





di Gilberto Spagnolo
“Io uomo comune come tutti escludiamo l’artista
perché non so cosa significa la parola artista…”
Ezechiele Leandro (“Penzieri e Cunti”, 1978)
L’agriturismo “Li Calizzi – Arte e Natura” è un’antica villa tra le campagne salentine, posizionata in maniera strategica a pochi km dal mare (Casalabate e Porto Cesareo) e dalla città di Lecce, in territorio di Novoli. Ristrutturata con gusto e in maniera impeccabile (gli interni infatti sono molto curati e ricchi di storia), la sua costruzione è immersa nel verde ed è circondata da uliveti e agrumeti. È veramente un luogo estremamente piacevole, rispettoso dell’ambiente e molto suggestivo.
In questo periodo autunnale la natura qui mostra concretamente i suoi colori, diffonde i suoi profumi lungo il suo portico e sul prato perfettamente curato, le sue piscine, le sue antiche cave dismesse e i suoi splendidi giardini. Un felice evento familiare ci ha permesso di conoscere questo luogo e soprattutto le sue meraviglie. Esso riesce infatti a emozionare e a coinvolgere attraverso un’interazione diretta, in una dimensione in cui uomo, arte e natura s’incontrano effettivamente raggiungendo il giusto equilibrio e riconfigurandone il rapporto con l’uomo stesso.
Ed è proprio in questa atmosfera così magica e irreale che, camminando sul manto erboso della sua antica cava con lo sguardo rivolto verso il cielo ottobrino, all’improvviso si è materializzato nella mia mente, tra fugaci ricordi, come un ologramma, il nome di Ezechiele. Ezechiele Leandro (Lequile 1905 – San Cesario di Lecce 1981), se non lui e solo lui (conosciuto personalmente nel lontano 1978) poteva essere l’autore di quelle statue così numerose che si vedevano posizionate in perfetta solitudine sul costone più alto della cava, sconvolgenti e inconfondibili come tutte le sue opere. Impossibile non riconoscere “il primitivo”, il “visionario” Leandro. Egli infatti è stato un artista unico in tutti i sensi.
Durante la sua esistenza, attraverso una personale ricerca eclettica e complessa e al contempo spontanea e primitiva, realizzò un’infinità di opere grazie all’utilizzo di numerosi linguaggi quali la pittura, il disegno, la scultura, il collage, l’installazione e soprattutto l’assemblaggio, utilizzando oggetti di scarto come ad esempio pezzi di legno, di ferro o di plastica raccolti per strada, rinvenuti nelle discariche e nelle campagne abbandonate.
Brizia Minerva, curatore storico dell’arte presso il Museo Sigismondo Castromediano di Lecce scrive infatti “che la sua visionarietà misteriosa scaturiva da reminiscenze ancestrali e da un misticismo popolare… La sua operatività ipertrofica era organizzata attraverso la sperimentazione e la messa a punto di una considerevole varietà di tecniche, materiali, supporti. Dagli assemblaggi con materiale trovato e oggetti sentimentali che attengono al vissuto, al riuso di ciò che veniva buttato, alle decorazioni di mobili e ceramiche”. E in maniera ancora più incisiva: “Leandro è un rottamaio, raccoglie vecchie ferraglie, ciò che gli altri buttano, scarto egli stesso, abbandonato alla nascita e cresciuto per alcuni anni nel convento francescano di Lequile, cerca di risanare questa ferita riprendendo possesso della materia rifiutata per trasformarla in valore”.
Solo una mente fortemente “Illuminata” poteva ideare la presenza qui di una sua opera (che io sappia poco nota perché per anni non tenuta nella giusta considerazione ed abbandonata all’incuria del tempo) così bella e perfetta e farla rivivere (attentamente e amorevolmente restaurata) nel nostro immaginario. Sicuramente lo è il proprietario, Oscar Marzo Vetrugno, che con l’arte ha avuto in passato un rapporto privilegiato in qualità di sindaco e presidente della Fondazione Focara di Novoli (suo il progetto che ha visto artisti di fama internazionale come Mimmo Paladino, Ugo Nespolo, Jannis kounellis, Hidetoshi Nagasawa onorare con la loro presenza e la loro arte la cittadina novolese).





Visto da vicino, il gruppo scultoreo che nella sua straordinaria originalità, rappresenta una vera e propria “banda musicale in concerto” è ancora più intrigante e suggestivo. Protetto in tutto il suo perimetro da una recinzione ben visibile, è collocato alle spalle di un bellissimo pozzo sempre di Leandro “messo a guardia” con cinque teste antropomorfe sia anteriormente e sia posteriormente, con una laterale sulle due colonne e con una vecchia carrucola da “museo” pendente al centro (“Li pampauddri” che aiutavano a recuperare gli otri e /o i secchi caduti nel pozzo).
L’opera reinterpreta le forme umane dei singoli personaggi con il caratteristico stile artistico di Leandro, attraverso l’assemblaggio (tecnica prediletta) di antichi strumenti musicali con una “malta cementizia” inglobante soprattutto frammenti di piastrelle, mattonelle e altri elementi di recupero (finanche una serie completa di tazzine da caffè) che catturano riflessi di luce.
Spicca tra di loro il maestro concertatore, il “direttore d’orchestra” posto di fronte al gruppo con il suo leggio e su di un piedistallo nelle cui mani di cemento un’esile bacchetta sembra animarsi e volteggiare nell’aria. Sono in tutto ben 14 statue (compreso il direttore d’orchestra) che con i loro sguardi immobili e penetranti dialogano tra loro. Ognuno di essi ha un volto e un’espressione differente in sintonia perfetta con lo strumento che stanno suonando. Tranne uno che porta un antico “elmetto bellico”, tutti gli altri recano sulla testa una vecchia “valvola bianca” a cui un tempo erano legati i fili della corrente elettrica.





Grazie alla pura fantasia e sapienza di Leandro, spuntano tra le loro mani e si riconoscono diverse trombe, il trombone, i piatti, i tamburi, il clarinetto, una sonagliera. Un’opera veramente immersiva, che ci restituisce per un momento l’avventura artistica e la personalità anche curiosa e inarrestabile di questo artista innestandosi perfettamente nel tessuto naturale e artistico del luogo. Essa inoltre si completa sia con il pozzo (decorato da Leandro con gli stessi materiali) ma soprattutto con la stupefacente cassarmonica dove idealmente questa banda si esibirà, posta a poca distanza sullo splendido prato e che restituisce ancora, attraverso un particolarissimo effetto luminoso dopo il tramonto, la magia di un giorno appena trascorso.
Ma Leandro ai “Calizzi” non è solo questo. Come un vaso di Pandora lo si ritrova ancora a tu per tu, percorrendo, tra filari di viti e fichidindia, brevi e solitari sentieri e incontrandolo in altre statue e in altri personaggi. Collocate alcune singolarmente e altre invece in gruppo, sono state realizzate con la stessa tecnica e gli stessi materiali e sono tutte a carattere principalmente religioso, un aspetto fondamentale (il suo rapporto con il sacro), della sua arte e della sua ricerca. Sono anche queste, opere che indubbiamente mettono in scena ancora la sua forte inventiva e la sua creatività. Trovano infatti corpo e forma singole ed elaborate raffigurazioni di episodi religiosi riferiti al dramma della Passione di Cristo lungo un percorso artistico ben determinato, tra cui si eleva in solitudine una “Pietà” straordinaria ed estrema, di grande pathos, quasi più un urlo silenzioso, una preghiera fremente nel corpo inanimato, straziante e comunque meravigliosa nella sua azione pietosa per il figlio morto.


Tra il gruppo statuario che è posto invece in un ampio spazio delimitato anch’esso da apposita protezione, a poca distanza da un altro pozzo simile al primo nella forma e nei materiali già descritto, una grande croce domina infine al centro la scena, ergendosi alle spalle del Cristo che porta la sua croce fra spettatori increduli e tragici.
Una mostra permanente dunque, in un museo a cielo aperto, in cui opere simili (probabilmente risalenti ai primi anni ’70), così composte e complesse, si possono ammirare solo nella sua casa di San Cesario di Lecce meglio conosciuta come il “Santuario della Pazienza”, costruita tra il 1962 e il 1975 e popolata da pitture arcaiche e da sculture nate dall’assemblaggio, come già detto, di materiali vari. Opere senza tempo, di fantasia e tecnica in un binomio insuperabile in cui spesso una sorregge l’altra, in un luogo “speciale” di valorizzazione dell’ambiente, dell’arte, della cultura e dove ogni cosa ha incredibilmente un’anima.

In “spazioapertosalento.it”, 19 ottobre 2021 e in G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, pp. 511-514, Novoli 2024.
Le immagini che illustrano il testo sono dell’autore.
Riferimenti bibliografici
A. Cassiano (a cura di), Artisti Salentini dell’Otto e Novecento. La collezione del Museo Provinciale di Lecce, Opera Arte Arti/RR Editrice, Matera 2007.
L. Madaro (a cura di), Ezechiele Leandro. Storia, immaginario e visioni di un artista babelico, mostra presso la biblioteca del museo di S. Donato, 2018.
B. Minerva, Leandro, l’artista dalla fede visionaria, in “Quotidiano di Puglia”, Cultura e spettacoli, 17 dicembre 2016.
E. Leandro, Penzieri e Cunti, Tipolito Greco, Copertino 1978.
V. Terragno, Artisti Salentini tra ‘800 e ’900. Dal valore storico al valore di mercato, Moscara Associati Edizioni, Editrice Salentina, Galatina 2015.

Sarà la città di Gallipoli ad accogliere, venerdì 14 novembre, il Giubileo Diocesano delle Confraternite, un appuntamento di grande rilievo spirituale e comunitario che riunirà oltre cinquanta Confraternite e Associazioni cattoliche provenienti da tutti i Comuni della Diocesi di Nardò-Gallipoli.
L’evento, espressione viva di fede, si articolerà in due momenti distinti ma complementari. Alle ore 17.00, nella chiesa della Beata Vergine del Rosario, i sodali si ritroveranno per la preghiera dei Vespri, arricchita da una meditazione di Mons. Tommaso Sabato.
Alle ore 17.45 avrà inizio la solenne processione, guidata dal Vescovo Mons. Fernando Filograna, che accompagnerà i confratelli e le consorelle in pellegrinaggio verso la Concattedrale di Sant’Agata. Il percorso attraverserà le suggestive vie del centro storico, lungo la Riviera Nazario Sauro, la Riviera Armando Diaz e Via Antonietta De Pace, fino a giungere nel cuore della città antica, dove sarà celebrata la Santa Messa giubilare presieduta dal Vescovo, alla presenza del clero e dei rappresentanti delle istituzioni civili.
Il tema scelto per il Giubileo, “Pellegrini di speranza”, sintetizza lo spirito con cui le Confraternite vivono la loro missione nella Chiesa: camminare dietro al Crocifisso, unendo alla preghiera la carità fraterna e il suffragio per i defunti.
Quello del 15 novembre sarà dunque un giorno di comunione e di testimonianza, che rinsalderà il legame tra le Confraternite, il loro Vescovo e l’intera comunità diocesana, offrendo alla città di Gallipoli un segno tangibile di unità nella fede e continuità nella tradizione.


di Marcello Gaballo
Un documento conservato nell’Archivio di Stato di Napoli, nel fondo della Regia Camera della Sommaria, ci restituisce un vivido spaccato dell’economia artigianale di Nardò agli inizi del XVII secolo.
In esso si enumerano alcune botteghe e concerie situate nel pittagio di San Paolo, a ridosso delle mura urbiche e a breve distanza del giardino dei frati Carmelitani, sull’attuale Via Pellettieri. Qui, oltre alle attività legate alla lavorazione del cuoio, erano presenti le officine e le fornaci per la cottura delle celebri ceramiche neritine, già documentate in un rogito del 1580, in cui risulta la transazione di due poteche fabbricate con fornace, site prope menia (botteghe con fornace costruite presso le mura).
Si tratta di un’area strategica della città, prossima all’obelisco dell’Osanna e alla porta di San Paolo, aperta sulla via che immetteva direttamente alla piazza principale, ma al tempo stesso periferica e quindi adatta ad ospitare attività di carattere produttivo e spesso maleodorante, come la concia delle pelli.
Il documento ricorda che lungo il tratto compreso tra l’attuale chiesa di Sant’Antonio e via Carmeliti si trovavano l’apoteca per conciaria di Giacomo Cavallo, la conceria di Giovanni d’Orlando e quella di Antonio Serenico, precisando che in ea exercetur ars concearia (in essa si esercita l’arte conciaria). Ad esse si aggiungono altre quattro concerie, per un totale di sette stabilimenti solo in quest’angolo urbano.
In un altro documento, ricavato da un atto rogato presso un notaio neritino, si legge che sempre in questo luogo, di fronte alla chiesa del Carmine vi era la conciaria di Leonardo Massa e dei suoi figli Bonaventura, Agostino e Alberto, artigiani della pelle ben noti in città, i quali una settimana prima avevano lavorato una pelle di caprio per farne una sacchetta di caccia.
Un dato di particolare rilievo emerge da un rogito del 1612, in cui si attesta l’esistenza dell’unico molino di macinar mortella in vicinio S. Maria del Carmine et in loco vulgariter nuncupato la giudeca et lo largo di Santo Martino, confinante con l‘apoteca di Rinaldo Tollemeto. La presenza di questo mulino è significativa: la mortella (le bacche di mirto, abbondanti nelle macchie dell’Arneo) era infatti utilizzata per estrarre un olio dalle molteplici applicazioni e come combustibile. Esso costituiva non solo un rimedio prezioso nella medicina popolare, ma anche un ottimo colorante giallastro per le stoffe, un inchiostro per la scrittura e un ausilio importante nella stessa concia delle pelli. La localizzazione del mulino proprio accanto alle concerie induce a ritenere che esso fosse strettamente funzionale a tali attività.
Questa concentrazione di mestieri non è casuale: la lavorazione del cuoio richiedeva abbondanza d’acqua, che qui si poteva attingere agevolmente dalla fontana pubblica collocata nell’attuale piazza della Repubblica, attestata fino agli inizi del XX secolo. Le acque reflue e maleodoranti della lavorazione, non a caso, venivano poi riversate direttamente nel fossato che cingeva la città, trasformando le mura in una barriera non solo difensiva, ma anche di contenimento degli scarti urbani.
La conceria era, all’epoca, una delle arti più faticose e necessarie: dalle pelli grezze, opportunamente trattate con bagni di calce e di cenere, raschiate e immerse in sostanze vegetali ricche di tannini (cortecce di quercia, sommacco, galle), si ricavava cuoio resistente, indispensabile per calzature, finimenti, utensili e arredi. La vitalità di questo settore, attestata da ben sette botteghe attive, lascia intravedere un vero e proprio distretto artigianale del cuoio, capace di alimentare sia il mercato locale, sia forme di scambio più ampie, attraverso i vicini porti di Santa Caterina o di Cesarea.
Accanto alle concerie, nello stesso quartiere si contano sei apoteche, cioè botteghe artigiane e commerciali, con una notevole varietà di specializzazioni: una in cui exercetur ars criborum (in cui si esercita l’arte dei crivelli), due in cui exercetur ars aromataria (in cui si esercita l’arte degli speziali), due in cui exercetur ars calzolaria (in cui si esercita l’arte dei calzolai) e una in cui exercetur ars sutoria (in cui si esercita l’arte dei sarti).
Spiegazione delle arti
Questo elenco, apparentemente arido, restituisce in realtà un quadro ricco e vivace: la città si mostra capace di sostenere attività che vanno dal soddisfacimento dei bisogni primari (pane, vestiti, scarpe) a mestieri più specialistici (gli aromatari), il tutto in un’area ristretta, a ridosso di una delle quattro porte. La vicinanza tra concerie e botteghe di calzolai è tutt’altro che casuale: il cuoio prodotto trovava subito sbocco nell’artigianato cittadino, secondo una logica proto-industriale di filiera.
Se confrontiamo questa realtà con altri centri della Terra d’Otranto, il quadro appare coerente: anche a Lecce, lungo il fossato che correva tra porta Napoli e porta Rudiae, erano attive numerose concerie; a Gallipoli, il commercio di pelli e cuoi era strettamente legato al porto e alle esportazioni; a Galatone, le fonti ricordano botteghe di calzolai e conciatori in prossimità delle mura. Nardò, tuttavia, grazie a questo documento napoletano, si distingue per la densità delle attività censite in un’unica porzione urbana, segno di una vocazione manifatturiera che si innestava direttamente nella trama viaria che conduceva alla piazza centrale e al cuore del mercato cittadino.
Così, agli inizi del Seicento, il pittagio San Paolo appare come un quartiere densamente produttivo, un’area di transito e al tempo stesso di lavoro, collocata fra le mura e la piazza, tra l’interno e l’esterno, tra la città che si difende e quella che commercia. La compresenza di più arti testimonia un fervore economico che non riguarda solo la sopravvivenza quotidiana, ma riflette anche una capacità di organizzazione, di specializzazione e di mercato, collocando Nardò tra i centri salentini più vivaci del primo Seicento.
Non è dunque casuale che proprio in questo distretto, dopo la soppressione dei frati Carmelitani, a ridosso del loro convento sorsero piazza delle Erbe e il mercato coperto, quasi a voler tramandare la memoria di una vivacità commerciale che, da secoli, aveva trovato in questo lembo urbano il suo epicentro naturale.
di Armando Polito

Tutte le immagini mostrano un caddhu, ma nelle prime due la parola ha un etimo diverso e questo spiega l’assenza di qualsiasi parentela semantica. In tutte le altre (per questo sono racchiuse in un’unica cornice) , per quanto possa sembrare strano, cadddhu ha lo stesso etimo, ma la fantasia, soprattutto quella popolare, è in grado di operare miracoli, compreso quello della moltiplicazione dei significati. Ogni cosa, però, ha il suo prezzo e, per soddisfare la sanissima curiosità di sapere come sia stato possibile, non resta che procedere con la lettura. Buona barba!, a chi ha deciso di farsela crescere …
Se dovessimo tener conto solo del significato, probabilmente in un vocabolario del dialetto salentino saremmo costretti a riservargli in numero di lemmi quasi da record. È quanto avviene, come si vede nelle schede sottostati che ho numerato per comodità di lettura, nel vocabolario del Rohlfs per la necessità, forse, di non creare confusione a causa del diverso significato che la voce assume a seconda del territorio.
1

2

3

La stessa messe di varianti, cosa di per sé esemplare sotto il profilo documentale, ha finito per propiziare un po’ di confusione in chi legge e un abbaglio sul piano etimologico nello stesso autore, come vedremo commentando volta per volta le tre schede.
SCHEDA 1
Caddu1, come il corrispondente italiano callo, è dal latino callu(m), etimo tanto scontato che non è riportato, come di consueto avviene in presenza di esatta corrispondenza.
Caddhu 2: come l’italiano gallo, è dal latino gallu(m) e per il resto vale quanto detto per il n. 1.
Caddhu3: come etimo viene messo in campo caddhu2 ma, anche ad impiegare la mia più acrobaticamente sfrenata fantasia, mi pare impresa disperata trovare un collegamento tra il gallo e lo spicchio. Resto, perciò, perplesso perché mi sarei aspettato almeno la presenza di un punto interrogativo, come avviene in altre circostanze con etimi che pure mostrano un minimo di plausibilità. Caddhu3 è da collegare, invece, con il caddhu=cavallo del n. 2, Cavallo era il nome di una moneta emessa per la prima volta nel 1472 da Ferdinando I, recante al dritto la testa del sovrano e al rovescio un cavallo al passo. Nella scala delle monete aveva il valore più basso. Al Rohlfs qui è stranamente sfuggito ciò che pure mostra di conoscere in caddu della scheda 2. A meno che non sia rimasto abbagliato io da un presunto, sempre da me, abbaglio del Rohlfs, ricordo, sempre a me stesso, senza scomodare l’oraziano indignor quandoque bonus dormitat Homerus (mi sdegno quando il bravo Omero sonnecchia), che pure Sinner è soggetto di tanto in tantp, pur essendo un dritto nel suo campo (da tenis, si sa) è soggetto di tanto in tanto a qualche rovescio per un rovescio non riuscito. i
Caddhu4: come il precedente, si collega col caddhu del dettaglio 2, con slittamento metaforico: il pollone si forma e cresce a cavallo del ramo.
SCHEDA 2
caddu come l’italiano cavallo, dal latino caballu(m), con slittamento metaforico nel significato di mucchio di covone ed in quello numismatico, col quale è connesso quello di scorcio, rimasuglio di stoffa, nonché quelli di spichio di arancio (per aracia) e di spicchio di aglio del caddu3 del dettaglio 1, erroneamente connessi con caddhu2 della stessa scheda. Trafila: caballu(m)>*caallu (sincope di -v- intervocalica)>caddhu.
SCHEDA 3
caddhu de stria, in cui caddhu è il precedente e stria è dal latino medioevale striga(m), a sua volta dal classico strix= uccello notturno, simbolo di malaugurio perché nella credenza succhiava il sangue ai bambini. Evidente come la locuzione è una metafora certamente connessa con antichissime leggende e alla quale probabilmente non è estraneo l’aspetto della mantide religiosa (che ricorda, neppure troppo vagamente e in miniatura quello del cavallo) e come nota funerea solo il suo cannibalismo, essendo, a differenza di altri insetti, non solo innocua ma utile per l’agricoltura.
di Pierluigi Cazzato
Ancora una volta torniamo ad occuparci dei registri fiscali prodotti dalla burocrazia del Principato di Taranto in epoca orsiniana. Fonti ricche di preziose notizie, i registri redatti dai funzionari di Giovan Antonio del Balzo ci offrono un’immagine inedita dell’economia e della vita quotidiana delle genti salentine di fine Medioevo. Se nei precedenti articoli abbiamo più volte accennato alle attività economiche che si svolgevano nel Capo di Leuca tra gli anni 1458-1463, in questa occasione intendiamo trattare più diffusamente dei processi di produzione, consumo e circolazione di beni che avevano luogo nella piccola civitas di Alessano nella seconda metà del XV secolo.
Per la nostra ricostruzione storica utilizzeremo principalmente due registri: le “Declaraciones principalis curie provincie Terre Idronti anni VII indictionis 1458“1 e il “Quaderno della bagliva di Alessano”2 dell’anno 1462-63. Ci occuperemo, quindi, di un lasso di tempo abbastanza ristretto ma denso di avvenimenti di cui è bene dare un brevissimo sunto prima di iniziare la nostra trattazione.
Nell’estate del 1458 moriva Alfonso d’Aragona, così sul trono del regno di Sicilia gli succedeva Ferdinando I, detto Ferrante, costretto subito a fronteggiare l’ostilità di diversi baroni filo-angioini, tra questi anche il principe di Taranto. Lo scontro tra l’aragonese e il del Balzo era inevitabile, ben presto diveniva una guerra aperta combattuta senza esclusione di colpi. La guerra durava già da qualche anno quando, nel Novembre del 1463, Giovan Antonio moriva, forse avvelenato, ad Altamura; con la sua morte terminava l’esistenza plurisecolare del Principato di Taranto.

La produzione agricola
Come quasi ogni centro abitato di Terra d’Otranto, ma potremmo dire di tutto il Mezzogiorno aragonese, l’Alessano tardomedievale basava la sua economia sullo sfruttamento delle risorse agricole e pastorali. Ci troviamo di fronte ad centro rurale in cui la maggior parte della popolazione traeva sostentamento dal lavoro della terra, una tipica società agraria nella quale la disponibilità di terreni arabili, e magari di una coppia di buoi aratori, era di essenziale importanza. Il contadino medievale salentino era profondamente legato ai campi che lavorava sia che essi fossero di sua diretta proprietà (allodio), sia che fossero stati ottenuti in concessione dal signore feudale (il dominus o dompno). Si trattava di agricoltori che possedevano in media 2 o 3 ettari di seminativo e orto, uno o due animali da lavoro, dei piccoli appezzamenti recintati da muretti a secco, le clausure, con un pezzo di vigna e qualche ulivo; tutti terreni, sottoposti a censi non elevati, che potevano dare dei redditi modesti ma non disprezzabili. Più precarie invece erano le condizioni degli uomini che possedevano solo piccoli pezzi di terra, privi di sementi e di aratro, questi contadini raggiungevano a malapena un accettabile livello di sussistenza. Nessuno di loro, piccoli e piccolissimi coltivatori, era tuttavia immune ai contraccolpi dei cattivi raccolti; in anni di rese magre era molto facile indebitarsi, e cadere in miseria, nel tentativo di sostenere il fabbisogno alimentare della famiglia3.
Per i contadini del Salento medievale era fondamentale la coltivazione dei cereali. Le fonti che riguardano Alessano testimoniano esclusivamente la produzione di grano tenero (frumentum) e orzo (ordeum): il primo era destinato al consumo umano, l’altro, invece, all’alimentazione degli animali (soprattutto degli equini). Con il frumentum si faceva il pane, l’alimento principale nella dieta dell’uomo medievale, la cui mancanza significava carestia e fame4. Solo in assenza di grano si panificava con l’orzo, con cui si riusciva a produrre una specie di galletta non lievitata considerata come un “pane della sofferenza”5.
Ad Alessano si pagava un dazio sulla panificazione, pro pane facto, ma probabilmente il tributo veniva riscosso solo sul pane cotto nei forni di proprietà della curia. I cereali erano utilizzati anche per il pagamento degli oneri fiscali e per questo motivo ne troviamo menzione nei documenti del Principato. Nella civitas alessanese, per esempio, spesso i censi sulla terra venivano pagati in frumento e orzo, oltre che in denaro e cera6. Ad esempio, l’erario Giovannuccio de Santo Iohanne incamerava discrete quantità di cereali: grano da alcuni uomini che avevano in concessione ad terciam, quartam et quintam partem delle terre della curia in clausorio magno; altro frumento dalla terra detta Santa Marina di Ruggiano; orzo veniva da una terra della curia in Lacconarijs e da un’altra situata in Rogiano denominata Puczo Porcello. Dai conti dell’erario veniamo a sapere che l’unità di misura utilizzata era il tomolo ad mensuram Alexanj (caratteristico di Alessano e diverso da altri tomoli come quello leccese o quello di Otranto) ad rasum (il recipiente che veniva utilizzato nella misurazione non doveva essere riempito oltre l’orlo)7. Inoltre sono testimoniate diverse compravendite di modeste quantità di cereali che avevano luogo durante i giorni di mercato.
Nel ciclo triennale di rotazione delle colture caratteristico del Medioevo, alla produzione dei cereali seguiva quella delle leguminose (nel terzo anno di solito veniva seminato il foraggio per gli animali). I legumi garantivano un buon apporto di proteine alla dieta della popolazione dell’epoca e per questo venivano coltivati diffusamente. Le fave di Terra d’Otranto erano rinomate ed esportate anche verso Venezia, non sorprende, quindi, trovarle citate tra le carte dei funzionari alessanesi: era sempre l’erario a riscuotere una discreta quantità di fabarum per l’affitto di un terreno macchioso chiamato Fasane e a incamerare anche delle lenticchie (lentis) dagli stessi terreni8.
Spostando la nostra attenzione verso la rendicontazione fiscale dei baiuli veniamo a conoscenza di altre derrate agricole, oltre ai cereali, che si scambiavano regolarmente sul mercato di Alessano: frutta e ortaggi (cerasis, melonum, cocumerum, fichi, castagne e pere), fibre tessili come lino, canapa e cotone (nuclej bombicinij)9 e differenti qualità di zafferano10.
Tra le colture arboricole un ruolo di preminenza avevano la vite e l’ulivo. La coltivazione del vigneto era diffusa ma confinata in appezzamenti estremamente frazionati, in genere ubicati a ridosso del centro abitato o addirittura al suo interno. La viticoltura, in questo periodo, sembra in fase di arretramento, la maggior parte della produzione di vino, altro alimento fondamentale della dieta medievale, era destinata all’autoconsumo e il suo commercio era sfavorito da misure protezionistiche come il divieto d’importazione di vini forestieri. In aggiunta diritti di privativa, che imponevano la commercializzazione in esclusiva del vino prodotto nelle vigne signorili, e altri dazi gravavano sulla vendita al minuto. La produzione era abbondante, e il consumo assai diffuso in tutti gli strati sociali, ma il commercio pare limitato a livello locale11. Dalle carte, non sembra che ad Alessano la compravendita del vino fosse sottoposta a particolare tassazione, tuttavia la curia esercitava i propri diritti sul prodotto proveniente da alcuni vigneti: ex vineis qui fuerunt Colelle, ex vineis Iacobi Bellantis12. Troviamo attestazione anche di due palmenti: ne possedeva uno la curia (sottoposto a riparazioni nel 1458-59)13 mentre l’altro apparteneva a Nicola de Gorgono, uno degli alessanesi più in vista dell’epoca14.
Della produzione e del commercio dell’olio, vero volano dell’economia salentina del Quattrocento, ci siamo occupati estesamente in un precedente articolo a cui rimandiamo15. In aggiunta a quanto già scritto, qui riportiamo due ulteriori notizie che abbiamo ritrovato nel quaderno delle Declaraciones.
Dai conti del capitano di Alessano Giacomo Antonio Coniger16 veniamo a sapere che a frate Giuliano di Taranto, guardianij loci beati Francisci de Alexano, era stata concessa una somma in denaro per il vitto dei frati dimoranti nella chiesa di S. Francesco, in più gli erano state donate due staia e mezzo d’olio pro uso lampadis del medesimo luogo di culto17. Inoltre, lo stesso capitano pagava a Gaspare Torsello e a Pietro Perrotta la somma di 9 tarì e 5 grana perché si erano occupati dell’aratura degli oliveti (clausoria olivarum) della curia18.
Allevamento e pesca
L’altra attività basilare dell’economia nel Salento medievale era l’allevamento di diverse specie animali. Al pascolo delle bestie erano destinati alcuni terreni macchiosi, a volte recintati (agresto et locis in defensis), di cui la comunità poteva usufruire senza pagare oneri. Diversamente, i forestieri erano tenuti a versare un piccolo tributo (ius affide) ai baiuli di Alessano per l’utilizzo di questi terreni19. Gli stessi ufficiali si occupavano anche delle multe per i danni provocati dagli animali alle colture agricole. La vigna e l’uliveto, in particolar modo, erano protetti negli statuti di ogni università, si proibiva il pascolo in certi periodi dell’anno e/o in certe parti del feudo (caso curioso ad Alessano era vietato far pascolare gli animali nel fossato della città). Inoltre le colture arboricole erano recintate quasi sempre da muretti a secco (clausure), in modo da evitare lo sconfinamento delle bestie; ma ciò non bastava ad impedire i danneggiamenti che erano fonte di continue liti, spesso culminanti in delle vere e proprie faide.
I bovini erano allevati per la produzione di latte e soprattutto come animali da fatica, aggiogati all’aratro erano fondamentali nella pratica agricola. I registri fiscali orsiniani, a volte, fanno distinzione tra i contadini possessori di una coppia di buoi (cum pariculo), sottoposti a tassazione maggiore, e quelli con un solo bue o senza (cum medio pariculo aut zappatori)20. Il possesso di una coppia di buoi faceva la differenza tra il coltivatore benestante e quello che viveva poco sopra il livello di sussistenza.
Anche l’allevamento e il commercio degli equini, usati nella locomozione e per scopi militari, è ben documentato. Sul mercato di Alessano, per esempio, è attestata la vendita di cavalli (iumenti), puledri (pulitri) e muli (mule).
Ovini e caprini (ovis et capretis) venivano allevati in abbondanza per uso alimentare, carne e latticini (ampiamente attestata la vendita di prodotti caseari come casej recocti, lattis et ricotti) e per la lana.
I suini, solitamente allevati allo stato brado nelle zone di incolto e di macchia, erano la principale fonte di proteine animali nella dieta del salentino di fine Medioevo.
Per quanto riguarda il consumo di carne, il quaderno dei baiuli alessanesi ci offre una dettagliata testimonianza delle attività di macellazione che si svolgevano nella civitas: il maiale veniva macellato dall’inizio di Settembre fino al periodo pre-quaresimale (la sua carne poteva essere conservata facilmente sotto sale e costituire una riserva di cibo per tutto l’anno); durante la Quaresima l’attività di macellazione terminava e sulle tavole la carne veniva sostituita dal pesce; poi con l’arrivo della Pasqua si riprendeva a macellare (ad Alessano il sabato della settimana santa del 1463 venivano uccisi quattro montoni in previsione della festa pasquale); in primavera ed estate il consumo di carne riguardava esclusivamente gli ovicaprini (pecude, capreto, castrato) e pochi bovini. Inoltre abbiamo notizia della vendita di carne di cervo (carnium cerbina). Diverse dovevano essere le botteghe dei macellai (buccerijs) dove si svolgevano tutte queste attività21.
Un particolare tipo di allevamento era quello delle api, occupazione assai comune nelle campagne salentine dell’epoca. Nelle nostre carte si fa spesso riferimento alla cera, sottoprodotto dell’apicoltura: con essa alcuni alessanesi pagavano i censi sulla terra che avevano avuto in concessione dalla curia (ben 52 libbre nel 1458-59), sempre della cera, proveniente da alcuni orti chiamati de abbate Luca, veniva annualmente assegnata a don Reynaldi Pullesj de Alexano, cappellano della chiesa di S. Nicola de Monte22.
Per quanto riguarda la pesca, abbiamo già visto quanto il pesce avesse una certa importanza nell’alimentazione degli abitanti della civitas durante il periodo quaresimale; possiamo aggiungere che sulla piazza alessanese le sarde (sardellas) venivano vendute in abbondanza nei mesi primaverili, mentre in estate si vendevano pisces minutos e vopillis. Il pescato proveniva dalla vicina costa adriatica visto che i venditori erano principalmente corsanesi, gaglianesi e tiggianesi23. Sappiamo che la pesca veniva praticata sia con le reti (cum retibus) sia cum cannella e che su questa attività la curia esigeva il pagamento di alcuni diritti. Ad esempio, i baiuli di Alessano riscuotevano da Andrea Tio di Morciano la gabella delle pillillj ac fontanellarum in cui si pescavano le anguille, peschiere che si trovavano nelle paludis seu maritime Salve24.
Oltre a paludi e peschiere, venivano ampiamente sfruttate anche le altre risorse dell’incolto e del bosco: Andrea Tio non era solo il responsabile (conduttore) delle zone acquitrinose sulla costa ionica, ma si occupava pure delle terrarum, foreste, iuncorum del territorio di Salve. Allo stesso modo, Angelo Mauro era conduttore herbarum, foreste capitis leocadensis e versava la relativa gabella alla curia alessanese25. La foresta era sicuramente essenziale per il pascolo ma anche un’importante fonte di legna, giunchi, carbone, selvaggina, ghiande, frutti e piante selvatiche edibili e officinali.
Le attività artigianali
Le notizie circa le attività artigianali che avevano luogo nella civitas Alexani sono scarse e frammentarie, tuttavia è possibile darne una sommaria descrizione. Sono menzionati molti magistri, per lo più forestieri, che avevano interessi economici nella città. Immaginiamo fossero piccoli artigiani e bottegai che vendevano i propri prodotti sulla piazza alessanese, come quel magistro Antonio che vendeva corde di canapa o quel mastro Nucio di Melpignano che nel 1463 vendeva unius mactrilis et unius pile reponendj olej pagando il relativo dazio26. Inoltre, dall’esame delle merci comprate e vendute sul mercato, si nota come in città venissero importati cuoi e pellami (corei), d’altro canto risulta evidente che gli abitanti dei casali vicini erano soliti rifornirsi di scarpe (più precisamente di suole e tomaie, solarum et antipedum) ad Alessano, da venditori locali. Si può dunque suppore la presenza di botteghe di conciatori, pellai e calzolai. Allo stesso modo i diversi attrezzi in metallo (aratrj, vomeris, forcam, zappe, zappe stricte, ferri, caldararum) acquistati da forestieri portano a supporre la presenza di fabbri e mastri ferrai in loco, così come la vendita di legname (tabulas) e travi (tigillos) ci fa pensare a botteghe di falegnameria o la vendita di tessuti alla presenza di commercianti specializzati in questo settore27.
Oltre ai già menzionati macellai, erano sicuramente attivi anche dei mastri muratori (magistri fabricatori) e manovali edili (manipoly), responsabili delle riparazioni alla stalla del castello e al palmento della curia28.
Il mercato
Il posto in cui venivano scambiati i beni prodotti era principalmente il mercato cittadino che aveva luogo ogni domenica nella piazza principale (in foro) della città (supponiamo fosse la piazza del castello). Altre fiere si svolgevano durante particolari festività religiose: il 22 Luglio c’era un mercato in foro Magdalene, il 6 di Agosto un altro in foro Salvatoris29, il 13 Aprile si svolgeva una fiera in foro leocadensi (probabilmente sulla piazza del santuario mariano di Leuca), altre due importanti fiere, infine, avevano luogo presso l’abazia di S. Maria dell’Amito (in foro Lomiti) il 19 Febbraio e il 15 di Agosto30. Tutti i forestieri (exteris), che vendevano o compravano merci durante questi mercati, erano sottoposti al pagamento del diritto di piazza (plateatico) di 15 grani per ogni oncia (2,5%), somme che venivano regolarmente riscosse e registrate dai baiuli; i cittadini alessanesi, invece, erano esentati dal pagamento di tale tributo. Nel 1462-63 la fiera che generava i maggiori introiti, più di 28 tarì, era quella di S. Maria de Lomito in estate, mentre quella di Febbraio dava 10 tarì; le altre fiere invece erano più piccole e con un volume di scambi assai minore, tanto da portare nelle casse della curia un paio di tarì al massimo.
Il mercato settimanale, che si teneva anche in condizioni di tempo avverso (obstantis pluvia), attirava nella civitas Alexani una discreta quantità di compratori provenienti dai casali vicini che si rifornivano di svariate merci. I venditori, invece, potevano arrivare sia dal Capo di Leuca, sia dal resto del Salento (Lecce, Gallipoli, Nardò, Otranto, Supersano ecc…), a volte addirittura da fuori regione (da Matera e da Tricarico). Anche numerosi ebrei forestieri frequentavano la piazza alessanese, erano occupati nella vendita di diverse merci, soprattutto pelli e cuoi; la vendita del pesce, come abbiamo visto, era appannaggio degli uomini di Corsano, Gagliano e Tiggiano; le angurie (melonum) provenivano quasi esclusivamente da Supersano; il carbone31 veniva commerciato principalmente da persone provenienti da Ruffano e Torrepaduli (immaginiamo che ricavassero il prezioso combustibile da carbonaie dislocate all’interno della foresta del Belvedere)32. Si trattava per lo più di piccoli commercianti che, a volte, conducevano gli affari associandosi tra loro; spesso queste attività erano condotte in ambito familiare, numerosi sono i casi di padre e figlio occupati nello stesso commercio.
Conclusioni
Per finire, vogliamo sottolineare alcuni aspetti che emergono in modo esplicito dai registri presi in esame.
Innanzi tutto la comunità alessanese della fine del Medioevo appare come una società dinamica e in fase di sviluppo; supponiamo che fosse in un momento di crescita economica, trainata soprattutto dalla produzione olearia e dal commercio di derrate agricole, in primis dell’olio. A questo dinamismo economico corrispondeva una certa mobilità sociale, non crediamo di essere lontani dal vero nel dire che proprio in questo periodo si affermarono alcune famiglie che, nei secoli successivi, andarono a costituire i ranghi del notabilato locale.
Anche se in fase di sviluppo, la produzione rimaneva sempre di stampo prettamente agricolo; tuttavia lo sfruttamento delle risorse dell’incolto e del bosco, e ancor di più la pesca, rivestivano un ruolo essenziale nei consumi della popolazione alessanese.
La produzione dei beni era destinata per lo più all’autoconsumo o al mercato locale, l’unica eccezione era costituita dall’olio che poteva raggiungere i mercati internazionali. Il cuore degli scambi commerciali era il mercato domenicale e le varie fiere annuali, punti d’incontro tra diversi mercanti forestieri e uomini provenienti dai casali limitrofi, interessati alle modeste compravendite che qui si svolgevano.
Con questo articolo, spero di aver riportato il lettore nella Alessano di fine Medioevo, anche se solo per qualche minuto. Credo, comunque, che questo piccolo scritto di microstoria serva almeno a dare una vaga idea di quale fosse il vivere quotidiano degli abitanti di Alessano di oltre mezzo secolo a dietro, di cosa coltivavano e producevano, del cibo che mangiavano e delle merci che compravano, delle modalità di commercio e del funzionamento del mercato cittadino; conoscenze che sono fondamentali per capire la cultura di una popolazione, sia passata sia contemporanea.
Note
1 Archivio di Stato di Napoli (d’ora in poi ASN), Sommaria, Diversi, II serie, n°247.
2 ASN, Sommaria, Dipendenze, I serie, n°643/1.
3 C. Massaro, Società e istituzioni nel Mezzogiorno tardomedievale. Aspetti e problemi, Congedo, Galatina (Le) 2000, pp. 38-39.
4 “[…] la maggior frequenza delle carestie nel Basso Medioevo fu dovuta anche a un mutamento dei consumi alimentari: la popolazione accresciuta, costretta a fare arretrare i boschi per coltivare grano che la sfamasse, non disponeva più delle risorse differenziate (caccia, allevamento brado) disponibili al contadino dell’Alto Medioevo, dipendendo così completamente dall’andamento dei raccolti. Ma bisogna anche sottolineare che la dieta cerealicola, per uomini che nulla sapevano di proteine e calorie, portò anche ad un preciso atteggiamento mentale, secondo il quale solo il pane poteva sfamare davvero.” A. Barbero, C. Frugoni, Medioevo. Storia di voci, racconto di immagini, Laterza, Bari 2020, p. 288.
5 F. La Manna, I cereali, in Mezzogiorno rurale. Olio, vino e cereali nel Medioevo, a cura di P. Dalena, Adda, Bari 2010, pp. 297-298.
6 ASN, Sommaria, Dipendenze, I serie, n°643/1, c. 19.
7 ASN, Sommaria, Diversi, II serie, n°247, c. 125v. Non conosciamo l’esatta misura del tomolo in uso ad Alessano, mentre quello leccese corrispondeva a 55,5 litri circa.
8 Ibidem, c. 125v.
9 ASN, Sommaria, Dipendenze, I serie, n°643/1, c. 2v.
10 A Gagliano si produceva sia quello bianco (zafurame albe) sia quello rosso (zafurame rubee); cfr. ASN, Sommaria, Diversi, II serie, n°247, c. 134.
11 S. Callegaro, <<Nel tempo delo vindimiare>>: produzione e commercializzazione del vino nella Terra d’Otranto del Basso Medioevo. Una prima indagine, Schola Salernitana – Annali, XXVIII (2023), pp. 63-86.
12 ASN, Sommaria, Diversi, II serie, n°247, c. 125.
13 Ibidem, c. 126v.
14 ASN, Sommaria, Dipendenze, I serie, n°643/1, c. 10v.
15 P. Cazzato, La <<platea olej>> di Alessano (1462-63), in “Controcanto. Rivista culturale del Salento”, anno XX numero 4, Alessano Dicembre 2024, pp. 3-13.
16 Nell’anno indizionale 1458-59 la carica di capitano di Alessano era stata ricoperta da due diversi funzionari: Marco de Frisis (che dieci anni prima era capitano della terra di Gagliano; cfr. P. Cazzato, La <<terra de Galliano>> all’epoca di Giovan Antonio Orsini del Balzo, in “Controcanto. Rivista culturale del Salento”, anno XX numero 1, Alessano Marzo 2024, pp. 3-12) era stato capitano dal 1° al 9 di Settembre, il giorno successivo era entrato in carica il Coniger; cfr. ASN, Sommaria, Diversi, II serie, n°247, c. 126.
17 Ibidem, c. 126.
18 Ibidem, c. 126v. Dal registro di Nucio Marinacio, erario generale del Principato di Taranto, veniamo a conoscenza che, il 25 di Marzo del 1462, il vescovo di Alessano prestava al principe Giovan Antonio Orsini del Balzo 200 staia d’olio a titolo di sovvenzione per la guerra allora in corso (cfr. S. Morelli, Il quaderno di Nucio Marinacio, erario del principe Giovanni Antonio Orsini da Lecce a Santa Maria di Leuca, anno 1461-1462, Paparo Edizioni, Napoli 2013 pp. 94-96).
19 ASN, Sommaria, Dipendenze, I serie, n°643/1, c. 16.
20 Come nel caso di Gagliano (cfr. P. Cazzato, La <<terra de Galliano>>… cit., p. 8).
21 ASN, Sommaria, Dipendenze, I serie, n°643/1, cc. 1-13v. La macellazione delle bestie era sottoposta al pagamento di un dazio (ius rive sanguinis) che variava a seconda della stazza dell’animale, per esempio si pagavano 7 grani per un bue o una vacca, 5 per un porco, 2 per un castrato.
22 ASN, Sommaria, Diversi, II serie, n°247, cc. 125v e126v. Probabilmente era destinata all’illuminazione del luogo sacro.
23 ASN, Sommaria, Dipendenze, I serie, n°643/1, cc. 1-13v.
24 Ibidem, c. 18v; ASN, Sommaria, Diversi, II serie, n°247, c. 123v.
25 ASN, Sommaria, Diversi, II serie, n°247, c. 123v.
26 ASN, Sommaria, Dipendenze, I serie, n°643/1, c. 10. Immaginiamo si tratti di un mastro scalpellino melpignanese che abbia portato ad Alessano il frutto del proprio lavoro: una madia (mactrilis da cui il salentino mattara/mattra) e una vasca per contenere l’olio (pile da cui il salentino pila) fatte in pietra leccese.
27 Ibidem, cc. 1-13v. Circa le attività di concia, abbiamo notizia che ad Alessano si commerciavano le ghiande di quercia vallonea (valanide) da cui si estraeva il tannino necessario nelle operazioni di concia.
28 ASN, Sommaria, Diversi, II serie, n°247, cc. 126-126v.
29 ASN, Sommaria, Dipendenze, I serie, n°643/1, cc. 12-12v.
30 ASN, Sommaria, Diversi, II serie, n°247, c. 123.
31 Il carbone di legna era sicuramente la merce attestata con maggior frequenza nel registro dei baiuli, quasi tutti i giorni uomini forestieri portavano in città una o due salme di questo prodotto utilizzato come combustibile.
32 ASN, Sommaria, Dipendenze, I serie, n°643/1, cc. 1-13v.


Il porto di Brindisi protagonista in una rara carta dei trasporti ferroviari e marittimi della seconda metà dell’Ottocento. La “Carta generale delle vie ferrate d’Europa e delle marittime relative all’istmo di Suez”.
di Vito Ruggiero
I trasporti ferroviari e marittimi nella seconda metà dell’Ottocento hanno rivoluzionato la mobilità di persone e merci, supportando la crescita industriale ed il commercio globale.
In pochi decenni, le ferrovie si estendono e si ramificano con diffusione capillare diventando la forza trainante dell’industrializzazione. Parallelamente, l’introduzione delle navi a vapore permette un enorme incremento della rapidità e della sicurezza dei viaggi via mare.
Ed è proprio la navigazione a vapore che pone le basi all’apertura del Canale di Suez, perché era l’unica tecnologia di propulsione che potesse permettere di attraversarlo in sicurezza nell’ambito di rotte commerciali affidabili e regolari.
Ferrovie, navigazioni a vapore e apertura del canale di Suez avviano a tutti gli effetti una nuova era dei trasporti che avrebbe cambiato rapidamente il corso dell’umanità influenzando profondamente la società e l’economia.
In questo contesto, le carte del trasporto ferroviario e marittimo assumono una grande importanza, perché hanno il ruolo di rappresentare un sistema sempre più esteso ed interconnesso, caratterizzato da vere e proprie reti e punti di scambio tra diverse modalità di trasporto coincidenti con i più importanti porti del Mediterraneo.
La cartografia della seconda metà dell’Ottocento deve dunque tenere il passo di questa incredibile e rapida rivoluzione, ed è caratterizzata da progressi scientifici e tecnologici che permisero la realizzazione di mappe sempre più precise. Se la cartografia antica e fino al Settecento si focalizzava su singole vie o rotte, quella dei trasporti dell’Ottocento iniziò a rappresentare reti di collegamenti che si espandevano globalmente. Mappe sempre più dettagliate divennero cruciali per mostrare i nuovi percorsi delle ferrovie e la loro relazione con le rotte marittime, e quindi per supportare la pianificazione economica e strategica.
È certamente questo lo scenario di fondo che favorisce la commissione e la realizzazione della “Carta generale delle vie ferrate d’Europa e delle marittime relative all’istmo di Suez”.
L’opera merita una presentazione per la sua rarità e bellezza intrinseca, ma soprattutto per dare risalto ad una poco conosciuta testimonianza cartografica dell’immenso ruolo globale che ha avuto il porto di Brindisi all’apertura del Canale di Suez. Un ruolo che si sintetizza con molta efficacia nelle parole pronunciate da Vittorio Emanuele II: “La via mondiale che, percorrendo l’Italia, riesce a Brindisi e avvicina l’Europa alle Indie…”. Un ruolo che troverà subito la sua massima espressione nella Valigia delle Indie, il percorso internazionale che collegava Londra a Bombay nel periodo 1870-1914.
Non è il fine di questo articolo fare alcun approfondimento su Brindisi e la Valigia delle Indie, su cui si è scritto già moltissimo. Andiamo invece a scoprire gradualmente questa magnifica carta geografica dell’Ottocento.
La presento inizialmente ad immagine piena, pur sapendo che forse renderà poco perché la carta è veramente dettagliata e ricca di particolari e informazioni in cui ci si potrebbe perdere per ore. Dopo una prima vista d’insieme, gli approfondimenti dei particolari sono a mio avviso inevitabili per un occhio attento. Purtroppo, la si può gustare appieno solo osservandola dal vivo o ingrandendo notevolmente la sua riproduzione.

La carta appartiene alla mia personale collezione di cartografia storica della città di Brindisi, ed ho pertanto avuto modo di toccarla con mano e di studiarla approfonditamente, seppur restano certamente punti di approfondimento ulteriore, in primis su chi fosse il vero committente e sulla biografia di chi l’ha realizzata, Ulisse Vannini.
Cominciamo con il dire che la carta nella sua interezza è di grandissime dimensioni (75×102 cm), e rappresenta principalmente il territorio europeo, nord africano, l’Egitto settentrionale e medio orientale, e parti del Medio Oriente, con indicazione delle vie ferrate e di quelle marittime oltre dei numerosissimi riferimenti topografici.
Un’attenta osservazione della mappa evidenzia in realtà che essa è costituita da quattro fogli uniti tra loro. Come spesso accadeva all’epoca, le carte così grandi erano infatti divise in stacchi. Nel caso specifico parliamo di 4 stacchi di circa 39×52 cm. ciascuno. Si tratta inoltre di una carta pubblicata sciolta, a sé stante, non per essere inserita in atlante o in volume. Ed è anche questa, a mio avviso, una delle motivazioni per cui è piuttosto rara e molto poco conosciuta.
L’esemplare in mio possesso, anche a dire del referenziato studio bibliografico che mi ha permesso di acquisirla, è davvero molto particolare ed inusuale perché i quattro stacchi sono uniti e montati su sfondo telato. Ai lati sono presenti dei piccoli anellini metallici, con il chiaro scopo di appendere a parete l’intera carta, piuttosto che conservarla in stacchi all’interno di una cassettiera o libreria.
Purtroppo non sono riuscito ad avere notizie su dove potesse essere stata utilizzata in precedenza. L’unica informazione che ho è che fu acquistata da un privato del quale non è stato possibile rintracciare il nome. Ritengo che per come è fatta, per il fatto di essere arrotolata e non piegata, per l’intelaiatura su tela, per gli anellini metallici ai bordi e per essere abbastanza scura, probabilmente in passato era stata a lungo affissa a parete. Con l’augurio da parte mia che chi l’ha posseduta in precedenza legga questo articolo e voglia fornire qualche informazione sulla sua singolare storia.
Altra grande particolarità dell’esemplare in questione è la bellissima colorazione a mano, molto precisa e sicuramente di impegnativa realizzazione per varietà e dimensioni. La carta è stata stampata in bianco e nero ed infatti altri esemplari noti non sono stati colorati, se non solo parzialmente.
In seguito a diverse ricerche effettuate nel marzo del 2025, quest’opera risulta ad oggi presente soltanto in quattro biblioteche italiane: la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, la Biblioteca Comunale di Treviso, la Biblioteca Civica Luigi Majno di Gallarate e la Biblioteca Civica Bertoliana Palazzo San Giacomo di Vicenza.
Ho quindi preso contatti con tutte le quattro biblioteche suddette al fine di poter trarre il maggior numero di informazioni possibili. È quindi risultato quanto segue.
In pratica in tutte le biblioteche dove è conservato un esemplare le quattro tavole risultano essere staccate.
Ho inoltre ritrovato l’opera anche presso la National Library of Technology (Czech Republic), dove è conservata in fogli su tela conservati in copertine di cartone con alette e rilegati in cordini, restaurati nel 1993. Un foglio risulta però mancante.
Oltre che nelle biblioteche, sempre nel marzo del 2025, ho rintracciato eventuali esemplari presenti nei cataloghi di vendita delle librerie antiquarie, trovandone tre. Tra questi, una nota libreria antiquaria toscana proponeva in vendita un esemplare composto dai 4 fogli attaccati, di cui solo uno parzialmente colorato, con un effetto estetico a mio avviso sgradevole e incompleto. In un altro catalogo di vendita compariva solo uno dei quattro fogli, mentre ancora un altro foglio singolo appariva nel catalogo di una libreria antiquaria di Londra, ben colorato, ma anch’esso consisteva in uno solo dei quattro fogli.
Infine ho eseguito alcune ricerche nell’ambito dei cataloghi d’asta e ritrovato anche che la carta era apparsa in un’asta asta Reiss & Sohn e descritta come litografia in 4 fogli separati, anno1870 circa, con cartiglio del titolo in ovale con vista a volo d’uccello di Suez e con altre tre carte collegate. I fogli non erano assemblati tra loro, di colorazione leggermente rosata, macchiata e oleosa. Reiss & Sohn la definisce una carta speciale, grande e rara, con mappe laterali che mostrano parti del sud-est asiatico, il porto di Brindisi e l’Egitto settentrionale, ognuno con il proprio titolo.
Un esame più approfondito dell’esemplare in vendita all’asta Reiss & Sohn ha potuto evidenziare che la sezione longitudinale del canale marittimo di Suez è in basso, sul margine esterno, mentre in quella da me acquistata è in alto, all’interno della carta. Inoltre nella carta in mio possesso è presente un planisfero con le linee di navigazione in un riquadro in alto a destra che nella carta di Reiss & Sohn non è invece presente. In pratica tre fogli sono identici, mentre quello in alto a destra differisce tra le due carte: in quella appartenente alla mia collezione è riportato il planisfero per il confronto dei viaggi marittimi prima e dopo l’apertura dell’Istmo di Suez e la sezione longitudinale del canale, mentre in quella del catalogo d’asta Reiss & Sohn è riportato per lo stesso confronto il solo Sud Est Asiatico in un cartiglio dal titolo “Prolungamento delle linee di mare da Bombay al Giappone”.
Appare quindi evidente l’esistenza di almeno due stati dell’opera, ma resta a me difficile stabilire quale sia il primo e quale il secondo.
Una copia è infine conservata presso il Gabinetto scientifico letterario G.P. Vieusseux – Archivio Contemporaneo “Alessandro Bonsanti”. In tal caso risulta su carta telata composta da 32 riquadri e contenuta in una copertina di cartoncino verde 195 x 140 mm. Quindi completamente ripiegata, a riprova che l’esemplare da me descritto è certamente inusuale, come anche affermato dalla libreria antiquaria da cui l’ho acquisita.
L’autore dell’opera è Vannini Ulisse, che la disegna sulla base delle informazioni prodotte da Cesare Vimercati, mentre la stampa è stata prodotta nel 1870 dalla Litografia Toscana di Firenze, uno studio litografico fiorentino attivo dal 1850 al 1910 circa.
Il titolo “Carta generale delle vie ferrate d’Europa e delle marittime relative all’istmo di Suez” è iscritto in un ovale sulla destra in cui vi è raffigurata una veduta a volo d’uccello dell’Istmo di Suez e lo riportiamo sotto.

Come indicato nell’ovale sulla destra la carta è “Compilata e disegnata da Ulisse Vannini sui documenti e sulle nozioni di Cesare Vimercati”.
Cesare Vimercati, scrittore, giornalista, storico ed editore attivo nella seconda metà dell’Ottocento, figlio del noto mandolinista e compositore milanese Pietro Vimercati, fu uno dei principali sostenitori del Canale di Suez, convinto che avrebbe rivitalizzato l’economia italiana. Nel 1864 scrisse e pubblicò autonomamente a Livorno l’opera “Il canale dell’Istmo di Suez; sua benefica influenza in Europa e specialmente in Italia”.
L’Italia all’epoca era ancora sconvolta da anni di guerre di unificazione, nonché dall’instabilità ereditata nell’organizzazione di molteplici stati indipendenti in un’amministrazione centralizzata e Vimercati aveva visto nel Canale di Suez il ritorno alla passata gloria marittima dell’Italia, persa sin da quando i portoghesi avevano aperto la rotta per le Indie attraverso la circumnavigazione dell’Africa, alla fine del Quattrocento. Una volta completato il canale, i principali porti Italiani sarebbero diventati inevitabilmente le porte di accesso all’Asia per l’Europa Centrale determinando un conseguente periodo di prosperità senza precedenti in periodi moderni. E di fatto l’economia Italiana crebbe costantemente dal 1861 fino alla Prima Guerra Mondiale, esattamente come Vimercati aveva previsto.
Nel testo di Vimercati, disponibile integralmente on-line al link sotto indicato, l’autore ripercorre con estremo dettaglio la storia dell’Istmo e delle varie fasi (atto di concessione, progettazione, realizzazione) che hanno portato all’apertura del canale, studiandone tutti i benefici per l’Europa e per l’Italia.
A pag. 269 Vimercati afferma: “Tagliato l’Istmo di Suez, tutti i porti italiani: Genova, Livorno, Napoli, Palermo, Brindisi, Ancona, Venezia, Trieste, ecc, è chiaro che divengono i depositari di tutti gli altri porti del mondo. Le strade ferrate che traversano ormai il nostro paese in quasi tutta la sua lunghezza e larghezza, permetteranno di collegare gli uni con gli altri questi depositi. La navigazione del Mar Rosso risusciterà la navigazione dell’Adriatico…”
Ed io aggiungo, con un pizzico non indifferente di fierezza campanilistica, che sarà proprio Brindisi tra tutti quei porti italiani a trarne il maggiore beneficio. La carta del Vannini ce lo raffigura con estrema chiarezza, tramite la scelta di rappresentare in grande, in basso a sinistra, unicamente la “Pianta geometrica del porto di Brindisi in Italia e sull’Adriatico” insieme a quella della “Mappa topografica del Basso Egitto/Canali d’acqua dolce strade ferrate canale Marittimo di Suez”. Come a dire il punto A e il punto B di quella che era senz’altro la rotta marittima di maggiore rilievo internazionale. Non si è dato invece alcuno spazio alla rappresentazione di altri porti italiani ed europei.
Troviamo i due riquadri rappresentati nella carta in basso.

Questa indubbia esaltazione internazionale di Brindisi è l’elemento cardine su cui si è fondato il mio interesse verso la grande carta del Vannini: Il porto di Brindisi è assoluto protagonista dell’intera rappresentazione dei trasporti ferroviari/marittimi insieme al Canale di Suez, in un contesto non solo Italiano, non solo Europeo, ma mondiale.
Da notare infatti che nel foglio in alto a destra abbiamo anche una rappresentazione dell’intero pianeta dal titolo: “Planisfero per il confronto dei Viaggi Marittimi prima e dopo l’apertura dell’Ismo di Suez fra i porti principali dell’Europa e dell’America con quelli del mare dell’Indie”.

Ritornando alla “Pianta geometrica del porto di Brindisi in Italia e sull’Adriatico”, è doveroso a questo punto un piccolo approfondimento.
Il riquadro originale è di dimensioni importanti rispetto a quelle dell’intera carta, anche se non estremamente dettagliato e caratterizzato da alcune particolarità e imprecisioni.

Notiamo un profilo delle mura innanzi al porto quasi per intero, cosa che certamente non era più così da secoli, con l’indicazione del Forte di Terra (il Castello Svevo), e del Torrione S. Giacomo.
Lato marina troviamo indicati l’Arsenale, la Sanità e lo “Spunteno”, a segnalare la sporgenza nel Seno di Levante in corrispondenza di quello che fu il “Bastione dell’Espontone”, luogo anche detto “Pizzuto”, che nella cortina muraria della città forma uno sperone, come sostenuto anche da N. Vacca in Brindisi Ignorata.
Verso l’interno troviamo indicate le vallate di Ponte Piccolo e di Ponte Grande e l’indicazione della Fontana, la Fontana Tancredi. Infine la Masseria Perrino e la Laguna di Fiume Piccolo e Fiume Grande.
Nel porto esterno appaiono invece le indicazioni della Bocca di Puglia, dell’Isola di Sant’Andrea con il Forte di Mare e le Isole Pedagne, con i toponimi di ciascuna di esse.
Osservando il piano del porto, possiamo notare che non è presente l’Isola Angioina, nata con gli scavi del Canale Pigonati e successivamente scomparsa in seguito ai lavori di abbassamento della stessa, iniziati nel 1842 ma conclusi oltre il 1860, quando era ormai ridotta in secca. E non è neanche indicata la relativa secca (Secca Angioina), certamente ancora presente nel 1866, come indicato nel Piano Generale del Porto di Brindisi dello stesso anno.
Manca anche la diga di Bocche di Puglia, progettata nel 1861 dall’Ing. Mati, i cui lavori furono approvati solo nel 1865 dopo lunghe discussioni parlamentari e quindi realizzata negli anni successivi.
Queste considerazioni mi fanno dedurre che l’immagine della “Pianta Geometrica del Porto di Brindisi in Italia sull’Adriatico” proposta da Ulisse Vannini rappresenti il nostro porto in un periodo che può andare dal 1860, o forse poco prima, al 1866 circa.
A mio avviso è una pianta incompleta e leggermente imprecisa perché avrebbe potuto riportare l’indicazione della Secca Angioina, così come è indicata la secca davanti al Forte a Mare, e certamente di qualche anno obsoleta rispetto alla data di realizzazione della carta geografica complessiva (1870 circa), in quanto a quella data la diga di Bocche di Puglia era già una realtà.
Questa rappresentazione di Brindisi, cosi come la ritroviamo nella grande carta, era quasi certamente inedita, nel senso che non risulta essere la copia esatta di una carta precedentemente pubblicata. Poteva averla realizzata il Vannini sulla base di rilievi fatti ad hoc? Molto probabilmente no, non essendo comunque lo scopo primario della carta geografica in questione. Credo dunque che Vannini avesse preso spunto da qualche precedente rappresentazione topografica di Brindisi e del suo porto, molto probabilmente anche più di una, per poi realizzare la sua Pianta Geometrica del Porto di Brindisi.
La presenza di elementi topografici disparati e non sempre precisi, facenti riferimento a epoche ben diverse (mura fronte marina, diga Bocche di Puglia completamente assente, arsenale forse in posizione non corretta, struttura vaga dei blocchi dei fabbricati, etc.) farebbe infatti pensare che la rappresentazione del Vannini è stata da lui realizzata prendendo più documentazioni e tavole, facenti probabilmente riferimento a epoche diverse.
Questa obsolescenza delle informazioni utilizzate per rappresentare la nostra città ed il nostro porto appare altresì paradossale nella totale assenza delle linee ferrate attorno alla città, invece ben evidenziate nel riquadro relativo all’Istmo di Suez: ai tempi della stampa della carta la linea ferroviaria Bari-Brindisi era già operativa da 5 anni (con tanto di stazione a Brindisi) e si stava quantomeno lavorando per la realizzazione del prolungamento fino alla Stazione Marittima.
Non me ne vogliano i discendenti del disegnatore Vannini per le piccole critiche al meraviglioso lavoro da lui effettuato oltre 150 anni fa. Sono solo delle personali osservazioni, e trovo anzi che queste particolarità e sfumature storiche rendano forse ancora più affascinante il riquadro di Brindisi con il suo porto, incastonato come un diamante nel gioiello che l’interezza dell’opera rappresenta, e che continua ed emozionarmi allo stesso modo ogni volta che la guardo.
Questo è il mio modesto parere, quello di un collezionista di cartografia storica brindisina e non di uno storico. Su tutto ciò invito come sempre gli studiosi ad esprimere la propria opinione in merito, magari integrando e correggendo le mie osservazioni.
Per tutti gli altri che sono pazientemente arrivati fin a qui a leggermi, la mia speranza è che abbiano potuto apprezzare una rappresentazione cartografica inconsueta che ci racconta di una Brindisi al centro dell’Europa e del mondo di fine Ottocento.

di Nicolò Conti
Secondo una concezione antropologica, la cultura presa nel suo più ampio significato etnologico è “quell’insieme complesso che include il sapere, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume, e ogni altra competenza e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della società”: dunque, anche il cibo è cultura. Si presenta, insieme alla lingua, come una delle maggiori fonti di identità di un popolo e la sua produzione è un atto culturale complesso che coinvolge esperienza, creatività, disponibilità, impegno e comunicazione; è, inoltre, un atto di cura perché attraverso una corretta alimentazione i bambini crescono bene e gli adulti vivono in modo sano.
Il discorso sul cibo è uno dei principali discorsi dell’umanità e della vita, che non si riduce all’elaborazione di una ricetta: attorno al cibo, lo sappiamo bene, nascono spesso amicizie, amori e racconti (ad esempio, Ulisse racconta ai Feaci il suo viaggio e la sua nostalgia per Itaca proprio durante un banchetto). Profumi, sapori e colori in cucina ci portano indietro con i ricordi, ma allo stesso tempo possono essere il presupposto di uno scambio culturale tra persone appartenenti a popoli diversi.
Infine, il cibo ha anche un valore etico sia perché è un bene che dovrebbe essere messo a disposizione di tutti, sia perché siamo noi, la nostra cultura, la nostra tradizione e la nostra religione ad attribuirgli valori, principi, usi e costumi.
Ed è proprio Oria (BR), paese noto soprattutto per la storia del suo maestoso castello normanno svevo, a fregiarsi dell’onore di aver dato i natali nel lontano 1736 a Vincenzo Corrado, uomo di raffinata cultura, eclettico e dalla mente illuminata.
La sua ricca produzione bibliografica rivela una conoscenza enciclopedica che spaziava dalla filosofia alla pedagogia, dall’economia agraria alla matematica, ma furono i suoi trattati di scienze gastronomiche a riscuotere un successo senza precedenti.
Appena ragazzino lasciò la sua amata Oria per trasferirsi a Napoli, dove prestò servizio presso le corti nobiliari sotto l’ala protettrice del Principe Michele Imperiali di Francavilla Fontana, dapprima come maestro di lingua straniera dei figli degli aristocratici e poi in veste di cuoco, gastronomo e capo organizzativo ed esecutivo di opulenti banchetti a cui partecipavano nobili e gente di spicco proveniente da tutta Europa.
Corrado fu un ineguagliabile genio della gastronomia, la cui opera di maggior successo è stata Il Cuoco Galante, appellativo con cui viene identificato anche lo stesso autore: pubblicata nel 1773, essa è ritenuta un trattato pioneristico per la dieta mediterranea e una pietra miliare nella cultura gastronomica, nonché uno straordinario tesoro di ricette appartenenti ancora oggi alla nostra tradizione.
Questo innovativo manuale di gastronomia, richiesto nelle corti nobiliari di tutta Europa, fu sottoposto fino al 1857 a ben sei ristampe, tradotto in diverse lingue e lodevole fu l’impegno di Corrado nell’arricchire ogni nuova edizione della sua opera con nuovi dettagli e curiosità. Il Cuoco Galante rappresenta un vero e proprio manuale della tavola nella sua complessità: a partire dalla scelta e preparazione delle materie prime fino all’imbandigione della tavola, passando per il servizio e l’intrattenimento dei commensali.
Particolarmente interessanti si rivelano Il Credenziere del buon gusto, opera dedicata all’arte della preparazione e conservazione delle vivande da credenza, e Del cibo pitagorico ovvero erbaceo, testo finalizzato a rendere più appetibili i piatti a base di erbe selvatiche, verdure, ortaggi e legumi attraverso l’impiego di salse, brodi e purè raffinati. Qui un grande elogio è riservato alle cipolle, ritenute da Corrado indispensabili per la cucina; per di più, a differenza di Pitagora, che soffriva di favismo, il Maestro inserisce nelle sue ricette vegetali anche le fave, sia fresche che secche, definendole legumi più sostanziosi degli altri. In appendice di quest’opera vi è il Trattato delle patate, considerate il cibo più povero e contadino in assoluto a quel tempo, prive di sapore e troppo modeste per raggiungere le tavole dei nobili; tuttavia, il Genio dimostra che anche le patate potevano essere servite sulle tavole dei facoltosi, purché cotte e condite in modo appropriato.
Nel 1792 Vincenzo Corrado dà alle stampe un altro capolavoro: Il notiziario delle produzioni particolari del Regno di Napoli. Vi descrive con dovizia di particolari tutto il territorio del Regno di Napoli partendo dalla sua suddivisione geografica in dodici province, ciascuna delle quali caratterizzata da attività produttive e artigianali tipiche e derivanti dalla ricchezza e dalle risorse del territorio, reso ancora più fecondo da un clima mite e favorevole tutto l’anno. In questo scritto Corrado offre un originale racconto sull’economia agricola e artigianale ed esalta le caratteristiche di ciascuna area, articolando l’opera in piccoli trattati in cui sono descritti tutti i fattori che rendono peculiare ogni tipo di produzione: dalla conformazione geografica e morfologica del territorio, passando per il clima da cui derivano materie prime di eccellenza fino alla raccolta, lavorazione, conservazione e commercializzazione, anche all’estero, dei prodotti. Attraverso quest’opera Corrado ci restituisce l’immagine di un territorio floridissimo, in cui regnano benessere e prosperità grazie all’abbondanza delle più raffinate delizie dovute alla Natura e alla costante e dedita azione dell’uomo; in diversi passaggi, inoltre, dichiara che questa straordinaria terra è ricca abbastanza da poter soddisfare tutto l’anno non solo il fabbisogno dei suoi abitanti, ma anche le richieste del commercio con l’estero.
Dopo aver accuratamente descritto il clima dolce dell’intero Regno di Napoli, Corrado passa in rassegna quelle che sono le produzioni e le attività legate a questo territorio. Qui abbondano: grano, biada, diversi tipi di legumi, olio, zafferano, tabacco, miele, vari latticini di eccellenza, pesci e crostacei consumati sia freschi che conservati in salamoia per essere commercializzati, frutta consumata anch’essa sia fresca che essiccata, verdure di ogni genere, fiori ed erbe aromatiche, animali da pascolo con conseguente produzione di latticini, carni pregiate, pellame e filati di lana. Per di più, si fabbricano in quest’area diversi tessuti: lana, lino, canapa, bambagia, seta (esportata in tutta Europa) in virtù dell’azione dei bachi e della lavorazione dei filati da parte di mani sapienti.
Per quanto concerne il materiale utile alle costruzioni, sono da annoverare: marmi, travertino, tufo, creta, calce. Fra i minerali, invece, si trovano in copiose quantità: zolfo, allume, talco, piombo, rame. È opportuno rammentare che gli estesi e folti boschi di questo Regno presentano una notevole mole di lunghi e grossi legnami, che venivano poi impiegati nella costruzione dei navigli, delle statue, per gli intagli, per le botti, ecc.
Corrado definisce così la provincia di Terra d’Otranto: «una terra produttiva di faraci ingegni e dei talenti più perspicaci, più veloci e più estesi alle scienze, alle armi ed alle arti, particolarmente per la poesia, per la musica, che per un certo genio vivace vien ispirato dalla natura».
Le opere del “Cuoco galante” risultano essere sorprendentemente attuali e in perfetta sintonia con le ultime tendenze del turismo moderno, sempre più alla ricerca di luoghi e prodotti che hanno preservato nel tempo la loro autenticità.
Corrado ci parla di stagionalità, sostenibilità, prodotti tipici, economia agraria, commercio, artigianato locale: tutti aspetti che appartengono al circuito dell’economia turistica e, cosa ancor più importante, ci parla del gusto di mangiare bene e sano tanto da essere considerato uno dei padri della dieta mediterranea.
di Marcello Gaballo
Una figura ancora viva nei ricordi di Parabita è quella della duchessa Lucia La Greca, moglie del duca Giuseppe Ferrari (detto “lo zoppo”), esempio di nobile pietà e di instancabile beneficenza. Nuovi documenti rinvenuti nel carteggio del vescovo Luigi Vetta presso l’Archivio Storico della Diocesi di Nardò restituiscono il profilo umano e religioso di questa donna, la cui generosità si tradusse in opere durature a favore della comunità e, in modo particolare, della chiesa matrice.
Fu proprio in virtù di tale magnanimità che, poco prima della sua morte, il vescovo, con lettera datata 14 luglio 1853, si rivolse alla Segreteria di Stato – Ministro dell’Interno, chiedendo le debite autorizzazioni affinché la duchessa potesse, “nonostante i divieti ormai in auge”, essere sepolta “nella tomba di famiglia che era collocata presso la cappella dell’Addolorata della chiesa matrice”.
Nel suo scritto il presule descrive la nobildonna come “da oltre 50 anni si è distinta sempre per opere di pietà e di beneficenza. Non solamente i poveri hanno trovato sempre in Lei un pronto soccorso in tutti i loro bisogni, ma le Chiese e le case religiose ancora mostrano luminose pruove della carità di questa insigne benefattrice, ed ultimamente, essendosi dovuta ingrandire, e rendere più decente la Chiesa Matrice, la grand’opera non si sarebbe potuta intraprendere, e compire, senza una ingente somma offerta dalla Signora Duchessa medesima.”
Il vescovo proseguiva segnalando la veneranda età della nobildonna e il desiderio da lei espresso: “Essa, intanto, la pietosa Signora, è giunta all’età di anni 85, e vede perciò non molto lontano il suo passaggio alla eternità. Mi ha quindi espresso il suo desiderio che le sue spoglie mortali sieno deposte in una Cappella gentilizia posta nella Chiesa medesima. Chiesa matrice, ed è questo pure il desiderio di quel Clero, anzi di tutta quella popolazione, la quale grata a tanti benefici, non saprebbe come renderne perenne la memoria.”
Con queste premesse, Vetta si appellava alla Segreteria del Ministro, affinché “si rivolgesse al Sovrano per offrire l’assenso perché la salma della duchessa, ‘quando Dio vorrà chiamare a sé la buona Signora’, possa essere riposta nella tomba gentilizia della famiglia ducale, nonostante i divieti in vigore”. Il vescovo precisava inoltre che “in quel Comune non vi è il Camposanto ancora, ed i cadaveri sono sepolti in una Cappella che, sebbene posta all’estremo dell’abitato, è pure posta dentro l’abitato medesimo”.
A meno di un mese dalla richiesta, l’autorizzazione giunse in forma di Attestato ufficiale, con il quale veniva concesso alla duchessa “il privilegio d’esser seppellito il suo cadavere nel sepolcro della cappella gentilizia della Casa Ducale”. Il 20 settembre dello stesso anno, il Sotto Intendente comunicava al vescovo l’avvenuta concessione della grazia sovrana.

Il sepolcro, completato nel 1745 dal duca Paolo Ferrari, oggetto di studio dello studioso Mario Cala, è tuttora individuabile nella cappella dell’Addolorata della chiesa madre di Parabita. L’ingresso del sepolcreto è chiuso da una lastra tombale in marmo bianco, un tempo recante un’iscrizione oggi appena leggibile, fatta incidere da Paolo Ferrari. La tradizione locale vuole che la duchessa sia effettivamente qui tumulata, secondo le volontà espresse in vita e grazie al provvedimento ottenuto dal vescovo Vetta.

Dalle notizie biografiche contenute nel documento allegato, si apprende che Lucia La Greca, nata a Montalbano nel 1771 in una famiglia di antica nobiltà meridionale, unì al rango sociale una sincera vocazione caritativa. Sposata al duca Giuseppe Maria Ferrari di Parabita, visse tra Lecce e la residenza ducale del paese, dove si distinse per la promozione di opere pie, per l’assistenza ai poveri e per il sostegno alle istituzioni religiose. La sua vita, conclusasi il 18 giugno 1855, interamente spesa “per la gloria di Dio e il bene del prossimo”, rimase a lungo nella memoria collettiva dei parabitani come esempio di virtù cristiana e di nobiltà d’animo.
Il sepolcro, tuttora visibile nella cappella dell’Addolorata, rappresenta una delle più significative testimonianze materiali della presenza ducale nella chiesa matrice di Parabita. Il documento del 1853 permette di ricostruire con chiarezza la profonda devozione e la riconoscenza che l’intera comunità parabitana nutrì per la sua illustre benefattrice, alla quale si deve in gran parte il decoro e l’ampliamento del sacro edificio. Tuttavia, come osserva Mario Cala sulla base di alcune testimonianze tramandate dai discendenti della duchessa Lucia La Greca, la sepoltura nella cappella fu con ogni probabilità temporanea: la salma sarebbe stata in seguito traslata e deposta nella Basilica del Carmine Maggiore di Napoli, dove la famiglia possedeva antiche sepolture gentilizie.
Si ringrazia l’amico Matteo Milelli, ancora una volta prezioso nel reperire utili informazioni e adeguata bibliografia sulla chiesa, nonché autore delle fotografie che accompagnano questo contributo.
In allegato il saggio di Mario Cala sulla cappella dell’Addolorata:
di Armando Polito

Le due locuzioni possono essere considerate come espressione di una saggezza popolare in grado di cristallizzare, inconsapevolmente, il principio degli opposti, consacrato nel manicheismo nato ufficialmente nel III secolo, per il quale, com’è noto, tutti i fenomeni della vita sono riconducibili a due sole categorie concettuali: il bene e il male.
Oggi manicheo è una voce che ha assunto una valenza dispregiativa ed è divenuta quasi sinonimo di estremista, assumendo una pluralità di connotazioni tra cui quelle legate al potere religioso e a quello politico con rivendicazione dell’ aprioristica bontà delle proprie idee. La vita, invece, mostra che oggettivamente tra bene e male intercorrono molteplici situazioni intermedie identificabili come benefiche o malefiche solo dopo la loro conclusione. Non a caso si dice non tutto il male vien per nuocere e la stessa democrazia oggi dai suoi stessi sostenitori non è più riconosciuta come il bene assoluto. Che te ne fai, a lungo andare, di un bene che non si realizzerà mai, nemmeno relativamente come tutto nella vita, dopo la morte della politica intesa come sevizio e non asservimento a fumose promesse parzialmente mantenute solo per propiziare un interessato e narcisistico consenso?).
Per quanto manicheistici, però, i proverbi che seguono (quando sono in versi, la barra ha la funzione di distinguere questi ultimi) mostrano un mondo totalmente perduto, in cui il senso del dovere e del sacrificio era vitale, anche se, forse, meno vivo nelle classi dominanti. E a questo proposito, siccome oggi tutto, anche l’osannata e nello stesso tempo demonizzata intelligenza artificiale, ruota attorno alla statistica, vi chiedo se vi sembra casuale il fatto che il concetto del male (mar’a, espresso col tono di chi la disciplina la imponeva a se stesso e, con l’esempio, prima ai propri figli e poi agli altri) prevale per 10 a 2 su quello del bene (iat’a, espresso con il tono di chi vi vede una felicità quasi irraggiungibile) e che tra quei dieci ben quattro (nn. 5, 8, 9 e 10) si riferiscono al lavoro agricolo. Ogni contributo volto a confermare, correggere, integrare o sovvertire la lista dei proverbi. Fatelo, anche se il vostro parere coincide con quello del protagonisti della vignetta.
Mi piace precisare che le note filologiche, laddove compaiono, non sono ispirate da stupido esibizionismo culturale ma dall’intento, dopo aver compreso, di far, forse, meglio comprendere e a,are il nostro dialetto agli stessi salentini e, magari, a chi salentino non è.

1) MACARI CA MANGI PERE E GGIRASEa;/MAR’ALLA ‘ENTRE CA PANE NO TTRASEb
Magari che mangi pere e ciliege, (è) ) amaro (guai) al ventre che (in cui) non entra pane
Vale anche come nota dietetica ante litteram sull’essenzialità dei carboidrati.
a Ggirasa è dal latino medioevale cerasea(m).
b Da trasire, che è dal latino transire, composto da trans=oltre+ire=andare.
2) MAR’A CCI NO SSI CRATTA CU LL’ONGHE SUA
Amaro (guai) a chi non si gratta con le sue unghie
Il principio della solidarietà, pur fondamentale in una società che aspira ad essere veramente civile, non deve essere sfruttato come alibi per non darsi da fare in nome del tutto è dovuto da una parte e di populistiche speculazioni politiche dall’altra.
3) MAR’A CCI TENE BBISUEGNU
Amaro (guai) a chi ha bisogno
Se non fosse stati per l’ordine alfabetico dato alla serie questo proverbio, essendo il bisogno il padre di tutti i mali, avrebbe dovuto aprirla.
4) MAR’A CCI VAE, CA CI RESTA/FACE FESTA
Amaro (guai) a chi parte, perché chi resta fa festa
Il vae allude chiaramente non ad un viaggio qualsiasi, ma all’ultimo e festa allo spegnimento più o meno rapido del dolore e del rimpianto; è lo stesso concetto espresso nel n. 6.
5) MAR’ALLA PASTANACA/CA TI AGOSTU NO GGH’Èc NNATA
Amaro (guai) alla pastinaca che di agosto non è nata
c Corrisponde all’italiano gli è (latino illud est) e presenta aferesi e normale passaggio –gl->-ggh– come in figlio/fìgghiu.
6) MAR’ALLA TONNA CA SI ‘FFITA ALL’OMU,/CA L’OMU TENE ‘NNU CORE TI TIRANNU,/CA TANTU TI VAE GGIRANDU TURNU TURNU,/FINCUCCHÉ NO TTI RITUCE A SSUA CUMANDU;/DOPU RIDOTTA TI ‘NCI METTE A ‘NTURNU/E CCASA PI CCASA TI VAE MALANGANDUd
Amaro (guai) alla donna che si affida all’uomo, perché l’uomo ha un cuore di tiranno, che tanto ti va girando intorno intorno finché non ti riduce al suo comando; dopo ridotta ti ci mette attorno (mette il tuo nome in circolazione) e va casa per casa malignando su di te
Il detto sembra invenzione (nel senso di creazione, non di calunniosa fantasia) di una femminista ante litteram.
d Come l’italiano malignare, dal latino tardo malignare=avere una cattiva natura, dal classico malignus, che è da malus=cattivo e dalla radice di gìgnere=generare.
7) MAR’ALLU MUERTU CI NON È CCHIANTUf ALLORA
Amaro (guai) al morto che non è pianto allora
Proverbio concettualmente legato al n. 3.
f Da chiangìre, che è dal latino plàngere= battersi il petto in segno di disperazione, piangere, lamentarsi. Da notare i normalissimo passaggip pla->chia-, come in chianca (=lastra di pietra) da planca (=tavola, asse), chiànu (=piano) da planu(m), etc. etc.; da notare ancora il passaggio, anche questo normale nella coniugazione salentina, il passaggio –ere (plàngere)>-ìre (chiangìre). a differenza del napoletano chiagnere e dell’italiano piangere.
8) MAR’A LLU VILLANU/CA TI L’ERVA MMISURA LU CRANU
Amaro (guai) al villano (contadino) che dall’erba misura il grano!
9) MAR’A QUEDDHA ANNATA/CA TI SCIROCCU GGH’Èe GGOVENATA
Amaro (guai) a quell’annata che è governata dallo scirocco
e Vedi la nota c del proverbio n. 4.
10) MAR’A QUEDDHA RAPA/CA TI ACOSTU NO È SSIMINATA
Amaro (guai) a quella rapa che ad agosto non è seminata!
11) AN TERRA TI CICATI, IAT’A CCI TENE ‘N’UÈCCHIU
In terra di ciechi beato chi ha un occhio.
Qui, addirittura, c’è il superamento del dantesco aver compagno al duol scema la pena in nome del poteva andar peggio prima e del chi si contenta gode o Dio, non peggio! poi. Il riferimento alla cecità potrebbe non essere casuale, sembrando il proverbio la traduzione letterale di Beati monoculi in terra caecorum (Beati quelli che ci vedono da un solo occhio in terra di ciechi), che Il Pitrèg definisce lapidariamente proverbio di origine greca, senza, purtroppo, citare alcuna fonte o argomentare la sua affermazione. A me appare come un proverbio medioevale, che per composizione (mi riferiamo al beati iniziale) sembra ispirato a modelli evangelici. Probabilmente fu tenuto presente da Erasmo da Rotterdam che negli Adagiah così tratta il tema: Inter caecos regnat strabus In regione caecorum rex est luscus. Inter indoctosd, qui semidoctus est, doctissimus habetur. Inter mendicos, qui paululum habet nummorum, Cresus est. (In terra di ciechi regna lo strabico. In terra di ciechi il guercio è re. Tra gli ignoranti chi è mezzo ignorante è considerato dottissimo. Tra i poveri chi ha pochissimo denaro è Cresoi).
g Giuseppe Pitrè, Proverbi siciliani, Luigi Pedone Lauriel, Palermo, 1880. p. 35.
h Cito da Adagiorum domini Erasmi Rotterdami epitome, Apud Sebastianum Gryphium, Lugduni, 155, p. 163.
i Re di Lidia vissuto nel VI secolo a. C., divenuto per antonomasia sinonimo di ricco.
12) ‘IAT’A QQUEDDHA CASA/A DDO’ ‘NC’È ‘NA CHÌRICA RASAl
Beata quella casa dove c’è una chierica rasa!
In passato, in cui il sentimento religioso era certamente più radicato anche nei suoi aspetti formali e abitudinari (com’è per tutti i sentimenti), la figura sacerdotale aveva una rilevanza sociale di primo piano anche sotto l’aspetto culturale ed economico. E non escluderei neppure che qualche madre contasse nella raccomandazione diretta (c’è bisogno di dire a chi?) ) del figlio per l’anima di un marito avvinazzato e violento …
l Rasa può sembrare pleonastico, ma non lo è, se si pensa che chierica deriva dal latino medioevale clerica(m) tonsione(m)=tonsura clericale.

di Elio Ria
L’alba sottende sempre qualcosa di nuovo alla luce di un giorno, sempreché il giorno appaia nelle modalità inconsuete. Non basteranno gli occhi a diramare le nubi. Il sole d’autunno è pigro è ineluttabile, sente l’indifferenza che la gloria reca. Non arriva sui radi alberi poveri di una piazzetta di paese. Lassù la piazza è diversa. L’allegria del sole è spazzata via dal vento, anche la vita pulsa di meno. Al sud l’alba ha l’odore degli ulivi, del mare, della riproducibilità delle parole inattese, dei sogni infranti dalle differenze. L’alba è un libro che non si conclude, nonostante il tramonto e l’assenza delle figure d’altri tempi. Gli altri sono immagini-fantasmi che ci sfiorano casualmente, in momenti di transizione di sentimenti, in un tramonto alato. Riconduciamo gli oggetti del panorama alle idee che nel pensiero si assoggettano a desideri e giochi fantastici in cui le montagne non sono pietre ma carta, gli alberi giganti prostrati e vinti. L’alba non ci dice nulla, eppure tutto di noi è scritto in essa, ma non ci interessiamo, lo sguardo è irrimediabilmente perso nel tutto della vanità. L’alba del Sud resiste, ancora, per coloro che sono diversi dagli altri, e non capitolano.
L’alba è ciò che in ultimo rimane di noi. Un nuovo giorno che si schiude al sole o alle nuvole, alla pioggia e al vento. Essa dirà qualcosa in assenza o in presenza, in assenza per pudore, in presenza per rimprovero, dirà comunque parole e segni, non sogni, sarà radiosa nelle vesti di una donna. Lo sguardo rimprovererà gli occhi, le mani conterranno gli spiccioli di una bellezza consumata. Un nuovo giorno giungerà al termine con la sua alba di fiori appassiti, di giardini contorti, di territori malati. Un giorno chiederà conto all’altro, al divenire che si appresta a non concedere certezze ma diseguaglianze di speranze. Tutto si concluderà a nostro sfavore, a nulla varranno le preghiere, gli scongiuri, le maledizioni. Ogni fatto si cristallizzerà nella parola di penitenza e nessuna redenzione è concessa. L’alba è la bellezza di un dio che si annuncia a non si presta a nulla di umano, la logica non vale quando l’ignoto percorre strade indeterminabili e sconosciute. Poiché tutto è così, a nulla servirà il moto veloce della vita, l’agire inconsulto per gli affari. A nulla può l’alba sull’uomo, sul paesaggio, sull’aria, nella sua autonomia e insaziabile superbia di scandire la notte dal giorno si mostra bella per ingannare. Gli occhi comprendono, non la mente, il corpo è inutile e servile. L’alba sull’altalena del cielo disegna le nubi e dà forza al vento, sorride alle piante, ascolta i silenzi dei cipressi. Tutto è così, sempre, nella convenzione di un universo non fatto per noi e che non contempla l’estrema follia dell’immaginazione nei suoi comparti di razionalità.
L’alba del Sud è l’alba della nostalgia, in esilio del tramonto, che si spappola sulle campagne e sul mare.
di Nicolò Conti
Un intreccio di storia, arte e devozione; un luogo intriso di mistero su cui si sono posati innumerevoli sguardi sognanti, continua a vegliare sulle strade della città
Un ricordo indelebile scolpito nella memoria dei brindisini e legato alla loro infanzia è senza ombra di dubbio riconducibile all’enigma suscitato dalle varie e disparate sensazioni provate davanti al Calvario che, agli occhi ingenui e incuriositi di fedeli e bambini, si ergeva ancor più grande di quanto già non fosse; maestoso e avvolto dal mistero, era custode di antichi segreti. Tutto ciò incantava appieno i giovani spettatori quasi magnetizzandoli, ma occorre rammentare che non erano da meno il timore e il turbamento che questo monumento incuteva loro, impressionandoli e spesso inducendoli a scappare oppure a voltarsi dall’altra parte.

Il Calvario di Brindisi, collocato in via Santa Margherita ad angolo con via Carmine, è un piccolo santuario popolare che rappresenta i momenti più significativi della Via Crucis di Gesù Cristo. Questi luoghi sacri, che dimostrano come l’arte popolare rivestisse un ruolo essenziale nella preghiera e nella liturgia, erano di solito situati nei pressi di una chiesa o un monastero, e si diffusero a macchia d’olio in tutto il Salento a inizio Ottocento per esprimere al meglio la coscienza religiosa delle diverse comunità.
Il santuario era ubicato in una zona intrisa di un’atmosfera sacrale in armonia con gli edifici circostanti: accanto era presente il convento di Santa Maria delle Grazie, alle spalle l’antico monastero degli Agostiniani, e nelle immediate vicinanze la chiesa di San Rocco e quella della dedicata alla Madonna del Carmine con annesso il monastero.
Il Calvario, stando a quanto ci viene riferito dai Vangeli, è la collina sita vicino le mura di Gerusalemme dove fu crocifisso Gesù Cristo. Da qui si evince la centralità assoluta che questo luogo di culto assume nel periodo pasquale, ricordando che in passato una serie di processioni ogni Venerdì Santo muovevano in ordine dal primo pomeriggio alla sera, partendo dalle diverse chiese del centro cittadino per poi terminare il loro percorso presso il monumento stesso. Nonostante questo rito negli ultimi anni sia stato ridotto a un’unica processione, la straordinaria mole dei fedeli che annualmente vi partecipa con profondo fervore religioso e con l’accompagnamento della banda musicale è rimasta immutata. Particolarmente interessante si rivela l’approfondimento della nascita e della storia del Calvario.
Edificato a devozione della famiglia Tedesco, come riporta l’epigrafe fissata sulla parete di destra guardando l’entrata, il santuario fu consacrato dall’arcivescovo di Brindisi Pietro Consiglio nel 1830 alla conclusione della missione dei padri Redentoristi; l’avvenimento viene ricordato dal testo latino di una seconda epigrafe lapidea posta all’angolo tra le due vie.
A partire dagli ultimi anni dell’Ottocento le redini dell’intero palazzo collocato in via Carmine e del Calvario furono prese dalla famiglia Gioia-Caforio. Infatti, su un tempietto circolare posto all’interno del recinto spicca il nome di Teodoro Gioia, un imprenditore locale che, nel 1921, riportò in auge attraverso un meticoloso restauro quella punta di diamante ingiustamente abbandonata da troppo tempo.
L’imprenditore Gioia, rispettoso della tradizione, prestò molta attenzione affinché non venisse mutata l’architettura di base del rinato gioiello brindisino; inoltre, la Premiata ditta Longo di Lecce produsse l’altorilievo in cartapesta dell’Addolorata, situata nell’edicola poco distante dal Calvario, e le due statue, sempre in cartapesta e a grandezza naturale, della Vergine Addolorata e del Cristo Morto custodite con esemplare accortezza nel santuario ed esposte ai fedeli il Giovedì e il Venerdì santo.

Successivamente, lo scultore Bepi Zanchetta realizzò i cinque Misteri in ceramica che, sostituendo le pitture di analogo tema visibili ancora su alcune fotografie di inizio Novecento, impreziosirono ulteriormente il Calvario. Ci furono in seguito altri ritocchi in cui un contributo essenziale dagli anni ‘80 fino al 2009 fu dato dall’eclettico artista Giulio Caforio, pronipote di Teodoro Gioia.
Il ripristino del 2009 fu effettuato grazie all’idea dei proprietari, la famiglia Gioia-Caforio, e di Luca Di Giulio, che costituì un comitato per finanziare i lavori come dono di amore alla propria città; in questo lavoro il Maestro Nicola Serinelli restaurò minuziosamente le due statue in cartapesta.
Negli interventi di risistemazione degli ultimi tre anni, con la collaborazione del cittadino Antonio Monaco e di Francesco Viola, responsabile della manutenzione e della pulizia del santuario, il maestro Giuseppe Nardelli ha restaurato i cinque bassorilievi dei Misteri e le statue di Gesù e della Madonna.
Il Calvario, attualmente nelle sapienti mani di Giovanni Caforio, pronipote di Teodoro Gioia, si presenta come una singolare fusione tra storia e devozione concretizzatasi in un angulus ammirabile dal punto di vista artistico e architettonico. Rende ancor più l’importanza che il Calvario assume per la cittadinanza una saggia e intramontabile riflessione scritta dalla prof.ssa Maria Blasi Caforio, zia di Giovanni ed esploratrice insieme agli altri componenti della famiglia della storia del Calvario. “Finalmente qualcosa di straordinario e di grande rilievo si è verificato nella comunità di Brindisi, scuotendo la coscienza dei cittadini, considerati da molti abulici e indifferenti alle bellezze artistiche del proprio paese: il Calvario ritrovato, riscoperto e recuperato come un bene di grande portata storica per i costumi e gli usi del nostro vivere civile e sociale; ma anche un mezzo per tutti i brindisini per sentirsi parte viva di una comunità, che, mai, come oggi, avverte il bisogno di ritrovare la sua identità storica e culturale di fronte ai pericoli striscianti di una alienante massificazione, che tende ad annullare le peculiarità della persona e l’identità dei piccoli e grandi aggregati urbani”.
Le sue brillanti parole echeggiano ancora nell’animo dei brindisini.


di Marcello Gaballo
Passeggiando nella Cattedrale di Nardò, lo sguardo del visitatore è inevitabilmente catturato dal ciborio: una struttura fissa che sovrasta l’attuale altare maggiore in marmo, aperta sui quattro lati e composta da quattro colonne che sorreggono capitelli corinzi. Su di essi poggiano architravi corrispondenti e un cupolino piramidale ornato da ventiquattro colonnine. Questo elemento scenografico, realizzato provvisoriamente in legno su disegno di Antonio Tafuri, fu collocato in occasione dei radicali restauri condotti alla fine dell’Ottocento, quando si decise di rimuovere l’insieme delle sovrastrutture barocche realizzate nel secolo XVIII da Ferdinando Sanfelice (1675-1748), che avevano ridefinito in profondità lo spazio interno della chiesa.
In tale contesto l’antico altare maggiore barocco, insieme alla balaustra del presbiterio, fu traslato nella cappella di San Gregorio, dopo il consolidamento della sua volta, così da conservarne almeno in parte la memoria all’interno della fabbrica sacra.
Le colonne che oggi sostengono il ciborio non appartenevano originariamente alla Cattedrale, e la loro storia, poco nota, si ricostruisce grazie a un documento datato 23 marzo 1895, conservato in originale presso l’Archivio Storico Diocesano di Nardò. Si tratta di una lettera che permette di seguire le modalità con cui quei preziosi elementi lapidei giunsero da Roma fino in Terra d’Otranto.
La vicenda prende avvio da una corrispondenza tra Giulio Sangiorgi, titolare della prestigiosa Galleria Sangiorgi di Roma con sede a Palazzo Borghese, e monsignor Giuseppe Ricciardi, vescovo di Nardò. La Galleria Sangiorgi, tra le più rinomate case d’arte e di antiquariato dell’Italia postunitaria, era un punto di riferimento per collezionisti ed enti ecclesiastici desiderosi di arricchire i propri spazi di arredi e opere d’arte.
Nella missiva, inviata per il tramite dell’archeologo e storico dell’arte Giovanni Battista Boni, ispettore ministeriale presso la Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti, Sangiorgi comunicava di poter offrire al presule neretino quattro colonne di marmo verde antico, alte 2,30 metri e dal diametro di 25 centimetri, “in buonissimo stato, non scheggiate né troncate, ma in perfetta condizione”.
Il prezzo pattuito era di 500 lire, somma che comprendeva anche l’imballaggio “a regola d’arte”, mentre restavano a carico della committenza le spese di trasporto da Roma a Nardò. La lettera non solo documenta l’acquisto, ma testimonia anche la cura e l’attenzione con cui il vescovo Ricciardi intese dotare la sua Cattedrale, allora in fase di restauro, di un elemento nobile e di forte valore simbolico. Il marmo verde antico era infatti tra i materiali più ambiti dalle grandi committenze ecclesiastiche e nobiliari dell’Ottocento: evocava la magnificenza della classicità e insieme offriva un segno di continuità tra la tradizione romana e il nuovo slancio liturgico.
Grazie a quell’acquisto le quattro colonne – due di marmo africano e due di cipollino – furono trasferite da Roma a Nardò e collocate a sostegno del ciborio, dove ancora oggi si ammirano. Il loro colore intenso e la compattezza della materia conferiscono all’insieme un tono di solennità che fonde armoniosamente la suggestione dei marmi antichi con la spiritualità della comunità locale.
La decisione di importare da Roma un materiale tanto prezioso rivela la volontà del vescovo Ricciardi di legare la chiesa madre della diocesi a un respiro universale, attingendo alle risorse della capitale per nobilitare l’altare, cuore liturgico e simbolico dell’edificio.


Gilberto Spagnolo, Maestri, maestre e scolaresche. Il Memoriale di Maria Ida Marrazzi e la Novoli dell’Otto e Novecento, Quaderni. 3, Società Storica di Terra D’Otranto.
ISBN 978-88-945508-9-4, presentato a Novoli nel settembre 2025.
Fabio Scrimitore
Dalla Prefazione al volume:
Non omnis moriar
La genialità, di cui la natura lo aveva dotato, gli dette il coraggio di opporsi all’evidente caducità della vita, che accompagna nel tempo l’uomo nelle sue peregrinazioni plurimillenarie da occidente ad oriente del mondo. Tutto ciò che nasce sotto il sole è caduco, temporaneo; tutto si estingue col tempo, persino lo stesso tempo, assicurano gli scienziati, un giorno cesserà di accompagnare i perplessi epigoni di Edipo a sfuggire al capriccio dell’onnipossente Fato.
Ma, il grande Ugo Foscolo ha avuto la forza di chiedersi perché mai l’uomo dovrebbe rinunciare alla naturale illusione che lo accompagna nel corso dalla vita, poter fermarsi, anche se spento, sul limitare di Dite, grazie alla sua creazione poetica, o alla sua intuizione scientifica. Con il suo grido: Non omnis moriar, anche il poeta Cesareo Quinto Orazio Flacco si è illuso che non sarebbe morto del tutto: la sua opera avrebbe superato i limiti del tempo vissuto e quello da vivere; nessuno avrebbe cancellato la sapienza ironica della sua creazione artistica, che è rimasta integra, almeno nella memoria delle persone che amano l’arte.
La consolante intuizione che non ammetteva che potesse essere precluso all’uomo di genio almeno un modo per superare i limiti della caducità con la forza dell’ingegno, prima che in Orazio, era fiorita fra le regioni generose, note per la mitezza del clima dell’Egeo, dove storiografi di indimenticata memoria hanno saputo comporre opere d’arte che lo stesso poeta di Venosa ha definito monumenti non meno indistruttibili di quanto possa esserlo il bronzo, con il quale il Poeta ha ricostruito per le generazioni del futuro la storia da cui sarebbe nata la civiltà di quelle terre fortunate grazie alle mitiche ispirazioni elargite dalle nove abitatrici del nebbioso Parnaso.

Non era, peraltro, accettabile che restassero avvolte nel silenzio del tempo le inverosimili gesta degli eroici popoli liberi delle città-stato dell’Attica e del Peloponneso, che sono riusciti a difendere la loro libertà dagli appetiti di conquista di grandi imperi, forti di eserciti di decine e decine di migliaia di armati, sorti intorno, o poco lontano, dall’Egeo e dalle semi-aride terre della Mezzaluna fertile. E la genialità poetica di Omero, divenendo modello per i suoi epigoni, con versi imperituri ha saputo affidare alla memoria di tante generazioni venute nei secoli successivi i nomi, le aspirazioni, le ansie d’un affettuoso padre guerriero, che non resiste all’impulso primigenio di salvare la sua patria, lasciando il tenero figlioletto fra le braccia della mamma in lacrime, nella vuota, grande piazza di Troia, correndo alle minacciate porte Scee, per difendere la storica città di Priamo e le fortune del suo popolo. Anche oggi lo stesso Foscolo commuove con i suoi versi: E tu onore di pianti, Ettore, avrai, / ove fia santo e lacrimato il sangue/ per la patria versato, e finché il sole/risplenderà sulle sciagure umane. Con l’eroico Padre del piccolo Astianatte anche il grande aedo cieco si è guadagnato con i suoi versi la riconoscenza di tanti suoi lettori futuri.

Con le vivide pagine, composte dai grandi narratori di storia e dai protagonisti della storia dell’arte, e con la costanza e la passione della ricerca certosina di documenti salvati nelle biblioteche d’ogni tempo, la storiografia restituisce merito sociale ed intellettuale e, insieme, riconoscenza, ai nomi ed alle opere di coloro che dedicano la loro passione intellettuale alla ricostruzione degli eventi del passato. Fra le polverose pagine emerse dalla polvere della dimenticanza dei secoli trascorsi, possono sempre riemergere notizie, dati e reperti che potranno far ricostruire il profilo sociale di personaggi pubblici o privati che, con la vita e le loro opere, avranno potuto contribuire alla caratterizzazione delle tante comunità, aggregate nel tempo intorno a sacri, antichi campanili, comunità che hanno dato origine ai grandi raggruppamenti sociali, protagonisti della grande storia.
Se si cerca una relazione di valore culturale fra l’azione discreta, realizzata dai cultori di storia patria nei limitati contesti delle comunità locali con le opere omologhe dei personaggi che compongono il grande canone degli autori classici, i cui scritti impreziosiscono le pagine dei testi scolastici, si potrà dedurne una riflessione che potrà contribuire a riconoscere il merito dei ricercatori che operano nei propri luoghi d’origine. Infatti, come il piccolo strumento musicale di pochissimi decimetri di lunghezza, quale è lo sfuggente ottavino, fratellino minore del flauto, concorre con la limpidezza melodica dei suoi trilli a dar completezza all’armonia dell’intera orchestra sinfonica, allo stesso modo l’opera e la vita artistica d’un ricercatore di storia patria, potrà dar completezza alla caratterizzazione storica delle comunità sociali di appartenenza.
Fra queste comunità un fortunato Paese di appena 4000 anime, sorto nel corso del XVI secolo all’ombra spiritualmente protettiva d’un incompleto, turrito campanile e d’un’austera magione post-feudale, culla di illustri mecenati, e d’una biblioteca ricca d’opere d’arte, di incunaboli e di apprezzati manoscritti d’autore, quel vivace paesino, animato da intelletti non dimenticati, attendeva di veder percorrere quotidianamente le proprie stradine una vivace insegnante, Lucia Garbocchi. La maestrina, orgogliosa concittadina di Vincenzo Monti, ad appena 20 anni, avrebbe lasciato la sua Alfonsine, cittadina della pascoliana Romagna, vincitrice d’un posto di insegnamento nella scuola elementare.
Nel tempo in cui il sistema educativo nazionale si trovava nello stato di crisalide, nel quale la bella farfalla non possiede ancora né la forma, né la varietà dei colori che la natura sa produrre, l’insegnamento non poteva assorbire tutte le potenzialità didattiche d’una maestrina, la quale avrebbe dimostrato poi di considerare l’insegnamento alle bambine delle classi della scuola elementare una missione sociale vincolante, non meno di quanto lo sia la missione che assume la persona consacrata con il crisma. E l’insegnamento nei paesi del vecchio Regno delle due Sicilie, divenuto nel 1861 regno d’Italia, richiedeva effettivamente uno spirito missionario.
Un regno costituito da pochi decenni con il concorso di tante e dissimili componenti statuali del tempo della pre-unificazione nazionale, non poteva avere molte possibilità di dedicare energie sufficienti a programmare e finanziare adeguatamente un sistema educativo rivolto a popolazioni composte in gran parte da persone che non avevano potuto fruire del beneficio dell’istruzione. Le limitate risorse dell’Erario servivano, in primo luogo, per sostenere le necessità dell’Esercito e della Marina, cui competeva il sacro dovere di completare il lungo processo di unificazione della nazione, iniziato con successo con la seconda guerra d’indipendenza.
Soprattutto la lontananza dai centri europei di elaborazione delle idee illuministiche, che avevano esortato gli Stati ad includere fra gli obblighi primari ed irrinunciabili delle pubbliche amministrazioni quello di garantire a tutti il diritto-dovere all’istruzione, aveva lasciato il Meridione d’Italia in condizione di preoccupante arretratezza culturale. Alla formazione scolastica delle classi sociali meno fortunate aveva cercato di porre un qualche argine il clero più illuminato, al quale si affiancò gradualmente una generosa, limitatissima schiera di persone, titolate ad insegnare nelle classi della scuola elementare dalla frequenza della Scuola Normale Statale, che, dopo qualche decennio, avrebbe assunto il nome di Istituto Magistrale.
Restano benemeriti gli insegnanti e le loro colleghe che, con compensi molto modesti, hanno saputo integrare l’azione educativa del Ministero dell’Educazione Nazionale, non soltanto con l’insegnamento attivo, ma spesso offrendo agli alunni gli ambienti delle abitazioni proprie, divenute improprie aule scolastiche.


Fra i benemeriti insegnanti che hanno aiutato i bambini di Novoli a verificare con le loro prime esperienze di apprendimento formale quanto sia utile e bello saper leggere e scrivere, un fortunato giorno del 1872 è apparsa la solerte maestrina di Alfonsine, con lo stesso entusiasmo professionale e con la medesima coscienza deontologica con cui, cento anni dopo, molti giovani laureati della cittadina cara a Sant’Antonio Abate, hanno raggiunto le scuole primarie e secondarie di tante province italiane, per garantire ai ragazzi ed ai giovani di quelle terre di poter fruire del diritto all’istruzione. Insegnava a scolaresche a cui dovette insegnare, per primo, “l’idioma gentile” dopo lunghi esercizi di traduzione dal vernacolo”.
Alla maestra di Alfonsine, signora Lucia Garbocchi – Marrazzi, sarà riconosciuto il titolo di fondatrice dell’insegnamento primario in Novoli, conseguendo la Medaglia d’oro, concessale dal Ministero dell’Educazione Nazionale il 15 maggio 1915; avrebbe concluso quasi novantenne la sua apprezzata esistenza il 27 luglio 1937.

Ultima nata dei dieci figli della generosa maestrina ravennate, Maria Ida Marrazzi avrebbe continuato la tradizione materna a beneficio delle bambine e dei bambini della generosa terra di elezione della madre. Lo ha fatto nel modo che le è stato più congeniale; fra le inclinazioni materne erano ben evidenti la chiarezza e l’eleganza della scrittura, la passione per l’insegnamento e la ricostruzione, per grandi linee, della storia della scuola nazionale e della piccola storia della scuola di Novoli.
Forte di queste non comuni doti, la maestra Maria Ida Marrazzi ha composto un memoriale che, partendo dal tempo dell’estensione della legislazione sulla scuola del Regno di Sardegna ai territori della nuova Nazione, unificata nel 1861, ha descritto il progressivo impegno con cui il nuovo Stato Italiano ha avviato il lungo processo tendente al superamento delle difficili condizioni nelle quali l’analfabetismo imperante aveva lasciato le popolazioni italiane. Si è visto così riconosciuta, per la prima volta, dall’ordinamento giuridico statale l’istruzione come diritto soggettivo perfetto della persona e, nello stesso tempo, come dovere dello Stato e delle comunità pubbliche periferiche, di rendere effettivo tale diritto ai cittadini, con la gratuità della frequenza scolastica e con la disponibilità di aule funzionali all’apprendimento e dotate delle idonee suppellettili. La definizione di scuola di empirismo, coniata dall’appassionata autrice del “Memoriale”, appare sapientemente adeguata a descrivere lo stato della didattica del tempo, affidata alla generosità non soltanto delle mescie, titolate dalla sola esperienza della scuola informale, ma soprattutto alla buona volontà di sapienti sacerdoti, spinti dalla sensibilità di illuminati intellettuali, a far recuperare alle nuove generazioni quel che l’insensibilità dei tempi trascorsi aveva obliterato; scrive coraggiosamente al riguardo Maria Ida Marrazzi: “La Chiesa, obliterando verità scientifiche e perseguendo i banditori di quelle (verità: n.d.r.) aveva favorito le tenebre dell’ignoranza”.

Dopo 45 anni di insegnamento, Maria Ida Marrazzi ha potuto fregiarsi della Medaglia d’Oro, che le è stata conferita dal Ministero della Pubblica Istruzione, nel corso d’una solenne, partecipata manifestazione, che si è svolta il 7 novembre del 1957 nell’Aula Magna della sua città di adozione, alla presenza del Provveditore agli studi e delle Autorità comunali.


di Armando Polito

L’antonomasia, cioè quella figura retorica mediante la quale si indica una persona o una cosa non col sui nome proprio ma con uno generico e con riferimento ad una sua nota qualità e/o al luogo d’origine, in fondo, rientra nella più vasta famiglia dei traslati o metafore e non è, come si potrebbe essere indotti a credere con una punta di supponente pregiudizio e stupido razzismo, appannaggi esclusivo della lingua aulica, anche perché la fantasia, che è alla base di qualsiasi metafora, non alberga solo nell’animo dei dotti. E così l’antonomasia, che questi ultimi applicano prevalentemente alle persone (il poverello d’Assisi per san Francesco; il segretario fiorentino per Machiavelli e, per non trascurare il nostro territorio, l’uomo di Maglie per Aldo Moro e, meno conosciuto, nonostante la saga di Fernando Sammarco, il leone di Messapia per Artas), la cultura contadina, forse più rispettosa non solo degli uomini ma anche delle piante, si è inventato lamàscinu.
Nel rispetto della pronuncia, in cui la s si sente raddoppiata, a cominciare dal titolo avrei dovuto scrivere più correttamente lamàšcinu, ma questo avrebbe finito per rendere infausto pure il destino di lamàsscinu, data l’assenza di š sulla tastiera, dove ormai un po’ per ignoranza, un po’ per pigrizia si batte è invece di é.
Parto, come di consueto, dal Rohlfs, nel cui vocabolario la voce è trattata nel modo che segue.

Al maestro tedesco si rifanno nel loro vocabolario del dialetto neritino Enrico Carmine Ciarfera e Mario Mennonna, con la differenza in un dettaglio.

Al δαμάσκηνον (leggi damàskenon) del Rohlfs è subentrato damaskènon, che vorrebbe essere trascrizione di un greco δαμασκῆνον. Non ho nulla da eccepire sulla sostanza dell’etimo ma ho da fare alcune osservazioni di natura formale nel tentativo di sottrarre la voce al cono d’ombra che sembra avvolgerla per via di due dettagli che non saranno sfuggiti al lettore più attento. l primo riguarda l’accento, il secondo il passaggio d->l-, fenomeno fonetico anomalo e per il quale non può essere messa in campo nemmeno l’ultima spiaggia, cioè l’analogia, che pure richiederebbe l’esibizione di almeno un altro esempio.
ACCENTO
Preliminarmente va detto che entrambe le forme prima riportate sono errate, perché quella corretta è δαμασκηνόν (leggi damaskenòn). Il δαμάσκηνον (leggi damàskenon) del Rohlfs, in particolare, appare come una strumentale forzatura per giustificare la retrazione dell’accento (tecnicamente detta sistole) di lamàscinu. Dal greco (quello corretto) δαμασκηνόν deriva il latino damascēnum. A beneficio di chi non conosce il latino occorre precisare che il segno – posto sulla e sta ad indicare che quella vocale è lunga, ragione per la quale la parola, in base alle regole della pronuncia del latino, va letta con l’accento su questa vocale, cioè damascènum. Sulla suggestione di quest’ultimo Ciarfera e Mennonna si saranno inventato a loro volta il greco damaskènon, come il Rohlf da lamàscinu era risalito ad un altrettanto inesistente δαμάσκηνον.
E proprio col latino damascènum prenderemo le mosse da due fonti particolarmente significative pure per il contesto prodigiosamente utile al taglio dell’indagine. Ecco l’attestazione che si legge in Plinio (I secolo d. C.), Naturalis historia, XV, 12: In peregrinis arboribus dicta sunt Damascena, a Syriae Damasco cognominata, iam pridem in Italia nascentia, grandiore quamquam ligno et exiliore carne nec unquam in rugas siccant, quoniam soles sui desunt. (Tra gli alberi forestieri sono annoverati i Damasceni, così sopranominati da Damasco di Siria, che già da tempo nascono in Italia, sebbene col nocciolo più grande e la polpa più sottile e [i frutti] non diventano mai rugosi seccando, perché manca il sole della loro terra)
Una sorta di trascrizione poetica del testo pliniano (che oggi, se fosse di moda il latino, potrebbe essere prosaicamente sfruttata, magari detta da una sensuale voce femminile, per pubblicizzare un lassativo …) è in Marziale (I-II secolo), Epigrammata, XIII, 29: Pruna peregrinae carie rugosa senectae/sume: solent suri solvere ventris onus (Prendi prugne rugose per il disfacimento della forestiera vecchiaia: son solite sciogliere il peso del ventre indurito).
Il Damascèna di Plinio è il neutro plurale sostantivato dell’aggettivo Damascènus/ Damascèna/ Damascènum, per cui alla lettera si traduce cose di Damasco, indicazione generica alla quale, pero, gli altri dettagli, confermati da Marziale, conferiscono la fondata possibilità di identificazione più ristretta, cioè con gli appartenenti al genere Prunus.
Essi sono tanti che è praticamente impossibile dire quando e da chi il Prunus domesticus (nome scientifico del lamàšcinu) sia stato importato dalla Siria. Sono state formulate al riguardo ipotesi diverse, dai Crociati ai monaci benedettini, ma non ho, anzitutto, la competenza per vagliarle e poi questo esula dal taglio di questa ricerca. Essa, invece, prosegue facendo notare come nel Rohlfs e in Ciarfera-Mennonna nella voce dialettale è segnato l’accento, cosa che in testi di linguistica, siano essi saggi o vocabolari (questi ultimi soprattutto se dialettali), dovrebbe avvenire sempre, anche se per convenzione una parola sulla quale non è segnato l’accento si intende piana. In passato non sempre ciò avveniva e quanto segue ne è la dimostrazione.
A) Pietro Corsellini (detto Canterino), poeta senese nato nel 1347, autore, fra l’altro, di Ternario sulla natura della frutta, un poemetto pubblicato per la prima volta da Antonio Lanza in Lirici toscani del Quattrocento, Bulzoni, Roma, 1975; cito i versi 66-69 da p. 763 del v. II: Susine d’ogni fatta, a non dir fole;/dico le melaruole ed agustine/ed avorie e ballocce ancor vi porto,/e bufale, acetose e amassine.
Amassine non mostra accento e c’è da presumere che anche così appare nel manoscritto da cui il testo è stato trascritto. Questo plurale di amasina (sia da leggere amàsina o, come convenzione vorrebbe, amasìna) torneremo alla fine; per ora basta notare il genere femminile che, con poche eccezioni, è quello del frutto (ma non per lamàscinu; e pensare, capricci della lingua, che l’italiano fico in salentìno è fica.
B) Giovanni Battista Tedaldi (1495-1526), Discorso dell’agricoltira, Allegrini, Firenze, 1776, p. 70

Per la prima volta appare segnato l’accento, a meno che non sia stato aggiunto con la trascrizione. I testi successivi, non essendo postumi (e, dunque, controllati dagli autori prima di essere stampati) dovrebbero essere immuni, almeno teoricamente, da rischi di questo tipo.
C) Bernardo Davanzati, Coltivazione toscana delle viti e d’alcuni arbori, Giunti, Firenze, 1600, p. 31

D) Vocabolario degli Accademici della Crusca, IV edizione (1729), p. 166

E) Niccolò Tommaseo-Bernardo Bellini, Dizionario della lingua italiana, Fratelli Masi & , Bologna, 1819, p. 203

L’accento è segnato solo sulla voce femminile, ma la croce che precede entrambe ce le fa intendere come obsolete.
F) Vocabolario della lingua italiana già compilato dagli accademici della Crusca ed ora novamente corretto ed accresciuto dall’abate Giuseppe Manuzzi, David Passigli e soci, Firenze, 1833, tomo I, parte I, p. 173

Qui l’albero, dichiarato morto nel nome nella precedente attestazione, appare resuscitato.
G) Pietro Fanfani, Vocabolario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze, 1855,tono I, p. 91

Per la prima volta si vede l’accento su entrambe le voci (su quella maschile era apparso prima in B).
H) Vocabolario degli Accademici della Cruaca, V edizione (1863), v. I, p. 470

I) Giovanni Pasquali, Nuovo dizionario piemontese-italiano, Libreria Editrice Moreno, Torino, 1869 p. 117

Qui amascino (che a distanza di cinque secoli riprende il vocalismo del fiorentino amascina di A) e amoscino sono considerati sinonimi del piemontese darmassin.
L) Giuseppe Gavuzzi, Vocabolario italiano-piemontese, Tipografia Fratelli Canonica, Totino, 1896, 63

La grafia in corsivo accomuna amoscina a susina, come se ne fosse a tuttgli effetti un sinonimo italiano. La variante Damassìin, poi, col suo provvidenziale accento autorizza a pensare più ad un amoscìno che ad un amòscino.
M) Pietro Ottorino Pianigiani, Vocabolario etimogico della lingua italiana, Editrice Dante Alighieri, Roma-Milano, 1907, tomo I, p. 52

Ritorna l’accento già visto in B e in G.
A degna conclusione del libertino percorso fin qui seguito da questa voce, preciso che tutti i successivi dizionari recano amoscìno, cioè la forma foneticamente più corretta rispetto al padre latino damascènum. L’amòscino registrato alle lettere C, F è in linea con il neritino lamàscinu e su questa persecutoria sistole tornerò a breve, dopo aver detto che mi è incomprensibile come mai un filologo del calibro del Fanfani abbia optato per amòscino e non per amoscìno già quasi trent’anni prima adottato da Tommaseo-Bellini.
Da quanto fin qui riportato si rileva che lamàscinu si mostra più vicino all’amascina di A per quanto riguarda il vocalismo e all’amòscino di B, G e M per l’accento. Per quanto riguarda quest’ultimo, sulla sistole che esse presentano rispetto all’amoscìna di E (le altre varianti, non recando accento, potrebbero essere piane o sdrucciole), l’unica fedele al latini damascèna, la conclusione verrà dopo aver trattato il secondo problema (quello del passaggio d->l-), col quale questo primo appare connesso.
PASSAGGI d->l–
Qui tutto sembra nasce da una paretimologia, cioè un’etimologia popolare. Quello dell’etimologia è un campo in cui la saggezza popolare raramente ci azzecca, perché è richiesta una preparazione specifica e l’umile consapevolezza che il rischio di incappare nell’errore è già in atto prima di svoltare l’angolo. Lamàscinu è, sotto questo punto di vista, un caso da manuale, uno di quelli alla cui base c’è un equivoco grammaticale efficacemente puntellato anche dall’ignoranza della geografia. Cosa, d’altra parte, si può pretendere che sapesse o avesse voglia di sapere di Damasco un contadino del XV secolo (amascina di A), costretto per sopravvivere a spezzarsi ogni giorno la schiena e non solo quella? Eppure il destino spesso riserva sorprese, anche se il protagonista non assaporerà il gusto di questa sorta di inconsapevole vendetta compensativa, che prende le forme di una voce già vista in E (amoscìna) entrata nei comuni vocabolari della lingua nazionale.
Di seguito il lemma relativo tratto dal De Mauro.

Amoscino (da leggere amoscìno per la convenzione di cui s’è detto all’inizio) qui risulta nato nel XVI secolo ma abbiamo visto in A come amascina l’abbia preceduto di ben due secoli e come, grazie alla forza vivificatrice ed eternante dell’arte, questa parola, frutto sicuramente di deformazione popolare, risalente pure a molti anni prima dello stesso Corsellini, è giunta fino a noi. Se chi per primo l’inventò avesse saputo leggere e scrivere, molto probabilmente, sentendo dire damascìno, non avrebbe inteso d’amascìno. Se questo equivoco (in linguisica disagglutinazione o discrezione) per cui d iniziale è stata scambiata come frutto dell’elisione della preposizione da) non ci fosse stato, non sarebbe nato prima amascìno e poi (probabilmente per incrocio con altra parola di non facile identificazione) amoscìno, entrato, come ho detto, a gonfie vele nei vocabolari contemporanei, sia pure con la dicitura voce regionale toscana. Le voci che ho documentato si nostrano tutte prodotte da questo equivoco, che in lamàscinu appare ancor più complicato. Se, infatti per amascina vale la trafila damascèna(m)> d’amascìna> amascìna> l’amascìna, per lamàscinu sono ipotizzabili due diversi processi.
Il primo, autoctono e più complesso, prevede la trafila damascènu(m)>d’amascènu> amàscenu (con la sistole come nelle voci in B, G e M, dovuta all’accorciamento del nesso dopo l’isolamento di amascènu)>l’amàscinu>lamàscinu (agglutinazione dell’articolo)>lu lamàscinu. Il secondo suppone che lamàcinu sia voce importata, secondo la trafila amascìna>l’amascìna>lamàscina>lamàascinu>lu lamàscinu, dunque di ascendenza più fiorentina che piemontese (varianti simili non sono registrate altrove), non fosse altro che per il vocalismo di A e per l’accento di B.
Meno male che la gemella eterozigote susina (da Susa, antica città persiana; dunque un’altra antonomasia) ha avuto una vita meno avventurosa, non prestandosi ad equivoci paretimologici, perché, se è vero che sus’(da suso=sopra) esisteva, l’Istituto Nazionale Assicurazioni sarebbe nato molti secoli dopo …

di Fabio Cavallo
Nell’estate del 2017, durante l’ordinamento e la catalogazione dell’archivio storico confraternale dell’Immacolata di Casarano, vennero fuori, celati tra le pieghe consunte di una cartellina di cartone, otto frammenti di carta spessa(1) ingiallita dal tempo, sui quali era vergato uno spartito musicale.
L’antichità della partitura si rivelò sùbito esaminando la chiave posta all’incipit della composizione, la quale rimandava ad un’epoca ascrivibile in pieno Seicento(2).
Il primo intervento sui brandelli della partitura ha consistito nel ricomporli al fine di ricostruire la consequenzialità del testo musicale, lavoro protrattosi per ben quattro anni(3). La ricomposizione dei frammenti della partitura è stata condotta tenendo conto, non solo della scrittura musicale attraverso il collegamento coerente delle battute, ma anche della logica del testo.
Fondamentale si è rivelata altresì l’osservazione delle linee di strappo dei frammenti stessi, ricomposti come in un raffinato puzzle, fino a restituire unità allo spartito rinvenuto.
L’esito finale si è rivelato di gran lunga superiore ad ogni previsione. Con ogni probabilità si tratta di frammenti di una “cantata”, un brano tipico della musica barocca italiana nato dalle ceneri del “madrigale” cinquecentesco.
Sebbene risulti smarrito un segmento dello spartito, esteso per circa 1,5 cm(4), è stato comunque possibile ricostruire integralmente sia la linea melodica che una parte significativa del testo. Emergono spontaneamente alcune domande.
La prima: come spiegare la presenza di uno spartito riconducibile a un genere musicale estraneo alla tradizione ecclesiastica all’interno dell’archivio di una confraternita, dove ci si attenderebbe di trovare soltanto atti amministrativi, bilanci, verbali e note di pagamento?
La seconda: chi fu l’anonimo autore del brano? Forse un sacerdote che, pentitosi della propria composizione profana, tentò di nasconderla tra le carte confraternali? Oppure un musicista di passaggio, ospitato nei locali della confraternita, che vi lasciò traccia del suo lavoro? O ancora, un autore locale, di cui il tempo ha cancellato ogni memoria e ogni altra testimonianza scritta?




ANALISI DELLA COMPOSIZIONE
Datazione della partitura
Come già evidenziato, la prima indagine ha riguardato la datazione della composizione. La conformazione grafica della chiave di soprano, posta all’incipit della melodia, consente di ricondurla con una certa sicurezza al periodo barocco, ossia tra il XVI e il XVIII secolo. A corroborare tale collocazione cronologica contribuiscono, anche, sia la tipologia della grafia sia i tratti stilistici del testo della melodia.

Analisi del testo cantato
Si è analizzato il testo emerso dalla ricomposizione dei frammenti diviso in due arie (5). Il contenuto della prima aria è il seguente:
Della sua verde spoglia già (folt)a il bosco è ricamato
di nuove erbette e fiori stende il (verd)e manto il colle e’l prato
in me in me n(ascent)e foglia spunta di speme a rav(vivare) il (c)ore
tropp’arida la rese ingra(tissi)ma Clori il tuo rigore il tuo rigore il tuo rigore.
Testo della seconda aria:
Sente amor benché gelato,
sente amor benché gelato,
(e) à baciar l’amica sponda corre rapido il torrente.
Sente amor bench(è ge)lato e à baciar l’amica sponda
corre rapido il torrente corre rapido il torrente,
ama il…
(Le parti evidenziate in rosso rappresentano le possibili integrazioni del testo mancante)
Il testo descrive una scena bucolica(6): il bosco, il colle e il prato si rivestono di verde, fiori ed erbe nuove, parafrasi della natura che rifiorisce. Il soggetto lirico sente dentro di sé un risveglio simile identificato da una “nascente foglia” di speranza che ravviva il suo cuore, reso arido dal rigore di Clori, dea della primavera. Nonostante il gelo, il sentimento amoroso persiste: persino un torrente “gelato” sente l’impulso amoroso e corre a “baciar l’amica sponda”.
C’è, dunque, un parallelismo tra il rinnovarsi della natura e il riaccendersi dei sentimenti amorosi. Dal punto di vista strutturale, il componimento presenta tratti riconducibili alla poetica barocca italiana, quali la libertà metrica, l’ampio ricorso a immagini metaforiche e la ripetizione di alcuni passaggi. Sequenze come «il tuo rigore, il tuo rigore, il tuo rigore», «sente amor benché gelato» o «corre rapido il torrente» rinviano all’uso madrigalistico dove il testo poetico veniva spesso dilatato attraverso ripetizioni ed espansioni musicali in funzione prettamente espressiva e ridondante.(7)

Link per ascoltare la melodia della prima aria: https://youtube.com/shorts/WQRQU05oAEI?si=hihgG9k27sBV-51R
Identità del personaggio celebrato: chi è Clori?
Clori, o Clorite, è una figura della mitologia greca, dea della primavera e dei fiori, mutuata nella tradizione romana con Flora. Secondo il mito, Clori fu rapita da Zefiro, personificazione del vento di ponente, che poi la sposò trasformandola nella dea primaverile. Tra il XVI e XVIII secolo, questa figura mitologica conobbe grande fortuna, divenendo soggetto prediletto di numerose cantate, soprattutto in ambito italiano, in linea con il gusto arcadico(8) e pastorale dell’epoca. Tra i principali autori che le dedicarono composizioni si ricordano Alessandro Scarlatti (1660-1725), Giovanni Bononcini (1670-1747), Benedetto Marcello (1686-1739) e Nicola Porpora (1686-1768).




Identità del compositore
Il manoscritto, frammentario e di non agevole lettura complessiva, costituisce un tassello che merita di essere collocato nel contesto della produzione musicale salentina tra Sei e Settecento. L’anonimato dell’autore, che non lascia alcuna indicazione sulla partitura, rende particolarmente arduo ogni tentativo di attribuzione. Tuttavia, pur con le dovute cautele, è stata avanzata — sebbene su basi deboli — l’ipotesi di un possibile collegamento con la figura di Francesco Rigliaco (citato in alcune fonti anche come Righiaco, Rignaco o Rigiaco), sacerdote originario di Casarano, attivo tra la fine del XVI e i primi decenni del secolo successivo.
Di questo ecclesiastico si conservano notizie frammentarie ma sufficienti a delinearne il profilo di musicista colto e intraprendente, animato dal desiderio di superare i confini del ristretto orizzonte provinciale salentino. È verosimile che egli abbia lasciato la sua terra d’origine per raggiungere altre località della penisola, forse nel tentativo di diffondere le proprie composizioni in ambienti più sensibili alle nuove tendenze musicali. In tale prospettiva, risulta particolarmente significativa la sua presenza documentata a Venezia, città che nel Seicento costituiva uno dei centri più dinamici e innovativi della produzione musicale polifonica. Proprio qui videro la luce alcune sue raccolte di madrigali a cinque voci(9), opere che, secondo le fonti, ottennero una certa considerazione negli ambienti colti e nelle accademie musicali del tempo.
Un’importante fonte storica che contestualizza il musicista Rigliaco(10) è Padre Luigi Tasselli (1622-1694) di Casarano, nel suo volume “Antichità di Leuca” (Lecce, 1693). Per ora, almeno sul web, non si riscontrano edizioni facilmente accessibili delle sue composizioni: le citazioni parlano di madrigali e di composizioni vocali in linea con il gusto tardorinascimentale e i primi sviluppi barocchi.


In conclusione, questa analisi invita a una riflessione sul ruolo dei musicisti locali, spesso dimenticati, e sul potenziale ancora in gran parte inesplorato degli archivi minori, custodi silenziosi di memorie frammentarie ma di inestimabile valore. La “cantata” rinvenuta fortuitamente, pur nella sua incompletezza, rappresenta un tassello di notevole interesse per la ricostruzione della microstoria musicale del territorio. Essa richiede tuttavia ulteriori e approfondite indagini, che possano un giorno — forse non troppo lontano — dissipare i dubbi e le incertezze che ancora la circondano.
Note




Nel marzo del 1897 la Cattedrale di Nardò viveva una fase intensa di rinnovamento edilizio guidata dalla ferma volontà del vescovo Giuseppe Ricciardi di restituire decoro e solidità alla chiesa madre della diocesi.
A testimonianza di questa stagione di lavori rimane un contratto stipulato con il mastro muratore neretino Salvatore Sambati, incaricato di condurre a termine l’edificazione della nuova abside.
Nel documento, conservato nell’Archivio Storico della Diocesi di Nardò, redatto con chiarezza e precisione, Sambati si impegnava ad eseguire l’opera a perfetta regola d’arte utilizzando i materiali indicati, ossia carparo, tufo, sabbia e mano d’opera, tutto a proprio carico e secondo il disegno approvato dall’ingegnere.
Lo stesso appaltatore dichiarava inoltre di fornire i capitelli e le situazioni in pietra, assumendo a proprie spese la completa esecuzione muraria, senza però comprendere il lavoro ornamentale che restava riservato ad altri interventi.

Le mura laterali potevano essere realizzate in tufo, ma Sambati si obbligava a garantire la piena conformità dell’opera all’arte muraria e ai disegni approvati, sollevando la committenza da ogni difformità.
Il contratto stabiliva anche che i lavori comprendessero gli scavi di fondazione e le necessarie opere di consolidamento, con esclusione tuttavia della costruzione della cupola e del nuovo cornicione, che sarebbero state oggetto di successivi accordi. L’appaltatore si dichiarava disponibile a fornire le impalcature e ad approvvigionarsi dei materiali occorrenti a sue spese, con l’impegno di rispettare le normative vigenti in materia di lavoro e sicurezza.
Sambati fissava il prezzo complessivo dell’impresa in lire 1.500, accettando un compenso ritenuto equo per l’entità dell’opera, ma poneva anche una condizione: qualora fossero richiesti lavori aggiuntivi non contemplati nel disegno approvato, questi sarebbero stati liquidati con un supplemento non inferiore a lire 250 per giornata di lavoro straordinario. Concludendo la sua proposta l’appaltatore dichiarava la propria disponibilità ad iniziare subito i lavori affidandosi alla benevolenza del vescovo e della Commissione.
In calce al documento compare l’accettazione formale da parte del presule Ricciardi, che controfirmò il contratto sancendo l’avvio dell’impresa edilizia.
Quel foglio, scritto con grafia ordinata su carta quadrettata, ci restituisce la concretezza e il linguaggio dell’edilizia sacra di fine Ottocento, un tempo in cui le cattedrali non erano solo monumenti da conservare ma cantieri vivi, espressione del rapporto diretto tra committenza ecclesiastica e maestranze locali.
di Rocco Severino De Micheli
Mi riallaccio all’articolo di Marcello Semeraro pubblicato su FTdO il 17 agosto 2017, dedicato alla città di Oria, per evidenziare come anche Casarano, analogamente a quella località, conservi alcune tracce tangibili di ciò che fu la burocrazia nazionale durante il periodo fascista.
Con il Regio Decreto Legge n. 1440 del 12 ottobre 1933 fu istituita una figurazione araldica denominata Capo del Littorio. Il decreto, all’articolo 2, stabiliva che:
“L’emblema del Fascio Littorio usato, a norma delle disposizioni vigenti, dalle Provincie, dai Comuni, dalle Congregazioni di carità e dagli Enti parastatali autorizzati a fregiarsene, dovrà essere disposto negli stemmi di legittimo possesso inscritti nei Libri araldici del Regno, nella forma della figura araldica del Capo.”

Il Capo del Littorio rappresentava dunque la parte superiore dello stemma civico in cui figurava il fascio littorio, simbolo ufficiale del regime, mutuato dall’antica Roma.
Il Comune di Casarano si adeguò alla normativa, adottando un timbro istituzionale conforme alle nuove disposizioni e provvedendo, seppur con un po’ di ritardo, a collocare sull’architrave del portone d’ingresso dell’attuale Palazzo Municipale lo stemma civico in pietra leccese completo di capo del littorio.

Il fascio littorio, simbolo principale del regime, doveva infatti comparire su tutti gli edifici governativi e istituzionali, nonché su sigilli, lapidi e monumenti. Le immagini e i documenti reperiti confermano che esso fu presente a Casarano:





Inoltre, il simbolo figurava sulla lapide che ricordava le sanzioni del 1935, fornita a tutti i comuni del Regno e collocata sulla facciata occidentale del Palazzo Municipale, dove ancora oggi si distingue la traccia di quella presenza, poi rimossa.


Non è necessario — né utile — soffermarsi sul giudizio complessivo del Ventennio, periodo ampiamente conosciuto e dibattuto, vissuto da alcuni e studiato o ascoltato da altri. È sufficiente ricordare che il 25 luglio 1943, con la caduta del fascismo, segnò la fine del regime totalitario e l’avvio della rimozione dei suoi simboli esteriori.
Anche a Casarano, infatti, questi furono scalpellati o cancellati: lo stemma civico e il timbro comunale furono entrambi privati del Capo del Littorio, in un atto di damnatio memoriae conforme al clima politico e morale dell’immediato dopoguerra.


Oggi, però, osservando, sulla facciata del Municipio, lo stemma civico mutilato del portale, la sagoma della lapide rimossa e i segni lasciati dallo scalpello sull’edificio scolastico e, addirittura, le fontanine dell’AQP allo stato originario, sparse per la città, si può dire che la damnatio memoriae fascista casaranese fu, incompleta e, probabilmente, non fu un male, perché, come ammoniva Benedetto Croce, guida morale dell’antifascismo, “la storia è storia”: la memoria storica, anche nelle sue ombre, va conservata e difesa contro ogni tentativo di cancellazione o manipolazione.
Quelle tracce assumono un valore documentario e civile. Esse non celebrano, ma testimoniano: ricordano la capacità dei materiali di custodire la storia anche quando si tenta di cancellarla, e invitano a leggere nel paesaggio urbano la diacronia delle ideologie, dei poteri e delle memorie che hanno attraversato la città.

“IL SERPENTE GIGANTE DELLE TRADIZIONI – la Sacàra, LA BIDDINA, LA COLOVIA”:
UNA INEDITA RICERCA SU UNA TRADIZIONE SALENTINA, E NON SOLO
In molte regioni italiane circolavano, fino a non troppo tempo or sono, storie che riferivano di animali di enormi proporzioni o in possesso di caratteristiche fuori dalla norma. Si trattava di creature palesemente inventate o di esseri in possesso di caratteri riconducibili a organismi vivi e ben conosciuti.
Tali tradizioni, che in alcuni casi erano verosimili e in altri meno, risentivano inevitabilmente della naturale tendenza tutta umana a ingigantire ed esasperare le caratteristiche di tali creature, fino al risultato finale di una stratificazione di apporti che, a partire dall’obiettivo resoconto di un’osservazione, arrivavano a imbastire dei romanzati resoconti in cui la realtà e la più accesa fantasia si mescolavano, rendendo ardua la distinzione tra quanto era effettivamente oggetto di osservazione e quanto invece era da attribuire alla fantasia dell’essere umano. Era, questo, un carattere ricorrente nel riferire di osservazioni relative a creature fuori dalla norma, in una commistione di caratteri che afferivano a componenti unicamente zoologiche e a contaminazioni indotte dalla suggestione.
Il Serpente, oggetto della ricerca del testo, è un animale che ha da sempre colpito l’immaginario collettivo per essere una creatura priva di zampe, a sangue freddo e strisciante. Su questi, che sono i caratteri obiettivi, propri dell’animale, si è inserita tutta una serie di altri caratteri che sono basati direttamente su conoscenze derivanti dalla sua osservazione, o provenienti da altri settori del sapere (religione, mitologie, folklore, ecc.), prima tra tutte l’irrevocabile maledizione divina delle prime pagine dell’Antico Testamento.
A partire da questo presupposti, che hanno inevitabilmente condizionato i resoconti delle osservazioni, si sono innestate suggestioni che hanno portato a vere e proprie elaborazioni, come conseguenza logica o romanzata do ciò che si aspettava dovesse rientrare nello status della creatura ofidica.
Ma, poiché l’uomo non “crea” dal nulla alcuna cosa di cui non abbia avuto una sia pur minima cognizione, ogni carattere, anche fantastico, assegnato al Serpente si basa sull’osservazione, un’osservazione che è stata poi forzosamente esasperata e arricchita di particolari tratti da altre sfere, da campi non attinenti a quello del sensibile. Così, a nessuno è mai venuta in mente l’idea di imbastire leggende sul presunto gigantismo di un qualsiasi animale di altra specie, per il semplice fatto che, di detto animale, esemplari di dimensioni fuori della norma non se ne sono mai visti. Se pure sono sorte tradizioni relative a esseri leggendari di proporzioni gigantesche, esse non hanno avuto vita lunga, destinate come sono state a scomparire senza lasciare tracce di rilievo.
Per un animale come il Serpente sono invece scaturite narrazioni inerenti esemplari di enormi dimensioni, e queste segnalazioni sono pervenute fin quasi ai giorni nostri, il che è indicativo del fatto che ci siano effettivamente state testimonianze relative all’avvistamento di esemplari fuori dalla norma, testimonianze che, per la loro persistenza e la loro radicazione nel retroterra culturale, non si sono ovviamente limitate a una sola segnalazione.
Di fatto, in ogni continente esistono tradizioni che narrano di Ofidi giganteschi, il che, se è ovvio in continenti (Asia, Africa, America meridionale) in cui effettivamente esistono Serpenti di grandi proporzioni, non è altrettanto scontato per un continente come l’Europa, in cui notoriamente non esistono Serpenti di dimensioni fuori dalla norma.
La tendenza all’esagerazione tipicamente umana ha poi fatto sì che all’Ofide avvistato venissero attribuite delle dimensioni a volte spropositate, che poco avevano a che fare con la realtà, dimensioni che volta per volta aumentavano al propagarsi di bocca in bocca.
In un tempo in cui le narrazioni su una tale creatura hanno smesso di circolare da anni, una ricerca su di essa non è stata facile, ma ha richiesto la consultazione di un certo numero di fonti eterogenee, che si sono supportate le une con le altre, fornendosi vicendevolmente riscontro e sostegno.
***
Le tradizioni relative alla presenza di presunti Serpenti dalle dimensioni gigantesche, benché diffuse qua e là in Europa, in Italia sono localizzate in due regioni molto peculiari: l’attuale Salento (in passato “Calabria”) e la Sicilia. Sia il Salento – le cui attestazioni relative alla presenza di tale creatura gigantesca risalgono a Plinio – che la Sicilia sono ambiti geografici che non sono territori di passaggio, non via terra: la fauna terrestre del Salento è in un “collo di bottiglia”, e così pure per quanto riguarda la Sicilia.
In una situazione del genere i flussi migratori possono provenire solo da una direzione, e le creature che dovessero giungere in loco si troverebbero ad avere a che fare con la concorrenza degli appartenenti alla stessa specie già presenti nel posto e già ben inseriti nella realtà ecologica del territorio, con non ovvie probabilità di successo; ciò porta ad avere un rimescolamento pressoché nullo della componente genetica della specie a livello locale, il che potrebbe esasperare un carattere che altrove non si manifesta con la stessa frequenza.
E questo carattere potrebbe essere l’informazione che codifica il possesso di grandi o grandissime dimensioni, come peraltro vecchie storie e asserzioni locali riportano sia per il Salento che per la Sicilia, e, sembrerebbe, in Italia solo per il Salento e la Sicilia.
Nella ricerca delle cause che hanno portato a svariate tradizioni, salentine e non solo, relative alla presenza passata di Serpenti giganteschi, Ofidi di proporzioni rilevanti che non si accordano con quelle assegnate a questo o a quell’altro rappresentante della categoria, questo libro presenta una prospettiva nuova, diversa da quella presentata pressoché da tutti gli altri commentatori, che riconducono unicamente alla fantasia popolare o forzosamente al Cervone quanto si dice a proposito di Ofidi giganteschi.
Una comodità, senza dubbio, tanto più che, a scorrere i testi di erpetologia, non si rinviene alcun Ofide, tra quelli dichiarati come presenti in Salento, che si presti a incarnare quanto narrano le tradizioni del Serpente gigante ivi descritto e un tempo noto come “Sacàra”, termine dialettale oggi usato per indicare il Cervone, altro Ofide ben conosciuto, benché inadeguato per tutto se non per le sue dimensioni, e tuttavia usato all’occorrenza per incarnare i caratteri del Serpente favoloso a cui le antiche tradizioni facevano riferimento.
Una opportunità, questa della confusione tra Ofidi del genere Malpolon, cui l’autore riconduce le narrazioni relative a tale creatura “fantastica”, e un Ofide del genere Elaphe (segnatamente l’Elaphe quatuorlineata, il Cervone); una confusione che la ricerca, effettuata nel corso del reperimento delle informazioni necessarie alla stesura del volume, ha permesso di generalizzare e di estendere non solo all’Italia, ma all’Europa Centrale, che ha consentito di attribuire al secondo i caratteri del primo, in una damnatio memoriae che ha fatto sì che del Colubro lacertino si sia persa ogni menzione e si sia dissolta la traccia.
Al punto tale che, a pretendere di interpretare sulla base delle convinzioni attuali l’opera di un’illustre e mai eguagliata studiosa come l’antropologa Giulietta Livraghi Verdesca Zain nella sua meravigliosa opera “Tre Santi e una campagna” (contenente resoconti – purtroppo del tutto ignoti agli stessi appassionati della materia – di quotidianità contadina salentina dei secoli scorsi), il cui inestimabile valore è sancito da cronache di vita reale che all’attualità non sarebbero reperibili da nessuna parte, con ogni probabilità se ne traviserebbero le testimonianze.
In detto preziosissimo volume l’Autrice descrive i ritualizzati passi di una battuta di caccia alla Sacàra, cui la stessa Autrice avrebbe preso parte nel lontano 1945, in un circostanziato resoconto che al giorno d’oggi tutti prenderebbero per una banale, quanto esecrabile, caccia al Cervone.
La successiva stratificazione delle conoscenze basate molto su supposizioni, e molto meno su dati concreti, ha fatto sì che sia sparita, come in un colpo di spugna che ha eliminato la traccia di ciò che c’era prima, la memoria di tali avvenimenti che rientravano nell’ossatura della vita di tutti i giorni, e che essa venisse sostituita da argomentazioni di vario genere, di fronte alle quali ogni voce dissonante che non riconducesse alla fantasia popolare ogni punto della tradizione relativa alla Sacàra, era destinata a essere bollata come creduloneria e, in quanto tale, priva di qualsiasi considerazione.
Come è intuitivo presumere, il reperimento di informazioni su questa creatura non è stato né semplice né immediato; tuttavia l’accostamento delle informazioni che a essa si riferiscono puntella l’una con le altre le varie fonti dalle provenienze più disparate, a fare un unicum grazie al quale, per la prima volta in assoluto, viene restituita la dignità e insieme il privilegio di stabilire un punto di partenza per una serie di studi monografici e intersettoriali che costituiscono l’impianto di una serie di libri, “Il Chelydros e il Chersydros” di cui quello recentemente pubblicato, dal titolo “Il Serpente Gigante delle tradizioni – la Sacàra, la Biddina, la Colovia” è il primo volume.
Il Chelydros e il Chersydros. Il serpente gigante della tradizione. La Sacàra, la Biddina, la Colovia, vol. I di Sandro D’Alessandro (Edizioni Esperidi, 282 pp., €28, ISBN 978-88-5534-207-0, agosto 2025).
Vedi anche:
Libri| Il serpente gigante della tradizione – Il Delfino e la Mezzaluna – Fondazione Terra D’Otranto

di Marcello Gaballo
Nel XVIII secolo Porto Cesareo non era ancora il borgo indipendente che conosciamo oggi, ma rientrava pienamente nella giurisdizione del Duca di Nardò, della casa Acquaviva d’Aragona, al quale appartenevano non solo le terre circostanti, ma anche le rendite provenienti dalle attività marittime e commerciali che vi si svolgevano. Un documento notarile del 1752, oggi conservato presso l’Archivio di Stato di Lecce, ci restituisce con vividezza la fisionomia e l’importanza di questo porto, definito “corpo feudale” del Duca, e allo stesso tempo radicato nella memoria e nella pratica degli abitanti della zona.
L’attestatio riporta infatti che per decenni diversi uomini di Nardò – Giuseppe Antonio Martano, Pasquale Ucino, Nicola Mercuri e Antonio Costantino – avevano preso in affitto il porto, dopo esserne stati per lungo tempo “prattichi”, cioè conoscitori e frequentatori. Essi testimoniano:
“[…] nell’istesso porto, e suoi porti maritimi, si è sempre venduto al minuto ogni sorte di comistibile e di viveri per forastieri, anche per quelli che pescano ò si portano a far caricare; e di sbarcare mercanzie per essere un porto sicuro per li bastimenti e per le barche pescaresche […]”.
Il passo chiarisce bene la duplice funzione di Porto Cesareo nel Settecento: scalo sicuro per navigli e barche da pesca, ma anche luogo di commercio minuto di generi alimentari, indispensabile per marinai, pescatori e viaggiatori. Non si trattava dunque di un approdo marginale, ma di una realtà viva, integrata nei traffici costieri e capace di garantire servizi essenziali.
Un aspetto di grande interesse è la descrizione delle strutture presenti nel porto, che ne rivelano la consistenza immobiliare e l’organizzazione economica. Ancora nel 1752, si ricordava come “ab antico” vi fossero:
Questa presenza infrastrutturale testimonia che Porto Cesareo non era un semplice approdo naturale, ma un vero e proprio centro di supporto ai traffici marittimi e alle attività commerciali del ducato. L’osteria in particolare svolgeva un ruolo sociale ed economico, garantendo ristoro a quanti approdavano e rifornimento per chi caricava o scaricava merci.
Il porto rientrava nelle prerogative del Duca di Nardò, che esercitava diritti feudali su pesca e commercio. I pescatori che operavano lungo la marina, dalla torre Colimena sino a quella delle Specchiarelli (in confine con il feudo di Gallipoli), erano tenuti a corrispondere diritti di sestaria, ancoraggio, alboraggio e falangaggio. Si trattava di tributi legati sia allo sfruttamento della pesca che all’uso del porto come scalo e come luogo di imbarco e sbarco.
Accanto a questi, esistevano poi le gabelle comunali, che l’Università di Nardò rivendicava e che, nel 1751, era tornata a gestire direttamente. Tuttavia, la tradizione di vendita libera e minuta dei commestibili – pane, olio, formaggio, ricotta salata – nell’osteria di Cesarea aveva fatto sì che tali gabelle non fossero mai applicate con rigidità. Un’abitudine talmente radicata che gli stessi testimoni la definiscono “cosa notoria e publica”.
Il documento insiste più volte sul carattere antico e tradizionale di tali pratiche. Non solo i testimoni dichiarano di aver frequentato il porto da cinquant’anni, ma aggiungono di averne ricevuto notizia dai propri maggiori. Porto Cesareo appare dunque come un luogo stratificato, nel quale si intrecciavano consuetudini secolari e prerogative feudali, economie di sussistenza e traffici più ampi, controllo signorile e libertà d’uso.
Il ritratto che emerge dall’atto del 1752 mostra Porto Cesareo come una piccola ma vivace realtà marittima, posta al servizio della città di Nardò e del suo Duca, ma anche crocevia di genti, merci e pratiche quotidiane. La presenza di magazzini, pile d’olio, mulino e osteria, unita ai diritti riscossi su pesca e navigazione, conferma l’importanza di questo scalo nella geografia economica e sociale della Terra d’Otranto settecentesca.
Oggi Porto Cesareo è conosciuto per le sue spiagge e il turismo balneare; ma nei secoli passati, esso fu soprattutto porto e mercato, una piccola finestra sul Mediterraneo che dava a Nardò il respiro del mare e che documenti come quello del 1752 ci aiutano a riscoprire.
La città di Nardò si arricchisce di due nuove pubblicazioni agili e di grande utilità per turisti, visitatori e concittadini desiderosi di approfondire la conoscenza del proprio patrimonio storico-artistico. La Fondazione Terra d’Otranto ha infatti dato alle stampe due opuscoli di formato maneggevole (cm 24, pp. 46), impreziositi dalle fotografie di Lino Rosponi e dedicati a due dei più importanti edifici religiosi del centro storico.
Il primo, intitolato Visita breve alla Cattedrale di Nardò, porta i testi di Marcello Gaballo e di mons. Giuliano Santantonio. In apertura reca i loghi e i nomi della Città di Nardò, della Diocesi di Nardò-Gallipoli e del Comitato feste patronali “San Gregorio Armeno”, con la presentazione del Consigliere delegato ai rapporti con gli Enti Ecclesiastici Daniela Bove.
Il secondo opuscolo, La chiesa di Santa Teresa a Nardò, dal chiostro alla confraternita, è curato nei testi da Marcello Gaballo e, in frontespizio, è promosso da Diocesi di Nardò-Gallipoli, Città di Nardò e Confraternita del SS. Sacramento di Nardò, con le presentazioni di mons. Giuliano Santantonio e della consigliera Daniela Bove.

La Cattedrale, Ecclesia Mater della diocesi di Nardò-Gallipoli, è tra le chiese più antiche e suggestive della Puglia. Sorta su preesistenze paleocristiane, l’edificio ha attraversato secoli di trasformazioni, accogliendo e stratificando diversi linguaggi architettonici. Questo ne fa un autentico palinsesto, capace di raccontare la storia della fede e dell’arte nel Salento.
All’interno si conservano tesori di inestimabile valore: affreschi medievali che testimoniano l’intensità della pittura sacra del tempo, altari in pietra leccese e marmi policromi, tele di scuola locale e napoletana, sculture lignee che conferiscono solennità e devozione. Ogni elemento contribuisce a rendere la Cattedrale non solo luogo di culto, ma vero simbolo identitario della comunità neretina.

Diversa, ma non meno affascinante, è la vicenda della chiesa di Santa Teresa, cuore spirituale dell’antico monastero delle Carmelitane, poi affidata alla custodia confraternale. Dopo il terremoto del 1743 fu ricostruita nella seconda metà del Settecento, grazie all’opera dei fratelli Saverio, Gregorio e Cosimo De Angelis, maestri muratori di Corigliano d’Otranto. La loro mano diede forma a una facciata articolata ed elegante, a una raffinata struttura voltata e alla scenografica scala balaustrata d’ingresso.
L’interno custodisce opere di pregio: l’altare maggiore in pietra leccese, un crocifisso ligneo, un dipinto dell’Estasi di Santa Teresa, le tele di Vincenzo Fato e di ambito napoletano, un organo settecentesco con cantoria, un pulpito intagliato e una ricca collezione di statue, tra cui il Redentore e la Madonna del Buon Consiglio. La volta, ornata da stucchi attribuiti ai Centolanze, completa l’armonia dell’insieme.
Non meno importante è la dimensione spirituale: dal carisma carmelitano alle devozioni popolari per Santa Teresa, San Biagio e la Madonna del Buon Consiglio, la chiesa si offre oggi come luogo vivo, memoria condivisa di una comunità che nei secoli ha saputo rinnovare le forme del culto senza smarrirne l’anima.
Con questi due opuscoli, di taglio divulgativo ma scientificamente fondati, la Fondazione Terra d’Otranto, insieme agli enti promotori, offre un prezioso strumento di conoscenza e di valorizzazione. Si tratta di lavori che non solo agevolano i visitatori, ma invitano i cittadini stessi a riscoprire la bellezza dei luoghi sacri che segnano da sempre la storia e l’identità di Nardò.
Entrambe le pubblicazioni sono reperibili presso il bookshop del Museo Diocesano di Nardò.
di Cristina Caiulo e Stefano Pallara
Per prima cosa ci siamo posti un obiettivo: trasformare la Cattedrale di Nardò, tramite la Domotica, in uno “smart building”, un edificio “intelligente”: in questo modo si è compiuto un primo passo verso la creazione di una “smart city”. In un immobile vincolato come la Cattedrale l’inserimento delle dotazioni impiantistiche è un problema non di poco conto, stante la storica invasività delle infrastrutture tecnologiche: la domotica attualmente rappresenta la filosofia progettuale più innovativa ma, soprattutto, più “leggera” dal punto di vista sia quantitativo sia qualitativo.

Cenni storici
Alcuni brevi cenni storici, tratti dalla bibliografia corrente, utili a comprendere la complessità stilistica dell’edificio sacro. L’impianto originario della Cattedrale Maria SS.ma Assunta di Nardò risale presumibilmente ai secoli VII-XI; i primi importanti rifacimenti furono eseguiti dai monaci Benedettini in seguito al terremoto del 1245; più o meno allo stesso periodo risale il crocefisso in legno di noce, montato su di una croce più antica in legno di quercia, conosciuto come il “Cristo Nero”, uno tra i più antichi crocefissi lignei del sud Italia. Ulteriori rifacimenti furono attuati dopo i terremoti del 1350 e del 1456; successivamente vi furono modifiche apportate direttamente da vari Vescovi, tra i quali il Vescovo napoletano Antonio Sanfelice (1708-1736) che si avvalse dell’opera del fratello Ferdinando, celebre architetto. Nel 1892 il Vescovo Giuseppe Riccardi decise di dare inizio alla demolizione della Cattedrale, ma, appena rimossi i primi paramenti murari, apparve la struttura medievale originaria: asportati gli stucchi barocchi, che avevano nascosto l’antica Basilica di Nardò per seguire i gusti del tempo, Mons. Riccardi incaricò l’insigne pittore senese Cesare Maccari, il quale affrescò il coro, l’abside e la volta ogivale nel presbiterio.

Il progetto di illuminazione
Appare evidente quanto la progettazione della luce nella Cattedrale fosse intrinsecamente complessa: a quale stile prevalente riferirsi, quale elemento artistico o architettonico privilegiare senza mettere in secondo piano gli altri? In un edificio sacro così ricco di stratificazioni, il pericolo è che per cercare di valorizzare tutto si rischi di non valorizzare nulla. La soluzione a questo problema, che condiziona la progettazione della luce in tutti gli immobili di rilevante interesse storico, artistico e architettonico, scaturisce da un criterio fondamentale in base al quale effettuare le scelte del “cosa”, del “come” e del “quanto” illuminare. Il criterio, al di là delle sempre prevalenti esigenze liturgiche, è quello di elaborare una gerarchia di importanza dei varî elementi che compongono e caratterizzano l’edificio, per come storicamente riconosciuti da eminenti studiosi della materia ma anche per come emotivamente percepiti dalla comunità all’interno della quale l’edificio è stato costruito e modificato nel tempo, e illuminare ciascun elemento secondo la rilevanza attribuitagli. Più in generale, il primo criterio progettuale da seguire presuppone uno studio della luce diurna nelle varie ore della giornata con una documentazione fotografica ad hoc, per comprendere quali effetti luminosi dovuti alla luce solare hanno caratterizzato la Cattedrale nel corso delle sue vicende storiche e costruttive. Ciò premesso, un progetto di illuminazione che si rispetti non deve mai tralasciare un elemento determinante per la buona riuscita dello stesso: la “regia luminosa”, che consiste nella mappa preordinata della contemporaneità delle accensioni, cioè la progettazione dei diversi “scenari” per ogni esigenza, nella convinzione che una buona luce possa conferire qualità. I criteri di base salienti che si sono tenuti presenti nella progettazione dell’impianto di illuminazione della Cattedrale di Nardò riguardano il contenimento dei consumi energetici e la rispondenza delle caratteristiche illuminotecniche degli apparecchi alle specifiche esigenze, attraverso una opportuna scelta dei corpi illuminanti, di idonei efficienza luminosa, indice di resa cromatica, durata, flusso luminoso e temperatura di colore, in base alle specifiche necessità di ogni ambiente, da posizionare ed orientare in modo da ottenere il livello di illuminamento ottimale per ciascuna esigenza. I corpi illuminanti prescelti possiedono intrinseche caratteristiche di flessibilità, e sono pertanto dotati di possibilità di variazione dei flussi luminosi mediante regolazione continua del carico (“dimmerabili”) e sono dotati sia di lampadine alogene che di L.E.D. (Light Emitting Diode), con doppia supervisione KNX e D.A.L.I. (Digital Addressable Lighting Interface), al fine di consentire l’adozione della illuminazione più idonea anche per qualsivoglia eventuale futuro fabbisogno. La scelta del sistema BUS consente una notevole economia nella quantità dei materiali necessari e una ottimizzazione dei percorsi delle canalizzazioni, oltre a permettere in qualunque momento modifiche veloci e semplicissime con l’esclusione o l’inserimento di apparecchi illuminanti in uno “scenario”, o la creazione ex novo di altri “scenari” con una programmazione elementare dal pannello di comando, senza l’ausilio di tecnici, ai quali è demandata la gestione della centralina e gli eventuali aggiornamenti della configurazione richiesti dal Committente. Nel caso della Cattedrale di Nardò, i cui lavori sono tuttora in corso, la riqualificazione passa attraverso lo studio di un sistema che, oltre a dotare la Cattedrale di un nuovo e moderno impianto di illuminazione, sia anche in grado di ottimizzare i consumi producendo un sensibile risparmio energetico: per questi motivi è stato scelto un impianto domotico, impianto che abbiamo già realizzato nel lontano 1998 nel Santuario di San Giuseppe da Copertino, tra i primi in Italia ad utilizzare la Domotica in un edificio sacro vincolato. In estrema sintesi, un impianto domotico è un sistema di controllo e gestione delle apparecchiature o dispositivi elettrici o comunque elettrificabili, che consente – tra le altre – di ottimizzare i consumi. Mediante un insieme integrato di sensori e di attuatori digitali gli impianti possono essere comandati, anche a distanza, tramite software secondo determinati protocolli di trasmissione dati. Impianti di illuminazione, di riscaldamento, di irrigazione, ovvero tapparelle e finestre elettrificate, sistemi antifurto, tutto può essere gestito con la domotica, un sistema “intelligente”, chiamato così perché è in grado, programmato appositamente mediante software, di rispondere automaticamente ad un evento o ad un cambio di stato dell’apparecchio comandato. Un esempio banale: se l’impianto di irrigazione è dotato di un sensore digitale di umidità installato nel terreno, partirà solo quando il sensore rileverà un livello di umidità insufficiente e si spegnerà in caso di pioggia, oppure, se l’impianto di illuminazione è dotato di un sensore crepuscolare, le luci che vogliamo si accendano automaticamente al calar della sera lo faranno autonomamente e con un livello di illuminamento bilanciato in base alla luce esterna o in base alle nostre esigenze. Ecco perché un impianto domotico si può considerare ad oggi il sistema migliore per il controllo dei consumi energetici. Se a ciò si abbinano apparecchi a bassissimo consumo come i L.E.D. e regolatori continui di carico (“dimmer”) per calibrare i livelli di intensità luminosa, si possono ottenere risultati notevoli e facilmente misurabili dal punto di vista del risparmio energetico. Nello specifico della Cattedrale di Nardò si è progettato un sistema elettronico di interconnessione e di gestione BUS, e cioè un sistema di comunicazione seriale su conduttori di opportuna sezione, di opportuno isolamento perché si possano alloggiare nelle stesse canalizzazioni dell’impianto di potenza, a protocollo (aperto) D.A.L.I. per la gestione dell’illuminazione della Cattedrale ed un sistema elettronico di interconnessione e di gestione BUS, su doppino intrecciato non schermato (UTP), di opportuno isolamento perché lo si possa alloggiare nelle stesse canalizzazioni dell’impianto di potenza, a protocollo (aperto) KNX per la supervisione, per l’illuminazione dei vani accessori e per la gestione di oltre il 50% delle prese poste in tutti gli ambienti, sacri e ausiliari, che risultano comandate o regolate da “dimmer” per una gestione ottimale dei consumi energetici. I due sistemi domotici, inoltre, comunicano tra di loro tramite opportuni gateway KNX/D.A.L.I. e sono programmabili tramite PC, collegabile mediante interfacce dedicate KNX/USB, anche al fine di provvedere ai necessari salvataggi delle configurazioni per una facile riproducibilità degli “scenari” realizzati in caso di guasto. In aggiunta, tramite ulteriori interfacce dedicate (KNX/Internet Gateway e KNX/GSM), i sistemi possono essere accesi, spenti e monitorati anche da remoto. Il tutto supportato da un sistema di allarme antintrusione/antifurto misto filare e wireless in RF (radiofrequenza) costituito da idonee centraline, sensori, sirene, comunicatori e così via, dotato di interfaccia dedicata per l’integrazione nel sistema KNX. Ed ancora con l’ausilio di un sistema di TVCC costituito da un web server integrato che permette facilmente di collegare 4 ingressi video composito e una fonte audio rendendoli disponibili su internet tramite un indirizzo IP raggiungibile, al fine anche di effettuare riprese ed archiviazioni sia on-site che da remoto. In questo modo tutte le accensioni e gli spegnimenti dei corpi illuminanti e di ogni altra utenza elettrica presente saranno potenzialmente automatizzabili, tramite idonei sensori, “dimmer” ed attuatori. Ed ancora tutti gli impianti potranno essere inseriti nella gestione domotica dell’immobile, al fine di consentire tutta la supervisione e la integrazione necessarie. Nel caso di un edificio sacro, inoltre, l’impianto domotico risponde perfettamente alle esigenze liturgiche per come espresse in una serie di Note Pastorali ad hoc emanate dalla C.E.I., per esempio in quella del 18 febbraio 1993 su “La Progettazione delle nuove chiese”, dove si elencano gli “scenari” più frequenti, come celebrazioni quotidiane, feriali, festive, fruizione artistica o di preghiera, liturgie sacre come la messa di Natale o di Pasqua, ovvero eventi straordinari come veglie di preghiera o rappresentazioni sacre, etc., o ancora nella Nota Pastorale del 31 maggio 1996 su “L’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica”, dove si ribadisce l’importanza della progettazione della luce nella valorizzazione degli edifici sacri, che presuppone un accurato studio della luce naturale e della luce adatta a quel determinato edificio a secondo dell’epoca storica prevalente (di costruzione o di trasformazione). Gli “scenari funzionali” progettati secondo le esigenze, liturgiche e non, della Cattedrale, ciascuno attivabile tramite l’azionamento di un unico comando, si realizzeranno mediante apparecchi di illuminazione comandati da attuatori per mezzo di una centralina di programmazione che conferirà a ciascuno “scenario” una configurazione precisa ma sempre modificabile senza cambiare nulla della infrastruttura impiantistica: gli apparecchi sono comandabili via software e possono essere in qualunque momento eliminati da uno “scenario” e inseriti in un altro e, comunque, possono sempre appartenere contemporaneamente a diversi “scenari” con livelli di illuminamento differenti: la Domotica lo consente. Così in futuro, qualora le esigenze della Cattedrale dovessero mutare, sarà sufficiente aggiornare gli “scenari” in base alle nuove esigenze senza effettuare opere murarie o impiantistiche ma semplicemente riprogrammando l’impianto, con un indiscutibile beneficio in termini di riduzione dei disagi materiali e dei costi.

Il cantiere
Non secondario l’impatto fisico delle infrastrutture impiantistiche sulla preziosa tessitura muraria e sull’apparato decorativo della Cattedrale.
Al di là delle dovute prescrizioni da parte della Soprintendenza competente, la responsabilità di ricercare sempre più lievi soluzioni di installazione di canalizzazioni, dispositivi, quadri elettrici e cavistica varia, quando impossibilitati ad utilizzare le tubazioni sottotraccia esistenti, ci ha portato ad un risultato che ha riscontrato l’apprezzamento di molti e la nostra soddisfazione come professionisti ed esperti di Restauro.
Abbiamo posto la massima attenzione ai percorsi delle tubazioni esterne, privilegiando quando possibile posizioni che seguissero spigoli interni e, in ogni caso, le stesse tubazioni e le canaline in plastica sono state sempre dipinte dal nostro Restauratore nel colore del supporto e nella tessitura del materiale, rilevando il RAL corrispondente di persona. Allo stesso modo abbiamo proceduto con il colore di tutti gli apparecchi illuminanti, che la ditta fornitrice ha realizzato come pezzi speciali non solo perché dotati di alimentatori DALI ma anche perché forniti del colore scelto da noi con la modalità innanzi accennata.
Particolare cura abbiamo posto nella soluzione illuminotecnica riservata all’altare maggiore: è stata realizzata e montata, affiancandola a quella originaria, una leggera struttura di travi scatolari progettata ad hoc in pannelli sottili di legno lamellare per l’incasso degli apparecchi illuminanti a LED, poi dipinta dal nostro Restauratore ad effetto marmorizzato nello stile delle travi originarie. Il risultato è duplice: da un lato non è stato minimamente intaccato il baldacchino originario sopra l’altare e l’effetto finale è quello della luce che arriva misteriosamente dal nulla, dall’altro lato la struttura nuova è mimetizzata ma perfettamente riconoscibile e rimovibile, rispettando così i principi basilari di un buon Restauro.

Our goal was to use domotics to transform the Cathedral of Nardò into a “smart building”, a first step towards the creation of a “smart city”. The original system of the Cathedral of Maria SS.ma Assunta of Nardò probably dates back to the VII-XI centuries. The first significant restoration intervention was carried out by the Benedictine monks after the 1245 earthquake. The oak crucifix dates back to more or less the same period: among the oldest wooden crucifixes in Southern Italy, it is commonly referred to as the “Black Christ”. Further restoration was carried out after the 1350 and 1456 earthquakes, followed by other interventions completed at the hands of various bishops, such as the Neapolitan bishop Antonio Sanfelice (1708-1736), supported by his brother Ferdinando, a famous architect. In 1892, bishop Giuseppe Riccardi decided to start to demolish the Cathedral, but as soon as the first wall surfaces came down, the original medieval structure was unveiled: the baroque stuccos which had been disguising the ancient cathedral to follow the trends of the past were therefore removed and bishop Riccardi appointed the famous painter Cesare Maccari from Siena to fresco the chancel, the apse and the ogival vault in the presbytery. The design of the new lighting system of the Cathedral mainly focuses on energy saving systems and the compliance of the chosen illuminating devices with the real needs of the building, through a careful selection of the best solutions, in terms of luminous efficacy, Colour Rendering Index, life, luminous flux and colour temperature, to be positioned and angled according to the specific needs of each single room for the best luminous effect.

The chosen illuminating devices are characterised by extreme flexibility, allowing to modify the luminous fluxes through a continuous regulation of the load; moreover, using both halogen and LED lamps (Light Emitting Diode) with dual KNX and DALI control systems (Digital Addressable Lighting Interface), the best illuminating effect is guaranteed, even for any future requirement. Particularely, Guzzini Illuminazione provided important support and assistance in the design of custom illuminating solutions, i.e. ad-hoc devices specifically conceived for the Cathedral and equipped, following our indications, with specific DALI feeders and therefore all adjustable and adaptable to each “functional scenario”. Having chosen the BUS system allows to save material, optimise the path of the conduit pipes and carry out quick and simple modifications at any time, simply excluding or adding illuminating sources in a “scenario” or creating brand new “scenarios” by means of elementary programming operations from the console, without needing a technician, exclusively required if the control unit is to be managed or if an update of the configuration is asked by the Customer. With specific reference to the Cathedral of Nardò, the (still on-going) qualification process is based on the analysis of a system aimed at providing the building with a new, modern lighting system as well as at optimising consumptions for a remarkable energy saving. For such reasons A DOMOTIC SYSTEM WAS CHOSEN, already experimented in 1998 in the Sanctuary of San Giuseppe da Copertino, one of the first protected sacred historical buildings in Italy to use domotics.
In brief, a domotic system is a system for the control and management of electrical or electrifiable apparels and devices, allowing, among other things, to optimise consumptions. By means of an integrated combination of sensors and digital actuators, the systems can be controlled (even remote) through a software, according to given data transmission protocols. Lighting, heating, watering systems, as well as blinds and electrified windows or alarm systems: everything can be controlled through domotics, also referred to as a “smart” system in that, once programmed, it is able to automatically respond to an event or to a different status of the operated device. With specific reference to the Cathedral of Nardò, the project provides for an electronic system of interconnection and management. In other words, a system of serial communication on conductors with adequate section and isolation so to allow their installation in the same conduit pipes of the power system, with a DALI (open) protocol to manage the illumination of the Cathedral and an electronic system of management and interconnection (on UTP – Unshield Twisted Pair), adequately isolated so to allow its installation in the same conduit pipes of the power system, with a KNX (open) protocol to supervise and light the accessory areas and the managing of over 50% of all the sockets present in both the sacred and auxiliary rooms, controlled and regulated for an optimised energy consumption. The two domotic systems are connected by means of specific KNX/DALI gateways and can be programmed by PC (connected through dedicated KNX/USB interfaces), so to guarantee the necessary save of the configuration for an easy reproducibility of the conceived “scenarios” in case of failure. Moreover, further dedicated interfaces (KNX/Internet Gateway and KNX/GSM) allow the systems to be switched on, switched off or controlled (even remote). The “functional scenarios” designed according to the needs of the Cathedral (liturgic or not), each of them operated by means of ONE SINGLE CONTROL, will be carried out through lighting devices controlled by a program control unit, which will attribute a specific configuration to each single “scenario”, though always modifiable, with no changes in the system infrastructure. All the systems can be controlled via software and be eliminated at any time from one “scenario” and added to another one, or can belong to two or more “scenarios” at the same time with different illumination levels: WITH DOMOTICS THIS IS POSSIBLE! Hence, in the future, should the needs of the Cathedral change, it will be sufficient to update the “scenarios” accordingly and re-programme the system, avoiding masonry works or interventions on the systems, therefore minimising costs and inconveniences.
di Armando Polito

Questo post è l’integrazione di altri1 già dedicati allo studioso di Monteroni. Nel chiudere il secondo contributo mi auguravo di avere notizia del destino di una donazione fatta da Michelina e Giuseppe Cacudi, eredi di Nicola, all’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, donazione la cui accettazione era autorizzata in data 26/3/1963 (dell’era cristiana …) dal prefetto ad accettarla, come si evinceva dal documento tratto dalla Gazzetta ufficiale della repubblica italiana, a. 107° n. 22 del 7/9/1966 (siamo sempre nell’era cristiana …), che qui replico.

Il fatto che la Gazzetta ufficiale dia notizia di un decreto. sia pur prefettizio, a più di tre anni dalla sua emissione è già un miracolo, lo è un po’ meno il seguito della storia, che è rimasta nell’oblio fino al 22/9/2025 (sempre dell’era cristiana, ma sottoclasse della digitalizzazione e dell’I. A. …), giorno in cui mi è pervenuto (da qui in poi nulla, punteggiatura inclusa, avrà valenza ironica) un graditissimo messaggio congiunto del dottor Gennaro Bisesto, Responsabile del Catalogo unico di Ateneo dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, e della dottoressa Stefania De Toma, Responsabile della Biblioteca di Lingue e Letterature Straniere della stessa Università.
Con esso mi si comunicava che l’auspicio da me formulato alla fine del post dell’11/12/2023 era diventato realtà, perché il fondo era stato finalmente catalogato ed i dati relativi immessi in rete2. Risultano catalogati 1288 libri, mentre l’autorizzazione prefettizia ne segnalava 1502; una differenza non trascurabile e perciò difficilmente imputabile ad un errore iniziale di conteggio.
È praticamente impossibile ricostruirne lo sviluppo ed individuare eventuali responsabilità, anche per il tempo trascorso, che sembra, invece, non aver minimamente influito sul ritratto riprodotto all’inizio.
Da una rapida lettura dei titoli del fondo ho potuto constatare che nella sua biblioteca, quasi esclusivamente composta, come c’era da aspettarsi, da autori francesi, dei ventuno titoli (senza contare le ristampe) da lui pubblicati e registrati in OPAC sono presenti solo tre: Il libro e la vita, Guido, Lecce, 1913 e Nuovo metodo di lingua francese, Società Editrice Tipografica, Bari, 1938 e 1945 e Un innamorato dell’Italia: Gabriel Faure, Cressati, Bari; 1952.
La cosa più sorprendete, però, è l’assenza dei titoli che lo videro come curatore o, dettaglio ancor più importante, traduttore di autori francesi presenti, invece, nella traduzione di altri: Molière, L’avaro (sue traduzione integrale, introduzione, note, analisi e biografia), Le Monnier, Firenze, 1926; Gabriel Faure, Ore d’Italia (traduzione), SET, Bari, 1928; Gabriel Faure, La bella estate (introduzione e traduzione), Società Editrice Tipografica, Bari 1932; Gabriel Faure, Autunno (introduzione e traduzione), Società Editrice Tipografica, Bari, 1935; Alphonse Lamartine, Graziella (introduzione e note), Le Monnier, Firenze, 1938 e Alexandre Dumas fils, Les idées de m. Aubray (présentation), Adriatica editrice, Bari, 1949.
Mi piace interpretarlo come una manifestazione di modestia di un personaggio per il quale vale il detto nemo propheta in patria. Mi preme, infine, precisare che questo post, come i precedenti, non è qui per celebrare un mio parente o, peggio, mettermi in mostra tornando a parlare di lui, ma per esprimere il dovuto riconoscimento a chi, come il blog che mi ospita, con appassionata professionalità, il cui slancio disinteressato troppo spesso è ignobilmente frenato da una burocrazia per certi versi idiota, si è prodigato, sono sicuro non solo in questo caso, per la salvaguardia prima e per la promozione poi della cultura.
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di Nazareno Valente
Nell’ultimo decennio del Settecento, il capitano di fregata Jean Baptiste Laurent Herménegilde Sibille, comandante la divisione del mare Adriatico, realizzò dei rilevamenti sulle coste adriatiche che poi furono tradotti in disegni dal cartografo Vincenzo di Lucio ed incisi da Francesco Ambrosi.

In una delle diciotto carte compare il litorale ed il porto brindisino (figura n. 1), esaminato dal capitano Sibille proprio mentre erano in corso i lavori di Carlo Pollio con cui si cercava di ristabilire la navigabilità del porto interno. Il canale che metteva in comunicazione il porto esterno con quello interno – conosciuto nell’ultima sua versione come canale Pigonati – era infatti interrito ed i navigli erano costretti ad ancorare nel porto esterno, nella cosiddetta Cala delle Navi che si trovava a ponente dove poi furono ospitate le spiaggia dei sottufficiali e di Marimisti.
Ebbene i rilevamenti di Sibille furono eseguiti con ogni probabilità tra il 1796 ed il 1797 quando si era forse ottenuto un minimo di temporanea navigabilità nei seni interni. Dalla figura si può infatti rilevare che i simboli dell’ancoraggio sono presenti, oltre che nella Cala delle Navi, anche dalle parti degli attuali Giardinetti e nel seno di ponente nella zona delle Sciabiche, denotando che era possibile approdare nel porto interno. Cosa quest’ultima del tutto eccezionale e che si verificò, per quello che si è potuto appurare, solo in tre brevissimi periodi di tempo tra la metà del Quattrocento ed il 1865, quando si diede avvio alla realizzazione del progetto di Tommaso Mati che risolse finalmente il problema alla fonte. Per il resto, in quei quattro secoli e più, i seni interni rimasero interdetti alla navigazione dei navigli e venivano percorsi dalle sole barche a vela o a remi.
C’è da rilevare che, nel tradurre in disegno i rilevamenti del capitano Sibille, Vincenzo di Lucio configura il canale di accesso com’era strutturato prima che fossero eseguiti i lavori del Pigonati conclusisi nel 1778, e quindi con un aspetto molto diverso da quello che aveva in realtà nel 1796.
Malgrado questa manchevolezza, che peraltro nel racconto promosso dalla carta non riveste un ruolo di eccessivo rilievo, il disegno risulta ugualmente prezioso in quanto consente di acquisire non banali informazioni di carattere nautico.
Dei tre possibili spazi da cui si poteva entrare nel porto esterno, quello a ponente — tra la punta di Materdomini e l’isola di sant’Andrea, allora non ancora occupato dalla diga realizzata tra il 1865 ed il 1869 — il fondale basso (mediamente di 3m) ed il forte vento che spirava a volte da sud consentivano al massimo il transito dei soli bastimenti di piccola stazza, e quello a levante — tra le Pedagne e Capo Bianco — era di difficile attraversamento sia per le scogliere che vi si addensavano, sia per le ampie secche allora esistenti. Sicché l’unico ingresso agevole era costituito dallo spazio tra Forte a Mare e le Pedagne, che risultava il solo attraversato dai navigli di una certa consistenza.
Tra le altre notizie nautiche utili è indicata, con la scritta “fontana”, il luogo a noi noto come Fontanelle, dove i naviganti potevano rifornirsi d’acqua, poco lontano dal luogo — la Cala delle Navi — in cui approdavano. Nel Casale è questo l’unico indizio messo in evidenza, a parte il simbolo con cui s’indica la chiesa di santa Maria del Casale che, potendo essere facilmente individuata ed osservata da lontano, costituiva un punto cospicuo, vale a dire un riferimento utile per chi navigava.
Sempre quali possibili riferimenti per chi governava i navigli, la carta indica dove sono posizionate le torri Penna e Cavallo, il Castello e il Lazzaretto situati entrambi sull’isola di sant’Andrea, il piccolo arcipelago delle Pedagne e, infine, con la scritta “Lavoratojo”, il presumibile luogo dei lavori di bonifica allora eseguiti da Pollio su Fiume Piccolo.
Si noti infine nel ramo di ponente la presenza del ponte Grande — a quel tempo necessario per superare gli acquitrini e le paludi che infestavano quei luoghi all’altezza della fontana Tancredi e del parco Cillarese — che molti cronisti brindisini, nelle loro ricostruzioni, danno erroneamente per demolito già nel 1778 da Andrea Pigonati e che, invece, svolgeva ancora degnamente il suo compito.
Sebbene sia difficile risalire all’anno in cui il ponte Grande fu distrutto, si può ipotizzare che esso si collochi con ogni probabilità nel periodo in cui, tra il 1858 ed il 1862, le acque e la palude presenti in quella zona furono canalizzate e realizzato successivamente un nuovo invaso. Non essendoci più vallata acquitrinosa da superare, il ponte Grande divenne inutile e di conseguenza abbattuto.

Scomparve così dallo scenario cittadino un manufatto presente già in Pieno Medioevo ma non certo, come taluni affermano, in epoca romana.
Si può notare infine come la cittadinanza si concentrasse nella zona centrale prospiciente il canale ed a ponente, lasciando quasi del tutto disabitata la zona a levante della città.

Gilberto Spagnolo, Maestri, maestre e scolaresche. Il Memoriale di Maria Ida Marrazzi e la Novoli dell’Otto e Novecento, Quaderni. 3, Società Storica di Terra D’Otranto.
ISBN 978-88-945508-9-4, presentato a Novoli nel settembre 2025.
Scrivere questo libro è stato come riaprire
il registro del cuore.
Ogni pagina custodisce il silenzio di aule antiche, lo stupore dei primi alfabeti,
la voce umile ma tenace di una scuola
che resisteva alla povertà e al tempo.
Questo libro custodisce i loro volti e le loro voci.
È memoria viva!
È dedicato a chi ha insegnato, a chi ha imparato,
a chi ha camminato insieme alla scuola,
credendo nel potere silenzioso dell’educazione.
Dall’Introduzione:
Nella mia vita la scuola ha rappresentato la sfida più bella e più dura. Tanto dura da vivere e scampare, miracolosamente, con gli affetti più cari, ad un terribile attentato terroristico in America Latina dove insegnavo da quasi un anno. L’attentato avvenne a Lima, capitale del Perù, nel quartiere di Miraflores, Calle Tarata (dove si abitava) il 16 luglio 1992. Tanto bella per aver dedicato molti anni di essa (ben 36), prima come insegnante e poi come Dirigente (ben 25 anni, di cui uno a Caorle e 24 a Novoli) alla crescita educativa e culturale di tantissimi alunni e alunne, di cui ne ricordo ancora oggi, con una certa commozione, ogni gesto e ogni innocente sorriso.
In questo libro dunque si parla di un “Memoriale” ritrovato in fotocopia e, soprattutto, di scuola. Tristemente dimenticato (tanto da perdere, essendo in fotocopia, la nitidezza calligrafica in alcune parole e frasi), è venuto fuori nel corso delle ricerche necessarie per preparare “Memorie antiche di Novoli”, e mi fu donato (ovviamente la copia) da Enzo Maria Ramondini (studioso emerito e fondatore del Gruppo di Studi Alessandro Mattei) che ne conservava l’originale. Parla, e ne traccia, la storia della scuola primaria di Novoli nel corso degli ultimi due secoli, dal 1806 al 1959, e l’autrice che glielo aveva consegnato, o meglio donato è Maria Antonietta Ida Marrazzi (conosciuta e chiamata da tutti Ida), maestra di talento, dalla lunga carriera scolastica, punto di riferimento di tante generazioni di Novolesi nei quali lasciò un grande e affettuoso ricordo.
Della sua vita sapevamo già abbastanza, ma evidentemente non tutto. Il primo ad interessarsi in maniera significativa di lei è stato lo studioso e poeta dialettale novolese Alfredo Mangeli che ne delineò un esaustivo profilo biografico sulla rivista Spazio C.R.S.E.C. del 1986. Vanno ricordati gli interventi e i contributi di Don Emanuele Ricciato (in primis), di Piergiuseppe De Matteis, di Mario De Marco e quello, più recente, di Dino Levante, pubblicato su “Salentine” (ed. Grifo 2022), libro curato da Rosanna Basso, in cui viene inserita con pieno merito nelle storie di “100 donne che in ruoli, tempi, modi e incisività diverse hanno segnato la società di Terra d’Otranto”.
Della sua biografia, brevemente e in maniera essenziale, ricordiamo che Ida Marrazzi era nata a Novoli il 16 novembre del 1893 e ivi morì il 19 aprile 1982 all’età di 89 anni. Appartenente ad una famiglia definita da don Emanuele Ricciato “cenacolo di intellettuali”, era la più piccola di nove figli “che il benestante Novolese Felice Marrazzi ebbe dal suo matrimonio con la maestrina di Alfonsine (provincia di Ravenna), Lucia Garbocchi, venuta giovanissima e “nutrita di studi seri” a Novoli, per insegnare nelle scuole primarie, appena istituite, come previsto dalla legge Casati, dopo la proclamazione del nuovo Regno d’Italia (1861)”. Sappiamo ancora che si formò presso la Regia Scuola Normale Femminile di Lecce diplomandosi brillantemente il 13 luglio 1913. La sua lunga carriera scolastica, scrive M. De Marco, in “Novolesi”, ebbe inizio il 5 novembre 1913 e molto si applicò nella didattica annotando le proprie esperienze e riflessioni in una “Cronaca Scolastica”. Dotata oltre che di una assai spiccata intelligenza e di una vasta e profonda cultura, di spirito profondamente religioso e ottima scrittrice, ma anche di una delicata “vena poetica”, scrisse, infatti, circa sessanta sonetti, ispirati alla vita di san Francesco d’Assisi, raccolti in un fascicolo e datati maggio 1950 (ma prodotti nel periodo che va dal 1921 al 1928). Scrisse anche quattro “Discorsi” e diversi “racconti” che rivelano “una spiccata sensibilità artistica” (il Mangeli nel suo saggio ne riporta otto in tutto, autografi, descrivendoli assieme ad un poemetto di 43 strofe ed alcune poesie); un corpus di manoscritti che andrebbe comunque, come rileva giustamente Dino Levante, “meglio conosciuto, studiato e valorizzato”. Insomma una donna straordinaria di alta statura intellettuale e morale, “una nobile educatrice” non meno delle sorelle Vincenzina, Zaira, Livia (a quest’ultima Antonio Politi, suo alunno, ha dedicato “Una riflessione, un ricordo”) anch’esse insegnanti. Tornando al manoscritto, di cui abbiamo dato anticipazione sui numeri unici novolesi, esso ha titolo “La scuola elementare a Novoli 1806-1959”. Si compone di 68 pagine numerate, più indice degli argomenti trattati, porta la sua firma ed è datato “Novoli marzo 1978”.
Il testo è scritto con bella e chiara calligrafia ed è una testimonianza preziosa non solo della scuola elementare (oggi primaria) novolese, ma anche sulla vita e sugli accadimenti nel paese di quasi gli ultimi due secoli. Definito dalla stessa autrice “Memoriale” (p. 34) perché in effetti raccoglie notizie e documenti di determinati fatti storici e di rilievo) era stato certamente consegnato da lei stessa all’avv. Enzo Maria Ramondini (evidentemente rispondendo al suo invito) che l’anno prima aveva fondato il Gruppo di Studi Alessandro Mattei e pubblicato il quaderno preparatorio “Novoli di Lecce”. Il Gruppo è citato a pag. 2 del memoriale. La Marrazzi scrive, infatti, che era stato “costituito per la ricerca e la pubblicazione di documenti e notizie idonee a ricostruire la storia di Novoli. La talentuosa insegnante mette in risalto anche la figura del mecenate Alessandro II Mattei, conte (scrive ancora) “che si conformò all’uso del tempo Rinascimentale ed influenzò l’evoluzione intellettuale degli studiosi di Terra d’Otranto”. In buona sostanza, associato a un necessario percorso di apposite Leggi e Circolari nella scuola, agli aspetti e alle innovazioni pedagogiche e didattiche, al succedersi delle varie insegnanti e maestri a partire dagli inizi dell’Ottocento, il memoriale è molto importante a nostro parere, soprattutto anche per la narrazione di fatti accaduti a Novoli di cui Ida Marrazzi è stata testimone e non di meno protagonista; una raccolta preziosa di documenti di importanza storica, ma anche politica, “fatta a memoria”, con illustrazione di particolari avvenimenti e di tanti personaggi illustri (alcuni anche inediti e di rilievo come Luigi Andrioli, poeta, drammaturgo, oratore). In precedenza, solo il sacerdote professor Emanuele Ricciato, in via generale aveva dedicato all’argomento nel 1958 un importante saggio dal titolo L’istruzione primaria in Novoli, dai primi del secolo XIX ai nostri giorni” e a cui sembra ispirarsi. In realtà quello del Ricciato è un discorso tenuto nell’aula delle scuole elementari di Novoli il 7 novembre 1957 per l’inaugurazione dell’anno scolastico e per il conferimento delle medaglie d’oro alla stessa Ida, a Livia Marrazzi e a Giacinta Foresio Parlangeli. È un’opera che aggiunge certamente un ulteriore tassello di congiunzione con il passato di Novoli e che merita perciò di essere pubblicato integralmente. Un inedito e prezioso documento “di prima mano” non solo sulla scuola (in questo caso quella primaria, “elementare”) ma su tutta la comunità e la vita novolese. È quello che abbiamo fatto! Il memoriale, pur con qualche lacuna per alcune parole e frasi illeggibili, è stato interamente trascritto e oggi vede la luce e viene offerto alla lettura di tutta la comunità novolese e di quella scolastica in particolare a cui è dedicato. In appendice, nel contempo, considerata la loro rarità, si è ritenuto di pubblicare anche sia il contributo di Don Emanuele Ricciato e sia quello di Alfredo Mangeli che per primo ha tracciato un utilissimo profilo biografico di M. Ida Marrazzi. I testi, infine, sono accompagnati, come si potrà notare, da un ampio e corposo apparato iconografico composto da documenti originali inediti, rarissime foto d’epoca (come ad esempio quelle delle aule scolastiche sul palazzo baronale), cartoline d’epoca, cromolitografie, copertine e frontespizi di antichi libri in uso nella scuola elementare, raccolti e collezionati in diversi anni, e che arricchiscono il testo scritto con il potente mezzo comunicativo dell’illustrazione. Sono immagini e parole che restano nell’anima e nelle nostre coscienze poiché tutti ci portiamo dentro il nostro passato. Il prodigio di questo libro, o meglio di questo memoriale, penso sia proprio quello di saper trasformare il passato della sua autrice nel passato di tutti noi, ovvero nella riscrittura delle nostre vite e nella storia della nostra collettività.
Riferimenti bibliografici
M. Demarco, Novolesi, a cura di P. De Matteis e G. Spagnolo, Lecce, Inlab, 2016 pp. 96-97.
P. De Matteis, L’istruzione primaria a Novoli, Novoli, Il Parametro Ed., 2001, pp. 47-49. Testo fondamentale sulla scuola primaria novolese per ricerca archivistica e iconografica.
D. Levante, Ida Marrazzi (Novoli, 16/11/1893-Ivi, 19/4/1982, in Salentine. Regine, sante, nobili, borghesi e popolane. Una terra, cento storie, a cura di Rosanna Basso, Lecce, Edizione Grifo, 2022, pp. 199-201.
A. Mangeli, Maria Ida Marazzi: nobile e stimata educatrice novolese scrittrice e amante della musa, in “Spazio C.R.S.E.C.”, numero unico, dicembre 1986, Novoli, Tip. A. Rizzo, 1986, pp. 101-129.
A. Politi, Una riflessione un ricordo, in “Sant’Antoni e l’artieri”, XIV, numero unico, Novoli, 17 gennaio 1990, p. 16.
E. Ricciato, L’istruzione primaria in Novoli dai primi del sec. XIX ai nostri giorni, Lecce, Tip. La Modernissima, 1958, pp. 20-22.
G. Spagnolo, Memorie antiche di Novoli. La storia, le storie, gli ingegni, i luoghi, la tradizione. Pagine sparse di storia civica, Alezio, CYMK di Fabrizio Corsano, 2024 (Società Storica di Terra d’Otranto).
Id., Maestri, maestre e scolaresche. Il “memoriale di Maria Ida Marrazzi e la Novoli dell’Otto e Novecento, in “Lu Puzzu te la Matonna”, a. XXXI, numero unico, 21 luglio 2024, pp. 20-23.
Id., Dal “memoriale di Maria Ida Marrazzi: Sant’Antonio Abate tra miracoli e grazie ricevute, in “Le Fasciddre te la Focara”, a. 63, numero unico, 17 Gennaio 2025, pp. 9-11.
I Cerchi e i Donati, a cui si fa riferimento nel Memoriale, furono i principali attori della “Zuffa di Calendimaggio”, che portò il partito guelfo fiorentino a scindersi in due fazioni: i bianchi, capeggiati dai Cerchi, e i neri, guidati dai Donati (https: www.danteonline.it/Scheda:CerchieDonati). Il Gruppo di Studi Storici Alessandro Mattei fu fondato da Enzo Maria Ramondini nell’ottobre del 1977 ed era costituito da otto Novolesi con competenze diverse: Ugo De Luca, Gino Mele, Tiziana Mele, Fernando Petrachi, Mario Rossi, Fernando Sebaste, Gilberto Spagnolo e Maurizio Toraldo. Il volume pubblicato s’intitolava Novoli di Lecce, fatti e misfatti dalle origini ai giorni nostri, edito a Novoli nel 1977 dalla tipografia di A. Rizzo in Via Roma 31.

di Rocco Severino De Micheli
Nacque a Presicce (1), in via Puzzello, da Giuseppe Michele e da Maria Vita Annoscia, il 14.2.1866 (atto n. 16). Da Presicce, la famiglia si trasferì a Casarano (LE) intorno al 1868 (2) laddove i coniugi gestirono una locanda. Qui il nostro Carmelo, già appassionato di musica, seguì le lezioni di tromba presso il maestro napoletano Aniello Brunetti, che nel 1872 era stato assunto dal Comune di Casarano per organizzare e dirigere la locale banda municipale. E’ molto probabile che sia stato lo stesso maestro Brunetti a incoraggiare il promettente ragazzo a iscriversi al Regio Collegio di San Pietro a Maiella della sua città.
Nella città partenopea, all’età di 12 anni, si perfezionò nello studio della tromba per poi passare a studiare composizione e strumentazione di banda. Nei periodi di vacanza al collegio, egli ritornava in famiglia e suonava in varie piazze pugliesi con la banda municipale di Casarano nell’ambito della quale ricopriva il ruolo di prima tromba.

Diplomatosi al conservatorio a soli 18 anni, vinse il concorso di maestro di banda militare e assegnato al 45° Reggimento Fanteria di stanza a Bergamo. Il reggimento veniva spostato periodicamente, quindi il maestro, fu a Messina, poi a Peschiera del Garda. In un paesino sul lago, Bardolino, egli conobbe e sposò il 14.11.1889 (atto n. 13) una ragazza di venti anni, Amelia Doralice Gelmetti, orfana di entrambi i genitori (i furono Alessandro e Teresa Rossi) dalla quale ebbe tre figli: Maria nel 1891, Mario nel 1895 e Anna nel 1905.

Si spostò anche a Verona, dove rimase per un quinquennio, e dove fu maestro di banda e direttore del Teatro.
Fu però a Venezia che esplose la sua notorietà allorquando nel 1899 si esibì nella “Risurrezione di Cristo” del Perosi.
Nello stesso anno il reggimento passò Lecce e lì iniziò un nuovo capitolo per Carmelo, nella sua terra tra i suoi comprovinciali, ma lontano dalla sua famiglia, rimasta a Verona.
Collaborò con la casa editrice musicale “Ricordi” che stampò e diffuse diverse sue composizioni di musica da camera.


Durante la festa patronale di San Giovanni Elemosiniere del 1900 fu a Casarano con la banda del 45° Rgt. Fanteria; con ogni probabilità fu per questa occasione che egli musicò la marcia intitolata “Casarano”, molto nota e ancora suonata dalle bande di tutta Italia.

Ecco un profilo del maestro Preite stilato nel 1902 da un giornale leccese:

Dopo aver girovagato per l’Italia con il suo reggimento, come abbiamo visto, e dopo la permanenza a Lecce durata quattro anni, viene movimentato a Napoli.
Prima della partenza dal suo Salento, Lecce gli tributò grandi onori per il suo commiato dalla città.

A Napoli, nuova sede, ma che tanti ricordi serbava in Carmelo, il 28 Aprile 1904, in occasione di una grande manifestazione navale, dopo gli onori resi ai capi di stato presenti, suonò, con la sua banda, la Marsigliese e la Marcia reale. In quell’occasione fu decorato, insieme ad altri ufficiali italiani, con la croce di cavaliere ufficiale dell’Accademia di Francia, direttamente dal Presidente della repubblica francese Emile Loubet.

L’8 aprile 1908, mentre era in aspettativa al reggimento per motivi di salute, venne nominato Direttore del Concerto Musicale di Venezia in esito a un concorso vinto su 53 concorrenti, aveva 42 anni.
Nel 1910, sempre a Venezia, seguì la nomina a professore di orchestrazione e strumentazione al Liceo Musicale “Benedetto Marcello”.
Nel 1913 fu a Parigi all’Opera per due esecuzioni operistiche: “I Gioielli della Madonna” e “Il Segreto di Susanna” di Ermanno Wolf Ferrari.

Nella Gazzetta Ufficiale del regno d’Italia n. 98 del 26.4.1913, pag. 2485, nella Cronaca artistica, fu pubblicata la notizia dell’evento che ebbe luogo a Venezia, nel Palazzo Ducale, per la consegna della medaglia d’oro ai marinai italiani quale riconoscimento per il raid compiuto la notte tra il 18 e 19 luglio 1912 nello stretto dei Dardanelli (guerra italo-turca); nel testo venne citato Carmelo Preite, presente alla cerimonia, quale compositore ed esecutore dell’Inno dei Dardanelli.
Il 22 ottobre 1915 fu colpito da un’immane tragedia: sul Carso, in combattimento, morì il figlio Mario di vent’anni, sottotenente di complemento del 118° Rgt. Fanteria e studente del III corso di Ingegneria all’Università di Padova.
Nel dicembre del 1917, in seguito alla disfatta di Caporetto avvenuta due mesi prima, l’intera sua famiglia fu profuga da Venezia a Lecce, insieme ad altri 700 cittadini friulani e veneti che furono assegnati alla nostra provincia; di questi, 108 , tutti vicentini, furono sistemati a Casarano.
In quell’anno, egli, legato come era alla città di Lecce, per i suoi trascorsi e per le sue amicizie, promosse e tenne un concerto al Politeama, proprio a favore dei profughi della guerra.

Nel febbraio 1918, forse anche per gratitudine verso il maestro, la figlia Maria fu nominata dal dott. Pietro Zanframundo, regio commissario del Comune di Lecce, insegnante elementare in qualità di profuga veneta.
Anche Casarano fu nel cuore di Carmelo, infatti, nel 1921 incontratosi con alcuni amici salentini a Venezia, dove spesso si recava da Lecce, e ai quali funse da guida, tra i tanti ricordi che narrò loro accennò anche alla marcia solenne “Casarano” da lui composta nel 1900 e del suo indimenticabile insegnante, il maestro Aniello Brunetti.

Sempre nella città lagunare, il 27 giugno 1922 incontrò Tito Schipa, suo amico e anche, per certi versi, suo discente.

Nel 1926, ultimo anno di permanenza a Lecce, dove sovente deliziava con le sue frequenti interpretazioni musicali i leccesi che hanno avuto da sempre una particolare predilezione per le bande e per i concerti musicali; ricordiamo, tra le più importanti andate in scena in quel periodo, Il Barbiere di Siviglia, del 15 maggio al Politeama, cui fece seguito, qualche giorno dopo, la serata d’addio che egli tenne per il suo ritorno a Venezia.

Oltre alle musiche da camera composte per le edizioni “Ricordi”, nel 1926 musicò Biancabella e Fiordilino e altre fiabe per bimbi per conto della casa editrice “Bemporad & Figlio” di Firenze.
Nel 1930 fu a Bologna come direttore di quella banda e in tale veste ritornò a Lecce, con i suoi musicanti, in occasione della festa di Sant’Oronzo.
Da febbraio del 1932 si stabilì a Gioia del Colle dove diresse, rendendola ancora più famosa, la locale banda. In quella città vi rimase sino al 1934 con numerose presenze al Petruzzelli di Bari ove tenne indimenticabili concerti.
La famiglia aveva la sua casa a Bardolino (VR) e li si ritirò, senza però oziare, infatti nel 1936, scrisse il libro “Istrumentazione per banda” pubblicato da Hoepli.

Nel 1940 gli morì la moglie Amelia e, per non rimanere solo, si spostò a Milano presso le figlie, insegnanti in quella città.
L’amore per la musica fu immenso, ma quello verso la sua Amelia fu ancora maggiore, tant’è che lasciò scritto di voler essere sepolto accanto alla sua sposa.
Il giorno dopo la sua morte, avvenuta a Milano il 27.3.1952, il suo desiderio fu esaudito e, oggi, in quell’avello del cimitero di Bardolino, sormontato da una grande croce, riposano i suoi resti accanto a quelli delle sue care, mentre quelli del giovane figlio Mario, medaglia d’argento al valor militare, riposano sul Carso.

Carmelo Preite ebbe un particolare affetto sia per Bardolino, città della moglie, sia per Casarano, dove trascorse la sua infanzia e dove apprese rudimenti musicali.
Per il paese del suo amore, compose “Inno a Bardolino”, mentre per Casarano, compose, come detto innanzi, un’omonima marcia che è possibile ascoltare al seguente link:
http://www.carusa.it/appoggio/marcia%20Casarano.m4a
Pur essendoci in diverse città toponimi a suo nome, a Bardolino gli è stato intitolato il lungolago, mentre a Casarano, nei primi anni ’60, l’amministrazione comunale guidata dal sindaco Sansonetti gli intitolò una strada.

NOTE
1) Allo scopo di dirimere le discordanze in merito alle origini della sua famiglia, è doveroso puntualizzare che la linea paterna risulta essere originaria di Copertino (LE), mentre quella materna risulta essere originaria di Presicce (LE), giusta la ricerca da me esperita con i documenti ufficiali che mi è stato possibile consultare su https://antenati.cultura.gov.it/
– Padre: Giuseppe Michele Preite di Abele Vito e Maddalena Cavallo, albergatore, nato a Presicce il 13.2.1819 (atto n. 10) morto a Casarano 7.2.1890 (atto n. 10) in via San Giuseppe , età 70;
Il padre era già vedovo di Maddalena Marchetti morta a Presicce il 16.11.1853
– Madre: Vita Maria Donata Annoscia di Francesco e di Caterina De Nicoli, nata a Presicce il 7.8.1831 (atto n. 49) morta a Casarano il 20.8.1897 (atto n. 85) in Quartiere Vecchio, età 76
Matrimonio dei genitori: 26.11.1855 atto n. 27
Nonno paterno: Abele Vito Preite (nato a Copertino 23.9.1793, morto a Presicce 9.12.1853, atto 44), figlio di Giuseppe Michele (copertinese morto a Presicce il 4.6.1800) e di Cesaria Pajano;
Nonna paterna: Maria Maddalena Concetta Cavallo (nata a Presicce nel 1785 e morta ivi il Presicce 21.2.1855 atto 4), figlia di Oronzo (Ostunese morto a Presicce il 30.4.1817 atto 26 ) e di Antonia Negro;
Matrimonio dei nonni paterni: Presicce il 4.5.1818, atto n. 3;
Nonno materno: Francesco Marino Annoscia, (nato Presicce 12.7.1807), figlio di Ignazio (di Bari) e di Germana Mosio (di Presicce);
Nonna materna: Maria Antonia Caterina De Nicoli, (nata Presicce 8.3.1808),figlia di Andrea (morto a Presicce il 14.2.1818) e di Maddalena Faiulo;
Matrimonio dei nonni materni: Presicce il 31.8.1830, atto n. 12;
(2) Il nucleo familiare crebbe di numero con la nascita di Prete Giovanna Maddalena, (sorella di Carmelo, ma dichiarata “Prete” allo stato civile) nata a Casarano in strada Fosso, il 28.4.1870 (atto 76), che si sposò a 18 anni con Salvatore Torsello, di anni 20, il 28.3.1889 (atto 10) figlio di Santo e Concetta Luperti.

Nel cuore del Salento rinasce una coltura antica: lo zafferano. Grazie alla visione e alla passione di Antonio Inguscio, prende vita il progetto “Lo Zafferano del Galateo”, ispirato agli scritti di Antonio De Ferraris, detto il Galateo, che già nel XV secolo testimoniava la diffusione del croco salentino nel suo celebre De Situs Japigiae.

Intorno al 1400, lo zafferano era ampiamente coltivato in Terra d’Otranto, tra Lecce, Galatina, Cutrofiano, Maglie, Porto Cesareo, Oria, Grottaglie e Nardò, sede del grande Mercato Annuale. Oggi, attraverso il lavoro di Antonio Inguscio, questo patrimonio agricolo e culturale torna a vivere a Galatone, con la stessa cura e autenticità di un tempo: raccolta manuale, stimmi puri, attenzione alle fasi lunari e rispetto dei ritmi della natura.
Dalla collaborazione con il mastro pasticcere Natale, nasce il primo gelato allo zafferano salentino, una creazione che unisce artigianalità dolciaria e sperimentazione culinaria. Un’esperienza sensoriale unica che trasforma l’oro rosso in una delizia fredda tutta da gustare. Il gelato esalta le proprietà aromatiche e benefiche di questa preziosa spezia attraverso una formulazione innovativa. Accanto a questa novità, prende vita anche l’Elisir del Galateo, liquore raffinato che custodisce l’essenza dello zafferano in stimmi, raffigurato dal pavone, simbolo di rinascita. Dal profilo aromatico deciso il processo di infusione naturale preserva le note intense e dorate della spezia. In sperimentazione anche una bevanda di latte di mandorla aromatizzata con lo zafferano salentino.

La coltivazione dello zafferano segue rituali antichi: la semina a settembre, in corrispondenza delle fasi lunari, e la raccolta a mano, che avviene in un solo giorno e trasforma i campi in tappeti di fiori viola dal profumo intenso. Un momento unico, che il progetto intende aprire a esperienze dal vivo, con percorsi didattici e turistici capaci di far rivivere lo stupore della natura.

Lo Crocus Sativus, oltre al suo valore gastronomico, è ricco di elementi nutritivi e principi attivi: beta-carotene, vitamine del gruppo B e sostanze con effetti benefici sul benessere dell’organismo. Utilizzato da secoli nelle tradizioni mediche naturali, rimane ancora oggi una spezia preziosa per le sue proprietà salutari.

La Borsa dello Zafferano di Nardò
“A cavallo tra Quattrocento e Cinquecento la produzione di zafferano pugliese si aggirava mediamente intorno alle 20-25 some, pari al 5% della produzione annuale europea che ammontava a circa 500 some. Spagna, Italia e Francia erano i principali produttori, con poco meno di un terzo ciascuna. Tenendo presente che una soma corrisponde a 15,822 kg, la Puglia produceva quindi oltre 36 quintali annui. Dalla pratica commerciale dei mercanti tedeschi Baumgartner si apprende che il quantitativo ricavato annualmente dalle coltivazioni in Terra di Bari variava tra le 4.000 e le 5.000 libbre, mentre in Terra d’Otranto tali quantitativi erano quasi doppi, oscillando, a seconda dell’annata, tra le 8.000 e le 9.000 libbre. Il prodotto pugliese migliore era quello di provenienza da alcune località della Terra d’Otranto, spesso menzionate nei resoconti dei mercanti tedeschi”. È quanto scrive Vito Ricci nel suo saggio Produzione e commercio dello zafferano in Terra di Bari tra XV e XVI secolo.
Le notizie storiche riguardanti la fiera di Nardò e il suo ruolo nel commercio dello zafferano si devono invece a Marcello Gaballo, presidente della Fondazione Terra d’Otranto, che ha ricostruito con ampiezza di documentazione la lunga tradizione mercantile della città e i privilegi economici ad essa connessi.
In questo scenario Nardò si affermò come una vera “Borsa dello Zafferano” durante la Fiera dell’Incoronata, divenuta nel tempo uno dei principali motori economici della città e dell’intera Terra d’Otranto. Lo zafferano era l’unico prodotto il cui prezzo veniva ufficialmente fissato e regolato nel grande mercato annuale, facendo della fiera un punto di riferimento commerciale per tutto il Mezzogiorno e per il Mediterraneo orientale.
Nota anche come “Fiera delle Spezie”, si teneva fin dal Medioevo in concomitanza con le antiche Nundinae, inizialmente davanti alla chiesa di Santa Maria della Carità, nei pressi del tempietto dell’Osanna, e dal 1599 davanti alla chiesa di Santa Maria Incoronata, fuori dall’abitato. Qui si svolgeva per otto giorni consecutivi, tra la fine di luglio e il primo sabato di agosto, concludendosi con la tradizionale Cavalcata.
Sin dai tempi di Ruggero I e poi con il privilegio concesso da re Ferrante d’Aragona nel 1480, la fiera godeva dell’esenzione dalle tasse e dalle gabelle (“la franchezza di octo giorni”), un vantaggio che garantiva un enorme afflusso di mercanti, artigiani e compratori da tutto il Regno di Napoli e da regioni più lontane. Il volume d’affari generato in quei giorni era notevolissimo e la città traeva un diretto beneficio economico, grazie al movimento di capitali, al commercio all’ingrosso e all’indotto legato all’ospitalità e ai servizi.
La fiera offriva inoltre un ampio mercato di spezie, stoffe, utensili, prodotti artigianali e generi di largo consumo. Gaballo documenta, attraverso numerosi atti notarili, la coltivazione dello zafferano nel territorio di Nardò tra Cinque e Seicento e gli scambi di grande interesse anche con mercanti umbri, che giungevano per vendere panni di lana e ripartivano con merci locali di pregio. Testimonianza indiretta di tali relazioni economiche sono alcune tele dei primi decenni del Seicento, oggi custodite ad Atri di Cascia, dipinte da artisti neritini come Ortensio Bruno e Donato Antonio D’Orlando.
A sovrintendere alla fiera vi era il “mastro della fiera”, scelto tra gli ecclesiastici, incaricato di vigilare sulle contrattazioni e sul controllo dei prezzi. La comunità degli Agostiniani, che risiedeva accanto alla chiesa dell’Incoronata fino alla soppressione del 1809, contribuì a mantenerne viva la notorietà. Ma soprattutto, grazie agli interessi dell’Università di Nardò, cui spettava lo jus ferae, la città godeva di un significativo ritorno economico, segno di una prosperità che fece dello zafferano uno dei simboli del suo sviluppo mercantile.

Ufficio stampa: Gisella Della Monaca – 342 7301404

di Paolo Vincenti
Nel XII secolo, ad Otranto, giunge un visitatore ebreo spagnolo, Benjamin di Tudela, che ha intrapreso un viaggio in giro per il mondo forse in cerca di nuove esperienze.
Chi era questo viaggiatore? Il rabbino Benjamin MiTudelo, ovvero מִטּוּ דֶלָה בִנְיָמִין , Benyamin ben Yonahdi Tudela (questo il nome ebraico), meglio conosciuto come Benjamin di Tudela (1130-1173) era un geografo ed esploratore ebreo, originario della Navarra. Lasciò Tudela, in Spagna, tra il 1159 e il 1163, e vi tornò nel 1173. Viaggiò per più di dieci anni visitando comunità ebraiche e non ebraiche in tutto il mondo e scrivendo delle sue esperienze.
La sua opera, I viaggi di Beniamino, בנימין מסעות , Masa’ot Binyamin, anche nota in ebraico come ספרֶ
המסעות , Sefer ha-Masa’ot, ovvero Il libro dei viaggi, è considerata la prima relazione di viaggio di un europeo in Asia, dunque precedente a quella di Marco Polo, per questo molto importante per gli studiosi. Anzi, si può dire non esista alcun resoconto generale del mondo mediterraneo o del Medio Oriente della metà del XII secolo che si avvicini per importanza a quello di Beniamino di Tudela, sia per gli ebrei che per la storiografia sul Medioevo1.
Egli indica le distanze tra le varie città visitate, racconta chi era a capo delle comunità ebraiche e chi erano gli studiosi più illustri. Fornisce il numero di ebrei che ha trovato in ogni luogo, anche se in molti casi non è chiaro se stia parlando di individui o di capifamiglia, e in alcuni casi, come Baghdad, le cifre sembrano esagerate. Annota le condizioni economiche, descrivendo l’attività dei mercanti di vari paesi a Barcellona, Montpellier e Alessandria, parla spesso delle occupazioni degli ebrei: per esempio i tintori a Brindisi, i tessitori di seta a Tebe, i conciatori a Costantinopoli e i vetrai di Aleppo e Tiro. Per quanto ci riguarda da vicino, si sofferma a lungo sulla presenza ebraica in Terra d’Otranto.
Particolarmente importanti i suoi resoconti della vita intellettuale in Provenza e a Baghdad, così come la descrizione dell’organizzazione della vita sinagogale in Egitto2. Egli è stato il primo europeo dell’età medioevale a menzionare la Cina con il nome attuale. La sua opera, I viaggi di Beniamino, è scritta originariamente in ebraico, poi tradotta in latino e in seguito nelle maggiori lingue europee, ma su questi aspetti torneremo successivamente.
Beniamino partì appunto da Tudela, nel nord della Spagna, passando per Saragozza, prima vera tappa del viaggio, fino a Barcellona. Dalla Spagna giunse in Provenza nel sud della Francia, a Marsiglia. Da qui proseguì per l’Italia giungendo a Genova.
Si è discusso fra gli studiosi sulle reali motivazioni del viaggio di Tudela, se cioè lo scopo principale fosse quello commerciale – Colafemmina lo dice commerciante di gemme3 – o piuttosto quello etnologico-geografico4.
Ancora, si è ipotizzato, dato l’estremo interesse che lo studioso dimostra per le comunità ebraiche stanziate nei vari luoghi visitati, che motivo del viaggio fosse proprio quello di stilare una guida, sorta di censimento, delle comunità ebraiche lungo i percorsi per la Terrasanta5. Da Genova giunse a Pisa e poi a Roma.
Deve aver trascorso un periodo piuttosto lungo nell’Urbe poiché scrisse una descrizione dettagliata delle antichità della città. Non essendo uno storico, interpretò molti monumenti come associati alla storia ebraica. Scrisse anche della comunità ebraica e dei loro rapporti con il tanto avversato papa Alessandro III (1159-1181).
Beniamino si diresse poi a sud descrivendo le condizioni di Salerno, Amalfi, Melfi, Benevento, Brindisi e quindi Otranto. Navigò via Corfù fino ad Arta e poi attraversò la Grecia, dove notò i tessitori di seta ebrei in vari luoghi e la colonia agricola di Crissa sul monte Parnaso. Trascorse un periodo particolarmente lungo a Costantinopoli. Navigò attraverso l’arcipelago dell’Egeo fino a Cipro e poi raggiunse la terraferma. Si diresse a sud attraverso Antiochia, Sidone, Tiro e Acri in Terra Santa, che era ancora sotto il dominio dei Crociati. Attraversando il paese, il viaggiatore fornisce un resoconto dettagliato dei Luoghi Santi (che chiama in molti casi con i loro nomi francesi: per esempio, Hebron è St. Abram de Bron).
Nel complesso, le sue descrizioni sono molto più obiettive di quelle dei pellegrini cristiani dell’epoca. Da Tiberiade viaggiò verso nord fino a Damasco e poi fece il giro di Baghdad. Il suo resoconto degli usi e costumi dei Drusi è il primo nella letteratura non araba. Fece una descrizione particolarmente ampia di Baghdad, disegnando un quadro grafico della corte del califfo e delle fondazioni di beneficenza della città e raccontando anche dell’organizzazione delle accademie talmudiche colà ancora sopravvissute. Quanto al viaggio in Persia, le sue descrizioni sono molto imprecise e questo ha fatto sospettare gli studiosi che nel caso di specie egli si sia avvalso di materiale leggendario o che non sia neppure stato in quel paese. Dubbio che diviene certezza per la Cina, che è descritta con dettagli fantastici, così come per Cochin e Ceylon, per cui secondo gli studiosi Benjamin non ha visitato quei luoghi. Le sue impressioni tornano invece realistiche nel dettagliato resoconto dell’Egitto e della vita ebraica che si svolgeva in particolare nelle comunità del Cairo e di Alessandria, che visitò durante il viaggio di ritorno.
Benjamin poi fu in Sicilia e diede un resoconto molto accurato di Palermo. Da lì probabilmente ritornò in Spagna via mare e giunse in Castiglia; l’itinerario si conclude con un quadro idealizzato della vita ebraica nel nord della Francia e in Germania6.
La notevole quantità di notizie di seconda mano inserite nell’opera, riferisce Colafemmina, ha fatto pensare qualche studioso che addirittura tutto il libro sia materiale di seconda mano7. Proprio per la notevole quantità di notizie inventate, il libro di Tudela ha sempre riscosso pareri discordanti. «Parecchi i detrattori, che ne hanno puntigliosamente additato le inesattezze e deriso le esagerazioni, arrivando a sostenere che tutto il racconto non sarebbe altro che l’invenzione di un letterato presuntuoso e maldestro. Molti gli apologeti, che in centinaia di pagine di pazienti glosse e precisazioni hanno dimostrato la buona fede e l’attendibilità dell’autore, addossando perlopiù la colpa degli errori all’ignoranza e alla distrazione dei copisti medievali»8. In effetti, «fantasia e realtà si mischiano e ciò che è stato letto su altre fonti si trasferisce sul diario (ne sono testimonianza le numerose citazioni della cronaca familiare di Ahimaaz ben Paltiel)»9. Per esempio, «Parlando di un popolo nomade ci narra: Sono senza naso, al suo posto hanno due buchi dai quali esce il fiato, mangiano animali sia puri che abominevoli, ma amano molto il popolo di Israele. Non mancano racconti apertamente mitologici che richiamano il peregrinare del re di Itaca Ulisse e i racconti di Marco Polo. Beniamino ci parla del grifone che cattura le sue prede sulle coste della lontana Cina e le divora sulle vette di monti inaccessibili:
Ma gli uomini hanno appreso, indossando pelli di buoi, come salvare la loro vita da questi luoghi maledetti. Quando il vento lo trascina alla deriva nel mare di Ning-Po, allora il marinaio impugna un coltello, indossa la pelle di bue e si abbandona al mare. A quel punto lo vede un volatile grande come un’aquila, il grifone, che prende il marinaio nascosto nella pelle del bovino e lo trasporta dove ha il suo nido sulla montagna. Quando la creatura si appresta a divorarlo, allora il naufrago lo colpisce a morte con la lama affilata del coltello. In tal modo molti hanno salvato la propria vita10.
Diverso invece quando Beniamino si rifà ad inoppugnabili fonti notarili parlando dei rapporti fra cristiani ed ebrei nelle comunità che visita, della consistenza delle famiglie ebree, della tassazione e dei regolamenti economici. «In sostanza nel Diario di Beniamino è fondamentale per una corretta ricostruzione storica, scevra di errori metodologici, separare la realtà dall’immaginazione, passando al setaccio le informazioni fornite dal testo nel loro complesso»11.
Occorre a questo punto lasciare il dotto Tudela per spiegare qual era, all’arrivo di Beniamino, la situazione nell’Italia meridionale e ad Otranto, riservando una particolare attenzione alla condizione degli ebrei nel sud Italia.
Il nostro sarà necessariamente uno sguardo prospettico non potendo lumeggiare in maniera esaustiva, nessuno dei tre temi di interesse segnalati in apertura. Bisogna allora fare un salto indietro nel tempo, quando tutto l’Impero occidentale era precipitato in un lungo stato di anarchia, dopo la deposizione di Carlo il Grosso nell’887. Il Regno italico fu praticamente disgregato in tanti potentati locali e conteso fra vari pretendenti al trono in asperrima lotta fra loro. I territori meridionali erano divisi fra vari domini: quello bizantino, quello longobardo, quello musulmano, a cui si sarebbe aggiunto quello normanno. Il potere bizantino era ampiamente stratificato in tutta l’Italia meridionale. Nell’892 era stato costituito il tema di Langobardia o Longobardia, dopo la presa di Benevento, che era composto dai territori sottratti ai longobardi latini in Basilicata e Puglia, compreso l’antico ducato di Otranto. Il tema, ossia la provincia bizantina, era retto da uno stratego la cui sede era a Benevento ed era poi stata spostata a Bari. Infatti, nell’876, sotto la minaccia degli Arabi, i Bizantini iniziarono la riscossa. La flotta bizantina, guidata dal baiulo Gregorio di Otranto, entrò a Bari e riconquistò all’Impero la Puglia e la Calabria settentrionale. L’altro tema meridionale era quello di Sicilia che, dopo la conquista dell’isola da parte dei Saraceni, quando lo stratego spostò la propria sede a Reggio Calabria, venne chiamato tema di Calabria.
In Puglia, il tema di Langobardia andava dal Salento, a sud, fino a Siponto, al nord, e comprendeva una parte della Basilicata del sud fino al confine con la Calabria. Naturalmente all’interno del tema bizantino esistevano vaste zone in mano ai Longobardi12.
Il terzo tema era quello di Lucania13. Bari era fin dall’Ottocento quasi stabilmente in mano bizantina. Benevento, dopo essere stata bizantina, passò nell’895 di nuovo in mano longobarda. La popolazione nel X secolo era composta in prevalenza da genti greche e latino-longobarde ma non trascurabile la presenza di musulmani, di armeni ed ebrei, specie nel Salento. La popolazione greca era concentrata in Calabria, in Basilicata e ancora nella Terra d’Otranto, mentre quella latina si concentrava nella Puglia settentrionale e anche in Basilicata14.
Nel 921 in Puglia scoppiò una grossa rivolta contro i bizantini sostenuta dal Principe di Benevento Landolfo I. Presso Ascoli Satriano venne sconfitto lo stratego di Langobardia, Ursoleo, e gli insorti presero quasi tutto il territorio pugliese15. Nel frattempo nell’Italia meridionale erano ricominciate le incursioni saracene. Tutta la Sicilia passava sotto il controllo della dinastia araba dei Fatimidi. Nel 918 vi fu la presa di Reggio e l’instaurazione del dominio arabo su buona parte del territorio calabrese. Nel 922 venne occupata Oppido Mamertina e nel 925 fu attaccata Taranto. Da qui gli invasori procedettero nell’interno fino ad Oria dove venne catturato il medico e sapiente ebreo Shabbatai Donnolo, riscattato poi a Taranto qualche mese dopo, mentre i genitori vennero venduti in Africa16.
Shabbĕtayֶ Donnolo, autore di un commento al Sēfer ha-Mirqāḥōt e soprattutto del Sēfer ha-Ḥakmōnī, la sua opera maggiore, fu un importante erudito di origine ebraica. Catturato appunto dai Saraceni e poi riscattato a Taranto, ebbe una formazione di eccellenza divenendo uno dei più importanti dotti dell’epoca. Viaggiò in tutta l’Italia meridionale bizantina. Probabilmente fu anche ad Otranto: «A lui, infatti, sembra riferirsi una lettera inviata presumibilmente dalla comunità ebraica di Bari, retta dalֶ medicoֶ Abrāhāmֶ benֶ Sāssōn,ֶ alֶ celebreֶ medicoֶ andalusoֶ Ḥasdāyֶ ibnֶ Shaprū-ṭ, visir dell’umayyadeֶ ‛Abdֶ ar-Raḥmānֶ III.ֶ Fraֶ iֶ notabiliֶ diֶ Otrantoֶ scampatiֶ
a una persecuzione che rifletterebbe localmente misure antigiudaiche adottate da Romano I Lecapeno nel 943-44,ֶ ilֶ documentoֶ (dallaֶ Gĕnīzāhֶ delֶ Cairo:ֶ Newֶ York,ֶ Jewishֶ Theo-
logical Seminar, ms. Adler 2156r, l. 20 s.) include infatti un “R.ֶ Shabbĕtayֶ |ֶ [barֶ A]brāhāmֶ
bar…”, forse identico a Donnolo»17.
Egli oltre all’ebreo conosceva il greco e il latino e le sue nozioni sulla scienza degli astri ebbero un influsso notevolissimo sugli studi venuti dopo, in particolare «vennero poi utilizzate e fatte proprie dai hasidim aschenaziti e dai cabalisti dei secoli XII e XIII, quando il Sēfer Ḥakmōnī sembrò eguagliare il prestigio del Ma‛ăsēh Merkābāh o delle stesse Hēkālōt (“Templi”ֶ oֶ “Palazzi”ֶ equivalentiֶ aiֶ “setteֶ cieli”ֶ oֶ “pianeti”),ֶ eֶ ilֶ “Commento”ֶ diֶ Donnoloֶ fuֶ reputatoֶ parteֶ originaleֶ del Sēfer Yĕṣīrāh,ֶ ilֶ miticoֶ “Libroֶ dellaֶ creazione”ֶ attribuitoֶ alֶ patriarca Abramo (composto con
buona probabilità fra i secoli III e VI d.C.)»18. Ad Oria fu fatto prigioniero dagli Arabi anche il rabbino ben Palṭī’ēlֶ cheֶ ebbeֶ laֶ stessaֶ sorte e venne deportato in Africa ma, grazie alle sue grandi competenze di astronomia ed astrologia, divenne consigliere del califfo al-Muīzzֶ diֶ Qayrawānֶ (952-975).
Discendente di questo ben Paltiel, è quell’Achimaz sopra citato, ovvero il rabbino Aḥīma‛aṣ, sempre di Oria, che nel 1054 compose l’opera SēferYūḥāsīn (Libro delle Genealogie), una cronaca famigliare molto importante per la storia degli ebrei oritani19. In termini generali, Oria, fra VIII e IX secolo, si poteva considerare proprio la roccaforte della presenza ebraica pugliese.
L’imperatore di Costantinopoli Romano I Lecapeno (920-944) concluse una trattativa col califfo fatimida Ubayd Allàh al-Mahdi che prevedeva il pagamento di un tributo per la liberazione dei territori occupati, ma già nel 926 l’emiro di Sicilia si impossessò di Taranto, compiendo un eccidio e proseguendo fino ad Otranto.
La presa di Otranto fu sventata solo per un’epidemia che contagiò la guarnigione araba, come riferisce l’annalistica barese. Venne inoltre presa Siponto e saccheggiata dai pirati slavi con cui gli arabi si erano alleati; poi fu la volta di Termoli. Nel 927 vi fu una ripresa delle ostilità da parte dei Longobardi che occuparono la Puglia per circa sette anni. I Bizantini fecero un’alleanza col Re d’Italia Ugo di Provenza e inviarono dei contingenti che riuscirono ad avere la meglio nel 934. Nel 947 in tutto il tema della Langobardia vi fu una invasione da parte degli Ungari, secondo Lupo Protospatario20. Nel 976-977, gli Arabi attaccarono Gerace e l’esercito bizantino batté in ritirata rifugiandosi ad Otranto. Nell’anno 977 le stesse fonti coeve riferiscono di un ulteriore saccheggio ad Oria21.
Ebrei erano stanziati in molti comuni salentini, dediti prevalentemente alle attività mercantili, essendo loro precluse le cariche civili. Il Guillou dice che, quando i Saraceni espugnarono Oria nel 925, strapparono agli israeliti fra l’altro «drappi di seta con disegni e colori, dei gioielli e delle monete»22, il che fa pensare che dovevano essere i produttori di questa preziosa stoffa di seta. Molti gli intellettuali. Proprio nella comunità ebraica di Otranto fiorì il poeta Menachem Corizzi, nel X secolo23.
Durante le persecuzioni ebraiche avviate dall’Imperatore Romano I, una fonte abbastanza lacunosa informa che anche ad Otranto la persecuzione fu molto violenta, durò due giorni, siamo nel 943-944, e molti capi della comunità ebraica, come rabbi Jesa’ja, rabbi Menachem ed Elia, si diedero la morte per non cadere in mano dei carnefici, non prima di aver salvato i libri sacri24.
Con l’avvento dei Normanni, Houben, rifacendosi al Palmieri25, parla di un clima generalmente persecutorio nei confronti degli ebrei e cita a conferma come fonti la Storia dei Normanni di Amato di Montecassino, il Tractatus de Passione Domini di Pescara del 1062 e un documento del 1191 in cui si menziona l’espulsione degli ebrei da Lanciano avvenuta nel 1156, e quindi passa in rassegna una serie di episodi locali di violenza ed abuso26.
In realtà, analizzando la situazione soprattutto della Sicilia sotto il regno di Ruggero II (1130-1154), lo studioso ne ricava che il periodo fu caratterizzato da una sostanziale tolleranza nei confronti degli ebrei (dimostra infatti la falsità di alcuni dei documenti succitati) come delle altre minoranze etniche presenti sull’isola in cui convivevano cristiani e musulmani, etnie latine e greche, arabe ed ebraiche. Riportando minuziosamente molti documenti coevi, Houben conclude che nel Mezzogiorno normanno svevo fu un’epoca di relativa tranquillità per gli ebrei i quali, pur essendo considerati dei gruppi sociali inferiori, non patirono particolari restrizioni rispetto ai tempi precedenti o a quelli successivi. Il clima iniziò a cambiare con Federico II (1198-1250). Per esempio, in uno Statuto della città di Palermo, gli ebrei eranoֶ nominatiֶ insiemeֶ conֶ leֶ prostitute,ֶ iֶ “tabernari”ֶ eֶ iֶ “bucherii”.ֶ
Ilֶ cronistaֶ Riccardoֶ diֶ Sanֶ Germanoֶ menzionaֶ unֶ decretoֶ diֶ Federicoֶ II del 1221 contro giocatori, prostitute, giocolieri ed ebrei27.
Manca però nel Mezzogiorno normanno svevo l’obbligo per gli ebrei di abitare in un loro ghetto. «Le giudecche, attestate in questo periodo in molte città, erano quartieri dove gli ebrei abitavano non costretti a ciò dalle autorità, ma per libera scelta, in quanto in questo modo era più facile conservare la tradizionale forma di vita»28.
In altri studi29, Houben conferma che nella prima fase della conquista e della affermazione del dominio normanno nell’Italia meridionale, fino alla morte di Ruggero I (1101), i Normanni favorirono una politica di sostanziale tolleranza nei confronti delle minoranze religiose dei musulmani e degli ebrei presenti in Sicilia e nel continente. Essi furono attenti a rispettare l’elemento greco ortodosso che era preponderante su territori di conquista bizantina. Sicché i nuovi dominatori accolsero non solo la cultura greca cristiana ma anche gli esponenti di questa cultura nei ruoli amministrativi, favorendo in un primo momento i monasteri greci. Anche la religione islamica veniva accettata e anzi Ruggero I, dopo la conquista della Sicilia, inserì nell’esercito regio un cospicuo contingente di musulmani30.

Sotto Ruggero II continuò il clima di generale tolleranza verso le altre religioni e anzi si rafforzò la diffusione della cultura greca che era fiorente nella corte regia, al pari di quella araba. L’influenza dei costumi musulmani era tanto più forte se si pensi che fra gli eunuchi di palazzo e le donne dell’harem, come riporta la fonte coeva di Ugo Falcando, quella palermitana assomigliava sempre più ad una corte orientale. Del pari, Ruggero II, mecenate delle arti e della cultura, incoraggiava le traduzioni arabe31. Egli indossava un manto con decorazioni arabe e un parasole secondo il modello dei Fatimidi egizi come insegna del potere e insomma tutto confermava, spiega Houben, la notaֶ espressioneֶ diֶ Micheleֶ Amariֶ riferitaֶ aֶ Ruggeroֶ diֶ unֶ “sultanoֶ battezzato”32.
Ruggero assicurava a tutti i popoli del suo regno libertà di professare il proprio culto e rispetto per le loro consuetudini. Con Guglielmo I e Guglielmo II iniziò una certa inversione di tendenza soprattutto nei confronti dell’elemento arabo, mentre la situazione delle comunità ebraiche restava relativamente buona, il che è riaffermato proprio da Beniamino di Tudela che parla di tante realtà fiorenti.
L’Imperatore Enrico VI (1190-1197) confermò ad ebrei e musulmani i loro antichi diritti, come informa Ruggero di Howden nella sua Chronica33. Federico II colmò il vuoto lasciato dalle deportazioni dei musulmani rimpiazzando questi ultimi con gli ebrei siciliani arabizzati. Essi si segnalarono soprattutto in campo culturale con le importanti traduzioni dei libri arabi. Ma anche nel campo dell’agricoltura Federico II sostituì i musulmani fuggiti o deportati con ebrei provenienti dall’Africa settentrionale o dalla Spagna34.

Tuttavia le comunità ebraiche rimanevano dei gruppi sociali svantaggiati. Riccardo di San Germano cita i già menzionati provvedimenti emanati da Federico II contro giocatori d’azzardo, prostitute, giocolieri ed ebrei, e poi il provvedimento secondo cui gli ebrei dovevano indossare indumenti particolari per farsi riconoscere35. Le Costituzioni melfitane permettevano agli ebrei di prestare il denaro con un tasso di interesse fino al 10%. Questo segna una tappa fondamentale nella loro storia perché da quel momento, essendo il prestito di denaro un’attività proibita ai cristiani, essi ne detenevano il monopolio, il che avrebbe portato poi alle note accuse di usura. Tommaso d’Aquino, nel De regimine Judaeorum, scrive che per impedire che gli ebrei fossero dediti solo all’usura, occorreva metterli nelle condizioni di guadagnarsi da vivere con il lavoro36. È nella seconda metà del 1200 che si accentua l’odio antiebraico e nell’Italia meridionale avvengono molte conversioni forzate. A causa dei francescani e dei domenicani poi, fra Trecento e Quattrocento, si giungerà ai noti eccessi37.
Houben riporta diversi documenti che riguardano denunce fatte da comunità ebraiche in merito a soprusi, ovvero ricatti, furti, scassi commessi dai funzionari nei loro confronti, fra Napoli, Agrigento, Gravina38, Trani, Nicotera39.
Tuttavia, come detto, nel periodo normanno le comunità ebraiche si mostrano ancora sostanzialmente integrate localmente, stando anche all’Abulafia 40. Come sottolinea Filena Patroni Griffi, le giudecche erano sotto la giurisdizione vescovile 41.
Nell’XI secolo giunsero dalla Spagna araba e cristiana e dalla Francia meridionale moltissimi intellettuali nell’Italia del sud, come il filosofo Abraham ibn Ezra di Toledo, dotto esegeta, astrologo, medico e poeta, che soggiornò a Salerno, intorno al 1140, così come il suo discepolo, Shelomoh ibn Parchon di Calatayud, autore di un vocabolario di lingua ebraica, qualche anno dopo42.
A Siponto, viveva il poeta Anan bar Marinos43. Questa città, scrive Colafemmina, «occupava in quel tempo un posto di rilievo nella cultura ebraica. Fiorivano in essa poeti e commentatori dei testi sacri e legislativi. L’impulso per gli studi giuridici veniva dalle lontane rive del Tigri, dove diversi ebrei sipontini si erano recati per ascoltare, all’accademia Pumbedita, le lezioni di R. Hai Gaon (998-1038). Tra i poetiֶ siֶ distinse,ֶ allaֶ fineֶ dell’XI secolo, R. Anan ben Marinos». Cita poi Ysaac ben Meichisedeq (c. 1090-1160), il padre di R.Yudah, «il primo italiano che abbia commentato la Mishna»44.
Numerose le testimonianze di presenze di ebrei documentate da vari atti nelle città calabresi e campane, mentre a Lecce una presenza ebraica certa si attesta solo dalla metà del XIV secolo45. Tuttavia il Guerrieri parla di una presenza ebraica a Lecce già in età normanna46.
Fiorente la comunità ebraica di Salerno, fin dalla fine del X secolo47.
Anche a Napoli, fra XI e XII secolo era una fiorente comunità ebraica48, così come a Benevento49. La testimonianza più antica sulla presenza ebraica a Trani è proprio quella di Beniamino di Tudela50.
Diverse attestazioni riguardano altre comunità minori come Gaeta51, Melfi, Ascoli Satriano, Candela, oltre a Taranto52 e Brindisi, dove Beniamino segnala la presenza di una tintoria53. In effetti l’attività artigianale pare fosse molto diffusa, anzi fosse quella prevalente nel periodo di cui ci stiamo occupando.
«Nel XII secolo, la presenza ebraica nel Mezzogiorno peninsulare prende significato essenzialmente dalla diffusione degli insediamenti, già sensibile, benché a volte con nuclei minori, e dal lavoro artigianale. La tintura dei panni, praticata in quasi tutte le località, rappresentava un contributo economico concreto nelle realtà locali, e appare come la forma più effettiva della partecipazione ebraica alla vita meridionale»54.
Scrive Houben: «Nell’Italia meridionale e in Sicilia gli ebrei erano per lo più impiegati nell’artigianato, nel commercio, nell’agricoltura, nell’arte medica. Nel Mezzogiorno normanno le tintorie e la produzione dei tessuti erano probabilmente interamente in mano agli ebrei»55. Sono inoltre attestati «ebrei orciolai, produttori di otri e proprietari di vigneti. Non mancarono naturalmenteֶ iֶ mediciֶ […]ֶ Infineֶ troviamoֶ ebrei che lavorano come carpentieri»56. A Venosa sin dal IV secolo d.C. vi era una fiorente comunità ebraica che viveva pacificamente accanto ai Cristiani57.
La comunità ebraica di Melfi, di cui parla Beniamino di Tudela, è attestata per la prima volta nel 1093 quando il duca Ruggero Borsa donò alla chiesa di Melfi, fra l’altro, omnes Judeos58.
«Dato che la grande comunità ebraica della vicina Venosa dopo il secolo IX non è più attestata», scrive Houben rifacendosi a Colafemmina59, «si potrebbe ipotizzare che gli ebrei di Venosa, forse espulsi dalla città nell’ambito della persecuzione degli ebrei nell’Italia meridionale dopo l’avvento al trono di Basilio I (867-886), sopravvissero in qualche maniera nel secolo X, per poi insediarsi, nel secolo XI, a Melfi»60. Sacche di intolleranza insomma restarono sempre ben presenti. Le conversioni forzate degli ebrei furono portate avanti in tutti i territori dell’Impero61. Ne parla, nell’opera Sēfe-rYūḥāsīn (Libro delle Genealogie)62, proprio ilֶ rabbinoֶ Aḥīma‛aṣ, il quale racconta che gli inviati di Basilio I si imbarcarono da Otranto per promulgare il decreto imperiale in tutto l’Impero.
«A Rabbi Shefatiah, antenato dell’autore, avrebbero portato una crisobolla, ovvero un invito a recarsi a Costantinopoli dove egli avrebbe dovuto sostenere un duello retorico con l’Imperatore stesso di confronto fra cristianesimo ed ebraismo. Il dotto Shefatiah uscì vincitore dal confronto e per questo l’Imperatore gli diede l’incarico di liberare la figlia da una possessione diabolica. Shefatiah riuscì nell’impresa e per gratitudine Basilio I con un crisobolla esentò la città di Oria, unica in tutta l’Italia meridionale, dalla persecuzione antiebraica»63.
A Bari il quartiere ebraico venne saccheggiato e dato alle fiamme dai seguaci del partito filo-bizantino nella primavera del 1051 64.
Nel 1062 a Pescara la sinagoga venne trasformata in chiesa e gli ebrei furono costretti a fuggire65. Landolfo VI principe di Benevento avviò una intensa campagna di conversioni forzate nei suoi territori 66. Potremmo citare altri esempi ma ci fermiamo qui.

Ci chiediamo a questo punto quale fosse più dettagliatamente la situazione ad Otranto. Per quanto riguarda le vicende storiche della città, diciamo che quella intorno ad Otranto era zona ellenofona. In tutta la Terra d’Otranto, l’elemento greco si presentava molto più radicato rispetto al resto della Puglia. Alla maggioranza greca della popolazione si univano tante diverse etnie e cioè, oltre a quella longobarda, quella albanese e quella ebrea. La dominazione bizantina permeava buona parte del territorio pugliese, con un processo di assimilazione della cultura greca che coinvolgeva anche Otranto. Con l’avvento al potere di Basilio I e la dinastia macedone, questa predominanza divenne schiacciante. L’elemento latino-longobardo in questi secoli era ancora fragile e la convivenza fra chiesa greca e chiesa latina molto difficile. Costantinopoli non tollerava l’arroganza del Pontefice romano che si proclamava unica guida di tutta la cristianità; il Papa era considerato solo un primus inter pares fra i vari patriarchi e del tutto ingiustificate parevano le sue pretese di supremazia. Con il Patriarca Fozio si sfiorò lo scisma, nella polemica sul cosiddetto filioque. Tuttavia la questione fu sospesa in seguito alla destituzione di Fozio decisa dal Concilio di Costantinopoli dell’869-870. Fu l’Imperatore Basilio I a spingere per una soluzione di compromesso salvaguardando così l’unione delle due chiese.
Marco, arcivescovo di Otranto, nell’879 fu l’unico prelato pugliese a partecipare al concilio di Costantinopoli convocato da Fozio. Un altro Marco, poeta e successivo arcivescovo di Otranto, quand’era nel monastero di S. Mocio a Costantinopoli, fu protagonista di un episodio eroico in quanto salvò la vita all’Imperatore Leone VI (886-912) da un attentato ordito contro di lui e fu per questo merito che venne promosso ad arcivescovo di Otranto. Ce ne informa la von Falkenhausen riportando come fonte Cesaretti67, e portando a conferma della notizia anche un passo dell’opera del teologo Nilo Doxapatres, Taxis ton patriarkikon Tronon, del 1142-43, dedicata a Ruggero II di Sicilia68.
Nel periodo bizantino la diocesi di Otranto, come quella di Gallipoli, apparteneva direttamente al patriarcato di Costantinopoli. Nell’830, scrive Jacob, Otranto è già diocesi bizantina, il cui titolare è fautore dell’iconoclastia69. In seguito ai tentativi dell’Imperatore d’Occidente Ottone I (962-973) di conquistare anche l’Italia centro-meridionale e quindi alle numerose insurrezioni dei dignitari locali (su tutte quella del principe longobardo Pandolfo I di Capua) contro il potere bizantino, l’Imperatore d’Oriente Niceforo II (963-969) sostituì il tema di Longobardia con il Catepanato d’Italia e nell’ambito della nuova politica ecclesiastica il patriarca di Costantinopoli promosse l’arcivescovo di Otranto (forse all’epoca Pietro) a metropolita70, e siamo nel 968, poiché Otranto era in quel momento la città più importante della Puglia appartenente alla giurisdizione del patriarca di Costantinopoli (all’epoca, Polieucto).
La notizia viene data da Liutprando di Cremona, legato di Ottone I, il quale nel 968, di ritorno dalla sua missione a Costantinopoli presso l’Imperatore Niceforo II, venendo da Naupatto, sbarcò ad Otranto71. Diocesi suffraganee di Otranto, stando a Liutprando, erano Matera, Gravina, Acerenza, Tricarico, Tursi72. La documentazione su Otranto in età bizantina, resta comunque molto scarsa, come sottolinea la von Falkenhausen73.
In questo periodo, per le sue possenti fortificazioni e per il suo porto, Otranto doveva svolgere un ruolo primario in quanto base delle più importanti rotte commerciali dell’Adriatico e testa di ponte fra Occidente ed Oriente.
Il porto otrantino rivestiva dunque una funzione non solo strategico-militare ma anche commerciale74. La città viene infatti menzionata nel trattato geografico di Paolo Diacono: De Terminatione provinciarum Italiae75, e nella successiva redazione De provinciis Italiae seu Catalogus provinciarum Italiae76; inoltre, nella sua opera maggiore, Historia Langobardorum (II, 21), in cui parlando dell’Apulia, dice: «Ha città molto opulente, come Lucera, Seponto, Canosa, Agerenza, Brindisi, Taranto e, sul corno sinistro dell’Italia, che si estende per cinquanta miglia, Otranto, centro di commerci»77.
Terra di transito, Otranto è toccata da viaggiatori, pellegrini, diplomatici e regnanti nel corso dei secoli. Nell’800, il monaco bizantino Gregorio Decapolita passò da Otranto nel suo viaggio dalla Sicilia alla Grecia e qui, scrive, incontrò dei soldati saraceni dai quali si salvò miracolosamente78.
Nell’opera di Ibn Hauqal, La configurazione della terra79, del 977, Otranto non è menzionata ma sulla carta geografica del Golfo dei Veneziani (vale a dire il Mar Adriatico), sono indicate Butritto, in Albania, e Otranto80.
Nel 968 il già citato Liutprando da Cremona, sbarca ad Otranto81. Lo studioso arabo Edrisi, presente alla corte di Ruggero II di Sicilia, compilò fra il 1139 e il 1154 un’opera geografica sul Regno di Ruggero e sull’intera penisola italica82. Nella sua narrazione, Otranto si presenta come «città di antiche vestigia, molto popolosa», con «mercati frequentati e vivo commercio»83.
Con il passaggio alla dominazione normanna, non si eradicarono la lingua ed il costume greci né ad Otranto né nel vasto enclave di rito greco in cui la città si collocava. Anzi, l’influenza bizantina era favorita dal massiccio afflusso sulle nostre coste di religiosi orientali di rito greco genericamente definito basiliano84. Ciò è evidente dalla cospicua bibliografia sulla produzione letteraria locale di quei tempi, tutta fortemente improntata alla cultura greca, ed è confermato dalla fondazione del Monastero di Casole ad opera del monaco Giuseppe nel 1098-9985, dalla fondazione della Cattedrale di Otranto, consacrata nel 1088, sotto il pontificato di Urbano II (1088-1099), ed edificata su committenza dell’arcivescovo Ugo e del successore Guglielmo, e ancor più dallo spettacolare pavimento musivo commissionato dal metropolita Gionata, attestato tra il 1163 e il 1179.

Il Monastero di Casole, con il suo Scriptorium, la scuola e la Biblioteca, divenne un centro culturale importantissimo nel Salento bizantino tanto che si creò intorno a questo monastero un alone di leggenda che lo ha accompagnato fino ad oggi in quanto un po’ enfaticamente considerato anello di congiunzione fra la cultura greca e quella latina, luogo in cui si realizzò una mirabile fusione fra Oriente ed Occidente. Sul monastero di Casole vi è stata infatti una messe di studi abbondante86, almeno quanto quella sul mosaico pavimentale87. L’edificio più emblematico dell’influenza bizantina ad Otranto comunque resta la Basilica di San Pietro, gioiellino incastonato fra le mura della città vecchia88.
Secondo Guglielmo di Puglia, Otranto riconobbe subito il dominio dei nuovi conquistatori, con Unfredo d’Altavilla89. Tuttavia Houben si affretta a smentire il poeta, considerando che le città di Oria e di Brindisi soltanto nel 1062 furono conquistate dai Normanni per tornare subito sotto il dominio bizantino90. Nel 1051 fece il suo ingresso in città Argiro, figlio di Melo di Bari, nuovo Catepano bizantino per l’Italia meridionale, sotto il regno dell’Imperatore Costantino IX (1042-1055)91.

Secondo il Chronicon Breve Northmannicum, la prima conquista di Otranto da parte dei Normanni sarebbe avvenuta già nel 1055 e la città sarebbe poi stata riconquistata dai Bizantini nel 106092. In realtà Otranto fu conquistata nel 1064 da un conte di nome Goffredo, probabilmente Goffredo di Taranto, ne parla l’Anonymus Barensis93, ma la cosa fu di breve durata e poi venne riconquistata da Roberto il Guiscardo nel 106894, quando i Normanni espugnarono la città con un assedio molto duro e gli abitanti furono costretti a capitolare per la fame.
Bisogna poi ricordare che in seguito alla rivolta di Giorgio Maniace, Otranto fu anche sede, sia pure per un brevissimo periodo, fra il 1042 e il 1043, del Basileus, ovvero dello stesso Maniace che si era autoproclamato nuovo Imperatore d’Oriente95.
Sotto Roberto il Guiscardo, Otranto ebbe un ruolo importante specie per via del suo porto, come confermano Goffredo Malaterra e Anna Commena96. Fu proprio da Otranto che Roberto partì nel 1081 per la sua spedizione contro Bisanzio e ad Otranto ritornò nel 1082 per reprimere la rivolta sorta contro di lui in Puglia97. Il cuore e le viscere di Roberto il Guiscardo, morto il 17 luglio 1085 a Cefalonia, furono sepolti proprio ad Otranto invece che nella SS. Trinità di Venosa, mausoleo della famiglia degli Altavilla, e ciò perché nel viaggio di ritorno la nave fu colpita da una terribile mareggiata e naufragò, cosa che spinse la vedova Sichelgaita a decidere di deporre le spoglie del marito, già in avanzato stato di decomposizione, ad Otranto98.
Come informa Goffredo Malaterra, durante il primo soggiorno del Guiscardo ad Otranto, fra il 1070 e il 1071, prima della spedizione in Sicilia, il condottiero normanno fece radere al suolo una asperità del terreno che rendeva difficoltoso per l’equipaggiamento delle navi il percorso dalla città al porto99. Il porto in quel tempo non era abbastanza sicuro, come informa Guglielmo Apulo, che riferisce della spedizione del 1084 del Guiscardo a Corfù contro i Bizantini appoggiati dai Veneziani100. Il Guiscardo, secondo il poeta, preferì il porto di Brindisi che assicurava una navigazione più tranquilla poiché le tempeste autunnali rendevano molto pericoloso il canale d’Otranto, nonostante quel tratto di mare fosse relativamente più breve101. Secondo Anna Commena invece il Guiscardo avrebbe preferito Otranto per la minore distanza102 e così anche secondo Malaterra la spedizione sarebbe partita da Otranto 103.

Durante l’età normanna la città beneficiò del generale clima di avanzata economica che coinvolgeva tutto il regno di Sicilia, ovvero «quel grande spazio economico euromediterraneo dell’Occidente», come scrive Poso104, fondato sull’integrazione etnica, sociale, religiosa, che visse l’Italia meridionale sotto Ruggero II.
Otranto, con l’età delle Crociate, era uno degli scali commerciali più importanti del Meridione, specie nei suoi legami con Antiochia in Siria, sotto la signoria di Boemondo d’Altavilla il quale, oltre ad essere titolare di un vasto dominio feudale nell’Apulia, che comprendeva Bari, Taranto e Gallipoli, era il signore del Principato di Antiochia, uno degli stati crociati formatisi in Oriente105. Grazie ai restaurati buoni rapporti con Venezia, dopo che questi si erano interrotti a causa dell’aiuto prestato dai Veneziani all’imperatore Alessio Comneno nella guerra fra Normanni e Bizantini del 1081-1085, ora Otranto diventava l’ultimo approdo per i traffici commerciali domestici della potente repubblica marinara 106.
In occasione dello scisma del 1054, l’arcivescovo metropolita di Otranto, Ipazio, si trovava a Costantinopoli, unico prelato italiano di fede bizantina, quando il patriarca Michele Cerulario firmò la famosa bolla contro il papa Leone IX (1049-1054)107.
L’importanza di Otranto, oltre che dal porto, era data dalla solida fortificazione che circondava la città. Sulle mura di cinta di Otranto si intrattiene Poso il quale ricorda l’aneddoto riferito da Cecaumeno, autore dello Strategicon, sull’attacco normanno del 1064 allorquando, cingendo i Normanni d’assedio la città, difesa da una guarnigione di Russi e di Variaghi, Otranto venne conquistata e sottratta ai Bizantini con uno stratagemma: «essi, infatti riuscirono ad introdursi di nascosto all’interno dell’abitato, passando attraverso l’abitazione di proprietà della nipote del comandante bizantino, che era stata edificata direttamente a ridosso della mura»108. Dell’espugnazione di Otranto ad opera del conte normanno Goffredo di Taranto parla anche la cronaca dell’Anonimo Barese 109. Otranto era difesa dal comandante Malapezza. Questi, quando si accorse che non c’era più niente da fare, fuggì, lasciando in mano ai nemici la moglie e la figlia 110. «Benché si tratti ovviamente di uno stratagemma da manuale (secondo Amato di Montecassino, un altro contemporaneo, la città fu presa con le armi e per fame), la storia rispecchia l’antica fama di Otranto di essere una fortezza inespugnabile»111.
Ruggero II per la sua campagna militare contro la Grecia si imbarcò proprio da Otranto nell’autunno del 1147, come sostiene Romualdo Salernitano, mentre secondo Niceta Coniata la flotta normanna partì da Brindisi112.
Con il successore di Roberto il Guiscardo al trono, ovvero Ruggero Borsa, Otranto perdette la centralità che precedentemente aveva avuto, a favore di Brindisi.

Il centro più importante divenne Lecce, certamente per la sua più favorevole posizione geografica. Lecce diventò contea con Tancredi, figlio illegittimo del duca Ruggero e nipote di Ruggero II, re di Sicilia, e che succederà poi a Guglielmo II sul trono dal 1190 al 1194113. Dopo la morte di Tancredi nel 1194, il regno di Sicilia passò a Costanza d’Altavilla ed Enrico VI Honestaufen e il regno fu unito al Sacro Romano Impero. Il papa Innocenzo III (1198-1216), reggente per il giovane Federico II, avverso alla cosiddetta unio regni ad imperium, si alleò con Gualtieri di Brienne, genero di Tancredi, che rivendicava la contea di Lecce e il principato di Taranto. Ma nel 1203 Otranto, come Matera e Brindisi, si ribellò al Brienne.
Nonostante il rilievo commerciale di Otranto in questo periodo la città dal punto di vista politico comincia a perdere peso. L’attività commerciale è comunque testimoniata dalle numerose monete bizantine del X e XI secolo ritrovate durante le varie campagne di scavi. E inoltre il porto di Otranto è inserito nel Liber de existencia riveriarum et forma maris nostri Mediterranei, una carta nautica di origini pisane redatta fra il 1160 e il 1200 114, e inoltre in due note fonti del Duecento, cioè l’Iter de Londinio in Terram Sanctam, in cui è raffigurata la mappa riguardante l’itinerario pugliese, redatto intorno al 1253 da Matteo Paris, monaco di Sant’Albano, che indica Otranto come la prima città portuale toccata dai pellegrini che ritornavano da Acri in Puglia115, e la relazione di un anonimo viaggiatore inglese in Terra Santa che parte da Avignone nell’ottobre 1344 ed è costretto ad una lunga sosta forzata ad Otranto a causa della presenza di pirati116. Ma con queste opere, andiamo oltre i confini temporali del saggio.
Il già citato viaggiatore Edrisi, o Al Idrisi, al servizio di Ruggero II, parla di Otranto nella sua cronaca di viaggio117. Scrive El Edrisi «È Otranto città di antiche vestigia, molto popolosa: ha mercati frequenti e vivo commercio. Il mare ne lambisce le mura da tre lati, essendo unita al continente da tramontana. Ha un fiume che venendo da tramontana ne trapassa da vicino la porta, corre lungo il Golfo dei Veneziani [Mare Adriatico] verso la città di .’br.ntis’, o, come altri dice, .’br.ndis’ [Brindisi] che ne è lontana quaranta miglia, ed ivi mette foce»118. Edrisi compilò la sua opera geografica intorno al 1152 119. Dello stesso anno è l’opera Il compasso da navigare 120. Il Compasso contiene un portolano ad uso dei naviganti, una carta nautica del Mediterraneo e un dettagliata descrizione delle coste della Puglia e del Mediterraneo, fornendo le distanze fra i vari punti di approdo e le indicazioni per eseguire le manovre di entrata nel porto e di sbarco, inoltre le rotte da seguire per tutto il Mediterraneo. Le due opere consentono di individuare il sistema stradale nel quale Otranto era immersa nel periodo normanno-svevo su cui però, come già detto, esiste una scarsissima documentazione121. Si possono così ricostruire i percorsi già romani su cui insistevano le varie città pugliesi e salentine, le distanze, le principali direzioni nonché la loro forma urbana122. Per Otranto se ne trae che la città fosse in una posizione davvero favorevole perché «al centro di un sistema di comunicazioni che la collegavano con il nord della regione, con l’entroterra del paese verso occidente in direzione di Taranto e dei centri della Lucania, e con la Grecia per la via naturale dell’Adriatico. Posizione ideale ancora non solo dal punto di vista economico, dei traffici, ma anche culturale, in quanto sede metropolitica greca con un ampio distretto di circa centocinquanta circoscrizioni minori (fra chiese e parrocchie)»123.
Durante le Crociate, appunto, Otranto riveste una funzione fondamentale per l’imbarco verso Durazzo o Valona dei pellegrini diretti in Terrasanta. Per l’imbarco dei pellegrini verso Gerusalemme, l’inglese Sevulfo, nella Certa relatio de situ Ierusalem124, riferisce il suo viaggio a Gerusalemme compiuto negli anni 1102-1103. Secondo il viaggiatore i pellegrini che si dirigevano in Terra Santa avevano la possibilità di imbarcarsi a Bari, Barletta, Siponto, Trani oppure Otranto, che era l’ultimo porto della Puglia125. Così anche per l’imbarco dei crociati provenienti dalla Francia, Roberto Monaco menziona Otranto 126. Secondo l’anonimo autore dei Gesta Francorum, gli scali maggiormente utilizzati per i crociati erano Bari, Brindisi e Otranto127.
La potenza di Otranto si accrebbe col privilegio ottenuto da Federico II nel 1219 che, oltre a confermare i già cospicui beni della mensa arcivescovile idruntina, concesse i casali di Uggiano, Quattro Macine, Giuggianello, Miggianello. Gli arcivescovi di Otranto erano fra i più ricchi prelati di Puglia128.
La città ospitò il soggiorno di Federico II e sua moglie Iolanda di Brienne nell’agosto-settembre 1227, dato confermato da tutte le fonti, come Riccardo di Sangermano129.
La situazione sotto Manfredi, successore di Federico II, morto nel 1250, e di Corrado IV, morto nel 1254, si fece invece difficile. Manfredi era avversato dal papa Innocenzo IV (1243-1254) e da buona parte dei territori da lui controllati, dove esplosero delle ribellioni antisveve. In Puglia insorsero prima Brindisi, poi Otranto, Lecce, Oria e Mesagne130.
Solo Nardò rimase fedele allo svevo ma dovette soccombere quando nel 1255 venne attaccata dalle truppe brindisine, cui si erano aggiunti gli otrantini insieme ad altre milizie antisveve, che riportarono una cruenta ma importante vittoria sulla città neretina menando violenta strage. Quasi tutta la Puglia quindi restò con il papa Alessandro IV (1254-1261). Ad Otranto vennero assegnati nel 1256 una serie di territori dell’entroterra in feudo e fu inviato un amministratore di nomina papale, Baldovino de Viczo de Soana, con funzioni di podestà. In generale i papi furono prodighi di concessioni nei confronti delle città che erano rimaste a loro fedeli ritenendo il territorio pugliese come tutto il Regno dell’Italia meridionale rientrante nei domini pontifici. Allo stesso modo, i pontefici conferivano i titoli feudali e dispensavano benefici pretendendo anche il rispetto degli obblighi cui le città meridionali erano tenute 131.

Dopo la sconfitta e la morte di Manfredi a Benevento nel 1266, la corona di Sicilia passò a Carlo I D’Angiò, incoronato dal papa Clemente IV (1265-1268). Con l’arrivo in Italia di Corradino di Svevia nel 1267, molta parte dell’Italia meridionale, a cominciare dalla Sicilia, insorse contro il D’Angiò. In Puglia, insieme a Lecce, Gallipoli, Taranto, Brindisi, si sollevò anche Otranto, sottoposta poi a dura repressione da parte del D’Angiò che sconfisse Corradino, il quale fu processato e giustiziato il 29 ottobre 1268.
Anche sotto gli Angioini, Otranto, nonostante avesse partecipato alle sollevazioni del 1268, mantenne il suo status di città demaniale e il suo ruolo di città episcopale e non si arrestò la crescita economica, sempre favorita dal porto per il quale, anzi, un provvedi-mento di Carlo I D’Angiò prevedeva dei lavori di ammodernamento132. Il D’Angiò infatti ordinò lavori essenziali di ampliamento e ristrutturazione anche dei porti di Brindisi, Manfredonia e Trani, «in considerazione della posizione strategica che i porti della Puglia meridionale potevano avere nella navigazione con l’Oriente, uno dei principali obbiettivi politici del sovrano, ma anche per evidenti ragioni commerciali e fiscali»133.
Ritorniamo ora al viaggio di Beniamino nell’Italia Meridionale.
A Salerno, all’epoca celebre scuola di medicina, Tudela incontra importanti personalità della comunità giudaica. Parla di circa seicento famiglie, menzionando al primo posto R. Yudah, figlio di R. Ysaac ben Melchisedeq134. Da Salerno passa ad Amalfi in cui ammira i grandi vigneti, i deliziosi giardini, oltre alla bellezza della costiera.
Dopo Benevento, giunge a Melfi, in territorio pugliese. È nota l’importanza storica di Melfi, che era stata la prima capitale del regno normanno nell’Italia meridionale. Melfi, oltre a quella politica, rivestiva una grandissima importanza commerciale, essendo città mercantile dove erano presenti contingenti di pisani, veneziani, genovesi, ecc. Numerosa quindi anche la presenza ebraica attirata naturalmente dalle possibilità degli scambi.
Beniamino menziona R. Achimaz, R. Nathan e R. Ysaac135. Dopo Melfi raggiunge Ascoli Satriano, comunità in cui sono presenti una quarantina di famiglie ebraiche «alla cui guida si trovano R. Qonsoli, R. Zenach, suo genero, e R. Yosef». A due giorni di cammino è Trani, città importantissima all’età dei Normanni soprattutto per il suo porto che la rendeva uno scalo commerciale di prim’ordine ed una tappa obbligatoria per l’imbarco verso il Vicino Oriente. È normale quindi che fosse punto di confluenza di pellegrini e crociati diretti in Terra Santa. Circa duecento famiglie ebree sono presenti in città, in prevalenza commercianti, artigiani e prestatori di denaro, una fiorente comunità dunque, anche dal punto di vista intellettuale, con la presenza di numerosi letterati, commentatori delle Sacre Scritture e poeti. «Guidano la comunità R. Elia, R. Nathan il Predicatore e R. Yacob». In città erano presenti ben quattro sinagoghe poiché il numero degli ebrei ivi stanziati era in continua crescita. «Laֶ costruzioneֶ diֶ benֶ quattroֶ sinagogheֶ eֶ laֶ fiorituraֶ diֶ uominiֶ comeֶ Isaiah ben Malii e Isaiah ben Elia da Trani (sec. XII-XIII), commentatori insigni del Talmud e poeti, attestano l’amore per la pietà e lo studio degli ebrei in questa città»136. Non si ferma a Bari, poiché la città era stata distrutta da Guglielmo di Sicilia nel 1156 come punizione per il suo passaggio ai bizantini. «Colo di Bari, la grande città che il Re Guglielmo di Sicilia ha distrutto. Al presente non vi abitano israeliti, né gentili a causa della sua distruzione», scrive Tudela137. Non vi si potevano cioè trovare comunità ebraiche e se questa era la motivazione principale del viaggio, chiaro che la città di San Nicola, sulla cui storia si sofferma Colafemmina nel suo dotto commento138, non presentasse interesse per Beniamino. Bari infatti giaceva fra le rovine, se si esclude la basilica e l’area circostante139. Di fatto, «Bari non esiste più», scrive Licinio. «Esiste invece la città di san Nicola.ֶ Bariֶ èֶ sanֶ Nicola:ֶ “Coloֶ diֶ Bari”ֶ laֶ chiamaֶ l’ebreo Beniamino di Tudela, che vi fa tappa in quegli anni»140. Colafemmina parla poi della conversione all’ebraismo dell’arcivescovo di Bari Andrea. Le fonti cristiane passano sotto silenzio la conversione, che è invece attestata dalle fonti giudaiche. Secondo queste ultime, Andrea, condotto da Dio all’amore della Legge, avrebbe lasciato 1a sua patria, il suo grado sacerdotale e le sue caricheֶ onorificheֶ perֶ abbracciareֶ laֶ fedeֶ d’Israele. Egli si sarebbe fatto circoncidere a Costantinopoli verso i1 1066141.
Dunque Beniamino giunge a Taranto, certamente il centro più importante dal punto di vista commerciale dove dimorano trecento famiglie ebraiche. La città bimare, già fiorente centro longobardo, era passata poi ai Bizantini e in città convivevano il rito greco e quello latino, così come i due idiomi bizantino e longobardo insieme a quello ebraico e, in minima parte, anche arabo. Successivamente la città passa sotto il dominio dei Normanni. Beniaminoֶ diceֶ cheֶ Tarantoֶ siֶ trovaֶ “sottoֶ ilֶ regnoֶ diֶ Calabria”,ֶ conֶ unֶ evidenteֶ erroreֶ topografico poiché questo termine indica soltanto l’antico paese dei Bruzzi142. Le numerose epigrafi latino-ebraiche e greco-ebraiche in città testimoniano la presenza di una fiorente comunità giudaica.
Colafemmina svolge una attenta disamina documentaria sulle suddette epigrafi riportando una ricca bibliografia sulla presenza ebraica a Taranto, attestata da molti secoli143. Vi sono circa trecento famiglie, a capo delle quali si trovano R. Meier, R. Nathan e R. Israel. Anche la comunità ebraica di Taranto è sotto la giurisdizione del vescovo.
Beniamino giunge a Brindisi, probabilmente percorrendo l’antica Via Appia. A Brindisi è presente una modesta comunità ebraica, una decina di famiglie, che si occupavano dell’arte della tintoria, una delle attività maggiormente praticate dagli ebrei. «Questa cittaֶ ciֶ haֶ tramandatoֶ treֶ epigrafֶi deiֶ sec.ֶ VIII-IX in cui sono presenti brani dell’antichissimo rituale palestinese144. Nei primi decenni del II sec. fu a Brindisi il grande R. Aqiba ben Yosef, il quale, insieme con altri illustri maestri, ritornava in Palestina da uno dei viaggi che soleva intraprendere in cerca di sussidi e appoggi per gli ebrei della madrepatria per confortare nella fede i fratelli della Diaspora»145.
L’ultima tappa salentina del viaggio è Otranto, dove vivevano ben cinquecento famiglie ebraiche, cosa che fa di Otranto la terza comunità per numero di abitanti dopo Palermo (con millecinquecento famiglie) e Salerno (seicento famiglie)146. A capo della comunità erano R. Menachem, R. Caleb, R. Meeir, R. Mali. Fin dai primi tempi dell’era volgare è attestata la presenza di ebrei ad Otranto. Colafemmina ricorda la dura repressione scatenata dall’Imperatore Romano Lecapeno e l’intermediazione di Hisdai ibn Shraput, medico e consigliere personale del califfo di Cordova Abd al-Rahman III, che pose fine alla persecuzione147.
La convivenza fra cristiani ed ebrei ebbe lunghi periodi felici alternati a momenti di intolleranza. Colafemmina sottolinea il grande ruolo culturale svolto da Otranto e che era noto in tutta l’Europa giudaica148 ed è confermato dalla celebre frase del rabbino Jacob ben Meir Tam (1100-1171): «da Bari proviene la Legge (Torah), e da Otranto la parola del Signore»149, un elogio «non modesto, se si pensa che è una parafrasi di Isaia 2, 3, dove si profetizza il magistero universale della Città Santa alla fine dei tempi, quando “daֶ Sionֶ usciràֶ laֶ Leggeֶ eֶ laֶ parolaֶ diֶ Dioֶ daֶ Gerusalemme”»,ֶ comeֶ scriveֶ Houbenֶ riportando le parole di Colafemmina150.
La presenza ebraica ad Otranto è attestata anche da un passo della Vita di San Nicola Pellegrino, opera del XII secolo, citata dallo stesso Houben, che scrive: «a Otranto il santo viene assalito dagli abitanti in processione con un’immagine della Vergine per aver salutato con particolare deferenza un anziano ebreo. L’episodio potrebbe essere un indizio di un rapporto non privo di tensioni tra cristiani ed ebrei, ma generalmente nel Mezzogiorno normanno-svevo i rapporti tra le due comunità erano buoni»151, e ricorda l’epigrafe sepolcrale bilingue, greco ed ebraico, rinvenuta sul Colle della Minerva dedicata ad una donna di nome Glika, e riportata dal Colafemmina152. Quest’ultimo parla anche di un poeta ebraico, Anatoli, che ad Otranto compose la sua opera nel XIII secolo153.
Tuttavia non si conoscono il peso e l’effettivo dinamismo di questa comunità ebraica stanziata ad Otranto. Non sappiamo cioè, come evidenzia Poso, se questi ebrei fossero nel settore del credito oppure svolgessero attività manifatturiera e quale: se l’attività tessile, in particolare la tintura, così diffusa in altri luoghi, oppure altre attività artigianali154. Lo stesso Poso ricorda la relazione di viaggio di Jacopo da Verona, del 1335, il quale rimarcava, evidentemente molto tempo dopo Tudela, la consistente presenza ebraica a Otranto155.
Da Otranto Beniamino si imbarca per la Grecia raggiungendo Corfù. Nel corso di tutto il suo itinerario mette in evidenza resti fisici, frammenti, rovine e monumenti. Certamente attratto dalle comunità ebraiche ma, a differenza dei classici pellegrinaggi del Medioevo che portavano i cristiani nei luoghi santi, nel viaggio di Benjamin, la Terra d’Israele è inserita in un itinerario più ampio. «Si muove da ovest a est lungo un percorso circolare in cui Gerusalemme non è la destinazione finale, ma è solo un punto del cammino»156. Questo rende il suo viaggio unico, differenziandolo dal pellegrinaggio. Beniamino si concentra sulla propria religione, l’ebraismo, ma non mostra separatezza né alcuna ostilità rispetto alle altre religioni – cristiani, Musulmani, i già citati Drusi – quando descrive le loro tradizioni e modi di vita157.
Conosciamo il grande fenomeno della letteratura di viaggio iniziata nel XVIII secolo. Il Settecento letterario è caratterizzato da una enorme produzione di scritture che rientrano nel genere odeporico, cioè resoconti di viaggiatori in terre straniere, in particolare modo in Italia, tanto che la letteratura di viaggio costituisce una delle più importanti fonti per la conoscenza di usi e costumi, economia, politica e religione del nostro territorio nel secolo dei Lumi158. Si può, si chiede la studiosa Morère, riportare indietro nel tempo la storia dei viaggi di istruzione e di piacere, giungendo fino ai secoli dell’Alto Medioevo159? «Questi testi sono allo stesso tempo reali, immaginari e mitici; alcuni autori hanno addirittura cercato il confine tra il mondo conosciuto e quello sconosciuto. Gli scrittori si sono trasferiti da un posto all’altro per scopi di guerra, commercio, diplomazia e cavalleria, sebbene la motivazione religiosa sia di gran lunga la più comune. Le motivazioni psicologiche, personali e sociologiche alla base della mobilità medievale in questi testi sono aspetti molto presenti, mentre nei secoli precedenti le motivazioni erano più vaghe»160. Se si potesse retrodatare l’inizio di un genere letterario al Medioevo, allora senz’altro l’opera di Benjamin rientrerebbe nella letteratura odeporica. Resta però quella commistione fra notizie vere ed inventate a farne un’opera ibrida, non certo un unicum, ma assai singolare. La Morère analizza il viaggio di Beniamino rifacendosi come fonte a Magdalena Nom de Déu, Testimonios arqueológicos del Oriente Próximo testimoniados en el Sefer Masaót de Benjamín de Tudela (Siria-Palestina, Mesopotamia y Egipto)161.
Fatto sta che l’opera di Beniamino venne utilizzata come fonte primaria da tutti gli storici medievali. La prima edizione a stampa dell’Itinerario apparve a Costantinopoli in ebraico nel 1543, e successive edizioni ebraiche furono pubblicate a Ferrara (1556), Friburgo (1583), Leida (1633), Amsterdam (1698), Altdorf (1762), Sulzbach (1782) e Ber-lino (1840). Le prime traduzioni, dall’ebraico al latino, furono fatte da Arias Montanus ad Anversa nel 1575 e da Constantine L’Empereur a Basilea e Leida nel 1633. Ulteriori edizioni latine apparvero a Helmstadt nel 1636 e a Lipsia nel 1674; entrambe erano ristampe della traduzione di Montanus dell’Itinerarium Beniamini Tudelensis. Traduzioni inglesi, con due eccezioni dal latino, apparvero nel 1625, 1744, 1784, 1808, 1840 e1904; le traduzioni in francese furono pubblicate nel 1729, 1734,1735 e 1830. Una versione olandese da quella latina di L’Empereur apparve nel 1666 e nel 1698. Le traduzioni giudaico-tedesche (yiddish) apparvero solo nel 1691 e nel 1711, anche queste derivavano dal testo latino di L’Empereur e non da quello originale ebraico di Benjamin. Una traduzione tedesca ancora si ebbe nel 1903 162. La prima traduzione in latino dunque fu quella di Benito Arias Montano (1527-1598), un eminente studioso spagnolo che ebbe un’importante carriera ecclesiastica. Zur Shalev, che si occupa dell’Itinerario di Beniamino da Tudela, che «è stato a lungo riconosciuto come una fonte unica per la storia ebraica e mediterranea», si concentra proprio «sulla prima traduzione latina (Anversa, 1575), preparata dal biblista spagnolo Montano. Nella sua dedica e prefazione, Montano presenta Benjamin come un eminente membro della illustre tradizione spagnola di esploratori e geografi. Inoltre, vede nell’Itinerario un documento che può essere significativo per la comprensione della Scrittura. La concettualizzazione di Montano ci permette di comprendere le complessità della traduzione come un processo culturale – ovvero i tentativi di collegare le barriere linguistiche, religiose e cronologiche che separavano Benjamin dai suoi primi lettori moderni»163. La fortuna critica dell’opera, le sue numerosissime ristampe, testimoniano in maniera lampante il grande successo di questo libro nel corso dei secoli.
In Terra Santa, allora sotto il dominio dei crociati, Beniamino si comportò più come un pellegrino ebreo. Il suo percorso inizia in Spagna e attraversa la Provenza fino all’Italia, Costantinopoli, Palestina, Siria, Baghdad, poi attraverso l’Arabia fino all’Egitto, alla Sicilia e di nuovo in Spagna. Benjamin menziona località in Persia, India, Cina, Francia e Germania, che molto probabilmente non ha mai visitato. Nei secoli successivi il testo fu abbastanza conosciuto negli ambienti dotti ebraici, ma esso fu stampato solo nel 1543. Nel 1583 uscì a Brisgau una ristampa leggermente modificata. Un’altra, migliorata, edizione era apparsa a Ferrara nel 1556. Montano apparentemente non ne era a conoscenza quando stava lavorando alla sua traduzione. Così scrive Shalev a proposito della traduzione di Benito Arias Montano e riporta la copertina dell’Itinerarium Beniamini Tudelensis (Antwerpiae, Ex officina Chistophori Plantini, 1575)164.
Per quanto riguarda le edizioni moderne del libro di Beniamino, al primo posto va collocata la traduzione che ne fece M.N. Adler, The Itinerary of Benjamin de Tudela, London, Oxford University Press, 1907; inoltre, I. González Llubera, Viajes de Benjamin de Tudela 1160-1173, Madrid: Junta de Ampliación de Estudios, Centro de Estudios Históricos, 1918; J. Vernet Ginés, Benjamín de Tudela, in «Príncipe de Viana», 23, 86-87, 1962, pp. 201-212; J.R. Magdalena Nom de Déu, Libro de viajes de Benjamín de Tudela, Barcelona: Biblioteca Nueva Sefarad, Ríopiedras ediciones, 1982; G. Busi, Binyamin da Tudela. Itinerario (Sefer Massa’ot), Rimini, Luisè, 1988; e il già citato Magdalena Nom de Déu, Testimonios arqueológicos del Oriente Próximo testimoniados en el Sefer Masaót de Benjamín de Tudela. Robert Hess nella sua opera del 1965 scrive: Sessant’anni fa Marcus N. Adler rintracciò ed esaminò tre copie manoscritte complete dell’Itinerario e frammenti di altri due manoscritti165. Il British Museum possiede un manoscritto del XIII secolo. Presso la Biblioteca Casanatense di Roma è stato fatto eseguire un manoscritto non databile, con una calligrafia italo-ebraica, mentre un collezionista privato possedeva a Vienna un manoscritto sul quale era impresso l’imprimatur del censore di fra Luigi da Bologna e la data ‘luglio 1599’. Il manoscritto di Vienna era quasi identico all’edizione a stampa ferrarese del 1556. I frammenti di due altri manoscritti erano allora ospitati nell’Oppenheim Collezione nella Biblioteca Bodleiana. Uno può essere del quattordicesimo o quindicesimo secolo, di origine spagnola; l’altro è del Medio Oriente del XVIII secolo.
Si conoscono inoltre numerose edizioni a stampa dell’Itinerario. I principali commentatori moderni sono stati Marcus N. Adler (1904) e Carlo Conti Rossini (1912). La grande impresa del XIX secolo fu l’edizione imprecisa ma utile di A. Asher166. Ci sono molti studi di minore importanza di studiosi ebrei come Leopold Zunz e Joachim Lelewel167.
Nel 2018 viene pubblicato: Binyamin da Tudela, Itinerario (Sefer massa’ot), a cura di Giulio Busi, dall’editore Giuntina di Firenze, per iniziativa del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah e con il sostegno della Fondazione Ebraica Marchese Guglielmo De Lévy168. È scritto nella Prefazione:
L’iniziativa di ripubblicare in italiano l’Itinerario di Binyamin da Tudela è nata a seguito del successo che la figura del viaggiatore ebreo medievale ha avuto nella mostraֶ inauguraleֶ delֶ MEISֶ “Ebrei,ֶ unaֶ storiaֶ italiana.ֶ Iֶ primiֶ milleֶ anni”ֶ eֶ dell’importanza di questo libro di viaggio per conoscere la storia dell’ebraismo d’Italia. Sono stati proprio i visitatori a chiedere al Museo di poter acquistare una copia del diario di Binyamin dopo aver imparato dalle numerose edizioni storiche in mostra (come il manoscritto contenente il Sefer massa’ot del 1428, conservato alla Biblioteca Casanatense di Roma, l’edizione a stampa di Ferrara del 1555 proveniente dalla Bodleian Library di Oxford, l’edizione ebraico-latina di Anversa, 1575, conservata presso l’Orientale di Napoli), e dalla suggestiva installazione con i disegni di Lele Luzzatti, quanto l’ebreo di Navarra avesse raccontato sulle comunità ebraiche da lui visitate durante il viaggio intrapreso verso la Terra di Israele, e poi di ritorno, negli anni tra il 1159 e il 1173. Il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah ha quindi deciso di dar vita a questo volume affidandolo all’ebraista Giulio Busi, lo studioso che aveva tradotto il testo trenta anni fa e che in mostra ha raccontato in video ai visitatori chi fosse Binyamin da Tudela (è suoֶ ancheֶ ilֶ saggioֶ sulֶ catalogoֶ MEISֶ “Ebrei,ֶ unaֶ storiaֶ italiana.ֶ Iֶ primiֶ milleֶ anni”,ֶ Electaֶ 2017).
È all’esperto Busi dunque che lasciamo illustrare, in una ricca introduzione al testo, i dettagli, e anche i segreti, di questo straordinario racconto, capace ancora oggi di disegnare un affresco vivo e completo dell’Italia ebraica medievale. Un ebraismo particolarmente florido e attivo nel Sud della Penisola, in quelle regioni, come la Campania, la Puglia, la Calabria e la Sicilia, dove era fiorito e prosperato, ma da dove i governanti spagnoli lo cacciarono senza deroghe, poco più di tre secoli dopo il passaggio di Binyamin. La sparizione improvvisa, cinquecento anni fa, del mondo ebraico dall’Italia meridionale, e la nascita di una nuova consapevolezza in quelle terre circa il loro passato ebraico, costituiscono una ragione in più per portare alle stampe questo Itinerario, dove sono appunto descritte quelle comunità strappate alla storia con un colpo di spugna antisemita. Il racconto di Binyamin ce ne descrive i personaggi, le tradizioni, le mode, i numeri, restituendoci in modo candido, seppure da un lontano passato, un capitolo della storia del nostro Paese169.
Quanto alle motivazioni del viaggio, come già riportato, diversi studiosi vedono nel Medioevo la nascita della letteratura di viaggio a causa del numero significativo di documenti conservati. «In effetti vari sono i parametri che definiscono il turismo nel mondo antico: il contesto urbano, la domanda, il desiderio di viaggiare, il contesto economico, l’attrattività, ossia il fascino esercitato dai luoghi, le destinazioni»170. Il nostro viaggiatore era alla ricerca delle vestigia del passato, delle tracce della grandezza della storia. Ma quale la motivazione intrinseca? Ce lo rivelano forse le bellissime parole di Giorgio Busi:
La lunghissima peregrinazione, che lo porta – nella sesta decade del XII secolo – da Tudela sino al limitare dell’Oriente estremo, ai confini del mare periglioso «su cui domina Orione», è vissuta nel libro come una necessità, quasi un dovere ineludibile. Privo di ogni notazione personale, l’Itinerario, che quasi mai indulge alla lusinga del racconto in prima persona, ci trasmette la profonda convinzione dell’autore: non si poteva non compiere quel viaggio. Binyamin ha un’idea, ripercorrere la trama complicata della diaspora della sua gente. È un’idea allo stesso tempo astratta e concretissima. Israele è disperso tra i popoli, i frammenti dell’antica unità sono stati scagliati lontano, negli angoli più riposti della terra, nei siti più impensabili. Per ricostruire l’immagine complessiva del popolo ebraico non v’è allora che un’unica via. Occorre ricostruire l’immagine del mondo. È necessario percorrerlo tutto, con pazienza e ostinazione171.
A noi, suggestionati da tanta letteratura popolare e gothic noir, piace pensare che egli fosse figura dell’ebreo errante, destinato a vagare per il mondo fino alla fine dei tempi e cioè fino alla seconda venuta di Gesù con la parusia. Non abbiamo immagini di Beniamino ma, se davvero egli fosse El Judío Errante, come vogliamo immaginare, allora le sue fattezze sarebbero quelle della celebre illustrazione di Gustav Doré. E Benjamin continuerebbe a viaggiare ancora oggi, personificazione e allegoria di quella diaspora infinita che ha colpito gli ebrei.
Note
1 Benjamin of Tudela, in https://www.jewishvirtuallibrary.org/benjamin-of-tudela
2 Ibid.
3 C. COLAFEMMINA, L’itinerario pugliese di Beniamino da Tudela, in «Archivio Storico Pu-gliese», n. 28, 1975, p. 82. 4 J. SHATZMILLER, Jews, Pilgrimage, and the Christian Cult of Saints: Benjamin of Tudela and His Contemporaries, in After Rome’s Fall: Narrators and Sources of Early Medieval History, To-ronto, University of Toronto Press, 1998, p. 338. 5 Sulla motivazione del viaggio, Shatzmiller non esclude che questa potesse essere la visita in Terra Santa, sebbene il giudaismo non conoscesse il culto dei luoghi santi e il cammino di penitenza, come accadeva invece in Europa, alla volta di Roma, San Michele Garganico, Santiago de Compo-stela, Santa Maria di Leuca, ecc. Shatzmiller afferma che all’epoca di Tudela gli studiosi non rabbi-nici, in particolare i caraiti, condannavano severamente il culto degli ebrei verso i luoghi santi, con-siderandolo una forma di idolatria. E comunque, quando i pellegrinaggi non fossero preclusi, certa-mente non erano prescritti dalla cultura ebraica del tempo. Il fatto che Beniamino fosse un ebreo rabbinico lascia aperto il campo e nutre il dubbio che egli, attratto dai santuari europei, potesse essere attirato anche dai santuari del vicino Oriente. J. SHATZMILLER, Jews, Pilgrimage, and the Christian Cult of Saints: Benjamin of Tudela and His Contemporaries, cit., pp. 339-340.
4 J. SHATZMILLER, Jews, Pilgrimage, and the Christian Cult of Saints: Benjamin of Tudela and His Contemporaries, in After Rome’s Fall: Narrators and Sources of Early Medieval History, To-ronto, University of Toronto Press, 1998, p. 338.
5 Sulla motivazione del viaggio, Shatzmiller non esclude che questa potesse essere la visita in Terra Santa, sebbene il giudaismo non conoscesse il culto dei luoghi santi e il cammino di penitenza, come accadeva invece in Europa, alla volta di Roma, San Michele Garganico, Santiago de Compo-stela, Santa Maria di Leuca, ecc. Shatzmiller afferma che all’epoca di Tudela gli studiosi non rabbi-nici, in particolare i caraiti, condannavano severamente il culto degli ebrei verso i luoghi santi, con-siderandolo una forma di idolatria. E comunque, quando i pellegrinaggi non fossero preclusi, certa-mente non erano prescritti dalla cultura ebraica del tempo. Il fatto che Beniamino fosse un ebreo rabbinico lascia aperto il campo e nutre il dubbio che egli, attratto dai santuari europei, potesse essere attirato anche dai santuari del vicino Oriente. J. SHATZMILLER, Jews, Pilgrimage, and the Christian Cult of Saints: Benjamin of Tudela and His Contemporaries, cit., pp. 339-340.6 Benjamin of Tudela, in https://www.jewishvirtuallibrary.org/benjamin-of-tudela 7 Come per esempio, R. DI TUCCI, Beniamino da Tudela e il suo viaggio, in «Bollettino della Regia Società Geografica Italiana», n.78, 1941, pp. 496-517, cit. in C. COLAFEMMINA, L’itinerario pugliese di Beniamino da Tudela, cit., pp.81-82, nota 2. Lo studioso però aggiunge subito dopo che èֶ probabileֶ cheֶ “leֶ scarneֶ note di viaggio siano state in seguito arricchite per trasformarle in
un’operaֶ letterariaֶ corrispondenteֶ aiֶ gustiֶ delֶ tempo”.ֶ Ibid.
8 G. BUSI, Introduzione, in BINYAMIN DA TUDELA, Itinerario (Sefer massa’ot), a cura di Giulio Busi, Firenze, Giuntina, 2018, p. 9. Sulla commistione fra elementi reali ed immaginari, nella lette-ratura di viaggio e fantastica, sia permesso rinviare a P. VINCENTI, La mia isola, in L’osceno del villaggio, Novoli, Argomenti, 2015, pp. 89-92.
9 B. LIGORIO, Sapere e denaro, da Shabbatai Donnolo a Federico II, Taranto, Artebaria Edi-zioni, 2010, p. 21. Il libro cui si riferisce Ligorio è: AHIMA’AZ BEN PALTIEL, Sefer Yuhasin. Libro delle discendenze. Vicende di una famiglia ebraica di Oria nei secoli IX-XI, a cura di Cesare Cola-femmina, Cassano Murge, Messaggi, 2001.
10 A. TOAFF, Mostri Giudei. L’immaginario ebraico dal medioevo alla prima età moderna, Bo-logna, Il Mulino,1996, pp. 20-21, cit. in B. LIGORIO, Sapere e denaro, da Shabbatai Donnolo a Federico II, cit., p. 21.
11 B. LIGORIO, Sapere e denaro, da Shabbatai Donnolo a Federico II, cit., p. 22.
12 G. RAVEGNANI, I bizantini in Italia, Bologna, Il Mulino, 2004 (nuova edizione 2018), pp. 167-168.
13 Il tema di Lucania è testimoniato da un unico atto, una sentenza del novembre 1042, emessa da Eustazio Skepides, che ivi si definisce, appunto, stratego di Lucania: S. COSENTINO, Storia dell’Italia bizantina (VI-XI secolo). Da Giustiniano ai Normanni, Bologna, BUP, 2008, p. 144. La von Falkenhausen parla di tre themata, ovvero Calabria, con capitale Reggio, Lucania con capitale Tursi, e Longobardia, con capitale Bari: V. VON FALKENHAUSEN, La dominazione bizantina nell’Ita-lia meridionale dal IX all’XI secolo, Bari, Ecumenica Editrice, 1978, p. 30.
14 G. RAVEGNANI, I bizantini in Italia, cit., p. 168. 15 Ivi, p. 170. Sugli avvenimenti storici del periodo, inoltre, fra la cospicua mole di studi, si rimanda a: Corso di storia diretto da Giuseppe Galasso, Medioevo, a cura di Giovanni Vitolo, Mi-lano, Bompiani Editore, 1997; C. DIEHL, La civiltà bizantina, Milano, Garzanti, 1962; P. BREZZI, La civiltà del Medioevo europeo, vol. I, Roma, Eurodes, 1978; G. RAVEGNANI, La storia di Bisanzio, Roma, Jouvence, 2004: passim.
16 M. AMARI, Biblioteca arabo-sicula. Versione italiana, Torino-Roma, 1880-81, 1, pp. 412, 2, pp. 128, 191; Annales Barenses, ed. G.H. Pertz, Hannover, 1844 (in M.G.H. Scriptores, 5), p. 52.
17 Voce Shabbĕtay Bar Abrāhām Donnolo, a cura di Gianfranco Fiaccadori, in Treccani, Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 41, 1992 (on line).
18 Ibid.
19 AHIMA’AZ BEN PALTIEL, Sefer Yuhasin. Libro delle discendenze. Vicende di una famiglia ebraica di Oria nei secoli IX-XI, a cura di Cesare Colafemmina, cit., p. 33. Su queste ed altre figure di dotti oritani, si vedano: N. FERORELLI, Gli Ebrei nell’Italia meridionale dall’età romana a Carlo Borbone, in «Archivio storico della provincia di Napoli», n. XXXIII, 1908, pp. 145-149; ID., Gli Ebrei nell’Italia meridionale dall’età romana al secolo XVIII, Torino, 1915, pp. 31-35; 193-203; G. NEBBIA, Donnolo, medico e sapiente di Oria in provincia di Brindisi nel 1050° anniversario della nascita, in «Atti e Relazioni dell’Accademia Pugliese delle Scienze», n.s., 21, 1963, II, pp. 22-24; C. COLAFEMMINA, Gli epitalami di Meiuchas e Shabbetai da Otranto, in «Brundisii res», n. 9, 1977, pp. 45-67; ID., Una poesia liturgica di Shefatiah ben Amittai da Oria, in Studi in onore di Mario Marti, Vol. I, Galatina, Congedo Editore, 1981, pp. 325-329; ID., Un epitalamio di Amittai da Oria, in Familiare ’82. Studi offerti per le nozze d’argento a Rosario Jurlaro e Nunzia Ditonno, Brindisi, Amiciֶ dellaֶ “A.ֶ Deֶ Leo”,ֶ 1982,ֶ pp.ֶ 85-89; ID., La Puglia in una cronaca ebraica altomedievale
(Sepher Yosephon), in «Cenacolo», n. 11-12, 1981-82, pp. 63-67; ID., Valenza sacrificale della cir-concisione in un inno di Shabbatai da Otranto, in Sangue e antropologia. Riti e culto. Atti della V Settimana, Roma, 26 novembre-1 dicembre 1984, a cura di F. Vattioni, Roma, 1987, I, pp. 925-931; ID., Una zemirah di Amittai ben Shefatiah da Oria, in «Nicolaus. Rivista di Teologia ecumenico-patristica», n. 21, 1994, pp. 61-66; ID., La contesa fra la vite e gli alberi di Amittay ben Šefatyah da Oria, in Percorsi di storia ebraica. Atti del convegno AISG, Cividale del Friuli – Gorizia 2004, a cura di Pier Cesare Ioly Zorattini, Udine, Forum, 2005, pp. 389-96; ID., Un medico ebreo di Oria alla corte dei Fatimidi, in «Materia giudaica», n.11, 2006, pp. 5-12; ID., Donnolo Shabbetay e la preparazione dei farmaci, in Farmacopea antica e medievale. Atti del Convegno Internazionale di Studio, Salerno 30 novembre – 3 dicembre 2006, Salerno, 2008, pp. 71-80; V. PUTZU, ‘Whoever kills a human being, it is as if he destroys the entire world’: the humanism of Šabbetay Donnolo between mysticism and science, in Gli ebrei nel Salento. Secoli IX-XVI, a cura di Fabrizio Lelli, Galatina, Congedo, 2013, pp.145-164; G. D’AMICO, La comunità ebraica orietana e il suo Rione, Oria, 1994; P. MANCUSO, Shabbatai Donnolo. Sefer Ḥakhmoni. Introduzione, testo critico e traduzione italiana annotata e commentata, Firenze, Giuntina, 2009; G.M. CUSCITO, Il Sefer ha-yaqar di Šabbeṯay Don-nolo: traduzione italiana commentata, in «Sefer Yuḥasin יוחסין ספ ר | Review for the History of the Jews in South Italy. Rivista Per la Storia degli Ebrei nell’Italia Meridionale», n. 2, Università degli Studi di Napoli L’Orientale, 2018, pp. 93-106, https://doi.org/10.6092/2281-6062/5568; J. DAN, La cultura ebraica nell’Italia medievale: filosofia, etica, misticismo, in Gli ebrei in Italia. Dall’alto Medioevo all’età dei ghetti (Storia d’Italia,ֶ “Annali”,ֶ 11),ֶ aֶ curaֶ diֶ C.ֶ Vivanti,ֶ Torino,ֶ 1996,ֶ pp.ֶ
341-346; F. BURGARELLA, Shabbettai Donnolo nel bios di San Nilo da Rossano, in Gli Ebrei nella Calabria medievale. Atti della Giornata di Studio in memoria di Cesare Colafemmina, Rende, 21 maggio 2013, a cura di Giovanna De Sensi Sestito, Soveria Mannelli, Rubettino, 2013, pp. 47-60; E. G. ROSATO, L’uomo microcosmo e la circolazione dei luidi in Shabbetai Donnolo, in ivi, pp. 61-88. P. MANCUSO, Il Sefer ha-mazzalot di Šabbatai Donnolo. Testo ebraico e traduzione italiana annotata e commentata, in L’umanità dello scriba. Testimonianze e studi in memoria di Cesare Colafemmina, a cura di P. Cordasco, F. Pappalardo e N. Surico, Cassano delle Murge, Messaggi Edizioni, 2015, pp. 103-143.
20 LUPO PROTOSPATARIO, Annales, a cura di G. H. Pertz, Hannover, 1844 (M.G.H. Scriptores, 5), p. 54, riferito da V. VON FALKENHAUSEN, Tra Occidente e Oriente: Otranto in epoca bizantina, in Otranto nel Medioevo tra Bisanzio e l’Occidente, a cura di Hubert Houben, Galatina, Congedo, 2007, p. 40.
21 V. VON FALKENHAUSEN, Tra Occidente e Oriente: Otranto in epoca bizantina, cit., p. 40. 22 A. GUILLOU, La Puglia e Bisanzio, in La Puglia tra Bisanzio e l’Occidente, Venezia, Electa, 1980, p.16.
23 I. SONNE, Alcune osservazioni sulla poesia religiosa ebraica in Puglia, in «Rivista degli studi orientali», n.14, 1933-1934, pp. 68-77, cit. in V. VON FALKENHAUSEN, Tra Occidente e Oriente, cit., p. 45, nota 123.
24 U. CASSUTO, Una lettera ebraica del secolo X, in «Giornale della Società asiatica italiana», n. 29, 1918-1920, pp. 97-110, cit. in V. VON FALKENHAUSEN, Tra Occidente e Oriente, cit., p. 45, nota 125.
25 S. PALMIERI, Le componenti etniche: contrasti e fusioni, in Storia del Mezzogiorno, diretta da Giuseppe Galasso, 3, Napoli, 1990, pp. 43-72, cit. in H. HOUBEN, Mezzogiorno normanno-svevo. Monasteri e castelli, ebrei e musulmani, Napoli, Liguori, 1996, p. 481.
26 H. HOUBEN, Gli ebrei nell’Italia Meridionale, in Mezzogiorno normanno-svevo. Monasteri e castelli, ebrei e musulmani, cit., p. 194. Il saggio di Houben era stato già pubblicato in «Itinerari di ricerca storica» (Università di Lecce), n. VI -1992, Galatina, 1993, pp. 9-28, e poi in L’Ebraismo dell’Italia meridionale peninsulare dalle origini al 1541: società, economia, cultura. IX Congresso Internazionale dell’Associazione Italiana per lo studio del Giudaismo (Potenza, 20-24 settembre 1992), a cura di C.D. Fonseca, M. Luzzati, G. Tamani, C. Colafemmina (Università degli Studi della Basilicata,ֶ “Attiֶ eֶ Memorie”ֶ 17),ֶ Galatina,ֶ Congedo,ֶ 1996,ֶ pp.ֶ 49-65.
27 RICCARDO DI SAN GERMANO, Chronica, a cura di C.A. Garufi, Bologna, 1938, in Rerum Ita-licarum Scriptores, VII, 2, pp. 94 ss., cit. in H. HOUBEN, Mezzogiorno normanno-svevo. Monasteri e castelli, ebrei e musulmani, cit., p. 486. 28 H. HOUBEN, Gli ebrei nell’Italia Meridionale, in Mezzogiorno normanno-svevo. Monasteri e castelli, ebrei e musulmani, cit., p. 210.
29 ID., Possibilità e limiti della tolleranza religiosa, in ivi, pp. 213-242.
30 Ivi, p. 217.
31 Ivi, p. 224.
32 M. AMARI, Storia dei Musulmani di Sicilia, a cura di C.A. Nallino, III, 2, Catania, 1938, p. 372, cit. in H. HOUBEN, Possibilità e limiti della tolleranza religiosa, cit., p. 225, nota 81. Sul re siciliano si veda H. HOUBEN, Ruggero II di Sicilia. Un sovrano fra Oriente e Occidente, Roma-Bari, Laterza, 1999.
33 ROGERI DE HOVEDEN, Chronica, ed. F. Liebermanni, in M.G.H. Scriptores, XXVII, Hannove-rae, 1885, pp. 170ss., cit. in H. HOUBEN, Possibilità e limiti della tolleranza religiosa, cit., p. 235, nota 132.
34 H. HOUBEN, Possibilità e limiti della tolleranza religiosa, cit., p. 238. 35 RICCARDO DI SAN GERMANO, Chronica, cit., p. 96, cit. in H. HOUBEN, Possibilità e limiti della tolleranza religiosa, cit., p. 239, nota 159.
36 TOMMASO D’AQUINO, De regimine principium ad regem Cypri et de regimine Judaeorum ad ducissam Brabantiae, ed. J. Mathis, Torino, 1971, p. 100, cit. in ivi, p. 240, nota 169.
37 H. HOUBEN, Possibilità e limiti della tolleranza religiosa, cit., p. 241.
38 Si veda D. NARDONE, Episodi relativi ad una cacciata di Ebrei dimoranti in Gravina di Puglia alla fine del XV secolo, in «Gazzetta del Mezzogiorno», Bari, 8 novembre 1938.
39 H. HOUBEN, Nuove fonti per la storia degli ebrei e dei musulmani Regno di Sicilia (1275-1280), in Mezzogiorno normanno-svevo. Monasteri e castelli, ebrei e musulmani, cit., pp. 243- 266.
40 D. ABULAFIA, Il Mezzogiorno peninsulare dai bizantini all’espulsione (1541), in Gli ebrei in Italia. Dall’alto Medioevo all’età dei ghetti, cit., pp. 5-44.
41 F. PATRONI GRIFFI, Gli ebrei nel Mezzogiorno peninsulare nel XII secolo, in Tancredi Conte di Lecce Re di Sicilia. Atti del Convegno internazionale di studio, Lecce, 19-21 febbraio 1998, a cura di Hubert Houben e Benedetto Vetere, Galatina, Congedo, 2004, p. 207. Si veda anche S. TRA-MONTANA, Qualche considerazione su aspetti, anche religiosi, della questione ebraica nell’età di Roberto il Guiscardo, in Roberto il Guiscardo e il suo tempo. Atti delle prime giornate normanno-sveve, Bari, maggio 1973, Roma, 1975 (Fonti e Studi del Corpus membranarum italicarum, 11), rist. Bari, 1991 (Centro studi normanno-svevi, Università degli Studi di Bari, Atti 1), p. 268.
42 C. COLAFEMMINA, La cultura nelle giudecche e nelle sinagoghe, in Centri di produzione della cultura nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle dodicesime giornate normanno-sveve. Bari, 17-20 ottobre 1995, a cura di Giosuè Musca, Bari, Dedalo Edizioni, 1997, pp. 100, 104, cit. anche in F. PATRONI GRIFFI, Gli ebrei nel Mezzogiorno peninsulare nel XII secolo, cit., p. 209, nota 13.
43 C. COLAFEMMINA, La cultura nelle giudecche e nelle sinagoghe, cit., pp. 97-99. 44 C. COLAFEMMINA, L’itinerario pugliese di Beniamino da Tudela, cit., p. 83. Si veda anche ID., Un inno di Rabbi Anan Bar Marinos ha-Coen da Siponto in onore del profeta Elia, in Decimo con-vegno sulla preistoria-protostoria e storia della Daunia (San Severo, 17-18 dicembre 1988), San Severo, 1989, p. 269. «È possibile che sipontini fossero maestri celebri come Rabbi Leon ben Elha-nan, Menahem ha-Coen e Rabbi Yehudah», scrive Iorio: R. IORIO, Siponto, Canne, in Itinerari e centri urbani nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle decime giornate normanno-sveve, 1991, a cura di Giosuè Musca, Bari, Dedalo edizioni, 1993, p. 397.
45 F. PATRONI GRIFFI, Gli ebrei nel Mezzogiorno peninsulare nel XII secolo, cit., p. 210.
46 G. GUERRIERI, Gli ebrei a Brindisi e a Lecce (1409-1497). Contributo alla storia dell’usura nell’Italia meridionale, Torino, 1900, p. 7, ripubblicato in «Studi senesi», n. 17, 1901, pp. 225-52. Sulla presenza ebraica a Lecce, fra gli altri: N. FERORELLI, Abramo de Balmes ebreo di Lecce e i suoi parenti, in «Archivio Storico della Provincia Napoletana», n. 31, 1906, pp. 632-54; ID., Gli ebrei nell’Italia meridionale dall’età romana al secolo XVIII, 1915, riedizione a cura di Filena Pa-troni Griffi, Napoli,1990; C. COLAFEMMINA, La giudecca di Lecce nei secoli XV e XVI, in Attività economiche e sviluppo urbano nei secoli XIV e XV. Atti dell’Incontro di Studi, Barcellona, 19-21 ottobre 1995, Archivio Storico del Sannio, n.s. 1, Napoli, ESI,1996, pp. 313-332; C. MASSARO, Ebrei e città nel Mezzogiorno tardomedievale: il caso di Lecce, in «Itinerari di ricerca storica», n. V, 1993, pp. 9-49; M.R. TAMBLÈ, Antisemitismo e infanzia abbandonata: un singolare connubio nella Lecce bassomedievale, in «Sefer Yuḥasin», nn. 16-17, Bari, 2000-2001, pp. 31-46.
47 C. CARUCCI, Gli Ebrei a Salerno nei secoli XII e XIII, in «Archivio Storico della Provincia di Salerno», n. I, 1921, pp. 74-91; F. CERONE, Sei documenti inediti sugli ebrei di Salerno dal 1125 al 1269, in Studi di storia napoletana in onore di Michelangelo Schipa, Napoli, ITEA, 1926, pp. 59-73; Codice Diplomatico Salernitano del secolo XIII, a cura di Carlo Carucci, Subiaco, 1931, passim; A. MARONGIU, Gli ebrei di Salerno nei documenti dei secoli X-XIII, in «Archivio Storico delle Pro-vince Napoletane», n.s., 23, 1937, pp. 238-266; J. STARR, The mass conversion of Jews in Southern Italy (1290-1293), in «Speculum», n. 21, 1946, pp. 203-211; N. TAMASSIA, Stranieri ed ebrei nell’Italia meridionale dall’età normanna all’età sveva, in Studi sulla storia giuridica dell’Italia meridionale, a cura di C.G. Mor, Società Storia Patria per la Puglia, Bari,1957, pp. 114-162; N. PAVONCELLO, Epigrafe ebraica nel Museo del Duomo di Salerno, in «IONA», n. 18, 1968, pp. 198-203; M. BENINCASA, Amalfitani ed Ebrei, in Guida alla storia di Salerno e della sua provincia, a cura di A. Leone, G. Vitolo, Salerno, 1982, pp. 183-191; C. COLAFEMMINA, Documenti per la storia degli ebrei in Campania (IV), in «Sefer Yuhasin», n.7,1991, pp. 17-42; ID., Ebrei e cristiani novelli in Puglia. Le comunità minori, Bari, 1991, pp. 137ss; ID., Gli ebrei nel Salernitano (sec. IV-XVI), in Documenti e realtà nel Mezzogiorno italiano in età medievale e moderna. Atti delle giornate di studio in memoria di Jole Mazzoleni, Amalfi, 10-12 dicembre 1993, Centro di Cultura e Storia Amal-fitana, 1995, (Atti 6), pp. 167-193; M. GALANTE, Tre nuovi documenti sui cristiani novelli a Salerno nei secoli XIII-XIV, in «Sefer Yuhasin», n.9, 1993, pp. 3-14; R. DAVICO, Cultura araba ed ebraica nella Scuola Medica Salernitana, in I. GALLO, Salerno e la sua scuola medica, Salerno, Salerno Capitale, 1994, pp. 53-85; C. GAMBARDELLA, P. GALLO, Gli ebrei a Salerno, in Architettura judaica in Italia: ebraismo, sito, memoria dei luoghi, Palermo, Flaccovio, 1994, pp. 269-283.
48 F. PATRONI GRIFFI, Gli ebrei nel Mezzogiorno peninsulare nel XII secolo, cit., pp. 212-214.
49 Sulla comunità di Benevento, si consultino: A. ZAZO, I primi e gli ultimi ebrei di Benevento, in «Samnium», 48, 1975, n. 1-2, pp. 1-13; E. GALASSO, L’antica Comunità israelitica di Benevento. Saggi di storia beneventana, Benevento, 1963, pp. 85-102; C. COLAFEMMINA, Cultura ebraica nel Sannio nel secolo XV, in «Archivio Storico del Sannio» n.s., 2, n. 1, 1997, pp. 31-40; ID., Gli ebrei in Benevento, in Italia Judaica. Gli ebrei nello Stato Pontificio fino al Ghetto (1555). Atti del 6º Convegno internazionale, Tel Aviv, 18-22 giugno 1995, Roma, Pubblicazioni degli Archivi di Stato (Saggi, 47), 1998, pp. 204-227; D. ZAMPELLI, Usura, ebrei e disciplinamento canonico nell’enclave beneventana, in «Rivista Storica del Sannio», n.s., 3, n. 5, 1996, pp. 177-204; G. LUONGO BARTO-LINI, Ebrei in Benevento secoli XII-XVI: da Via della Giudecca al Serralium alla Shoah, Benevento, Realtà Sannita, 2000.
50 Si vedano, fra gli altri, A. QUAGLIATI, Tombe ebraiche medievali in Trani, in «Gazzetta del Mezzogiorno», 26 gennaio 1929; C. COLAFEMMINA, Un’iscrizione ebraica inedita di Trani, in «Au-gustinianum», n. 13, 1973, pp. 339-343; ID., Iscrizioni romane di Brindisi a Trani, in «Brundisi res», n. 6, 1974, pp. 277-294; ID., Documenti per la storia degli ebrei a Trani nel secolo XV, in «Sefer Yuhasin», n. 1, 1985, pp. 17-24; ID., Documenti per la storia degli ebrei a Trani nei secoli XV-XVI, in «Sefer Yuhasin», n.3, 1987, pp. 93-104; ID., Gli ebrei nel mezzogiorno d’Italia, in Architettura judaica in Italia: ebraismo, sito, memoria dei luoghi, cit., pp. 249ss.; ID., Momenti di vita ebraica tranese nei secoli XV-XVI, in Aspetti della storia degli Ebrei in Trani e in Bisceglie e vicende tranesi dal sec. IX. Contributi di Cesare Colafemmina e Luigi Palmiotti, CRSEC/Trani, Trani, 1999, pp. 35-55; E. GIANOLIO, Gli ebrei a Trani e in Puglia nel Medioevo, Trani, 2000; Sonia Vivacqua, Un inno per Yom Kippur di Isaia ben Elia di Trani, in «Sefer Yuhasin», n. 23, 2007, pp. 57-62; M. MASCOLO, Documentazione sugli ebrei a Trani nella Chiave d’oro de’ beneficii di Vincenzo Manfredi, in «Sefer Yuhasin», n.27, 2011, pp. 53-84; Una rilettura dell’epigrafe ebraica del 1246/47 per la dedicazione della sinagoga Scola Grande di Trani, a cura di Mauro Perani e Mariapina Mascolo, CeRDEM – MiBACT, Bari, 2013, pp. 23-31; C. COLAFEMMINA, Ebrei a Trani, Fonti documentarie, a cura di Mariapina Mascolo, Bari, CeRDEM, 2013.
51 L. IANNITI, Una scuola ebraica a Gaeta, in «Eco di S. Giacomo di Gaeta», n. 4, 1981, p. 3.
52 Sulla presenza ebraica a Taranto: F. TRINCHERA, Syllabus Graecarum Membranarum, Napoli, Cattaneo, 1865, pp. 29-31, doc. XXVI; pp. 36-37, doc. XXXI; N. FERORELLI, Gli ebrei nell’Italia meridionale dall’età romana al secolo XVIII, cit., pp. 55, 189; G. ANTONUCCI, Medioevo Salentino: 1) Per la storia degli Ebrei in Taranto, in «Rinascenza Salentina», n.s. 3, 1935, pp. 103-105; N. VACCA, Per la storia degli ebrei in Taranto: 1) Un tumulto antisemita nel 1411. 2) Usura nel 1474, in «Rinascenza Salentina», n.s. 4, 1936, pp. 221-239; C. D’ANGELA, Lucerne tardo-antiche e cri-stiane di Taranto, in «Vetera Christianorum», n. 8, 1971, pp. 168-169, nn. 49-51; C. COLAFEMMINA, Di alcune iscrizioni giudaiche di Taranto, in Studi di storia pugliese in onore di Giuseppe Chiarelli, a cura di Michele Paone, Galatina, Congedo Editore,1972, I, pp. 233-242; ID., Epigrafi ebraiche di Taranto, in «Cenacolo», n.2, 1972, pp. 203-207; ID., Gli ebrei a Taranto nella documentazione epi-grafica (secc. IV-X), in La Chiesa di Taranto, I: Dalle origini all’avvento dei Normanni, a cura di C.D. Fonseca, Galatina, Congedo, 1977, pp. 109-127; ID., Copisti ebrei a Taranto nel secolo XV, in «Cenacolo» n.s. 7, 1995, pp. 53-62; ID., Gli Ebrei a Taranto. Fonti documentarie, Bari, Società di Storia Patria per laֶ Puglia,ֶ “Documentiֶ eֶ monografie”,ֶ vol.ֶ LII,ֶ 2005;ֶ ID., Un nuovo frammento di
epigrafe ebraica a Taranto, in «Sefer Yuhasin», n. 28, 2012, pp.113-116.
53 Cfr. F. PATRONI GRIFFI, Gli ebrei nel Mezzogiorno peninsulare nel XII secolo, cit., p. 216. Sulla presenza ebraica a Brindisi: G. I. ASCOLI, Iscrizioni inedite o mal note greche, latine, ebraiche di anti-chi sepolcri giudaici del Napolitano, Torino, 1880, pp. 64-67; G. GUERRIERI, Gli Ebrei a Brindisi e a Lecce (1409-1497). Contributo allo studio dell’usura nell’Italia meridionale, cit.; N. FERORELLI, Gli ebrei nell’Italia meridionale dall’età romana al secolo XVIII, cit., pp. 59, 235-236; R. CAGGESE, Ro-berto d’Angiò e i suoi tempi, Firenze, 1922, pp. 300-301, 303; G. NEBBIA, Donnolo, medico e sapiente di Oria in provincia di Brindisi nel 1050° anniversario della nascita, cit.; Codice Diplomatico Brindi-sino, a cura di Michela Pastore, vol. II, Trani,1964, doc.94, pp.242-244; C. COLAFEMMINA, Iscrizioni ebraiche a Brindisi, in «Brundisii res», n.5, 1973, pp. 91-106; ID., Iscrizioni romane di Brindisi a Trani, cit.; ID., L’iscrizione brindisina di Baruch ben Yonah e Amittai da Oria, in «Brundisii res», n.7, 1975, pp. 295-300; A. FRASCADORE, Gli ebrei a Brindisi nel ‘400. Da documenti del codice diplomatico di Annibale De Leo, a cura di Cesare Colafemmina, Galatina, Congedo, 2002.
54 F. PATRONI GRIFFI, Gli ebrei nel Mezzogiorno peninsulare nel XII secolo, cit., p. 216.
55 H. HOUBEN, Possibilità e limiti della tolleranza religiosa, cit., p. 221.
56 ID., Gli ebrei nell’Italia meridionale, cit., p. 206. 57 Sulla comunità ebraica di Venosa, fra gli altri: R. GARRUCCI, Cimitero ebraico di Venosa in Puglia, in «La Civiltà Cattolica», Roma, S. XII, 1,1883, pp. 707-20; U. CASSUTO, Nuove iscrizioni ebraiche di Venosa, in «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», n. 4, 1934, pp. 1-9; ID., Ancora nuove iscrizioni ebraiche di Venosa, in «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», n. 5, 1935, pp. 129-34; C. COLAFEMMINA, Apulia cristiana. Venosa. Studi e scoperte, Bari, Ecumenica Editrice,1973; ID., Nova e vetera nella catacomba ebraica di Venosa, in Studi storici, a cura di Ce-sare Colafemmina, Molfetta, Ecumenica Editrice, 1974, pp. 87-94; ID., Nuove iscrizioni ebraiche a Venosa, in Studi in memoria di p. Adiuto Putignani, Società di storia patria per la Puglia, Sezione di Taranto, Cassano M., Ecumenica Editrice, 1975, pp. 41-46; ID., Insediamento e condizione degli Ebrei nell’Italia meridionale e insulare, in Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo. XXVI: Gli ebrei nell’Alto Medioevo (Spoleto 30 marzo-5 aprile 1978), Spoleto, 1980, pp.202-216 (anche cit. in H. HOUBEN, Melfi e Venosa, in Mezzogiorno normanno-svevo. Monasteri e castelli, ebrei e musulmani, cit., p. 321, nota 3); ID., Un’iscrizione venosina inedita dell’822, in «La Rassegna Mensile di Israel», n. 43, 1977, pp. 261-263; ID., Nuove scoperte nella catacomba ebraica di Venosa, in «Vetera Christianorum», n. 15, 1978, pp. 369-381, con tavole; ID., Tre iscri-zioni ebraiche inedite di Venosa e Potenza, in «Vetera Christianorum», n. 20,1983, pp. 443-448; ID., Tre nuove iscrizioni ebraiche a Venosa, in «Vetera Christianorum», n. 24, 1987, pp. 201-209. 58 H. HOUBEN, Melfi e Venosa, in Mezzogiorno normanno-svevo. Monasteri e castelli, ebrei e musulmani, cit., p. 327. Il saggio è stato anche pubblicato in H. HOUBEN, Melfi, Venosa, in Itinerari e centri urbani nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle decime giornate normanno-sveve, cit., pp. 311-321. 59 C. COLAFEMMINA, Insediamento e condizione degli Ebrei nell’Italia meridionale e insulare, cit., p. 216, cit. in H. HOUBEN, Melfi e Venosa, cit., p. 327, nota 51. 60 H. HOUBEN, Melfi e Venosa, cit., p. 327.
61 G. DRAGON, Le traité de Grégoire de Nicée sur le bapteme des Juifs, in «Travaux et mé-moires», n.11, 1991, pp. 347-357 e F. CICOLELLA, Basil I and the Jews: two poems of the ninth century, in «Medioevo greco. Rivista di storia bizantina», 0, 2000, pp. 69-94: cit. in V. VON FALKE-NHAUSEN, Tra Occidente e Oriente: Otranto in epoca bizantina, cit., p. 36, nota 84.
62 AHIMA’AZ BEN PALTIEL, Sefer Yuhasin. Libro delle discendenze. Vicende di una famiglia ebraica di Oria nei secoli IX-XI, cit., pp. 87-103.
63 V. VON FALKENHAUSEN, Tra Occidente e Oriente: Otranto in epoca bizantina, cit., p. 36, nota 84.
64 Storia di Bari. Dalla conquista normanna al ducato sforzesco, a cura di G. Musca e F. Tateo, Bari, Laterza, 1990, p. 245.
65 H. HOUBEN, Gli ebrei nell’Italia meridionale tra la metà dell’XI e l’inizio del XIII secolo, in L’Ebraismo dell’Italia meridionale peninsulare dalle origini al 1541, cit., pp. 48ss.
66 C. COLAFEMMINA, Gli ebrei in Benevento, in Italia Judaica. Gli ebrei nello Stato Pontificio fino al Ghetto, cit., pp. 209ss.
67 P. CESARETTI, Da ‘Marco d’Otranto’ a Demetrio. Alcune note di lettura su poeti bizantini del Salento, in «Rivista di studi bizantini e neoellenici», n. 37, 2000 (ma 2001), pp. 184-194, cit. in V. VON FALKENHAUSEN, Tra Occidente e Oriente: Otranto in epoca bizantina, cit., p. 38, nota 91. 68 N. Doxapatres, Taxis ton patriarkikon Tronon, a cura di F.N. Finck, Marburg, 1902, p. 28, in Ivi, p. 39, nota 93. Nel suo trattato, Nilo Dossopatre sosteneva il primato di Costantinopoli, “nuovaֶ Roma”ֶ daֶ quandoֶ nelֶ 330ֶ laֶ capitaleֶ dell’imperoֶ eraֶ stataֶ trasferitaֶ nellaֶ cittàֶ suֶ Bosforo,ֶ
nonché, conformemente alle disposizioni del Concilio di Calcedonia del 451, il conseguente primato del patriarca bizantino su tutta la chiesa. Secondo Pietro Marti invece si tratterebbe dello stesso Marco, arcivescovo di Otranto, e valente innografo. P P. Marti, Origine e fortuna della Coltura sa-lentina (Dallo Stabilimento delle Colonie Greche fino a tutto il secolo XVI), Lecce, Tipografia Coo-perativa, 1893, p. 59.
69 A. JACOB, Gallipoli bizantina, in Paesi e figure del Vecchio Salento, a cura di Aldo de Bernart, Volume Terzo, Galatina, Congedo, 1989, p. 281.
70 V. VON FALKENHAUSEN, La dominazione bizantina, cit., pp. 163-164.
71 Relatio de legatione Constantinopolitana, in Liutprandi Cremonensis Opera Omnia, a cura di Paolo Chiesa (Corpus Christianorum, Continuatio Medievalis 156), Turnhout, Brepols, 1998, c. 58, p. 213.
72 V. VON FALKENHAUSEN, Tra Occidente e Oriente, cit., p. 47, che però informa che secondo fonti più accreditate suffraganea di Otranto fosse la sola Tursi.
73 EAD., Tra Occidente e Oriente, cit., pp. 13-60.
74 C. D. POSO, Immagine e forma urbana di Otranto dai Normanni agli Angioini, in Otranto nel Medioevo, cit., p. 100.
75 De terminatione provinciarum Italiae, a cura di F. Glorie, in Corpus Christianorum, Series Latina CLXXV, Brepols, Itineraria et alia geographica, Turnhout, 1965, Vol. I, p. 359.
76 De provinciis Italiae seu Catalogus provinciarum Italiae (CPL 2340), a cura di F. Glorie, in Ivi, p. 368. La monumentale opera, in tre volumi, contiene anche: Iulianus Toletanus (pseudo)- De nominibus locorum vel cursu ribulorum (CPL 1265) – ed. P. Geyer, O. Cuntz, A. Franceschini, R. Weber, L. Bieler, J. Fraipont, F. Glorie; Anonymus Burdigalensis – Itinerarium Burdigalense (CPL 2324) – ed. P. Geyer, O. Cuntz; Egeria – Itinerarium (CPL 2325) – ed. P. Geyer, O. Cuntz; Eucherius (pseudo) – De situ Hierosolimae ( CPL 2326 ) – ed. J. Fraipont; Anonymus – Breviarius de Hiero-solyma ( CPL 2327 ) – ed. R. Weber; Theodosius – De situ terrae sanctae ( CPL 2328 ) – ed. P. Geyer; Antoninus Placentinus (pseudo) – Itinerarium ( CPL 2330 ) – ed. P. Geyer; Adomnanus abbas Hiensis – De locis sanctis (CPL 2332, CHL 568) – ed. L. Bieler; Beda Venerabilis – De locis sanc-tis (CPL 2333) – ed. J. Fraipont; Itineraria romana – Notula de olea sanctorum martyrum qui Romae corpore requiescunt (CPL 2334) – ed. F. Glorie; Itineraria romana – Cimiteria totius Romanae Ur-bis (CPL 2335) – ed. F. Glorie; Itineraria romana – Notitia ecclesiarum Urbis Romae (CPL 2336) – ed. F. Glorie; Itineraria romana – Itinerarium Malmesburiense (CPL 2337) – ed. F. Glorie; Itineraria romana – Itinerarium Einsidlense (CPL 2338) – ed. F. Glorie; Itineraria romana – De locis sanctis martyrum quae sunt foris civitatis Romae (CPL 2339) – ed. F. Glorie; Geographica – Versum de Mediolano civitate (CPL 2341) – ed. F. Glorie; Geographica – Notitia provinciarum et civitatum Galliae (CPL 2342) – ed. F. Glorie; Geographica – De urbibus Gallicis (CPL 2343) – ed. F. Glorie; Geographica – Parochiale Suevum (CPL 2344) – ed. F. Glorie; Geographica – Provinciale Visigothi-cum seu Nomina Hispanarum sedium (CPL 2345) – ed. F. Glorie; Geographica – De nominibus lo-corum vel cursu ribulorum (CPL 2346) – ed. F. Glorie; Geographica – Mappa mundi e cod. Albig. 29 (CPL 2346a) – ed. F. Glorie; Geographica – Mappa mundi e cod. Vat. Lat. 6018 (CPL 2346b) – ed. F. Glorie; Geographica – Versus de Asia et de universi mundi rota (CPL 2347) – ed. F. Glorie. 77 PAOLO DIACONO, Storia dei Longobardi, a cura di Antonio Zanella, con un saggio di Bruno Luiselli, testo latino a fronte, Bur classici greci e latini, Milano, Mondadori, 2018, p. 261.
78 G. MAKRIS, Ignatios Diakonos Und Die Vita Des Hl. Gregorios Dekapolites, Byzantinische Archiv, De Gruyter, 1997, pp. 96-98.
79 IBN HAUQAL, Configuration de la Terre (Kitab surat al-ard), a cura di J. H. Krames e G. Wiet, 1, Beirut-Parigi, 1969, carta 1, nn. 37-39, carta 4, e p. 61, nn.158sg, carta 8, p. 189, nn.101-103, in V. VON FALKENHAUSEN, Tra Occidente e Oriente: Otranto in epoca bizantina, cit., p. 35, nota 82.
80 V. VON FALKENHAUSEN, Tra Occidente e Oriente, cit., p. 35. Butritto e Otranto sono anche menzionati nella Expositio mappe mundi, un testo del XII secolo: Ivi, p. 35, nota 83.
81 Liutprandi Cremonensis Opera Omnia, cit.
82 EDRISI, Libro del Re Ruggero, a cura di M. Amari e G. Schiaparelli, in «Atti dell’Accademia dei Lincei», vol. VIII, Roma, 1883, pp. 76, 135, cit. in H. HOUBEN, Comunità cittadina e vescovi in età normanno-sveva, cit., p. 65, nota 22. Edrisi chiama la Puglia buliah: B. VETERE, Puglia e Lucania in epoca normanna, in «Itinerari di ricerca storica», n. X, Galatina, Congedo Editore, 1996, p. 9.
83 EDRISI, Libro del Re Ruggero, cit., p.76, cit. in B. VETERE, Puglia e Lucania in epoca nor-manna, cit., p. 11.
84 Il monachesimo italo greco è spesso definito basiliano. In realtà, come afferma la von Falke-nhausen, il termine non è appropriato in quanto i canoni della santità monastica greca si basavano piuttosto sugli ideali eremitici dei padri del deserto fra i quali in primis S. Antonio Abate. «L’ordo sancti Basilii è una creazione occidentale, inventata, a quanto pare, nella cancelleria di papa Inno-cenzo III per distinguere i monasteri greci dell’Italia meridionale e della Sicilia da quelli che erano ordinis sancti Benedicti»: V. VON FALKENHAUSEN, in I bizantini in Italia, a cura di Guglielmo Ca-vallo, Vera von Falkenhausen, Milano, Garzanti-Scheiwiller, 1982, p. 116.
85 H. OMONT, Le typicon de Saint Nicolas di Casole prés d’Otrante, in «Revue des études grec-ques», n. 3, 1980, p. 384.
86 Il Marciano scrive: «Quivi poco infra terra, si vede sopra la schiena del Monte Idro l’antico monastero di S. Nicola di Casole, edificato nei tempi di Teodoro Imperatore». G. MARCIANO, De-scrizione, Origine e Successi della Provincia di Otranto, Napoli, 1855, p. 375. «Gli studiosi hanno pensato per molto tempo, impressionati dalla profonda cultura di NicolaNettario, igumeno del mo-nastero di S. Nicola di Casole a partire dal 1219-1220, che quel monastero fosse stato il centro dal quale si era irradiata tutta la cultura, compresa quella profana, nel Salento», scrive Philippe Hoff-mann: P. HOFFMANN, Aspetti della cultura bizantina in Aradeo dal XIII al XVII secolo, in Paesi e figure del Vecchio Salento, a cura di Aldo de Bernart, vol. III, cit., p. 68. In realtà, prosegue il bi-zantinista,ֶ “Vedere l’articolo «emblematico» di A. e O. PARLANGELI, Il monastero di San Nicola
di Casale, centro di cultura bizantina in Terra d’Otranto, cit.. Vedere anche Marco PETTA, Codici greci della Puglia trasferiti in biblioteche italiane ed estere, in «Bollettino della Badia Greca di Grot-taferrata», n.s. 26, 1972, p. 124 e Guglielmo CAVALLO, La cultura italo-greca nella produzione libraria, in AA.VV., I bizantini in Italia, a cura di Guglielmo Cavallo e Vera von Falkenhausen, cit., p. 602: il cenno del De situ Japigiae di Antonio de Ferrariis ha contribuito non poco ad una so-pravalutazione del ruolo culturale del monastero (questo testo è commentato con prudenza da Nigel G. WILSON, The libraries of the Byzantine World, studio ripreso in Griechische kodikologie und Textiiberlieferung, raccolta pubblicata da D. Harlfinger, Darmstadt 1980, vedere pp. 295-299”:ֶ Ivi, p. 85, nota 37.
87 Sul mosaico di Pantaleone, tra gli altri: C. SETTIS-FRUGONI, Per una lettura del mosaico pa-vimentale della Cattedrale di Otranto, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medio evo e Archivio Muratoriano», n. 80, Roma, 1968, pp. 213-256; EAD., Il mosaico di Otranto, modelli cul-turali e scelte iconografiche, Ivi, n. 82, 1970, pp. 243-270; EAD., Il mosaico della cattedrale di Otranto, in La Puglia fra Bisanzio e l’Occidente, a cura di P. Belli D’Elia, Milano, Electa, 1980, pp. 197ss; C.A. WILLEMSEN, L’enigma di Otranto. Il mosaico pavimentale del presbitero Pantaleone nella Cattedrale, Galatina, Congedo, 1980; L. PASQUINI, Una nuova lettura iconografica del presbiterio di Otranto alla luce delle fonti scritte: notizie preliminari, in Aiscom, Atti del IX Colloquio dell’Associa-zione italiana per lo studio e la conservazione del mosaico, Aosta 20-22 febbraio 2003, a cura di C. Angelelli, Ravenna, Edizioni del Girasole, 2004, pp. 529-540: M. CASTINEIRAS, L’Alessandro an-glonormanno e il mosaico di Otranto: una ekprasis monumentale?, in «Troianalexandrina», n. 4, 2004, pp. 41-86; C. GELAO, Un capitolo sconosciuto di arte decorativa. «Tecta depicta» di chiese medievali pugliesi, Bari, s.d. (ma 1982), pp. 33ss.; oltre ai numerosi lavori di Grazio Gianfreda.
88 Sull’edificio: E. BERTAUX, L’Art dans l’Italie meridionale, Paris, 1904; L. MAROCCIA, L’Edi-cola Bizantina di S. Pietro in Otranto, Lecce, 1925; G. GIANFREDA, Basilica bizantina di San Pietro. Storia e Arte, Galatina, Editrice Salentina, 1985; L. SAFRAN, San Pietro ad Otranto. Arte bizantina in Italia meridionale, Roma, Edizioni Rari Nantes, 1992.
89 GUILLAUME DE POUILLE, Le geste de Robert Guiscard, a cura di M. Mathieu, Palermo, 1961, p. 148, vv. 293-296, riportato da H. HOUBEN in Comunità cittadina e vescovi in età normanno sveva, in Otranto nel Medioevo, cit., p. 61, nota 1.
90 Houben si rifà a Lupo Protospatario: LUPO PROTOSPATARIO, Annales, a cura di G. H. Pertz, Hannover, 1844 (M.G.H. Scriptores, 5), pp. 52-63, poi ristampato in G. CIOFFARI, R. LUPOLI TATEO, Antiche cronache di Terra di Bari, Bari, 1991 (Memorie e Documenti, 5), pp. 263-275, cit. in H. HOUBEN, Comunità cittadina e vescovi in età normanno sveva, cit., p. 61. 91 V. VON FALKENHAUSEN, La dominazione bizantina, cit., p. 97.
92 H. HOUBEN, Comunità cittadina e vescovi in età normanno sveva, cit., pp. 61-62. Si veda Chro-nicon Breve Northmannicum, a cura di L. A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, 5, Milano, 1724, p. 278, un documento ritenuto autentico da E. Cuozzo e un falso da A. Jacob: Ivi, p. 61, nota 3.
93 ANONYMUS BARENSIS, Chronicon, a cura di L.A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, 5, Milano, 1724, pp. 147-156, ristampato in G. CIOFFARI, R. LUPOLI TATEO, Antiche cronache di Terra di Bari, cit., pp. 174-184, cit. in H. HOUBEN, Comunità cittadina e vescovi in età normanno sveva, cit., p. 61, nota 5.
94 AMATO DI MONTECASSINO, Storia de’ Normanni volgarizzata in antico francese, a cura di V. De Bartholomaesis, Roma, 1935 (Fonti per la Storia d’Italia, 76), V. 26, p. 247; LEONE MARSICANO, Chronica monasterii Casinensis, a cura di H. Hoffmann, Hannover, 1980 (in M.G. H. Scriptores, 34), III, 15, p. 378: cit. in H. HOUBEN, Comunità cittadina e vescovi in età normanno sveva, cit., p. 63, nota 9. 95 Per un primo approccio alla sua figura, si consulti F. LUZZATI LAGANÀ, Giorgio Maniace, in Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, vol. 69, 2007 (on line). 96 GOFFREDO MALATERRA, De rebus gestis Rogerii Calabriae et Sicilae comitis et Roberti ducis fratris eius, a cura di E. Pontieri, Bologna, 1928 (Rerum Italicarum Scriptores, 5), II, 43, cit. in H. HOUBEN, Comunità cittadina e vescovi in età normanno sveva, cit., p. 63, nota 10, e ANNA COM-MENA, Alexiade, a cura di B. Leib, Paris, 1967, p. 51, cit. in ivi, p. 63, nota 13. Sui traffici commer-cialiֶ versoֶ l’Orienteֶ cheֶ siֶ convogliavanoֶ nelֶ portoֶ idruntino,ֶ inֶ particolareֶ versoֶ l’Albania,ֶ siֶ
veda L. IMPERIALE, Ceramiche e commerci nel Canale d’Otranto tra X e XI secolo. Riflessioni sulla cultura materiale bizantina tra Salento e Albania meridionale, in Ricerche archeologiche in Alba-nia. Atti dell’incontro di studi, Cavallino-Lecce 29-30 aprile 2011, a cura di Gianluca Tagliamonte, Roma, Aracne Editrice, 2014, pp. 327-342. Sull’attività dei porti pugliesi e sull’intensa attività com-merciale fra Puglia e Campania fra X e XII secolo, si veda C. MASSARO, La “politica economica” di Tancredi, in Tancredi Conte di Lecce Re di Sicilia, cit., pp. 175-191.
97 H. HOUBEN, Comunità cittadina e vescovi in età normanno sveva, cit., p. 63.
98 Ivi, p. 64. 99 GOFFREDO MALATERRA, De Rebus gestis, cit., p. 51, cit. in B. VETERE, Brindisi, Otranto, in Itinerari e centri urbani nel Mezzogiorno normanno-svevo, cit., p. 436, nota 48. 100 GUILLERMI APULIENSIS, Gesta Roberti Wiscardi, ed. M. Mathieu, Palermo, 1961, 1, V, vv. 130-138, cit. in B. VETERE, Brindisi, Otranto, cit., p. 437, nota 52. 101 B. VETERE, Brindisi, Otranto, cit., p. 437, nota 52. 102 ANNA COMMENA, Alexiade, p. 51, in B. VETERE, Brindisi, Otranto, cit., p. 437, nota 50. 103 GOFFREDO MALATERRA, De Rebus gestis, pp. 81-82, in Ivi, p. 437, nota 51.
104 C. D. POSO, Immagine e forma urbana di Otranto dai Normanni agli Angioini, in Otranto nel Medioevo, cit., p. 102.
105 Ivi, p.104. Su Boemondo si veda almeno: Boemondo. Storia di un principe normanno. Atti del Convegno di Studio su Boemondo, da Taranto ad Antiochia a Canosa. Storia di un principe normanno, Taranto-Canosa, maggio-novembre 1998, a cura di F. Cardini, N. Lozito, B. Vetere, Ga-latina, Congedo, 2003. 106 Ivi, p.105. 107 V. VON FALKENHAUSEN, Tra Occidente e Oriente, cit., p. 47. Come già detto, ad Otranto, la tradizione e la religiosità bizantina permanevano più forti e radicati rispetto ai costumi e al rito latini, con i quali comunque convivevano. Girgensohn ha parlato di uno scisma locale: D. GIRGENSOHN, Dall’episcopato greco all’episcopato latino nell’Italia meridionale, in La Chiesa greca in Italia dall’VIII al XVI secolo. Atti del Convegno storico interecclesiale, Bari, 30 aprile-4 maggio 1969, vol. 1, Padova, 1973, p. 38. Ma Houben sostiene che non si trattò di uno scisma ma che più sempli-cemente dalla conquista normanna in poi gli arcivescovi otrantini furono latini mentre il clero rimase prevalentemente greco. H. HOUBEN, Comunità cittadina e vescovi in età normanno-sveva, cit., p. 74. Sul passaggio dal dominio bizantino al dominio normanno e sul tema della convivenza fra rito greco e latino, una vasta bibliografia. Tra gli altri, P. HERDE, Il papato e la Chiesa Greca nell’Italia meridionale dall’XI al XIII secolo, in La Chiesa greca in Italia dall’VIII al XVI secolo, cit., pp. 213-255; N. KAMP, Vescovi e diocesi nell’Italia meridionale nel passaggio dalla dominazione bizantina allo stato normanno, in Il passaggio dal dominio bizantino al dominio normanno nell’Italia meri-dionale. Atti del secondo Convegno internazionale (Taranto-Mottola, 31 ottobre – 4 novembre 1973) (Convegni di studio sulla civiltà rupestre medioevale nel Mezzogiorno d’Italia, 2), Taranto, 1977, pp. 165-187, ecc. 108 Cecaumeni Strategicon et incerti scriptoris de officiis regiis libellus, a cura di B. Wassiliev-sky – V. Jernstedt, St. Petrsburg, 1896, ristampa Amsterdam,1965, pp. 29-30, cit. in C.D. POSO, Immagine e forma urbana di Otranto dai Normanni agli Angioini, cit., p. 111, nota 32. 109 ANONYMUS BARENSIS, Chronicon, a cura di L.A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, 5, Milano, 1724, p. 152, cit. in C.D. POSO, Immagine e forma urbana di Otranto dai Normanni agli Angioini, cit., p. 112, nota 33.
110 CECAUMENO, Raccomandazioni e consigli di un galantuomo, a cura di M. D. Spadaro, Alessan-dria, 1998, pp. 114-117, in V. VON FALKENHAUSEN, Tra Occidente e Oriente, cit., p. 50, nota 148. 111 V. VON FALKENHAUSEN, Tra Occidente e Oriente, cit., pp. 50-51.
112 ROMUALDO SALERNITANO, Chronicon, ed. C.A. Garufi, Città di Castello, 1935 (RIS VII, 1), p. 227; NICETA CONIATA, Grandezza e catastrofe di Bisanzio (narrazione cronologica), Vol. I, a cura di A.P. Kazhdan, R. Maisano, A. Pontano, Milano, 1994, p. 169, cit. in C.D. POSO, Immagine e forma urbana di Otranto dai Normanni agli Angioini, cit., p. 148, nota 159.
113 Su Tancredi, si veda il già citato Tancredi Conte di Lecce Re di Sicilia.
114 P. GAUTIER DALCHÉ, Carte marine et portulan au XII° siècle. Le «Liber de existencia rive-riarum et forma maris nostri Mediterranei» (Pise, circa 1200), Roma, 1995 (Collection de l’École francaise de Rome 203), pp. 155-156, in C.D. POSO, Immagine e forma urbana di Otranto dai Nor-manni agli Angioini, cit., p. 152, nota 169.
115 G. B. PARKS, The English traveler to Italy, I, The Middle Ages (to 1525), Roma, 1954, pp. 179-185, fig. 8b; e anche D. K. CONNOLLY, Imagined Pilgrimage in the Itinerary Maps of Matthew Paris, in «The Art Bulletin», n. 81, 1999, p. 616, fig. 15: entrambi in C.D. POSO, Immagine e forma, cit., p. 153 e nota 173.
116 Itinerarium cuiusdam Anglici Terram Sanctam et alia loca sancta visitantis (1344-1345), in G. GOLUBOVICH, Biblioteca bio-bibliografica della Terra Santa e dell’Ordine francescano, 4, Qua-racchi, 1923, p. 443, cit. in Ivi, p. 151, nota 167.
117 EDRISI, Libro del Re Ruggero, cit. Sulle origini di Edrisi e sulla formazione del suo libro si veda anche H. HOUBEN, Ruggero II di Sicilia. Un sovrano tra Oriente e Occidente, cit., pp. 132-134, e B. VETERE, Brindisi, Otranto, in Itinerari e centri urbani nel Mezzogiorno normanno-svevo, cit., p. 427. 118 EDRISI, Libro del Re Ruggero, cit., p. 76. 119 Per la data di composizione dell’opera: R. RUBINACCI, La data della geografia di al-Idrisi, in «Studi Magrebini», III, 1970, pp. 73-77; inoltre B. VETERE, Brindisi, Otranto, cit., p. 427, nota 1. 120 BACCHISIO R. MOTZO, Il compasso da navigare. Opera italiana della metà del secolo XIII, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari», vol. VIII, 1947, cit. in B. VETERE,, Brindisi, Otranto, cit., p. 428.
121 Come lamenta anche V. BOCCADAMO, L’Archivio diocesano di Otranto, in Terra d’Otranto in età moderna. Fonti e ricerche di storia religiosa e sociale, a cura di Bruno Pellegrino, Galatina, Congedo, 1984, pp. 293-299. 122 B. VETERE, Brindisi, Otranto, cit., p. 429. 123 Ivi, p.435.
124 SAEWULFUS, Certa relatio de situ Ierusalem, in Itinera Hierosolymitana crucesignatorum (saec. XII-XIII), II, Tempore Regum Francorum (1100-1187), a cura di S. De Sandoli, Jerusalem, 1980, p. 6, cit. in C.D. POSO, Immagine e forma, cit., p. 113, nota 39.
125 C.D. POSO, Immagine e forma, cit., p. 147.
126 ROBERTUS MONACHUS, Historia Hierosolimitana, in Itinera Hierosolymitana crucesignato-rum (saec. XII-XIII), I, Tempore primi belli sacri, a cura di S. De Sandoli, Jerusalem, 1978, V, p. 202, cit. in R. LICINIO, Bari e la terra, in Itinerari, cit., p. 140, nota 50.
127 C.D. POSO, Immagine e forma, cit., p. 147.
128 H. HOUBEN, Introduzione, in Otranto nel Medioevo, cit., p. 7.
129 RYCCARDI DE SANCTO GERMANO, Chronica, a cura di C.A. Garufi, Bologna, 1937-38 (RIS, Nuova ed., VII, 2), p. 147, cit. in C.D. POSO, Immagine e forma, cit., p. 123.
130 NICOLAUS DE JASMILLA, Historia de rebus gestis Friderici secundi imperatoris eiusque flio-rum Conradi et Manfridi Apuliae et Siciliae regum, in Cronisti e scrittori sincroni napoletani, a cura di G. Del Re, vol. 2, Napoli, 1868, pp. 159-160, cit. in Ivi, p. 120, nota 68.
131 C.D. POSO, Immagine e forma, cit., pp. 120-121.
132 Ivi, p. 159. Si rimanda a P. CORRAO, Arsenali, costruzioni navali e attrezzature portuali in Sicilia (secoli X-XV), in Arsenali e città nell’Occidente europeo, a cura di E. Concina, Roma, 1987, p. 37; inoltre M. DEL TREPPO, La marina napoletana nel Medioevo: porti, navi, equipaggi, in La fabbrica delle navi. Storia della cantieristica nel Mezzogiorno d’Italia, a cura di A. Fratta, Napoli, 1990, p. 40, anche citati da C.D. POSO, Immagine e forma, cit., p. 158, nota 187.
133 Ivi, pp. 160-161. Si veda: P. DALENA, Il sistema portuale e la marineria in età angioina, in Mediterraneo, Mezzogiorno, Europa. Studi in onore di Cosimo Damiano Fonseca, a cura di G. An-denna e H. Houben, Bari, Adda Editore, 2004, Vol. 1, pp. 368-372.
134 C. COLAFEMMINA, L’itinerario pugliese di Beniamino da Tudela, cit., p. 83.
135 Ivi, p. 85. Su Melfi, il già citato H. HOUBEN, Melfi e Venosa, in Mezzogiorno normanno-svevo. Monasteri e castelli, ebrei e musulmani, cit., pp. 319-336.
136 Ibid.
137 Ivi, pp. 87-88.
138 Ibid.
139 P. CORSI, Bari e il mare, in Itinerari, cit., p. 114.
140 R. LICINIO, Bari e la terra, in Itinerari, cit., p. 123. Bari, come è noto, si identificava total-mente nel suo protettore. «La basilica, allora in costruzione, custodiva le reliquie del vescovo di Mira, un santo molto venerato sia in Oriente sia in Occidente. Il suo culto era a Bari assai diffuso ancora prima della traslazione nella città del suo corpo a opera di marinai baresi ne1 1087. La pre-senza delle reliquie aveva fatto di Bari un centro devozionale rinomatissimo, tanto che il forestiero Beniamino chiama la città sic et simpliciter “Colo di Bari”. I baresi non tardarono a ricostruire la 1oro città, e anche gli ebrei vi tornarono. Essi vi dimoravano dai primi secoli del Cristianesimo, dandoֶ vitaֶ aֶ unֶ centroֶ culturale,ֶ notoֶ sinֶ dalֶ sec.ֶ IX.ֶ […]»: Ibid.
141 C. COLAFEMMINA, L’itinerario pugliese di Beniamino da Tudela, cit., p. 87 e dello stesso autore, La conversione al Giudaismo di Andrea, arcivescovo di Bari: una suggestione per Giovanni-Ovadiah da Oppido, in Giovanni-Ovadiah da Oppido, proselito, viaggiatore e musicista dell’età nor-manna. Atti convegno Oppido Lucano 2004, a cura di Antonio De Rosa e Mauro Perani, Firenze, Giuntina, 2005, pp. 55-65. Ancora sugli ebrei di Bari, ID., Gli ebrei a Bari nella tarda antichità: l’ipogeo funerario rinvenuto nel 1923, in «Sefer Yuhasin», n. 21-22, 2005-2006, pp. 5-15.
142 Ivi, p. 89.
143 Ivi, pp. 90-91.
144 G.I. ASCOLI, Iscrizioni inedite o mal note greche, latine, ebraiche di antichi sepolcri giudaici nel Napolitano […], Nabu Press, 2012, e C. COLAFEMMINA, Iscrizioni ebraiche a Brindisi, cit., in ivi, p. 92, nota 47.
145 Ivi, p. 92. Su R. Aqiba: P. BENOIT, Rabbi Aqiba ben Yosef, saggio del giudaismo, in Esegesi e teologia, Roma, 1964, pp. 627-284, cit. in ivi, p. 92, nota 48.
146 Ivi, p. 92.
147 Ivi, p. 93. C. COLAFEMMINA, Gli ebrei di Bari e di Otranto in una lettera di Hasdai ibn Shaprut di Cordova, in Bitonto e la Puglia tra tardoantico e regno normanno. Atti del 13 Convegno, Bitonto, 15-17 ottobre 1998, a cura di C.S. Fiorello, Bari, Edipuglia, 1999, pp. 247-256.
148 Colafemmina cita il poeta Menahem Corizzi (X secolo): I. SONNE, Alcune osservazioni sulla poesia religiosa ebraica in Puglia, cit. Sui poeti e gli intellettuali ebrei presenti ad Otranto, M. PE-RANI, A. GRAZI, La “scuola” dei copisti ebrei pugliesi (Otranto?) del secolo XI. Nuove scoperte. Atti di “L’ebraismo dell’Italia meridionale nel contesto mediterraneo. Nuovi contributi”, Siracusa, 25-27 settembre, in «Materia Giudaica», Bollettino dell’associazione italiana per lo studio del giu-daismo, Firenze, 11/1-2, 2006, pp. 13-41. 149 J. BEN MEIR TAM, Sefer ha- Yashar, cit. da J. COHEN, The Friars and the Jews. The evolution of Medieval Anti-Judaism, Ithaca-London, 1982, p. 85, riportato da H. HOUBEN, Comunità cittadina e vescovi in età normanno-sveva, cit., p. 66, nota 26.
150 C. COLAFEMMINA, La cultura nelle giudecche e nelle sinagoghe, in Centri di produzione della cultura nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle dodicesime giornate normanno-sveve, Bari, 17-20 ottobre 1995, a cura di Giosuè Musca, Edizioni Dedalo, Bari, 1997, pp. 93ss., e H. HOUBEN, Comunità cittadina e vescovi in età normanno-sveva, cit., p. 66, nota 27. Si veda anche C. COLAFEMMINA, “Da Bari uscirà la legge e la parola di Dio da Otranto”; la cultura ebraica in Puglia nei secoli IX-XI, in «Sefer Yuḥasin», nn. 10-11, 1994-1995, pp. 3-21, riedito in Dagli dei a Dio. Parola sacre e parole profetiche sulle sponde del Mediterraneo. Atti del Convegno internazio-nale di Biblia, Bari, 13-15 settembre 1991, a cura di Cesare Colafemmina, Cassano Murge, Mes-saggi, 1997, pp. 131-151.
151 H. HOUBEN, Comunità cittadina e vescovi in età normanno-sveva, cit., p. 66, nota 28.
152 C. COLAFEMMINA, Di un’iscrizione greco-ebraica di Otranto, in «Vetera Christianorum», n. 12, 1975, pp. 131-132.
153 ID., Un poeta ebraico a Otranto nel XIII secolo: Anatoli, in «Archivio Storico Pugliese», n. 30, 1977, pp. 177-190. Ancora sugli ebrei ad Otranto: ID., Gli epitalami di Meiuchas e Shabbetai da Otranto, in «Brundisii res», n. 9, 1977, pp. 45-67; ID., Documenti sullo stato di Terra d’Otranto nel 1483, in «Brundisii res», n. 13, 1981, pp. 75-89; ID., Gli ebrei di Bari e di Otranto in una lettera di Hasdai ibn Shaprut di Cordova, cit.; G. R. SCHIRONE, Giudei e giudaismo in Terra d’Otranto, Cassano Murge, Messaggi, 2001; EAD., Vita terrena e aldilà nei poeti giudei otrantini (secc. XXIII), in «Quaderni di Studi», n. 2, 2002, pp. 137-164.
154 C. D. POSO, Immagine e forma urbana, cit., p. 127.
155 JACOPO DA VERONA, Liber peregrinationis, a cura di U. Monneret de Villard, Roma, 1950, pp. 14-15, ripubblicata in Pellegrinaggio ai Luoghi Santi. Liber peregrinationis di Iacopo da Ve-rona, presentazione e traduzione di V. Castagna, Verona, 1990, pp. 214, 215: C. D. POSO, Immagine e forma urbana, cit., p. 127, nota 95. Si veda anche H. HOUBEN, Nord e Sud: immagini di due città del Mezzogiorno d’Italia (Brindisi e Otranto) in resoconti di viaggiatori (sec. XIV-XVI), in Imago urbis. L’immagine della città nella storia d’Italia. Atti del Convegno internazionale, Bologna, 5-7 settembre 2001, a cura di Francesca Bocchi e Rosa Smurra, Roma, Viella, 2003, pp. 309-322.
Per una supplemento bibliografico sulla storia degli Ebrei nell’Italia meridionale e in Terra d’Otranto, oltre a quelli già citati: A. MILANO, Storia degli ebrei in Italia, Torino, Einaudi, 1963; A. FOA, Ebrei in Europa dalla peste nera all’emancipazione, Roma-Bari, Laterza, 2004; A. TOAFF, Il vino e la carne, una comunità ebraica nel medioevo, Bologna, Il Mulino, 2007; di C. COLAFEMMINA, Gli ebrei a Vieste, in «Rassegna di Studi Dauni», n. 3, 1976, pp. 49-53; Le giudecche di Bari, Con-versano e Barletta alla fine del XV secolo, in «La Rassegna Mensile d’Israel», n.44,1978, pp. 619-629; Donne, ebrei e cristiani, in «Quaderni medievali», n. 8, 1979, pp. 117-125; Presenza ebraica a Bitetto e Palo del Colle nel secolo XV, in «Brundisii res», n. 11, 1979, pp. 39-50; Di un’iscrizione biblica (Ps. 125,1) e di altri graffiti, in Il santuario di S. Michele sul Gargano dal VI al IX secolo. Contributo alla storia della Langobardia meridionale. Atti del Convegno tenuto a Monte Sant’An-gelo, 9-10 dicembre 1978, a cura di Carlo Carletti e Giorgio Otranto, Bari, Edipuglia,1980, pp. 337-345; Un’iscrizione paleocristiana e il culto di Santa Aurelia Marcia a Luzzi, in Testimonianze cri-stiane antiche ed altomedievali nella Sibaritide. Atti del Convegno nazionale tenuto a Corigliano-Rossano l’11-12 marzo 1978, a cura di C. D’Angela, Bari, Adriatica Editrice, 1980, pp. 63-74; La presenza ebraica in Puglia. Fonti documentarie e bibliografiche, a cura di Cesare Colafemmina, Pasquale Corsi, Giuseppe Dibenedetto. Con la collaborazione di M. Capuano, C. De Santis, M. Gio-vannardi, A. Lafronza, G. Maiorano, M. Memeo, C. Traisci. Presentazione di Fausto Pusceddu. Ar-chivio di Stato di Bari, Bari, 1981; La comunità ebraica di Bari alla fine del XV secolo, in Momenti e figure di storia pugliese. Studi in memoria di Michele Viterbo (Peucezio), a cura di Marco Lanera e Michele Paone, Galatina, Congedo,1981, I, pp. 125-133; Gli ebrei in Leucadia, in Il Basso Salento. Ricerche di storia sociale e religiosa, a cura di Salvatore Palese, Galatina, Congedo, 1982, pp. 71-80; «Tende» di studio della Torah e «fiumi» a Oria nel IX secolo, in Al servizio del Regno. Studi per il 75° di fondazione del Pont. Seminario Regionale Pugliese, a cura di Cesare Colafemmina, Mol-fetta, Mezzina, 1983, pp. 203-209; Iscrizione ebraica inedita di Lavello, in «Vetera Christianorum», n. 23, 1986, pp. 171-176; Un copista ebreo a Nardò nel 1460, in Studi in onore di mons. A. Gar-zia (Quaderni dell’Archivio Diocesano di Nardò, 1), Molfetta, Mezzina, 1986, pp. 157-160; La co-lonia slava di Gioia del Colle nei secoli XV-XVI, in Gioia. Una città nella storia e civiltà di Puglia, a cura di Mario Girardi, Fasano, Schena ,1986, pp. 315-355; Dal rito ebraico al rito cristiano, in Se-gni e riti nella Chiesa altomedievale occidentale. XXXIII Settimana di studio del Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo (Spoleto 11-17 aprile 1985), Spoleto, 1987, pp. 63-104; Ebrei a Lucera nei secoli XV-XVI, in Della Capitanata e del Mezzogiorno. Studi per Pasquale Soccio, a cura di Antonio Motta, Manduria, Lacaita, 1987 (L’Identità 4), pp. 29-40; La Basilica e gli Ebrei, in San Nicola di Bari e la sua Basilica. Culto, arte, tradizione, Milano, Electa, 1987, pp. 206-209; Presenza ebraica a Troia nei secoli XV e XVI, in «Studi Storici Meridionali», n. 9, 1989, pp. 161-168; Gli Ebrei di Bari, in Storia di Bari, diretta da Francesco Tateo, vol. I. Dalla preistoria al mille, a cura di Raf-faella Cassano, Giosuè Musca e Mario Pani, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 305-313; La comunità ebraica, in Storia di Bari, vol. 2. Dai normanni al ducato, cit., pp. 245-256; Documenti per la storia degli ebrei in Puglia nell’Archivio di Stato di Napoli, Bari, 1990 (Nuova edizione riveduta e am-pliata Cassano Murge, Messaggi, 2009); I contributi fiscali ordinari di Terra d’Otranto nel registro del percettore provinciale Gerolamo de Gennaro (1512-1513), in «Cenacolo» n. 2, 1990, pp. 13-94; Apocrifo giudeo-cristiano. Il Testamento di Abramo. Introduzione, traduzione e note a cura di Ce-sare Colafemmina, Roma, Città Nuova Editrice, 1995 (Testi Patristici, 118); Gli Ebrei, la Puglia e il mare, in Andar per mare. Puglia e Mediterraneo tra mito e storia, a cura di Raffaella Cassano, Rosa Lorusso Romito, Marisa Milella. Introduzione di Sabatino Moscati, Bari, Mario Adda, 1998, pp. 307-314; Hebrew Inscriptions of the Early Medieval Period in Southern Italy, in The Jews of Italy. Memory and Identity, ed. by Barbara Garvin and Bernard Cooperman, University Press of Maryland, Bethesda, 2000 (Studies and Textes in Jewish History and Culture VII), pp. 65-81; Un copista ebreo a Massafra nel 1470, in Alétes. Miscellanea per i settant’anni di Roberto Ca-prara, Massafra, Acheogruppo, 2000, pp. 165-169; Ebrei e cristiani in Puglia e altrove. Vicende e problemi, Cassano Murge, Messaggi, 2001; Medici ebrei nel Mezzogiorno altomedievale, in La Me-dicina nel Medioevo, la “Schola Salernitana” e le altre. III Giornate della Scuola Medica Salerni-tana. Atti della giornata di studio, Salerno, 1 giugno 2002, a cura di A. Leone e G. Sangermano, Salerno, 2002, pp. 67-81; Privilegi ed evasione fiscale nella Manduria del XVI secolo, in Liber ami-corum. Miscellanea di studi storici offerti a Rino Contessa, a cura di Giovangualberto Carducci, Manduria, Filo, 2003, I, pp. 205-224; Alcuni precedenti di antisemitismo nell’Italia meridionale e in Sicilia, in La memoria e la Storia. Auschwitz 27 gennaio 1945. Temi, riflessioni, contesti. Atti del convegno, Arcavacata di Rende, Università della Calabria, 26 gennaio 2007, a cura di P. Cohen e G. Violini. Con una presentazione di L. Violante, Soveria Mannelli, Rubettino, 2010, pp. 77-94; Il fuoco e gli angeli, in Anima del fuoco. Da Eraclito a Tiziano, da Previati a Plessi, Palazzo Reale, Milano, 2010, pp. 74-77. Inoltre A. SILVESTRI, Gli Ebrei nel Regno di Napoli durante la domina-zione aragonese, in «Campania Sacra», n. 18/1, 1987, p. 3; Gli ebrei e il Salento, circoli di studio dell’ebraico e della Cabbalà nel XVI secolo, a cura di Fabrizio Lelli, Università del Salento, Gala-tina, Congedo, 2013.
156 N. MORÈRE, Antiquity in Benjamin of Tudela’s travel narrative:interpretation and meaning within the context of the history of travel, in «Journal of Tourism History», vol. 9, 2017, p. 6 DOI: 10.1080/1755182X.2017.1343396.
157 Ibid. 158 Si vedano fra gli altri, C. DE SETA, L’Italia nello specchio del Grand Tour, in Storia d’Italia, 5, Torino, Einaudi, 1982, pp.127-263 e G. SCIANATICO, Scrittura di Viaggio. Le terre dell’Adriatico, Bari, Palomar, 2007. Si rinvia inoltre a P. VINCENTI, Uno svizzero ed un francese, in «Il Filo di Aracne», Galatina, n. 4, ottobre-dicembre 2018, pp. 34-35; ID., Altri viaggiatori tedeschi, in www. Iuncturae.com, marzo 2019; ID., Spigolature bibliografiche sul Settecento letterario minore, in «Scuola e ricerca», a cura di Ennio De Simone, Liceo Scientifico Banzi-Bazoli Lecce, n. VI, 2020, pp. 143-156; F. SILVESTRI, Viaggio pittoresco nella Puglia del Settecento: dal Voyage pittoresque, ou Description des Royaumes de Naples et de Sicile, Milano-Roma, Carlo Bestetti Edizioni d’arte, 1977; P. LAMERS, Il viaggio nel Sud del’Abbè de Saint-Non, Presentazione di Pierre Rosemberg, Napoli, Electa, 1992; J.C.R. DE SAINT-NON, Viaggio Pittoresco, a cura di Raffaele Gaetano, Soveria Mannelli, Rubettino, 2009; P. VINCENTI, Un abate molto intraprendente e la genesi di un’opera famosa, in www.Iuncturae.com, gennaio 2021.
159 N. MORÈRE, Antiquity in Benjamin of Tudela’s travel narrative: interpretation and meaning within the context of the history of travel, cit., p. 3.
160 Ibid.
161 M. NOM DE DÉU, Testimonios arqueológicos del Oriente Próximo testimoniados en el Sefer Masaót de Benjamín de Tudela (Siria-Palestina, Mesopotamia y Egipto), in «Arbor», 180, 2005, pp. 465-488. La studiosa riporta una completa bibliografia di tutte le edizioni e le traduzioni dell’opera nel tempo.
162 R. HESS, The Itinerary of Benjamin of Tudela: a Twelfth-Century Jewish Description of North-East Africa, in «The Journal of African History», vol. 6, 1965, p. 16, nota 8. doi: 10.1017/S0021853700005302
163 Z. SHALEV, Benjamin of Tudela, Spanish explorer, in «Mediterranean Historical Review», vol. 25, n. 1, p. 17. DOI: 10.1080/09518967.2010.494093
164 Ivi, p. 19. La copertina dell’opera è riportata anche da Giulio Busi: BINYAMIN DA TUDELA, Itinerario (Sefer massa’ot), cit., p.112. Della traduzione di Montano stampata a Lipsia nel 1764 venne tratta una riproduzione anastatica a cura di V. Colorni, Bologna, Forni, 1967.
165 M. N. ADLER, The Itinerary of Benjamin of Tudela, in «Jewish Quarterly Review», n. XVI, 1904, pp. 453-455, cit. in R. HESS, The Itinerary of Benjamin of Tudela: a Twelfth-Century Jewish Description of North-East Africa, cit., p.16, nota 4. Un’altra edizione dell’opera è BENIAMINO DI TUDELA, Libro dei viaggi, a cura di L. Minervini, Palermo, Sellerio, 1989, la cui traduzione è condotta sull’edizione inglese di Adler del 1907.
166 Si riferisce a: A. ASHER, The Itinerary of Rabby Benjamin of Tudela, I, London-Berlin, 1840.
167 R. HESS, The Itinerary of Benjamin of Tudela: a Twelfth-Century Jewish Description of North-East Africa, cit., pp. 15-16.
168 BINYAMIN DA TUDELA, Itinerario (Sefer massa’ot), a cura di Giulio Busi, cit.
169 Prefazione, in Itinerario (Sefer massa’ot), a cura di Giulio Busi, cit., pp. 7-8.
170 N. MORÈRE, Antiquity in Benjamin of Tudela’s travel narrative: interpretation and meaning within the context of the history of travel, cit., p. 3.
171 Itinerario (Sefer massa’ot), a cura di Giulio Busi, cit., p. 10.
di Armando Polito

La mappa, tratta dal Theatrum civitatum nec non admirandorum Neapolis et Siciliae regnorum di Jean Blaeu pubblicato ad Amsterdam intorno al 1663, reca il titolo errato di TARENTO (dal latino Tarentum) per BRINDISI, come inequivocabilmente mostra lo stemma in alto a sinistra. Col cerchio cui conduce la freccia ho evidenziato la zona nella mappa contrassegnata con il n.1, cui corrisponde nella legenda la dicitura St. Angelo, de’ Celestini. Dovrebbe essere questa, in base alle fonti di cui si dirà appresso, la sede dell’accademia e, per quanto riguarda il riscontro con quello che dovrebbe essere l’attuale stato del luogo, riprodotto nell’immagine successiva, attendo conferma dagli amici brindisini.

Non tutto il male viene per nuocere, Tutto è relativo, Dal male può nascere il bene sono detti che si adattano ad una miriade di situazioni. Una di queste è il plagio e da questo partirò dopo una breve premessa.
Dall’invenzione della scrittura (a partire dai graffiti delle caverne) fino all’e-book, passando attraverso l’invenzione della scrittura, poi della stampa e infine della videoscrittura, la diffusione della cultura ha percorso un lunghissimo cammino e quel che potrebbe accadere in un futuro non molto lontano tra intelligenza artificiale e microchips impiantati nel cervello prospetta ancora una volta per la storia dell’umanità scenari nello stesso tempo affascinanti ed inquietanti.
Proprio da un manoscritto storiografico prende l’avvio questo post e, siccome non mi piace ripetermi, rinvio chi volesse saperne di più ad altri precedenti connessi con l’argomento1..
Qui basti sapere che si tratta di Dell’antiquità e vicissitudini della città di Brindisi di Giovanni Maria Moricino (1558-1628) custodito nella Biblioteca arcivescovile “Annibale De Leo” di Brindisi (ms. D/12). Nel frontespizio si legge che gli eventi narrati giungono fino al 1604. Chissà quante opere, pregevoli come questa, non sono state, come questa, pubblicate per mancanza di mezzi finanziari o di conoscenze altolocate o di morte precoce!
Ciò che certamente non per quest’ultimo motivo non poté fare il Moricino (1560-1628), ci pensò a farlo Andrea Della Monaca con il suo (? …) Memoria historica dell’antichissima e fedeliss. città di Brindisi uscito per i tipi di Pietro Micheli a Lecce nel 1674, spacciando come suo ciò che era del Moricino furbescamente (ne cita il nome solo nell’allora d’obbligo avviso Al lettore) con un copia-incolla ante litteram1.
L’opera, perciò, va considerata, più che una compilazione, un vero e proprio plagio, parziale o totale che sia, ma, paradossalmente, anche lavori di questo tipo possono esplicare involontari effetti positivi ai fini della conoscenza. Senza di essa, infatti, nulla sapremmo dell’Accademia degli Erranti.
Il Della Monaca nella parte finale, che è l’unica sua perché si riferisce agli ultimi sessanta anni, alle pp. 709-712 ci ragguaglia sulla sua nascita legata alla Scuola Pia voluta in Brindisi da Francesco de Estrada (già Canonico Magistrale della Chiesa di Cadis e Visitatore Generale di quella di Siviglia), arcivescovo della città dal 1659 al 1671. Nel 1664 l’arcivescovo assegnò come loro sede agli Scolopi l’ex monastero dei Celestini2. Gli Scolopi, scrive il Della Monaca a p. 712, Hanno di più eretto con loro gran lode una superba Accademia sotto il titolo degl’Erranti, nella quale si esercita la gioventù Brundusina, tanto nelle Poesie volgari, e latine, quanto nell’erudite Prose con ammiratione di tutti quelli che l’ascoltano, tirando un nobile, e virtuso uditorio à godere le vaghezze delle loro compositioni. Il tutto però si deve attribuire al gran zelo del sopra nominato Arcivescovo bramoso degl’avanzi maggiori della città di Brindisi, acciò divenghi simile ad una di quelle felici, e benaventurate Repubbliche, delle quali parlando Quintiliano disse …
Il lettore non si meravigli di queste ultime parole più consone ad un comizio che ad un trattato di storia. È vero che questo succede sempre quando gli eventi narrati non sono stati filtrati ancora dal tempo e il contesto storico spiega l’esaltazione quasi propagandistica del potere, civile e religioso, al momento in carica. Le notizie appena riportate sono, comunque, preziose in quanto essendo, a quanti ne so, l’unica fonte contemporanea, dovrebbero essere veritiere almeno in nomi e date. Esse servono a rendere meno sbiadito il presente che conserva del passato un nome, un luogo e, mutatis mutandis, lo spirito: nel nostro caso l’attuale Accademia degli Erranti (https://sites.google.com/view/accademiadeglierranti/home).
Un filo tutt’altro che sottile lega passato e presente con un intreccio tra valori laici e religiosi, tra ragione e fede. Erranti evoca da un lato la condizione tutta umana di chi, pur consapevole di poter incorrere nell’errore, non rinunzia alla possibilità di conoscere e dall’altro i concetti di devozione e sacrificio che prendevano corpo nei pellegrinaggio lungo un percorso del quale Brindisi e il suo porto costituivano una tappa fondamentale.
Ritornerò su questo quando passerò in rassegna i nomi degli accademici Erranti tramandatici dal Della Monaca, anche se con un rimpianto del quale do subito ragione con un titolo che riguarda la celebrazione non di un libro, magari pur esso plagiato, ma un funerale: Relación de las suntuosas exequias que en su arzobispal Iglesia de Brindis celebró el Ilustrísimo Señor D. Juan de Torrecilla y Cárdenas a los piadosísimos manes de la esclarecida y Excelentísima Señora Doña Mariana Engratia de Toledo y Portugal, hija de los Excelentísimos Señores Condes de Oropesa, Pedro Micheli, Leche, 1686.
Sarebbe stato bello riportare da questo titolo spagnolo dell’editore leccese3 almeno un componimento, ma il libro risulta introvabile e la sua esistenza emerge solo dalla menzione presente in José Simón Díaz, Primer índice de publicaciones poéticas del siglo XVII, in Revista de literatura, t. 27, n. 53, 1965, p. 158. Una descrizione abbastanza dettagliata, che acuisce il rammarico, è in Studi secenteschi, XXIX, 1988, p. 16: Il libretto ha 46 pagine, che per tre quarti sono occupate dai preliminari, mentre solo un quarto tocca alla vera e propria orazione funebre detta da Nicola Cuggio (sic, per Cuggiò) canonico della chiesa metropolitana di Brindisi. Piuttosto che un libro questo è un gesto sociale; quasi una consolatoria ultima Tule della letteratura locale, che in solenne occasione luttuosa gonfia il petto ed esibisce sonetti in doppio testo italiano e spagnolo, epigrammi, epitaffi e cenotafi di oscurissimi canonici e gentiluomino brindisini. Quasi sicuramente tra di loro compare più di un nome già ricordato dal Della Monaca o di qualcuno entrato successivamente nell’accademia. Per questo nel libro del plagiatore ancor più preziosa risultano essere la parte iniziale, che non poteva essere copiata.
Lo è sul piano documentale, molto meno su quello della valutazione letteraria non regge, come tanta produzione del XVII secolo, ma vale per ogni prodotto manieristico, all’impietoso e giusto filtro prima ricordato.
Essa è occupata, secondo l’uso del tempo ma per un’estensione mai prima, almeno da me, constata, da componimenti encomiastici di ben ventisei autori diversi, il nome di ognuno dei quali è accompagnato dall’immancabile titolo e dallo pseudonimo, dettaglio sul quale ritornerò a breve. Nel leggere i tre dati verrebbe quasi da ridere pensando alle lodi sperticate rivolte da persone teoricamente di alto livello culturale ad un plagiatore ma, a differenza di tanti attuali prefatori e recensori di professione o seriali, essi hanno un’attenuante di non poco conto. Questi adulatori, ammesso che lo facessero solo per mettersi in mostra o per acquisire benemerenze e simpatia, non avrebbero potuto agevolmente individuare, reperire e leggere un manoscritto, quello del Moricino, solo genericamente ricordato nel detto avviso, tanto più che i loro componimenti non potevano essere stati inviati parecchio tempo prima della pubblicazione del libro e nulla cambierebbe neppure se l’autore prima della stampa finale ne avesse inviato una copia a qualcuno o a tutti.
Di seguito i nomi estrapolati dal libro nell’ordine in cui compaiono (la sottolineatura evidenzia gli appartenenti alla nostraaccademia).
OBEDIENZO VAVOTICO trà gli Erranti detto il Confuso
FRANCESCO SBITRI Accademico degli Erranti di Brindisi
DIEGO PALADINI Accademico Trasformato
ANTONIO CINI Accademico Trasformato
GIACOMO D’ANNA Accademico Trasformato
NICOLÒ PERRONE Accademico Trasformato
NICOLÒ FRANCESCO FATALÒ Accademico Trasformato
GIUSEPPE MARIA AGALLO Accademico Trasformato (3 sonetti)
VINCENZO ANTONIO CAPOCIO Accademico Trasformato (2)
NICOLA MARIA MORELLI U. I. D.Accademico Trasformato
DONATO ANTONIO GRAVILI Accademico Trasformato
FRANCESCO GRASSO
GIUSEPPE ANTONIO ANDRIOLI
ANIBALE DE CONINCH
BENEDETTO RETIMO Carmelitano della medesima Città di Brindisi, trà gli Erranti detto il Risvegliato
FILIPPO GAIACOMO MEGLIORE trà gli Erranti detto l’Affumato
FRACESCO ANTONIO DATTILO Marchese di S. Catarina, e regio Governatore della Città di Brindisi, trà gli Erranti detto il Peregrino
FRANCESCO PEREZ Principe del’academia, e trà gli Erranti detto l’Instabile
GIUSEPPE DE PAULO Regio Cappellano nel forte di Brindisi, trà gli Erranti detto il Sottile
L’INCOGNITO trà gli Erranti
INCULTUS INTER ERRANTES
GIULIO LECCISO inter Errantes Algens
PIETRO ANTONIO EPIFANI trà gli Erranti detto il Dissanventurato
GERONIMO CANDIOTO
ANTONIO VAVOTICO Academico degli Erranti di Brindisi
FRANCESCO ANTONIO DE FERRARIIS.
È da ricordare che le associazioni culturali dette accademie ebbero un’ampissima diffusione a partire dal secolo XVI, tanto che parecchie, pur appartenendo a territori molto lontani tra loro ed essendo nate un modo assolutamente indipendente, ebbero lo stesso nome. Ciò vale anche per la nostra, essendoci più o meno contemporaneamente accademie omonime a Milano, Brescia, Pavia, Asolo (Treviso), Firenze, Fermo, Maida (Catanzaro), Noto (Siracusa); lo stesso vale per la coeva accademia leccese dei Trasformati, della quale alcuni soci risultano presenti nell’elenco su riportato.
Ogni accademia aveva quello che oggi chiameremmo presidente e che allora si chiamava principe, mentre gli affiliati ovvero soci assumevano di regola uno pseudonimo, non sempre gratificante, almeno per la facile ironia cui oggi si presterebbe un’accademia di erranti nella quale militano coerentemente un confuso, un affumato, un instabile, un algens (=gelato, non quello commestibile, a meno che uno non sia cannibale …) e un dissaventurato, anche se a risollevare le sorti ci sono, oltre ai pochi senza pseudonimo (forse per l’imbarazzo della scelta tra infelice, malaticcio, moribondo e simili …), un sottile (a meno che non si riferisca agli effetti dell’errare senza adeguato apporto calorico …) e un risvegliato .
Ironia a parte, sono tutti congeniali al doppio significato laico e religioso prima ipotizzato Erranti e che sembra sintetizzato dallo pseudonimo del principe dell’accademia, quel Peregrino variante di pellegrino ma anche sinonimo di nuovo, strano, bizzarro. Si direbbe che la scelta dello pseudonimo non fosse immune da una simpaticissima autoironia che nel nostro caso raggiunge l’acme con due componimenti, forse non a caso collocati consecutivamente, in testa ai quali ai legge per uno DELL’INCOGNITO Trà gli Erranti e per l’altro INCULTI INTER ERRANTES (Dell’incolto tra gli Erranti).
Siccome mi è simpatico chi non si prende troppo sul serio, ho pensato di dare il giusto rilievo proprio a loro, due anonimi, perché in qualche modo fossero ricordati, occupandomi alla fine dei loro contributi.
Gli accademici si riunivano periodicamente per dibattere vari argomenti o declamare componimenti poetici, la cui memoria veniva affidata a pubblicazioni che potevano permettersi solo le accademia più importanti, come la romana Arcadia. Questo rende molto difficoltoso ricostruire la storia di un’accademia minore, non fosse altro che per individuarne i componenti passando in rassegna pubblicazioni su pubblicazioni del tempo che fu nella speranza di trovare nella parte riservata alla celebrazione encomiastica di qualche personaggio il nome di uno o più sviolinatori accompagnato, come nel nostro caso, da quello dell’accademia di appartenenza.
Tra gli Erranti spiccano i due Vavotico, molto probabilmente della stessa famiglia di un personaggio legato alla storia della colonna crollata4. Nell’elenco estrapolato compaiono i nomi di ben nove soci dell’accademia dei Trasformati di Lecce. La loro partecipazione non è da ritenere casuale e forse è la prova di un campanilismo sia pur provvisoriamente superato, tenendo conto che la Memoria uscì nel 1674, cioè quattordici anni dopo l’annosa vicenda della colonna nel 1528 alla città di Lecce3. Essi sono: Diego Paladini, Antonio Cini, Giacomo D’Anna, Nicolò Perrone, Nicolò Francesco Fatalò, Giuseppe Maria Agallo, Vincenzo Antonio Capocio, Nicola Maria Morelli e Donato Antonio Gravili.5
Come tante recensioni di oggi, partorite dopo una gestazione tra un riferimento dotto (espresso in forma preferibilmente criptica, il che avrebbe fatto la fortuna del partoriente se avesse espletato la sua nobile e disinteressata funzione al tempo dell’ Ermetismo …) e un’ipocrita iperbole, così la poesia di età barocca, soprattutto quella declamatoria ed elogiativa, gronda di metafore, richiami mitologici, giochi di parola, che sono pur sempre, se originali, indizio del possesso di fantasia, ossia di capacità inventiva.
In linea con tutto questo non poteva non essere la produzione degli Erranti, comunque di livello inferiore (come per i Trasformati) a quella di altri marinisti salentini, come, per fare solo un esempio, il copertinese Giuseppe Domenichi Fapane6.
Il lettore potrà constatarlo con la lettura diretta e personale.
Chiudo con due assaggi conditi di commento (anch’io so essere barocco …), uno in italiano di Giuseppe De Paulo detto Il Sottile) e un epigramma in distici elegiaci di uno che compare solo con lo pseudonimo Incolto (nella trascrizione del primo componimento e nella traduzione del secondo ho adottato la punteggiatura moderna). Anche se dubito che servano a stuzzicare l’appetito (leggi voglia di conoscere qualcosa pure degli altri), penso, tuttavia, che non è sprecato il tempo consumato per provare un assunto. Spero che non lo sia stato neppure per l’unico lettore che avrà avuto la pazienza di seguirmi fin qui.

Del Signor D. GIOSEPPE DE PAULO Regio Cappellano nel Forte di Brindisi, trà gli Erranti detto il Sottile
SONETTO
Pianse Brindisi un Tempo à le ruine
De’ Marmi suoi, le Glorie sue sepolte,
Glorie in cui vagheggiò l’Europa accolte
Del Fasto Quirinal l’Idee Latine.
Festante or gode: ecco risorte’al fine
Le scorge pur dentro à tuoi Fogli involte,
Saggio Scrittor, mercé che quelle hai tolte
A le Zanne del tempo empie, e ferine.
Prescrisse il Ciel, che le MEMORIE avvive
di tua Patria il tuo Calamo Fatale
da cui fugge l’oblio, se detta, ò scrive.
Sarà ne’ Pregi il vostro Nome uguale,
Ella ne le tue Carte eterna vive,
Tù ne le Glorie sue vivi immortale.
Sono immediatamente riconoscibili alcuni degli ingredienti principali della letteratura barocca:
1) 1) l’uso esagerato delle maiuscole, che qui, a parte MEMORIE per ovvi motivi, si limita ad alcune parole-chiave: Tempo, Marmi, Glorie, Fasto, Idee, Latine (nei secoli passati era norma scrivere con l’iniziale maiuscola tutte le parole, avverbi compresi, derivanti da nomi propri), Fogli, Scrittor, Zanne, Tempo, Ciel, Patria, Calamo, Fatale, Pregi, Nome, Carte.
2) l’iterazione di una parola: Glorie nel secondo, nel terzo e nell’ultimo verso
3) la figura etiologica: vive e vivi negli ultimi due versi.

DELL’INCOGNITO
Trà gli Erranti
SONETTO
La Vita à vivi se involar sà il Ferroa,
le geste avviva de gli Eroi la Pennab,
se sparge sangue micidiale il Ferro,
sparge inchiostri ne’ Fogli ancor la Penna.
Di Martiale allor si adorna il Ferroc,
di Apolline l’Allor brama la Pennad,
si compiace aguzzar la Penna il Ferroe,
pennuto il Ferro fa volar la Pennaf.
Merta fama immortal, Mortale il Ferrog,
ale impenna alla Fama anche la Pennah:
differenza non v’è frà Penna, e Ferro.
Or se van sì di pari, e Ferro e Penna,
s’altri rese immortal gueriero il Ferroi,
immortale ti rende, ò Andrea la Penna.
a Se la spada sa rubare la vita ai vivi
b la penna ravviva le gesta degli eroi
c La soada si adorna con l’alloro di Marte
d la penna brama l’alloro di Apollo (Apolline è latinismo, da Apollinem)
e la spada si compiace di rendere acuta (ispirare) la penna
f la penna fa spiccare il volo (esalta) al ferro pennuto (la freccia)
g La spada mortale merita fama immortale
h anche la penna dota di penne le ali della fama
i se la spada guerriera rese un altro immortale.
Qui c’è l’esplosione controllata di tutti gli ingredienti già presenti nella poesia precedente con in più, per alcuni, una pluralità di classificazione: maiuscole (Vita, Ferro, Eroi, Penna, Fogli, Martiale [qui c’è la giustificazione dell’uso latino dell’iniziale maiuscola per qualsiasi voce che derivi da un nome proprio] e Fama [nome della dea in contrapposizione al successivo nome comune fama]); iterazioni: Penna, Ferro,sparge, allor, fama; figura etimologica (Vita, vivi e avviva; invola e volar; Penna, pennuto e impenna; mortal e immortale). In più i due poli del confronto (Ferro e Penma) hanno la loro celebrazione metrica come uniche parole rima, il che ha rivoluzionato la struttura del sonetto che risulta totalmente al di fuori di tutte quelle canonicamente fissate.
E, dopo aver reso meno sconosciuto l’Incognito, chiudo con l’Incolto, che tanto incolto non doveva essere, e non solo perché la sua poesia è in latino.

INCULTI INTER ERRANTES
EPIGRAMMA
Heu commutasti Brentos cum Morte securos
Caesa et natorum fas lacrymasse neces.
En paris ANDREAM, toto, qui solus in Orbe
Vitali Calamo Vita Parentis erit:
Desine maerores, lugubrem desine amictum,
Ipsa ruina tui Fama perennis erit,
Surge repressa Parens; ah, surge refracta Nepotes!
Sat lacrymasse satos, sat reperisse satum.
(EPIGRAMMA DELL’INCOLTO TRA GLI ERRANTI
Ahi! Scambiasti con la Morte i Brento tranquilli,
è destino aver pianto le sofferenze e i massacri dei figli.
Ecco, tu generi ANDREA, che solo in tutto il Mondo
con la Penna destinata a sopravvivere sarà la Vita della Genitrice.
Poni fine alla tristezza, deponi la veste a lutto!
La stessa rovina sarà di te Fama perenne.
Risorgi, genitrice tante volte oppressa! Ah, tante volte fatta a pezzi solleva i nipoti!
Basta aver pianto dei figli, basta aver trovato un figlio).
Stessi ingredienti visti nella poesia precedente:
1) maiuscole, a parte ANDREAM (qui è ricordato l’autore, lì il titolo dell’opera): Morte, Orbe, Calamo, Vita, Parentis, Fama, Nepotes)
2) iterazione: lacrymasse, erit, surge, sat
3) figura etimologica: paris, Parentis e Parens; vitali e Vita; satos e satum.
______________________
2 Il Della Monaca non non riporta il nome del monastero ma che sia quello di S. Angelo evidenziato nella mappa del Blaeu sembrerebbe confermato da quanto si legge in Epistola apologetica Jo. Baptistae Casmirii ad Q. Marcum Corradum datata 1567, manoscritto conservato nella Biblioteca Arcivescovile “Annibale De Leo” di Brindisi (ms. D/8) a c. 29v: Coenobia quoque plurima intra urbem extructa sunt … in Divi Angeli, divi Benedicti ac Coelestinorum permixtus ordo religiosorum patrum. (Parecchi cenobi furono costruiti anche dentro la città: … in quella [la chiesa] di sant’Angelo l’ordine misto dei padri religiosi di san Benedetto e dei celestini).
3 Non è l’unica edizione in spagnolo di Piero Micheli (vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/04/30/lecce-resto-del-mondo-1-0-un-rarissimo-libro-stampato-a-lecce-nel-1644/)
4 1660 e 61 – Notaro Andrea Vavotico Sindico – In questo Sindacato previo ordine di S. Ecellenza [il viceré Gaspar de Bracamonte] si diedero li pezzi della colonna cascata alla città di Lecce, al numero di sette col capitello, e stentarono un’anno (sic!) continuo per poterli trasportare. (Pietro Cagnes e Nicola Scalese, Cronaca de’ sindaci di Brindisi 1529-1787, manoscritto custodito nella citata biblioteca brindisina, pubblicato da Rosario Jurlaro, Amici della A. De Leo, Brindisi,1978.
5 Da Leggi dell’Accademia de’ Trasformati di Lecce, Stamparia vescovile, Lecce, 1708, p. desumo le seguenti notizie: il Paladini de’ Sig. poi Conti di Lizzanello, canonico, ne era il Principe; Nicolò Francesco Fatalò, canonico, Segretario. Non compaiono come soci, stranamente essendo questa una pubblicazione ufficiale, tutti gli altri nomi: Antonio Cini, Giacomo D’Anna, Nicolò Perrone, Giuseppe Maria Agallo (compare, invece, un Vito Agallo, di Francesco Antonio, Ristoratore), Vincenzo Antonio Capocio e Nicola Maria Morelli.

Giuliano Santantonio, GLI EBREI A NARDO’ ATTRAVERSO LA VISITA PASTORALE DEL 1485 E UN “LIBELLUS” DEL 1509, Fondazione Terra d’Otranto 2025
La storia di Nardò, come quella di molte città pugliesi, è attraversata dalla presenza ebraica, antica e complessa, fatta di radicamenti profondi ma anche di tensioni, persecuzioni ed espulsioni. Questo volume, frutto dello studio di documenti inediti conservati nell’Archivio Storico della Diocesi di Nardò-Gallipoli, ricostruisce con rigore e chiarezza le vicende della comunità ebraica neritina tra Medioevo e prima età moderna, restituendo spessore a un capitolo ancora poco conosciuto della storia locale.
Il lavoro prende le mosse dal dato certo del 1276, quando i Registri della Cancelleria angioina attestano il contributo della comunità ebraica di Nardò a un’imposta regia, e segue il filo degli eventi attraverso le oscillazioni di favore e ostilità, di tolleranza ed emarginazione, che segnarono la vita degli ebrei in una città a prevalenza cristiana. Le pagine dedicate agli interventi dell’abate Guglielmo, alle tensioni con l’Università, alle ricadute delle grandi crisi politiche e religiose europee (fino allo scisma d’Occidente) offrono uno spaccato vivido e documentato.
Particolarmente significativi risultano i due documenti al centro dell’indagine. Uno riprende gli Atti della Visita Pastorale del vescovo Ludovico De Justinis (1485), che elencano famiglie ebraiche soggette alla tassa di affida e ne rivelano il radicamento sociale. L’altro trascrive fedelmente un prezioso manoscritto del 1509, che è riprodotto nelle tavole fotografiche che corredano l’edizione, il quale registra introiti della Mensa vescovile, includendo nuovamente nomi e presenze ebraiche in città in quell’anno. Non semplici dati fiscali, ma tracce che permettono di dare volto e identità a uomini e donne spesso rimasti nell’ombra delle cronache ufficiali.
Il pregio del volume e del paziente lavoro dell’Autore è proprio questo: non limitarsi a registrare fatti, ma restituire dignità storica alle persone, restituendo a Nardò la memoria di una comunità che, pur tra continui tentativi di espulsione, seppe intrecciare per secoli la propria vicenda a quella della città.
Un’opera preziosa, che arricchisce il panorama degli studi locali e apre prospettive di ricerca ulteriori, fondate sulla convinzione che la storia non sia soltanto un insieme di eventi, ma soprattutto un intreccio di vite.
L’edizione, curata da Marcello Gaballo e Adele Cavallo, con foto di Lino Rosponi e incisioni a tema tratte da libri antichi, è stato edito con il contributo delle confraternite cittadine di San Giuseppe e dell’Annunziata e del Carmine di Nardò.
Il libro, non in commercio, è disponibile presso il bookshop del Museo Diocesano di Nardò (Marcello Gaballo).

di Marcello Gaballo
La chiesa matrice di Parabita conserva, entro una nicchia dedicata, una statua in cartapesta policroma raffigurante San Biagio, vescovo e martire, opera di buona fattura realizzata a dimensioni naturali nel 1887.
La scultura raffigura il santo in piedi, nell’atto di guarire un fanciullo cui si è conficcata una spina di pesce nella gola, episodio miracoloso che la tradizione agiografica attribuisce al vescovo di Sebaste. San Biagio è rappresentato mentre benedice il bambino, sostenuto tra le braccia della madre inginocchiata, resa con intenso pathos devozionale, in atteggiamento di fiducia e supplica.

La scena, costruita con efficace realismo narrativo, presenta il santo a figura intera, con folta barba grigia ritorta in morbidi riccioli, rivestito dei paramenti vescovili: mitra impreziosita da arabeschi dorati, ampia casula rossa con fregi dorati, pastorale argenteo. L’ampia casula non altera le proporzioni corporee e, pur nella rigidità del drappeggio, si contrappone armonicamente all’appiombo del camice. Particolare interessante è l’uso di tessuti originali provenienti da vesti liturgiche di rango, riutilizzati per i bordi del camice: un dettaglio che conferisce ulteriore pregio all’opera.
L’opera si inserisce nel linguaggio della cartapesta sacra pugliese di fine Ottocento, capace di coniugare immediatezza espressiva e raffinatezza artigianale. La resa dei panneggi, la vivezza degli incarnati e la naturalezza del modellato conferiscono alla scena un forte impatto emotivo, pensato per coinvolgere il fedele nel dramma del miracolo e nella riconoscenza verso l’intercessione del santo.
Il culto di San Biagio, particolarmente diffuso in area salentina, si lega alla sua fama di protettore contro le malattie della gola. La memoria liturgica del 3 febbraio è ancora oggi contrassegnata a Parabita dalla benedizione con due ceri incrociati, gesto rituale che richiama direttamente l’episodio miracoloso evocato dalla statua.
Un documento conservato presso l’Archivio Storico Diocesano di Nardò consente di ricostruire la storia dell’opera. Si tratta di una lettera del medico Giuseppe Vinci fu Giovanni al vescovo Corrado Ursi, datata 15 febbraio 1952, registrata negli Atti dei Vescovi, Atti del vescovo Corrado Ursi 1951-1961. Da questa fonte si apprende che la statua fu commissionata dal padre del mittente, Giovanni Vinci, allora sindaco di Parabita, nel 1887.
Durante i restauri della matrice negli anni Trenta, l’arciprete mons. Faggiani, dovendo rimuovere le statue per permettere i lavori, affidò la custodia del simulacro alla sorella maggiore del dott. Vinci, madre del futuro medico Cataldi. Circostanza significativa è che tale decisione non suscitò contestazioni da parte di Domenico Contursi, il cui padre – anch’egli sindaco dopo Giovanni Vinci – aveva fatto realizzare la nicchia che ancora oggi accoglie la statua. Lo stesso documento precisa inoltre che il laccio e la croce annessi al simulacro furono realizzati dal padre dell’arciprete Faggiani: se il laccio è ancora oggi conservato (sebbene non sia certo che sia quello originario), della croce originale non resta traccia, poiché quella attuale risale al 1983.

Queste vicende documentarie sottolineano non solo la dimensione devozionale, ma anche l’intreccio di responsabilità civili ed ecclesiastiche che accompagnarono la presenza della statua nella matrice. L’opera diventa così testimonianza tangibile della coralità di una comunità che, attraverso l’iniziativa di sindaci, parroci e famiglie, ha custodito fino a oggi la devozione a San Biagio.

La collocazione attuale nella sua nicchia e la partecipazione popolare alla festa del 3 febbraio attestano l’attualità di un culto che non si è mai interrotto, rinnovando ogni anno un legame di fede e identità comunitaria. La statua, fatta restaurare nel 2020 dal parroco don Santino Bove Balestra, con la sua forza narrativa e il suo valore documentario, si impone come un unicum nel panorama delle opere devozionali della matrice parabitana, coniugando storia locale, arte sacra e religiosità popolare.
Un sentito ringraziamento va all’amico Matteo Milelli, che ha realizzato le fotografie a corredo e che per primo ha segnalato la presenza di questa significativa testimonianza di fede, fornendo utili integrazioni a questo contributo.
di Armando Polito

La storia la scrivono i vincitori e la scrittura ha il fine di prolungare quanto più possibile gli effetti, anche di immagine, dell’altrui sconfitta e della propria vittoria. Senza scomodare i massimi sistemi, esiste, però, anche una scrittura gemella che, nel suo piccolo, non celebra eventi recenti ma di un passato a volte abbastanza remoto millantando spesso glorie ipotetiche suffragate con un uso strumentale delle fonti quando queste esistono, non di rado inventandole di sana pianta e, alla bisogna, confezionandone materialmente di false.
Nardò sotto questo punto di vista in graduatoria occupa un posto di primo piano potendo schierare la famigerata società Giovanni Bernardino Tafuri (1695-1760) & Giovanni Battista Pollidori (coevo del Tafuri e vittima minore di un vizietto di famiglia, visto che il fratello Pietro nel creare falsi fu più bravo di lui) , che esercitò impunemente per lungo tempo nel XVIII secolo la sua truffaldina attività, in cui un amore deviato per il campanile (in un colpo solo quello reale e quello metaforico) fu solo un alibi per mascherare narcisismo ed interessi personali. A questo punto ci ci si potrebbe chiedere se sia più disonesti un falsario (Pollidori) o un plagiatore (Della Monaca). Sottigliezza per sottigliezza, diciamo che il primo è una truffatore, il secondo un ladro e una truffa insieme, ma, comunque la si pensi, è certo che siamo di fronte a due eclatanti esempi di disonestà, probabilmente non solo intellettuale. Per motivi cronologici comincio col Della Monica.
Del plagio perpetrato con la sua Memoria historica dell’antchissima e fedelissima Città di Brindisi, Pietro Micheli, Lecce, 1674 ci si dovette accorgere quasi subito, anche se è difficile identificare priorità, se Giambattista Pacichelli, il 25 ottobre 1680 indirizzò da Napoli una lunghissima lettera a Roma Al Sig. All’abate Francesco Bittistini Miestro (sic) di Camera dell’Eminentissimo de Angelis, lettera che pubblicò in Memorie novelle de’ viaggi per l’Europa cristiana, Parrino, Napoli, 1690, parte II, dove a p. 91 si egge: … l’opera celebre del quale (Moricino) però sotto nome proprio mi dissero ch’era stata divolgata, con plagio indegno dal P. Maestro della Monica (sic) dell’Ordine del Carmine aggionte solamente le notizie di 60 anni, dopò la morte del Moricino. Così mi fù persuaso, e mostrato. Ne scrive qualche cosa il Toppi nella Bibliot. Napolit. al fo. 342.
La vita è piena di paradossi e non c’è da meravigliarsi che uno non veda la trave che ha in un occhio ma riesca ad individuare una pagliuzza nell’occhio altrui.
Così, se il Pacichelli fu parco, anzi reticente, nel fornire dettagli su quanto lo aveva persuaso dopo che gli era stato mostrato, formulò un giudizio più articolato, e con la citazione di un nome che, come a breve vedremo, innescò una velenosa e lunfa diatriba, fu proprio il Pollidori (da quale pulpito veniva la predica! …) che in De falsa defectione Neritinae civitatis pubblicato nel XIX tomo della collana Raccolta di opuscoli scientifici e filologici curata da Angelo Calogerà, Occhi, Venezia, 1739, p. 201 così scrive: … ad Andeam Della Monaca Brindusinum, qui per id temporis, adornatas jampridem ab Eruditis viris Ferdinando Glianes, Jo. Maria Moricino, & Jo. Baptista Casimiro sub suo nomine paucis adjectis, vel mutatis, patriae Urbis editurus historias …
(… al brindisino Andrea Della Monaca, che durante quel tempo, per pubblicare sotto il suo nome, aggiunte o cambiate poche cose delle storie della sua patria già prima apprestate dagli eruditi Ferdinando Glianes, Giovanni Maria Moricino e Giovanni Battista Casimiro …)
Questa stroncatura senza apello per lungo tempo, a quanto ne so, non registrò alcuna reazione finché non fu pubblicato nell’Archivio storico italiano, IV serie, tomo III, anno 1879, Presso G. P. Vieusseux con i tipi di M. Cellini e C., Firenze, p. 276 un articolo di Ermanno Aar1 facente parte della serie Studi storici in Terra d’d’Otrano, in cui si legge: Se il Della Monaca fu plagiario lo dovette essere pella Storia di Brindisi di FERDINANDO GLIANES, e non già per gli scritti di GIO. MARIA MORICINO e G. B. CASIMIRO, de’ quali egli parla come di suoi predecessori, de’ lavori de’ quali trasse profitto.
Se non è una riabilitazione poco ci manca, ma, Glianes o non Glianes, l’Aar si mostra troppo clemente con lo scopiazzatore non tenendo conto del luogo e dei modi in cui parla di suoi predecessori2.
Tanta generosità non sfuggì a Fernando Ascoli, che in La storia di Brindisi, Tipografia Malvolti e C., Rimini, 1886, pp. IX-X afferma che nessuno può essere smosso dall’idea che il Della Monaca non sia un plagiario volgare o, al più, un raffazzonato tronfio e verboso di roba altrui. Roba di chi? Ermanno Aar scrive: “Se il Della Monaca…” Dopo la citazione che prima ho riportato prosegue così: Io scrissi all’Aar, chiedendogli su che basasse la sua affermazione; e’ mi ha risposto (in nota: lettera a me diretta. Firenze 20 novembre 1883): “Studierò, come potrò anche a Brindisi, la genuina paternità dell’opera del Della Monaca”. Perché io molte volte, ho confrontato il libro del padre carmelitano con una copia manoscritta della storia del Moricino, posseduta dalla biblioteca brindisina; e ho trovato, spesso, anche le stesse parole, ma sempre lo stesso stessissimo ordine di idee, persisto nell’opinione comunemente accetta degli scrittori locali che ritengono il Della Monaca plagiario del Moricino, tanto più che giudicherei poco valida la ragione addotta dall’Aar a favore del Glianes, e che con la storia di lui è oramai impossibile ogni confronto.
A riprova della evidente fondatezza di questo giudizio replico quanto ho già ho avuto occasione di riprodurre nel post al link citato in nota 2.
MORICINO (ms. D/12 della Biblioteca arcivescovile “Annibale De Leo” di Brindiisi)

… una delle due colonne, che tanti centinaia d’anni era stata salda, al’impeto del Cielo, et alla sorda lima del tempo, da sé stessa senza apparente caggione ruinò dalle fondamenta l’anno mille cinque cento venti otto il vigesimo giorno di novembre (e quelche fù riputato a non minor portento) il pezzo supremo restò in piedi sopra l’infimo cadendo a terra tutti gli altri di mezzo frà base, e capitello.
DELLA MONACA (Memoria historica dell’antichissima, e fedelissima città di Brindisi, Pietro (Micheli, Lecce, 1674, p. 323

Sul Glianes si ritornerà dopo, ora riprendo quanto era stato interrotto dalla parentesi.
L’Aar mantenne la promessa e non credo sia casuale il fatto che anche i frutti di quello studierò furono immortalati non in una lettera (ed era giusto perché l’Ascoli aveva reso pubblica la loro divergenza), non in un articolo sull’Archivio ma nella Licenza posta alla fine della pubblicazione del 1888 di cui s’è detto. Nel congedarsi dal lettore l’Aar con un linguaggio che denota uno spirito polemico (il che non guasta) ma abbastanza permaloso (il che guasta), per cui cade qualche sospetto sulla possibile ambiguità di licenza …), tenta di togliersi quattro sassolini dalle scarpe attaccando quattro persone che in circostanze diverse l’avevano criticato, nell’ordine: Vito Fornari, prefetto della Biblioteca Nazionale di Napoli (per un motivo burocratico, per quanto indirettamente culturale, cioè un permesso), Cosimo De Giorgi (reo di avergli rivolto qualche appunto sul giornale L’osservatore Ostunese), S. Sidoti (per osservazioni di ordine bibliografico) e, ultimo dei Carneadi (così bolla cumulativamente i quattro) Ferrando Ascoli. Dopo aver passato ironicamente in rassegna i dati biografici che La storia di Brindisi riporta per stigmatizzare il dilettantismo del suo autore, ne stronca l’opera quasi per impietosa vendetta per l’audacia della citazione critica in quel libro di un pezzo del suo articolo.
Un espediente per glissare furbescamente la specificità della critica mossagli? L’Aar era troppo intelligente per ridursi a questo, ma non è detto che l’ultima parola, anche in assenza di replica, sia quella più vicina alla verità. Tuttavia essa ci dà qualche dettaglio in aggiunta a quelli dell’Ascoli: … con epistola data da Chioggia li 20 Nov. 1883 ci dimandò 1° su che basate la vostra affermazione intorno al Della Monaca plagiario? 2° che pensate dell’origine etimologica di Brindisi, e dell’origine etnologica della Città? 3° Quali sono i documenti Brindisini che pubblicherete? … E noi cortesemente gli rispondemmo, come di li alla nostra pubblicazione de’ documenti già visti, non letti né studiati, da lui c’era poco d’attendere; e gli chiedemmo di dispensarci dal rispondere a’ suoi quesiti, trovandoci in convalescenza di grave infermità, e non volendogli rispondere superficialmente. Il Signor F. s’ebbe a male questo nostro procedere, e gli parve averne il buco a rovescio. Ed allora, vendicandosene, pondera bene i nostri articoli e il nostro lavoro, e si persuade che la nostra vasta erudizione non era di prima mano … Segue la replica alle osservazioni fatte ad alcuni assunti de gli articoli definendoli errori sfuggiti alle correzioni mie, del proto della Galileiana e, ciò che sarebbe nen credibile se non fosse vero, agli occhi di un maestro di cose istoriali e di arte della stampa, che con amore paterno quelle pagine correggeva!
Debbo confessare che ho dovuto fare violenza a me stesso per non aggiungere il mio “(!!!)” dopo il punto esclamativi che chiude l’ultima citazione. Se non lo avessi fatto, non stare ora a far notare come la difesa dell’Aar poggia sulle classiche fondamenta che sprofondano al momento in cui si posa il primo concio: la, comoda e sempre efficace quando c’è in ballo la salute captatio benevolentiae (prima sottolineatura) e l’altrettanto comodo e, in più, vigliacco scaricabarile (seconda sottolineatura).
A lenire, tuttavia, la mia cattiveria nei suoi riguardi, debbo dire che a volte succede che certi personaggi provvisoriamente famosi (poi famigerati …) nonostante, come nel caso del Della Monaca, un comportamento niente affatto limpido e corretto, in cui, comunque, l’onestà intellettuale più che dubbia è latitante, acquisiscono una patente di sacrale intoccabilità anche agli occhi degli addetti ai lavori, i quali spesso si mostrano aprioristicamente succubi dell’ipse dixit.
Nel nostro caso il primo ipse di turno è il Glianes, che è il primo dei plagiati nella lista del Pollidori, che l’Aar mostra di conoscere perché ne cita espressamente nella nota 1 nome e titolo dell’opera3. Il secondo ipse, molto più invasivo, è proprio il Della Monaca, l’autore più citato in Gli studi storici in Terra d’Otranto. L’Aar dimentica che non è mancanza di umiltà o sospettosa diffidenza operare ogni tanto un controllo alla scoperta di un eventuale ille. Oggi con gli strumenti messi a disposizione dall’informatica non ci sono alibi e, quando l’intelligenza artificiale sarà in grado di fornire un’affidabile lettura dei manoscritti, verranno scoperti innumerevoli altarini di ogni tempo. Se non sarà un deterrente per il male intenzionato, annienterà ogni scrupolo di lesa maestà e il re, che fino ad allora aveva indossato l’abito di rappresentanza, sarà nudo e potrà nascondere la vergogna solo al plurale …
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1 Pseudonimo di Luigi Giuseppe De Simone (1835-902). Tutti gli articoli della collana da lui pubblicati nell’Archivio, confluirono poi in una pubblicazione con lo stesso titolo della collana uscita per i tipi della Tipografia Galileiana a Firenze nel 1888 a sue spese (in copertina si legge a cura e spese di L. G. D. S.). L’articolo qui preso in esame è a p. 68.
2 Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2025/09/21/brindisi-20-novembre-1528-una-data-sospesa-tra-sbiaditi-manoscritti-un-vergognoso-plagio-e-una-preziosa-mappa/
3 Con il Glianes l’Aar mostra di aver preso un abbaglio o … di essere in malafede. Nella nota 2 del brano del suo articolo citato dall’Ascoli scrive: Il Glianes mandò copia MSS. della sua Storia al Toppi (Bibliot. Napol. 242). Essa è ricordata dal GIUSTINIANI, e censurata dal Papatodero, o. c. Si direbbe che qui lo sfoggio di erudizione serva a mascherare l’imbroglio. Tralasciando la generica menzioni che del Glianes fa il Papatodero (Della Fortuna di Oria, Fratellie Raimondi, Napol, 1775, p. 42), lascio il giudizio al lettore riproducendo nell’ordine quelle del Toppi (Biblioteca Napoletana, Bulifon, Napoli, 1678, p. 98) e del Giustiniani (Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, Stamperia Simoniana, Napoli, 1787, tomo II, p. 117).


In effetti del titolo l’OPAC registra le seguenti edizionioni registrate: Typographia Manelphi Manelphij, Roma, 1639, 1640 e 1641; Sub signo Turris, Venezia, 1641; Nella Stampa di Lorenzo Valerij, Trani, 1643. Il Glianes presso il Valerij e nello stesso anno 1643 pubblicò pure Historia e miracoli della divota e miracolosa immagine della Madonna della Madia miracolosamente venuta alla città di Monopoli.
A parte la discrepanza, qui irrilevante, tra le edizioni in OPAC e quelle menzionate dal Giustiniani, è evidente l’incongruenza dei titoli con la storia di Brindisi, per cui è legittimo supporre che l’Aar, se non ha voluto sollevare una cortina fumogena di erudizione, difficile, anzi, come dice lo stesso Ascoli, a quei tempi quasi impossibile da controllare, sia rimasto vittima, anche lui, della classifica del Pollidori e dell’origine brindisina del Glianes.
di Gilberto Spagnolo
Ogni libro ha la sua storia. Una storia assai preziosa anche per le stamperie e le biblioteche pubbliche e private e per le biografie degli stessi tipografi salentini. Le edizioni che si presentano in questo contributo appartengono tutte ad una biblioteca privata. Sono testi stampati dai torchi delle tipografie leccesi Marino e Agianese, fra le più importanti stamperie attive e numerose a Lecce nell’Ottocento ma delle quali manca ancora la ricostruzione degli Annali nella loro globalità.
Delle loro vicende umane, economiche ed editoriali conosciamo invece molto grazie principalmente alle ottime ricerche archivistiche, di fondamentale importanza per l’abbondanza del materiale attinto direttamente alle fonti, di Antonio De Meo con il suo La stampa e la diffusione del libro a Lecce e dintorni dal Cinquecento alla metà dell’Ottocento, pubblicato a Lecce nel 2006.
Come scrive il De Meo “la figura di Vincenzo Marino emerge di diritto tra le fine del secolo dei lumi e gli albori dell’epoca risorgimentale… La tipografia Agianese inizia invece la produzione editoriale nel secondo decennio del XIX secolo continuando ad operare anche dopo la metà dell’ottocento per molti e molti anni ancora”. Indicativamente la tipografia Vincenzo Marino e fratelli operò tra il 1795 e il 1832 (“ultimo testamento del tipografo”).
Successivamente, secondo quanto riporta il Foscarini, dal 1833 (anno della morte di Vincenzo Marino) e fino al 1862 fu gestita dagli eredi. Al 1814 si colloca l’avvio della tipografia gestita dai fratelli Agianese, Giuseppe e il canonico Lorenzo, e da Oronzo Gabriele Costa (quest’ultimo non citato da De Meo e secondo quanto riporta invece il Bernardini).
Questa tipografia divenuta poi, dal 1827 al 1848, semplicemente Tipografia Agianese, invece concluse la sua attività, dopo varie vicissitudini familiari, nel 1861 (anno della morte del vecchio proprietario Lorenzo Agianese).
È noto che una stamperia può trarre solida fama dalla sua durata, dalla qualità e dal numero delle sue edizioni, dall’autorità degli autori e degli artisti che vi hanno collaborato, dal prestigio del personaggio al quale l’opera è dedicata o che ebbe a finanziarla. In via generale in questa sede come si potrà osservare, le edizioni in entrambe le stamperie possono classificarsi in pubblicazioni di vario formato (a volte anche con ornamenti e illustrazioni) di carattere scolastico, encomiastiche, storiche, medico – scientifiche e per molta parte di contenuto religioso. Ma non manca anche la produzione di manifesti, avvisi, memorie legali, opuscoli d’occasione e di carattere tipicamente popolare.
Fu inoltre, come riporta De Meo, importantissima la collaborazione della tipografia Marino “sia con l’Università di Lecce sia col clero cittadino. Basti pensare ai biglietti di invito alle carte per la contabilità ai Copponi dell’Ospedale Militare impressi per conto dell’Università fin dai primi anni dell’Ottocento. I rapporti di lavoro poi con la Mensa Vescovile di Lecce risalgono al 1797. Come non ricordare ancora la stampa del giornale L’Osservatore Salentino un cui esemplare del 18 gennaio 1821 è custodito presso l’Archivio di Stato di Lecce…”. Mentre (scrive ancora De Meo) “della tipografia di Vincenzo Marino ne emerge dunque da queste edizioni il buon livello qualitativo sia sul piano tipografico che su quello contenutistico” la produzione della tipografia Agianese effettivamente rimane invece (d’accordo con il giudizio di De Meo) “molto modesta e di basso profilo”. Resta comunque il fatto, indubbiamente, “che è certo che questa officina assieme alla stamperia di Vincenzo Marino e alla tipografia dell’Intendenza reggesse il peso dell’editoria salentina pubblica e privata nella prima metà dell’ottocento” (quella dell’Intendenza, così detta perché sita nei locali dell’Intendenza oggi Prefettura, nacque infatti nel 1831).
Per la produzione editoriale dell’Agianese va particolarmente sottolineata soprattutto la rarità delle sue edizioni, probabilmente perché non numerose o in tiratura limitata come ad esempio la rarissima raccolta che in questa libreria privata si presenta completa nei suoi 10 volumi ovvero “Il Giornale di Economia Rurale stampato per merito della Società Economica di Terra d’Otranto”.
I volumi dal I al VI di questa raccolta stampati dalla Tipografia Agianese recano inoltre sul frontespizio due marche tipografiche differenti. Una delle due (anni dal 1840 al 1843) raffigura una figura mitologica (forse Mercurio); l’altra (anni 1844 e l845) raffigura una matrona seduta che regge con la mano sinistra un fascio di spighe di grano (che si ripetono sul fondo in entrambi i lati) e con la mano destra una falce.
Le opere delle due tipografie, oltre ad essere testimonianza della loro attività tipografica e confermare il rapporto stabilito fra stampatori e studiosi, risentono infine nel loro contenuto del più generale clima dell’epoca e presentano un quadro dell’ambiente culturale leccese dell’Ottocento, non solo la sua storia e i suoi protagonisti ma anche gli interessi culturali artistici e sociali dei lettori stessi.
In conclusione, si sa che non è facile recuperare tutti gli esemplari delle opere stampate da un tipografo ma, certamente, anche questi stampatori con il loro lavoro oscuro e faticoso, con i loro torchi e le loro benemerite officine, come i vari Desa, Micheli, Mazzeo, Chiriatti e Viverito hanno contribuito validamente in tempi e modi diversi alla diffusione della stampa e della cultura. Il libro attraversa i millenni e la “nobile arte” di imprimere libri non morirà mai.

RELIGIOSI FUORI DE’ CHIOSTRI…
Vuole il re che, V.S. Illma nel Real nome ordini a tutti i /Provinciali, e Superiori di qualunque ordine Religioso di cotesta /Provincia, che prendano conto di quei Religiosi che si trovano/ fuori de’ Chiostri senza legitima causa, e permesso, e di quelli /altresì che con legitima causa e permesso sono fuori dal Chiostro/, ma non menano vita corrispondente al di loro istituto, e subito/ li richiamino e si facciano obbedire, cercando V.S. Illma istessa /la forza. Napoli 21 novembre 1795 / FERDINANDO CORRADINI./al Preside di Lecce./…/ In fine MARULLJ/ COSCIONI/ V. de ROSSI pro FISCO./ Antoninus Camadarelli Proseg./ In Lecce nella nuova Stamperia di Vincenzo Marino, e Fratelli./
fol. cm 38 x 24.
Note: Ordine Reale comunicato da Ferdinando Corradini al Preside di Lecce MARULLJ di intervenire sui Religiosi che soprattutto “non menano vita corrispondente al loro istituto”. Foglio a stampa con stemma reale in alto inciso e cornice tipografica a moduli corrente sui tre lati del testo.
SALVATOR SPINELLIUS
MISSAE/ PRO ALIQUIBUS LOCIS CONCESSAE/ ET AUCTORITATE APOSTOLICA/ADPROBATAE,/ QUAE EXCELLENTISSIMUS, REVERENDISSIMUS DOMINUS/ D. SALVATOR SPINELLIUS/ LYCIENSIS EPISCOPUS/ AD SUAE ECCLESIAE, DIOCESIS USUM/ TYPIS MANDARI CURAVIT./ Lycii 1795. Apud Vincentium/ Marino, Fratres./ Superiorum Permissu./
cm 30 x 21, pp. 20.
Note: Esemplare legato assieme (formando un unico volume) a: DIE VIII AUGUSTI/ IN FESTO/ BEATAE MARIAE VIRGINIS/ MATRIS GRATIARUM (privo sia dell’indicazione tipografica che dell’anno di stampa, di pp. 2 non numerate); XIII AUGUSTI/ MISSA IN FESTO/ SANCTAE PHILUMENAE VIRGINIS, ET MARTYRIS (non datato e privo dell’indicazione tipografica, di pp. 2 non numerate); Die I° Septembris / BEATAE MARIAE VIRGINIS/ DIVINI PASTORIS MATRIS/ (non datato e senza indicazione tipografica, di pp. 2 non numerate con una piccola immagine in fine della Vergine con il Bambino); POST DOMINICAM SEPTUAGESIMAE/ MISSA/ ORATIONIS D.N.J.C. 1N MONTE OLIVETI / (non datato e senza indicazione tipografica, di pp. 2 non numerate con inciso in fine il monogramma IHS). Copertina posticcia di cartone con al centro fissata esternamente una piccola immaginetta raffigurante il Cristo.

SALVADORE SPINELLI
SALVADORE SPINELLI/ VESCOVO DI LECCE/AL SUO DILETTO CLERO, E POPOLO DELLA CITTA’ E DIOCESI/ SALUTE, E BENEDIZIONE./ L’energica difesa della Religione, del trono, del-/lo Stato, e di ogni nostra proprietà, quando la richie-/dono urgenti circostanze, debbe essere lo scopo più/ importante di ogni buon Cristiano, e di ogni fedel/Cittadino./…/(In fine)…/ Napoli li 22 Maggio 1796./ SALVADORE VESCOVO DI LECCE/ Angelo Rao Secretario/ In Lecce nella nuova Stamperia di Vincenzo/ Marino, e Fratelli./
fol. cm. 40 x 30.
Note: Foglio con testo stampato su due colonne e con caduta in più punti in una delle parti laterali, in cui Salvatore Spinelli Vescovo di Lecce (dal 1792 al 1797) “per adempiere le giustissime Sovrane disposizioni” ingiunge e ordina a Parroci, Missionari, Predicatori ed Ecclesiastici della Diocesi di Lecce “nelle urgenti circostanze che pelle minacciate nemiche irruzioni pongono in pericolo la Religione, il Real Trono e l’intera Società/…/ a mettere in giusta veduta il presente pericolo, eccitare i popoli a prendere le arme pietose, e publicare da’ sugli altari ne’ giorni festivi e da’ su i pergami i nostri sentimenti: sentimenti conformi a quelli manifestati dal nostro Sovrano in due affettuose Sue Lettere, l’una diretta a’ Vescovi, e Prelati del Regno, e l’altra a tutt’i isuoi fedeli ed amati sudditi: sentimenti uniformi allo spirito di Dio e perciò da non riguardarsi con indifferenza”. Le lettere furono inviate da Napoli il 18 maggio del 1796.

IMMAGINE DEL CROCIFISSO DELLA PIETÀ DI GALATONE
La miracolosa Imagine (sic) del Crocifisso della Pietà, fin/ dal 1485 da “Cittadini, e dagli Esteri venne adorata in/ Galatone, prima in augusta Cappella, poi nell’antica/ Chiesa, ed oggidì in un Tempio, che gareggia in magni-/ficenza colle Basiliche del Regno. La prelodata imagine (sic)/ sul principio vedevasi colle mani legate avanti; a due/ Luglio 1621. Sciogliendo la sinistra, tolse il velo, che la/ copriva, restando in questo atteggiamento, come se così/ fosse stata dipinta/…/ (In fine)… /Dato in Galatone/ a dì Marzo 1796./ D. Donato Can. De Actis Rettore/ D. Vincenzo Can. Megha Rettore./ In Lecce nella nuova Stamperia di Vincenzo Marino, e Fratelli./
fol. cm 30 x 22.
Note: Foglio a stampa, con cornice tipografica a moduli sui tre lati del testo, con cui “Si priegano adunque nel Signore tutti i RR. Curati di questa Provincia, manifestare ai loro Filiani l’espressata apertura del Santuario, acciò tutti, in tempi tanto alla nostra commune Madre luttuosi, potessero profittare delle grazie concesse, Confessandosi a’ Penitenzieri destinandi dal Vescovo, colle facoltà concesse dalla Sacra Penitenzieria di Roma”. Leggendo l’interessante annotazione autografa scritta posteriormente, si scopre che l’Avviso era stato inviato al Reverendo Arciprete di Pisignano Vito Ingrosso. Come scrive egli stesso, il foglio (con segni di ceralacca) era stato ricevuto il 7 di Aprile del 1796 e poi “pubblicato al popolo di questa terra” nella seconda domenica dopo Pasqua tenendolo “fissato” nella chiesa di Pisignano fino al 19 maggio del 1796, giorno in cui “per notizia, e memoria” lo inserisce in un libro per conservarlo.
BERARDINO MORELLI
LEZIONI ELEMENTARI/ DI/ GEOMETRIA/ E/ TRIGONOMETRIA, DEL SIG. D. BERARDINO MORELLI/ Nobile Patrizio, e Professore di Mate-/matica nelle Regie Scuole di Lecce./ Dedicate a Sua Eccellenza/ F. D. FRANCESCO/ MARULLI Utile Signore della Terra di Grassano, Co-/lonello degli Eserciti di S. M. (D. G.) Di-/ rettore, Reg. Delegato, ed Ispettore Gene-/rale de’ Porti, e Marine dell’Adriatico, Pre-/side, e Governadore dell’Armi, e Delegato./ delle Regie Scuole nella Provincia di Lecce./ TOMO I./ Che contiene la dottrina nelle/ PROPORZIONI, E LA LONGIMETRIA./ IN LECCE MDCCXCVI./ Presso Vincenzo Marino, e Fratelli./ Con Licenza de’ Superiori./
cm 19,5 x 13,5, pp. 192
Note: Bell’esemplare della I edizione di uno dei prodotti tipografici più importanti del Marino, completo delle tre opere riunite in un solo volume, apparentemente rilegati insieme all’epoca e con tutte le tavole più volte ripiegate fuori testo alla fine del terzo tomo. Legatura coeva in piena pergamena con titolo e autore riportati in bella calligrafia sul dorso ad inchiostro. Frontespizi autonomi e ben inquadrati per contenuti differenti. Marca tipografica del Marino su tutti i frontespizi: tre piccoli medaglioni ovali con all’interno viso femminile di profilo. Antica firma di appartenenza al frontespizio del I Tomo: “Luigi Morelli” (probabilmente un componente della stessa famiglia Morelli). Berardino Morelli (1736-1802) matematico di fama e poeta nacque e morì a Lecce. Dopo un concorso nel 1760 ebbe la cattedra di matematica nelle Regie Scuole di Lecce. Per i suoi lavori fu nominato Socio dell’Accademia delle Scienze e Belle Lettere di Napoli il 3 Aprile 1779, del Giglio d’Oro di Lecce, e di quella delle Scienze di Francia. In patria oltre ad esercitare con successo l’avvocatura, insegnò anche musica e geometria. Questo I Tomo comprende: a pag. 3 Prefazione; da pag. 4 a pag. 55 Dottrina Generale delle Ragioni e Proporzioni; con nuova numerazione da pag. 3 a pag. 10 Geometria – da pag. 11 a pag. 191 Parte Prima o sia Longimetria; Indice e Tavola correzioni/ errori a pag. 192.
BERARDINO MORELLI
LEZIONI/ ELEMENTARI/ DI/ GEOMETRIA/ E/ TRIGONOMETRIA/ DEL SIG. D. BERARDINO MORELLI/ TOMO II./ Che contiene la dottrina delle/ SUPERFICIE, e de’ SOLIDI/ O SIA/ LA PLANIMETRIA/ E/ LA STEREOMETRIA/ IN LECCE MDCCXCVII./ Nella pubblica Stamperia di/ Vincenzo Marino, e Fratelli./ Con licenza de’ Superiori./
cm 19,5 x 13,5, pp. 118 (Parte I e II), pp. 123 (Parte III).
Note: Il secondo tomo comprende: da pag. 1 a 116 Parte II Planimetria; pp. 117-118 Indice e Tavola correzioni/errori più pagina bianca non numerata.
BERARDINO MORELLI
LEZIONI ELEMENTARI/ DI/ GEOMETRIA/ E/ TRIGONOMETRIA/ DEL SIG. D. BERARDINO MORELLI/ TOMO III./ Che contiene gli Elementi della/ TRIGONOMETRIA PIANA,/ O RETTILINEA/ Con una breve Appendice sulla natura,/ ed uso de’ LOGARITMI./ IN LECCE MDCCXCVII./ Nella pubblica Stamperia di/ Vincenzo Marino, e Fratelli./ Con licenza de’ Superiori./
cm 19,5 x 13,5, pp. 112 + 4 (relazioni per l’approvazione della stampa)
Note: Questo terzo e ultimo tomo comprende: da pag. 1 a pag. 77 Elementi di Trigonomia Piana; a pag. 78 Indice e Tavola Errori/ Correzioni, p. 79 bianca; da pag. 80 a pag. 112. Appendice sulla Natura ed uso de’ Logaritmi. Completa il III Tomo con numerazione indipendente contenuta in 4 pagine la supplica in data 10 gennaio 1797 di “Vincenzo Marino pubblico stampatore” per dare alle stampe l’opera di Berardino Morelli “uno di quei pochi che impiegano le penne maestre per il sollecito sviluppo dell’intendimento e della ragione dell’uomo”. In conclusione i tre volumi hanno caratteristiche tipografiche identiche. Il terzo si differenzia per la presenza di ben 38 tavole incise in rame più volte ripiegate a tutta pagina articolate in 5 sezioni così distribuite: a) Longimetria Tavv. 11; b) Trigonometria Tavv. 4; c) Planimetria Tavv. 8; d) Stereometria Tavv. 6; e) Figure Tavv. 9.
FRANCESCO SAVERIO CANDIDO
ALLA SACRA REAL MAESTA’ /DI/ MARIA CAROLINA /REGINA DELLE DUE SICILIE/ Elogio Poetico/ di/ Francesco Saverio Candido / in Lecce MDCCXCVII. Presso Vincenzo Marino e fratelli./
cm 17,5 x 12, pp. 7
Note: Edizione priva dell’indicazione dello stampatore e anche dell’anno di stampa che comunque è annotata manualmente a inchiostro e in caratteri romani sul frontespizio. Questo piccolo libretto con semplice copertina cartonata viola è attribuibile con certezza alla tipografia di Vincenzo Marino e fratelli per la caratteristica cornice modulare tipografica (che compare anche in altre opere) posta in alto solo alla pag. 3 che racchiude al suo interno tre ovali con inciso lo stesso profilo femminile. Le notizie biografiche riportate nel Dizionario degli uomini illustri di terra d’Otranto, ci dicono che il Candido era nato a Lecce da Placido e da Giuseppa Pranzo (1770 – 1807). Inizialmente si avviò verso il sacerdozio ed ascese al diaconato. Insegnò letteratura Italiana e Latina nel Seminario di Lecce e poi dopo la sua chiusura nel 1797, in quello di Taranto. Fu drammaturgo (autore di diverse tragedie) e pittore, buon ritrattista, “non mediocre incisore”, intagliatore in legno e anche modellatore in creta, nonché brillante oratore. L’elogio fu scritto in occasione della venuta in Lecce nel 1797 di Ferdinando IV e di Maria Carolina e del principe ereditario Francesco. Annotazioni manoscritte di possesso sul frontespizio.
FRANCESCO MARULLI
FERDINANDO IV/PER LA GRAZIA DI DIO/RE DELLE DUE SICILIE, DI GERU-/SALEMME e INFANTE DI SPAGNA,/ DUCA DI PARMA, PIACENZA GRAN PRINCIPE EREDITARIO/ DELLA TOSCANA/ IL CAVALIERE GEROSOLIMITANO FRA D./ FRANCESCO MARULLI COMMENDATORE DI S./ MARIA CAROLINA, UTILE SIGNORE DELLA/ TERRA DI GRASSANO, BRIGADIERE DE’ REA-/LI ESERCITI, DIRETTORE ED ISPETTORE/ GENERALE DI TUTTE LE MARINE E PORTI/ DELL’ADRIATICO, PRESIDE DELLA PROVINCIA DI LECCE, E REGIO ATTUAL DELEGATO/ NELLE CINQUE PROVINCIE DI MATERA, LEC-/CE, BARI, LUCERA, E MONTEFUSCO./ REALI ISTRUZIONI GENERALI/ PER LA NUTRIZIONE/ DEGLI ESPOSTI/ APPLICATE ALLA PROVINCIA/ DI LECCE./ Lecce 1798. Nella Stamperia di Vincenzo/ Marino, e Fratelli./
cm 21,5 x 15, pp. 15
Note: Stemma Reale inciso al frontespizio. Opuscoletto molto interessante e per certi aspetti direi anche “commovente” recante le disposizioni applicate alla Provincia di Lecce su “la sorte infelice de’ Projetti” che formano “uno de’ gravi mali della nazione”, disposizioni “per la loro nutrizione” e per i quali in ciascuna Università della Provincia doveva esistere la “ruota per gli Esposti”. Essa “dev’esser posta nel mezzo di un muro in una casa abitabile assegnata dall’Università in un luogo comodo al pubblico, ma non molto frequentato, nella maniera che tale ruota suol essere situata nelli Spedali ben regolati: corrispondendo, cioè a dire, e dentro, e fuori della casa, in cui è posta, di modo che i bambini si possano collocar nella ruota dalla parte di fuori, e girandosi la ruota stessa si possano accogliere nella parte di dentro; e dovrà esser provveduta di un campanello al di dentro col suo cordoncino, che spunti al di fuori, per darsi con esso il segno, quando si esporranno i bambini”. Semplice copertina cartonata recante scritti ad inchiostro i dati tipografici.

P.F. ONORIO COLELLI
MEMORIA/SU GLI/ INFINITESIMI/ OSSIA SU/ LA DIVISIBILITA’ DEL PUNTO/ MATEMATICO/DEL/ P.F. ONORIO COLELLI MIN. CONV./ Maestro delle Arti e Dottore in S. Teolo/ gia, Professore di Fisica, e Matematica nel- / l’insigne Seminario di Matera, sotto gli auspicj di S.E. Monsignor Cattaneo Arcivescovo/ di Matera, de’ Marchesi di Montescaglioso ec./ DIRETTA AL SIGNOR/ D. LUCA CAGNAZZI/ Archidiacono della Real Chiesa Cattedrale di Altamura; P.P. di Fisica, e Matematica, e / Moderatore nella Reale Università degli Studi-/ della medesima; Socio di varie Accademie/ Con una lettera dello stesso/ In Lecce 1804. Presso Vincenzo Marino/ Con le opportune facoltà./
cm 17,5 x 11,5, pp. 28.
Note: Edizione dell’unica e rarissima opera scritta da Onorio Colelli, matematico e frate dei pp. Minori conventuali nativo di Veglie che il Dizionario degli uomini illustri di Terra d’Otranto erroneamente riporta con il nome di Onofrio (sec. XVIII – XIX). Dalle poche informazioni in esso riportate sappiamo che “A soli 21 anni vinse un concorso a Bitonto e ottenne la patente di Reggente in filosofia, diritto di natura e teologia dogmatica, in cui più tardi si laureò. L’arcivescovo di Matera, Cattaneo, lo volle come professore di fisica, chimica e matematica. A Matera prese parte ad una questione sorta in quel periodo sulla divisibilità del punto matematico, su cui scrisse anche un’opera, per la quale ebbe molte mortificazioni e dispiaceri. L’opera gli costò il giudizio dell’Università di Pavia, che tuttavia, riunita in consesso decise favorevolmente per il Colelli”. Presenti sul frontespizio i tre caratteristici ovali del Marino con inciso all’interno lo stesso profilo femminile.

FILIPPO BRIGANTI
ATTI DI PIETA’ / DELL’AVVOCATO/ SIG. FILIPPO BRIGANTI/ DI GALLIPOLI / Scritti per proprio uso, e/ fatti stampare dopo la di/ lui morte dal Cavaliere/ BONAVENTURA LUIGI/ BALSAMO/ sempre ammiratore delle/ virtù di quello./ IN LECCE 1814./ DA’ TORCHI DI VINCENZO MARINO/ Con le opportune facoltà./
cm 15 x 10,5, pp. 94.
Note: Edizione molto rara e ben curata con rilegatura in cuoio uscita dai torchi di Vincenzo Marino di questa operetta di Filippo Briganti illustre giureconsulto, economista e letterato di Gallipoli, (autore di opere molto importanti come Esame analitico del sistema legale, Napoli, 1777, ed Esame Economico del sistema civile, Napoli, 1780, e fatta stampare dal cavaliere Bonaventura Luigi Balsamo suo ammiratore. “Atti di pietà” scritti nella vecchiaia, testimoniano la fede e le alte doti di filosofo cristiano di Filippo Briganti e sono la preparatoria alla “confessione, alla comunione e alla Visita sul Santissimo Sacramento dell’Altare”. Interessanti sono i due sonetti posti rispettivamente in apertura dal titolo “Dedica a Dio” e in chiusura dal titolo “Al glorioso martire S. Sebastiano protettore della città di Gallipoli”.
PASQUALE CECERE
SVILUPPO/ TEORICO – PRATICO/ DEL TIFO PESTILENZIALE,/ Relativo all’Epidemia avvenuta nell’Anno/ 1812 nel Carcere Centrale della/ Provincia di Terra d’Otranto./ OPERA/ DEL DOTTOR FISICO/ PASQUALE CECERE/ DI LECCE./ DIVISA IN DUE VOLUMI./ VOLUME PRIMO/ VOLUME SECONDO/ Libera per vacuum posui vestigia princeps:/ Non aliena meo pressi pede…/ Horat. Flacc. 2. 1. Ep. XIX/ IN LECCE 1814./ NELLA TIPOGRAFIA DI VINCENZO MARINO/ Con le opportune facoltà./
cm 20 x 12,5, pp. 197 (195+2 di Indice) (I Volume), pp. 187 (186+1 di indice) (II Volume).
Note: I due volumi sono legati insieme da una pregevole rilegatura marmorizzata con motivi floreali e titolo in oro su tutto il dorso in cuoio. Il II volume si chiude a pag. 186, prima dell’indice, con la caratteristica marca tipografica del Marino, ovvero tre piccoli medaglioni ovali con viso femminile di profilo distanziati tra loro. A pag. 1: Supplica di “Vincenzo Marino pubblico stampatore” datata 18.03.1814 per ottenere il permesso di “dare alla luce con la stampa un’Opera Medica del Dr. Fisico Signor Pasquale Cecere dell’istessa Città”; A pag. 2: “L’INTENDENTE/ DI TERRA D’OTRANTO/ Al Signor Tommaso Mieli Professore/ di medicina in Carmiano (Carmiano 2 Maggio 1814)”; A pag. 3; AL SIGNOR INTENDENTE DELLA / PROVINCIA DI TERRA D’OTRANTO/ IL DOTTOR FISICO/ TOMMASO MARIA MIELI/; A pag. 7: “Si stampi, ma non si pubblichi[… ]/ D. ACCLAVIO” (richiesta di rimessa di due esemplari terminata la stampa); A pag. 8: “Burò Centrale/ N. 406/ Lecce 7 Dicembre 1814/ L’INTENDENTE/ DI TERRA D’OTRANTO/ Al Signor Vincenzo Marino” (Permesso di pubblicazione). Pasquale Cecere, medico nato a Lecce dove svolse la sua professione dopo essersi laureato a Napoli, fu molto amico del Duca Sigismondo Castromediano. Dopo la caduta della Repubblica Napoletana del 1799 venne arrestato perché massone e passò due anni e due mesi in carcere. Tenuto in alta considerazione dopo la cacciata dei Borboni fu nominato medico delle prigioni dell’Ospedale Civile e Militare di Lecce. L’opera di Pasquale Cecere è tra quelle citate da Antonio De Meo nella sua ricerca su La stampa e la diffusione del libro a Lecce e dintorni dal Cinquecento alla metà dell’Ottocento (“Vincenzo Marino e i suoi quattro testamenti”).
REGGIMENTI PROVVISORII
MANIFESTO./ SUA MAESTA’ ha veduto con estremo ramma-/rico che fra gli individui dello sbandato esercito,/ quei che appartenevansi ai Reggimenti Provvisorii,/ indi 4.to leggiero, 9.no e 10.mo di Linea ben lun-/gi di ritornare sotto le Reali bandiere, sieno i più/ ostinati ai replicati Sovrani ordini dati all’oggetto,/ ed unicamente dediti ad agitare la tranquillità in-/terna dello Stato./…/(In fine)…/ In Napoli, nella Stamperia del Giornale delle Due Sicilie,/ E di nuovo in Lecce da’ Torchj di Vincenzo Marino./s.a.
fol. cm 29 x 20,5.
Note: Foglio a stampa privo dell’anno di realizzazione con cui si ammoniscono i soldati appartenenti ai Reggimenti Provvisori 4.to Leggiero, 9.no e 10.mo di Linea a ritornare sotto le bandiere reali entro 20 giorni per non essere “tradotti innanzi a’ Tribunali competenti per esservi giudicati de’ loro passati delitti, o misfatti che andranno a rivivere e de’ nuovi se ne avranno commessi”. Pur non comparendo, la data comunque va individuata tra il 1815 e il 1816, anni in cui il Giornale delle Due Sicilie fu stampato a Napoli. Dal MANIFESTO si evince che il Marino non agisce più con la collaborazione dei fratelli Giuseppe e Oronzo, sodalizio questo che viene meno già alla fine del Settecento mentre la dicitura “da’ Torchj di Vincenzo Marino” è quella usata anche un anno prima, nel 1814, per la stampa dell’opera Atti di Pietà di Filippo Briganti.
BONAVENTURA LUIGI BALSAMO
PER/ LO SIGNOR CAVALIERE/ D. BONAVENTURA/ LUIGI BALSAMO/ CONTRO/ IL SIGNOR CONSIGLIERE D’INTENDENZA/ DI NAPOLI/ D. VITO VALENTINO/ IN LECCE 1817/ NELLA TIPOGRAFIA DI VINCENZO MARINO/ Con le dovute facoltà./
cm 27 x 18,5, pp. 31.
Note: “Le volontà dei defunti devono osservarsi, ed eseguirsi”. Interessante allegazione giuridica in cui “D. Bonaventura Balsamo Cavaliere dotato di onestà, e saviezza somma ripugna di restituire a D. Vito Valentino, e D. Luca Zacheo le due terze parti delli beni ereditarj di D. Nicola Doxi Stracca”, marito di D. Francesca Storti istituita erede con l’obbligo di restituire dopo la sua morte “l’eredità alle di lui sorelle e nipote che fidecommissariamente aveva a lei sostituite”. In tale disputa legale intervenne anche “il dottissimo Giudice della Regia corte di Gallipoli D. Filippo Briganti” con un suo “Preambolo”.

LUIGI RICCIO
IL DIALOGO/ DI/ MINUZIO FELICE/ INTITOLATO/ OTTAVIO/ O SIA/ DELLA VERITÀ DELLA RELIGIONE/ CRISTIANA./ Tradotto in Italiano, ed illustrato/ con moltissime note/ DAL DOTTOR LUIGI RICCIO/ AVVOCATO DI GALLIPOLI. / DEDICATO/ ALL’ILLUSTRIS.mo, E REVERENDIS.mo SIGNORE/ D. GIUSEPPE M.a GIOVENE/ DOTTORE DELL’UNA, E L’ALTRA LEGGE, CANONICO/ ARCIPRETE DELLA CATTEDRALE DI MOLFETTA, VICA-/RIO DEL REAL ORDINE DELLE DUE SI-/CILIE, UNO DE’ XL. DELLA/ SOCIETÀ ITALIANA DEL-/LE SCIENZE, E SOCIO DI VARIE ACCADEMIE D’ITALIA./ IN LECCE 1817./ NELLA TIPOGRAFIA DI VINCENZO MARINO/ Con le opportune facoltà./
cm 20 x 14,5, pp. 186.
Note: Pagina bianca non numerata prima del frontespizio e alla fine dopo l’indice. Copertina in pergamena coeva. Grazie alle ricerche d’archivio condotte da O. Cataldini (1977), A. Laporta (1996) e più recentemente, da D. Palma, sappiamo alla luce di nuovi documenti che L. Riccio “storico, patriota, governatore e diplomatico”, nacque a Castiglione il 28 giugno 1752 (piccolo borgo dove la famiglia esponente da due generazioni dell’aristocrazia gallipolina si era stabilita). A Napoli studiò legge laureandosi in Utroque Jure nel 1773 e poi abilitandosi in magistratura nel 1782. Dopo il compimento degli studi ed il matrimonio con Crescenza De Luca, Luigi Riccio visse soprattutto a Gallipoli dove fu anche governatore e dove nacquero le sue tre figlie (la terzogenita Agata Francesca ebbe come padrino Filippo Briganti), Nel corso della sua esistenza fu anche deputato eletto di Castiglione e di Andrano. Fu uomo non solo di lettere ma anche liberale e avendo in un certo modo partecipato ai fatti politici del 1799 soffrì la prigione e l’esilio. Dopo aver dato alle stampe la traduzione dell’Ottavio nel 1817 la morte lo colse qualche anno dopo il 26 gennaio 1821 a Castiglione lasciando inedita e pronta per la stampa la sua opera più importante ovvero la Desrizione Istorica della città di Gallipoli.
SUPREMO COMANDO DI GUERRA
CIRCOLARE/ Che contiene delle Istruzioni suppletorie/ al Regolamento delle Milizie/ de’ 21 Marzo 1818./ Il Capitan Generale Comandante in capo / firmato, NUGENT/ In LECCE DA VINCENZO MARINO 1818./
cm 25 x 19,5, pp. 15.
Note: Circolare del Supremo Comando di Guerra che emana in dettaglio le istruzioni in applicazione del Regolamento delle milizie del 21 Marzo 1818. Le istruzioni sono contenute in 28 articoli firmati dal capitano Generale Comandante in capo Nugent e datate 1 Agosto 1818 (data d’impressione dell’edizione). Nell’elenco delle “compagnie mobili” di cui all’art. XI figura anche un reggimento a Otranto con i distretti di Lecce, Taranto, Brindisi, Gallipoli. La “Forza” compresi gli ufficiali risulta a Lecce di 150 “individui”, a Taranto di 130, a Brindisi di 110, a Gallipoli di 90.
JOANNIS NEPOMUCENI
Die XVI. Maii/ IN FESTO/ S. JOANNIS/NEPOMUCENI/ PRESBYTERI et MARTYRIS/DUPLEX/ in tota Dioecesi Lyciensi ex concessione/ S.R.C. die 21 Junii 1826, ad instar con-/ cessionis factae Clero Regni Bohemiae sub/ die 13 aprilis 1741./ Lycii 1826, Typis Vincentii Marino./
cm 16 x 11, pp. 24.
Note: Legato ad altro esemplare, scadente sia nella stampa che nella rilegatura, dei “SANCTORUM/OFFICIA” stampati da Agianese nel 1815, con diversi “Officia” di altre commemorazioni religiose (S. Leonardo, Apostoli Pietro Paolo, B. Maria Vergine, ecc.)

BERARDINO MORELLI
LEZIONI ELEMENTARI/ DI/ GEOMETRIA/ E / TRIGONOMETRIA/ DI / BERARDINO MORELLI/ DI LECCE/Nobile Patrizio, Professore di Matematica/ nelle Regie Scuole della stessa Città/ DIVISE IN DUE TOMI/ SECONDA EDIZIONE / TOMO PRIMO/ che contiene la dottrina delle / PROPORZIONI, E LA LONGIMETRlA/1827,/SI VENDONO IN LECCE/ Dal Tipografo Vincenzo Marino/ Con le dovute facoltà./
Note: Seconda edizione dell’opera del Morelli in due tomi distinti con frontespizio autonomo e senza le tavole come il precedente. Legatura con carta marmorizzata e dorso in pelle e misure tipografiche leggermente più grandi. Questo tomo comprende: a pag. 3 Prefazione; da pag. 4 a pag. 55 Dottrina generale delle Ragioni e Proporzioni; con nuova numerazione da pag. 3 a pag. 10 Geometria, da pag. 11 a pag. 191 Parte prima o sia Longimetria; a pag. 192 Indice.
BERARDINO MORELLI
LEZIONI ELEMENTARI/ DI/ GEOMETRIA/ E/ TRIGONOMETRIA/ DI/ BERARDINO MORELLI/ DI LECCE/ Nobile Patrizio, e Professore di Matematica/ nelle Regie Scuole della stessa Città/ DIVISE IN DUE TOMI/ SECONDA EDIZIONE/ TOMO SECONDO/ che contiene la dottrina delle SUPERFICIE, e de’ SO-/LIDI, OSSIA la PLANIMETRIA, e STEREOMETRIA, ed/ ancora gli elementi della TRIGONOMETRIA PIANA,/ O RETTILINEA, con una breve appendice su la/ natura ed uso de’ LOGARITMI./ 1827. SI VENDONO IN LECCE/ Dal Tipografo VINCENZO MARINO./ Con le dovute facoltà./
cm 21 x 14, pp. 81+84+77.
Note: Il secondo tomo comprende tutti gli argomenti trattati nel 2 e 3 tomo della I edizione: da pag. 3 a pag. 81 Parte II O Sia Planimetria; con numerazione indipendente da pag. I a pag. 84 Parte III O Sia Stereometria; con altra numerazione indipendente da pag. I a pag. 51 Elementi della Trigonometria Piana o sia Rettilinea; da pag. 52 a pag. 74 Appendice sulla natura ed uso de’ Logaritmi; da pag. 75 a pag. 77 Indice (pag. 78 bianca non numerata).

CARLO BOZZI
I PRIMI MARTIRI/ DI LECCE/ GIUSTO, ORONZIO, E FORTUNATO/ STORIA SCRITTA NEL 1672/ DAL SIGNOR CARLO BOZZI/ PATRIZIO LECCESE/ DIVISA IN CINQUE LIBRI/ DEDICATA A SUA ECCELLENZA REVERENDISSIMA/ M.R NICOLA CAPUTO/ DE’ MARCHESI DI CERVETO VESCOVO DI LECCE./ NAPOLI 1835. Si trova in Lecce presso gli eredi di Vincenzo Marino./
cm 19,5 x 12,5, pp. 147.
Note: Edizione molto raffinata, in una pregevole legatura di colore azzurrino, dell’opera di Carlo Bozzi. I primi martiri di Lecce, Giusto, Orontio e Fortunato uscita dai torchi di Pietro Micheli a Lecce nel 1672. Su entrambe le sue facciate e su tutti i suoi lati è presente una cornice tipografica modulare in oro che racchiude al centro la seguente dedica impressa con caratteri in maiuscolo sempre in oro: “L’UMILE SERVITORE/FRANCESCO CAMPOBASSO/ OFFRE/ALLA E. V./ Prima del frontespizio bella antiporta raffigurante S. Oronzo con sullo sfondo l’immagine della città di Lecce in una incisione del napoletano Raffaele D’Angelo come si legge fuori campo in basso a destra (manca però il nome del disegnatore). Il napoletano D’Angelo lavorò molto in tandem con il romano Luigi Agricola. Al frontespizio incisione anche dello stemma episcopale del Vescovo Nicola Caputo dei Marchesi di Cerveto. Dietro il frontespizio: “PE’ TIPI DI SAVERIO GIORDANO”. Alla pagina successiva non numerata dedica a Monsignor D. Nicola Caputo: “A SUA.ECCELLENZA. REVERENDISSIMA/ MONSIGNOR/ D. NICOLA. CAPUTO / DE’. MARCHESI. DI. CERVETO/ DEGNISSIMO. SUCCESSORE/ ED. EMULATORE. VERO. DELLE. VIRTU’/ DEL. PRIMO. CRISTIANO/ DEL. PRIMO. VESCOVO/ DEL. PRIMO. MARTIRE/ DELLA. GIAPIGGIA/ S.ORONZIO/ QUESTA. RISTAMPA/ L’EDITORE/ DONA. OFFRE. E. CONSACRA/ Segue facciata bianca. L’incisione del D’Angelo, nella sua composizione, sembra articolata allo stesso modo di uno dei ricami su S. Oronzo di Marianna Elmo, figlia di Serafino Elmo, artista leccese del XVIII secolo celebre per la sua maestria nell’utilizzo della tecnica dei «ricami a fili incollati» (broderie à fils collés), un’arte di seta ed argento che, nata proprio nel capoluogo salentino, ha raggiunto il suo splendore in Italia ed Europa.
FRANCESCO BERNARDINO CICALA
OPERE/ DI/ FRANCESCO BERNARDINO CICALA/ TOMO I/ IN LECCE/ Presso i Fratelli Agianese/ MDCCCXIV
cm 20,5 x 14,5, pp. XXV – 160.
Note: Esemplare ricopertinato con legatura in carta marmorizzata, con dorso in pelle, tasselli fregi e titolo in oro. Semplici frontespizi autonomi e che si differenziano solo per le citazioni di autori latini inserite sotto il titolo e il nome dell’autore. Le “Opere” del drammaturgo Cicala, “Arcade Salentino” di cui Pietro Marti tracciò il profilo biobibliografico, probabilmente sono state la prima opera uscita dai torchi dei fratelli Agianese come dichiarano essi stessi nell’introduzione al primo volume, quando affermano testualmente “diamo fuori per primo saggio di questa nostra tipografia la collezione presente”. Scrive Pietro Marti che il Cicala nacque in Lecce nel 1765 dal barone Giovanni Girolamo e morì a Lecce nel 1816 “dopo un’esistenza votata al culto della virtù e dello studio”. Dotato di un grande talento poetico (la prima prova del suo talento la diede a vent’anni con la tragedia Gli Arsacidi nel 1786) scrisse infaticabilmente per oltre 15 anni ed il suo nome divenne popolare anche oltre i confini della provincia, tanto che venne accolto fra gli Arcadi di Roma, col nome di Melindo Alitreo e fece parte dell’Accademia degli Speculatori di Lecce, di quelle del Buon Gusto e dei Pastori Imerei di Palermo, della Pontaniana e della Reale di Napoli. A seguito degli avvenimenti politici del 1799 la sua casa fu invasa e saccheggiata vandalicamente e molti suoi manoscritti andarono dispersi o distrutti. Secondo il Marti, del resto delle sue opere i “Fratelli Agianese ne fecero nel 1814 una ristampa completa divisa in 5 volumi”. A tutt’oggi però sono solo due i volumi “esistenti” bibliografati. Il primo volume comprende: pp. III-XI “Agli Amici suoi Francesco Bernardino Cicala”; pp. XII-XXII “Annotazioni degli editori” seguite dalla recensione bio-bibliografica sul Cicala di Pietro Napoli Signorelli apparsa nella Storia Critica de’ teatri antichi e moderni del 1813; pp. I-37 “Il sistema del mondo”, poema in verso sciolto con note astronomiche; pp. 123-152 “Sonetti Istorici” (in tutto 28 sulla storia romana e uno sulla storia greca ripudiato dall’autore stesso). Chiude il I volume da p. 155 a p. 160 la “Lista di coloro che han favorito sottoscrivere a tutto luglio”, ovvero un interessante elenco di illustri acquirenti del libro di Lecce e provincia tra cui spicca il nome di Liborio Romano con 20 esemplari nonché quello per una copia di Pietro Napoli Signorelli.
FRANCESCO BERNARDINO CICALA
OPERE/ DI/ FRANCESCO BERNARDINO CICALA/ Cum relego, scripsisse pudet: quia plurima cerno,/ Me quoque fecit judice, digna lini./ Ovid. de Pont: Liber: I/ TOMO II./ IN LECCE/ Presso i Fratelli Agianese/ MDCCCXIV./
cm 20 x 13, pp. 175 (ultima bianca).
Note: Il secondo Volume comprende: pp. I-80, Collezione di varie liriche, sonetti e odi; pp. 81-161 “Ermione” tragedia rappresentata la I volta il 10 ottobre del 1797; pp. 162-163 “A chi ha letto/L’Autore” (164 bianca); pp. 165-171 “Per la solenne inaugurazione della Società Agraria di Terra d’Otranto” (Versi sciolti); pp. 172-174 “Orazio a Mecenate”.
SANCTORUM OFFICIA
SANCTORUM/ OFFICIA/ EX CONCESSIONE S. R. C./ IN CIVITATE, AC DIOECESI LYCIENSI/ QUOTANNIS RECITANDA;/ Queis accedunt suffragia SS. tum ex rubricis/ generalibus, quum ex immemorabili/ consuetudine in eadem Catthedrali Ecclesia/ recitari solita./ LYCII A. D. MDCCCXV/ Ex Typographia Fratrum Agianese/ Superiorum permissu./
cm 19,5 x 12,5, pp. 252 + 2 di Indice (non numerate).
Note: Dorso con tasselli, titolo e fregi in oro. Piatti marmorizzati. Bell’esemplare con una pregiata rilegatura in piena pergamena dell’epoca e in ottima conservazione. Legato (formando un unico volume e con altra numerazione) con DIE XXVI AUGUSTI/IN FESTO SS. MARTYRUM/ ORONTII.FORTUNATI ET JUSTI/ PATRONORUM AEQUE PRINCIPALIUM LYCIEN/ (da pag. 1 a pag. 22) e con DIE XX. FEBRUARII/ OFFICIUM/ PATROCINII/ S. ORONTII/ EP. ET M. PATRONI PRINCIPALIS/ CIVITATIS, ET DIOECESIS LYCIEN/ (da pag. 23 a pag. 52)

IN FESTO SS. MARTYRUM
DIE XXVI. AUGUSTI/ IN FESTO SS. MARTYRUM/ ORONTII, FORTUNATI, ET JUSTI/ PATRONORUM AEQUE PRINCIPALIUM LYCIEN/ DUPLEX I. CLASSIS cum Octava/ Ad Vesperas/ Superiorum Permissu./ Lycii apud Fratres Agianese 1815./
cm 19,5 x 12,5 pp. 52.
Note: Legato, in un unico volume, con SANCTORUM/ OFFICIA/ EX CONCESSIONE S.R.C./ IN CIVITATE, AC DIOECESI LYCIENSI/ QUOTANNIS RECITANDA;/. A pag. 23: “DIE XX. FEBRUARII/ OFFICIUM/ PATROCINII/ S. ORONTII EP. ET M. PATRONI PRINCIPALIS/ CIVITATIS, ET DIOECESIS: LYCIEN,/.” Apag. 52: Superiorum Permissu./Lycii apud Fratres Agianese 1815.
VITO MARIO STAMPACCHIA
ESAME/ SULLA NATURA DELLE/ FEBBRI INTERMITTENTI/ CURATE COL TARTARO STIBIATO ED/ OPPIO./ RIFLESSIONI/ SULLA FORZA COMBINATA DI QUESTO RIMEDIO./ IDEE/ SUL CONTRO – STIMOLO, E SULLA IPERSTENIA/ DI/ VITO MARIO STAMPACCHIA./ LECCE 1824./ Nella Tipografia di Agianese./
cm 19 x 13, pp. 43.
Note: Fra gli uomini illustri di Terra d’Otranto censiti nel Dizionario Biografico, Vito Mario Stampacchia è riportato come medico nativo di Lequile. Per le sue convinzioni politiche fu messo in carcere all’età di 70 anni e morì a Lecce il 3 agosto del 1875. Il figlio Gioacchino, secondo quanto scrive Amilcare Foscarini in Lequile. Pagine sparse di storia cittadina, fu anche lui un valoroso dottore in medicina e medico onorario di Casa Reale nonché affiliato alla Giovane Italia. Pubblicò, rispetto al padre autore solo di queste Riflessioni sulle febbri intermittenti, “apprezzatissimi Libri di medicina” (il Foscarini li elenca, assai numerosi, nel suo Catalogo Bibliografico degli Scrittori Salentini) lasciando anche manoscritto un Vocabolario etimologico del dialetto leccese. L’edizione è rilegata con una semplice copertina in carta pergamenata.

IN FUNERE FERDINANDI I
IN FUNERE/ FERDINANDI I/ UTRIUSQUE SICILIAE REGIS / CELEBRATO/ AB EXCELLENTISSIMO ET REVERENDISSIMO DOMINO/ D. NICOLAO CAPUTO/ EPISC. LYCIENSI/ IN SUA CATHEDRALI ECCLESIA/ XVI. Kalend. Febr. MDCCCXXV./ INSCRIPTIONES/ TEMPLI FORIBUS, et temporario tumulo affixae / EXARATE/ a Rndo D. PETRO PANARESE Human. Litter. Precaept. In Sem. Aletino,/ et jussu ejusdem Antist. typis editae./ In Lecce Nella Tipografia di Agianese 1825.
cm 24,5 x 20,5, pp. 4 (non numerate).
Note: Edizione in due fogli non numerati e con semplice rilegatura priva dell’anno di stampa che comunque si deduce dalla data di celebrazione nella cattedrale di Lecce del funerale di Ferdinando I inserita all’inizio (16 febbraio 1825). Le iscrizioni sono riportate e così differenziate su quattro facciate: I) Supra templi portam primariam extrinsecus; II) Supra alteram portam. Templi extrinsecus; III) Supra tertiam Templi portam extrinsecus; IV) In dextera parte temporarii tumuli; V) Ex adverso precedentis; VI) In fronte temporarii tumuli, qua parte altare majus sceptabat. Sull’autore Pietro Panarese indicato come “Precettore di lettere umane” nel Seminario di Lecce sono riuscito a reperire alcune brevi notizie tratte dalla Corografia fisica, storica della Provincia di Terra d’Otranto di Giacomo Arditi. Nato a Torre S. Susanna fu “cantore nella chiesa patria, egregio professore di belle lettere nel seminario di Oria, e poi in quelli di Otranto e di Lecce. Finiti gli anni nel dicembre del 1863 rimasero inediti molti suoi componimenti poetici latini ed italiani”. Va detto anche che Torre S. Susanna oltre ad aver dato i natali a Pietro Panarese, ha avuto soprattutto un ruolo decisivo nella storia della stampa leccese. N. Bernardini nel suo saggio su l’Introduzione della stampa a Lecce scritto nel 1912 e in polemica con il Petraglione, individuò e segnalò nel suo scritto infatti l’esistenza (“vera e reale del cimelio”), nella libreria privata “di un appassionato cultore e collettore di cose patrie, il signor Giuseppe Sanasi-Conti di Torre Santa Susanna”, dell’unico esemplare del primo libro stampato dal Borgognone Pietro Micheli (prima ancora del Tancredi di Ascanio Grandi) ovvero i Carmina d Filippo Formoso, dedicati al signore di Torre S. Susanna Antonio Albricci Farnese (qualche anno prima infatti il Foscarini ne aveva fatto solo menzione ma senza indicare il nome del tipografo e il sesto della stampa nel suo Saggio di un Catalogo Bibliografico degli Scrittorii Salentini). L’operetta di Filippo Formoso, unico esemplare ancora oggi tutt’ora esistente, fu infatti recuperata e assicurata alla biblioteca Universitaria di Lecce.

MONISTERO DI S. CHIARA
PER/ LO MONISTERO DI S. CHIARA/ DI FRANCAVILLA/ Contro/ I Signori Principi/ D. LUIGI E D. FRANCESCO/ e CONTE/ D. ANTONIO DENTICE/ Nel Tribunale Civile di Lecce/ LECCE/ Dalla Tipografia Agianese/ 1841./
cm 25,5 x 19,5, pp. 23.
Note: Allegazione Giuridica in cui “con Atto del 18 di Dicembre nell’anno 1838, baccano di citazioni, fratelli D. Luigi, D. Francesco, e D. Antonio Dentice chiedevano al Regio Giudice di Francavilla la condanna del Monistero di S. Chiara di quel comune” per il mancato pagamento di diversi anni dei canoni sulle Masserie “Li Cotogni” e “Li Grattili”. Copertina in fragile carta marmorizzata.
BONAVENTURA FORLEO – PASQUALE SANTOVITO
SOLENNI ESEQUIE/ DI FILIPPO RONDINELLI/ Presidente del Tribunale Civile/ DI TERRA D’OTRANTO / FATTE/ dall’Ordine degli Avvocati Leccesi/ nella Chiesa di S. ANGELO in Lecce / il dì 4 Maggio 1846./ In Lecce/ CON SUPERIORE PERMESSO./
cm 19,5 x 15, pp. 23.
Note: La semplice copertina funge da frontespizio su cui è presente anche una piccola xilografia simbolica. Edizione priva dell’indicazione dello stampatore e anche dell’anno di stampa. Quest’ultima si deduce dalla data di celebrazione delle “solenni esequie” (4 maggio 1846). L’edizione del libretto, priva di pregio artistico, riteniamo possa attribuirsi alla tipografia Agianese sia per l’anno di stampa (1846) e sia per alcuni elementi tecnici, quali i caratteri tipografici usati (specialmente quelli nelle due iscrizioni funerarie riportate), i margini, la carta e la cornicetta posta in alto alla pagina 3. “Elogio funebre”, scritto e recitato dall’avvocato Bonaventura Forleo ed “Elogio alla memoria”, “l’ultimo vate” scritto e recitato dall’avvocato Pasquale Santovito, per Filippo Rondinelli Presidente dal 1844 del Tribunale Civile di Terra d’Otranto, “filosofo, magistrato integerrimo, giureconsulto prestantissimo e Oratore”. Era nato in Montalbano della Lucania. All’età di 20 anni fu mandato in Napoli dallo zio e affidato alla guida del “Gran Nicolini”. “Ai giovani studiosi dell’amato loco natale lasciò la sua Biblioteca ricca di pressochè quattromila volumi, due cattedre instituendo, una di Dritto (sic) e l’altra di Matematiche e della lingua Italiana”. Successivamente Gianbattista De Tommasi, Giudice della Gran Corte Criminale, pubblicò a Napoli sempre nel 1846, le sue “Iscrizioni” sul Rondinelli.

SOCIETA’ ECONOMICA DI TERRA D’OTRANTO
GIORNALE/ DI/ ECONOMIA RURALE/ PUBBLICATO/ DALLA/ SOCIETA’ ECONOMICA/ DI/ TERRA D’OTRANTO / IN LECCE/ Da’ Tipi di Agianese aa. 1840, 1841, 1842, 1843, 1844/ IN LECCE/ Dalla Tipografia Agianese aa. 1845, 1846./
Note: Raccolta in 10 volumi, completa e rarissima, dei fascicoli del primo giornale stampato in Terra d’Otranto (dopo quello dell’Intendenza nato nel 1808 per merito del Cavaliere Pietro De Sterlich Intendente della Provincia di Terra d’Otranto) censito e descritto da N. Bernardini nella sua opera Giornali e Giornalisti Leccesi (Editori Luigi Lazzaretti e figli) stampato a Lecce nel 1886. Il primo fascicolo di questa pubblicazione venne alla luce verso l’aprile del 1840 per merito della Società Economica di Terra d’Otranto di cui era segretario perpetuo Gaetano Stella e della quale facevano parte i più ricchi ed intelligenti gentiluomini del paese col fermo proposito di migliorare in tutti i modi le condizioni economiche di questa Provincia. Come si legge nel “Preliminare” del socio ordinario Francesco Saverio Lala e come riportato dal Bernardini, il giornale oltre a contenere gli atti della Società Economica di Terra d’Otranto “si occupava di agricoltura, pastorizia, architettura rustica, economia animale e vegetale, salute delle piante ecc. Ogni fascicolo si componeva da 32 a 40 pagine in folio (cm 25×19), a due colonne, con numerazione continua, e di questi fascicoli se ne pubblicavano tre ogni anno. Vi scrivevano Gaetano Stella, Giacinto Personè, Martino Marinosci di Martina, Pasquale Greco, Raffaele Danese, Scipione Martirano, Francesco Gera, Luigi Cosma, Giovanni De Metrio, Vincenzo Balsamo, Salvatore Nahi. Molti articoli del prof. Cua, erano riprodotti dal giornale napoletano Il Lucifero. Il Giornale di Economia Rurale era stampato, e per vero, con poca venustà di forma e di tipi, nella tipografia Agianese, fondata circa il 1814 dal Canonico Lorenzo Agianese, da suo fratello Giuseppe e da Oronzo Gabriele Costa. Nel 1843 la parte tipografica di questa pubblicazione cominciò a migliorarsi. L’ultima annata stampatasi nella tipografia Agianese fu nel 1846”. Nel 1847 il giornale passò infatti a stamparsi “Dai Torchi di Francesco Del Vecchio Tipografo dell’Intendenza”. Nel 1854 e fino al 1856, la stampa del giornale fu invece continuata col titolo Giornale di Economia Rurale e Atti della Reale Società Economica di Terra d’Otranto (“e modificandosi anche alquanto nel formato”) dalla “Tipografia dell’Ospizio Provinciale S. Ferdinando nel Palazzo dell’Intendenza”. Marche tipografiche differenti caratterizzano i frontespizi dei singoli volumi secondo l’anno di stampa, in cui i fascicoli sono legati insieme con le seguenti pagine complessive: vol. I pag. 115, Vol. II pag. l18, Vol. III pag. 107, Vol. IV pag. 65, Vol. V pag. 111, Vol. VI pag. 133, Vol. VII pag. 129, Vol. VIII pag. 127, Vol. IX pag. 105, Vol. X pag. 104.
IL CITTADINO DI PALERMO
AVVERTIMENTO DELLA SICILIA/ DAL GIORNALE PALERMITANO/ IL CITTADINO/ In cui saranno descritti tutti i più/ importanti della rigenerazione, le/ determinazioni della rappresen-/ tanza del popolo, e saranno trat-/ tate tutte le quistioni politiche/ sul regime Governativo che do/ vrà regolare la Sicilia./ Palermo 25 Gennaio 1848/ LECCE/ Dalla Tipografia Agianese (Frontespizio).
cm 22 x 13,5 pp. 22.
Note: Sulla semplice copertina di colore marrone cartonata (con caduta in alto e in uno dei lati), all’interno di una cornice tipografica a moduli rettangolare vi è impressa anche la seguente iscrizione: AVVENIMENTI DELLA SICILIA, IL CITTADINO/ DI PALERMO/ DAL GIORNO 12 in poi/ LECCE/ Dalla Tipografia Agianese/ 1848. Preziosa e sconosciuta edizione della tipografia Agianese sugli avvenimenti, descritti minuziosamente e accaduti in Sicilia in quel fatidico anno 1848, allorquando il popolo di Palermo giorno 12 gennaio “insorse sostenendo coraggiosamente per otto giorni le cause della Patria Comune”. Gli avvenimenti sono descritti attraverso la “Trascrizione di tutti gli atti che si sono pubblicati del comitato direttorio”: “…La rivolta è scoppiata, e il popolo la sostiene con entusiasmo e con fermezza, è vero che ancora non si è compita interamente, ma il trionfo del popolo è oggi divenuta certezza”.
APPENDICE
Edizioni sconosciute da un Repertorio Bibliografico
Ritengo utile aggiungere in questa sede, alle 30 edizioni complessive schedate e provenienti dalla biblioteca privata di un amico bibliofilo, il seguente elenco di ulteriori edizioni ricavato dal Catalogo Bibliografico degli Scrittori Salentini di Amilcare Foscarini che, come dichiara egli stesso, “non narra la vita di alcuno scrittore, ma ne nota soltanto gli scritti di qualsiasi entità, messi a stampa”. La necessità di consultare approfonditamente questo autore che tratta degli Scrittori Salentini (testo assai raro e forse non tanto considerato pur essendo unico e prezioso nel suo genere), ha reso particolarmente fortunata questa ricerca poiché ne è conseguita l’individuazione di ben altre 20 sconosciute edizioni, di cui 12 (oltre alle “Lezioni elementari” del Morelli e all’opera di Pasquale Cecere sull’epidemia di Tifo pestilenziale) appartenenti alla tipografia Marino e ai torchi della tipografia Agianese. Da esse emergono soprattutto importanti e nuovi elementi sul periodo e sui protagonisti della loro attività tipografica oltre che sulla stessa produzione editoriale (opere ed autori).
1) Luigi Cantoro, Memoria per i coniugi Signori Luigi Cantaro e Luisa Gentile c. Raffaele De Matteis, Lecce 1862, Eredi Marino. In 8, pp. 107
2) Antonio Franza, Serie di fatti relativi alla vita di D. Giovanni Presta scritta da D. Lionardo Pranza Prevosto della Cattedrale di Gallipoli in segno di grata e sincera amicizia. In Lecce, nella pubblica Stamperia di Vincenzo Marino e fratelli, s. a., in 8.
3) Enrico Licci, Memoria in difesa di D. Costantino Margilio e D. Serafina Mazzotta di Squinzano c. D. Giovanni Bonerba e D. Antonia Cleopazzo di Squinzano. Lecce. Tip. Eredi Marino 1859. In 8, pp. 62.
4) Pasquale Manni, Della meteora apparsa la sera del 29 Novembre 1820. In Lecce, dai Torchi di Vincenzo Marino (s.a. e formato).
5) Giosuè Manzi, Ragguaglio del faustissimo avvenimento del Re Ferdinando IV (D. G.) nella città di Lecce, et indi dell’Augustissima nostra Sovrana Maria Carolina d’Austria, et de R. Principe Ereditario delle due Sicilie; dei gran preparativi fatti per riceverli, attenzioni usategli da essa fedelissima città, e particolarità occorse, in tempo della loro dimora, col gradimento manifestato dalle MM. LL. per sovrana degnazione. In Lecce 1797, nella pubblica Stamperia di Vincenzo Marino e fratelli (s.a.e ind. del formato).
6) Pasquale Marangio, Saggio storico della città di Lecce per Pasquale Marangio Sindaco della stessa. Lecce 1807 dai Torchi di Vincenzo Marino con le opportune facoltà, In 8, pp. 50.
7) Mario Micheli, Analisi chimica e medico-pratica di un’acqua minerale sulfurea in Provincia di Lecce esposta da Mario Micheli, di unita ad alcune riflessioni sull’istoria naturale dell’istessa provincia e dedicata a S. E. R. D. Nicola Caputo dei Marchesi di Cerveto. Lecce, nella Tip. Di Vincenzo Marino, 1824, pp. 94.
8) Oronzo Morelli, Divote novene da farsi in onore del Sacro Cuor di Maria Vergine Annunziata con in fine una Protesta amorosa e cordiale alla stessa Beatissima Vergine proposta dal Can. D. Oronzo Morelli di Lecce e dedicata alle religiosissime Vergini Badessa e Monache di S. Benedetto nel Real Monastero di S. Giovanni di Lecce. Lecce 1823, dai Torchi di Vincenzo Marino. In 8, pp. 20.
9) Oronzo Morelli, Divote preghiere da farsi nella Undena del glorioso S. Oronzo protettore della città di Lecce, che si celebra appiè del suo Altare con l’esposizione del SS. Sagramento (sic) composte nel 1796 dal Canonico Morelli per ordine dell’Ecc.mo e Rev.mo M.r Vescovo di Lecce D. Salvatore Spinelli a fine di promuovere la sua divozione. Lecce 1840, presso gli Eredi di Vincenzo Marino. In 8, pp. 12.
10) Diodato Rao, Memoria di un saggio chimico fatto su minerale creduto aurifero reperibile in territorio di Specchiapreti compilata dal Farmacista Diodato Rao da Miggiano. Lecce, pei Tipi Eredi Marino 1846 (senza ind. del formato).
11) Megaspe Sicionio [G. B. De Tomasi], Per la venuta in Brindisi di Sua Real Maestà Ferdinando II Re del Regno delle due Sicilie. Omaggio rispettoso di Magaspe Sicionio Pastore Arcade. Lecce 1833, presso gli Eredi di Vincenzo Marino con le dovute facoltà. In 8, pp. 14.
12) Gaetano Stella, Memoria sulla preferenza a darsi alla foglia del gelso delle Filippine per l’allevamento de’ bachi da seta nella Prov. Di Terra d’Otranto. Lecce 1839, presso gli eredi di Vincenzo Marino. In 4, pp. 12 non num.
13) Luigi Cepolla, Illustrazione degli emblemi mito-istorici seguiti da alcuni motti indicanti le prime tre epoche eroiche degli antichi popoli salentini figurati nella nuova Aguglia eretta fuori della Porta di Napoli in Lecce del Sig. L. C. Autore della formazione iconografica di tutta la storia antiquario-numismatica della Provincia Salentina, Lecce 1827, dalla Tip. Di Agianese. In 8, pag. 8.
14) Oronzo Coppola, Stabat mater letteralmente tradotto in versi dal canonico D. Oronzo Coppola e dedicato all’Eccellentissime Signore D. Giuseppa Della Ratta e D. Francesca Saraceno in occasione della di loro professione religiosa tra le Signore D. D. Monache di S. Chiara di Lecce con infine due Sonetti dell’istesso Canonico per la medesima occasione. In Lecce, nella Stamperia di Agianese. Con approvazione. S. a. in 16, pp. 12.
15) Paolo De Angelis, Istruzioni per la visita dello Stato Civile da eseguirsi dai Giudici di Circondarii nella fine di ogni quadrimestre a norma del Real Rescritto del 10 agosto 1846 nonché per quelle da effettuarsi dai medesimi Giudici negli uffizi dei Conciliatori e per quella da eseguirsi mensilmente nelle rispettive Cancellerie de’ medesimi a norma degli art. 920 e 921 del Regolamento per la disciplina delle Autorità giudiziarie del 15 Novembre 1828 coi corrispondenti modelli e tutte le disposizioni legislative, Decreti, Rescritti Ministeriali che vi hanno rapporto compilate per cura di Paolo De Angelis segretario presso la Procura Regia civile di Terra d’Otranto. In Lecce, dalla Tipografia Agianese, 1847, in 8, pp. num. 201.
16) Leonardo Antonio Forleo, L’arpa cristiana di Leonardo Antonio Forleo. In Lecce, dalla Tip. Di Agianese, 1839, in l6, pag. 111.
17) Pasquale Greco, Analisi chimica delle acque solforose di Santa Cesaria nella Provincia Salentina eseguita dai professori Raffaele Danese e Pasquale Greco Socio ordinario. (Nel Giornale di Economia rurale pubblicato dalla Società Economica di Terra d’Otranto. In Lecce dai tipi di Agianese, 1840. Vol. I, fasc. I, pag. 8-24).
18) Francesco Saverio Lala, Elogio del Marchese Giuseppe Palmieri in occasione della novella Casa Agraria della R. Società economica di Terra d’Otranto – Discorso di F. S. Lala. In Lecce, dai Tipi di Agianese 1844 (senza ind. del formato).
19) Antonio Macchia, Elogio funebre del cav. Brizio Elia Presidente del Tribunale di Lecce, recitato dall’avv. Antonio Macchia in occasione dell’Offiziatura mortuaria solennizzata a spese degli avvocati del Foro leccese nella Chiesa dell’Arciconfraternita della SS. Vergine Addolorata a 5 febbraio 1867 Lecce, Tip. Agianese e Capozza, strada Teatini. S. s. (ma 1867) in 4, pag. n. 15.
20) Giacinto Toma, Il disinganno Versi di Giacinto Toma tra gli Arcadi Timofilo, Europigliano, tra gli Aborigeni Ermolao Bitinio, dell’Accademia de’ Forti in Roma, degl’Intrepidi di Ferrara, degli Inestricati di Bologna, dei Dissuguali placidi di Recanati, dell’Adunanza del Sacro Numero e dell’Accademia degl’Informi di Ravenna. Lecce 1828, da Raffaele Bizzarro nella Tipografia Agianese. Con approvazione. In 8, pag. 8 non num.
In Rassegna Storica del Mezzogiorno 5/2021, organo della “Società Storica di Terra d’Otranto”, pp. 307-346
Riferimenti Bibliografici essenziali
l) G. Arditi, La corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’Otranto, Lecce, Stabilimento Tipografico Scipione Ammirato, 1879.
2) N. Bernardini, L’introduzione della stampa a Lecce, in “Rivista Storica Salentina”, VII, 1911-2, 6-7, pp. 141-64.
3) Idem, Giornali e Giornalisti leccesi, Lecce, Editori Luigi Lazzaretti e figli, 1886.
4) Biografia de gli uomini illustri salentini, Lecce, Ed. del Grifo, 1990, con presentazione di Alessandro Laporta.
5) C. Bozzi, I primi martiri di Lecce, Giusto, Orontio, e Fortunato, in Lecce, appresso Pietro Micheli, 1672.
6) F. Casotti – S. Castromediano – L. De Simone – L. Maggiulli, Dizionario Biografìco degli uomini illustri di Terra d’Otranto, Prefazioni di G. Donno, D. Valli, E. Bonea, A. Laporta, a cura di Gianni Donno, Alessandra Antonucci, Loredana Pellè, Manduria, Piero Lacaita Editore, 1999.
7) A. De Meo, La stampa e la diffusione del libro a Lecce e dintorni, dal Cinquecento alla metà dell’Ottocento, Lecce, Milella, 2006.
8) A. Foscarini, L’arte tipografica in Terra d’Otranto, in “Rivista storica Salentina”, VII, 1912, 8-9, pp. 193-235.
9) Idem, Saggio di un catalogo biografico degli scrittori salentini, Lecce, Premiato Stabilimento Lito-Tipografico Luigi Lazzaretti e figli, 1894.
10) Idem, Lequile. Pagine sparse di Storia cittadina, a cura di Michele Paone, Galatina, Congedo Editore 1976.
11) L. Giungato, Filippo Briganti, in “ANXANEWS”, 105, maggio-giugno 2020, pp. 12-14.
12) A. Laporta, Settecento tipografico leccese. (Note per la storia dell’arte della stampa a Lecce nel ‘700, in Momenti e figure di storia pugliese. Studi in memoria di Michele Viterbo (Peucezio), Vol. II, Galatina, Congedo Editore 1981.
13) Idem, Saggi di Storia del libro, Lecce, Ed. Grifo, 1994.
14) A. Laporta, Illuminismo salentino minore, Luigi Riccio, in Scritti di Storia pugliese in onore di F. Argentina, Galatina, Ed. Salentina, 1996, pp. 47-79.
15) P. Marti, Un arcade salentino. Francesco Bernardino Cicala, in “Fede”, III Lecce, 15 ottobre 1925, 14-15, pp. 191-93.
16) Idem, Origine e fortuna della cultura salentina, vol. II, Ferrara, Tip. Sociale, 1895.
17) F. Natali, Filippo Briganti pensatore solitario nel bicentenario della sua morte (1724-1804), in “ANXANEWS”, 10, Luglio 2004, pp. 5-7.
18) D. Palma, Tra Gallipoli e Castiglione d’Otranto: la patria, la famiglia e l’opera di Luigi Riccio, in “ANXANEWS”, 108, novembre-dicembre 2020, pp. 10-13.
19) M. Paone, Lecce città chiesa, Galatina, Congedo editore, 1974.
20) G. Petraglione, Appunti per la storia dell’arte della stampa in Terra d’Otranto, Bari, Laterza, 1911.
21) Idem, Ancora sull’introduzione della stampa in Lecce, in “Rivista Storica Salentina”, VII, 1912, 10-12, pp. 257-80.
22) E. Pindinelli, Sconosciute edizioni leccesi del Borgognone Pietro Micheli, in “Nuovi Orientamenti oggi”, 98, settembre-ottobre 1986, pp. 11-20.
23) Idem, Settecento tipografico leccese (19 schede per un repertorio delle edizioni, in “Nuovi Orientamenti oggi”, 98, settembre-ottobre 1986, pp. 9-18.
24) E. Pindinelli-M. Cazzato, Prefazione a: B. Ravenna, Memorie Istoriche della Città di Gallipoli (Ristampa anastatica), Alezio, Tip. Corsano, 2000, pp. (3)-(24).
25) L. Riccio, Descrizione istorica della città di Gallipoli, a cura di Alessandro Laporta (Introduzione), Lecce, 1996.
26) L. Riccio, Descrizione istorica della città di Gallipoli, a cura di Oronzo Cataldini, Cavallino 1977.
27) M. Sabato, C’è la cultura per te. A proposito della mostra documentaria sui quattro secoli di stampa nel Salento leccese, in “ANXANEWS”, 27, maggio-giugno 2007, pp. 9-11.
28) G. Scrimieri, Introduzione a Pietro Micheli tipografo del 1600, in “La Zagaglia”, XVI, 1974, pp. 63-4.
29) Idem, annali di Pietro Micheli tipografo in Puglia nel 1600, Galatina, Editrice Salentina, 1976.
30) P. Sisto, Il Torchio e le lettere, Bari, Progedit, 2016.
31) V. Vaglia, Stampatori e editori Bresciani e Benacensi nei secoli XVII e XVIII, Tipolito Fratelli Geraldi, Brescia 1984.
32) C. Villani, Scrittori ed artisti pugliesi antichi, moderni e contemporanei, Trani, V. Vecchi Tipografo editore, 1904.
33) https://fondazioneterradotranto.it/A.Polito, S. Oronzo protettore di Lecce e una sua “economica rappresentazione iconografica”.
34) https://digilander.libero.it//Giornali in Italia/I Giornali esistenti in Italia dal 1816 al 1860.
35) https://www.spazioapertosalento.it/ M. Cazzato-G. Spagnolo, I torchi, i caratteri, i fregi. Contributo alla storia della stampa leccese dalle origini al periodo postunitario.
di Fabio Cavallo
La graziosa parrocchiale di Salve, intitolata al patrono San Nicola Magno, custodisce al suo interno un “unicum” nel panorama organale italiano ed europeo: il preziosissimo organo “Olgiati – Mauro” del 1628.
Si tratta di uno strumento musicale di estrema importanza storica e musicale, principalmente per essere l’unico manufatto pervenutoci, ed ancora funzionante, dell’organaro comasco Giovanni Battista Olgiati(1); inoltre è frutto della collaborazione di due importanti scuole organare, lombarda e salentina, la prima, innovativa sul piano dei registri e della fonica, la seconda – rappresentata dal co-costruttore, Tomaso Mauro di Muro Leccese(2) – più legata alla tradizione napoletana con particolare cura alle decorazioni esteriori della cassa e della facciata. Con ogni probabilità l’Olgiati curò la parte “musicale” dello strumento (le canne), mentre il Mauro si occupò della parte lignea (cassa, tastiera, mantici…).

La costruzione
Fu l’arciprete di Salve, Don Francesco Maria Alamanni, a commissionare il grande strumento; non ci è dato di sapere come il parroco avesse contatti con l’organaro Olgiati. A tal proposito, fra la popolazione locale è noto l’aneddoto del galeone salpato dalla Liguria in direzione Alessandria d’Egitto, con a bordo il magnifico organo. Superato lo stretto di Messina e, navigando sotto costa, il veliero raggiunse le coste salentine per poi apprestarsi a prendere il largo da Santa Maria di Leuca verso l’Egitto. In prossimità di Torre Pali fu travolto da una forte tempesta che lo fece arenare sulle fatali secche di Ugento. I pescatori di Salve, in cerca di superstiti, trovarono nella stiva, dentro alcune casse di legno, le canne di stagno e di piombo, capendo subito che trattavasi di un organo. Decisero, così, di montarlo nella loro chiesa che ne era sprovvista(3).
Un’altra versione parla del vascello diretto a Sava, nel tarantino, ma a causa di un errore di lettura dei documenti, il nocchiere fece rotta verso le marine di Salve e lì consegnò le casse con le parti dell’organo.
Al di là delle leggende, è provato che l’organaro Olgiati, per un certo tempo, dimorasse nel nostro territorio, prova ne sia la frequenza del suo nome nei registri parrocchiali di Galatone in cui è annoverato padrino in diversi battesimi. In realtà, prima della costruzione dell’organo di Salve, l’Olgiati, nel 1624, ne aveva fabbricato un altro per la Matrice di Galatone, purtroppo andato distrutto(4). Non è peregrina l’ipotesi che l’organaro comasco avesse fabbricato i suoi strumenti qui nel Salento, avvalendosi dell’ausilio di altri artigiani (vedi il Mauro). La teoria della realizzazione degli strumenti a Como, nella sua terra natale, è da considerarsi definitivamente superata alla luce delle più aggiornate acquisizioni storico-documentarie.

Le caratteristiche tecniche
Sostanzialmente l’organo ‘Olgiati-Mauro’ – questo il nome ufficiale – ha mantenuto intatte le sue caratteristiche foniche e meccaniche. Pochi gli interventi manomissori nel corso dei secoli, ad eccezione dell’asportazione delle portelle di facciata, risalenti al 1630 e dipinte dall’artista Nicola Ricciardo di Lotaringia (l’attuale regione Lorena in Francia), andate purtroppo perdute, e la sostituzione, nel 1978, della tastiera e della pedaliera, ricostruite fedelmente secondo il modello secentesco.
L’elemento caratterizzante di tutto lo strumento è la tastiera, composta da 45 tasti(5) : i diatonici (quelli bianchi) in bosso e i cromatici (neri) in ebano.
Essa presenta contemporaneamente due peculiarità: l’ottava corta (o scavezza) e i tasti spezzati alle note Re#/Mib e Sol#/Lab. In passato, negli strumenti a tastiera (clavicembali e organi) i primi otto tasti, a partire da sinistra, erano utilizzati per ampliare la sezione della “basseria”(6). In sostanza, i tasti in questione non seguono la normale sequenzialità delle note (do, do#, re, re#…) ma producono solo suoni tonali (ad eccezione del semitono Sib) secondo questa disposizione:

Oggi questo sistema è praticamente in disuso nella fabbricazione di organi.
Altra caratteristica è la presenza di 5 tasti “spezzati” in corrispondenza della nota re#/mib e sol#/lab per ogni ottava. Perché tasti spezzati? Gli organi e i clavicembali del Seicento e del Settecento venivano accordati seguendo il temperamento “mesotonico”, concepito dall’italiano Pietro Aron (1489 – 1545). Questo sistema di accordatura prediligeva la perfetta intonazione degli intervalli di terza maggiore (do-mi / re/fa#…) a discapito degli altri che, in alcuni casi, come quelli di quinta, (do-sol / re la / sol#-mib), vengono percepiti dall’orecchio umano con “battimento”, cioè attraverso quel fenomeno acustico che fa percepire un suono con intensità che oscilla ciclicamente. Addirittura l’intervallo di quinta sol#-mib è così dissonante che viene chiamata “quinta del lupo”, risultando sgradevole come un ululato. Oggi, secondo la teoria musicale moderna, il sol# e il lab sono note identiche(7) in passato non era così: sol# e lab non erano la stessa nota, bensì due suoni leggermente diversi, ciascuno con la propria intonazione precisa. Per questo motivo i costruttori di organi sdoppiavano i tasti cromatici (neri), in modo che, durante le esecuzioni, l’armonia non venisse distorta a causa dei battimenti o dei suoni “ululanti”.

Da segnalare anche la presenza dell’accessorio dell’”usignolo”, anche detto “uccelliera” Trattasi di un simpatico meccanismo, composto da alcune piccole canne disposte rovesciate e immerse in una catinella d’acqua fino al livello delle canne stesse. L’aria emessa sulla superficie dell’acqua produce il caratteristico cinguettio degli usignoli. Questo “registro”, che non è collegato a tasti ma emette soltanto una sorta di pigolìo, era impiegato nelle esecuzioni musicali di carattere elegìaco o bucòlico. E’ un accessorio abbastanza frequente negli organi settecenteschi (ad es.: organo della bottega dei Kircher del 1788, Chiesa Madre Casarano).(8)
Di seguito, una tabella riassuntiva con l’indicazione dei registri e delle principali caratteristiche dello strumento:


Conclusioni
Dopo l’ultimo restauro curato dal grande maestro organista Luigi Celeghin (1931 – 2012) nel 1978, questo gioiello d’arte organara, tra i più antichi d’Italia e sicuramente il più antico di Puglia, ha visto avvicendarsi davanti alla sua tastiera, numerosi organisti, anche di fama internazionale(13).
Il festival organistico del Salento, nato quasi cinquant’anni fa, nella sua programmazione, non può fare a meno di dare spazio a questo favoloso strumento che, da quasi 400 anni, con la sua melodiosa voce, anima liturgie e concerti di musica sacra e profana.
Note
Bibliografia e sitografia
Domenico Morgante, “L’Organo ‘Olgiati-Mauro’ (1628) della Chiesa di San Nicola Magno in Salve (Lecce)”, in “Brundisii Res”, XII (1980), pp. 101-109.
Elsa Martinelli, Una singolare compresenza di scuole organarie nel seicentesco organo “Olgiati – Mauro”, in “Annu Novu, Salve Vecchiu”, n° 6, anno 1992, pp. 13-17.

di Rocco Severino De Micheli
Tra le figure che segnarono la vita politica ed economica del Salento a cavallo tra XIX e XX secolo, l’avvocato Pompeo Luigi Nuccio di Casarano occupa un posto di rilievo. Nato l’11 gennaio 1876 e morto prematuramente il 7 gennaio 1932, fu uomo politico, amministratore, giurista e soprattutto promotore instancabile delle Ferrovie Salentine, infrastruttura che contribuì in maniera decisiva a connettere territori altrimenti marginali e a favorire il progresso socio-economico del Basso Salento.
Dopo gli studi presso il Liceo Palmieri di Lecce e la laurea in giurisprudenza, intraprese la carriera forense nella sua città natale. Giovanissimo, tra il 1898 e il 1900, fu Vicepretore di Casarano, avviando così il suo impegno nella pubblica amministrazione. Nel 1900, appena ventiquattrenne, venne eletto sindaco di Casarano, carica che mantenne fino al 1904, distinguendosi per intraprendenza e capacità organizzativa.
Il 29 aprile 1901 sposò la nobildonna Celeste Arditi, marchesa di Castelvetere, dalla quale ebbe tre figli: Giuseppina, Giuseppe e Luigi.
Dal 1902 al 1910 fu consigliere provinciale di Lecce, ricoprendo dal 1902 al 1908 anche la carica di deputato ai Lavori Pubblici. In questo ruolo si batté con determinazione per lo sviluppo infrastrutturale del territorio, sostenendo in particolare la necessità di una moderna rete ferroviaria. La sua azione culminò il 18 giugno 1906, quando fu tra i firmatari della convenzione stipulata con il Ministero dei Lavori Pubblici per la costruzione della cosiddetta “Ferrovia del Capo”, articolata in cinque tronchi, tra i quali il collegamento Nardò–Casarano e Casarano–Ruggiano.
Nel settembre dello stesso anno si fece promotore, in Deputazione Provinciale, di un ordine del giorno per la valorizzazione del porto di Gallipoli, confermando una visione lungimirante di sviluppo integrato tra infrastrutture terrestri e marittime.

Direzione delle Ferrovie Salentine
Dal 1908 al 1913 ricoprì l’incarico di Direttore Generale della Società Anonima Ferrovie Salentine, subentrando a Ercole Antico. In questa veste contribuì alla realizzazione e gestione della rete ferroviaria che univa i principali centri del Capo di Leuca. Parallelamente fu consulente legale dell’Acquedotto Pugliese e, dal 1910, direttore di una società genovese costituita per costruire e gestire nuove linee ferroviarie e tranviarie nel territorio pugliese.
Durante il suo mandato inaugurò, il 10 ottobre 1911, la tratta Maglie–Tricase–Nardò, simbolo del progresso salentino. Il culmine del suo impegno giunse l’8 giugno 1919, con l’inaugurazione della linea Casarano–Gallipoli, una conquista resa possibile dal suo costante lavoro e dalla sua capacità di tessere rapporti politici e istituzionali.


L’uomo di cultura e mecenate
Oltre all’attività politica ed economica, Nuccio si distinse come collezionista d’arte e appassionato di musica. Nel 1916 contribuì all’iniziativa benefica dell’“Albero di Natale dei Soldati”, donando opere della sua collezione. Fu amico intimo del tenore leccese Tito Schipa, che festeggiò un importante acquisto immobiliare nella sua casa romana, trasformata in una vera pinacoteca.


Nel 1915, insieme a Oronzo Valentini, promosse la costituzione a Roma di un comitato per onorare la memoria del senatore Giuseppe Pisanelli con un busto marmoreo al Pincio, inaugurato nel 1932, pochi giorni dopo la sua morte.

Le vicende giudiziarie
La sua carriera fu segnata da un doloroso episodio: nel 1917 fu coinvolto, ingiustamente, nella torbida vicenda del faccendiere francese Paul-Marie Bolo, detto Bolo Pascià, agente al servizio della Germania. Le accuse, infondate, portarono a un processo in cui fu addirittura condannato dal tribunale di Ravenna a tre anni di reclusione (1920). Si trattò di una sentenza considerata “politica”, poi ribaltata: il 15 marzo 1921 la Corte d’Appello di Bologna lo assolse pienamente, riconoscendo l’assenza di reato.


Questa vicenda segnò profondamente il suo spirito, gettando ombre sulla sua figura pubblica e lasciando un segno nel suo percorso umano.
Gli ultimi anni e la morte
Minato dal dolore per la malattia incurabile del figlio Gino, che lo avrebbe seguito di lì a poco nella morte, Pompeo Nuccio si spense il 7 gennaio 1932 nella casa di famiglia in piazza San Giuseppe a Casarano, a soli 56 anni. La sua scomparsa destò sincero cordoglio, come testimoniato dal settimanale cattolico “L’Ordine”, che lo ricordò a un anno dalla morte.


Oggi la città di Casarano lo onora intitolandogli la piazzetta antistante la stazione ferroviaria, a simbolo dell’opera che più di ogni altra lo vide protagonista.

Un’eredità dimenticata
Pompeo Luigi Nuccio fu uomo di ampie vedute, capace di coniugare competenze giuridiche, sensibilità politica e passione per l’arte. La sua figura, oscurata dalle vicende giudiziarie e dal declino successivo delle ferrovie salentine, merita invece di essere riletta come quella di un costruttore di progresso, che spese energie e vita per emancipare il territorio dalla marginalità.
La parabola di Nuccio rappresenta un monito e una lezione: il futuro del Salento, come ieri, non può prescindere dalla lungimiranza e dall’impegno di uomini capaci di guardare oltre i confini locali, mettendo il bene comune al centro della loro azione.
di Marcello Gaballo
Alla fine del Settecento, il mare del Salento era un orizzonte di vita e di lavoro, ma anche un territorio sorvegliato e controllato. Per i pescatori che calavano le reti al largo di Porto Cesareo, di Torre Lapillo o tra le insenature di Punta Grossa, il ritorno a terra non significava soltanto vendere il pescato o portarlo alle famiglie: li attendeva l’esattore del dazio feudale, pronto a prelevare la sua parte.
Non era un’imposta statale, né una tassa comunale, ma un’antica prerogativa signorile: la sestaria, così chiamata dal latino sextarius, un’unità di misura che in questo contesto indicava la quota di circa un sesto del pescato spettante al feudatario. Poteva essere consegnata in natura, sotto forma di pesce fresco, o convertita in denaro secondo i prezzi del momento.
Il diritto di riscuotere la sestaria apparteneva ai duchi Acquaviva d’Aragona, signori di Nardò e della potente Casa di Conversano. Come per molte altre rendite feudali, non erano i funzionari ducali a battere la costa in attesa delle barche, ma privati cittadini che, a fronte di un pagamento fisso al signore, ottenevano l’appalto del dazio. Erano loro, i dazieri, a vigilare sugli approdi, a trattare con i pescatori, a segnare le partite incassate e a sobbarcarsi i rischi di annate povere o di concorrenza da scali esenti.
Nel 1782 e 1783 questo compito fu affidato a Saverio Gaballo, neritino, che in una dichiarazione ufficiale descrisse con chiarezza il proprio raggio d’azione: aveva riscosso la sestaria soltanto dalle barche che scaricavano il pesce lungo la costa di Porto Cesareo; mai, invece, da quelle che approdavano nel “lito di Cesaria” – l’area del porto che qui esisteva – né tantomeno da quelle dirette alla “Culimena”, ovvero Torre Colimena. Il motivo era semplice ma decisivo: il porto di Cesaria aveva un proprio esattore e Torre Colimena non faceva parte del feudo di Nardò. Superata quella linea invisibile, il potere ducale si arrestava.
Due anni dopo, nel 1784 e 1785, il nuovo appaltatore Tommaso Filograna confermò punto per punto la versione di Gaballo. Non si trattava di un dettaglio marginale, ma di una regola ferrea: nel sistema feudale tardo-settecentesco i confini costieri erano rispettati tanto quanto quelli di terra, perché una tassa pretesa oltre i limiti avrebbe significato conflitto con altri signori o, peggio, con la Regia Corte, che in alcune aree rivendicava diritti diretti sul demanio marittimo.
Il tratto costiero sottoposto alla sestaria si estendeva da Torre Castiglione a Torre Lapillo, comprendendo Padula Fede e Punta Prosciutto, zone di grande valore per la pesca e per la presenza di tonnare e reti fisse. Le acque erano ricche: sardelle in primavera, orate e spigole nelle stagioni miti, polpi e seppie in autunno. Non mancavano tonni di passo, che se presi e venduti al momento giusto fruttavano cifre considerevoli. Qui arrivavano non solo le barche dei pescatori neritini, ma anche quelle di Gallipoli e Taranto, richiamate dalla pescosità e dalla possibilità di sbarcare in porti naturali, riparati dai venti. Ma la legge feudale era chiara: chi approdava nei confini neritini pagava, chi attraccava fuori ne era esente.
In questo gioco di approdi e confini si intrecciavano strategie e abitudini. Alcuni pescatori preferivano rischiare la traversata verso scali esenti, come il tratto di Torre Colimena, per evitare di lasciare un sesto del pescato; altri, per convenienza o per tradizione, continuavano a sbarcare nei punti controllati dal daziere, sapendo di poter piazzare il pesce subito nei mercati di Nardò o nelle mani dei rivenditori locali.
Il sistema non era un’eccezione salentina: in molte zone costiere del Regno di Napoli esistevano gabelle simili. I marchesi di Galatone esercitavano i loro diritti nella cala di Sant’Isidoro; a Copertino si tassavano le barche nei pressi di Torre Scianuri (Squillace). Ma la sestaria neritina aveva il pregio – o il difetto, secondo i pescatori – di essere scrupolosamente regolata e rigidamente applicata.
Oggi, quelle stesse spiagge e quelle stesse acque sono mete di vacanze e turismo, ma due secoli e mezzo fa erano parte di un’economia di sopravvivenza in cui il mare non era libero, bensì sottoposto a diritti e doveri. Il dazio non era soltanto una fonte di reddito: era un segno di potere. Pagare la sestaria significava riconoscere, anche senza parole, che quel tratto di mare apparteneva al duca di Nardò, che ogni onda, ogni approdo, ogni rete tirata a riva era, in un certo senso, sotto il suo sguardo. Così, dietro la storia di una tassa sul pesce, si nasconde il ritratto di un mondo in cui il potere si misurava non solo in terre e masserie, ma anche nel silenzioso fruscio delle reti bagnate sulla sabbia.
Fonti principali:

“Il dialetto salentino nei suoi modi di dire” di Elio Ria: radici vive e patrimonio culturale in una voce del presente
di Irene Pisanello
Vivere il proprio territorio significa anche aver cura di proteggere tutto ciò che lo identifica. E il dialetto, definito da Pier Paolo Pasolini non soltanto come un mezzo di comunicazione, ma soprattutto come un mondo di sentimenti e di immagini, ne assume un ruolo predominante.
Dal greco dialegomai, ha già nell’etimologia quel senso di identità territoriale, di condivisione tra individui che risiedono in uno stesso territorio. Ancora oggi, seppur per qualche tempo abbia subito un momento di subordinazione alla Lingua Italiana, continua ad avere e a rafforzare il suo significato originario, caratterizzato dall’appartenenza ad una comunità ben precisa. Ne sono un valido esempio gli emigranti, chi lascia la propria terra natale: il senso di appartenenza al proprio territorio viene sottolineato dal parlare nel proprio dialetto, soprattutto tra i conterranei.
Il libro di Elio Ria , “ Il dialetto salentino nei suoi modi di dire”, riconduce ad un’originale scoperta del nostro dialetto. Si parte con pagine che trattano elementi fonetici e linguistici, per acquisire una corretta pronuncia della lingua e poter dar vita ad una naturale musicalità orale, per poi sfociare nella tradizione popolare, ricca di aneddoti, luoghi, personaggi, tematiche, che contribuiscono a mettere in rilievo la bellezza e la ricchezza del nostro patrimonio culturale.
Vari gli excursus linguistici, come quello sugli aggettivi, che sottolineano particolari caratteristiche d’animo, di atteggiamento o di carattere che la lingua nazionale non riuscirebbe bene ad esprimere. Quando si parla o si scrive in dialetto, si descrivono infatti concetti che in italiano non potrebbero essere affermati con la stessa intensità. Ecco perché molto spesso un termine dialettale non si può tradurre al cento per cento in Italiano: perderebbe di vigore, non avrebbe le adeguate sfumature, non raggiungerebbe lo stesso orizzonte di significati.
Profonde sono nel testo le considerazioni sulla realtà contemporanea, così diversa dal contesto in cui il dialetto è sempre vissuto. Balza subito la diversità tra i valori morali di un tempo, a cui ogni individuo si aggrappava e che manifestava, e quelli attuali, talvolta così sterili e scorretti. L’autore parla di saggezza semplice, quella necessaria anche oggi per poter condurre una vita sana dal punto di vista etico, basata sulla frugalità dei sentimenti, sulla celebre aurea mediocritas del poeta latino Orazio, che però cela ricchezza e meriti indescrivibili.
Nell’epoca della globalizzazione e della comunicazione digitale, il dialetto sembra talvolta relegato al passato, a un linguaggio folkloristico o familiare destinato a scomparire. Eppure, proprio oggi, il suo valore culturale e sociale appare più attuale che mai.
Elio Ria pone l’attenzione sulle giovani generazioni e il loro rapporto con il dialetto, cosa che appare sempre più fragile: spesso ridotto a poche espressioni o utilizzato in modo frammentario, perde la sua funzione di lingua viva e quotidiana. I ragazzi tendono a conoscerne solo alcuni tratti superficiali, trasformandolo in un repertorio di formule stereotipate che non restituiscono la ricchezza storica e culturale che esso custodisce. Così, ciò che un tempo era un veicolo autentico di identità e appartenenza, rischia di sopravvivere soltanto come citazione, priva della profondità che meriterebbe. A ciò si aggiunge la continua evoluzione, non sempre in positivo, degli slang e del gergo giovanile che, essendo privi di radici storiche, non fanno altro che imporsi sul dialetto, fino a deformarlo, cancellando progressivamente la memoria linguistica delle comunità locali.
La lettura di questo libro, pertanto, diffonde il concetto che il dialetto è un vero e proprio patrimonio immateriale, che custodisce memorie collettive, modi di pensare e di vivere e immagini del mondo. Ogni espressione dialettale porta con sé una visione della realtà, una sfumatura emotiva che restituisce autenticità alle relazioni.
Continuare a parlare il dialetto equivale a tenere vive le proprie radici, mentre si guarda al futuro. Ecco perché va difeso e valorizzato. E’ questa una delle finalità più significative del libro di Elio Ria.
Occorre allontanarsi dall’omologazione: il dialetto ci ricorda che la diversità è una ricchezza, un patrimonio di voci che, intrecciandosi, danno senso e profondità alla nostra identità collettiva.

Il Chelydros e il Chersydros. Il serpente gigante della tradizione. La Sacàra, la Biddina, la Colovia, vol. I di Sandro D’Alessandro (Edizioni Esperidi, 282 pp., €28, ISBN 978-88-5534-207-0, agosto 2025)
Con questo primo volume, Sandro D’Alessandro inaugura un’opera imponente dedicata a una delle figure più affascinanti e perturbanti dell’immaginario umano: il serpente gigante. Partendo dal Chelydros e dal Chersydros della tradizione greca – mostruosi rettili acquatici e terrestri capaci di seminare terrore e distruzione – l’autore conduce il lettore in un viaggio che intreccia mito, folklore, religione e scienza.
Il serpente, creatura ambivalente per eccellenza, attraversa culture e secoli, oscillando tra divinità benefica e simbolo di male. D’Alessandro ne segue le metamorfosi: dal dio piumato Quetzalcoatl delle civiltà mesoamericane al serpente tentatore della Genesi, fino alle credenze popolari italiane, in cui il rettile assume forme locali e nomi evocativi – la Sacàra, la Biddina, la Colovia. Ogni tradizione custodisce un tassello di un mosaico più ampio, in cui zoologia, antropologia e storia delle religioni si fondono in un’unica, affascinante narrazione.
L’autore riesce a rendere accessibile un tema complesso, alternando un ricco apparato documentario a uno stile scorrevole che accompagna il lettore senza mai appesantirlo. Ne risulta un libro che può interessare tanto gli specialisti di tradizioni popolari e di mitologia quanto i curiosi che desiderano scoprire come un animale reale – il serpente – abbia generato, attraverso paure e simbolismi, figure fantastiche e leggende senza tempo.
Il Chelydros e il Chersydros non è dunque soltanto un catalogo di credenze popolari, ma una riflessione sulle radici profonde dell’immaginario collettivo, su come le culture abbiano tentato di spiegare e addomesticare il mistero del mondo naturale trasformandolo in racconto. Un’opera che apre un percorso di ricerca ampio e promettente, destinato a svilupparsi nei volumi successivi.
L’autore. Sandro D’Alessandro (Cavallino 1964), dottore forestale, è un appassionato cultore dell’ambiente naturale nei suoi molteplici aspetti e nelle sue complesse interrelazioni. Libero ricercatore, è autore di numerose pubblicazioni scientifiche afferenti a diverse tematiche e discipline, come: “Variazioni biochimiche in piante di Abete bianco soggette a piogge acide simulate” (estratto della tesi di laurea che fu pubblicato sul n° 48/1993 de “L’Italia Forestale e montana”). Tale lavoro di ricerca permise di accertare l’esistenza di uno scenario nuovo, ben più complesso del previsto, che emergeva dalle variegate risposte della componente vegetale alle modificazioni apportate da suddetto fenomeno. La sua ricerca in campo ambientale si è concretizzata in molteplici pubblicazioni aventi per oggetto elementi sia della flora che della fauna, locale e non solo, nelle loro caratteristiche e peculiarità. Si segnalano, tra gli altri, gli articoli “La Quercus suber a Brindisi – una presenza anomala, un’ecologia di confine”, “Oriundi d’oriente”, “La Testuggine terrestre salentina”, “Cause di instabilità nelle pinete costiere di Pino d’Aleppo”, tutti pubblicati sia in forma cartacea che online su Riviste tecnico-scientifiche del settore ambientale. Nel 2014 pubblica “Il mimetismo nel Geco comune” che descrive per la prima volta in assoluto tale caratteristica, prima di allora mai citata né tantomeno documentata, del piccolo animaletto pure così frequente e conosciuto. Tra i libri a sua firma, oltre ad apporti in volumi scritti in collaborazione con altri Autori, si citano “La Vallonea Quercia di Chaonia” (2002); “Il Serpente simboli miti etologia – dalla Sacàra con le corna al Malpolon in Terra d’Otranto” (2015); “Il Lupo e altri Lupi” (2019).
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