Antonio Caraccio di Nardò e le sue ecfrasi

di Armando Polito

Inutile arrovellarsi il cervello per tentare di ricordarsi in quali fatti di cronaca cittadina più o meno recente potrebbe essere rimasto coinvolto il personaggio nominato nel titolo. Basta considerare le date di nascita e di morte: Nardò, 1625-Roma 1713. D’altra parte nemmeno io sapevo granché su di lui prima di occuparmene…1

Di seguito quattro suoi ritratti (dov’è la differenza tra il primo e il secondo? Per scoprirlo e per saperne di più anche sugli altri, vai al link segnalato in nota 1.

Barone di Corano2, il Caraccio fu uno dei letterati più famosi del suo tempo. Bisognerà, dunque, fare un salto di parecchi secoli, complici anche le sue ècfrasi3, termine tecnico con cui i retori greci etichettavano la descrizione o la celebrazione poetica di luoghi o di opere d’arte, fatte con stile elaborato in modo da gareggiare in efficacia espressiva con l’oggetto stesso.

Le tre ecfrasi sono in Poesie liriche, che il neretino pubblicò per i tipi di Tinassi a Roma nel 1689.

Le riproduco dal volume in formato immagine con la mia trascrizione (con adattamento moderno della grafia e della punteggiatura) e le note esplicative.

1) p. 134

Per la Diana, pittura del Sig. Carlo Maratta

Poi che l’emula imago al fin compitaa

Maratta offrì de la silvestre Divab,

e si vedea dipinta nò, ma viva

la tela che il pennello hà colorita,

coleic che de la fraled, humana vita

gli stamie avvolge e lor filando avvivaf,

gittò le roccheg,e dispettosa e schiva

per tutto il ciel fu querelarsi h udita.

-Deh, Giove, deh! De l’animar si cessi

più le lane quassùi: scorger tu dei

ch’anima han colà giuso i lini istessi l -.

Giove rispose sorridendo à lei:

– Cessi il timor, ch’à far le vite elessim

sol per gli huominin voi, luio per gli Dei -.

_____________

a compiuta

b Diana, dea delle selve

c Cloto. Era una delle tre Parche.  A lei spettava filare il filo simboleggiante la vita, Lachesi ne stabiliva la lunghezza e Atropo lo tagliava al momento giusto.

d fragile

e i fili

f dà la vita

g la conocchia; l’uso del plurale fa quasi capire che rinunziava al suo compito anche per il futuro. 

h lamentarsi

i si smetta per sempre quassù di dare la vita ai fili di lana

l tu devi vedere che anima hanno laggiù gli stessi lini

m scelsi, destinai

n huomini per uomini è una sorta di latinismo grafico (da homines).

o il Maratta

 

Il sonetto, dunque, celebra un quadro del Maratta avente come soggetto Diana. Nessun suo dettaglio trapela dalla poesia, se non quello, abbastanza generico, del realismo. Oltretutto la dea cacciatrice fu uno dei soggetti cari al nostro pittore (anche se certamente meno della Vergine, che gli valse l’appellativo di Carlo delle Madonne), come risulta dalle testimonianze che seguono.

Nell’Elogio di Carlo Maratti  inserito in Serie degli uomini più illustri in pittura, scultura, e architettura con i loro elogi e ritratti, Allegrini, Pisoni e C., Firenze, 1775, tomo XI, p. 157 si legge: Per il nipote poi d’Innocenzio D. Livio Odescalchi, oltre un Quadro con le due stagioni, Estate ed Autunno, poco diverse da altre due, che furono mandate in Spagna, figurò in un gran paese di boscaglia fatto da Crescenzio Onofri, una Diana, che difesa da una nuvola dà il segno della caccia, parlando ad una Ninfa, che si allaccia i coturni, mentre altre s’incamminano a rintracciar co’ cani le fiere.

Nella biografia che di Carlo scrisse Giovanni Pietro Bellori4 a p. 221 si legge:

Pel gran Contestabile Colonna D. Lorenzo dipinse le favole di Atteone e Diana in un bellissimo paese, di Gasparo in doppia altezza, e figure minori del naturale. Finse la Dea in piedi, che addita il giovine cacciatore, il quale mal cauto in rimirarla si trasmuta in Cervio spuntando le corna dalla fronte. Altre delle Ninfe si essercitano a nuoto, altre si ascondono, e si ricuoprono il seno, e le membra ignude, l’antro opaco, e selvaggio, ove soggiorna la Dea, è tutto ameno d’alberi, e d’acque cadenti, che stagnano in un lago. Oggi sì raro dipinto si trova appresso il Marchese Nicolò Maria Pallavicino, con gli altri, che qui andremo seguitando. Uno scherzo di Diana, e questo è compreso in una figura sola della Dea sedente in un bosco, e ad una fonte, ive si bagna le piante. Ma quasi di vicino senta strepito, o moto d’alcuno, che sopraggiunga, travolge la faccia, e s’inclina ascondendo con una mano il seno, ed aprendo l’altra per ripararsi, nel quale atto con raro effetto l’ignudo di questa figura soavemente si abbaglia all’ombra di un tronco, da cui pende sospeso l’arco, e la faretra, restando illuminata la spalla, il crine, e la fronte esposta al giorno.

Ipotizzo che il soggetto dell’ecfrasi sia proprio l’ultima Diana descritta nelle testimonianze appena riportate,  in virtù della sua esclusiva presenza che corrisponde perfettamente all’emula imago, che sarebbe stata meno emula se fossero state presenti altre figure, sia pure in secondo piano. Di seguito Diana al bagno che riproduco da http://catalogo.fondazionezeri.unibo.it/entry/work/52020/Maratta%20Carlo%2C%20Diana%20al%20bagno, indirizzo a cui rinvio per la relativa scheda.

Al di là del problema identificativo , però, questa ecfrasi ha una motivazione profonda, potrebbe essere quasi un gesto di gratitudine nei confronti del Maratta, per spiegare il quale debbo mostrare il frontespizio di un’altra opera del Caraccio e, quel che più qui interessa, l’antiporta.

In basso a sinistra si legge Carol(us) Marat(ta) Invenit, che, tradotto alla lettera, è Carlo Maratta escogitò. Invenit nelle tavole si alterna a delineavit (disegnò), per cui il Maratta fu il disegnatore. In basso a destra si legge Petr(us) Sanct(e) Bartol(i) sculp(sit), cioè  Pietro Sante Bartoli incise. Se quest’ultimo (Perugia, 1635-Roma, 1700) fu anche antiquario del Pontefice e della Regina Cristina di Svezia, il Maratta (Camerano, 1625- Roma, 1713) era considerato come il maggior pittore del suo tempo (di seguito due suoi ritratti, il primo a corredo della citata biografia del Bellori, il secondo dal citato volume del 1775).

Il Caraccio, dunque, aveva fatto ricorso sul piano editoriale (e le tavole fuori testo avevano allora un’importanza forse paragonabile a quella che oggi ha l’immagine, comunque erano un dettaglio irrinunciabile per un’edizione di pregio) a due autentici fuoriclasse. Il lettore deve sapere che nel 1690 era stata fondata a Roma da Giovanni Mario Crescimbeni l’accademia dell’Arcadia, sulla quale il lettore troverà le informazioni essenziali in https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/.  Qui basta ricordare che gli interessi dell’accademia erano letterari, ma ad essa aderirono anche letterati non in senso stretto, non esclusi i pittori. Perciò, se non desta meraviglia che pastore (così si chiamavano i soci dell’accademia) fosse il Caraccio col nome pastorale di Lacone Cromizio, non appare nemmeno strano che vi facesse parte pure il Maratta col nome pastorale di Disfilo Coriteo5.

Non ho elementi per ipotizzare che l’ecfrasi appena presentata fosse il frutto di uno sconto fruito sul costo della tavola, ragion per cui posso solo far riferimento ad una riconoscenza tutta intellettuale basata sulla stima reciproca e sulla frequentazione degli stessi ambienti culturali. Non mi rimane che sottolineare la felice invenzione del poeta, per cui, oltretutto, la risposta di Giove sembra contenere un riferimento al tema religioso, particolarmente caro al Maratta (anche se nemmeno la ritrattistica è da trascurare) e sancire una sorta di convivenza, più che di sincretismo, tra la religione pagana e quella cristiana, così ricorrente nella produzione dell’Arcadia.

2) p. 159

Mentre terra che ‘la copre, urnab che ‘la furac

del buon Natal (dico il mortal) ci ha privod,

in bei color qui effigiato al vivo

Arte ce ‘l rende ove il rapì Naturae.

E mentre stassif in ciel candida e pura

l’almag di lui, ch’ivi è beato e divoh,

gran simulacroi del suo spirtol vivo

la memoria di lui nel mondo duram.

Così tra sè come s’ei viva e come

qui segga e parli il mio pensier l’adombran

tra vera fama e simulateo chiome.

Né, morto, inver da questa vita ei sgombrap,

ché, se qui l’ombra sua resta e ‘l suo nome,

altro il viver non è che un nome e un’ombra.

______________

a lo

b tomba

c ruba, sottrae alla vista

d privato

e l’arte ci restituisce quello che la natura ci ha tolto

f se ne sta

g anima

h divino

i immagine

l spirito

m continua, sopravvive

n immagina

o rappresentate artisticamente, dipinte

p esce, va via

Se nel caso precedente il soggetto dipinto era tratto dal mito, qui, invece, il ritratto è quello di un personaggio in carne ed ossa (più che in carne, in ossa …), cioè Natale Rondanini (1628-1657), che fu segretario dei principi (sovrintendente ai rapporti epistolari con i principi) di papa Alessandro VII e uno dei membri di spicco dell’Accademia degli Umoristi, che era stata fondata a Roma il 27 marzo 1608 da Paolo Mancini e che rimase attiva fino al 16706 .

Di seguito lo stemma dell’Accademia tratto da Girolamo Aleandro, Sopra l’impresa degli Accademici Humoristi, Mascardi, Roma, 1611.

Nella cornice centrale una nube, da cui cade abbondante pioggia, e il motto REDIT AGMINE DULCI tratto da un passo di Lucrezio7.

 Se per l’ecfrasi precedente ho potuto avanzare un’ipotetica individuazione del dipinto, per questa posso solo fare le riflessioni che seguono. L’in bei color del terzo verso fa pensare inequivocabilmente ad un dipinto, per cui il che ne alzò l’accademia degli Humoristi dell’intestazione dovrebbe essere interpretato come il quale (monsignore, soggetto) elevò per noi  l’accademia degli Humoristi  (complemento oggetto) e non come il quale (ritratto, complemento oggetto) elevò (eresse) per lui l’accademia degli Humoristi (soggetto), anche se quest’ultima interpretazione, soprattutto per via di alzò potrebbe trovare riscontro nel monumento funebre al Rondanini, attribuito a Domenico Guidi (1625/ 1701), che si trova nella navata sinistra della chiesa di S. Maria del Popolo a Roma (di seguito nell’immagine tratta da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/7/74/Natale_Rondinini_tomb.JPG).

D(EO) O(PTIMO) M(AXIMO)

NATALI RONDININO ROMANO/ALEXANDRI FIL(IO) PAULI AEMILII CARD(INALIS) FR(ATRI)/PIETATE INGENIO ERUDITIONE/ROMANAE IUVENTUTIS FACILE PRINCIPI/QUI XXVII ANNUM AGENS/AB ALEXANDRO VII P(ONTEFICE) M(AXIMO)/PRAEFECTUS EPISTOLIS AD PRINCIPES/OPERAM SUAM PONT(IFICI) SAPIENTISSIMO ITA PROBAVIT/UT MOX AB EO CANONICATU VAT(ICANAE) BASIL(ICAE) AUCTUS FUERIT/NOVA IN DOMESTICAS IMAGINES DECORA ILLATURUS/NISI MAIORA IN DIES DE SE POLLICENTEM/REPENTINA VIS MORBI IN IPSO ROBORE AETATIS/REIP(UBLICAE) ERIPUISSET/FELIX ZACCHIA FILIO DULCISS(IMO)/CONTRA VOTUM SUPERSTES P(OSUIT)/OBIIT ANNO D(OMINI) MDCLVII AETATIS SUAE XXX

(A Dio Ottimo Massimo. A Natale Rondanini di Roma, figlio di Alessandro, fratello del cardinale Paolo Emilio, senza dubbio primo della gioventù romana per religiosità, ingegno, erudizione, che a ventisette anni, nominato prefetto alle lettere ai principi dal pontefice massimo Alessandro VII, rese tanto accetta al sapientissimo pontefice la propria opera che subito da lui fu insignito del canonicato della basilica vaticana, destinato a portare nuovo decoro alle immagini di famiglia, se la violenza della malattia8 non avesse sottratto allo stato proprio nel fiore dell’età lui che di sé prometteva cose più grandi di giorno in giorno, Felice Zacchia9 , sopravvissuta contro il desiderio, pose al figlio dolcissimo. Morì nell’anno del Signore 1657 a trent’anni)

Felice Zacchia, madre di Natale, non aveva certo bisogno di qualsiasi aiuto, tanto meno di quello economico, per erigere il monumento al figlio, per cui escluderei senz’altro qualsiasi riferimento dell’ecfrasi ad esso. Si tratterebbe, insomma, di un ritratto di anonimo (a differenza delle opere nominate nella prima e, come vedremo, nell’ultima ecfrasi) e questo rende ancor più problematica l’identificazione.

3) p. 189

Santa Caterina martire. Pittura del Signor Daniel Saiter

Vergine io veggioa, anzi beata, e divab,

al fier supplicioc di gran rota avintad,

che, da la man di Daniel dipinta,

dipinta, no, non già di senso è privae.

La turba de’ ministri horrida e schiva,

vera ella ancor più che insensata e finta,

resta non so se dall’incendio vinta

o da stupor d’imaginarla viva.

Mentre io rimiro opre sì grandi e nove,

attendo d’hor’ in hor ch’entro il suo velo

ella s’accogliaf, e volga i passi altrove.

Ma colma il sen d’inalterabil zelo,

se pur man non ritira o piè non move,

v’è che col cor tutta è rapita in cielo.

______________

a vedo

b divina

c supplizio

d avvinta, sottoposta

e non ha ancora perso i sensi

f si ricomponga

A differenza delle ecfrasi precedenti qui i dettagli non mancano, anche se appaiono piuttosto scontati per l’iconografia della santa e, in particolare, del suo martirio. Daniele Saiter (1642 o 1647-1705), pittore austriaco, che dopo un apprendistato a Venezia, si spostò a Roma dove lavorò presso la bottega di Carlo Maratta. Questo dettaglio è più che una coincidenza se si pensa che esso potrebbe giocare a favore dell’agevole identificazione del dipinto in questione con il Martirio di S. Caterina (di seguito nell’immagine tratta da https://commons.wikimedia.org/wiki/Category:Daniel_Seyter?uselang=it#/media/File:SMP_Cap_Cibo_Martirium_der_Hl_Caterina.jpg) che, insieme col Martirio di S. Lorenzo, il Saiter dipinse nella chiesa di S. Maria del Popolo a Roma, nella Cappella Cybo nella navata destra.

Ricordo, per completare il quadro,  che la pala d’altare di questa cappella con l’Immacolata Concezione e i santi Giovanni Evangelista, Gregorio, Giovanni Crisostomo e Agostino è opera di Carlo Maratta.

_______

1 Vedi Armando Polito, Antonio Caraccio, l’Arcade di Nardò, in Nardò e i suoi: studi in memoria di Totò Bonuso (a cura di Marcello Gaballo), Fondazione Terra d’Otranto, 2015, pp. 41-66 e, su questo blog,  https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/06/antonio-caraccio-nardo-1630-roma-1702-note-iconografiche/. Avverto che, sempre su questo blog, a lui sarà dedicata la prossima puntata, la settima, della serie Gli Arcadi di Terra d’Otranto.

2 Antico feudo nel territorio di Nardò.

3 Dal greco ἔκϕρασις (leggi ècfrasis), che significa descrizione.

4 In Ritratti di alcuni celebri pittori del secolo XVII disegnati ed intagliati in rame dal Cavaliere Ottavio Lioni, con le vite de’ medesimi  tratte da vari autori, Antonio de’ Rossi, Roma, 1731, pp. 146-251.

5 Il primo vi era entrato il 2 maggio 1691, il secondo il 2 maggio 1704. Anche la figlia di Carlo, Faustina, entrò nell’Arcadia contemporaneamente al padre col nome pastorale di Aglaura Cidonia. Sposò il poeta Giambattista Felice Zappi, pure lui socio dell’Arcadia col nome pastorale di Tirsi Leucasio dal 5 ottobre 1690.

6 Suoi componimenti in latino sono in Carmina illustrium poetarum italorum, Tartino & Franchio, Firenze, 1721, v. 8 pp. 87-96.

7 De rerum natura, VI, 631-638: Postremo quoniam raro cum corpore tellus/est et coniunctast oras maris undique cingens,/debet, ut in mare de terris venit umor aquai,/in terras itidem manare ex aequore salso;/percolatur enim virus retroque remanat/materies umoris et ad caput amnibus omnis/confluit, inde super terras redit agmine dulci/qua via secta semel liquido pede detulit undas. (Infine, poiché la terra è con corpo poroso e cingendo da ogni parte le distese del mare è congiunta con esso, l’umidità dell’acqua, come defluisce nel mare dalla terra, così deve diffondersi nella terra dal mare salato; viene filtrata infatti la salsedine, e la sostanza dell’umidità  rifluisce indietro e confluisce tutta per i fiumi alla loro sorgente e da lì ritorna con dolce corrente sulle terre, per dove ove la via una volta aperta fa scendere le onde con liquido piede)

8 Probabilmente si trattò di febbre terzana o malaria, stando ai sintomi descritti in Sforza Pallavicino, Della vita di Alessandro VII, Giachetti, Prato, 1840, v. II, p. 170.

9 La madre di Natale; suo marito Alessandro era morto nel 1639.

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