bentivoglio il 14 febbraio 1617: “Certa cosa è che, a giudizzio [sic] di tutti, la violenza D’Ancre non può durare”[9].

Le due regine italiane portano in dote in Francia il Rinascimento italiano con la sua componente magico-filosofica e il pensiero politico di Machiavelli. Gli italiani infatti vengono percepiti come papisti ma anche come “machiavellisti” e libertini[10]. Una simile percezione sugli italiani nasce e si sviluppa soprattutto dopo la strage di San Bartolomeo (1572) e il regicidio di Enrico IV (14 maggio 1610) e, come è prevedibile nella pubblicistica di matrice ugonotta, s’imputa a Caterina de Medici la responsabilità di tutto e si sottolinea l’origine straniera de “la figlia di Machiavelli”, come la definisce Jean Orieux[11]. Al di là di ogni sciovinistica interpretazione, è un fatto storico ben noto anche alle fonti italiane d’epoca che in Francia si assiste a una rapida ascesa della comunità italiana, il che alimenta il risentimento dei francesi esternato attraverso una notevole produzione libellistica. Scrive nel 1575 François Hotman: “Tutte le tasse, i dazi doganali, sono nelle mani dei pubblicani italiani. Tutta Lione è piena di pubblicani italiani, a Parigi tutti gli episcopati e tutte le abbazie sono in mano degli italiani, essi stessi succhiano il sangue e il midollo del miserabile popolo franco-francese […]. Chi sono oggi coloro che impediscono la pace in Francia con le loro menzogne e le loro invenzioni sofisticate?”[12].

Il risentimento, aumentato dopo il regicidio di Enrico IV (1610), accresce il malcontento popolare e porta alla convocazione degli Stati Generali il 26 ottobre 1614[13]. Concini, marito di Leonora Dori Galigai, sorella di latte di Maria de Medici, raggiunge il vertice del successo quando nel 1610 acquista il Marchesato d’Ancre per 450000 livre e nel 1613 è nominato Maréchal de France[14], da cui il titolo di Maresciallo d’Ancre o semplicemente Ancre con cui è anche noto (mentre Marescialla è chiamata Leonora, sua moglie). L’autorità del Maresciallo d’Ancre oscurava gli altri favoriti del re: “la moglie havea in mano la volontà della regina, il marito lo Scettro del Regno”[15]. I Concini esercitano un vero “trafic d’influence” sulle cariche di corte[16]. L’apice e il crollo del potere del Maresciallo d’Ancre coincide con la fine della vicenda vaninina. Vanini stesso veniva visto come un prodotto dell’“infame” Concini[17]. In realtà, Concini non ha avuto alcuna influenza veramente significativa a livello nazionale fino alla fine del 1615[18].

Anche il poeta Giovan Battista Marino godette della protezione di Maria de Medici a Parigi. Vanini, secondo Raimondi, incontra Marino direttamente a Parigi: “Marino e Vanini godettero delle medesime protezioni poiché ruotano nell’orbita della Regina Madre di Concini, il potente maresciallo d’Ancre, e della moglie Leonora Galigai […]. Finché la fortuna arrise alle sorti della Regina, i due intellettuali ne condivisero lo schieramento a rimorchio dei loro potenti mecenati”[19]. In realtà, Vanini arrivò a Parigi quando il partito degli italiani cominciava a perdere potere in Francia[20], ma paradossalmente Vanini fu uno degli esempi di “emigrazione libertina” e fu vittima del “dogmatismo” delle chiese sia cattolica che riformata[21]. Non va dimenticato che la reggenza di Maria era incominciata con l’assassinio di Enrico IV e termina con il raggiungimento della maggiore età di Luigi XIII.

Dubost circa la formazione politica della regina mette in evidenza il ruolo che svolse Scipione Ammirato (Lecce 1531- Firenze 1601) al quale si deve la reintroduzione della filosofia politica dello stoicismo a Firenze. Ammirato tendeva a giustificare il potere assoluto in una sintesi che ha creato lo “stoicismo cristiano”, e tale pensiero ha caratterizzato la formazione di Maria, particolarmente sull’idea di “bon raison d’etat” (Ragion di stato) propugnata da Ammirato[22].  L’assassinio dell’ “insaziabile” Concini è un esempio di “applicazione della giustizia reale” perché, come scrive il 26 aprile Bentivoglio, “è stato messo in testa al Re, che la Regina ed Ancre lo volevano avvelenare”[23]. Concini poco prima aveva preso delle misure che restringevano i poteri regi[24]. Subito dopo l’assassinio del Concini, il cui corpo venne disseppellito e dileggiato selvaggiamente dai parigini[25], toccò alla moglie di questi, Leonora, ovvero la Marescialla, nelle cui mani si era di fatto concentrato il potere.

Come riassume Pintard, “Maria regge Leonora regna”[26]. A confermare tale stato di cose è la testimonianza di Andrea de Lizza, in occasione del processo alla Galigai[27]. La donna, abbondonata al suo destino dalla Regina, venne richiusa nella Bastiglia, e stessa sorte toccò al suo cappellano[28].  Il 9 maggio viene avviato il processo contro Leonora che finirà sul patibolo l’8 luglio 1617 con l’accusa di giudaismo e stregoneria. Gli atti sono trascritti nella BnF [Bibliothèque nationale de France] Ms Cinq cents Colbert 221. L’interrogatorio di Andrea de Lizza, ai ff.406r-413r., ebbe luogo mercoledi 10 maggio 1617, giudici istruttori Jean e Robert Aubery e Nicolas de Bailleul, presso l’hotel du S. Aubery rue de Neuve S. Merry. Leggiamo dall’interrogatorio:

“Signor l’abbate, perchè voi siete abate, non è vero, abate di livry?,[Livry, Livriacum, abbadia dell’Ordine di S. Agostino] siete nativo di Lecce nel regno di Napoli e avete 38 anni, siete venuto in Francia con il cardinale du Perron nel 1608”[29].

Sull’origine leccese di de Lizza abbiamo supporti documentari ripresi da un articolo della Société archéologique de Sens da cui risulta che è nato a Lecce nel 1579, dal 1608 è al seguito del Cardinal du Perron in Francia e si cita come fonte l’Archivio capitolare di Lecce: 23 gennaio 1601 era diacono, ordinato sacerdote nel 1602, 1603 tesoriere, e dal 20 agosto 1606 non figura più nei registri capitolari[30]. Ma dalla consultazione dell’Archivio Diocesano di Lecce, non si trova conferma dell’ordinazione sacerdotale; diversamente è registrato nel libro delle Conclusioni Capitolari anni 1588-1612, dove viene riportato come “tesoriere” in 5 sedute comprese tra agosto 1603 e novembre 1604, più precisamente: agosto 1603 – ottobre 1603 – giugno 1604 – agosto 1604 – novembre 1604[31]. Altro purtroppo non è emerso. Il cognome di de Lizza è attestato a Lecce, Caputo cita il notaio Genuino de Lizza rogante a Lecce il 2 maggio 1601[32].

Come già detto, le sorti di de Lizza sono legate a quelle del cardinale du Perron ed occorre brevemente soffermarci su questo prelato protagonista di primo piano nella storia religiosa, e non solo, della Francia. Jacques Davy du Perron (1556-1618) apparteneva a una famiglia ugonotta; divenne cattolico per influsso di Bellarmino[33]. “Amico sincero e prudente”, lo definisce lo storico gesuita Fouqueray[34]. I gesuiti furono riammessi in Francia con l’editto di Rouen di Enrico IV (1603). A mediare per i gesuiti fu il padre Cotton; una delle condizioni che il provinciale fosse francese, imponeva il giuramento al re e che un gesuita come cappellano risiedesse a corte, come una sorta di ostaggio. Lacouture fa notare che tali condizioni furono affatto gradite dal Generale[35]. “Davy du Perron è noto con l’appellativo di «monsieur le Convertisseur» per via del ruolo decisivo da lui esercitato nella riconciliazione di Enrico IV con Clemente VIII e la fine dell’interdetto contro la Francia”[36], da cui il noto detto “Parigi e val bene una messa”. Da vescovo, Perron rappresentò il monarca nella cerimonia di abiura del protestantesimo a Roma il 23 settembre 1595.

Elevato alla porpora cardinalizia nel concistoro del 1604 e nominato nel 1606 primo Cappellano di Francia[37], partecipò a tre conclavi; determinante fu la sua mediazione con Venezia per la questione di Paolo Sarpi e dell’Interdetto[38]. Il cardinale du Perron svolse un ruolo importante durante l’assemblea degli Stati Generali e il 2 gennaio 1615 ebbe l’incarico dal clero francese di trattare con il Terzo Stato circa la definizione del potere regio[39]. Nel suo soggiorno romano del 1608 avvenne l’incontro con de Lizza. Perron è stato anche poeta[40] e non possiamo escludere che le doti artistiche di de Lizza siano alla base del suo servizio presso il prelato. Il cardinale volle premiare de Lizza nel 1610 nominandolo Canonico di Sens di cui il 15 settembre 1610 prese possesso per procura.  Nel luglio 1611 Lizza rinuncia anche al canonicato e lo permuta con il priorato di Saint Patrice de Mortmer con Jean Regnault de Saint-Simon. Il 20 gennaio 1612 sempre il cardinal du Perron nomina Andrea de Lizza al beneficio vacante della chiesa Saint-Pierre de Chéronvilliers, diocesi di L’Aigle, in Normandia, ma già il 5 settembre 1612 de Lizza si dimette in favore di Mellon de May, di Rouen, e le dimissioni vengono accettate dal Cardinale du Perron il 12 ottobre[41]. Dalla deposizione per il processo contro la Galigai del Consigliere del Re il 17 maggio, apprendiamo che nella primavera del 1613 “Andreè Neapolitain” va a servizio della Regina, la quale, avendo visto che la Marescialla aveva bisogno di compagnia, le invia Andrea che sapeva suonare il “guitaron” e cantare bene.

Per circa 18 mesi Lizza è al servizio della Marescialla celebrando tutti i giorni la messa, intrattenendosi con lei dalla quattro alle sei ore, e assumendo atteggiamenti poco consoni al suo abito clericale, “parlava ad alta voce licenziosamente con i domestici”. Alcune mesi dopo al servizio della Marescialla giunge Montalto, “medico giudeo di religione di cui faceva libera professione con tutta la sua famiglia, dopo di che la Marescialla non frequentava più le cerimonie religiose e preferiva restare sempre in compagnia di Montalto e de Lizza. La marescialla era di umore irritabile (fâcheuse) e malinconico e si immaginava di essere stregata con il solo sguardo o attraverso le lettere. Quando morì Montalto la Marescialla fu ancor più afflitta e si gettò nella disperazione, ma s’accorse che stare lontana da Andrea le faceva bene”[42]. Nell’interrogatorio del 24 maggio, Vincent Ludovici, segretario della Marescialla, circa Lizza dichiara: “Abbate di Linery, cappellano, poi dopo molto tempo gli avevano dato il permesso di ritirarsi nella sua abazia, ma mi pare di aver inteso che non era molto gradito nella sua casa”[43]. Diverse cause intentate contro il monastero di Livry confermano che de Lizza ne era abbate non residente dal 1614 e nel 1615, “signor André de Lizza, prete napoletano, dottore in diritto canonico, cappellano ordinario della marchesa d’Ancre” […] e risiedeva con essa marchesa nella casa e nel castello del Louvre”[44], come inequivocabilmente viene confermato dall’atto notarile rogato dal notaio Mathieu Bontemps, “Procuration d’André de Lizza abbé de l’Abbaye de Livry, Docteur en droit canon demeurant à Paris sur le Quai du Louvre”[45]. Nel giugno 1616, ammalato, si ritira nella sua abbazia di Livry[46]. Nel 1617 Andrea si dimise ma “L’abate di Lizza aveva lasciato gli edifici in rovina”[47].

Particolarmente interessanti e dettagliate sono le informazioni che il de Lizza fornisce sulla Galigai e sul potere che di fatto esercitava la stessa sulla regina, testimonianza su cui si basa decisamente la condanna della Marescialla, tant’è che gli stralci dell’interrogatorio del salentino sono ancor oggi citati come prove di reità nei confronti di Leonora poiché forniscono i retroscena della reggenza di Maria de Medici e circostanziate informazioni anche sulle fortune dei coniugi Concini.

Una delle accuse contro Leonora, come già detto, era quella di praticare la magia con la quale affascinava la stessa regina. Alla domanda: “Giudicate voi che la marescialla aveva incantata la regina madre, per suo piacimento in questo modo per guidarla come vuole?”, Lizza risponde:

“Io non me ne sono mai accorto nè ho sentito dire che lei abbia usato dei sortilegi. Mi sembra che il suo potere sulla Regina derivasse dalla grande e lontana familiarità della marescialla la quale ha provato a consigliare la Regina tanto che l’autorità di lei s’accrebbe e con ciò ella si poté rafforzare e arricchire a dismisura. La Marescialla ha un animo dotato di un grande potere sugli spiriti deboli”[48].

Richelieu riferisce nelle Mémoires che lo stesso Concini non poteva incontrare la moglie perché fortemente depressa e in preda a manie di persecuzione e questa preferiva piuttosto intrattenersi “con il signor Andrea Napolitan, che la rallegrava con la musica dei suoi strumenti e della voce”[49].

Il 10 maggio 1617 venne interrogato de Lizza:

“Siete venuto in Francia con il cardinale du Perron nel 1608 e fino al 1612 lo avete servito come cappellano qui e a Roma. Per quale motivo avete deciso di stabilirvi in Francia?”

“Io non avevo deciso ciò. Da parte mia sognavo di ritornare in Italia, quando fui invitato a recarmi a un concerto musicale che si faceva alla dimora della Marchesa d’Ancre. La Regina Madre cenava. Io suonavo la lira così bene per la marchesa, che ella decise di trattenermi al suo servizio e mi fu ordinato dalla Regina madre di dimorare in Francia. La regina scrisse al cardinale du Perron ed io non sono partito più. Ho servito la marchesa in qualità di cappellano fino al giugno scorso [1616] quando mi ritirai per prendere aria. Fui malato quattro mesi, durante i quali il maresciallo mi spogliò dell’abbazia de Haultefontaine in Champagne che il re mi aveva offerto. Io fui così dispiaciuto che non ritornai dalla marchesa”[50].

L’essere stato privato dell’abbazia dal Concini, come evidenza Duccini, potrebbe aver contribuito al suo rancore[51].

Il 15 giugno venne interrogata la Galigai. Come preambolo nell’interrogatorio, viene ripresa la deposizione di de Lizza.

“Ha testimoniato di avervi servita per cinque anni. Restava cinque-sei ore chiuso nella vostra camera fino alle undici o mezzanotte, tenendo dei discorsi sui vostri affari domestici, sulla gestione della vostra casa, sul vostro argento per la costruzione [“bâtiment”] di Lésigny[52]. Discutevate dell’Italia dove da tre anni vi diceva che voleva ritirarsi”.

A sua discolpa Leonora, interrogata il 15 giugno, risponde:

“M. de Lizza è un bel chiacchierone [“bavard”] ma lui potrebbe attestare che io non ho fatto niente di male”[53].

L’altra fonte quasi coeva, quella di Vittorio Siri, ci offre un’immagine di de Lizza gaudente, dicendo: “dal 1613 per compiacere la Regina Madre prese al suo servigio un tale Andrea Napoletano eccellente suonatore di Liuto, e che cantava bene fatto per avanti al servigio del Cardinale di Perona. Vide costui ottimamente lungo tempo poi si scapestrò parlando delle cerimonie della Chiesa, digiuni, e quaresime tra domestici con molta licenza [sic]”[54]. E poi continua parlando dell’amicizia di Leonora con “un tal Montalto hebreo”[55], dicendo “Costui fece cambiare costumi alla Marescialla non frequentando più le Chiese e udendo la Messa come prima far voleva. Divenne fastidiosa, e malinconica credendo di poter esser ammaliata con lo sguardo fisso in essa; & avvelenata in leggere delle lettere [sic]. Il detto Montalto morì nel villaggio di Bordeos con dispiacere della Marescialla la quale poco appresso cacciò via il detto Andrea lamentandosi ch’era cattivo, dopo la cui espulsione visse meglio, ed era quasi sempre inferma; e poche volte tuttoche Sana [sic] andava à vedere la Regina Madre. Che egli non sapeva quello che ella si parlasse e facesse con Montalto, con Andrea; ma quanto a’ sortilegi, malie, fattucchierie, & incanti non gliè ne havesse mai veduto alcuno nè saputo che ne usasse”[56]. Sulle precarie condizioni di salute psico-fisica di Leonora già dal 1604 Monter riferisce: “Dal 1612 i Concini accolsero presso di loro stregoni, ciarlatani e studiosi d’ebraico, un effetto calmante esercitava sulla D. anche la musica di Andrea de Lizza, un napoletano amico di Montalto, impiegato dalla D. come servitore, segretario e cuoco, che la persuase di essere vittima del malocchio”[57]. Nel gennaio 1617 i Concini furono colpiti da un grave lutto. Scrive il nunzio Bentivoglio: “Io sono venuto qui in congiuntura d’una grande afflizione del Maresciallo D’Ancre e di sua moglie, per la morte della loro figliola. Avevano disegni alti sopra lei, cioè acquistar col suo matrimonio un appoggio di qualche gran casa del regno: e sarebbe successo loro l’effetto, perché, come V.S. illustrissima sa, in mano loro è al presente questa Corona […]. La Marescialla però non sa ancora niente del caso, perché essendo ella oppressa da un lungo male, apparendo che ora cominci migliorare alquanto non voglio dare occasione al male di esacerbarsi con questa nuova”[58]. Una delle poche voci a favore di Leonora è quella di Voltaire: “Cantonata sul maresciallo D’Ancre […] dama di compagnia della regina ritenuta una maga”[59].

Le ultime notizie che abbiamo su de Lizza ci vengono dagli scritti del nunzio apostolico Bentivoglio al Cardinale Scipione Borghese, il quale si mostra interessato alle sorti di Lizza dopo la caduta dei Concini, il che ci permette di suppore che il salentino avesse delle conoscenze negli ambienti romani. La prima di questa lettere è del maggio 1617: “Con un tale abbate di Liuri[60] italiano, che altre volte fu in favore della Marescialla e che ne riportò due abbazie, è stato proceduto con gran violenza; perché un cavaliere francese, con le pistole contro l’ha fatto rinunziare per forza e l’ha tenuto preso. Ma egli essendo fuggito, si trova ora in custodia dal signor Cardinal du Perron, al quale ha servito altre volte, e si crede passerà bene [sic]”[61]. Lo stesso Bentivoglio intercede per le sorti di Lizza: “Ho parlato al Re in favore dell’abate di Liuri [Livry]: avendomene fatta istanza il cardinal du Perron, e perché la materia stessa ancora la mi chiedeva. Ho pregato S.M. a non voler permettere che gli sia fatta violenza nelle rinunzie delle sue abbadie, a lui estorte per forza. S.M. m’ha risposto, che quando ciò sia vero, non permetterà ch’abbia luogo una siffatta violenza”[62]. Ritroviamo de Lizza ospite presso il cardinale du Perron, come riferisce Bentivoglio al cardinale Scipione Borghese il 27 maggio 1617: “La risegna ch’ Ella dice essere stata fatta far per forza [sic] da un tal abbate di Livry, italiano, che ora si trova in casa del signor cardinale Du Perron, non val niente”[63].

Nel luglio dello stesso anno il canonico leccese venne accusato di sodomia ma poi assolto[64]. Dopo questa data non sono note altre notizie di de Lizza; è presumibile che sia rimasto sotto l’ala protettiva del Cardinale du Perron, che però muore nel settembre 1618[65], il che ci autorizza ad ipotizzare che de Lizza possa anche aver lasciato la Francia e fatto ritorno in Italia. Del resto in Francia, data l’aperta ostilità nei loro confronti, gli italiani in massa abbandonarono il paese; ne è conferma la tragica fine di Vanini che “andò allegramente a morire da filosofo”, ritenuto “empio, blasfemo e ateo”, a Tolosa il 9 febbraio 1619[66]. Tutto ciò incrementava lo sciovinismo d’oltralpe all’indomani della fine del potere dei “conchiniste[67]. Paradossalmente Vanini fu un protetto del maresciallo François de Bassompierre (15791646), “Base della Santa Chiesa di Pietro”, come lo definisce Vanini, che gli dedica il De Admirandis. Il filosofo taurisanese non era del partito del Concini, ma “l’empietà quasi leggendaria degli italiani s’inscriveva in uno stesso schema mentale. Poco importa se ciò abbia o no fondamento”[68], come nota Foucault, che ancora constata amaramente: “la publication dans la capitale d’un livre scandelaux [De Admirandis], et de surcroît signé par un italien, ne pouvait guère survenir un moment plus mal choisi!”[69].

Sulle sorti di de Lizza rimangono molti punti oscuri, ma del resto il suo ruolo è stato quello di una comparsa in una significativa congiuntura storica nella quale invece si staglia la figura di Giulio Cesare Vanini.

     * Francesco Frisullo, Società di Storia Patria per la Puglia-Sezione di Lecce, sosfrifra@gmail.com

      ** Paolo Vincenti, Società di Storia Patria per la Puglia-Sezione di Lecce, paolovincenti71@gmail.com

 

[1] F. Bozzi, La peregrinatio in Europam di un filosofo pugliese, in Giulio Cesare Vanini dal tardo Rinascimento al Libertinisme érudit, a cura di Francesco Paolo Raimondi, Galatina, Congedo, 2003, p.144.

     [2] R. Pintard, Le libertinage érudit – dans la première moitié du XVIIe siècle, Tomo I, parte I, Paris, Boivin & Cie, 1943, pp. 7-8. Cfr. F. P. Raimondi, Giulio Cesare Vanini nellEuropa del Seicento, Seconda edizione aggiornata, Ariccia, Aracne, 2014, p. 376.

     [3] S. Tabacchi, Maria de’ Medici, Roma, Salerno editore, 2012, p. 151.

     [4] Giulio Cesare Vanini, I meravigliosi segreti della natura regina e dea dei mortali (1616), a cura di Francesco Paolo Raimondi, Galatina, Congedo editore, 1990, p. 11.

     [5] J. Roger Charbonnel, La pensée italienne au XVIe siècle et le courant libertin, Paris, Champion, 1919, p. 304.

     [6] A. Castelot, Maria de’Medici [titolo originale Marie de Medicis Les désordres de la passion], Milano, RCS, 1995, p. 30.

     [7] G. Bentivoglio, La nunziatura di Francia del Cardinale Guido Bentivoglio: Lettere a Scipione Borghese, Cardinal nipote e Segretario di Stato di Paolo V tratte dagli originali e pubblicate per cura di Luigi De Steffani, Volume Primo, Firenze, Felice Le Monnier, 1863, p. 202. Una più accurata analisi delle fonti storiche rileva come l’ascesa del Concini non fu priva dell’assenso regio e come il giudizio sull’operato del fiorentino fosse gravato dall’opinione pubblica all’indomani del colpo di stato del 1617; non mancarono maliziose voci di una relazione tra Concini e la regina: C. Fabbri, Concino Concini maresciallo d’Ancre: ascesa e caduta di un gentiluomo toscano alla corte di Francia, 1600-1617, Firenze, Aska, 2014, pp. 138-139. Il potere assunto dai Concini era oggetto d’invidia anche da parte dei cortigiani italiani stessi. Ivi, pp. 88-120. Tutt’altro che fantasiose erano le ricchezze che i Concini drenarono dalla Francia verso Firenze e Roma, e che furono oggetto di trattative del governo francese. Ivi, pp. 181-194 e Appendice documentaria, pp. 236-246.

     [8] S. Mamone, Firenze e Parigi, due capitali dello spettacolo per una regina, Maria de Medici, Firenze, Edizioni Amilcare Pizzi, 1987, p. 167.

     [9] G. Bentivoglio, La nunziatura di Francia del cardinale Guido Bentivoglio: Lettere a Scipione Borghese, cit., p. 106.

     [10] R. Mousnier, La Venalite des offices sous Henri IV et Louis XIII, Rouen, Edition Maugard, 1946, p. 128. Per l’accostamento del pensiero di Vanini a quello del Machiavelli nei documenti d’epoca: M. Leopizzi, Les sources documentaires du courant libertin français Giulio Cesare Vanini, preface de Giovanni Dotoli, Fasano, Schena editore e Press de L’Universitè de Paris-Sorbone, 2004, p. 294.

     [11]  J. Orieux, Caterina De Medici, Milano, Mondadori, 1987, p. 253. Innocent Gentillet in Les Discours sur les moyens de bien gouverner contre Nicholas Machiavelli florentin, Ginevra, 1576, come evidenzia Smith, offre numerosi esempi di «trame transalpine, tratte dalla storia e legate ai termini “massacro”, “macelleria”, “crudeltà”, “tradimento”, “slealtà”, “perfidia”, “avvelenamento”. Inoltre, non è indifferente vedere che Gentillet eviti di usare questo registro lessicale quando si tratta di omicidi o di attacchi premeditati da parte dei francesi»: M. Smith, Complots, révoltes et tempéraments nationaux: Français et Italiens au XVIe siècle, in Complots et conjurations dans l’Europe moderne. Actes du colloque international organisé à Rome, 30 septembre-2 octobre 1993, Rome, École Française de Rome, 1996, p. 95. Per i francesi, il “dissimuler comme l’Italiene” divenne proverbiale. L. Sozzi, Rome n’est plus Rome. La polémique anti-italienne, Paris, Classiques Garnier, 2022, p. 23. Inoltre si veda: S. Mastellone, Venalità e machiavellismo in Francia (1572-1610), Firenze, Olschki, 1972. Il pensiero di Machiavelli fu avversato da parte cattolica ma con più veemenza da quella riformata: S. Apollonio, Giulio Cesare Vanini e il libertinismo francese del Seicento, in Giulio Cesare Vanini nella cultura filosofica francese del Seicento e del Settecento. Dal Libertinisme Érudit all’Illuminismo, a cura di Simona Apollonio, Mario Carparelli, Domenico M. Fazio, Napoli, La Scuola di Pitagora, 2019, p. 92. Il legame di Vanini col machiavellismo, sostiene Di Napoli, è rintracciabile nell’Amphiteatrum e nel De admirandis, ma soprattutto nell’interpretazione che ne dà: “facendone a sua volta una chiave di lettura finalizzata allo smascheramento della religione come strumento di manipolazione delle coscienze da parte dell’ordine costituito”: A. Di Napoli, Vanini tra tormento umano e inquietudine religiosa, in «L’Idomeneo. Giulio Cesare Vanini: dal Salento all’Europa. Nel IV Centenario della morte sul rogo (1619-2019)», Università del Salento, 2020, p. 81. Come evidenzia De Paola, il regicidio di Enrico IV alimentò una reazione antitaliana per cui duemila fiorentini furono espulsi da Parigi: F. De Paola, Giulio Cesare Vanini da Taurisano filosofo europeo, Bari, Schena Editore, 1998, p. 269.

     [12] François Hotman, Matagonis De Matagonibus, Decretorum Baccalaurei, Monitoriale Adversus Italogalliam Sive Antifrancogalliam, Antonij Mathare, [senza luogo di pubblicazione], 1575, p. 19. M. Sanfilippo, “Ipsi sugunt sanguinem et medullam miserae plebis Franco-gallicae”: gli italiani in Francia nella lunga età moderna (XIV-XX secolo), in «Studi Emigrazione», n.187, 2012, pp. 456-485, in particolare pp. 362-365. J.-F. Dubost, La France italienne XVIe-XVIIe siècle, preface de Daniel Roche, Paris, Aubier, 1997, p. 271. Jacques Gohory (1576), traduttore di Machiavelli, scrive che “gli italiani se ne vengono in Francia senza portarsi niente che uno scrittoio e delle carte e con le loro banche velocemente arricchiscono e fanno bancarotta” e “si portano via, facendo come le cavallette che se ne vanno dopo aver brucato tutto”: J.-F. Dubost La France italienne XVIe-XVIIe, cit., p. 308. Nel giugno 1572 molti italiani erano stati trucidati nel corso di un tumulto xenofobo, sulla base dell’accusa di aver rapito ed ucciso bambini e di praticare stregonerie: A. Jouanna, La Saint-Barthélemy. Les mystères d’un crime d’État (24 août 1572), Paris, Gallimard, 2007, pp. 160-190, e S. Tabacchi, La strage di San Bartolomeo. Una notte di sangue a Parigi, Roma, Salerno editrice, 2018, p. 101. In definitiva, scrive Dubost, l’antitalianismo francese è di matrice culturale, economica, politica: J.-F. Dubost La France italienne XVIe-XVIIe, cit., pp. 308-318.

     [13] D. P. O’ Connell, Richelieuil cardinale che eresse la grandeur della Francia, Milano, Bompiani, 1983, p. 37. Nell’assise emerse la figura di Richelieu, vescovo di Loudun, altra creatura di Maria de Medici, che intervenne a nome del Primo Stato.  Ivi, p. 43. Nel 1615 viene pubblicato l’anonimo libello La Chemise sanglante de Henry le Grand, attribuito al ministro ugonotto Pierre Pèrisse e indirizzato a Luigi XIII, a cui si rivolge il defunto Henrico (“mon cher fils”) che accusa Concini e quindi la conterranea regina di essere responsabili della sua uccisione e non solo “votre mère ne parle pas que par l’organe de Conchine, & sa forciere de femme ce coyon est premier Gentil-Home de votre chambre, maitre de vos tresor”: La Chemise sanglante de Henry le Grand, [s.l. s.d. ma 1615], p. 5.

     [14] T. Fillon, 1617: la prise du pouvoir par Louis XIII, d’après les mémoires de Claude Guichard Déageant, Histoire, 2016. https://dumas.ccsd.cnrs.fr/dumas-01459248

     [15] Vittorio Siri, Memorie recondite di Vittorio Siri dall’anno 1601 fino all’anno 1641, Volume 4, Parigi, Cramoisy, 1677, p. 29.

     [16] F. Leroux, L’autre famille royale. Bâtards et maîtresses d’Henri IV à Louis XIV, Paris, Passés Composés/Humensis, 2022, p. 105.

     [17] F.- T. Perrens, Les libertins en France au XVIIe siècle, Paris, Léon Chailley Éditeur, s. d (ma 1896), pp. 61-63.

     [18] J. M. Hayden, “The Estates General of 1614” (1963). Dissertations.701. https://ecommons.luc.edu/luc_diss/701, p. 7. Idem, France and the Estates General of 1614, Cambridge University Press, 1974.

     [19] F. P. Raimondi, Giulio Cesare Vanini nellEuropa, cit., p. 389. Tuttavia, il tramonto di Concini, osserva Dubost, segna la fine brutale di un’epoca che ha garantito un spazio di libertà all’uomo barocco, di cui lo stesso Vanini si è giovato. J.-F. Dubost, Marie de Medicis. La reine dévoilée, Parigi, Payot, 2009, p. 566. “Il partito mediceo e filoitaliano” che si scontrava con Luigi XIII, gettò la Francia in una vera e propria anarchia, come scrive Raimondi, che inoltre evidenzia quanto “il biennio della guerre civili (1614-1616) ovvero gli anni in cui [Vanini] si accingeva alla stampa delle sue opere la realtà culturale della Francia era notevolmente mutata”. Lo scontro tra le due fazioni lasciava spazio a una certa libertà di cui anche Vanini poté godere a seguito del cosiddetto “fattore Parigi”. M. Carparelli, Giulio Cesare Vanini nella Francia del Seicento, in Giulio Cesare Vanini e il libertinismo francese del Seicento, cit., pp. 11-15. Con l’ascesa al trono di Luigi XIII, la Francia fu “ricattolicizzata”. “La reazione cattolica cominciò così ad assestare i suoi colpi più efficaci. Condanne esemplari misero fine all’esperienza di un Andrea di Lizza, di un Jean Fontanier, di un Cosme Ruggieri”: F. P. Raimondi, Giulio Cesare Vanini nellEuropa, cit., p. 376. Per l’accostamento Ruggeri-Vanini: M. Leopizzi, Les sources documentaires du courant libertin français Giulio Cesare Vanini, cit., p. 434. Secondo Tabacchi, fu Marino a introdurre alla corte francese Vanini mentre per il poeta il tramite fu Leonora: S. Tabacchi, Maria de’ Medici, cit., p.180.

     [20] F. De Paola, Giulio Cesare Vanini da Taurisano, cit., p. 269; Idem, Nuovi documenti per una rilettura di Giulio Cesare Vanini, in «Bruniana & Campanelliana», Vol. 5, n. 1, 1999, p. 201.

     [21] G. Ferroni, Momenti dell’emigrazione intellettuale italiana, in Aa.Vv., L’Italia fuori d’Italia. Tradizione e presenza della lingua e della cultura italiana nel mondo. Atti del Convegno (Roma, 7-10 ottobre 2002), Roma, Salerno editrice, 2003, pp. 127-128.

     [22] J.-F. Dubost, Marie de Medicis La reine dévoilée, cit., pp. 82-83; S. Tabacchi, Maria de’ Medici, cit., p. 34. Singolarmente un altro Ammirato operò alla corte in Francia, ovvero Scipione Ammirato il giovane, il cui vero nome è Cristoforo del Bianco (Montaione 1582-Firenze 1656), entrato giovinetto come scrivano e aiutante di Scipione Ammirato, il quale, con un atto di ultima volontà (11 gennaio 1601), di poco precedente la morte (30 gennaio), nominava Cristoforo “testatoris famulo” e gli legava beni, libri e manoscritti, alla condizione di assumere, insieme allo stemma di famiglia, il nome degli Ammirato. C. Valacca, Contributo alla biografia di Scipione Ammirato, in «Rassegna Pugliese di Scienze Lettere e Arti», vol. XIV, Trani-Bari, febbraio 1898, pp. 442-444. Per intercessione del Granduca di Toscana Cosimo II, Ammirato il giovane fu assegnato all’ambasciata in Francia dal 1607 al 1614 come segretario Residente alla Corte di Francia e poi Reggente. R. De Mattei, Scipione Ammirato «Il vecchio» e Scipione Ammirato «Il giovane», in «Archivio Storico Italiano», vol. 119, n. 1, 1961, p. 63.

     [23] G. Bentivoglio, La nunziatura di Francia del cardinale Guido Bentivoglio, cit., p. 202.  

     [24] G. Minois, Il pugnale e il veleno. L’assassinio politico in Europa (1400-1800), Torino, Utet, 2005, p. 250. “L’immagine dell’onnipotenza concinista fu creata e consolidata dalla diffamazione principesca, secondo la quale la bassa estrazione di un gentiluomo fiorentino naturalizzato francese nel 1601 non avrebbe potuto giustificare un accumulo di favori sproporzionati”. Y. Rodier, Les libelles et la fabrique de l’odieux (1615-1617): l’imaginaire de la haine publique et le coup d’État de Louis XIII, in «Dix-septième siècle», vol. 276, n. 3, 2017, p. 445. Il partito dei Concini rispose da par suo tanto che Duccini parla espressamente di “guerres des libelles”: H. Duccini, Concini Grandeur et misère du favori de Marie de Médicis, Albin Michel, 1991, pp. 148-152. Concini minava il potere del principe di Condè il quale era secondo nell’ordine di successione al trono dopo Luigi XIII e punto di riferimento dell’aristocrazia ugonotta che guardava con sospetto alla politica estera filospagnola della Reggenza. M. P. Holt, French Wars of Religion, 1562-1629, Cambridge University Press, 2005, pp. 180-181. Il 3 maggio 1616 venne firmata la Pace di Loudun, un trattato stipulato tra Maria dei Medici e Enrico II di Borbone-Condé, ma quello stesso anno Condè venne fatto arrestare dal Concini, il che portò all’estrema esasperazione la nobiltà francese essendo il Condè di sangue reale.

     [25] V. L. Tapié, La Francia di Luigi XIII e di Richelieu, Milano, Il Saggiatore, 1967, p. 96.

     [26] R. Pintard, Le libertinage érudit – dans la première moitié du XVIIe siècle, cit., p. 7.

     [27] Dal 1615 in poi ella ebbe nella nomina o destituzione di alti funzionari responsabilità ancora maggiori del Concini: “Conduceva gli affari senza consigliarsi con lui, scrivendogli solo a cose fatte”. Si veda la voce, a cura di William Monter, in DBI, Vol. 41, 1992 (on line). Nel 1617 alla regina madre fu imposto l’esilio e venne condannata alla damnatio memoriae. C. Casanova, Regine per caso. Donne al governo in età moderna, Bari, Laterza, 2014, p. 161. Più vivo di quello della Regina è il ricordo della Galigai, ancora oggi oggetto di interesse letterario che ne perpetua la “leggenda nera”. C. Fabbri, Concino Concini maresciallo d’Ancre, cit., pp. 196-214. “Il boia afferrò la testa dei lunghi capelli neri come se si trattasse della testa della Medusa”: M. Strukul, La decadenza di una famiglia, in I Medici la saga completa, Roma, Newton Compton Editore, 2018, p. 923. Ancora più triste è la sorte storica della finzione letteraria; infatti il 5 luglio Bentivoglio scrive al cardinal Borghese: “fu tagliata pubblicamente la testa ieri l’altro ed il corpo fu poi abruciato e le ceneri sparse nell’aria”. G. Bentivoglio, La nunziatura di Francia del cardinale Guido Bentivoglio, cit., p. 338.

     [28] H. Duccini, Concini Grandeur et misère du favori de Marie de Médicis, cit., p. 319. La regina pochi giorni prima dell’inizio del processo, il 3 maggio, con Richelieu abbandonerà Parigi per il castello d Blois.

     [29] Ms Cinq cents Colbert 221, f. 406r, trascrizione in F. Hayem, Le Maréchal d’Ancre et Léonora Galigaï. Notice biographique, Paris par M. Abel Lefranc, 1910, p. 308, e in E. de Castro, La Galigai, Oliver Orban, 1990, p. 395.

     [30] E. Chartraire, Un chanoine de Sens impliqué dans le procès de Léonora Caligaï, Maréchale d’Ancre. André de Lizza, in «Bulletin de la Société archéologique de Sens», Tome XXXV, 1927, Sens, Emm. Duchemin Imprimeur Éditeur, 1928, pp. 82-83.

     [31] Si ringrazia il dott. Giacomo Cominotti dell’Archivio Storico Diocesano dell’Arcidiocesi di Lecce.

     [32] A. Caputo, In umbelico civitatis: profilo storico e note archivistiche dei Teatini di Lecce, Castiglione, Giorgiani, 2018, p. 101.

     [33] G. Galeota, Genesi, sviluppi e fortuna delle controversie di Roberto Bellarmino, in Bellarmino e la Controriforma, Atti del Simposio internazionale di studi, Sora, 15-18 ottobre 1986, a cura di Romeo De Maio, Agostino Borromeo, Luigi Giulia, Georg Lutz, Aldo Mezzacane, Sora, Centro di Studi Sorani “Vincenzo Patriarca”, 1990, p. 14, nota 30. Scrive Fuligatti: “il sign cardinale di Perona quando doveva andare a trovare il cardinale Bellarmino soleva dire Eamus ad magistrum”. Giacomo Fuligatti, Vita del cardinale Roberto Bellarmino della Compagnia di Giesù (S.I.), Roma, appresso l’Herede di Bartolomeo Zannetti, 1624, p. 67.  Perron divenne l’esponente di punta degli ultramontani che reclamavano una maggiore fedeltà della Francia al papato attraverso il recepimento dei decreti tridentini. S. Mastellone, La reggenza di Maria de’ Medici, Firenze-Messina, Casa Editrice G. D’Anna, 1962, p. 25.

     [34] H. Fouqueray, Histoire de la Compagnie de Jésus en France: des origines à la suppression, (1528-1762), Paris, Picard, 1913, p. 433. Bellarmino e du Perron furono punte di diamante della Riforma cattolica. Si veda S. Tutino, Empire of Souls: Robert Bellarmine and the Christian Commonwealth, Oxford University Press, 2011, pp. 145ss.

     [35] J. Lacouture, I Gesuiti. La conquista (1540-1773), Casale Monferrato, Piemme, 1994, p. 441.

     [36] J.-F. Dubost, Marie de Medicis, cit., p. 97.

     [37] J. Bergin, L’itinéraire d’un prélat de cour en temps de transition, in Jacques Davy du Perron (1556-1618): Figures oubliées d’un passeur de son temps, Rennes, Presses universitaires de Rennes, 2023 https://doi.org/10.4000/books.pur.189823 pp. 16-17.

     [38] Les Ambassades et negotiations de l’Illustrissime et Reverendissime Cardinal Du Perron, Archevesque de Sens, primat des Gaules et de Germanie, et Grand Aumonier de France. Avec les plus belles et eloquentes lettres, tant d’Estat et de doctrine, que familieres, qu’il a écrittes sur toutes sortes de sujets, aux Roys, Princes, Princesses, Ducs, Republiques, Grands Seigneurs,[…]Recueillies & accompagnées de Sommaires & Advertissements, par Cesar de Ligny, secrétaire du dit Seigneur […], Paris, Antoine Estienne, 1623.

     [39] R. Mousnier, La costituzione nello stato assoluto. Diritto, società, istituzioni in Francia dal Cinquecento al Settecento, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2002, pp. 191-192.

     [40] P. Brunel, Storia della letteratura Francese, edizione italiana di Giovanni Bogliolo, Bologna, Il delfino, 1973, pp. 155-156.

     [41] G. Guéry, Doyenne de l’Aigle, du Diocese d’Eureux Grand Pouillé Di diocèse D’Euvreu Conservè aux archive dell’Eure G.22 à G.35, in «Diex Aie Revue Catholique de Normandie», Anno XXXIII, n. I, Evreux-Rouen, 1924, pp. 52-53.

     [42] F. Hayem, Le Maréchal d’Ancre et Léonora Galigaï, cit., pp. 241-243.

     [43] Ivi, p. 281.

     [44] A. E. Genty, Livry et son abbaye: recherches historiques, Société anonyme de publications périodiques, P. Mouillot, 1898, p. 89. È anche indicato come “presbyter Neapolitanus”. Denis de Sainte-Marthe, Gallia christiana in provincias ecclesiasticas distributa, T. VII, Paris, ex Typographia Regia, 1744, p. 845.

     [45] Archives Nationales, MC/ET/LXXIII/286, con firma autografa “A. De Lizza”.

     [46] Mémoires du cardinal de Richelieu : publiés d’après les manuscrits originaux pour la Societé de l’histoire de France sous l’auspices de l’Academie française Tome 2, 1615-1619 publie sous la direction de le Baron de Courcel par Horric de Beaucaire; avec la collaboration de Robert Lavollee, Paris, 1909, p. 237, nota 1.

     [47] A. E. Genty, Livry et son abbaye, cit., p. 90.

     [48] E. de Castro, La Galigai, cit., p. 396 e F. Hayem, Le Maréchal d’Ancre et Léonora Galigaï, cit., pp. 310-311. Lizza di fatto con questa affermazione fornì elementi d’accusa contro la Galigai poichè sostanziava l’ascendente malefico che la stessa poteva esercitare anche sulla regina. J. Bloundelle Burton, The Fate of Henry of Navarre, London, Everett & Co, 1911, p. 91. L’accusa di stregoneria nei confronti della Galigai finì col rendere meno grave la posizione della regina poichè, essendo ella “affascinata”, non veniva ritenuta responsabile dell’operato dei Concini. A. E. Duggan, Criminal Profiles, Diabolical Schemes and Infernal Punishments: The Cases of Ravaillac and The Concinis, in «Modern Language Review», n. 105, 2, aprile 2010, p. 375.

     [49] Mémoires du cardinal de Richelieu, cit., p. 327, nota 1.

     [50] BnF Ms Cinq centes Colbert 221, f. 406r, trascrizione in E. de Castro, La Galigai, cit., p. 179 e F. Hayem, Le Maréchal d’Ancre et Léonora Galigaï. Notice biographique, cit., p. 308. Il tutto viene ribadito nell’interrogatorio alla Galigai del 15 giugno 1617.

     [51] H. Duccini, Concini Grandeur et misère du favori, cit., p. 370.

     [52] Lizza fa qui riferimento al castello che Concini acquista a Lésigny (Seine-et-Marne) nel 1613 e che viene poi confiscato nel 1617. Félix Pascal, Histoire topographique, politique, physique et statistique du département de Seine-et-Marne, Tome 1, Crété et Thomas Corbeil et Melun, 1836, p. 218, e Dori Galigai Leonora, a cura di William Monter, in DBI, V. XLI, 1992 (on line).

     [53]  E. de Castro, La Galigai, cit., p. 262.

     [54] Vittorio Siri, Memorie recondite di Vittorio Siri dall’anno 1601 fino all’anno 1641, cit., p. 70.

     [55] La frequentazione di un ebreo fu un altro fra i capi d’accusa contro la Galigai, insieme alle “fattucchierie ed empietà delle giudaiche superstizioni della Concina”, come dice Vittorio Siri, Memorie recondite di Vittorio Siri, cit., p. 71. L’antisemitismo si manteneva forte nell’Europa del tempo e gli ebrei erano stati espulsi dalla Francia. Già dai tempi della regina Caterina alla corte di Francia sono noti gli interessi per le forme magico-filosofiche (magismo) proprie della cultura del Rinascimento Italiano, basti citare la figura di Nostradamus. J. M.  Bradburne, Donne, immagini e potere, in Caterina e Maria de’ Medici: donne al potere. Firenze celebra il mito di due regine di Francia, a cura di Clarice Innocenti, Firenze, Ediz. Illustrata Mandragora, 2008. p. 24.  S. Mamone, Firenze e Parigi, cit., p. 145.

     [56] Vittorio Siri, Memorie recondite di Vittorio Siri, cit., p. 70. I. de Kertanguy, in Leonora Galigaï, l’âme damnée de Marie de Médicis, Paris, Pygmalion, 2005, p.108, parla espressamente di isteria e crisi epilettiche. Se pensiamo all’uso della musica come palliativo e consideriamo le origini salentine del de Lizza non sarebbe azzardato supporre di essere di fronte a manifestazioni riconducibili al tarantismo.

     [57] W. Monter, Dori( Galigai) Leonora, cit..

     [58] G. Bentivoglio, La nunziatura di Francia del cardinale Guido Bentivoglio, cit., pp. 30-31.

     [59] Voltaire, Opere Storiche, a cura di Domenico Felice, Milano, Bompiani, 2022, pp. 92-93. Comunque la “leggenda nera” dei Concini, come la definisce Tabacchi, “deriva in larga parte da una costruzione ideologica”. S. Tabacchi, Maria de’ Medici, cit., p. 81.

     [60] Come si riporta alla nota 1 di p. 323 in La nunziatura di Francia del cardinale Guido Bentivoglio, cit.,  “è scritto Liuri come nell’originale; ma si deve leggere Livry en Lannoi, abbadia di Agostiniani di cui era abbate Antonio da Lizza, Napoletano”.

     [61] Parigi, 9 maggio 1617, in Ivi, p. 213.

     [62] Parigi, 16 maggio 1617, in Ivi, p. 232. Queste lettera parla solo di de Lizza.

     [63] Roma, 27 maggio 1617, in Ivi, p. 323.

     [64] Mémoires du cardinal de Richelieu, cit., p. 327, nota 1.

     [65] Lo storico di corte di Luigi XIII, Scipione Dupleix, nel 1643 nella sua Histoire de Louis le Juste, commentando la morte del presule crea un suggestivo paragone con “Lucilio Italiano Athéé” (cioè Vanini) un “mostro” divorato dall’inferno mentre il cielo nello stesso anno, dice, accoglie “une des plus belle ames du monde”, ossia Du Perron. M. Leopizzi, Les sources documentaires du courant libertin français Giulio Cesare Vanini, cit., pp. 265-266.

     [66] Nella vicenda vaniniana, ebbe un ruolo determinante la Compagnia di Gesù e proprio nel collegio di Tolosa operò per oltre un decennio il gesuita, conterraneo di Vanini, Ignazio Balsamo (Specchia 1543-Limonge 1618). C. Ginsbourg, ad vocem, in BDI, V. 5, 1963 (on line); M. A. Lynn, The Jesuit Mind. The Mentality of an Elite in Early Modern France, Cornel Uninersity Press, 1988.  Ignazio fu prefetto dei novizi nel collegio di Avignone, direttore di coscienza a Tolosa per sedici anni e per diciassette a Limoges. Qui si spense il 2 ottobre 1618. Nel 1612 a Colonia diede alle stampe Instructio de perfectione religiosa, tradotto in francese, tedesco e in inglese nel 1622. Oltremanica questo libro divenne il testo di riferimento della controriforma. Si veda: An instruction how to pray and meditate well Distinguished into thirtie six chapters. […]by the reverend Father Ignatius Balsamo Priest of the Societie of Jesu And Traslated out French into English by Iohn Heigham, Whith license of superior, 1622, e ancora edito nel 1972 a Menston, per Scolar Press. Balsamo ebbe un ruolo attivo nel progetto di riconversione dell’Inghilterra. M. J. Yellowlees, Father William Crichton’s Estimate of the Scottish Nobility, 1595, in Sixteenth-century Scotland: essays in honour of Michael Lynch, edited by Julian Goodare and Alasdair A. MacDonald, Leiden, Brill, 2008, p. 300.

     [67] M. Leopizzi, Les sources documentaires du courant libertin français, cit., p. 54. Contro Concini furono pubblicati nel 1615 386 libelli, 180 nel 1616 e 200 nel 1617: Y. Rodier, Les libelles et la fabrique de l’odieux (1615-1617): l’imaginaire de la haine publique et le coup d’État de Louis XIII, in «Dix-septième siècle,» vol. 276, n. 3, 2017, p. 441.

     [68] D. Foucault, Un Philosophe Libertin Dans l’Europe Baroque: Giulio Cesare Vanini 1585-1619, Paris, Classiques Garnier, 2023, p. 433.

     [69] Ivi, p. 440.

 

Libri| Il restaurato organo Inzoli (1897) della Cattedrale di Nardò

 

di Marcello Gaballo

In occasione dell’inaugurazione dell’Organo Inzoli (1897) presente nella Basilica Cattedrale di Nardò, che si terrà sabato 15 febbraio alle ore 19:00, sarà distribuito un lavoro a stampa che illustrerà il monumento, restaurato tra il 2024 e il 2025.

L’edizione, promossa dal Comitato Feste Patronali “San Gregorio Armeno”, mira ad esaltare l’opera mirabile dello strumento, frutto della fede, del genio e della mano dell’uomo, voluto da monsignor Giuseppe Ricciardi, illuminato vescovo della sede neritina per circa vent’anni. In essa si illustrano le caratteristiche tecniche e gli interventi di restauro dell’organo, a trasmissione meccanica per le tastiere e pneumatica per il pedale, costruito nel 1897 dal celebre costruttore Pacifico Inzoli di Crema. Come ricorda la targa in marmo apposta nel 1898 sulla parete muraria, a lato destro della facciata dell’organo, la donazione fu elargita dai coniugi Cle­mentina Personè (1840 ca.-1899) e Bernardino Tafuri di Melignano (1827-1900). Gli stemmi dei due nobili benefattori furono magnificamente riprodotti in rilievo sul fronte della balconata, scolpiti dalla Scuola d’arte di Maglie diretta da Egidio Lanoce (1857-1927).

Il monumentale organo è collocato sul lato destro della navata centrale, all’interno di un vano ricavato nella struttura muraria, con una cantoria lignea e un prospetto ligneo neogotico a tre campate; la facciata è composta da 21 canne in zinco. Le tastiere cromatiche hanno 58 tasti, con tasti bianchi rivestiti di osso ed i diesis in ebano.

Già restaurato nel 1948 dalla stessa Fabbrica d’Organi Inzoli Cav. Pacifico, ha ora beneficiato di un intervento di restauro filologico a cura di Ettore Claudio Bonizzi, che ha permesso il recupero di molte parti originali, il restauro della cassa lignea e dei numerosi sostegni, gravemente danneggiati da un’infestazione di termiti. Sono stati inoltre ricostruiti alcuni elementi ormai irrecuperabili e l’apparato strutturale è stato rinforzato con un ulteriore piano di sostegno per garantirne maggiore stabilità e durata nel tempo.

Dopo un lungo e meticoloso intervento di restauro, lo strumento viene finalmente restituito alla Comunità, non solo come preziosa testimonianza storica e artistica, ma anche come veicolo di cultura e spiritualità. Il suono ritrovato di questo organo rappresenta un ponte tra passato e presente, un invito a riscoprire il valore della tradizione musicale e il potere evocativo della musica sacra. Il restauro è stato possibile grazie all’intervento della CEI, di alcune confraternite cittadine e di devoti benefattori, che hanno dimostrato la loro unione spirituale con il più importante edificio religioso, l’Ecclesia Mater, della Città.

La pubblicazione, arricchita da foto di Lino Rosponi, è stata stampata da Arti Grafiche – Nardò, Edizioni Fondazione Terra d’Otranto, ISBN: 9788894599367. Un posto preminente nell’edizione è riservato al saggio magistrale della prof. Elsa Martinelli, già Ispettore onorario “per la tutela e la vigilanza degli organi a canne storici per le province di Lecce, Brindisi e Taranto” , già docente di “Poesia per Musica e Drammaturgia Musicale” al Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce.

Non potevano mancare nel libro i riferimenti ai due grandi organisti neritini che si succedettero alle tastiere del prestigioso organo, Giovanni] Manfroci e Egidio Schirosi (1895-1991), direttore e compositore, oltre che organista, le cui doti artistiche trovarono plauso e pieni consensi fin dagli esordi in giovane età e che suonò su quell’organo per oltre 75 anni.

Cattedrale di Nardò. Inaugurazione dell’Organo Inzoli (1897), recentemente restaurato

Sabato 15 febbraio alle ore 19:00, presso la Basilica Cattedrale di Nardò, si terrà l’inaugurazione dell’Organo Inzoli (1897), recentemente restaurato tra il 2024 e il 2025. L’organo, a trasmissione meccanica per le tastiere e pneumatica per il pedale, fu costruito nel 1897 da Pacifico Inzoli di Crema. È collocato sul lato destro della navata centrale, all’interno di un vano ricavato nella struttura muraria, con una cantoria lignea e un prospetto ligneo neogotico a tre campate. La facciata è composta da 21 canne in zinco.

Già restaurato nel 1948 dalla stessa Fabbrica d’Organi Inzoli Cav. Pacifico, ha ora beneficiato di un intervento di restauro filologico che ha permesso il recupero di molte parti originali, il restauro della cassa lignea e dei numerosi sostegni, gravemente danneggiati da un’infestazione di termiti.

Sono stati inoltre ricostruiti alcuni elementi ormai irrecuperabili e l’apparato strutturale è stato rinforzato con un ulteriore piano di sostegno per garantirne maggiore stabilità e durata nel tempo.

Dopo un lungo e meticoloso intervento di restauro, lo strumento viene finalmente restituito alla Comunità, non solo come preziosa testimonianza storica e artistica, ma anche come veicolo di cultura e spiritualità. Il suono ritrovato di questo organo rappresenta un ponte tra passato e presente, un invito a riscoprire il valore della tradizione musicale e il potere evocativo della musica sacra.

L’auspicio è che possa educare e ispirare sia le nuove che le vecchie generazioni, trasmettendo loro il senso della bellezza, della memoria e dell’armonia, e contribuendo così ad elevare gli animi attraverso il suo inconfondibile timbro.

Alla cerimonia saranno presenti il Vescovo Mons. Fernando Filograna, che benedirà il recuperato strumento, il parroco Mons. Giuliano Santantonio e il restauratore Ettore Claudio Bonizzi.

Durante la serata si terrà la performance del M° Francesco Scarcella, direttore artistico del Festival Organistico del Salento, docente di Organo presso il Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce e ispettore onorario del MiBAC per gli organi storici delle province di Lecce, Brindisi e Taranto, che illustrerà anche le caratteristiche tecniche e storiche dell’organo restaurato.

Francesco Scarcella

 

Il Maestro Francesco Scarcella, salentino, ha compiuto gli studi di Organo e Composizione Organistica presso il Conservatorio “T. Schipa” di Lecce, Musica Corale e Direzione di Coro al Conservatorio “N. Piccinni” di Bari e Strumentazione per Banda al Conservatorio “N. Rota” di Monopoli. Ha inoltre studiato Prepolifonia, Clavicembalo, Direzione d’Orchestra e Composizione al Conservatorio “B. Marcello” di Venezia, oltre a Clavicembalo, Fortepiano e Pianoforte presso il Royal College of Music di Londra.

Ha seguito il corso di Musicologia alla Scuola di Filologia Musicale di Cremona presso l’Università di Pavia e si è specializzato nel repertorio tastieristico rinascimentale, barocco e classico, privilegiando l’uso di strumenti storici, presso l’Accademia Musicale Chigiana di Siena, l’Accademia di Musica Italiana per Organo di Pistoia e l’Accademia Organistica Internazionale di Treviso. La sua formazione è stata completata con artisti di fama mondiale quali T. Koopman, G. Leonhardt, Ch. Stembridge, A. Marcon, A. Corghi, A. Ciccolini e M. Bilson.

Da decenni promuove la riscoperta, la salvaguardia e il recupero del patrimonio organario e del repertorio organistico della Puglia. Parallelamente all’attività concertistica, affianca quella di compositore e revisore, pubblicando per Ars Publica.

Suonerà l’organo anche il concertista di fama internazionale Stefano Mhanna, nato a Roma l’11 luglio 1995. Diplomato in violino, organo e composizione organistica presso il Conservatorio di Musica “S. Cecilia” di Roma, con perfezionamento in musica antica (2012), ha inoltre conseguito i diplomi in viola e pianoforte presso il Conservatorio “L. Marenzio” di Brescia e il Conservatorio “G. Braga” di Teramo (2012).

Stefano Mhanna

 

Ha ricevuto numerosi riconoscimenti da istituzioni statali e dal Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, tra cui il Premio “Nuove Carriere 2006”, il Premio “Alma Pales-Comune di Roma”, il Premio internazionale “Maison des Artistes”.

Si è esibito come solista in importanti teatri e festival internazionali, collaborando con rinomate orchestre presso il Teatro Regio di Torino, l’Akademia e Arteve di Tirana per la “Stagione Internazionale di Musica Klasik” e il Circolo del Ministero degli Affari Esteri. Ha tenuto concerti solistici e cameristici in prestigiose sedi, tra cui la Cattedrale di Saint-Pierre di Ginevra, la Basilica Santuario S. Rita da Cascia, la Chiesa S. Giuseppe Artigiano di Foligno, la Basilica del Sacro Cuore e la Basilica S. Maria Ausiliatrice di Roma. Ha inoltre partecipato a importanti rassegne come l’Associazione Omaggio all’Umbria – Festival Assisi nel Mondo, la Camerata Musicale Barese, la Camerata Musicale Sulmonese, l’Accademia Filarmonica di Messina e il Festival Violinistico Internazionale “Estate Musicale del Garda” di Salò.

Ha collaborato come solista con prestigiose orchestre, tra cui l’Orchestra Filarmonica di Bacau (O. Balan), la Grande Orchestra Rachmaninov (N. Rogotnev), la Kiev Women Chamber Orchestra, l’Orchestra Regionale Filarmonia Veneta, l’Orchestra da Camera Pressenda, la Camerata Strumentale “A. Marcello”, l’Ensemble “Le Armoniche Stravaganze”, l’Orchestra Filarmonica di Torino (D. Giorgi) e l’“Italian Ensemble” del Teatro Massimo Bellini di Catania.

È stato ospite di reti RAI e citato da numerose testate giornalistiche, tra cui Viva Verdi (SIAE), Suonare News e il giornale della Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale.

Ha fondato e dirige l’orchestra “Novi Toni Comites” e ha ricoperto ruoli di direzione artistica in numerosi festival e rassegne musicali.

L’ingresso alla serata è libero.

 

Cavallino: un cenotafio, un’epigrafe e tre anagrammi funebri (2/2)

di Armando Polito

Dopo il cenotafio e la sua epigrafe, passo ai tre anagrammi. Essi costituiscono, rispetto a qualsiasi monumento, una testimonianza, per così dire, parzialmente immateriale, perché contenuti in una pubblicazione uscita in occasione della morte di Beatrice. Si tratta di Descrizione delle pompe funerali nell’esequie dell’illustriss. signora D. Beatrice Acquaviva D’Aragona, marchesa di Caballino. Celebrate a 24 agosto dell’anno 1637. Del M.R.P bacelliere fra Giovanni Palombo della citta di Lecce, Pietro Micheli, Lecce, 1638. I tre anagrammi si leggono nella parte che raccoglie vari componimenti scritti da diversi autori per l’occasione1, come mostra la pagina iniziale.

Quello che, almeno graficamente, ha le fattezze di un frontespizio, è in latino. Lo tradurrò sezione per sezione, cominciando dal titolo, che occupa le prime tre righe: è nelle prime cinque righe:  Varie opere latine di diversi. A seguire: in morte dell’illustrissima Donna Beatrice Acquaviva d’Aragona.

Subito dopo inizia la serie dei componimenti: Primo scritto del molto reverendo gesuita Francesco Belli2. Qui sono sciolte le giuste lacrime per Beatrice Acquaviva. Dunque richiameremo dalle tenebre della tomba alla luce di questo fulgente cenotafio la nobilissima donna a noi rapita.  Vedere di contro quanto inopportunamente fu sottratta una donna animata da virtù. Sarai pianta dalla lacrimevole gentilezza del recente dolore e sarai guardata con amarissimo sentimento di tristezza. Il marito offre dunque alle sacre ceneri lacrime e sepoltura.

Nonostante il Latina del titolo, la seconda parte ospita componimenti in volgare. Gli autori sono tra i letterati salentini più noti di quegli anni. Tra gli autori in latino spicca con un componimento Girolamo Cicala3, tra quelli in volgare Agostino Sanpier De Negri4 con cinque, col record di nove detenuto da Carlo Schito5; né poteva mancare il contributo, con cinque, del rappresentante del ramo napoletano della famiglia di Beatrice: Tommaso Acquaviva6.

Dei componimenti passerò in rassegna i tre in cui il personaggio è celebrato con una frase anagrammaticamente ricavata dal suo nome, replicata, con qualche adattamento, in uno dei versi dell’epigramma che segue.

Un anagramma oggi ci appare poco consono alla compostezza che il momento richiedeva. In realtà, essendo un esempio di abilità inventiva in campo linguistico, fu, insieme con la metafora, ingrediente immancabile nella produzione barocca, soprattutto nel filone celebrativo, anche, come qui, in morte. Per quanto riguarda il rigore enigmistico va detto che nessuno dei tre è perfetto, come mostrerò alla fine di ognuno.

Da p. 8

:

Di don Vincenzo Presteno di Campi

BEATRICE DI ACQUAVIVA

Anagramma

VERA DEA COLEI CHE È MORTA

Passeggero,  chiunque tu sia a venire presso questa sacra urna,  ferma il passo e a capo scoperto inginocchiati. Qui giace una divina eroina, adorala prono con una preghiera, impara a seguire il cammino che ti indica verso il Cielo. A lei offerte per mezzo dei favi (offerte di miele), sarai condannato dalle offerte (insufficienti), vera dea è quella che è lontana dalla terra per essere vicina.

Come anticipato poco fa, l’inizio ricalca una formula ed un’immagine topiche delle epigrafi funerarie di tutto l0impero romano e riciclate nei secoli successivi. Due esempi riguardanti la parte iniziale (a seconda conteneva i dati anagrafici del defunto con gli eventuali titoli e alla fine, spesso, il nome del dedicatario: … siste gradum quicumque2 (CIL  02, 01094); Siste gradum viator … (CIL 12, 00533)= … ferma il passo, chiunque … ; …  tu qui carpis iter gressu/ properante viator siste/gradu(m) quaeso … (CIL 02, 99558)3= … tu viandante, che cammini a passo affrettato, ferma il passo, ti prego …

 

BEATRIX DE AQUAVIVA

17 lettere (A4 B1 D1 E2 I2 Q1 R1 T1 U1 V2 X1)

 VERA DIVA QUAE ABIT

16 lettere (A4 B1 D1 E3 I2 Q1 R1 T1 U1 V1 X0)

 

Da p. 9:

L’anagramma riguarda, più che la defunta, suo marito Francesco, e pure indirettamente, visto che ne celebra la madre, Aurelia (alias Delia) Sanseverino. Non tutte le ciambelle riescono col buco, per cui l’autore è stato costretto ad adottare nella locuzione di partenza DOMNA, che è del latino medioevale, invece del classico DOMINA. In compenso non si p lasciato sfuggire la figura etimologica Aurelia aurata, entrambe da aurum=oro.
Di don Andrea d’Andrea di Cavallino
All’illustrissima genitrice dell’illustre marchese.
DONNA AURELIA SANSEVERINA.
Anagramma.
Vera rosa che sta nella reggia di Dio.

Aurelia, che potè tessere lodi dorate della Vergine celebrare le quindici rose (le centocinquanta Ave Maria recitate in dieci gruppi di quindici) e se talvolta i templi spirarono un effluvio di profumo, l’altro profumo di Aurelia sale attraverso la sommità delle stelle. O rosa vera che resta vitale nella reggia di Dio. Se nacque rosa gradita alla terra, ora lo è al cielo.

DOMINA AURELIA SANSEVERINA
24 lettere (A5 D1 E3 I3 L1 M1 N3 O1 R2 S2 U1 V1)

VERA ROSA MANENS IN AULA DEI
23 lettere (A5 D1 E3 I2 L1 M1 N3 O1 R2 S2 U1 V1)

Da p. 10, dello stesso autore:

Illustrissima signora
BEATRICE DI ACQUAVIVA DI ARAGONA
Anagramma
GODA IL MARCHESE
QUELLA DEA
INFATTI VISSE BENIGNA
QUASI DIVINA PER LA TERRA

Si fanno onoranze ad un tumulo perché non risuoni una voce mesta. Gioisca, affinché al tumulo non siano dedicati mesti onori. Essa, marchesa, è una dea degna di essere onorata. Infatti visse quasi dea del Cielo benigna per la terra, emanando un profumo eterno. Il nome vola fino alle stelle. Ha il nome e il presagio la fama che resta di Beatrice. Va’ felice e tu beata rendi beati con insieme con te pure noi.

ILLUSTRISSIMA DOMINA BEATRIX DE AQUAVIVA DE ARAGONIA
46 lettere (A9 B1 C0 D3 E3 G1 H0 I7 L2 M2 N2 O2 Q1 R3 S3 T2 U2 V2 X1)

GAUDEAT MARCHIO ILLA DEA NAM VIXIT BONA TERRIS QUASI DIVa
48 lettere (A9 B1 C1 D3 E3 G1 H1 I7 L2 M3 N2 O2 Q1 R3 S2 T3 U1 V2 X1)

_________
1 L’anno prima erano usciti, sempre per lo stesso editore: Orazioni funerali recitate nell’esequie dell’illustrissima signora d. Beatrice Acquauiua D’Aragona, marchesa di Caballino. Celebrate per tre giorni nella chiesa maggiore di detta terra. Cominciate a 24 agosto 1637, composto da Il trionfo di morte dell’illustrissima signora d. Beatrice Acquaviva D’Aragona marchesa di Caballino. Descritto, e recitato a 24 agosto 1637 dal M. R. dottor D. Angelo Fusco della terra di Morciano; Ragionamento funerale di don Basilio Pandolfi chierico regolare, in morte dell’illustriss.ma signora d. Beatrice Acquaviva D’Aragona, marchesa di Caballino; Diceria funerale del r. padre frat’Antonino da Bisceglia. Angelo Fusco fu autore di Cronologia nobilissimae familiae de Castromediano de Lymburgh in regno et illustrissimae civitatis Neapoli ab anno 1156, Pietro Micheli, Lecce, 1660. Il Pandolfi è autore anche di Rime sacre di d. Basilio Pandolfi chierico reg.e madrigali, e canzoni dedicate alla serenis.ma reina del cielo Maria Vergine madre di Dio, Pietro Micheli, Lecce, 1634
2 Autore di: Divoto tributo di Francesco Belli. Al serenissimo prencipe di Venetia Antonio Priuli dedicato all’ill.mo Sig. Gieronimo Priuli, fù dell’illustrissimo Sig. Gieronimo, Pinelli, Venezia, 1618; Sermoni della passione di Christo, Pietro Micheli, Lecce, 1635.
3 Autore di: Hieronymi Cicadae sternatiae domini Parnasus sive carminis certamen eridani, sarni, et idume ex italicis Areosti, Tassi, et Grandis, Pietro Micheli, Lecce, 1636 e Cicada sive Carmina Hieronymi Cicadæ Sternatiæ domini, Pietro Micheli, Lecce, 1649.
4 Quattro suoi suoi sonetti sono in Vari componimenti volgari, e latini jn lode dell’Illustrissimo Signor Don Francesco Lanario, et Aragona, hora Duca di Carpignano, Cavaliero dell’habito di Calatrava, et del Consiglio di Guerra di Sua Maestà Cattolica ne’ Stati di Fiandra, Governatore Generale della Provjncia di Terra d’Otranto, con la potestà ad modum belli raccolti da Giulio Cesarea Grandi, Gentil’huomo di Lecce, Patritio et Senator Romano, Cirillo, Palermo, 1621, pp. 18-20.
5 Così di lui scrive Luigi Tasselli in Antichità di Leuca, Eredi di Pietro Micheli, Lecce, 1693, p. 506, nel paragrafo dal titolo Huomini preclari in Virtù, e Sapere, che sono stati nel Secolo passato, e principio di questo, nel Capo Salentino: Presicce, che stà hoggi al comando della Signora D. Virginea Raetana Madre del Prencipe Fanciullo Vincenzo Bartilotti Piccolomini d’Aragona, mi mette davanti il suo Dottor Carlo Schito, che fù Filosofo, e Poeta molto arguto. Un suo sonetto è in Le rime di Francesco Lanario et Aragona, Carlino, Napoli, 1625, p. 12.
6 Autore di: L’aquila grande orazione per la morte di Filippo Quarto il grande monarca delle Spagne, De Bonis, Napoli, 1660; Discorso per l’Assunta, in Antonio Stefano Cartari, Discorsi sacri e morali detti nell’Accademia de gli’Intrecciati eretta dal dottore Gioseppe Carpano … Co i Fasti di tutte le accademie fin’hora tenute, Stamperia della Camera Apostolica, Roma, 1673, p. 335-347; un suo sonetto è in Antonio Bruni, Le tre Gratie, Ingrillani, Roma, 1630, p. 629 ed uno, alla fine del libro che non ha numerazione delle pagine, in Giovanni Battista Crisci, Lucerna de cortegiani, Roncagliolo, Napoli, 1634.

PER LA PRIMA PARTE: https://www.fondazioneterradotranto.it/2025/02/08/cavallino-un-cenotafio-unepigrafe-e-tre-anagrammi-funebri-1-2/

Cavallino: un cenotafio, un’epigrafe e tre anagrammi funebri (1/2)

di Armando Polito

Amore e Morte sono tra gli ingredienti più significativi della vita umana e forse proprio per le caratteristiche contraddittorie che li concretizzano hanno ispirato la poesia di ogni tempo. Il titolo dato al post col suo Cavallino mostra un lì per lì inspiegabile toponimo, al pari di anagrammi, che, però, rientrando nella categoria dei giochi enigmistici, sembra essere il meno adatto a sfoggiare l’attributo funebri, l’unica parola del titolo in accordo con Morte.

La cripticità del titolo si ridimensiona subito ricordando che Cavalino è nota soprattutto per la storia d’amore di più di quattro secoli fa tra Beatrice Acquaviva d’Aragona e Francesco Castromediano. Il tempo non cancella tutte le memorie e tra queste quelle dei potenti sono destinate a sopravvivere più a lungo, soprattutto in virtù delle loro connesse possibilità economiche, grazie alle quali il ricordo può essere affidato ad un monumento più che, per esempio, ad un libro, meno visibile e, dunque, più difficilmente fruibile, nonostante l’esistenza di almeno qualche copia. Questo vale anche per la nobilissima coppia di Cavallino, il cui amore, infelice per la prematura morte di lei, trova celebrazione nel cenotafio visibile nell’ex convento dei Domenicani e in un libro raro e pressoché sconosciuto, che chiarirà il senso di anagrammi.

Comincio dal cenotafio, che mostra in alto una rappresentazione, tutto sommato, piuttosto stilizzata (per l’epoca barocca) della coppia e in basso un’epigrafe.

foto di Corrado Notario

 

 

Essa è stata pubblicata da Valentina Vissicchio, ‎Enrico Spedicato e ‎Maria Elisabetta De Giorgi in Iscrizioni latine del Salento: Trepuzzi, Squinzano, Cavallino, Galatina, Congedo, Galatina, 2004 ed a questo studio (così per brevità lo indicherò da ora in avanti) farò costante riferimento, anche con dettagli tratti dalla pubblicazione, espediente per non perdere tempo nella trascrizione e col rischio di errore, ma soprattutto per consentire al lettore di comprendere e valutare più agevolmente il singolo raffronto.

Lascio giudicare a chi legge quanto le obiezioni che muoverò siano fondate; se così fosse, però, abbia contezza, come me, che,  se gli autori avessero sottoposto a dettagliata autopsia ciascuna delle epigrafi da loro pubblicate, molto probabilmente il loro libro sarebbe ancora un progetto in esecuzione più o meno avanzata.

Parto necessariamente dalla lettura dell’epigrafe e dalla sua trascrizione. Per quanto riguarda questa fase, oggetti della divergenza sono tre sole parole, che ho evidenziato con la sottolineatura. Ogni parola che precede / corrisponde alla lettura dello studio, quella che lo segue alla mia: DÒMINIS/DOMÌNIS; OB/OPE; PERTOSAE/PETROSAE).

 

                                                  D(EO) O(PTIMO) M(AXIMO)

KYLIANI EX LIBERIS LYMBURGICUM HEROUM DOMINIS ANNO MCLVI

GUGLIELMI NORMANDI UTRIUSQUE SICILIAE REGIS IN AUXILIUM ADVENTA(NT)IS

AC, CASTROMENSANI OPE PETRAE PETROSAE CASTROBELLOTTI, ET CASTROMEDI(AN)I COGNOME(N) ADEPTI

                                                   CINERES EXCITA

UT BEATRICIS AQUAVIVAE DE ARAGONIA SUAVIS(SIM)CORDI DESTERA(M) TRIUNPHORU(M) PALMIS INTESTA(M)

                                                    SEMPITERNO  IUNGERET IMENEO

D(OMINUS) FRANC(ISC)US  DE CASTROMEDIANO CABALLINI MARCHIO, DUX MORCIANI

               CERCETI, ET USSANI XVI BARO, MILITIAE CALATRAVAE EQUES

VIVE(N)S TUMULU(M) HOC SIMULQ(UE) CONVENTUM PROPRIO AERE A FUND(AMENT)IS EREXIT ET DOTAVIT

              QUO VITA FUNCTUS FAMA SEMPER VIVENS CLAUDERETUR

              D(OMINUS) DOMINICUS ASCANIUS FILIUS INCOSOLABILIS

              PIE LACRIMANS POSUIT ANNO MDCLXIII

 

 1) DOMINIS

 

Nello studio si traduce:

 

DOMINIS risulta letto DÒMINIS, cioè ablativo plurale di DÒMINUS=signore. Tale lettura e traduzione non mi convincono per un motivo di ordine stilistico, uno epigrafico ed uno semantico.

Comincio dal primo: se la lettura dello studio fosse corretta, si avrebbero due complementi partitivi (nel novero dei liberi signori e tra gli eroi di Limburg) in brevissimo spazio (e questo potrebbe, al limite,  starci) ma in questo caso  con il secondo (LYMBURGICUM HEROUM) incastrato tra la preposizione del primo (EX) e il sostantivo con attributo  (LIBERIS DOMINIS) da essa retto.

L’incastro del genitivo (LYMBURGICUM HEROUM) sarebbe possibile solo se esso fosse di specificazione o di possesso, non partitivo. E allora? Basta considerare che in latino ci sono due DOMINIS (omografi ma non omofoni per pronuncia: uno è DÒMINIS quello della lettura dello studio, l’altro DOMÌNIS, sempre ablativo plurale, ma di DOMÌNIUM=dominio. DOMÌNIS è la variante per contrazione di DOMÌNIIS, fenmeno normale, come mostra la trafila deis>diis>dis (tutte forme attestate), nonché l’uso epipigrafico (i vari repertori, CIL in testa, grondano di epigrafi in cui si legge, per esempio, IMPERI ROMANI per IMPERII ROMANI, scelta scontata in testi pullulanti di abbreviazioni.

La lettura DOMÌNIS risolve il problema stilistico emerso con DÒMINIS, al quale, fra l’altro, poco si addiceva lo scontato LIBERIS (se un signore non è libero, che signore è?) e tutto diventa all’istante più lineare anche sul piano semantico: di Chiliano che dai liberi domini degli eroi di Limburg accorreva

 

2) OB/OPE

Nello studio una nota del commento recita:

 

La difficoltà grammaticale sorgente da OB orfano del suo accusativo viene superata ipotizzando che sia sottinteso un NOMEN o DOMINATUM o simili oppure che OB sia dovuto ad un errore. Per quanto riguarda la prima ipotei, obietto che si sottintende, anche in latino, un termine citato prima, ma mai quando è retto da una preposizione. Pure per assurdo DOMINATUM o simili mi pare improponibile, ancor più NOMEN, perché con COGNOMEN a poca distanza, avrebbe costituito una figura etimologica alla quale in epoca barocca sarebbe stato un delitto rinunciare. E, oltretutto, quelli erano tempi in cui, almeno in testi e contesti simili, l’ignoranza della grammatica non era ammessa o spacciata per creatività artistica.

Solo parzialmente condivido la seconda ipotesi, ma l’errore non va mai frettolosamente liquidato, ma bisogna sempre chiedersi anzitutto chi possa essere stato a commetterlo e perché. Siccome è da escludere, per quanto detto poco prima, la responsabilità del committente o dell’estensore o dello scrivano, resta quella dello scalpellino e un indizio di un suo dubbio, mai sciolto ma immortalato sulla pietra, potrebbe essere proprio nella presunta B di OB. Di seguito come si vede nell’epigrafe:

Se la prima lettera è inequivocabilmente O, la seconda appare come B, priva, però del segmento sinistro. Eppure lo scalpellino non avrebbe avuto alcuna difficoltà a saldare le due lettere, come fa con altre  in cui il nativo andamento rettilineo a sinistra della seconda lettera si fonde e confonde con quello curvilineo della parte destra della prima.

Ora, se di errore di incisione si tratta, esso poteva passare inosservato agli occhi del committente o di chiunque avesse funzioni di controllo del manufatto solo se non fosse stato macroscopico e si fosse ridotto all’incisione di due lettere invece di tre, tale da giustificare, comunque, la sua permanenza o la mancata correzione.

Credo non azzardato supporre che quello strano OB costituisce un momento di distrazione o, forse di dubbio, dello scalpellino di fronte ad un OPE del committente, parola per lui strana rispetto ad un OB inciso chissà quante volte.

Se le cose fossero andate così, tutto tornerebbe con il corretto OPE, ablativo con valore strumentale di OPS, come nel noto nesso ope legis (=in virtù, per forza di legge), per cui il rigo 4, dopo tale emendamento, andrebbe tradotto con e che ottenne, in forza di Castelmezzano, Pietra Pertosa, Castrobellotto anche il cognome di Castromediano.

E nel testo latino, emendato in AC, CASTROMENSANI OPE, PETRAE PETROSAE, CASTROBELLOTTI, ET CASTROMEDIANI COGNOMEN ADEPTI (con OPE invece di OB e l’aggiunta di una virgola dopo PERTOSA), OPE, in ossequio allo stile latino, è preceduto dal genitivo che esso regge (CASTROMENSANI), che è il più significativo (perché, in pratica, il successivo CASTROMEDIANI è una sua variante o, se si preferisce, la forma moderna), mentre gli altri genitivi (PETRAE PERTOSAE e CASTROBELLOTTI) seguono in secondo piano, retti sempre da OPE sottinteso perché subito prima usato, anzi immolato sull”altare di CASTROMENSANI.

3) A liquidare, invece, in un attimo la seconda discrepanza di lettura (PERTOSAE/PETROSAE) sarebbe sufficiente il dettaglio sottostante dell’originale:

La lettura PERTOSAE nello studio non è accompagnata da alcun commento, ma ad integrazione e conferma di PETROSAE riporto quanto si legge in  Syllabus membranarum ad Regiae Siciliae archivum pertinentium, Tipografia Regia, Napoli, 1824, nota 1,  pp. 256-257:

(Questo castello si trova chiamato ora di Petra-Perciata, ora di Petra-Pertosa, ora anche di Petra-Petrosa, poiché nel registro segnato 1269 C foglio 147 dal tomo il castello di Petra-Pertosa dal distretto di giustizia della Basilicata il 12 marzo 1269 da Carlo I viene concesso a Guglielmo Tornaspe nel registro poi segnato 1275 A foglio 86 dal tomi il 9 novembre 1275 il re ordina al medesimo amministratore della giustizia della Basilicata di risolvere le controversie circa i territori dello stesso castello detenuto dal medesimo feudatario, che tuttavia è chiamato nome di Petra-Perciata. Infine più tardi lo stesso castello è ceduto al re, dal quale il 19 aprile 1278 è concesso a Pietro de Burbura dopo che, tuttavia, ha assunto il nome di Petra-Petrosa. Abbiamo dato queste notizie per questo, perché qualcuno poco versato nella topografia del nostro regno non cerchi parecchie città quando +sono parecchi i nomini di una sola medesima città)

Altre discrepanze riguardano la valutazione anche grammaticale di alcune voci, con conseguenze interpretative che coinvolgono anche il giudizio, per così dire, politico sull’intera epigrafe:

1) CINERES EXCITA nello studio è reso con un blando invoca le ceneri. Io userei un energico sveglia le ceneri, che mi pare più in linea con lo spirito con cui la locuzione era allora usata.

Ad esempio, in Bonifacio Agliardi, Saggi sacri, ed accademici, Rossi, Bergamo, 1648, s. p. (ho evidenziato c0n la sottolineatura  anche gli altri elementi in comune con l’epigrafe, cioé ALLIARDORUM Hertoum, parallelo a LIMBURGICUM HEROUM della prima linea e UT, parallelo a quello che è all’inizio della sesta.

Nello stesso testo, poi, si legge:

Se non è una coincidenza, si direbbe che tale pubblicazione fu tenuta presente nella stesura del test dell’epigrafe, dove alla linea 6 si legge: DESTERAM TRIUNPHORUM PALMIS INTESTAM.

 

Inoltre, ancora nel commento, si legge:

A parte quanto emerso dal dettaglio precedente, aggiungo che EXCITA CINERES, è modellato sul  SISTE GRADUM, VIATOR (Ferma il passo, o viandante) e simili, che si legge in innumerevoli epigrafi funerarie romane antiche di persone non titolate o di agiata condizione e che sarà riesumato, come vedremo più avanti, nel primo dei tre anagrammi annunciati nel titolo. E, il viandante (o la Fama, come nel testo precedente?), è quasi una sorta di messaggero intermediario tra il passato che quasi si rianima della prima parte e il presente del quale prende atto nella seconda parte, proprio come nelle epigrafi antiche di cui sopra e delle quali si offre un esempio (RIU-06, 01554a): D(IS) M(ANIBUS) / TU QUI FESTINAS PE/DIBUS CONSISTE VI/ATOR ET LEGE QUAM / [DUR]E SIT [MI]HI VITA / [

(Agli Dei mani Tu, viandante  che vai di fretta, fermati e leggi quanto duramente sia per me la vita …).

 

2) La terzultima linea (QUO VITA FUNCTUS FAMA SEMPER VIVENS CLAUDERETUR nello studio è resa con dove, una volta estinto lui, fosse conservata sempre viva la sua fama, come se QUO (reso con ove) fosse ubi o in quo. Senza una preposizione che lo regga (qui è così) e con un verbo al congiuntivo (qui è così: clauderetur) quo è senza ombra di dubbio un ablativo di causa efficiente e la proposizione che esso introduce  ha valore finale. Esso, inoltre, essendo al singolare (quo, non quibus), si riferisce solo  a conventum, per cui la traduzione corretta è (il convento) dal quale, dopo aver terminato la vita, fosse conservato sempre vivente per la fama. Insomma, almeno per quello che è scritto, Francesco dava più importanza al convento che al tumulo che pure l’ospitava, come se la sfera pubblica del sentimento religioso in generale e la funzione, pur parzialmente pubblica del conventum prevalesse su quella privata e personale del tumulum. La resa dello studio di QUO con nel quale potrebbe indurre a pensare che si sia in presenza di una tomba e non di un cenotafio.

L’inganno, poi, potrebbe essere alimentato da quel CLAUDERETUR, la cui traduzione letterale sarebbe fosse chiuso. Preciso che questo verbo in unione a tumulus ricorre in parecchie epigrafi apposte su cenotafi (esempi in abbondanza tra le circa mille iscrizioni sepolcrali riportate in Placido Puccinelli, Istoria delle eroiche attioni di Ugo il Grande, Malatesta, Milano, 1664), retaggio di un uso frequentissimo nelle epigrafe funerarie romane antiche (tra gli innumerevoli esempi: CIL XI, 00312: Claudutur hoc tumulo …).  

Qui il significato traslato di fosse conservato mantiene un sottile collegamento con quello letterale se si pensa che ad un convento si addice come attributo più chiuso che aperto.

Aggiungo pure  che la traduzione dello studio considera fama (col suo participio congiunto vivens) soggetto di clauderetur, perdendo di vista la contrapposizione col precedente vita functusm, in cui functus è participio congiunto (con valore temporale) di Franciscus e, sempre di quest’ultimo,  vivens è simmetricamente complemento predicativo. E, con fama ablativo e non più soggetto usurpante a Franciscus il ruolo di protagonista, la traduzione è: … dal quale dopo aver portato a termine la vita fosse conservato sempre vivente per fama. Nel dettaglio metto in risalto quanto appena notato.

Oltretutto la traduzione dello studio (con fama soggetto) introduce un anacoluto, strumento espressivo della lingua parlata, che non può trovare certo albergo in un documento straufficiale e solenne come un’eigrafe.

 

3)  In riferimento alla linea 6 nello studio si legge:

In realtà la prima forma, intermedia tra la classica dextera(m) e la volgare destra, già diffusa nei manoscritti, si era estesa all’inizio del XVI secolo anche ai libri a stampa e da questi all’uso epigrafico.

Caones Concilii Provoncialis Coloniensis anno celebrati 1536, Giolito, Venezia, 1544, p. 11

 

        

Lo stesso vale per TRIUNPHORU(M)/TRIUMPHORU(M), mentre appare strano che non ci si sia accorti del vicinissimo INTESTA(M) per INTEXTA(M).

 

4) In riferimento alla linea 12 nello studio:

A differenza dei precedenti DESTERA(M) e INTESTA(M), qui siamo in presenza del secondo errore dello scalpellino (più che errore dimenticanza), meno grave del visto OB, perché manca solo la tilde sulla prima O.

A conclusione di questa disamina riporto la traduzione dello studio e la mia.

 

A Dio Ottimo Massimo. Desta le ceneri di Chiliano che dai liberi domini degli eroi di Limburg accorreva in aiuto del normanno Guglielmo re delle Due Sicilie, nell’anno 1156 e che, in virtù di Castromezzano, Pietra Petrosa e Castrobellotto, otteneva il cognome di Castromediano. Affinché Don Francesco Castromediano, marchese di Cavallino, duca di Morciano, 16° barone di Cerceto e Ussano, cavaliere dell’Ordine di Calatrava, congiungesse la destra adorna delle palme dei trionfi al soavissimo cuore di Beatrice di Aragona con eterne nozze, mentre era in vita nell’anno 1663 eresse dalle fondamenta e dotò questo sepolcro e nello stesso tempo il convento, dal quale, dopo aver portato a termine la vita, fosse custodito sempre vivente per fama. Don Domenico Ascanio, figlio inconsolabile, piamente piangendo pose nell’anno 1663.

 

PER LA SECONDA PARTE: https://www.fondazioneterradotranto.it/2025/02/10/cavallino-un-cenotafio-unepigrafe-e-tre-anagrammi-funebri-2-2/

 

 

I murales di Antonio Chiarello: l’avventura continua

di Giuseppe Corvaglia

 

Ci sono dei luoghi che esprimono, anche nella loro essenzialità, un’importanza che non ti sai spiegare, che percepisci solamente, e pensi che potrebbero completarsi con un elemento come: una maiolica, un bassorilievo, una pittura o una scultura.

Talvolta puoi arrivare a pensare, in cuor tuo, che ci sia un predestinato che compirà l’opera; poi ti rendi conto che sono pensieri irrazionali. Eppure, a volte accade qualcosa di simile.
Per gli archi muti nello spazio della fiera era evidente, o quantomeno auspicabile, che dovessero abbandonare quel mutismo per parlare, e cosa dovevano raccontare se non lo spirito di quella fiera che a fine ottobre, da secoli, anima questi luoghi diventando devozione, sapori, occasioni, affari, desideri… Insomma, festa. Una festa che raccoglie migliaia di persone che quella festa aspettano, vivono, godono.

Quando pensi alla fiera ti vengono in mente l’odore della carne arrostita, il gusto di quella “dilissata”, il profumo delle caldarroste e della cupeta, quello dei mustacciuoli, delle noccioline tostate e poi la confusione che eccita, ma un poco spaventa, che avvolge e ti fa sentire come un flusso umano che vive quel momento consueto, ma unico.

Dall’anno passato gli archi muti parlano di tutto questo: di storia, di usanze, di sensazioni, di devozione, di ricordi e sentimenti, tutti legati alla fiera di San Vito, e non ce ne parlano con parole, ma con immagini semplici e allo stesso tempo pregne di vita e di ricordi. Chi poteva fare questo miracolo narrativo se non Antonio Chiarello?

Così è stato, grazie all’interessamento dell’Amministrazione Comunale e all’amore spassionato che Antonio ha per queste Terre.

Lo incontriamo e chiediamo di parlare dell’ultima sua opera.

 

Quest’opera sono i murales della fiera. Colpisce di questi la capacità di evocare ricordi sensazioni sentimenti… Che cosa ha significato per te questo dipinto del cuore?

L’opera è nata dopo una riflessione molto ponderata sull’evento “fiera” nella sua totalità. Inoltre, io sono nato proprio qua nell’area della fiera e di questa ho una memoria, praticamente da sempre. Naturalmente tutti i ricordi, i documenti e le testimonianze, andavano raccolti, inquadrati e sedimentati. L’evento andava storicizzato. Quindi raccogliendo immagini, ricordi, testimonianze e vivendola per tanti anni, vedendo io stesso le trasformazioni che la fiera ha avuto con il passare del tempo, sono andato a ritroso nel tempo coi ricordi e ho recuperato la documentazione iconografica più significativa per fare questa operazione “murales”.

L’occasione ce la davano quei tre archi sul lato est del nuovo edificio degli stand fieristici con quell’elemento che riprende gli archi della Cappella. L’elemento architettonico si prestava benissimo ad accogliere un’opera dedicata alla fiera perché, a mio avviso, altri tipi di interventi decorativi potevano risultare fuori luogo. Questa diventava un’occasione per storicizzare l’evento e dare a questo una valenza a livello grafico. Così ho “saccheggiato” il mio archivio fotografico e quello di altre persone, che mi avevano affidato le foto più antiche, e ho sintetizzato tutto in questi tre lavori. La cosa più importante, che io volevo fare all’inizio, era quella di inquadrare storicamente e dare rilevanza soprattutto alla data in cui questa fiera ha avuto inizio, andando alla ricerca dei documenti e quindi facendo riferimento, soprattutto, al convegno organizzato da Filippo Giacomo Cerfeda, “Vitus colitur coliturque Marina”, e al suo preziosissimo contributo, da cui si evinceva che la fiera si svolgeva già dal 1500.

Quindi non mi interessava tanto proporre immagini fotografiche realistiche, quanto dare un’idea grafica che storicizzasse l’evento in maniera sintetica.

Sono partito solo con due elementi, tratti dal mosaico di Otranto e da incisioni antiche che mostravano la conduzione del maiale al macello e la cottura della carne. Quindi scrivere soltanto che San Vito si tiene la quarta domenica di ottobre. Questa era l’idea iniziale. Come si può comprendere qualcosa di veramente sintetico.

Poi ho pensato a immagini più esplicative della fiera che però fossero rese, come dicevo, con una modalità grafica, sintetica e non per forza di tipo naturalistico/fotografico: così è nato il progetto e così ho proceduto.

Naturalmente occorreva studiare non solo il modo di rendere le immagini, ma anche il contesto dove proporle, perché in quell’ambito non si poteva invadere lo spazio con figure incongrue o con colori non consoni. Così abbiamo studiato anche a livello cromatico il progetto e abbiamo pensato a tonalità come grigio pietra e seppia che di per sé evocano il mondo dei ricordi e del passato.

 

Infatti, io prima parlavo di dipinto nel cuore, perché come giustamente hai citato prima, l’inquadramento storico è stato dato dal libro meraviglioso “Vitus colitur coliturque Marina” curato da Filippo G. Cerfeda che organizzò quel convegno interessante, partecipato e molto bello, che è un caposaldo di storia locale e riporta documenti che fanno originare la fiera al 1500.

Hai parlato di foto. Le foto mostrano una realtà, ma per utilizzarle per un lavoro come questo anche queste vanno interpretate alla luce dei dati storici e con rigore intellettuale, ma anche con quell’empatia che suscita emozioni. Ci illustri i soggetti dei tre archi?

Nei tre archi sono rappresentati i tre aspetti pregnanti della fiera: nell’arcata centrale si fa riferimento alla foto più antica del 1939 che sintetizza l’identità contadina della fiera, sottolineata anche con una citazione di Antonio L. Verri: “Quel che non cambierà mai sarà l’idea del dialogo con la terra che l’uomo ha stabilito dal tempo dei tempi, il grosso respiro, il sibilo lungo…”. Quel rapporto con la natura che noi con le tecnologie a volte riteniamo superfluo e superato, ma che invece e parte essenziale della nostra vita.

 

Qui, si vedono alcune donne che cuociono sul fuoco e sul treppiedi la carne di maiale in una “farsura” e la folla varia che viene a comprare qualcosa con i mezzi dell’epoca.

Un’altra immagine racconta della devozione a San Vito, santo molto invocato nel mondo contadino, e aspetti della festa come il consumare sul posto, “sui cuti” o sull’erba, gustosi cibi tipici della festa o uno spuntino portato da casa. A sinistra si rappresenta il mercato del bestiame e degli attrezzi da lavoro, da sempre appuntamento rilevante per i contadini.

Ho cercato di dare alle immagini un dinamismo che evocasse la vita e il movimento di quei giorni.

                                

 

A proposito di dipinti del cuore, la parte in alto, che poi doveva sintetizzare l’opera, cita una delle opere a cui tu sei proprio visceralmente legato: il mosaico della cattedrale di Otranto… 

Si ho voluto citare il mosaico e un’antica incisione per mostrare i diversi momenti della preparazione della carne di maiale e riferire che questi momenti gastronomici nostri hanno un’origine antica, nel senso che queste pratiche tradizionali già esistevano nel periodo medievale.

Quindi ritroviamo le fasi della preparazione e la cottura delle carni, ispiratemi dal mosaico di Otranto, e il maiale portato al macello, ispirata da una antica xilografia che ho trasformato in una specie di mosaico per rendere omogeneo il tutto.

 

 

Non ti definirei propriamente uno studioso in sé, ma piuttosto un cultore appassionato di storia e cultura di questa terra, dotato di una grande curiosità del mondo: che cos’è per te la fiera e che cosa ha significato per te rappresentarla in quest’opera”

Sono intimamente legato a questo evento sia perché sono nato e vivo da sempre in questo spazio, poi, quando si dice le coincidenze, sono nato proprio il giovedì di San Vito, quindi, era quasi naturale che mi interessassi di fiera.

Ogni anno da più di 60 anni ne sono coinvolto, avrò saltato soltanto l’anno dell’emigrazione: ne ho visto lo svolgimento, l’evoluzione, gli esperimenti… mi definisco un testimone oculare.

 

Ce lo hai accennato prima, però volevo specificarlo meglio: da cosa traggono origine e perché sono stati pensati questi archi?

Questi archi in origine sono stati pensati come abbellimento di una struttura che si doveva realizzare per sostituire le casette fatte per la fiera negli anni ‘50, non più adatte, ed erano stati pensati come elemento di abbellimento e come ornamento, perché ogni edificio pubblico, per legge, dovrebbe avere elementi qualificanti di tipo estetico, oltre agli aspetti statici e funzionali.

I progettisti hanno pensato a questo anche come citazione dei tre archi della Cappella che potevano essere usati come ricovero dai pellegrini.

D’altra parte, le casette erano inadatte (c’erano solo un lavandino e due ferri a uncino per appendere le parti degli animali macellate) e le norme igienico-sanitarie richiedevano spazi adeguati, sanificazione, celle frigorifere per una gestione sana e sicura del cibo.

I finanziamenti erano stati stanziati e quindi si è proceduto a fare una struttura su cui si potrebbe anche discutere, ma che è più adatta alla dimensione della fiera di oggi, che vede accorrere tante persone e si articola su più giorni. Prima la fiera si faceva il sabato e la domenica, la gente arrivava, prendeva la carne e poi se la portava a casa a godersela con la famiglia; la fiera era più genuina, più autentica, certo, ma oggi le esigenze sono cambiate, il pubblico arriva numeroso e ha esigenze culinarie e ludiche più complesse.

Le strutture vecchie potevano andare bene per la Fiera di una volta, con un pubblico contenuto, diciamo una cosa più alla buona, ma con i visitatori che in questi anni abbiamo visto occorrevano strutture adeguate a una ricettività più alta.

 

Quest’opera mi richiama un’altra tua pittura murale abbastanza recente che raffigura i Santi Martiri di Vaste. Anche lì il muro di una casa è diventato una grande nicchia. Come nasce quest’altra tua opera?

In quel caso c’è stata una richiesta specifica del Comune di Poggiardo. C’era un progetto che si chiamava “Santi Numi”, dedicato, appunto, ai Santi di Poggiardo e Vaste: i Santi Martiri vastesi e San Giuseppe da Copertino, che a Poggiardo era stato ordinato sacerdote o, come si dice popolarmente, aveva “preso messa”.

A me fu affidato un dipinto sui Santi Martiri Alfio, Filadelfio e Cirino. Quando ho visto il sito con quel muro ampio su quell’incrocio di strade non ho avuto dubbi.

 

Fra parentesi è in una posizione di straordinaria visibilità, perché tutti i turisti, che tornano da Santa Cesarea per andare a Lecce, passano da lì e lo possono ammirare.

Sì, non solo. A parte questa posizione felice, nel muro c’erano pure due residui di volta, quelle che chiamiamo “mpise”, che davano al sito una dimensione particolare e quindi ho immaginato subito come poteva materializzarsi l’opera.

I Santi Martiri di Vaste sono un elemento fortemente identitario per il territorio, essendo nati a Vaste, per poi trovare il martirio in Sicilia. Questo comporta un forte e sentito legame con la comunità, così come per Poggiardo il legame con San Giuseppe da Copertino che era di Copertino e quindi anch’esso salentino doc, ma che pure in questa cittadina raggiunse un traguardo mirabile e importantissimo per lui: l’ordinazione sacerdotale. Santi che più salentini di così non potevano essere. Una volta deciso e deliberato abbiamo proceduto.

L’idea iniziale era quella di rappresentare i santi nella loro iconografia classica, con gli strumenti del martirio e porli nel contesto migliore. Poi ai santi in posizione preminente abbiamo affiancato due piccole icone con l’effige dei loro genitori, Benedetta e Vitalio, e abbiamo unito idealmente Vaste, dove nacquero, Lentini, dove morirono, e tutti quei luoghi accomunati dalla devozione per i Santi.

 

A completamento ci voleva un segno della festa: la luminaria. Inizialmente si pensava di sormontare la figura con una luminaria dipinta, poi, strada facendo, insieme con il sindaco abbiamo pensato di mettere proprio delle vere luminarie e così abbiamo completato felicemente il tutto ed è venuta fuori quella che altro non è che una grande edicola votiva.

 

Questa tua esperienza con i murales è per me significativa e si è giovata di luoghi particolari che li valorizzano. Però consideriamo che il murales oggi acquisisce un’importanza rilevante pensiamo a murales come quelli per Maradona, per Pino Daniele o San Gennaro a Napoli, ma tanti altri murales, compresi quelli realizzati a Brindisi nel quartiere Paradiso da Paradiso Urban Art (Paradiso Urban Art – Brundarte) e, non ultimo, quello dedicato a Raffaella Carrà in via Teulada a Roma… Voglio dire che il murales è diventato un modo per esprimersi in libertà e allo stesso tempo un modo per dare dignità ad alcuni luoghi e rigenerarli …

Certo, è vero l’arte abbellisce e dà dignità ai luoghi, ma ci vuole misura, perché si rischia di eccedere. Intanto occorre studiare per bene il sito e progettare un dipinto che si adatti bene a quel posto.

 

A questo punto mi viene anche da citare l’altra novità che completa un’opera di cui abbiamo parlato nella nostra intervista precedente: il murales della legalità con Falcone e Borsellino, che hai ulteriormente completato inserendo due figure importantissime per la nostra storia, anche loro, come Falcone e Borsellino, uccisi da criminali per le loro idee per le loro operePerché hai pensato a loro?

Rimaneva un altro pezzo di muro e qualcuno insisteva per completare quel murales. Pensandoci, sempre d’accordo con il proprietario, abbiamo inteso che si poteva progettare qualcosa. Io avevo già pensato a Renata Fonte, figura di civismo trasparente, però andava accostata almeno un’altra personalità e abbiamo pensato ad Aldo Moro che sintetizzava un po’ il fatto che fosse Salentino e fosse anche lui una figura rilevante, una figura importante per la nostra Repubblica e la nostra democrazia.

Per entrambe c’era un richiamo al senso del dovere dovuto alle istituzioni e ai cittadini che, come dice Aldo Moro, spesso manca un po’ a tutti, ma che non è mancato né a lui né alla stessa Renata Fonte che per questo e per salvare il suo territorio dalle mani della mafia e del malaffare è stata sacrificata.

 

La citazione di Aldo Moro: “La stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere” è davvero eloquente e pregna di significato, specie di questi tempi dove l’elettorato non sembra avere una visione del bene comune, ma insegue chi promette, spesso sapendo di non poter mantenere, piccoli privilegi che soddisfano la propria condizione, ma non il bene di tutti. Un elettorato che pensa molto ai propri diritti e poco ai propri doveri.

A noi sono sembrate entrambe figure degne di essere ricordate e fondamentali per il nostro territorio e abbiamo pensato di affiancarli ai due giudici antimafia, celebrandoli poi con corona di alloro.

 

Grazie per questi regali, perché queste opere sono doni che tu fai alla tua comunità.

Ora posso dire di aver completato tutta l’area della fiera perché, oltre a questi citati, ce n’è un altro dedicato allo sport, un murales che sta nel campo sportivo, sulle gradinate che ora fanno parte del campo di calcetto, che riporta personaggi significativi per lo sport, campioni che ci hanno entusiasmato ed esempi per i giovani.

 

 

L’hai fatto tutto tu da solo o ti sei fatto aiutare dai ragazzi?

Ho pensato a un lavoro estivo e ho voluto coinvolgere i ragazzi. Non c’è stata una grandissima partecipazione, ma per chi ha partecipato è stata un’esperienza coinvolgente. In quei giorni d’estate abbiamo collaborato pensando al messaggio della canzone di De Gregori che guarda allo sport come metafora della vita e che vede lo stesso non solo come gesto atletico, ma come coraggio, altruismo e fantasia, cose che servono a vivere bene non solo a giocare bene.

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