BRANDICI. La più antica e rara mappa di Brindisi che Brindisi non conosce. Gli aspetti topografici della carta

di Vito Ruggiero

 

GLI ASPETTI TOPOGRAFICI DELLA CARTA

Ora che la carta storica di Brindisi dal titolo Brandici non è più così sconosciuta alla città, ho il piacere di riportare alcune ulteriori considerazioni sull’opera, in gran parte già evidenziate nel libro che le ho dedicato.

Ritengo di aver raggiungo il principale obiettivo di divulgare l’esistenza dell’opera e ora mi auspico che questa possa stimolare gli appassionati di storia della città a fornire il loro contributo, in particolare sugli elementi topografici in essa riportati che necessariamente vanno collegati alla storia della città.

Rivediamo prima l’opera nell’immagine sotto.

Innanzitutto vorrei soffermarmi su un punto che ho affrontato nel mio libro in merito al fatto di aver definito l’opera come “la mappa più antica della città”. Avendo approfondito molto la cartografia esistente in merito a Brindisi, non poteva certo sfuggire nel mio studio il portolano turco di Piri Reis. La vediamo nell’immagine sotto.

Nel mio libro parto dalla considerazione che la prima opera in assoluto a rappresentare il porto di Brindisi, riferito al tempo in cui veniva disegnato, è il portolano turco Kitab-i Bahriye di Piri Reis. Si tratta del portolano manoscritto a cura del cartografo, capitano e ammiraglio Piri Reis al servizio del Gran Sultano ottomano, che contiene al tempo stesso una documentazione scritta e figurata, un documento fondamentale nella storia della cartografia nautica mediterranea, ritenuto il primo vero documento marittimo a descrivere l’insieme delle coste, dei porti e delle isole con tanti dettagli. Queste rappresentazioni ad opera di Piri Reis, non sono opere a stampa e, a mio parere, non possono essere ritenute delle cartografie, topografie o vedute della città, essendo esclusivamente dei portolani manoscritti destinati ai marinai e non rappresentando alcun elemento topografico della città di Brindisi. Infatti il nucleo urbano di Brindisi nel portolano di Piri Reis appare più che altro come una semplice raffigurazione simbolica ed è assente qualunque elemento caratteristico della città. Anche le altre città dello stesso portolano sono rappresentate nello stesso simbolico modo.
L’opera Brandici invece è un documento cartografico a stampa che offre diversi dettagli del porto, della città e dei dintorni, con i relativi toponimi, ricco di elementi rappresentativi sebbene con tutti i meravigliosi ed affascinanti limiti realizzativi della cartografia italiana del XVI secolo. Si tratta dunque di due rappresentazioni molto diverse, per scopo, per veduta d’insieme e per tecnica realizzativa, distanti solo tredici anni una dall’altra.
Basta osservare che intorno al nucleo urbano di Brandici troviamo: le colonne romane, la cattedrale, la Porta Reale e la strada verso la marina, Porta Lecce, la cinta muraria come effettivamente era, il castello Svevo, l’Arsenale, Santa Maria del Casale. Tutto questo è assente nel portolano di Piri Reis che, come detto, ha tutt’altro scopo.
Per queste ragioni, a mio avviso, Brandici può essere considerata la prima vera “mappa” della città di Brindisi, intendendo l’accezione della parola “mappa” non come termine specialistico geografico ma bensì nel suo utilizzo comune, che ho voluto scegliere per il titolo del mio libro perché più immediato e comprensibile e quindi più adatto a destare l’interesse di un’ampia platea. Altri termini, come “documento cartografico”, “cartografia o topografia a stampa”, “veduta a volo d’uccello” etc., sebbene più appropriati per il tipo di opera, non ho ritenuto che fossero adatti per il titolo del libro, visto lo scopo di voler divulgare a tutti l’esistenza di questo prezioso documento della cartografia rara cinquecentesca di Brindisi.

Sebbene il portolano di Piri Reis rimane quindi la prima opera a rappresentare l’area intorno al porto di Brindisi, la tavola di Brandici è la più antica rappresentazione ad oggi conosciuta della città (oltre che del porto), con precisi elementi topografici, la sola in grado di darci una immagine cinquecentesca di Brindisi, una delle poche città italiane che possono vantare un documento cartografico a stampa così antico.

E questo è solo il primo di tre elementi stupefacenti di quest’opera.

Il secondo, è che l’esemplare in questione è unico. Non esistono altre copie al momento conosciute.

Il terzo, che la carta racconta e fa riferimento ad un avvenimento storico ben preciso che Brindisi ha vissuto nell’autunno del 1538.

Tralascio ora i dettagli che riguardano la fantastica storia, descritta nel libro, di come Brandici sia arrivata fino a noi. Coloro ai quali dobbiamo la sua introduzione nella bibliografia italiana, all’interno dell’opera di catalogazione monumentale Cartografia e topografia italiana del XVI secolo, edito da Edizioni Antiquarius nel 2018, sono due tra i più noti studiosi e massimi esperti internazionali di cartografia storica cinquecentesca italiana, Stefano Bifolco e Fabrizio Ronca, mentre oltre i confini nazionali è allo studioso ungherese Tibor Szathmáry  che dobbiamo riconoscere il suo vero e proprio ritrovamento nel 1987, e la sua prima pubblicazione nel 1992.

Tralascio anche gli aspetti storici, legati alla battaglia di Prevesa e ai successivi spostamenti dell’armata di Andrea Doria fino all’arrivo nel porto di Brindisi, anche questi ampiamente documentati e raccontati nel libro, così come tralascio gli aspetti legati al contesto storico della piccola raccolta di tavole cui faceva parte, all’editoria veneziana dl XVI secolo, al tipografo Francesco Tommaso di Salò, e alle caratteristiche tecniche delle stesse.  Sono tutti punti sviluppati nel libro.

Vorrei soffermarmi invece su quelle che sono state le mie prime considerazioni sugli aspetti topografici riportati sulla carta stessa. Non essendo io uno storico, mi sono limitato ad alcune semplici considerazioni che richiedono ulteriori verifiche da parte degli studiosi.

Ritengo infatti che conoscenze più approfondite siano necessarie per poter affrontare tutti i dettagli topografici riportati dall’opera e sono ben lieto di lasciare agli attuali studiosi locali l’approfondimento su quanto possa scaturire di nuovo sulla storia della nostra città grazie a quest’opera.

E’ questo lo scopo di questo articolo.

Vediamoli in successione, dal basso verso l’alto, i vari elementi della carta, dopo aver visto l’opera a pagina intera.

 

L’armata di Andrea Doria nel porto esterno – ARMA DE ANDREA DORIA

Sono rappresentate nove galee nella carta.

 

Non sono riuscito fino ad ora a trovare informazioni sulla effettiva composizione della flotta di Andrea Doria al momento del suo arrivo a Brindisi il 20 novembre 1538. Probabilmente erano molte di più visto che prima della battaglia di Prevesa era transitato a Corfù con 41 galee e 30 navi. Ovviamente quella sulla carta è solo una raffigurazione simbolica della sua armata.
Interessante notare i diversi simboli sulle bandiere a poppa, che spero qualche studioso possa meglio decifrare e spiegare. Quella in posizione più avanzata verso l’imboccatura del porto interno riporta abbastanza chiaramente, a mio avviso, lo stemma imperiale dell’imperatore Carlo V.

 

Le isole Pedagne – SCOI DE (F)VORA

 

Ritengo che quegli scogli indicati sommariamente, per la loro posizione, non possano che essere le isole Pedagne.

Tuttavia, qui le isole non vengono citate con il loro nome, che certamente era già in uso nel XVII secolo. A tal proposito, infatti, troviamo riscontro dell’utilizzo del termine “Pedagne” nella mappa di Blaeu (quella ben nota dal titolo errato Tarento) della fine del XVII secolo edita per la prima volta nel 1663 e poi nuovamente nel 1703 a cura di Mortier.

È molto probabile che anche in tutto il XVI secolo si chiamassero quei piccoli isolotti con il nome Pedagne, per quanto ho potuto dedurre dalla descrizione del porto di Brindisi nel portolano di Piri Reis, che intorno al 1518 riferiva: “non c’è porto più famoso di Brindisi. Infatti, davanti alla città c’è un bellissimo e grandissimo porto naturale che può dare asilo a trecento o quattrocento navi…Alla bocca del porto c’è un’isola rocciosa – l’isola di sant’Andre nella quale è stato costruito un piccolo castello fortificato da cannoni. Navi straniere non possono entrarvi: fra l’altro la bocca del porto è chiusa da catene. Ai due capi delle catene vi sono due grosse torri con cime alla sponda che danno a maestrale…Le grandi barche possono passare da questo stretto, essendo esso molto profondo verso la costa di nord ovest, distante mezzo miglio. Sulla riva dello stretto ci sono isolette che si chiamano Pedagne.” (Maria Sirago in “Il porto di Brindisi dal Medioevo all’Unità” cita A. Bausani, L’Italia nel Kitab-i Bahriye di Piri Reis, in Il Veltro, 1979, pp 173-175).

Probabilmente le isole Pedagne, il cui nome si attribuisce alla loro forma oppure al fatto che i fondali che le separano sono molto bassi e quindi possono essere guadati a piedi, erano così chiamate già all’inizio del XVI secolo o forse prima, ma non ho trovato riscontri e riferimenti più precisi. Di fatto nella tavola Brandici vengono citate con l’indicazione SCOI DE (F)VORA.

Su questo toponimo ho nutrito inizialmente diversi dubbi e il mio auspicio è che qualche studioso possa dare un utile contributo a spiegarne il significato in riferimento alle isole Pedagne.

La difficoltà nasce dal fatto che non ho certezza che ci sia la lettera “F” davanti alla parola “VORA”, e per questo la indico tra parentesi. Effettivamente sembra esserci un difetto di stampa nel carattere “F” stampato parzialmente, per cui il corretto toponimo sarebbe quindi SCOI DE FVORA – scogli di fuori- ad indicare propriamente gli isolotti più esterni, quelli che per primi si incontrano entrando nel porto di Brindisi. Questa è certamente la spiegazione più plausibile, forse l’unica realisticamente accettabile.

Non sono riuscito a trovare altre fonti che potessero confermare che nel Cinquecento le Pedagne potessero essere chiamate anche in quel modo, pertanto, se fosse effettivamente così, questa indicazione proveniente dal documento potrebbe essere una informazione particolare.

Inizialmente mi sono azzardato a fare anche un’altra interpretazione del tutto personale e fantasiosa, quasi certamente sbagliata, basata sull’ipotesi che non ci sia una “F” mancante e che sia effettivamente scritto SCOI DE VORA.

Descrivo brevemente questa assurda ipotesi solo per condividere con chi legge quanto ho appreso su un termine particolare che comunque esisteva su altre mappe dell’epoca, “VORA”, ma sono praticamente certo che quella corretta è la precedente.

VORA (buco) è un termine locale pugliese per indicare voragini o inghiottitoi dovuti all’erosione delle acque sui calcari o a sprofondamenti della volta di caverne. Tale toponimo era anche piuttosto diffuso nelle cartografie storiche locali.

A tal proposito vedasi la pubblicazione del 2 dicembre 2023 di Armando Polito sul sito www.fondazioneterradotranto.it dal titolo “Nardò: Vora, un toponimo perduto”. L’autore ci spiega come già nella cartografia degli inizi del XVII secolo, vedasi Terra di Otranto olim Salentina et Iapigia, di Giovanni Antonio Magini (1555-1617), si legge presso Nardò il termine VORA alla destra di un simbolo inequivocabile che corrisponde esattamente all’inghiottitoio oggi denominato Vora del Parlatano. Un nome comune diventato un preciso toponimo. Questo termine è ancora presente in altre carte del Salento di poco successive, come quelle di Blaeu o Valck.

Stabilito quindi che, anche nella cartografia di poco successiva alla nostra tavola, esisteva questo termine per indicare una voragine, da qui la mia ipotesi estremamente fantasiosa. Ho collegato il termine “VORA” al fatto che su una delle isole Pedagne, denominata La Chiesa, si trova la Grotta dell’Eremita, con affreschi che rappresentano la Natività e che ora sono in forte degrado. Un tempo vi erano anche un vano dormitorio ed una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana. L’insediamento era probabilmente utilizzato da un religioso che aveva deciso di condurre una vita solitaria ed era collegato con il monastero dell’Isola di Sant’Andrea, costruito nel basso medioevo.

Lascio agli appassionati ed esperti studiosi la verifica corretta del termine che indica le Pedagne nell’opera che stiamo osservando, ma resto fermamente convinto che sono indicate con il termine SCOI DE (F)VORA – scogli di fuori – ad indicare il gruppo di isolotti più esterni del nostro porto.

 

L’isola di Sant’Andrea – CASTEL-D-MAR e SCOIOGRANDO

 

Molto bella la rappresentazione del Castello di Mare, ovviamente il Castello Alfonsino. In questa rappresentazione lo vediamo in tutto il suo splendore.

Nel 1481 Ferdinando d’Aragona ordinò al figlio Alfonso, duca di Calabria, di costruire sull’isola di Sant’Andrea una fortezza in grado di difendere efficacemente porto e città. All’inizio fu solo una rocca, ma poi fu fatta ampliare con la costruzione di un antemurale con bastioni al torrione preesistente, con mura alte e molto spesse: alle due torri, cilindrica e quadrata, ne fu aggiunta un’altra poligonale così che il castello assunse una forma triangolare. Le torri e l’antemurale sono perfettamente rappresentati nella tavola Brandici.

L’autore indica la restante parte dell’Isola di Sant’Andrea con il nome SCOIOGRANDO, e trovo che anche questo sia un modo molto particolare, se non inedito, per indicare l’isola di Sant’Andrea. Nel 1538 non esisteva ancora il Forte a Mare, la cui costruzione fu avviata nel 1558 a cura di Filippo II d’Austria, figlio di Carlo V. Nella carta Brandici questo trova evidenza dal fatto che l’unica rappresentazione nell’isola di Sant’Andrea è appunto quella del solo Castello Alfonsino. Pertanto, con SCOIOGRANDO si indica tutta la restante parte, quella dove avvenne la successiva edificazione del Forte a Mare ed il cosiddetto Lazzaretto.

Il termine veneziano SCOIO – scoi de (f)vora, scoiogrando – indicato sulla carta, ma anche il toponimo Brandicio, davvero molto vicino alla nostra Brandici,  trovano ulteriore conferma in alcuni testi ritrovati quali ad esempio gli ordini impartiti ai difensori del castello a salvaguardia del porto di Brindisi, che ci racconta  Francesco Grassetto da Lonigo nel suo Viaggio di Francesco Grassetto la Lonigo lungo le coste dalmate , greco-venete ed italiche nell’anno MDXI e seguenti, Venezia, stabilimento tipografico Fratelli Visentini, 1886, pag. 41-2 nel quale ricorda del 1511: “Nel intrar deli scogli al porto de Brandicio, dal castello del scoglio fune trato uno pasavolante per proa, et rumpete remi et magagnò li provieri, brusò una gomena e fracasò banchi e baville; et questo ferno perché non salutamo con bonbarde avanti intrasemo.”

 

Santa Maria del Casale – S – MARIA DE CASAL

 

Sulla meravigliosa chiesa sorta presso Brindisi all’inizio del Trecento e definita come una delle più belle ed originali che nel suo stile abbia l’Italia Meridionale non mi soffermo a dare informazioni.

La tavola indica la chiesa di Santa Maria del Casale con estrema chiarezza nella sua corretta posizione ed evidenzia anche una sorta di fortificazione a proteggerla. Infatti, il luogo dove essa sorgeva era solitario ed ameno e gli arcivescovi di Brindisi vi costruirono la loro dimora estiva. Dal 1310 la chiesa e i locali annessi furono utilizzati come “cancelleria” del processo contro i Templari. Successivamente nel XVI secolo i Frati Minori Osservanti vi fondarono il convento.

 

Torre Cavallo – TORE DI CAVALI

Non sono tante le cartografie storiche della città di Brindisi che riportano la rappresentazione di Torre Cavallo contestualmente al suo toponimo. Nella maggior parte dei casi l’inquadratura delle carte non arriva infatti fino a Punta Cavallo.

La torre la ritroviamo certamente nelle tavole di inizio Cinquecento del portolano turco di Piri Reis, e molto più recentemente nella tavola di W. Heater, The port of Brindisi in the gulf of Venise del 1810.

Anche la mappa di Brandici, la più antica rappresentazione della nostra città, sembra rappresentare a prima vista la torre di Punta di Cavallo.

Al registro angioino risulta che nel 1275 un tale Pasquale Faccirosso, cittadino di Brindisi, morendo, lasciava con atto testamentario la cifra di 50 once d’oro perché nel luogo detto “Scoglio del Cavallo” fosse costruita una torre con faro “onde i naviganti potessero evitaregli infortuni navigando in quei paraggi”. La zona a sud di Brindisi, infatti, per via di secche e scogli era caratterizzata da frequenti naufragi. Le origini del toponimo “Lucaballus” risalgono infatti alla fine del XIII secolo, come documentato nella cancelleria angioina del 20 giugno 1277.

Al fine di terminare l’opera nel modo più veloce possibile, il re incaricò i brindisini Ruggero Ripa e Nicola Uggento. I lavori di costruzione furono supervisionati dai Templari, ma sfortunatamente la torre crollò subito dopo il suo compimento per venti, mareggiate e forse errori di progettazione. Dopo il crollo venne nuovamente ricostruita e terminata nel 1301 sotto il regno di Carlo II d’Angiò.

La torre crollò nuovamente e nel 1567 fu ricostruita sulla stessa base cilindrica di quella angioina, per volontà del viceré aragonese Perafan de Ribera nel suo grande progetto che prevedeva, oltre alla costruzione di nuove torri, anche la riqualifica di quelle già esistenti.

Mappa aragonese del XV secolo – particolare

 

Oggi la torre non esiste più. Impegnata per vari usi, l’ultimo documento sull’esistenza della torre è datato 1842. Probabilmente già diroccata e fatiscente, fu in seguito completamente demolita. Durante la Prima Guerra Mondiale fu costruita una batteria di artiglieria della Marina Militare, e sul sito, in piena zona industriale, si notano i ruderi. Ancora nel 1966, in base alle foto realizzate da Federico Briamo, si notavano alcuni resti della muratura basamentale della torre, attualmente non più esistenti.

Una prima osservazione che mi sento di fare sulla rappresentazione nella carta di Francesco Tommaso di Salò, della TORE DI CAVALI e sulla possibile identificazione della stessa con la Torre di Punta Cavallo è che le diverse descrizioni e ricostruzioni grafiche ottenute grazie ai documenti angioini (in ultimo la ricostruzione con stampante 3D di Francesco Iurlaro raccontata in un articolo de il7 Magazine del  4 marzo del 2022 di Giovanni Membola) mostrano la torre su base circolare mentre nella tavola di Brandici, diversamente da quelle del porto, anch’esse angioine, sembra avere base quadrata.

Una seconda osservazione scaturisce dalla lettura dell’interessantissimo articolo di Armando Polito “Brindisi e il suo porto in una carta del XVI secolo” pubblicato da fondazioneterradotranto.it il 15 febbraio 2017.

 

L’autore presenta alcuni dettagli di una copia settecentesca, inedita, di una mappa originale aragonese disegnata alla fine del XV secolo. La copia è custodita nella Biblioteca Nazionale di Francia. L’autore affronta e analizza tutti i numerosissimi toponimi presenti sulla carta.

Se ci soffermiamo sull’area intorno a Brindisi ed in particolare sulla zona a sud del porto osserviamo che sono indicate, con estrema precisione, due torri e non una. Quella più a sud è indicata come Torre del Cavalloccio, presso il luogo oggi denominato Punta di Torre Cavallo. Dalla sua posizione questa è senza dubbio la torre che a Brindisi è sempre stata identificata come Torre Cavallo, cioè quella sul sito oggi noto per le sfiammate della torcia dello stabilimento petrolchimico e dove, come detto, sono anche presenti i resti di una postazione della Prima Guerra Mondiale, che sorgevano sopra quelli della antica torre tante volte nominata a partire dai documenti angioini.

L’articolo di Armando Polito ci evidenzia che la denominazione e l’indicazione della Torre del Cavalloccio non è nuova e la ritroviamo su diverse altre carte successive a scala relativamente grande, come ad esempio quelle del Magini, Jonssonius, Bulifon, Hondius del XVII secolo, ed infine di Domenico De Rossi del 1714 che forse per primo la comincia a chiamare T. del Cavallo, come nota oggi anche se non più esistente da quasi duecento anni.

Ma allora la Torre del Cavallo rappresentata poco più a nord, a est di Fiume Grande, nella carta aragonese custodita nella biblioteca francese che torre è? È evidente che trattasi di una torre distinta per la sua posizione, che risulta assente in tutte le altre carte prima accennate ed utilizzate dall’autore dell’articolo ai fini comparativi.

L’autore dell’articolo ipotizza quindi che, data l’estrema precisione della carta aragonese, questa seconda torre sia esistita e scomparsa nell’arco di pochi decenni, in quanto già mancante nelle carte del XVII secolo.

Tutto questo per dire che, a mio avviso, la posizione di quella che sulla nostra opera è indicata come TORE DI CAVALI potrebbe anche coincidere con quella indicata come Torre del Cavallo della carta aragonese custodita in Francia, che abbiamo detto essere una copia di una carta della fine del XV secolo, quindi molto vicina temporalmente alla rappresentazione di Francesco Tommaso di Salò.

 

In effetti, essa non sembra così lontana da quelle che ipotizziamo essere le Pedagne ed osservando la linea di costa non sembra essere su una punta così pronunciata come certamente era quella dove sorgeva la Torre del Cavalloccio, ossia Punta di Torre Cavallo.

Anche uno dei noti portolani turchi del Cinquecento (a destra) riporta la Torre Cavallo non sulla Punta Cavallo ma più a nord in una zona lineare della costa e non su un capo, quasi di fronte alle Pedagne. A mio avviso la sua posizione poteva essere nei pressi di Capo Bianco, ma resta tutto molto ipotetico e da verificare.

Portolano turco XVI secolo – particolare

 

Questa delle due torri è una affascinante ipotesi che lascio approfondire eventualmente a chi ha tempo e strumenti per fare ulteriori indagini ma, se così fosse, la nostra carta sarebbe, insieme a quella studiata da Armando Polito e forse al portolano turco suddetto, l’unica di mia conoscenza a rappresentare questa torre vissuta così poco tempo dal nome Torre del Cavallo, ben distinta da quella del Cavalloccio che in seguito le “rubò” il nome.

E forse questa ipotesi spiegherebbe anche la sezione quadrata e non circolare come quasi certamente era quella della Torre del Cavalloccio collocata a Punta di Torre Cavallo, denominata in seguito Torre del Cavallo quando la prima era ormai scomparsa.

Ad ogni modo, certo è che quella indicata sull’opera che stiamo studiando non può che essere una di quelle due torri.

Spero di aver spronato qualcuno a dare un riscontro più oggettivo di queste mie avventate teorie, almeno per capire se questa ipotesi è plausibile, o se effettivamente la torre della nostra tavola è quella di Punta Cavallo.

 

Le torri angioine – LITORE DEL PORTO

Sull’esistenza delle torri angioine all’imboccatura del porto si è scritto molto e si trovano diverse informazioni e citazioni storiche, per cui non mi soffermo troppo.

Le due torri furono realizzate da Carlo II d’Angiò nel 1301 lungo le due sponde del canale.

 

La torre maggiore era posta sul lato di ponente, mentre quella di minore era sul lato opposto a levante e tra le due torri era collegata una catena di ferro.

La catena, denominata catena angioina, è ben visibile nell’opera che stiamo esaminando, così come è chiaramente indicata nelle antiche piante della città già conosciute, ad esempio quella del 1703 di G.B. Pacichelli o la successiva di Orlandi, o quella del 1663 di J. Blaeu.

Le due torri avevano degli ingranaggi che permettevano di tendere la catena e chiudere l’ingresso nel porto interno; la stessa veniva mollata in acqua quando una nave si apprestava ad accedere o ad uscire. Questo tipo di sistema a catene era utilizzato all’epoca per chiudere gli ingressi anche di altri porti, come quello di Trani.

Un simile metodo di difesa con il passare del tempo divenne anacronistico e le due torri subirono nei secoli successivi riadattamenti. All’inizio dei lavori sul canale del sig. Pigonati, siamo nel 1779, si attesta ancora l’esistenza della maggiore, risistemata ad alloggiare le guardie della finanza, mentre quella di levante è quasi completamente distrutta e ne rimangono pochi avanzi. Il famoso dipinto di Hackert, che ci offre una fantastica e dettagliatissima vista del porto nel 1789, riporta la stessa situazione 10 anni dopo. Attualmente la catena angioina è conservata all’interno del Castello Svevo.

Unica osservazione che mi sento di fare sulla rappresentazione delle torri angioine nell’opera di Francesco Tommaso di Salò, che a mio avviso meriterebbe ulteriori approfondimenti, è il fatto che sul lato di levante sono rappresentate due torri e non una sola, come invece compare nella maggior parte delle altre citate piante storiche o nelle tavole dei portolani turchi di Piri Reis, in assoluto i più antichi a rappresentarle.

A parte la torre destinata a ricevere uno dei due capi della catena, è infatti rappresentata una seconda torre un po più arretrata.

Esistevano quindi, agli inizi del Cinquecento, due torri sulla sponda di levante mentre a ponente ne avevamo una sola, la maggiore, come così chiaramente riportato nell’opera Brandici?

La presenza così evidente di due torri a levante è abbastanza particolare e differente da tante altre piante; tuttavia, bisogna osservare che esistono anche alcune rappresentazioni nelle cartografie che non evidenziano una sola torre in corrispondenza di ciascun lato, ma una serie di costruzioni.

È il caso del portolano pubblicato dal cosmografo Coronelli Specchio di mare nel 1686. Troviamo riportato a lato un particolare dell’immagine del porto presente sul portolano.

Coronelli 1686 – Specchio di mare – particolare

 

Brindisi è circondata dal suo sistema difensivo e dai due seni, con i dettagli della costa indicati nel porto esterno, oggi porto medio, quali l’isola Sant’Andrea e le Pedagne. Sono chiaramente indicati i bassi fondali causati dai depositi di terra in corrispondenza dell’imboccatura che quasi ostruiscono il canale di ingresso al porto interno, e le torri ai lati. Ebbene, si può chiarissimamente notare che anche qui le torri indicate sul lato di levante sono due e non una. Anche sul lato di ponente sembrano esserci altre costruzioni nei pressi della torre.

Un secondo portolano, questa volta quello ben più noto del Roux Recueil des principaiux plans, des ports, et rades de la Mediterranee del 1764 sembra mostrare sul lato di levante una seconda torre affianco al toponimo “Petit tour”.

Roux 1764 – particolare

 

Analogamente, la bellissima rappresentazione del nostro porto nella tavola del portolano di W. Heater, The port of Brindisi in the gulf of Venise del 1810, sicuramente molto ben dettagliata per l’epoca, mostra ancora una torre (Tower) sul lato di levante più arretrata all’interno rispetto al canale, probabilmente ormai ridotta a rudere o addirittura non più esistente, che certamente non poteva quindi essere quella che un tempo reggeva uno degli estremi della catena.

Heater 1810 – particolare

 

Sembra abbastanza evidente quindi che le due torri angioine ai lati dell’ingresso al porto erano state affiancate nel tempo da altre costruzioni e da un’altra torre sul lato di levante, anche se non è semplice ricostruire come fosse esattamente lo scenario ai lati del canale angioino nel 1538.

Che ci fossero altre edificazioni oltre alle due torri lo sostiene anche Ferrando Ascoli in La storia di Brindisi che a pag. 103, dopo aver descritto le due torri che reggevano la catena, dice “Oltre le torri, e probabilmente intorno a queste, il re Carlo dovè far costruire delle fortilizie di piccola mole; chè; il 6 di novembre del 1284, ordina al giustiziero di terra d’Otranto, Erberto d’Orleans, che da ora in avanti le torri del porto di Brindisi siano custodite da 10 inservienti.”

E ancora troviamo una conferma da una ulteriore mappa molto interessante, perché anch’essa non presente sulle pubblicazioni locali esaminate, ma disponibile in versione digitalizzata tramite il sito www.oldmapsonline.org di Gerard van Keulen dal titolo Porto Brundisi int groodt pubblicata in Olanda nel 1720 e messa a disposizione in forma digitale dalla Leiden University Library.

Porto Brundisi int groodt – 1720 Leiden University Library – particolare

 

Si tratta di una mappa suddivisa in 12 riquadri ciascuno rappresentante il piano di un porto di diverse città. Il nono di questi è quello di Brindisi e nella figura ho riportato il dettaglio del canale di ingresso del porto.  Si possono vedere chiaramente due torri sul lato di levante e altre fortificazioni a ponente. Anche questa mappa nel suo complesso richiederebbe uno studio approfondito, essendo certamente poco nota se non quasi sconosciuta.

Ulteriore riscontro della presenza di altre torri nei dintorni lo ritroviamo in una mappa del tutto inedita del 1630, anch’essa certamente del tutto sconosciuta alla città di Brindisi e a chi ha finora pubblicato cataloghi e articoli ed organizzato mostre sulla cartografia locale. In quest’opera sembrerebbero esserci addirittura tre torri sul lato di levante del canale, con diverse altre fortificazioni anche sul lato di ponente dell’imboccatura del canale.

Questa mappa l’ho ritrovata quando avevo praticamente concluso questo mio studio, è anch’essa di origine veneziana ed a mio avviso meriterebbe uno studio a sé perché di grande rilievo per la storia cartografica della città e perché mai comparsa nelle pubblicazioni locali. Maggiori dettagli e la sua inedita immagine sono forniti nella postfazione del mio libro.

Probabilmente esistono ulteriori descrizioni storiche specifiche che possono confermare la presenza di altre torri magari con più precisione in riferimento alla data del nostro documento, ma lascio anche questa verifica a chi eventualmente è interessato ad approfondire sulla storia di quella seconda torre a levante nel documento che stiamo descrivendo.

 

Il titolo in cartiglio – BRANDICI

È molto interessante e forse inedito, almeno nella cartografia, il nome che Francesco Tommaso di Salò attribuisce alla nostra città con il cartiglio dedicato. Non ho trovato alcuna pubblicazione o documento storico cartografico che chiama esattamente con il nome di Brandici la nostra città, anche se ci avviciniamo molto con altri toponimi.

 

Io credo che questo sia addirittura uno dei motivi per cui non è poi così immediato reperire la carta sui motori di ricerca del web, in quanto sappiamo che l’unico riferimento negli ultimi anni sono le informazioni dei siti delle gallerie che la propongono in vendita, giustamente con il nome indicato nella tavola, che però non è associato a Brindisi in nessun altro documento facilmente accessibile in rete.

È stato piuttosto divertente stilare un elenco di tutti i nomi che hanno identificato la città di Brindisi, partendo dalle sue origini. BRANDICI non l’ho mai trovato nelle fonti storiche esaminate.

Ci viene incontro una interessantissima ricerca di Nazareno Valente, I nomi che hanno identificato la nostra città (Brindisi), pubblicata sul sito Gruppo Archeo di Brindisi. Riassumo i nomi da lui identificati nell’articolo, senza indicare tutti i riferimenti bibliografici agli atlanti e portolani dell’epoca. Questi riferimenti sono ovviamente indicati dall’autore nella sua pubblicazione.

Innanzitutto, come ben noto, da “Bréntion”, che in lingua messapica indicava la testa di un cervo che molto probabilmente ha dato il nome alla nostra città per la particolare forma del porto, abbiamo le derivazioni greca di Brentésion e romana Brunda e quindi Brundisium. Questo toponimo nel medioevo ha subito numerosissime varianti: Brandisium, Brandisi, Blandizia e Branditia, poi Brundizio e Brandizio nel XIII e XIV secolo.

Brandizio è il toponimo utilizzato da Dante nella Divina Commedia che nel Purgatorio fa esclamare a Virgilio, “Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto”. Nello stesso periodo si ritrovano anche altri toponimi come: Blandizo, Brandizo, Brundisia, Brandizia, Brandiz e Brandiço, mentre nel XV secolo i toponimi utilizzati furono: Branditio, Brandizi, Brundusio, Brondusio.

Alla fine del secolo XV compaiono Brindese o Brindise e, dal 1519 anche Brindisi. In quello stesso periodo ritroviamo anche Brindesi (la stampa di G.B. Pacichelli riporta questo nome) e Brindici, voce usata nell’History of Venice di P. Bembo.

In tutta questa lunga carrellata di identificativi nei secoli fino alle prime comparse del termine Brindisi, quasi contemporanee alla data della nostra carta, BRANDICI risulta assente. Ci siamo arrivati molto vicini con Brandizi e Brindici, ma possiamo affermare che alla lista suddetta si debba necessariamente aggiungere anche BRANDICI, citato sull’esemplare unico di cui stiamo parlando e forse su pochi altri documenti di origine veneziana che io non sono stato in grado di reperire ma che sicuramente esisteranno.

Abbiamo una incredibile e forse unica conferma dell’utilizzo di questo nome nella cartografia della nostra città anche nell’altra eccezionale mappa già accennata nel paragrafo dedicato alle torri del porto raccontato nella postfazione del mio libro. Risale al 1630 circa ed è quindi la conferma di come BRANDICI fosse certamente il toponimo usato per indicare la città di Brindisi sulle carte veneziane tra il XVI e il XVII secolo.

Maggiori informazioni su questa carta veneziana, come abbiamo detto, sono indicate nella postfazione del mio libro.

Il toponimo stesso BRANDICI per la sua particolarità è certamente un’altra ragione che rende unico e prezioso il documento in questione. La conferma che tale nome fosse effettivamente utilizzato a Venezia tra il XVI e il XVII secolo, grazie al ritrovamento di una seconda mappa con quello stesso nome, anche questa praticamente sconosciuta, è stato motivo di grande soddisfazione.

 

Cartiglio di sinistra – EL VERO SITO DI BRANDICI IN PVGLIA

Nel cartiglio di sinistra si possiamo leggere:

  1. VER. SITO. DI. BRANDICI. IM PUGLIA. STAMPATO IN VENETIA. PER. FRANCESCO LIBRAR. DALA. SPERANZA. A. M.DXXXVIII.

 

L’arsenale nel seno di levante ­– L ARSENAL

Questa è forse la novità più rilevante sugli elementi topografici della carta. A mio avviso, non esistono altre rappresentazioni nella cartografia storica di Brindisi fino ad oggi conosciuta che mostrino questo grande arsenale costruito in epoca angioina ed ampliato nel tempo sul seno di Levante nei pressi della stazione marittima. Ho trovato diverse indicazioni sulla sua esistenza provenienti dai registri angioini e poi riprese da Ferrando Ascoli ne La storia di Brindisi. Nicola Vacca in Brindisi Ignorata ipotizza anche la sua esatta posizione.

 

Riporto testualmente quanto reperito sul sito della Provincia di Brindisi, nell’articolo pubblicato mercoledì 10 settembre 2008 relativamente al castello a mare angioino (o di S. Maria del Monte), che conferma la posizione di un arsenale nei pressi della stazione marittima, seppur non sia indicata la fonte specifica. Lo stesso testo virgolettato è riportato su brindisiweb.it nella scheda storica a cura di Roberto Piliego relativa al Castello Alfonsino o Aragonese.

“Carlo I d’Angiò, figlio del re di Francia Luigi VIII, prima re di Sicilia, poi anche d’Albania e di Gerusalemme, vincitore degli Svevi nel 1266 a Benevento e nel 1268 a Tagliacozzo (sarebbe poi stato sconfitto dagli Aragonesi nel 1284), fece costruire a Brindisi, nel 1268, un castello con sei torri merlate che si affacciava sul seno di levante, in località Belvedere. Fu questo il Castello di S. Maria del Monte (nel quale era incorporato il palazzo reale), detto Castello a mare per distinguerlo da quello di “terra”, lo Svevo di Federico II, che pure si affaccia sul mare. Nel 1410 il castello aveva già bisogno di riparazioni e divenne inutile (fu disarmato e demolito) dopo la costruzione del Castello Alfonsino ad opera degli Aragonesi. Carlo I d’Angiò, che attuò con scarsa fortuna una politica espansionistica in Oriente, costruì ai piedi del Castello un grandioso arsenale, nello stesso luogo dove si trovava l’arsenale romano e dov’è ora la stazione marittima.”

Ferrando Ascoli a pag. 106 del suo libro La storia di Brindisi riferisce “Oltre il castello, dov’è oggigiorno il bagno penale, conosciuto sotto il nome di castello di terra, un altro castello era dalla parte opposta, nelle vicinanze dell’attuale ufficio del porto. Qui, infatti, si sa essere stato l’arsenale costruito dai Romani, e rifatto da Carlo I. Fabbricandovi si scopersero diversi oggetti, varie opere che dimostrano questo. Inoltre, nell’ordinazione di lavori di riparazione in questo castello si nomina la torre che sta nell’arsenale. Quest’altro castello doveva essere assai importante, a giudicare dai lavori che il re, l’8 maggio del 1277, stando a Brindisi, stabiliva vi si dovessero fare dai Brindisini Ruggero De Ripa, e Nicolò di Ugento.”

A questo punto Ferrando Ascoli riporta da pag.106 a pag.109 il dettagliatissimo elenco dei lavori al castello, al palazzo al suo interno, alle torri, e a quella “che sta nell’arsenale, che è della stessa grandezza ed altezza si faranno le stesse costruzioni.”

Sempre Ascoli, a pag. 111 ci dice che “Importantissimo era a questi tempi l’arsenale marittimo, riattazione, e ampliazione dell’arsenale romano, che sorgeva nella località, dove ora termina il tronco ferroviario alla marina.” A seguire ne descrive molto in dettaglio tutti i lavori di ampliamento.

Anche lo storico Nicola Vacca in Brindisi Ignorata a pag. 155-158 e 161-162 ci parla del Castello della collina di Santa Maria del Monte, affermando che “Il castello era costituito da ben 6 torri merlate: …2) una torre dalla parte dell’Arsenale (ch’era, come vedremo, contiguo al palazzo)”.

Già all’inizio del ‘400 il castello doveva essere malridotto e infatti nel 1410 fu ordinato di eseguire riparazioni alla fortezza di mare nonché ai suoi ponti ed alla sua catena. Vacca sostiene che probabilmente fu disarmato e demolito dopo la costruzione del castello dell’isola, poiché “il nuovo castello difendeva più razionalmente del primo il porto e la città dalla parte di mare”.

Ed infatti a pag. 161 Vacca conclude che, “…sul Belvedere stesso era il torrione, non so perché chiamato del sangue, registrato come Belvedere al n.12 delle didascalie della stampa del Blaeu, in cui graficamente viene riportata una torre diruta; non è azzardato congetturare che sia una delle relitte torri del castello angioino”.

Il Vacca a pag. 158 descrive con chiarezza l’arsenale, posizionandolo con molta precisione. “A piè della collinetta di Santa Maria del Monte, dove è oggi la stazione ferroviaria del porto, sorgeva l’arsenale angioino (domus tarsianalus). Invero qui era stato l’arsenale dei tempi di Roma. Nello stesso sito sorse poi quello di Federico II di Svevia. Carlo d’Angiò, per la sua politica di espansione in Oriente, fece sorgere come abbiamo visto un altro castello, e potenziò ed allargò notevolmente il vecchio arsenale svevo”. Di seguito il Vacca riporta che il Moricino scriveva: “Sono fino ad oggi le reliquie e le vestigie dell’antico arsenale, e vi dura anche il nome, opera certo magnifica degli antichi romani… era stato doppo ristorato per l’occasioni continue di navigare in Terra Santa per tutto il tempo di Federico e ultimamente Carlo l’aveva molto ben risarcito e quasi rifatto di nuovo…Era questo arsenale nel sinistro corno delli due che cingono la città sotto l’istesse mura , luogo però diritto alla bocca di esso porto…” Il Vacca ci dice quindi che i documenti angioini confermano quanto scriveva il Moricino, poiché il re Carlo d’Angiò ordinò il rifacimento del vecchio arsenale e lo ingrandì con altri 37 edifici, che furono costruiti nel luogo cosiddetto “Pizzuto”, come indicato nei registri angioini (a. 1272 fol. 210).

Vacca critica quindi Ascoli, il quale aveva sostenuto (pag.115) che “Pare impossibile ora con sì pochi dati, e senza alcun vestigio di questo arsenale, lo stabilire la ubicazione, la forma e l’importanza.” Il Vacca, infatti, sostiene che “E’ ovvio riconoscere il luogo detto “Pizzuto” nell’estremità a forma di angolo quasi acuto (“pizzuto” nel dialetto salentino ha questo preciso significato) che nella cortina muraria della città forma uno sperone e che nella Mappa del 1739 è chiamato “Bastione dell’Espontone”, che credo traduzione in spagnolo della dialettale parola “puntone” (angolo, cantone). Il “torrione dello Spontone” esisteva ancora nel 1864. In quell’angolo, dunque, erano i 37 edifici del tarsianatus costruiti dall’angioino.”

Vacca conclude l’argomento sull’arsenale riferendo che “Nulla si sa circa l’epoca del disarmo e della demolizione dell’arsenale”.

Ed è qui che torniamo alla nostra carta di Brandici, che a mio avviso sul tema arsenale risulta essere una testimonianza importantissima. La carta di Brindisi che stiamo esaminando, che ricordiamo è riferita al 1538, non riporta nulla del castello se non, forse, i torrioni già citati, ma mostra invece in grande evidenza l’arsenale nella posizione descritta da Vacca.

L’arsenale era dunque l’unica struttura di origine angioina ancora esistente almeno fino alla data del 1538.  Sono certo che il Vacca avrebbe molto apprezzato questo documento se lo avesse potuto vedere.

Un ulteriore studio sulla presenza e l’evoluzione dell’arsenale ci viene fornita con parecchi dettagli e riferimenti bibliografici anche da Maria Sirago ne il porto di Brindisi dal Medioevo all’Unità in un testo scritto in occasione di una conferenza tenutasi il 31 ottobre 1996 presso la Biblioteca pubblica arcivescovile “A. De Leo” di Brindisi.

Citando i registri angioini (cit. VIII 1272) e Ferrando Ascoli (cit. pag. 111-114) viene evidenziato che nel 1272 Carlo I D’Angiò ordinava che fossero risistemati i più importanti arsenali, tra cui quello di Brindisi. Brindisi in quel tempo divenne infatti il centro della ricostruzione della flotta Regia. Ferrando Ascoli, a pag. 111-114, cita una lettera del 12 aprile 1274, in cui si parla di due officine già costruite per i diversi gruppi di operai addetti all’arsenale e si ordina di costruire 7 piloni e fra un pilone e l’altro sei archi e sulla facciata marina un arco capace di far passare galere e teridi. Poco dopo ordinò di ampliare con altri 17 edifici l’arsenale di Brindisi che, dopo quello di Napoli, era il più importante del regno (Ascoli, pag. 114-115).

Maria Sirago ci dice anche che, nel periodo Aragonese, il re Alfonso decise di potenziare ulteriormente gli arsenali di Brindisi e Taranto, anche perché è a Brindisi che il Grande Ammiraglio, da cui dipendeva tutta la marina del regno, aveva la casa dell’Ammiragliato (C. Massaro, cit. p. 295, e I Schappoli, Napoli aragonese: traffici e attività marinare, Napoli 1972).

Tutto questo a conferma che il nostro arsenale non solo è “sopravvissuto” certamente fino all’epoca Aragonese, ma che invece in quell’epoca veniva ancora potenziato. La sua imponente presenza sulla carta di Brandici lo evidenzia pienamente.

Poiché l’arsenale non è più rappresentato nelle più note mappe del Seicento e poiché lo stesso Moricino scrive “Sono fino ad oggi le reliquie e le vestigie dell’antico Arsenale”, io credo si possa supporre che il disarmo e quindi la demolizione sia avvenuta tra la seconda metà del XVI secolo e l’inizio del successivo.

 

Il Castello Svevo – EL CASTEL

Ovviamente non poteva mancare il Castello Svevo di Federico II nella nostra carta. Voluto da Federico II di Svevia fu fatto poi restaurare da Carlo I che, come ci attestano i registri angioini, provvide ad innalzare le torri e costruire un palazzo reale all’interno.

 

Il primo vero e proprio ampliamento si deve a Ferdinando I di Napoli che nella seconda metà del XV secolo fece costruire un’ulteriore cinta muraria, più bassa e spessa della precedente munita di torrioni bassi e circolari.

Il disegno nell’opera che stiamo esaminando è molto semplificato, ma visto il periodo della tavola e visto che sono evidenti le costruzioni all’interno delle mura, desumo che voglia rappresentare il castello con l’inclusione dell’antemurale.

 

Le Colonne Romane, Porta Reale e la Cattedrale – VES COVA

All’interno della cinta muraria appaiono alcuni elementi caratteristici della nostra città, sebbene il loro reciproco posizionamento risulti abbastanza approssimativo.

 

Innanzitutto, troviamo le due colonne romane, stranamente in una posizione piuttosto arretrata rispetto al porto, quasi ad evidenziare la loro centralità (erano già il simbolo della città). Una delle due colonne risulta chiaramente crollata, essendo rappresentata con il solo basamento più una piccola parte ancora eretta.

Siamo esattamente a 10 anni di distanza dal suo crollo, avvenuto il 20 novembre 1528, senza apparente motivo. L’episodio fu pronosticato come l’arrivo di prossime sciagure.

È molto probabile, ma andrebbe meglio verificato, che quello che stiamo esaminando è in assoluto il primo documento della storia di Brindisi a rappresentare graficamente le due colonne romane, di cui una caduta.

In primo piano, davanti all’imboccatura del porto, possiamo osservare chiaramente la Porta Reale fatta edificare insieme alla cinta muraria intorno al 1474 da Alfonso, figlio del re Ferdinando, perciò chiamata Reale, già scomparsa tra la fine del XVIII e l’inizio del successivo.

In posizione leggermente arretrata rispetto alle colonne troviamo poi la Cattedrale, identificata dal toponimo VES COVA, ad indicare appunto la cattedra del vescovo della città, consacrata da Urbano II nel 1089, completata nel 1143 e poi quasi completamente ricostruita in seguito al terremoto del 1743. La chiesa è infatti anche l’unica nella tavola a presentare annesso un grande campanile.

I pozzi o le fontane

All’interno della cinta muraria sono ben evidenti due elementi caratteristici, purtroppo privi di descrizioni o toponimi. A mio avviso rappresentano dei pozzi o delle fontane.

Da quel che sappiamo (Andrea Della Monica Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi) nel 1538 ancora non esistevano fontane vere e proprie che potessero distribuire acqua corrente all’interno della città, queste erano infatti collocate fuori dalle mura.

Si deve infatti al governatore spagnolo Pietro Aloysio de Torres la costruzione, nel 1618, delle condotte finalizzate a portare l’acqua alle prime fontane all’interno delle mura.

Tuttavia,  almeno un pozzo all’interno della città certamente già esisteva dai tempi del periodo imperiale, anche se nel 1885 alcuni esperti in condotte attribuirono la sua costruzione ad epoca medioevale (XIII o XIV secolo). Si tratta del  Pozzo di Traiano che, almeno fino al 1700, era ancora il serbatoio idrico a cui attingevano i cittadini di Brindisi. Il Moricino diceva che Traiano, durante la sua attesa in città prima di imbarcarsi da Brindisi per l’impresa contro gli Armeni e Parti, probabilmente fece costruire il pozzo “che fino al giorno d’oggi somministra copiosissime acque ai Brundusini” (cito Brundarte.it, Via Pozzo Traiano a Brindisi, 13 agosto 2021).

Questo pozzo, quasi certamente in funzione fino a che non furono realizzate le prime fontane, potrebbe essere quello indicato nella figura a sinistra. L’alimentazione era collegabile a sorgive ma analisi eseguite nel 1828 e 1928 evidenziarono la loro non potabilità.

 

Ne troviamo poi un altro sul lato destro, più a occidente, non lontano dalle mura nella zona del castello, ma non riesco a fare alcuna ipotesi in merito.

Entrambi i pozzi sembrano sorgere in delle piazze sulle quali si affaccia anche una chiesa.

 

La città, le fortificazioni e la chiesa di Santa Maria de Parvo Ponte

Ho descritto tutti i particolari dell’opera a mio avviso degni di rilievo e chiudo la carrellata con un commento generale sulla visione di insieme della città, sulle fortificazioni e qualche ulteriore dettaglio sulla possibile identificazione di una chiesa.

La cinta muraria è perfettamente definita. Era stata appena potenziata da Carlo V intorno al 1530 con la costruzione dei bastioni di San Giorgio, San Giacomo (fuori dalla mappa), i fortilizi e le cortine di Porta Lecce.

 

Possiamo certamente affermare che l’opera di Francesco Tommaso di Salò ci presenta davvero una città dalla cinta muraria appena ristrutturata e potenziata, alla sua massima efficienza, tanto che il nuovo sistema difensivo di Brindisi era ritenuto veramente difficile da espugnare ed infatti i turchi rinunciarono ad invaderla nel 1537.

Sul lato di levante vediamo poi i bastioni ormai scomparsi (probabilmente Bastione Arruinado, Bastione dell’Espontone e Bastione dell’Escorciatore, citati nella famosa mappa spagnola di Amat Poulet del 1739).

All’interno della città, oltre alla Cattedrale chiaramente identificata, si possono scorgere altre chiese grazie alla presenza di una croce sul tetto, ma ritengo sia impossibile attribuire un nome se non con ipotesi piuttosto azzardate che preferisco evitare.

Forse l’unica altra chiesa a cui possiamo dare un nome è quella appena al di fuori dalle mura in prossimità della fine del seno di levante e quindi di Porta Lecce, chiaramente visibile nell’angolo alto a sinistra della figura successiva, che a mio avviso è la Chiesa di Santa Maria de Parvo Ponte, in stile romanico con annesso un monastero. La chiesa fu fondata da Margarito da Brindisi, ammiraglio normanno, come rilevasi da una lettera di Celestino III del 4 febbraio 1195, e fu un monastero di padri premonstratesi ai quali era affidata l’educazione dei bambini poveri della città. Il grande complesso, secondo Ascoli, fu in gran parte demolito intorno al 1777 durante i lavori di colmamento e bonifica delle paludi e poi distrutta del tutto verso la fine del XIX secolo.

Fuori dalle mura infine qualche casetta nelle campagne ed alcune barche locali nel porto interno.

Le mie considerazioni sugli aspetti topografici terminano qui.  Per tutte le altre considerazioni ed aspetti inerenti quest’opera rimando al libro appositamente dedicatole.

Sono perfettamente cosciente e quasi sicuro di aver commesso anche errori nelle mie interpretazioni, forse grossolani, che spero possano essere corretti da chi ne ha invece le giuste competenze.

Ma il primo obiettivo, quello di comunicare alla mia città l’esistenza di un documento di enorme rilevanza, del tutto assente in tutte le precedenti pubblicazioni e ricerche locali, è stato pienamente raggiunto.  Questo è il mio personale tributo alla città nella quale sono cresciuto.

Ho sentito il dovere di fare il possibile per divulgare, quasi gridare, l’esistenza di questa opera cinquecentesca su Brindisi, al fine di stimolare chi invece ha le competenze e la passione per approfondire molto meglio di quanto abbia potuto fare io, come il rarissimo documento certamente merita.

Accettando qualunque possibile critica, mi auguro vivamente che tutto il mio lavoro sia seguito dall’apporto di studiosi ed appassionati locali, che spero di aver stimolato e che certamente conoscono bene quali fonti, cartografie, documentazioni pastorali, notarili o di qualsivoglia tipo serve interpellare per approfondire gli elementi che provengono da questo documento.

La tavola in questione, se da un lato fornisce tante certezze e trova riscontri storici ben precisi, dall’altro lascia diversi dubbi o meglio curiosità che meriterebbero una risposta o magari l’approfondimento di studiosi preparati.

Ho voluto esplicitare i più evidenti di questi riscontri, lanciando anche qualche azzardata ipotesi, con la certezza che non siano gli unici e con la consapevolezza di non avere gli strumenti e la padronanza adeguati per affrontarli meglio.

Mi auguro che qualcuno voglia esporsi su questi punti che per me restano piuttosto oscuri, aggiungendo le proprie conoscenze e certezze. Il mio è un vero e proprio appello agli storici locali a verificare, rettificare ed integrare quanto da me riportato in queste pagine.

Ed infine il mio è soprattutto un appello alle amministrazioni della Città e della Provincia di Brindisi, affinché vogliano raccogliere e contestualizzare tutte le informazioni possibili per fare tesoro dell’esistenza di questo documento rarissimo fino ad oggi sconosciuto alla stragrande maggioranza dei brindisini e degli appassionati di storia locale.

 

Articolo tratto dal testo BRANDICI – La più antica e rara mappa di Brindisi che Brindisi non conosce, pubblicazione indipendente a cura di Vito Ruggiero. Brandici di Vito Ruggiero | Cartaceo (youcanprint.it)

© 2024 – Tutti i diritti riservati all’autore. Nessuna parte di questo articolo può essere riprodotta senza il preventivo assenzo dell’autore

Giovanni Donato Maritato, teologo neritino del XVII secolo

di Armando Polito

L’internazionalità emersa dall’esame di un prodotto dell’editoria salentina e leccese in particolare operato qualche tempo fa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/04/30/lecce-resto-del-mondo-1-0-un-rarissimo-libro-stampato-a-lecce-nel-1644/) continua a manifestarsi, anche se in misura enormemente meno diretta e più sfumata, ma con un pizzico in più di salentinità, perché,  se allora il protagonista è stato un libro scritto da uno spagnolo e pubblicato da una coppia di editori operanti a Lecce, qui è la volta di un libro scritto da un neritino, pubblicato  dagli stessi due editori due anni dopo e dedicato a dedicato ad un vescovo operante in Italia, in particolare nel Salento. ma di nazionalità spagnola..

Non sorprenda quanto appena  detto, tenuto conto del dominio di Filippo IV e della fisioogica inflenzam leggi controllo, che qualsiasi potere tende, per sopravvivere, ad esercitare in tutti i settori, amministrativi e non. Ne riproduco il frontespizio un dettaglio dell’interno dall’esemplare digitalizzato custodito, come si nota dal relativo timbro nella Biblioteca comunale “Achille Vergari” di Nardò.

Il volume è da considerarsi raro, poiché l’OPAC registra la presenza di soli tre altri esemplari, rispettivamente a Manduria nella Biblioteca comunale “Marco Gatti” e a Lecce nella  Biblioteca “Nicola Bernardini” e nella Biblioteca comunale ‘San Francesco”. Purtroppo non son riuscito a decifrare quanto vi si vede scritto a mano, probabilmente una nota di possesso,  e a tal proposito debbo far notare a me stesso  come qualsiasi nota apposta su un libro può sembrare al momento quasi come uno sfregio rozzo e crudele, ma col passare dei secoli può diventare una preziosa fonte d’informazione.

 

Fortunatamente altri dati, che sarebbe stato laborioso se non impossibile recuperare, emergono da ciò che si legge dopo il titolo vero e proprio, nel chilometrico, anche questo è fisiologico nella stampa del tempo, sia pur in palese contrasto con la produzione poetica che si pasceva di metafore spesso di problematica interpretazione con i loro riferimenti alla portata solo dei più dotti.  Apprendiamo così che l’autore al tempo era suddiacono (cioè appartenente al primo degli ordini maggiori, da cui cominciava l’obbligo del celibato e della recita dell’Ufficio divino), che il libro era indirizzato a sua sorella Suor Antonia di San Francesco Monaca Scalza di Santa Teresa e dedicato a D. Consalvo de Rueda Vescovo di Gallipoli con, a seguire, la sempre consueta processione di titoli.

Il dettaglio che avevo preannunciato è collocato, fatto anche questo più che normale nella parte che precede il testo vero e proprio e che contiene quelle che possono essere delle vere e proprie recensioni, tutte, allora come ora …, estremamente positive. La lunga serie si chiude proprio con quella del vescovo destinatario, che di seguito riproduco e traduco.

Al molto reverendo e amato figlio, il suddiacono Giovanni Donato Maritato, Nostro Signore  salvi.

Molto amato figlio, ho letto con gusto particolare il libro che avete composto sul primo capitolo dei cantici divini, la composizione mi è sembrata ammirevole e che sarà diu molta utilità per le persone perfette nella via de Signore e a tutti quelli che pregano. Mi colpisce che tenti di stamparlo e spero che sarà letto con gusto, per la molta varietà di cose che contiene. Nel resto mi rimetto all’opinione di padre Minioti1 vostro confessore e per entrambi chiedo a Nostro Signore la sua santa grazia e felicità. Da Gallipoli 27 maggio 1645. Devotissimo in Cristo Consalvo vescovo di Gallipoli.

 

Sospetto che il giudizio vago e generico del superiore abbia indotto il neritino a riflettere piuttosto a lungo sull’opportunità di continuare, perché a quasi sette mesi dopo (1 gennaio 1646) risale il messaggio inviato al Minioti, al giudizio del quale il vescovo, giocando quasi a scaricabarile, si era rimesso. Il Minioti non fece attebdere il suo giudizio evidentemente positivo, perché dopo poche settimane (30 gennaio 1646) Giovanni Donato annunziava al vescovo l’uscita del lavoro confermandone la dedica che si legge nel frontespizio. Tutti i messaggi cui fino ad ora ho fatto riferimento sono riportati nelle pagine iniziali del libro.

Se, in fondo, il legame del Maritato con la Spagna può essere ricondotto alla sfera più o meno burocratica della scontata riverenza ad un superiore, meno scontato, anche se non originale (ma scientificamente ineccepibile), appare il metodo seguito, che, come ha rilevato Bruno Pellegrino: Juan de la Cruz riporta le citazioni scritturali prima in latino e poi, tout de suite, le traduce, chiosandole secondo il contesto. Medesima prassi in Giovanni Maritato …2.

Oltre a Le divine corrispondenze il neritino pubblicò tre altre opere, delle quali riporto gli estremi bibliografici:

Sacro gioiegliere dell’anima devota, incastonato d’alcuni Spitituali Opuscoli. Del Reverendo D. Gio. Maritato di Nardò Sacerdote Teologo,  Pietro Micheli, Lecce, 1656

Lucido specchio ò vero Celesti inviti dell’anima, alla christiana perfettione. Di Gioan Donato Maritato. Sacerdote, e dott. teologo della congreg. de chierici ritirati dal secolo, Zannetti, Bari, 1665-

Svegliatoio de’ tiepidi al divino amore. Overo Meditationi divotissime dell’appassionato, morto, e redivivo Giesu amor nostro, coll’aggionta d’un breve modo di confessarsi, … Operetta composta per commune utilita da Gio. Donato Maritato dr. teologo, prete della vita commune, e dedicata all’ill.ma sig.ra d. Maria Celestina Caraffa, Heredi del Valeri, Trani, 1667

Si tratta di titoli ancor più rari di quello prima presentato: dei primi due è reperibile, per ciascuno, solo un esemplare custodito presso la Biblioteca “Roberto Caracciolo” di Lecce, del terzo sempre un solo esemplare presso la Biblioteca “Nicola Bernardini” di Lecce.

Anche questi titoli contengono preziose informazioni sull’autore: il Suddiacono della prima pubblicazione del 1646 è alla data del 1656 Sacerdote Teologo, a quella del 1665 Sacerdote, e dott. teologo della congreg. de chierici ritirati dal secolo e quella del 1667 dr. teologo, prete della vita commune.  L’abbandono dello stato laicale, inequivocabilmente attestato dal titolo del 1665. Tuttavia, doveva essere avvenuto già nel 1659, quando le monache  del monastero delle Carmelitane scalze di Bari incaricarono il neritino della stesura di una biografia della consorella Francesca Teresa, indispensabile per  preparare il processo informativo.  L’operazione non andò in porto, ma resta la relazione redatta dal nostro nell’ACDF (Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede (S. O. St. St., B4   fasc. 25)  col titolo 1659 et sequent. Circa impressionem Vitae compositae a sacerdote Ioanne Donato Maritato, sororis Franciscae Theresae a Iesu Maria Carmelitana Excalceatae Monasterii Barensis ad instantiam Sororum dicti Monasterii.

Probabilmente la lettura delle ultime tre pubblicazioni citate avrebbe aggiunto altri dati alla biografia del nostro. Purtroppo solo il Sacro gioiegliere è reperibile in rete (digitalizzazione dell’unico esemplare prima ricordato) e, essendo impossibilitato a muovermi, faccio con questo la stessa operazione fatta con Le divine corrispondenze, lasciando a chi ne ha tempo e voglia ulteriori indagini sul campo. Prima, però, invito ad una riflessione sulla parte iniziale dei tre titoli (Le divine corrispondenze tra l’anima orante e Dio/Sacro gioiegliere dell’anima/Lucido specchio ò vero Celesti inviti dell’anima/Svegliatoio de’ tiepidi al divino amore): a parte la parole-chiave anima, assente solo nell’ultimo, spiccano nel loro immaginifico valore metaforico, quasi in un climax ascendente, gioiegliere, specchio e svegliatoio, anche se specchio ha un famoso precedente nello Specchio di vera penitenza di Iacopo Passavanti (sec. XIV) e svegliatoio sara ripreso da Antero Maria da San Bonaventura (al secolo Filippo Micone) in Svegliatoio de’ sfaccendati, e stimolo d’affaccendati per ben’impiegare il tempo, resultanti da prattiche meditationi, fondate in vere ragioni, autorità di Sacre Scritture, sentenze de’ Padri, e familiari similitudini, Franchelli, Genova, 1679.

Campeggia lo stemma della famiglia Marescallo3 , come conferma la dedica.

 

Ogni tentativo di ricostruire quel tessuto di generazioni che il tempo inevitabilmente logora e molto spesso distrugge è puramente velleitario, se non è suffragato almeno da indizi. Nel nostro caso uno di pura partenza potrebbe essere il cognome Maritati4, a Nardò ancora abbastanza diffuso, nonché l’omonimo palazzo. E non è detto che un’indagine mirata negli archivi notarili non riesca a ricostruire la trama temporale e ad aggiungere a questa nota bibliografica qualcosa in più su Giovanni Donato.5

__________________

1 Giovanni Maria Minioti, teatino di Lecce, autore di Vita del virtuoso, e laudabile giouane Tomaso Perrone gentil’huomo della citta di Lecce, Micheli, Lecce, 1641 (ristampa per i tipi della Stamperia Simoniana, Napoli, 1757). Notizia di un suo manoscritto è in Gioacchino Di Marzo, I manoscritti della Biblioteca Comunale di Palermo, Stabilimento tipografico Virzi, Palermo, 1878, v. III, p. 136 (di seguito la relativa scheda).

2 Bruno Pellegrino, Giovanni Maritato, un mistico sanjuanista del Seicento tra Salenrto e Spagnam in Ordini religiosi, santi e culti tra Europa, Mediterraneo e nuovo mondo (secoli XV-XVII), Associazione italiana per lo studio dei santi dei culti dell’agiografia Congresso internazionale (5 : 2003 : Lecce), Congedo, Galatina, 2009, p. 475

3 “MARESCALLI di Lecce. Detti pure Marescalchi e Mariscalchi … I Marescalli ebbero il marchesato di Arnesano ed i feudi di Lequile, Pisanello, Pisignano, Ripacandida, Strudà, Maglie, Surano, Vanze, Castrignano. ARMA: Scaccato d’oro e d’azzurro.” (G. B. di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Direzione del Giornale araldico, Pisa,  1886, v. I, p. 79, alla voce Marescalli)

4 È assolutamente irrilevante la differenza tra Maritato e Maritati. Tale alternanza, salvo rarissime eccezioni sempre in agguato e di non facile individuazione, è dovuta alla latinizzazione del cognome (al singolare) alternata (al plurale) ad indicare collettivamente la famiglia. Emblematico, a tal proposito, per restare a Nardò, Tafuro/Tafuri.

5 Da Emilio Mazzarella, Nardò sacra, a cura di Marcello Gaballo, Congedo Galatina, 1999:

Chiesa abbazia della B. V. del rosario e dei santi Bartolomeo e Marcello papa nel pittagio S. Paolo in via Angelo Delle Masse, distrutta. Fu edificata nel 1629 tra il cortile di Scipione Però e di Domenico Maritati … (p. 69)

Chiesa dell’Angelo custode nel pittagio S. Paolo, oggi via Angelo Custode, profanata. Fu costruita tutta in muratura nel 1676 o 1677 dal sacerdote Vincenzo Maritati, che trasmise il diritto di patronato ai suoi eredi … (p. 71)

Chiesa di S. Anttonio dei Bellotti nel pittagio S. Paolo, crollata … nella visita del Lettieri (1830) vi celebra Michele Maritati … (p. 99)

Sarà puramente casuale il fatto che i Maritati qui ricordati gravitano tutti nell’antico pittagio S. Paolo, lo stesso in cui è sito il ricordato palazzo?

LECCE-RESTO DEL MONDO 1-0. Un rarissimo libro stampato a Lecce nel 1644

di Armando Polito

Chi qualcosa che ha a che fare con la sfera/del calcio di leggere crede o spera,/lasci perdere, abbandoni la lettura/e cerchi altrove su magia e fattura/o tra tanta scelta succulenta e varia,/l’attenzione volga all’arte culinaria.

Dopo questo aulico inizio presento il protagonista assoluto di questa storia. Sarà  l’unico, o quasi, del quale  le sembianze sono a portata di occhio e, volendolo, pure a portata di mano, anche se bisognerebbe affrontare un viaggio all’estero e, probabilmente anche lì, difficoltà burocratiche di non poco conto. Ne basta e avanza, tuttavia, la conoscenza solo virtuale, com’è successo a me per puro caso. Nel compilare un catalogo di tutte le pubblicazioni reperibili di un editore del passato arcinoto ai bibliofili salentini, mi sono imbattuto nell’opera che mi accingo a presentare, cominciando dal frontespizio.

 

A differenza delle copertine di oggi, che con immagini di facile, direi rozza, presa ed espedienti grafici tentano spesso di vendere il nulla, lasciando alla controcopertina la funzione di divulgare mirabolanti dati sulla vita ed eventuali altre opere dell’autore, i frontespizi dei secoli passati, grazie alla loro spesso chilometrica estensione, contenevano una serie di informazioni che, insieme con quelle presenti nelle dediche, avvisi al lettore e imprimatur, rappresentano una fonte preziosa per qualsiasi approfondimento di carattere storico e non solo. Per questo motivo mi soffermerò sui dettaglio principali.

ARISMETICA GUARISMA1

È la prima avvisaglia che il libro in questione è in spagnolo e potrebbe essere tradotto con Operazioni aritmetiche. Arismetica è voce del latino medioevale (a sua volta dal greco ἀριθμητική, leggi arithmetichè), madre di aritmetica e guarisma è dal latino medioevale algorithmus (a sua volta dall’arabo al-Khuwārizmī =originario della Corasmia, appellativo del matematico arabo del IX secolo Muḥammad ibn Mūsao), da cui algoritmo. Il carattere, se non scientifico almeno tecnico, del libro si definisce meglio con quel che segue.  

En la qual se muestra el uso manual de las siete reglas maestras de saber hazer todas las que se reduzen a cuenta, con la variedad que ay de hazerse Contractation Mercantil de compras, y ventas de mercaturias en varios Reynos, y Provinzias de Europa, Asia, Africa, Remisiones de dinero por via de Cambios, Ajustamiento de ellos. Estilo de hazerse Pesos, y medidas, valor de monedas en ellos, Fundazion de Banco, Negoziazion de el.   

DIVIDIDO EN QUATRO PARTES POR FRANZISCO OCHOA de Samaniego de la Zuidad de Vitoria, Caveza de la Provinzia de Alaba.

(nella quale si mostra l’uso manuale delle sette regole maestre di saper fare tutto ciò che si riduce a conto, con la varietà con cui si può fare contrattazione mercantile di compravendita e vendita di merci in vari regni e provincie di Europa, Asia, Africa, rimesse di denaro attraverso il cambio, loro regolazione. Modo di variare pesi e misure, valore delle misure in essi, fondazione di banca, sua negoziazione. Diviso in quattro parti, di Francisco Ochoa di Samaniego della città di Vitoria, capitale della provincia di Alava.

Nulla da allora è cambiato nelle toponomastica (a parte Alaba, oggi Alava), ma di Francisco Ochoa nulla son in più rispetto a quanto riportato nel frontespizio son riuscito a sapere.

 

Questa sorta di anonima e primitiva marca editoriale appare come frutto di un sincretismo politico-religioso, con la commistione tra potere temporale (l’aquila degli Asburgo, la casa di Filippo IV all’epoca re di Spagna e di Napoli e potere spirituale (il cristogramma, logo dei Gesuiti, nello scudo). Una o l’altra delle due componenti ricorrono separatamente prima e dopo, come mostra la serie di frontespizi che seguono.

 

Tra di loro, però, spicca l’ultimo, in cui sembra campeggiare solo lo stemma dell’Eminentissimo e Reverendissimo Signor Cardinal d’Aragonam dedicatario della pubblicazione in onore dell’Augusto Monarca Filippo IV il Grande, che era deceduto nel settembre dell’anno precedente e celebrate da Monsignor Luigi Pappacoda vescovo di Lecce. C’è, però, un trucco con cui l’editore sembra salvare, come in Arismetica, capra e cavoli (il morto, ormai …) perché lo stesso  frontespizio ci informa che il detto cardinale era pure Vicere (sic!) di Napoli e Capitano generale di questo Regno.

Passo all’ultimo dettaglio.

EN LECHE, MDCXXXXIIIII Por Pedro Micheli, y Nicolao Fran çisco Russo  Con Licencia de los Superiores

(In Lecce, 1644 di Pietro Micheli e Nicola Francesco Russo Con licenza dei Superiori)

Le tenebre che avvolgevano il titolo del post cominciano a diradarsi: dopo quel Resto del mondo che all’epoca poteva essere ben rappresentato dal potere degli Asburgo, affiora il nome di Lecce e quello di Pietro Micheli.

Nato a Dôle, in Borgogna, nel 1600, entrato giovanissimo in Italia, lavorando prima a Roma come tipografo apprendista presso Lorenzo Valeri, con il quale nel 1619 si trasferì a Trani, dove lavorò come allievo e socio. Sciolta la società, a Bari nel 1629 pubblicò Nuova, et facil prattica di abaco, per trovare ogn’uno il conto suo, di quello che guadagnerà à ragion di mesi, giorni, et anni, secondo che più accade in uso di Giulio Della Gatta (sul frontespizio lo stemma della città di Bari sormontato da San Nicola di Myra e a carta A12r ancora un’immagine del santo, a riprova dell’originarietà, l’originalità è altro, delle scelte che ho messo in risalto nei frontespizi prima presi in considerazione).

Dopo una parentesi di nove mesi in cui stampò in società col bresciano Giacomo Gaidone, iniziò nel 1631 la sua attività che, con monopolio assoluto, continuò fino al 1688.

L’Arismetica, stampata nel 1644, appartiene alla sparuta serie (non più di cinque le certe) di pubblicazioni realizzate con Francesco Russo, il suo socio tranese col quale sua figlia Elisabetta si era sposata nel 1643.

Se una parte preponderante delle pubblicazioni del Micheli riguarda la sfera religiosa, l’Arismetica sembra un ritorno nostalgico, mai più ritentato, ai tempi della Nuova, et facil prattica di abaco. Non è dato sapere le circostanze che convinsero lui e il Russo a lanciarsi nell’avventura.

Nulla si sa pure dell’Ochoa, ma doveva essere una figura non di secondo piano, se per raccomandarlo si scomodarono figure di primo piano della burocrazia napoletana del tempo, secondo quanto testimoniato, come da consuetudine, nelle pagine iniziali. Riporto i singoli dettagli, ognuno volta per volta seguito da una breve scheda relativa al personaggio corredata, laddove è stato possibile, di una sua immagine.

Exzelentisimo Señor

Franzisco Ochoa dize a V. E.  que a compuesto un libro de arismetica contratazion de Mercaderes de remisiones de denero por via de cambio, ajustamento de ellos con todos los Reynos, y Provinzias de Europa, Asia, Africa; Suplica a V. E. mande remitille surrevision a quien fuere servido, paraque visto se le de el Reggio asenso para imprimillo, que en ello rezevira gratia, ut Deus etc.    

Magnificus Alphonsus de Cardenas recognoscat, et in scriptis relationem faciat. Neapoli die 10 Novembris 1642. Casanate Regens.

(Eccellentissimo Signore

(Francesco Ochoa dice a V. E. che ha composto un libro di aritmetica contrattazione di mercanti di rimesse di denaro per mezzo di cambi, loro aggiustamento con tutti i regni e provincie d’Europa, Asia, Africa; supplica V. S. che provveda a rimettere la revisione a chi è stato incaricati, perché, una volta visto, gli si dia il regio assenso a stamparlo, che in quello riceverà gratitudine, affinché Dio, etc.

Il magnifico Alfonso de Cardenas ne prenda per iscritto faccia relazione. Napoli 19 novembre 1642. Casanate Reggente)

Il messaggio, dunque, è inviato dal reggente Casanate ad Alfonso de Cardenas.

MATTIA CASANATE Padre meno noto e benemerito di Girolamo, alla cui munificenza si deve la nascita della biblioteca romana che da lui prese il nome. Dopo essersi stabilito a Napoli nel 1619, Matteo fece carriera nell’amministrazione (presidente della Regia Camera della Sommaria, membro del Collaterale, reggente di cancelleria).

 

 

ALFONSO  DE CARDENAS (1592-1666) 6° marchese di Laino e conte d’Acerra.  L’immagine è tratta da Gregorio Leti, Historia, e memorie recondite di Oliviero Cromvel, Pietro e Giovanni Bòaeu, Amsterdam, 1692.

La risposta giunse dopo appena due giorni (oggi, invece, nell’era della digitalizzazione …):

Por mandado de V. E. he visto el libro que refiere el suplicante que he tenido en mi casa muchos dias, y leido todo, y allo segun mis pocas noticias de las materias que contiene, que el facarlo a luz sera de gran util no solo conti ma , pero a todo jenero de Mercaderes, y tratantes, y no tiene materia contra la juridizion Reggia. Napoles 12 de Noviembre 1642. Alfonso de Cardenas. 

(Su mandato di V. E. ho visto il libro cui si riferisce il supplicante, che ho tenuto in casa mia molti giorni e letto tutto e lì secondo le mie poche nozioni sulle materie che contiene il portarlo alla luce sarà di grande utilità non solo ad ogni sorta di conti ma ad ogni genere di commercianti e concessionari e non contiene materia contro la giurisdizione regia. Napoli 12 novembre 1642. Alfonso de Cardenas)

Seguono, infine, le autorizzazioni alla stampa.

Visa retroscripta relatione imprimatur. Tapia Reg. Brancia Reg. Zufia Reg. Sanfelicius Reg. Azcon Reg. Capycius latro Pro Reg. Barilius

                                                            IMPRIMATUR

M. Pijssimus Maceratensis Vic. Gen. Lyciensis.

(Vista la retroscritta relazione, si stampi. Reggente Tapia Reggente Brancia Reggente Zufia Reggente Sanfelice Reggente Azcon Capecelatro per il Reggente.

SI STAMPI

Piissimo di Macerata Vicario Generale di Lecce)

Anche su questi firmatari qualche notizia e immagine, cominciando dalla sfilza di Reggenti del primo decrerto.

CARLO TAPIA (1565-1644), giurista, spagnolo d’origine, napoletano di nascita, autore di parecchie pubblicazioni, reggente del Supremo Consiglio d’Italia, contribuì alla stesura ed all”attuazione di diversi progetti di riforma dell’amministrazione e della giustizia nel Regno di Napoli.  L’immagine che segue è tratta da Caroli Tapiae iureconsulti origine Hispani, ortu Neapolitani commentarius …, Salvio, Napoli, 1676. L’immagine è una stampa custodita nella Biblioteca Nazionale Spagnola a Madrid.

 

 

FERDINANDO BRANCIA Cavaliere dell’Ordine di Calatrava, dal 1632 duca di Belvedere, Reggente soprannumerario Decano del Collaterale dal 1636 (nell’immagine il suo cenotafio nel Duomo di Napoli).

 

 

DIEGO BERNARDO DE ZUFIA Dal 1640 Reggente subentrato al Casanate e presidente del Sacro Regio Consiglio.

GIOVAN FRANCESCO SANFELICE Conte di Bagnoli,  Principe di Monteverde, Reggente della Gran Corte della Vicaria, autore di Praxis iudiciaria, Napoli, Mollo, 1647 e di Decisiones supremorum tribunalium Regni Neapolitani, Anisson, Lione, 1675. A seguire il suo ritratto in una stampa custodita nell’Österreichische Nationalbibliothek a Vienna.

 

 

FERDINANDO AZCO (o Ascon) Marchese di Torello, reggente di cancelleria in Sardegna e luogotenente della Regia Camera della Sommaria.

ETTORE CAPECELATRO (1580-1654) Giurista, autore di numerose pubblicazioni. Dopo le rivolte della metà del secolo XVII fu inviato in Puglia per ristabilire l’ordine nella dogana di Foggia. Nella scheda a cura di Aurelio Musi nel Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, v. XVIII, 1975 si legge: la condotta del C. nella pratica di questo ufficio non dovette essere irreprensibile, se si deve attribuire un qualche valore alle violente satire che circolavano sul suo conto tra la popolazione pugliese, piene di insinuazioni sui sistemi e sulle fonti di accumulazione della sua fortuna”.  L’autore della scheda, purtroppo, non riporta la fonte di tale gustosa notizia e di essa non v’è la minima traccia nei testi citati in bibliografia. Un vero peccato per uno come me non poter trovare la conferma, se la notizia è fondata (troppo, forse, sarebbe pretendere di rinvenire pure la testimonianza scritta di almeno una di queste composizioni che suppongo di paternità popolare) che non sia passata inosservata, magari da qualcuno un po’ più colto la possibilità di giocare col nome, dando applicazione pratica al detto latino, anch’esso un gioco di parole, nomina omina (i nomi sono presagi). Accanto a Capecelatro, infatti, non è raro trovare la grafia Capece Latro (in latino Capicius Latro, come si legge nell’ovale dell’immagine precedente) e se Latro è  la seconda parte del nome del casato, latro in latino può essere verbo e più precisamente prima persona singolare del presente indicativo di latrare (da cui, tal quale, la voce italiana), ma anche sostantivo e più precisamente nominativo singolare in un vasto ventaglio di significati tra i quali sarà agevole a chiunque individuare quello o quelli più in linea con la stigmatizzata circostanza: soldato mercenario, guardia del corpo, bandito, predone, brigante, ladro, assassino, (detto di animali) predatore, (poetico) cacciatore, pedina nel gioco degli scaccchi. Delle due immagini del Capecelatro di seguito riprodotte la prima è stata reperita su ebay, dov’è descritta come acquaforte di Domenico Gargiulo (1609-1675), come si legge in basso a sinistra; la seconda, invece, è una stampa custodita nell’Österreichische Nationalbibliothek a Vienna.

 

 

GIOVANNI ANGELO BARILIO Compare con la qualifica di segretario, spesso insieme con uno o più dei reggenti qui firmatari,in molti atti consimili di quel periodo.

MARCELLO PIISSIMO DI MACERATA Vicario Generale di Lecce. Lo scioglimento di M. è provato dalla scrittura estesa che si legge in un’altra pubblicazione del Micheli (De Deo trino et uno di Gregprio Scherio)
uscita nel 1644, cioè nello stesso anno di Arismetica. Circa due anni, dunque intercorrono tra l’imprimatur e la stampa. Se si pensa agli intralci burocratici e a certi imprevisti operativi di oggi …

  

Alcuni dei personaggi ricordati compaiono insieme nel decreto principale e in quello integrativo di concessione di privilegi alla città di Napoli dopo i moti del 1646-1647 da parte del vicerè Rodrigo Ponce de León duca di Arcos (), che era il vicerè (li riproduco dall’edizione Caffaro, Napoli, 1647.

L’esame autoptico appena terminato lascia senza risposta ogni domanda relativa al suo autore, a come e per quali vie e da chi il Micheli venne contattato, l’entità della tiratura, che in ragione dell’argomento trattato dovette essere abbastanza limitata rispetto a quella di un testo di carattere religiosoi e finanche letterario, il che spiega la sua quasi unicità più che rarità, visto che al momento reperibili risultano  solo due esemplari, uno custodito presso la biblioteca dell’Universidad Complutense di Madrid e l’altro presso la Biblioteca del Banco de España.

Una cosa, però, è emersa incontrovertibilmente: Lecce, grazie ad una formazione con centravanti-capitano francese riuscì a battere in un solo incontro (!), rispettivamente in casa e fuori, l’editoria napoletana e quella spagnola.

Scianne: un toponimo neritino/sospeso tra olio e vino?

di Armando Polito

 

Non sorprenda la barra (slash per chi sa parla meglio di me), che serve a separare due decasillabi (nella mia presunzione perfetti). Il titolo in versi è l’ultimo espediente per attirare l’attenzione e già mi sto tormentando (!) ad immaginare cosa sarò costretto ad escogitare la prossima volta. Probabilmente mi impegnerò a versare ad ogni comprovato lettore la somma di sessanta (l’inflazione non va trascurata …) euro o, a scelta, il pagamento delle ultime bollette del gas e della luce (sono le più pericolose e bisogna evitare che qualcuno per farla finita si attacchi, rispettivamente, alla canna o alla presa, il che obbliga a tenerle in considerazione entrambe. Oltretutto, se dovessi essere denunziato, il mio avvocato avrebbe la possibilità di dimostrare che non sono un corruttore ma un benefattore e sicuramente troverebbe qualche giudice disposto ad accettare la sua tesi …

Bando alle divagazioni! Siccome siamo animali abitudinari, nello studiare un qualsiasi fenomeno bisogna tener conto dell’esperienza pregressa e delle regole, per quanto, come tutte, non definitive, che ne sono state tratte. Anche se a dar vita ad un toponimo possono essere i motivi più disparatI (da un caratteristica fisica del sito ad una specie vegetale che vi è o vi è stata particolarmente diffusa), per quelli riguardanti le masserie l’etimo è da ricercare anzitutto tra il nome di uno dei proprietari succedutisi nel tempo (non è detto, poi, che quello del primo sia privilegiato) o in qualche dettaglio di natura economica. Può succedere, poi, che entrambe le ipotesi siano plausibili, in assenza di prove incontrovertibili a favore dell’una o dell’altra. Scianne, a tal proposito, costituisce un esempio emblematico.

PRIMA IPOTESI

In Emilio Mazzarella, Nardò sacra, a cura di Marcello Gaballo, Congedo, Galatina, 1999 una nota (n. 67 a p. 390) del curatore si legge: “… probabilmente prese il nome da una famiglia Scianno, di cui  si ha notizia in un atto notarile del 1572 del notaio Tollemeto (c. 24v), in cui si legge: in loco dicto lo Verneo, iuxta bona Georgii Sciannu“. Sul piano strettamente teorico e metodologico, per quanto detto in premessa, l’ipotesi i appare inizialmente plausibile, ma poi non molto attendibile per ragioni storiche legate al patriarcato, per cui mi riesce difficile immaginare una trasmissione di proprietà, soprattutto di natura ereditaria, coniugata al femminile.

 

SECONDA IPOTESI

Scianne, potrebbe (anche qui il condizionale è d’obbligo ad accompagnare l’aleatorietà espressa dal verbo in sé) essere plurale di scianna (varianti: ciuvanna, giuanna, sciuanna, sciuvanna), designante il recipiente di lamiera usato un tempo nei trappeti per travasare l’olio (l’immagine è tratta da Gerard Rohlfs, Dizionario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976, v. I, p, 155).

 

La voce è deformazione di Gianna (variante di Giovanna), nome di donna utilizzato scherzosamente per dar vita a damigiana, che è notorio essere dal francese dame-jeanne (alla lettera signora Giovanna). Nonostante la damigiana faccia pensare al vino (non era è non è consigliabile conservarvi l’olio perché, essendo quest’ultimo, oggi come allora, di maggior valore economico, in caso di rottura del contenitore il danno sarebbe maggiore) l’allusione del toponimo alla olivicoltura (e non alla viticoltura) appare confermata da scianni (questa volta deformazione di Giovanni), che nel Tarantino (Manduria) scianni è il recipiente, sempre di latta, usato, sempre nei trappeti, sempre per l’olio, non per travasarlo ma per trasportarlo. Il cambio di genere del suo etimo rispetto a quello di scianna è inequivocabilmente legato alle sue maggiori dimensioni, conformemente a quanto succede, per esempio, nel caso di limba (bacile) rispetto a limbu (grande catino). Sul piano strettamente fonetico, poi, il passaggio gia->scia– è da manuale nel dialetto salentino basta citare sciardinu (giardino), sciamu (italiano letterario giamo) e, per restare nell’ambito delle masserie neritine, Sciogli, plurale del nome della famiglia Giulio, a conferma filologica della notizia storica  data al riguardo, ancora una volta, da Marcello Gaballo in  Un palazzo, un monastero: i baroni Sambiasi e le Teresiane a Nardò, congedo, Galatina, 2018, p. 70.

Ricordo poi, a proposito del trasformismo di Giovanni, che appare in buona compagnia in giampàulu (brocca di creta a bocca larga per versare il vino, che il Rohlfs registra pure per Nardò, voce che ignoravo, mentre attendo lumi da chi è in grado di dirmi qualcosa in più sull’identità dei Gianna, Giovanni e Giampaolo coinvolti nella faccenda;  e a tal proposito del vezzo tutto francese di dare, non a caso viste le forme rotonde, un nome di donna ad un contenitore del tipo in questione,  in dizionari dei secoli scorsi jacqueline e christine designano due bottiglie in grès grandi e panciute.

La recensione tra passato (Giuseppe Domenichi Fapane di Copertino) e presente (?)

di Armando Polito

 

Niente di nuovo sotto il sole, anche quello della letteratura, ma alcuni dettagli, analizzati alla luce della necessaria storicizzazione degli eventi, andrebbero comunque approfonditi. In riferimento alla parola-  chiave del titolo va subito detto che oggi, paradossalmente, una stroncatura può decretare il successo editoriale, dunque di mercato inteso nel significato più rozzo di profitto, di un’opera, come una campagna pubblicitaria furbesca, in cui non solo la recensione gioca un ruolo importante, può in un immaginario collettivo sempre più incolto e passivo, decretarne il trionfo, per quanto effimero.

Siamo un popolo che legge poco o niente ma scrive tanto, troppo, da un decennio a questa parte. E, cavalcando un diffuso ed epidemico narcisismo che si manifesta in velleità artistiche ad esibizione di un talento inesistente, capace solo di dimostrare, senza saperlo …, che c’è sempre uno più imbecille di te, sta proliferando l’editoria fai da te con presunte case editriici che fanno concorrenza ai funghi, quelli velenosi, non solo perché ne spuntano di nuove dalla mattina alla sera, ma perché, perseguendo unicamente  il profitto, sono solo imprenditrici dell’invadente sopravvalutazione di se stessi e della dilagante perdita del senso del limite.

Anche le case editrici tradizionali hanno da tempo abbandonato la finalità di promozione culturale e, a differenza di quelle appena considerate (che pubblicherebbero qualsiasi testo, anche se l’autore pretendesse che esso fosse stampato utilizzando l’estratto della sua merda), danno credito e spazio solo a titoli che, almeno teoricamente, possano avere un riscontro di vendite, ligi al risultato di indagini tese a captare il gusto presente e a prefigurarsi quello futuro, per non correre il rischio di essere bruciati sul tempo dalla concorrenza.

Torno alla recensione. Volutamente tralascio quelle orali che di regola accompagnano le immancabili presentazioni e che non di rado tradisco l’avvenuta lettura del solo titolo e notti insonni sprecate per studiare locuzioni che, per dare un’idea della profondità di un libro non letto, sprofondano nella nullità (fosse ambiguità, già sarebbe meglio ..) del significato. Da queste non differiscono quelle scritte, tra le quali colloco anche le prefazioni. Se in una sola qualcuno di voi ha mai letto qualche osservazione negativa, me la segnali. Certo che sono un grande ingenuo a credere che uno sia disposto a pubblicare un suo lavoro con una prefazione, a firma, magari, dello scemo del paese, che lo gettasse a terra e non lo elevasse al cielo. Sarò pure un ingenuo, ma capace di apprezzare, per contrasto, ciò che in passato (oggi bisognerebbe parlare di consorterie).

L’esempio che fra poco mostrerò, vecchio di 352 anni, appartiene ad un periodo in cui la letteratura encomiastica aveva uno spazio privilegiato e sfruttava tutte le risorse retoriche per celebrare i detentori del potere. Per questo era regola leggervi già nel frontespizio l’elenco dei titoli dell’autore dedicante e del dedicatario. Da quest’ultimo, naturalmente, ci si attendeva riconoscenza, se non nell’immediato o, almeno, in un futuro non troppo lontano. Anche se nessuno, a quanto ne so, ha indagato a fondo sui rapporti tra autori, editori e  politici di quel tempo, ho il sospetto, per non dire la certezza, che proprio questo o quel detentore del potere fosse una sorta di sponsor ante litteram, neppure tanto ante, se si pensa a Virgilio e all’entourage di Augusto. La libertà dell’artista, quello vero …, però, è tale da consentirgli quanto meno di allentare le pastoie del momento e di dare vita, destinata a durare nel tempo, a quei valori che tempo non hanno.

Perfino io so, dopo Virgilio, chi è Dante, ma fino a pochissimi anni fa di Giuseppe Fapane di Copertino ignoravo nome e, di conseguenza, esistenza. Poi una fortuita, fortunosa ma fortunata circostanza me lo ha fatto scoprire e sentire il bisogno di approfondire la conoscenza di un poeta che, secondo la mia modesta opinione, meriterebbe nei manuali di letteratura un posto nella foltissima schiera dei marinisti subito a ridosso dell’inventore e maestro di questa corrente. E se su questo blog tempo fa ne ho parlato genericamente1 e di recente mi sono occupato del suo nome e ho messo in risalto l’enigmista2, oggi è la volta del recensore. Gli lascio la parola dopo aver riprodotto il frontespizio del libro recensito e, da pagina non numerata, il dettaglio che qui interessa, con la solita trascrizione del testo, espediente per aggiungervi la traduzione e le note di commento.

 

Illustrissimo, et excellentis. domino Bartholomaeo de Capua, Altavillae Madno Comiti, cui Ioseph Campanile Historias Familiarum dicat. 

Iosephi Domenichi

Historias Ioseph texit: priscique Triumphos

temporis; et nostrae stemmata Parthenopes.

Haec nulli poterat scriptor monumenta dicare

quam tibi, qui Heroum vincere facta soles.

Tu Calami, et gladii superasti nomine famam;

tu Calamo, et gladio tempora clarificas.

Hinc Campanilis, pennam dat iure, columba:

ut tua gesta sones: ut sua scripta canas.

 

All’illustrissimo ed eccellentissimo signore Bartolomeo da Capua gran conte d’Altavilla, al quale Giuseppe Campanile dedica le storie della famiglie

di Giuseppe Domenichi

Giuseppe tesse le storie: e i trionfi del tempo antico e gli stemmi della nostra Partenope. Uno scrittore non avrebbe potuto dedicare queste testimonianze a nessun (altro) che a te, che sei solito superare le gesta degli eroi. Tu con la gloria della penna e della spada hai oltrepassato la fama, tu  con la penna e con la spada rendi illustri i tempi. Per questo la colomba del Campanile dà giustamente la penna, affinché tu faccia risuonare le tue gesta, affinché tu renda celebri i suoi scritti.a 

a Qui il Fapane raggiunge probabilmente l’acme nell’uso della metafora, strumento espressivo privilegiato della poesia del XVII secolo e lo fa da maestro in un pirotecnico gioco di parole, che coinvolge diversi piani, da quello puramente linguistico e, direi, filologico, a quello storico, con i relativi addentellati che partono dalla botanica per giungere alla musica e alla letteratura, per concludersi con l’esplosione finale di un’ironia arguta, ma tutt’altro che irrispettosa o dissacrante. Le parole-chiave di questa sorta di recensione (di fronte alla quale quelle di oggi dovrebbero arrossire di vergogna, non solo per i connotati formali …), coinvolgente in un solo magistrale colpo dedicante e dedicatario, sono:

1) calami del quinto verso e calamo del sesto, rispettivamente genitivo e ablativo di calamus, trascrizione latina del greco κάλαμος (leggi càlamos), che dal significato originario di canna è passato a quelli traslatoi di flauto  (basta fare una serie di buchi su una canna), zampogna (le canne, insieme con l’otre, ne costituiscono i componenti), penna da scrivere (canna tagliata trasversalmente), canna da pesca (si raccomanda di montare il filo, su questo l’amo e di collocarvi l’esca …), canna da misura. Nei versi in questione la voce ha il significato di penna da scrivere.

2) Campanilis del penultimo verso. Qui bisogna partire dall’italiano  campanile, forma aggettivale derivata dal latino latino tardo campana, a sua volta abbreviazione della locuzione vasa campana=vasi campani. Dunque, qui campanilis (genitivo di un nominativo neutro campanile plausibilmente inventato, perché in latino non è attestato ma la formazione è corretta) vale come nome comune ma anche come latinizzazione del cognome dell’autore del libro. Tra l’altro, anche se nella produzione barocca gli autori, se avessero potuto farlo, avrebbero scritto in maiuscolo pure le virgole, la voce in questione, proprio a servizio del detto valore ambiguo, è stata, volutamente, collocata all’inizio.

3 columba, sempre nel penultimo verso,  può essere alla lettera la colomba del campanile ma, per traslato, pò simboleggiare il volo poetico del letterato Campanile.

4 pennam, accusativo di penna che in latino significa solo piuma, ala e non è mai attestato nel senso di penna da scrivere, come in italiano, dove, addirittura può sostituire scrittore (una buona penna).Tuttavia qui per una sorta di proprietà transitiva o, se si preferisce, di ragionamento sillogistico applicato alla poesia, per quanto detto nelle due note precedenti, in particolare nelle ultime due, la penna intesa come piuma della colomba del campanile, una volta che tale colomba si identifica col Campanile, diventa il noto strumento per scrivere.

 

Quale recensore di oggi, ammesso che per assurdo fosse capace di mettere insieme non distici elegiaci (tanto, chi li capirebbe?…) ma due endecasillabi in un italiano corretto condito dalla raffinata ironia del Fapane? Me lo chiedo, anche se non sono tanto ingenuo da ritenere apprezzabile il numero di coloro che sarebbero in grado, non dico di capirli, ma, almeno, di leggerli correttamente …

______________________

1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/13/copertino-un-suo-figlio-marinista-giuseppe-domenichi-fapane/

2 https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/04/06/lenigmatico-enigmista-di-copertino-1-2/

 

L’enigmatico enigmista di Copertino (2/2)

di Armando Polito

Dimostrerò ora come in Giusepp il talento poetico fosse in grado di andare oltre le metafore, ingrediente caratteriizante tutta la produzione barocca, coniugando abilmente la finalità encomiastica (caratteristica anch’essa tutt’altro che secondaria della cultura di quell’epoca) col divertissement. Nella fattispecie il gioco enigmistico è l’anagramma numerico.

Chi legge avrà senz’altro incontrato almeno una volta la forma più corrente, quella alfabetica,  che, com’è noto, consiste nell’utilizzare i fonemi di una parola di partenza per dare vita, disponendoli in diverso ordine, ad un’altra parola di senso compiuto. uno degli esempi più banali sarebbe il caso di Roma/amor, ma, volendosi complicare la vita, non ci si deve lasciar sfuggire pure ramo, mora, orma, Omar e (tronco come amor) arom, senza far torto, a questo punto, a marò; e poi, per chi è masochista, perché non pensare di inserire le quattro parole in un componimento in rima, senza trascurare, magari, la polisemanticità di mora (donna bruna/frutto del rovo/ritardo)? Oggi, se vuoi fare qualcosa del genere, c’è il pc che ti fornisce tutti gli anagrammi della parola (o delle parole, in tal caso si parla di frase anagrammata) che gli hai digitato.

Spetta poi a te tra tutte le parole proposte quelle che più si adattano al contesto che vuoi creare. Troppo complicato? Se per qualcuno  è così, fra poco ci sarà l’ IA (acronimo di Intelligenza Artificiale o di Idiozia Acquisita?) alla quale non sfuggirà certamente la possibilità di tener conto degli acronimi, sovente impronunciabili, che si saranno aggiunti alla miriade di quelli esistewnti, noti e pure registrati. E così, per tornare al nostro esempio, potranno essere utilizzati MRAO (Mirabile Raccolta Rifiuti Ospedalieri), RMAO (Retribuzione Misurata A Orario), lasciando alla fantasia del lettore il compito di anticipare lo scioglimento di MRAO, MROA, MAOR, OMRA e ORAM. Mentre i solenni soloni della UE, dopo aver meticolosamente valutando i rischi connessi con l’IA hanno disposto gli adeguati provvedimenti (a tutti “raccomandazioni” senza sanzioni, all’Italia imposizioni e processi per infrazione), l’IA sarebbe già ora in grado pure di mettere in rima gli impronunciabili acronimi di cui sopra, destinati, come gli altri, a competere  con i grugniti, con ogni possibile rispetto per i porci, che saranno l’unico linguaggio comprensibile per un’umanità sempre più, irreversibilmente , decerebrata.

C’è da giurare  che nessuno sarà in grado di anagrammare una parola di quattro fonemi (magari l’impotenza si limitasse a questo!), figurarsi se dovesse cimentarsi, magari in una sfida con se stesso, in un anagramma numerico , del quale il copertinese ci fornisce tre esempi (i primi due sono in Castaliae stillulae). Esso consistente nel costruire due frasi con parole dalle lettere diverse assegnando ad ognuna di esse un valore numerico (nel nostro caso ogni lettera assume quello corrispondente al suo posto nell’alfabeto), in modo tale che la somma dei valori delle prima frase coincida con quello della seconda.

Come se non bastasse, entrambi gli anagrammi del Fapane sono seguiti da una dedica in distici elegiaci che funge da commento esplicativo dell’anagramma. Mi auguro che la mia traduzione  e le relative note riesca a far comprendere anche al lettore digiuno di latino la difficoltà di dar vita ad un gioco enigmistico più complicato del solito con esiti così felici.

Il primo è dedicato a Cesare Miraballo, principe di Castellaneta e marchese di Bracigliano. A seguire la trascrizione del testo:

Prima di passare alla traduzione faccio notare (tramite le due sottolineature aggiunte,che nessuno, nemmeno il Fapane, è perfetto. Pure lui è stato costretto da ragioni metriche a far seguire al Caesar (forma corretta) iniziale il successivo Cesar (formalmente scorretto, anche se ricalcante la pronuncia ecclesiastica). In fatti la conservazione del dittongo ae, lungo per natura, sarebbe stato inconciliabile con la struttura del verso.

Don Cesare Miraballo principe di Catellaneta

O fulmine che si abbatte sulle arni dei Gallia

Se desideri conoscere l’Augusto dei tempi antichi, già redivivo c’è ai nostri giorni. Colonna di virtù, a nessuno secondo per sensibilità, amore della religione, onore della nobiltà. chi è tuttavia costui? Il nome mostra prodigi in guerra, è colui al quale la fama è minore del nome, questo è maggiore. Cesare splendente in entrambi i campi, nella spada e nella penna, sia che risuonarono le trombe, sia le lire. Ma numerando le lettere avrai un presagio più grande, Bagliori ai nomi, nomi ai bagliori. Sia che cosa? O fulmine che si abbatte sulle armi dei Gallia. Ciò è di Giove, da qui Cesare, tu sarai più grande di Cesare.

a Allude alla strage di Francesi che al comando del duca di Guisa nel 1654 aveva tentato di conquistare Torre Annunziata difesa pure da Cesare Miroballo.

Passo al secondo anagramma, dedicato a Geronimo De Choris, che fu vescovo di Nardò dal 1656 al 1669.

Anche qui, prima di tradurre traduziome, faccio notare come il Fapane, sempre per motivi metrici, è stato costretto a sopprimere la preposizione de che precede Choris. Infatti essa, sillaba lunga, sarebbe stata inconciliabile con la struttura del verso. Inoltre, per quanto riguarda la parte numerica, il 135 suppone un errore di stampa (o frutto di una piccola distrazione dell’autore) nella corrispondente sezione grafica (D. Hieronimus), nella quale D. (abbreviazione epigrafica di Dominus) va emendato in Dn (altra abbreviazione epigrafica di Dominus, al pari di DNS e di DNUS . Così il totale della sezione è 135 e non 123, quale risulterebbe senza l’emendamento.

All’Illustrissimo Signore Don Geronimo De Choris senese già vescovo di Nardò anagramma numerico

Don Geronimo De Choris

Egli (è) il vescovo di Nardò

Bisognava trovare un pastore che pascesse benevolmente con la dolcezza dell’amore il gregge di Nardò, Alessandroa valuta: alla fine assegna a te l’onore, poiché tu sei autorevole con la devozione, devoto con l’autorevolezza. Ma quale motivo d’indugio c’era? Il volere divino mostrava il nome e se conti bene i presagi tuttavia sono noti. Geronimo De Choris Egli è vescovo di Nardò. Non basta solo che il responso l’abbia dichirato piuttosto chiaramente, ma sotto il nome si nasconde una volontà divina più grande e Geronimo è vicino alla porpora della quale è assai degno di essere decorato. Allora è questo il destino di Nardò; e se una forza raddoppiata potentemente si dedica all’opera, che rimane da succedere?

a Papa Alessandro VII.

Il terzo anagramma numerico è in Giuseppe Battista, Delle giornate accademiche, Combi & La Noù, Venezia, 16733, p. 305.

Prima di pasare alla traduzione, faccio notare che i due totali qui non coincidono. Si tratta di un errore di stampa in quanto Iosephus ha comecorrispondente numerico 102 e non 202.

Don Giuseppe Domenichi

Anagramma numerico

 

Don Giuseppe Battista da Grottagliea

Per gli dei Orfeob del nostro tempo

 

a  Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/01/12/leruzione-del-vesuvio-del-1631-nella-poesia-di-un-salentino-e-di-un-napoletano-con-una-sorpresa-finale/

b Persnaggio della mitologia greca, in grado di ammaliare col suono della sua lira gli animali e tutta la natura-

Lavorando un po’ di fantasia e mettendomi nei panni del Fapane, mi sono chiesto quale anagramma numerico avrebbe creato in onore di Copertino. Per evidentidenti ragioni cronologiche non avrebbe poturto  sfruttare il riferimento prima al santo dei voli e poi alla città californiana    (vedi      ) . Improvvisamente, però, mi son sentito afferrare la mano e guidare le dita sulla tastiera del pc a digitare quanto segue:

Chi avrebbe mai potuto immaginare

che tutto si sarebbe combinato

perché alla storia fosse consegnato

il nome tuo che già era rinomato?

Lo era già per il tuo Giuseppe santo,

di studenti e aviator provvido manto,

ma bisognava a completar l’incanto

che internazional diventasse il vanto.

Il millesettecentoseantasei eraa,

quando fra’ Pedro, giunto alla frontiera

di California, a mane o forse a sera,

senza piantare ombra di bandiera,

a un fiume che scorreva pian pianino

senza esitare, fattosi vicino,

della culla del santo salentino

gli diè lo stesso nome: Cupertino.

passaron gli anni e una città vi sorse.

Preveder nemmen san Peppino forse

potuto avrebbe quel che ieri occorse

con Silico valley e le sue risorse.a

a Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/04/02/s-giuseppe-da-copertino-1603-16639-in-due-ulteriori-testimonianze-della-sua-internazionalita/

Al lettore che dovesse accusarmi di aver aggiunto ai due espedienti dei quali ho detto all’inizio della prima pare, un terzo, quello della dissacrazione, voglio solo dire, com ampia possibilità di replica, per quanto mi riguarda sempre graditissima, che l’ironia e il sarcasmo, anche dissacranti, nascondono più amore e rispetto di quelli esibiti da tante ipocrite santificazioni.

 

PER LA PRIMA PARTE

https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/04/06/lenigmatico-enigmista-di-copertino-1-2/

 

 

L’enigmatico enigmista di Copertino (1/2)

di Armando Polito

 

Dichiaro senza vergogna di aver voluto ricorrere fin dall’inizio a due espediente che, soprattutto il primo,  io stesso, s ho stigmatizzato  ripetutamente  su questo blog e non solo: il titoli “sparato” e la diluizione in più puntate, per attrarre il lettore impegnato pure nell’attesa speranzosa del prosieguo se l’inizio non lo avesse entusiasmato, stimolandone la curiosità, che può essere animata dai più disparati interessi, tutti astrattamente connessi al teoricamente nobile fine della conoscenza oscillante, però,  da quella dell’ultimo amorazzo del vip di turno, a quella di un’opera letterario degno di questo nome.

Perciò, se avessi scelto un titolo diverso, avrei perso l’occasione di tentare di dare il giusto rilievo ad un salentino il cui nome stranamente non è citato nei manuali di letteratura italiana nella schiera, pur folta, dei poeti marinisti, nella cui ammucchiata il letterato di Copertino avrebbe meritato, secondo me, di occupare un posto appena appena a ridosso del caposcuola Giambattista Marino.

Anzi, se la qualità fosse direttamente proporzionale alla quantità, Giuseppe Domenichi Fapane  non avrebbe rivali con i suoi epigrammi di Castaliae stillulae1, opera in sei volumi, pubblicati il primo nel 1654, l’ultimo nel 1671, per un totale di ben 1770 pagine, senza calcolare le mon poche non numerate.

Si tratta di un’opera rara (e da questo potrebbe esser dipeso il disinteresse degli studiosi) e gli esemplari per ciascun volume si contano sulle dita di una sola mano. Addirittura del sesto libro, dal quale ho tratto il gioco enigmistico che presenterò a breve, esisterebbe una sola copia custodita nella Biblioteca comunale “Achille Vergari” di Nardò , la cui esistenza, insieme con quella del secondo, pure l’OPAC mostra di ignorare. Quegli stessi appunti a suo tempo presi, che qualche anno fa mi consentirono di riesumare la memoria di questo figlio del Salento2, mi danno oggi la possibilità di chiarire il significato di enigmatico e di enigmista dominanti nel titolo.

Dell’enigmista tratterò nella seconda parte e dico preliminarmente che enigmatico è usato impropriamente per esigenze del titolo sparato, anche se in realtà rientra nella figura retorica dell’ipallage, per cui il mistero non riguarda la personalità del nostro ma solo il suo nome e cognome.

Ma, se ho già scritto Giuseppe Domenichi Fapane, non è evidente che il cognome del copertinese consta di due elementi? Nei manoscritti di una stessa opera, è cosa arcinota,  le varianti e la collazione, cioè il confronto, serve per la scelta della forma più attendibile, che teoricamente dovrebbe essere quella del manoscritto più antico, ma non sempre la teoria trova corrispondenza nella pratica. Lo stesso mi accingo a fare con l’autore di Castaliae stillulae, sfruttando, proprio il titolo completo che si legge nel frontespizio (riprodotto nel secondo link di nota 2) e che di seguto trascrivo:

Castaliae stillulae quingentae quae sextum rivulum Permessi conficiunt hoc est epigrammaton Iosephi Domenichi Fapane à Cupetino (Cinquecento gocce di poesia che formano il sesto affluente del Parnasso [fiume sul monte Elicona sacro alle Muse], ciòè degli epigrammi di Giuseppe Domenichi Fapane da Copertino). Questa prova schiacciante (quasi un autografo, più avanti ne vedremo un altro) del doppio cognome, trova conferma  nella lettera indirizzata da Antonio Muscettola ad Angelico Aprosio, custodita nella Biblioteca dell’Università di Genova (Ms. E.IV.14, Muscettola Antonio), che di seguito riproduco, mettendo in rilievo con la sottolineatura il dettaglio e trasctivendone la parte che ci interessa.

 

Appena giunto in Napoli, mi sono accinto a servir Vostra Paternità e perché so quanto le siano care le lettere degli amici, ho dolcemente violentato il nostro Battista, il Crasso, a risponderle, come vedrà dall’incluse. In quanto alle notizie per l’Atene Italica, speriamo mandargliene a dovizia. Per Giuseppe Domenichi, tutte l’opere sue sono stampate in octavo. La parte prime in Lecce appresso Pietro Michiele l’anno 1654 da lui dedicata alla Maestà d’Apollo. La seconda in Napoli presso Luca Antonio de Fusco, 1658 all’illustrissimo don Giovanni Vargas. La terza in Padova per Paulo Frambotto ad Alomso Vargas Principe di Carpino, Duca di Cagnano. Con questo la riverisco ..

La citazione del 1658, data di pubblicazione del terzo libro, ci consente di collocare cronologicamente la lettera tra dopo il 1659 (data in cui uscì il terzo libro).  Importante, ai fini di questa indagine, è il fatto che i precedenti citati Battista e Crasso sono cognomi (con i rispettivi nomi di Giuseppe e Lorenzo) e sarebbe strano che Domenichi non fosse la prima parte di un cognome.

A questo si aggiunga che in tutti i componimenti del nostro non facenti parte di Castaliae stillulae  e pubblicati sparsamente in altre raccolte di vari autori coevi (una sorta di antologia è nel primo link segnalato in nota 2, ma i successivi non pochi rinvenimenti mi hanno convinto dell’opportunità di un aggiornamento, che fornirò a breve) compare sempre Giuseppe Domenichi e l’assenza di Fapane dà la certezza che Domenichi era il cognome, anche se è poco probabile che, a questo punto un po’ di ironia non guasta (come, spero, quella che evoca l’ambientazione della vignetta della prossima seconda e ultima puntata, alla cui lettura nessuno vorrà rinunciare …), che Fapane fosse il soprannome legato all’attività di fornaio esercitata non da lui ma da qualche antenato.

E ppure, nonostante questo, le varianti, sia pure di epoca posteriore, non mancano.

In Nicola Toppi. Biblioteca Napoletana, 1678 a p. 172 si legge Giuseppe Domenico Fapano (sic!), più avanti (p. 245) Domenichi Giuseppe, che infine nell’indice generale (s. p.) diventa Fapane Giuseppe Domenichi.

In Domenico De Angrelis, Le vite de’ letterati salentini, parte prima, s. n., Firenze, 1710: nella parte finale, pagina non numerata, dell’elenco dei letterati che l’autore  si riprometteva di trattare nella prima parte di Istoria de’ scrittori salentini, opera che mai vide la luce, si legge Giuseppe Domenico Fapane.

In Giovanni Bernardino Tafuri, Serie cronologica degli scrittori nati nel Regno di Napoli in Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici a cura di Angelo Calogerà, tomo XVI, Venezia, Zane, 1738,  p. 206:  Giuseppe Domenichi Fapane.

In Camillo Minieri Riccio, Notizia delle accademie istitute nelle provincie napolitane,  in Archivio storico per le province napoletane, anno III, fascicolo I, Giannini, Napoli, 1878, p. 294: Giuseppe Domenichi Fapane.

In Napoli nobilissima, volume XIV, fascicolo II, s. n. Napoli, 1905, p. 27: Giuseppe Domenichi Fapane.

In Michele Maulender, Storia delle accademie d’Italia, Cappelli, Bologna, 1930, p. 10: Giuseppe Domenichi Fapane.

In Luisa Cosi e Mario Spedicato, Vescovi e città nell’epoca barocca, Congedo, Galatina, 1995, p. 122: Giuseppe Domenico Fapane.

 In Dizionario biografico degli uomini illustri di Terra d’Otranto a cura di a cura di Gianni Donno, Alessandra Antonucci e Loredana Pellè, Lacaita, Manduria, 1999: Giuseppe Domenichi Fapane.

In Antonio e Ferdinando Sanfelice: il vescovo e l’architetto a Nardò nel primo Settecento a cura di M. Gaballo, B. Lacerenza e F. Rizzo, Congedo, Galatina, 2003, p, 12: Giuseppe Domenico Fapane.

In Le antiche memorie del nulla a cura di Carlo Ossola, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 2007, p. 91: Giuseppe Domenico Fapane.

Dalla collazione, lasciando da parte il Toppi che con le sue tre varianti, soluzione diplomaticamente irresponsabile, mostra, facendo onore non al cognome del copertinese ma al suo, di aver toppato, risulta che merita attenzione il Domenico del De Angelis. Egli mostra di intenderlo come traduzione del Domenichi del titolo del libro del copertinese. Anche se la forma latina di Domenico è Dominicus (il cui genitivo è Dominici) sono attestate fin dal secolo XIV le varianti Dominichus  (con genitivo Dominichi) e Domenichus (con genitivo Domenichi). Da questo probabilmente è nato il Domenico del letterato leccese contro il Domenichi che abbiamo visto ricorrere puntualmente nella cronologia a lui precedente.

C’è da aggiungere, dettaglio non secondario, che sicuramente la maggior parte della vita, come tanti letterati del suo tempo, il Fapane la trascorse lontano da Copertino e che i rapporti stretti con l’ambiente napoletano, del quale il Muscettola della lettera è uno dei rappresentanti, come tutti napoletani sono gli altri letterati (Giuseppe Campanile, Baldassarre Pisani, Tommaso di S. Agostino e Pietro Casaburi Urries, per loro vedi il primo link di nota 2), tutti suoi contemporanei,  che lo ricordano come Giuseppe Domenichi Fapane.

E, a dare poca credibilità al Giuseppe Domenico Fapane del salentino De Angelis c’è il Giuseppe Domenichi di un altro letterato salentino, Giuseppe Battista di Grottaglie (pure per lui vedi il link appena segnalato), contemporaneo del copertinese e posteriore, dunque, al De Angelis. Appare credibile che essi abbiano concordemente propalato un dato fasullo? Fuori gioco, per quanto prima detto, resta il Toppi che, pur essendo nato a Chieti, trascorse la parte più significativa della sua vita a Napoli, dove morì.

Se il Domenichi del frontespizio di Castaliae stillulae (al pari di Iberi fulminis scintilla breuia poemata. D. Iosephi Domenichi Phapanis a Cupertino. Poetae, et academici furibundi, Micheli, Lecce, 1654) continua a lasciare qualche dubbio, la pistola ancora fumante il valore di cognome di Domenichi la offre il frontespizio della terza ed ultima opera pubblicata autonomamente (le altre due sono quelle che avevo appena citato), quasi una seconda (non nel senso di alternativa) firma, dopo la prima di Cataliae stillulae.

Si tratta di Musarum lessus in obitu. Iosephi Baptistae. À Iosepho Domenichi, Cavallo, Napoli, 1675  (Il pianto delle Muse in morte di Giuseppe Battista. Da Giuseppe Domenichi). Se Domenichi fosse stato nome, avremmo letto,  À Iosepho Domenico(o, al limite, Domenicho) e, oltretutto, l’assenza di Fapane conferma la natura di cognome di Domenichi.

La demolizione dell’enigmatico del titolo è stata completata. Mi auguro che la mia fatica serva almeno ad apportare la dovuta correzione almeno ai due cataloghi considerati un punto di riferimento3. Appuntamento a breve con l’enigmista.

 PER LA SECONDA PARTE: https://www.fondazioneterradotranto.it/2024/04/11/lenigmatico-enigmista-di-copertino-2-2/?fbclid=IwAR2yAqYaB2OHfEgOBZY0aVSLPaS50ZeoMPekSFlAr038FV3xbcvMRbRXEqw_aem_Abye8qV6DFwRycNFNi1GZHgU31caxiAQ7ngnk1y-OQcvDNVZtM29dgZ_rJSxnmkbPkUV7YRp4viTJEBdb_eJ_r9L 

_________________________

1 Traduzione: Gocce di poesia. Castalia è una fonte che prende il nome da quello della ninfa che in essa si gettò per sfuggire alla libidine di Apollo. Secondo una variante del mito fu Apollo a trasformarla in fonte conferendo alle sue acque il potere d’infondere ispirazione poetica a chi avesse bevuto le sue acque.

2 https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/13/copertino-un-suo-figlio-marinista-giuseppe-domenichi-fapane/ 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/04/26/galeazzo-pinelli-il-marchese-fatuo-di-galatone-nella-celebrazione-di-giuseppe-domenichi-fapane-di-copertino/

 

3 https://opac.sbn.it/risultati-ricerca-avanzata?fieldstruct%5B1%5D=ricerca.parole_tutte%3A4%3D6&struct%3A1001=ricerca.parole_almeno_una%3A%40or%40&fieldvalue%5B1%5D=Domenichi+Fapane&fieldaccess%5B1%5D=Keywords%3A1016#1712050322253

https://www.beweb.chiesacattolica.it/benilibrari/libro/859871116/Castaliae+stillulae+trecentae%2C+quae+quintum+riuulum+permessi+conficiunt.+Hoc+est+epigrammaton+Iosephi+Domenichi+Phapanis+a+Cupertino+liber+quintus#action=ricerca%2Frisultati&view=griglia&locale=it&ordine=&ambito=XD&liberadescr=Castaliae+stillulae&liberaluogo=&highlight=Castaliae&highlight=stillulae

 

S. Giuseppe da Copertino (1603-1663) in due ulteriori testimonianze della sua internazionalità

di Armando Polito

Del tema mi ero occupato qualche anno fa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/18/s-giuseppe-da-copertino-e-un-inno-del-xviii-secolo) e questo post vuole essere un’integrazione, soprattutto per la parte americana,  di quanto allora ebbi occasione di riportare a più riprese.

La sapienza antica aveva sentenziato Faber est suae quisque fortunae (Ognuno è l’artefice della propria sorte), ma, pur condividendo il concetto in essa compreso della responsabilità personale, mi sembra ingiusto attribuire quest’ultima sempre e comunque, magari anche alla memoria, ad ogni essere umano, sia nella buona che nella cattiva sorte, poiché fattori vari, casuali e imprevedibili possono intervenire anche post mortem in un senso o nell’altro. Questo vale anche per i beati e i santi, compreso il figlio di Copertino. Se, per esempio, il missionario frate francescano Pedro Font nel 1776 non avesse accompagnato, per giunta anche nel ruolo di cartografo, Juan Bautista de Anza nella sua spedizione e non avesse chiamato un fiume da loro incontrato arroio de san José  de Cupertino (di seguito la targa del 1968 che ricorda l’evento), oggi la città californiana avrebbe un altro nome e un santo non sarebbe restato coinvolto, a sua insaputa, nel fenomeno, spesso tutt’altro che santo o, quanto meno incruento, dell’esplorazione, prima tappa della colonizzazione e, poiché l’appetito vien mangiando e il cattivo esempio ispira sempre emulazione, del colonialismo, fenomeno antichissimo, che oggi si manifesta con modalità sempre più sofisticate e subdole, di cui sono interpreti privilegiate multinazionali che all’agricoltura sottraggono non solo braccia ma terreni su cui installare impianti di produzione di energia alternativa a quella di origine fossile, in primis la fotovoltaica, in cui il silicio la fa da padrona (e Cupertino è nel territorio della Silicon Valley, anche se oggi è la Cina a dettar legge), con l’ipocrita quanto criminale intento di cavalcare i timori per la salute dell’ambiente ai fini di un sempre maggiore profitto, con la connivenza, ancor più criminale, di governi (come il nostro con gli ultimi provvedimenti in materia del decreto semplificazioni) preoccupati solo, da decenni a questa parte, di mantenere, se non consolidare, il potere sciacquandosi la bocca con la parola democrazia e cercando il consenso con generiche promesse e comodi ammiccamenti.

This arroyo honoring San Joseph, patron saint of flight and students, was first discovered and traversed by Spanish explorers in 1769. On March 25-26, 1776 Colonel Juan Bautista de Anza made it his encampment n. 99 as mapped by his cartographer Padre Pedro, before continuing on to the San Francisco Bay Area where he initiated steps to found a colony, a mission and a presidio.

California reistered historical landmark nu. 800

Plaque placed by the state department of parks and recreation in cooperation with the Cupertino historical society inc. may 29 1968 

(Questo fiume in onore di San Giuseppe, santo patrono del volo e degli studenti, fu scoperto e attraversato per la prima volta da esploratori spagnoli nel 1769. Il 25 e 26 marzo 1776 il colonnello Juan Bautista de Anza ne fece il suo accampamento n. 99, come mappato dal suo cartografo Padre Pedro , prima di proseguire verso l’area della Baia di San Francisco dove iniziò i passi per fondare una colonia, una missione e un presidio. Targa posta dal dipartimento di stato dei parchi e delle attività ricreative in cooperazione con la Cupertino  historical society incorporation 29 maggio 1968)

Se al santo nessuna responsabilità va in questo caso ascritta, al beato, invece, va riconosciuto il merito di una notorietà che, prima ancora di approdare nella modalità che abbiamo visto in America, si era già manifestata, comunque ben oltre i nostri confini, come mostra, oltre a quanto segnalato col link iniziale, il frontespizio, di Diarium seu tractatus asceticus, quo novitii actiones suas diurnas rectificare docentur1 di Benedetto Sigl, uscito per i tipi di Enrico Ignazio Nicomede Hautt a Lucerna nel 1761 (segue il frontespizio).

Le pp. 358-366 sono dedicate al nostro (di seguito la 358).

PICCOLO RITO DEL BEATO GIUSEPPE DA COPERTINO

AL MATTINO

 

O Signore, aprirai le mie labbra       versetto 17° del Miserere

e la mia bocca rcconterà la tua lode.

Dio, in mio aiuto etc. Gloria al Padre ertc.

Inno

O Giuseppe, ornamento,

luce e decoro dell’Ordine!

Tu già dal fiore dell’età

ciò che separa da Dio

lo espellesti competamente

dal tuo grande cuore .

Il candore della tua vita

era noto solo a Dio.

Tu scegliesti Maria,

perché allora ti difendesse,

mentre cerca di inghiottirti

lo spirito infernale.

Antifona

Chi ha perso la sua vita per me, la troverà.

Prega per noi, Beato Giuseppe,

affinché siamo resi degni etc.

_______________

1 Diario o trattato ascetico dal quale i novizi sono edotti a correggere le loro azioni quotidiane.

 

Seclì e un suo figlio dimenticato del secolo XVII

di Armando Polito

La vita è molto strana. È toccato proprio a me, laico fino a tal punto da considerare tutte le religioni come favolette consolatorie e illusioni nemmeno tanto pie, viste le guerre che ancora oggi scatenano, di imbattermi casualmente nel personaggio genericamente evocato dal titolo ma che ora specifico appartenere alla sfera ecclesiastica. Nello sfruttare per ricerche di altro tipo le immense risorse della rete ho acquisito un dato che ho ritenuto meritevole di essere partecipato ad altri. Forse qualcuno ha colto in quel dimenticato del titolo una nota di rimprovero. Non è così, ho solo voluto approfittare di una fortuita quanto fortunata circostanza per colmare una lacuna  che nella ricostruzione del passato è sovente legata alla maggiore o minore importanza, reale o presunta, attribuita ad un personaggio, concetto che ribadirò nella domanda finale.

Se, infatti, sono ben note le figure di altri figli di Seclì del XVII secolo, quali Padre Francesco e Suor Chiara1, di Padre Marcellino nulla sapremmo se non fosse possibile leggere la sua biografia in un libro  del 17322, che è, credo, l’unica fonte per chi abbia voglia e tempo di saperne di più. Anzi, alla riproduzione del frontespizio faccio seguire quella delle poche pagine coinvolte (184-186).

Abbastanza scontato è il repertorio di dettagli che ne esaltano le virtù e, purtroppo, l’unica data riportata è quella della morte avvenuta il 26 ottobre 1702 all’età di 65 anni, dato che consente di collocarne la nascita al 1637.  ll titolo Venerabile Servo di Dio che si legge all’inizio fa pensare ad un processo canonico di beatificazione già avviato. Se è legittimo pensare che alla data del libro non si fosse concluso, sarebbe interessante conoscerne l’esito. A costo di essere accusato di maliziose allusioni chiudo lasciando al lettore l’adesione, la contestazione o l’indifferenza che suscita la domanda: se Padre Marcellino avesse pubblicato qualcosa, avrebbe avuto la notorietà di Padre Francesco e, se fosse disceso da nobili lombi, la sua biografia avrebbe avuto l’estensione di quella di Suor Chiara, scritta in ben quattro tomi (di seguito il frontespizio del primo) da Francesco Maria Severino (de’ Duchi di Seclì, Conte di Tamarano, come si legge nella dedica)?

_____________

1 Il primo (1585-1672), teologo, fu autore molto prolifico:

Paragone spirituale, Giacomo Gaidone, Bari 1634

Viaggio di Gierusalemme nel quale si have minuta, e distinta notitia delli Santi Luoghi, Pietro Micheli, Lecce, 1639

Discorso, e conchiusione, che la religione futura de’ catenati profetizzata dal padre frat’Ugone da Dina, e la congregatione futura de’ Cruciferi di Giesu Cristo, profetizzata da Santo Francesco da Paola, Pietro Micheli, Lecce, 1670

Regola e vita, che denno osseruare li fratelli della congregatione de’ catenati nouellamente eretta nella diuotissima citta di Gallipoli, Pietro Micheli, Lecce, 1670

Paradiso terrestre del molto reuerendo padre fra Francesco da Secli. Trattato breue, non men dottrinale, che curioso, nel quale si proua con autorita, che detto luogo durera sino al giorno del Giudicio, e che hoggi e nell’istesso essere, mel quale in principio fu piantato dal mistico agricoltore, Dio, Pietro Micheli, Lecce, 1671

Suor Chiara (1618-1693), al secolo Isabella D’Amato, era figlia del duca Francesco e della marchesa Caterina D’Acugno, feudatari di Seclì e Temerano.

2 Arcangelo da Montesarchio, Cronistoria della riformata provincia di S. Angiolo in Puglia, Mosca, Napoli, 1732.

Seclì: il suo abitante si chiama “seclioto”?

di Armando Polito

 

Se c’è un campo di formazione delle parole in cui regna l’anarchia ed è tutt’altro che agevole individuare la paternità, è quello degli etnonimi. Le differenze spesso sono sottilmente legate a vicende storiche intrecciantisi con evoluzioni fonetiche e suggestioni semantiche, il che, innocente all’inizio, finisce per assumere una valenza dispregiativa, se non razzista.

Per esempio: italiota, usato per stigmatizzare certe caratteristiche negative riguardanti non pochi italiani, prima fra tutte l’insofferenza per le regole. La voce è da ᾿Ιταλιώτης (leggi italiotes), con cui i Greci indicavano più di due millenni e mezzo fa il connazionale delle colonie dell’italia meridionale; Σικελιώτης (leggi sicheliotes) per il colono di Sicilia), da cui siceliota o siciliota o sichelota.

Ho sentito più di un ignorante, anzi idiota (per lui sì, il suffisso –iota assume valore dispregiativo …) usare italiota con gratuita allusione dispregiativa ai meridionali. Debbo, tuttavia, dire che anche il campanilismo locale con lo stesso intento ha sfruttato, forse inconsapevolmente, un altro suffisso greco (-ιάτης, leggi –iates): Nardiati per gli abitanti di Nardò, Sichiliati per quelli di Seclì.

Queste due forme (che sembrano, lasciando da parte il suffisso greco, participi passati di verbi fantasiosamente pittoreschi ed icastici da usare quasi come un marchio a fuoco; per Seclì, inoltre, la costruzione è avvenuta sulla forma dialettale Sichilì) hanno avuto pure l’onore della citazione in Miscellanea Giovanni Mercati Studi e testi 126, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano, 1946, p. 520.

Tornando a Seclì: non so chi abbia inventato seclioto, che è l’unica forma registrata da un vocabolario per l’italiano indubbiamente affidabile tra quelli fruibili in rete perché della stessa matrice di quelli per il latino e il greco che, per l’uso continuo che ne faccio, ho avuto modo di apprezzare (https://www.dizionario-italiano.it/dizionario-italiano.php?lemma=SECLIOTO100).     

Seclioto utilizza chiaramente il suffisso greco e questo ci può pure stare poiché strettissimi sono i rapporti di Seclì con la cultura greca, in particolare bizantina. L’inventore di questa forma, però, ha rovinato tutto il suo dotto procedere italianizzando il suffisso greco mediante la sostituzione di a finale con o in funzione distintiva rispetto a un femminile secliota, come se italiota fosse femminile di un inesistente italioto e non bastasse nel riconoscimento del genere il semplice articolo: il secliota/la secliota. Unica eccezione alla regola, ma sconsiglio di usarla come giustificazione …,  è l’italiano antico idioto per idiota, che, non a caso, è dal latino idiota(m), a sua volta dal greco ἰδιώτης (leggi idiotes).

Disperata impresa sarebbe quella di individuare la data di nascita di seclioto, anche se questa difficilmente servirebbe ad individuarne l’autore. Con il pur formidabile aiuto dei motori di ricerca non son riuscito ad andare più indietro del 10-8-1998, come mostro nel dettaglio tratto dalla Gazzetta ufficiale Serie generale n. 185 di quella data.

Oltretutto rimane un dubbio: se non si fosse trattato di una società ma di un ristorante avremmo letto ristorante Il secliota o Il seclioto?

A questo punto qualcuno potrebbe ironicamente dirmi: – Dottor sottile, quale sarebbe la sua proposta? Non sa che la lingua la fanno i parlanti? -.

Rispondo prima all’ultima domanda, perché ciò che dirò è funzionale rispetto alla risposta che darò alla prima.

È incontrovertibile che la lingua la fanno i parlanti (tutti), ma sarebbe ora che anche gli scriventi (non tutti, me, forse, compreso) avessero voce in capitolo, con la funzione di filtrare e depurare la lingua parlata dalle eccessive libertà che essa da sempre ha il diritto di prendersi. E per questo non è necessario essere un novello Dante o Petrarca o Boccaccio, basta aver coltivato lo spirito critico, quello che motiva le sue sentenze …, ed avere un minimo di buongusto e di buonsenso.

Passo alla seconda risposta. Ho già dimostrato come il creatore di seclioto abbia perso l’occasione di coniugare il ricordo della storia col rispetto della grammatica e, in riferimento a italiota (e non italioto), dell’analogia. E proprio da questa muoverò per quelle che a me sembrano le più sensate  e corrette alternative.

Diamo un rapido sguardo ad alcuni altri toponimi che presentano forma tronca: Nardò, Castrì, Patù

Per Nardò l’etnonimo è neritino o neretino, dal nome latino della città (Neretum) attestato da Ovidio (Metamorfosi, XV, 5O) e dallo stesso etnonimo (Neretini) attestatato da Plinio (Naturalis historia, III, 105). La forma attuale, però, non deriva dal latino ma dal bizantino Νερετόν  (leggi Neretòn) attestato da due pergamene un tempo custodite nell’archivio della curia vescovile di Nardò, oggi perdute ma che Francesco Trinchera fece in tempo a trascrivere ed a pubblicare nel suo Syllabus Graecarum membranarum, Cattaneo, Napoli, 1865. Da notare che il prima citato Nardiati si rifà al nome moderno e non al latino Neretum (che pure si mostra nella forma volgare Nerito o Neritono o Neritone prima dell’affermazione di Nardò), il che rivela una formazione relativamente recente.

Castrì ha come etnonimo castrisano, distinto da castrense, etnonimo di Castro. 

Patù ha come etnonimo patuense o veretino (il primo utilizza un suffisso latino, il secondo è da Veretum, città che sorgeva nel suo territorio).  

Bastano questi tre esempi per dare ragione dell’anarchia di cui ho detto all’inizio. Tra tutti e tre il toponimi Castrì è il più sorprendente, perché avrebbe potuto benissimo avere come etnonimo, valendo anche qui i legami con la cultura bizantina, castriota, non adottato, forse, per evitare confusione con l’omonima famiglia di origini albanesi.

Sempre in nome dell’analogia e in parallelo con Patù l’etnonimo di Seclì alternativo a secliota potrebbe essere sicliense, dal latino moderno ecclesiastico Sicliensis, usato nelle visite pastorali (nelle stesse il topoimo è Siclium).

Morale, valida sempre, per il passato, per il presente e per il futuro, della favola: se per un intervento chirurgico molto impegnativo ci si affida (mi riferisco a chi può permetterselo …) all’esperienza di un luminare, nella creazione di un qualsiasi neologismo, particolarmente nell’intricato campo campo in cui oggi mi sono avventurato, chi ha l’incarico ufficiale di provvedere deve (tanto più che le eventuali spese saranno a carico della collettività) affidarsi a chi ha competenza per farlo.

Seclioto non è stato partorito certo oggi ma, a differenza di un intervento chirurgico con esito nefasto, si può sempre rimediare, tanto più che l’avvicendamento del colore politico ha portato finora, soprattutto nella toponomastica viaria, a cambiamenti radicali che mi sembrano una comoda damnatio memoriae, cioè la trionfale e tronfia vendetta di un’ideologia, qualunque essa sia, su un’altra, qualunque essa sia.

Antonio Oliviero, il bombardiere di San Cataldo

di Armando Polito

Quante volte in tv abbiamo sentito dire Non faccio il nome … , in ossequio al detto Si dice il peccato, non il peccatore! Si tratta di pura vigliaccheria, anche perché, se hai prove inconfutabili, nessuno avrà interesse a querelarti; se non le hai, fai una figura migliore non nominando neppure il peccato. Lo stesso vale quando, soprattutto i politici, fanno a gara a sparare all’impazzata dati figli di nessuna fonte che non sia quella del loro truffaldino intento di ottenere consenso.  Con questo mio post, allora, mostro di essere coraggioso oppure  incosciente ?

Né l’una né l’altra cosa, anche perché ho scritto bombardiere, non bombarolo. Quest’ultimo vocabolo negli anni ’70 ha etichettato colui che compiva attentati con esplosivi, ma dalle nostre parti designava da tempi notevolmente anteriori colui che esercitava la pesca di frodo utilizzando lo stesso strumento di distruzione e morte, anche se in quantità ridotta1.

Antonio, dunque, non era un bombarolo, anche se il toponimo che lo accompagna nel titolo si riferisce, come ben sanno non solo i Salentini, ad una località di mare ove in passato sorgeva un castello2, fabbrica che per la sua natuta militare era particolarmente esposta a rischi di assalto. Non mi risulta nemmeno che si sia reso protagonista di atti vandalici ai danni di qualche icona o statua del santo. Eppure, il nostro con l’esplosivo aveva dimestichezza per motivi professionali e ne ho le prove.

Esibisco, per non far perdere ulteriore tempo a chi finora mi ha seguito per sana (almeno, mi auguro …) curiosità non la pistola, ma la bombarda fumante (fonte: una relazione manoscritta di ben 334 fogli, parecchi dei quali, per mia fortuna bianchi …, contenente un quadro completo della fiscalità del regno di Napoli per l’anno 1571, custodita nella Biblioteca Nazionale di Spagna e per me oggetto da pochi giorni di famelica attenzione, nel senso che, se non avessi famiglia, per lei salterei volentieri qualche pranzo e qualche cena.

 c 74v (dettaglio)

in la terra di san cataldo ala marina de leccie

Al Castellano per sua provisione ducati 120

al vice Castellano ducati 36

a tre compagni, a ducati tre lo mese per ciascuno ducati 108

                                                                                                    _____

                                                                                        ducati 264                   

Al mastro antonio oliviero bombardiero deputato per lo illustrissimo signor vicere inla torre di san catalde con provisione di scuti quatro lo mese ducati 124

Le immagini di chiusura sono tratte da Luigi Colliado3, Pratica manuale di arteglieria, Dusinelli, Venezia, 1586. La prima mostra  la tecnica di sollevamento per rendere operativa la bombarda su una torre,  la seconda la traiettoria  parabolica del suo colpo.

________________

1 A confermare la protervia umana nel perseverare a soddisfare il primitivo istinto di violenza, che nelle cosiddette bestie si è mantenuto entro i limiti naturali della sopravvivenza e della difesa, basterebbe considerare tutti i figli di quella radice onomatopeica che ha generato un’ampia serie lessicale che annovera, per restare al tema di oggi, bomba, bombo, bombicebombola, bombolone e l’insospettabile salentino ‘mbile (per quest’ultimo e i suoi rapporti con le voci italiane appena citate vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/15/quella-bizzarra-terracotta-dal-collo-stretto/ e  https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/12/17/dialetti-salentini-mbile-approfondimento-etimologico/). Una riflessione diacronica sulle voci con specializzazione bellica ci mostrano obsoleta la sola bombarda, mentre bombardiere si avvia rapidamente ad esserlo con l’avvento dei droni, mentre bombardamento è più che mai vivo e vegeto nonostante le postazioni missilistiche abbiano da molto tempo preso il posto delle bombarde (non si finisce mai di peggiorare …). Confortiamoci pensando che le graziose bombolette spruzzanti  di tutto (dalle vernici ai deodoranti e agli anestetici), grazie all’adozione di propellenti ecologici, ci terranno compagnia e che bomboloni e bombette continueranno a deliziarci il palato.

2 https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/16/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-torre-di-san-cataldo-56/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/12/27/lecce-il-giallo-del-castello-di-s-cataldo/

3 Come si legge nel frontespizio,  Ingegnere del Real Essercito di sua Maestà Cattolica in Italia.

Dialetti salentini: milaffanti, metafora di guerra o di innocenza?

di Armando Polito

L’associazione di particolari piatti a determinate ricorrenze è pratica che le diverse culture hanno messo in atto da tempo immemorabile. La globalizzazione e il consumismo, però, da qualche decennio la stanno cambiando inesorabilmente, e neppure lentamente, sicché fra poco, per fare un esempio, gusteremo in piena estate un dolce che in origine aveva nel periodo del Natale la funzione di deliziare il nostro palato e di evocare nello stesso tempo ricordi e aspettative. Mi pare che oggi qualsiasi legame col tempo che non sia il presente vada cancellato dalla coscienza e pure i piatti tipici di certe ricorrenze sono disponibili in qualsiasi periodo dell’anno, al pari della frutta fuori stagione (quella della natura prima dello stupro umano).

Il piatto nominato nel titolo non si sottrae a questo destino ed è di parziale conforto considerare che il suo consumo anche nelle grandi ricorrenze non era certo appannaggio delle classi meno abbienti, annoverando tale piatto quale ingrediente finale nella sua preparazione il brodo di carne.

Non ho intenzione di continuare nella predica, col rischio di deragliare tra i pandori (prodotto della moderna ignoranza, complice anche la cosiddetta “creatività” dei pubblicitari, accolto a braccia aperte dalla lessicografia attuale1) di personaggi considerati geniali ma che in realtà sono solo furbetti che approfittano della condizione di decerebrazione in atto, e non da oggi, sulla popolazione da parte di chi, per il proprio tornaconto e non per suo conto, gestisce il potere. Passo, perciò, ad altre considerazioni, mi auguro più in linea con le mie competenze che con quelle che possono sembrare elucubrazioni da sociologo della domenica.

preparazione dei milaffanti

 

Milaffanti: se un giorno si scoprisse un’origine araba, non mi meraviglierei più di tanto, essendoci oltretutto, per motivi storici, dei precedenti, tra i quali il salentinissimo cìciri e tria2. Nel frattempo, non mi resta che soffermarmi sul nome in sé.

Comincio col dire che il Rohlfs al lemma millaffanti (varianti registrate: melinfante e mmilleffanti; mancano quella di Nardò, milaffanti e quella di Otranto, cettafanti, ma non è questo il problema) si limita a proporre un confronto col napoletano  millenfante= pastina fine, rinviando a ffanti, dove, dopo aver dato la definizione di specie di pappa di farina, rinvia al punto di partenza.

Prima di continuare, un minimo di onestà intellettuale mi impone di precisare che tutto quello che sto per argomentare sarebbe stato trattato infinitamente meglio se il maestro tedesco avesse avuto a disposizione gli strumenti formidabili, soprattutto digitali, di cui oggi chiunque può fruire, anche se il degrado della scuola e la latitante acribia lo espongono ad ogni passo al rischi di facili entusiasmi e mastodontici abbagli. E proseguo sperando, in questo senso, di cavarmela degnamente.

Così ho potuto rilevare, accanto al napoletano millenfante, i siciliani melifanti e milinfanti3 e il milanese mennafait4. Per quanto riguarda l’etimo, l’unico proposto è quello siciliano di cui do conto nella relativa nota. Esso, però, non mi convince per evidenti ragioni fonetiche, essendo arduo già spiegarsi  il oresunto passaggio da mano a mell/mili. Al di là dei vocabolari citati, in Giuseppe Gioeni, Saggi di etimologie siciliane, Tipografia dello statuto, Palermo, 1885, p. 180, si legge: “Milinfanti, semolino, forse dal greco mylìfatos o milèfatos (μυλήφατος), macinato, tritato, come in italiano chiamasi tritollo il cruschello, o altra cosa tritata”. Anche questa proposta non mi convince, perché è basata sul riferimento di un carattere comune (tutte le farine sono passate dal mulino) ad un prodotto particolare. Ad ogni modo non mi pare secondario il fatto che una indiscutibile affinità fonetica, almeno parziale, collega i nomi con cui lo stesso prodotto è chiamato in altre zone non salentine, quali prima la siciliana e la lombarda, e a Minervino Murge, Trani e Ruvo di Puglia (mbandaridde) e nel Barese mbilèmbande).

E allora?

Molte di queste voci dialettali potrebbero aver trovato una sorta di nobilitazione (ammesso, per assurdo, che il dialetto non possa vantare alto lignaggio) nella deformazione dell’italiano mille fanti, la cui più antica attestazione è in Bartolomeo Scappi (1500-1577), cuoco segreto di papa Pio V, come è ben evidenziato nel frontespizio, che di seguito riproduco insieme col ritratto che è all’interno, della sua opera uscita per i tipi di Tramezzino a Venezia nel 1570.

 

Le pagine (sono numerate come nei manoscritti) 55r-55v contengono i capitoli CLXXI dal titolo Per fare una minestra con fior di farina, e pan grattato, volgarmente detta mille fanti & e CLXXII dal titolo Per far mille fanti di fior di farina per conservarlo.

Trascrivo i due testi per rendere più agevole la lettura e il rlevamento di quelle differenze che molto spesso accompagnano ricette con lo stesso nome.

CAPITOLO CLXXI

Piglinosi oncie dieci di fior di farina, et oncie otto di pan grattato, passato per un foratoro, et mescolinosi insieme con la farina, et con un quarto di pepe pesto, et habbianosi quattro rossi d’uove fresche, battute con un bicchiero di acqua fredda, tinta di zafferano, e stendasi essa farina su la tavola, e sbruffasi con l’uove sbattute, mescolandola leggiermente con li coltelli, overo con una paletta di legno, in modo che tal farina venga in ballottine picciole, et le dette ballottine passinosi in una tortiera per un foratoro, overo crivello leggiermente senza porre la mano nel foratoro, et quelle che da se saranno passate nella tortiera, si poneranno su la cenere calda nel modo che si pongono le torte con il coperchio caldo sopra, et lascinosi stare fibche si asciughino, et non havendo coperchio pongonosi nel forno non troppo caldo, et perche tal compositione sempre sarà humida, aspettisi che siano asciutte però non arse, et dapoi cavinosi dalla tortiera, et mettanosi sopra una tavola, percioche come i detti grani saranno all’aere verranno sodi, et rimettanosi in un foratoro ben netto, o in un setaccio chiaro, et setaccisi fuora il farinaccio, et habbiasi apparecchiato brodo grasso che bolla, et pomganovisi dentro essi mille fanti, ogni libra de quali vuole xsei libre di brodo, et quando saranno cotti, servanosi con casciograttato, et cannella sopra. In questo medesimo modo si potrebbeno cuicere con il latte di capra, o con il butiro, o acqua. Si possomo ancho conservar tre o quattro mesi dapoi che son fatti nella tortiera, ma volendo farne quantità, la parte chè rimasta nel foratoro, o nel crivello riponasi su la tavola, e spolverizzisi di farina, et battasi leggiermente con li coltelli, rivoltandola sotto sopra piu volte fib’a tanto che si vedrà, che sia ben battuta, et dapoi nel passarle per lo foratoro, et nel seccarle tengasi il medesimo ordine che si è detto di sopra.     

CAPITOLO CLXXI

Piglisi fior di farina macinata sotto la luna di Agosto, perche è piu durabile, et la quantità sua secondo se ne vorrà fare, stendasi sopra una tavola grande, et larga, habbiasi acqua tepida, mescolata con sale, et con una scopettina di mellica sbruffisi la farina di tale acqua, rivolgendola con la paletta al modo che s’è fatto de gli altri fin a tanto, che tutta sia convertita in granelli grossi come miglio, et dapoi passinosi essi granelli con il crivello sopra un’altra tavola, et faccianosi seccare al sole, facendosi cosi fin’a tanto che sia consumata tutta la farina, et quando saranno asciutti, si crivelleranno per un foratoro minuto, o setaccio chiaro, accioche se n’esca fuora il farinaccio, et si riporranno su la tavola, et si lascieranno stare per un altro dì nel Sole, et dapoi si conserveranno in sacchetti, o in vasi di legno,per tutto l’anno. E volendone fare minestra, con brodo di carne, et con latte tengasi l’ordine delli soprascritti.

Il mille fanti dello Scappi sembrerebbe non lasciare dubbi: si tratterebbe di una similitudine di natura militare, in cui i minuscoli pezzetti di pasta apparirebbero come tanti  (mille in milaffanti, cento nella variante otrantina cettafanti). Ho usato ben due condizionali perché la sfumatura, per così dire, bellica non mi trova d’accordo. A volte, come nelle persone basta un gesto impercettibile per rivelare un sentimento profondo, per le parole è sufficiente un fonema. Credo che nel nostro caso protagonista sia la consonante f. Nelle varianti salentine riportate compare due volte la sequenza consonantica –ff– (millaffanti, milaffanti e mmileffanti) e una volta –nf– (melinfante), ricorrente anche nella voce napoletana (millenfante); la variante otrantina col suo –f- in questo quadro si mostra come un apax.

Rimane il dilemma: –ff– è frutto di quel raddoppiamento espressivo che, particolarmente nella consonante iniziale (e non è questo il nostro caso) del dialetto salentino, geminazione nella fattispecie dovuta al nome composto, come negli italiani soprattutto, soprammobile, sopraggiungere etc. etc.?; e –nf– è frutto della dissimilazione di un originario –ff-? Siccome non riesco a trovare un solo esempio di questa presunta dissimilazione, sono indotto a pensare che, invece, sia –ff– frutto di assimilazione di un originario –nf– e che i protagonisti della metafora non siano i fanti, ma gli infanti. Queste due voci hanno lo stesso etimo e, in particolare, fante deriva per aferesi da infante, che è dal latino infante(m)=muto, puerile, giovane, composto da in privativo e dal participio presente di fari=parlare. Il fante, soldato a piedi, era in origine al servizio del cavaliere (ma il diminutivo fantino rappresenta una sorta di compromesso tra l’uso del caballo 4e la necessità di non affaticarlo col proprio peso, ragion per cui chi lo cavalca di regola è di bassa statura ), concetto di subalternità presente anche in fantesca, mentre quello di giovane sussiste in fantolino e fanciullo (il prmo diminutivo di diminutivo: fante>fàntolo>fantolino; il secondo, con sostituzione di suffisso, da fancello, a sua volta per sincope da fanticello), oltre che nello spagnolo infante e infanta (titolo spettante agli eredi al trono non diretti e nel francese enfant. Per completare il tutto va detto che pure fantoccio in origine era sinonimo di giovane ragazzo e che in seguito ha assunto la valenza dispregiativa prima parziale a designare il burattino, poi totale quando la metafora ha coinvolto il singolo  adulto e perfino lo stato e il governo.

Il precedente dilemma di natura fonetica si complica ora con risvolti storici non di poco conto in un nodo pressoché inestricabile. Se –nf_ e non –ff– è il nesso consonantico originario, per milaffabti va messo in campo il fante, l’infante o l’enfant,  per cui la similitudine sarebbe guerrafondaia (!) o pacifista (?) pacifista, a seconda che l’immagine evocata sia quella dei soldatini oppure quella dei bambini. In un caso o nell’altro c’è il ricorso al concetto del piccolo, presente anche nel nome di due piatti dolci di questo periodo: purciddhuzzi5 e cartiddhate6.

L’interrogativo, poi, presente fin dal titolo ed evocato dalle due immagini di testa [(milaffanti fatti da mia moglie il 24/12/2023 )/Armata di terracotta (III secolo a. c.)] non è stato sciolto, ma l’angoscia del dubbio sia lenita, almeno parzialmente, da quella di coda (fine fatta dai milaffanti della prima il giorno successivo)!

__________

1 Sul sito dell’Accademi della Crusca (https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/pani-di-natale/1387) si legge: … oggi la lessicografia sincronica è concorde nel considerare il termine declinabile: dunque, pandoro al singolare, pandori al plurale. Un po’ di pazienza: basta che per motivi commerciali da  faccia di bronzo nasca (così come per l’originario pan d’oro) un facciadibronzi perché la materia viva il miracolo della sua moltiplicazione nel complemento che da lei prende il nome). E poi, per violentare pure la creatività, quella vera, di De Andrè, prendiamo Bocca di rosa, trasformiamolo in Boccadirosa e lanciamo con questo nome un profumo; non trascorrerà nemmeno una settimana e nasceranno locuzioni del tipi: ho comprato cinque Boccadirose e nel corso dello stesso anno  la lessicografia registrerà con servile acquiescenza Boccadoro al singolare e Boccadori al plurale …

E io, che pensavo di mettendo a Ferr…agni e fuoco i pandori, sto ancora a Baloccarmi (a questo punto l’iniziale maiuscola è d’obbligo).

2 Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/18/un-antichissimo-piatto-salentino-ciciri-e-ttria/

3 Michele Pasqualino, Vocabolario siciliano etimologico, 1789: “Vedi Cuscusu. P. MS. dice: Insubres menafatti appellant farinae inspersione densam granorum congeriem, quasi manu facta sive coacta” (Gli Insubri chiamano menafatti un insieme di grani di farina denso con lo sparpagliamento, quasi fatto o compresso con la mano).

4 Francsco Cherubini, Vocabolario milanese-italiano, Dalla regia stamperia, Milano, 1841: “La nostra è voce antica che leggesi negli Statuti degli offellatori milanesi, a p. 16″. Offellatori è da offella, diminutivo del latino offa=focaccia, boccone. L’indicazione p. 16 indurrebbe a supporre che si tratti di un testo a stampa (purtroppo finora irreperibile in rete) , abche se è più probabile che si tratti di manoscritto, di reperibilità ancora più difficile.

5 Trascrizione di un inusitato italiano porcellucci, plurale diminutivo del diminutivo di porco (porco>porcello>porcelluccio). Non è necessaria molta fantasia per comprendere la similitudine, anche questa, come la maggioranza, tratta dal mondo animale.

6 Trascrizione di un inusitato italiano cartellate. Qui c’è lo zampino della dominazione spagnola che ci ha lasciato, oltre la pessima abitudine di esagerare nell’esibizione di titoli e di iniziali maiuscole, anche il retaggio di molte parole, tra cui cartiglio, a sua volta da cartiglia, che è dallo spagnolo cartilla, diminutivo del latino carta.

Lecce: il giallo del Castello di S. Cataldo

di Armando Polito

Chi si attende una storia di fantasmi e simili, magari con contorno di  fattucchiere, magiche pozioni e sangue umano e non a volontà è solo un allocco che si è lasciato incantare dal titolo e probabilmente non proseguirà nella lettura. Per tutti gli altri preciso che il colore nominato nel titolo riguarda solo la fine che fece il castello del quale mi sono già occupato per altri motivi1.

Riproduco dal secondo link indicato in nota quella che probabilmente è l’immagine più antica (seconda metà del XV secolo) del nostro castello.

 

Rimane, tuttavia, incerta la sua data di nascita, proprio come quella della sua morte, che è il giallo di cui sopra. Già qualche anno fa, nel post segnalato col primo link in nota 1, avevo riportato che in Mariangela Sammarco, Silvia Marchi e Stefano Margiotta, Tra terra e mare: ricerche lungo la costa di S. Cataldo (Lecce)1,  in Rivista di topografia antica diretta da Giovanni Uggeri, XXII, Congedo, 2012, nella nota 61 di p. 128 si legge: distrutta da una mina inglese agli inizi del XIX secolo.

Tale informazione, però, aggiungo oggi, era già comparsa, con le stesse parole e virgole, in Rita Auriemma, Salentum a salo: porti, approdi, rotte e scambi lungo la costa adriatica del Salento, Congedso, Galatina, 2001, p. 156.

Andando, poi, a ritroso nella clonazione (altrimenti non so definirla), si giunge a quello che sembra essere l’originale , che, sempre nella forma già riportata, è in Francesco D’Andria, Lecce romana e il suo teatro, Congedo, Galatina, 1999, p. 119.

Ad ogni buon conto, ed è questa la cosa più eclatante, considerando lo spessore degli autori citati, senza ombrta di fonte.

Noto preliminarmente che il toponimo, unito ad un simbolo inequivocabile,  risulta presente nel foglio 31 dell’Atlante Geografico del Regno di Napoli di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni pubblicato a Napoli dal 1808.

 

E le carte successive? Debbo ad un competente ed assiduo frequentatore di questo blog, che nei suoi gratificanti commenti si firma DrAnvilon, la volontà di approfondire la questione, grazie ad una mappa (Terra d’Otranto, Napoli, 1851 Eseguita sotto la direzione dell’autore B. Marzolla), della quale qualche giorno prima mi aveva fatto pervenire un ritaglio, del quale l’immagine che di seguito riproduco è un dettaglio, pensanco che potesse tornarmi utile per qualche eventuale post di interesse storico-geografico.  E questa è la prima occasione che mi si è presentata. Dal dettaglio si direbbe che alla data del 1851 il castello fosse ancora in piedi.

 

Non è finita, perché in un’altra carta, reperita in rete, dello stesso autore e datata 1859, dalla quale ho tratto il dettaglio che segue, nulla, in riferimento all’oggetto di questa indagine, appare cambiato.

 

Antonio Rizzi Zannoni e Benedetto Mazzolla furono cartografi ufficialmente al servizio del regno e, se per il la carta del primo la data del 1808 attribuita per prudenza al foglio risulta compatibile col  citato distrutta da una mina inglese agli inizi del XIX secolo, lo stesso non può certamente dirsi per le date delle due carte del Mazzolla. Mi pare poco probabile, anche perché non si tratta di mappe storiche che Castello S. Cataldo stia ad indicare solo un mucchio di rovine o che Castello sia da intendersi come Faro, ipotesi, questa, inaccettabile se si pensa che l’attuale faro alla data del 1865 era ancora allo stadio progettuale. E così il giallo del titolo per la soluzione attende un investigatore che non sia quella schiappa del sottoscritto.

_______________

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/16/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-torre-di-san-cataldo-56/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/05/lecce-porto-s-cataldo-cosi-al-tempo-adriano/

Dialetti salentini: ‘mbile (approfondimento etimologico)

di Armando Polito

Del tema mi ero già occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/15/quella-bizzarra-terracotta-dal-collo-stretto/, ma a distanza di più di dieci anni lo riprendo, per una più precisa e  completa documentazione delle fonti. Non è necessario a chi ha interesse a leggermi sfruttare il link appena segnalato, anche perché le osservazioni più salienti di allora risultano qui imglobate.

Secondo il Rohlfs (e questo non l’avevo riportato) ‘mbile deriva dal greco βομβύλιον (leggi bombiùlion), di genere neutro, con lo stesso significato; risulta attestato, però, solo  quello che sembra il suo maschile, cioè βομβύλιος (leggi bombiùlios), che significa calabrone. A parte l’iniziale difficoltà di carattere semantico superabile se si pensa non tanto all’analogia di forma tra il recipiente e l’insetto, ma al rumore che fa il liquido contenuto al momento della sua fuoriuscita [(βομβύλιος è chiaramente da βὸμβος (leggi bombos), voce onomatopeica che indica un rumore sordo, da cui l’italiano bomba e suoi derivati)], sul piano fonetico risulta complicato disegnare la trafila che dal presunto βομβύλιον e dall’attestato βομβύλιος avrebbe portato a ‘mbile. L’una e l’altra difficoltà appaiono inequivocabilmente e definitivamente superate mettendo in campo la variante βομβύλη (leggi bombiùle) attestata dai glossari.

Ecco come la voce è trattata in H. Stefano, Thesaurus Graecae linguae, Londra, Valpiani, 1821-1822, v. III, colonna 2273: βομβύλη, ή. Apis qoddam genus magis obstreperae, quam sint ceterae, ut quidam tradunt. Item poculum quoddam angusti oris (Una specie di ape più rumorosa di quanto siano le altre, come alcuni affermano. Parimenti un bicchiere di bocca stretta).

Ulteriore contributo è dato da un altro glossario (Περὶ τὸ  ἰδιωτικοῦ βίου τῶν ἀρχαίων Ἐλλήνων, N. Filadelfo, Atene, 1873, pp. 18-19: βομβύλιος ή βομβύλη ᾗν δὲ τοῦτο ποτήριον λίαν στενόστομον. Δι’αὐτοῦ τὸ ὕδωρ κατὰ μικρὸν ἐξερχόμενον ἐποίει βόμβον, ἐξ οὗ καὶ βομβύλη τὸ ἀγγεῖον ὠνομάσθην. Ὠμοίαζε δὲ ή βομβύλη πρὸς τὴν νῦν ἐν χρήσει  παρ’ἅπασι βοτὑλιαν, ἧς τινος τὸ  ὄνομα πιθανῶς ἐγένετο ἐκ τ ῆς βομβύλης κατὰ μετάπτωσιν τῶν γραμάτων. (Il βομβύλιος o la βομβύλη: era questo un bicchiere dalla bocca molto stretta. Con questo l’acqua  passando poca per volta produceva un runore sordo, dal quale pure βομβύλη fu chiamato un vaso. La  βομβύλη infatti somigliava alla  βοτὑλια ora in uso, il cui nome venne verosimilmente da βομβύλη attraverso una deformazione delle lettere).

Ecco, dunque, la trafila: βομβύλη>*bombile>*>‘mbile (aferesi; nel Tarantino è in uso  la variante, con assimilazione mb->mm-, ‘mmile e il alcune zone del Leccese e del Brindisino vummile, con il normalissimo passaggio b->v– e la già ricordata assimilazione). Per completezza, infine va detto che l’italiano bòmbola non deriva direttamente dalla voce greca (attraverso un ipotetico intermediario latino *bòmbula) ma è un diminutivo, per dir così, autoctono di bomba.

Nicola Cacudi (Monteroni di Lecce, 26/6/1882-Bari, 8/7/ 1963), da Monteroni di Lecce a Parigi, passando per Bari: appunti per una biografia

di Armando Polito

Di Nicola Cacudi mi sono già occupato su questo blog (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/29/nicola-e-maria-cacudi-ovvero-una-memoria-sonora-salentina-di-100-anni-fa-fissata-e-custodita-in-francia/) quasi dieci anni fa e, a distanza di tanto tempo, il caso, come già allora, mi ha offerto il destro per un’integrazione di quel lavoro tutto incentrato su una testimonianza sonora. Non sarebbe successo se non mi fossi imbattuto, oziando sul web, in un’affermazione pomposa, come sa esserlo la pubblicità, che mi è apparsa lesiva della verità, anche storic ed ho sentito perciò il bisogno di applicare il principio dell’unicuique suum o del dare, in questo caso restituire, a Cesare, anzi a Nicola, quel che è, forse, di Nicola. In https://journals.openedition.org/studifrancesi/ si legge: “Studi francesi”  fondata da Franco Simone nel 1957, è la più antica e prestigiosa rivista italiana di studi sulla letteratura francese. Pubblica studi storici e critici, testi e documenti inediti finalizzati a una conoscenza sempre più approfondita della civiltà letteraria francese e al rinnovamento delle prospettive critiche.

Non giungo ad affermare che la  Rassegna di studi francesi, fondata e diretta da Nicola dal 1923 al 1940, trimestrale il primo anno, bimestrale nei successivi, organo della sezione pugliese dell’Union  intellectuelle franco-italienne di Parigi, che si avvalse della collaborazione di illustri letterati, filologi e critici italiani e stranieri, abbia tout court  il diritto di vedersi rivendicare, da me poi …, un prestigio, se non maggiore, almeno pari e non affermo nemmeno che essa è la più antica, ma è incontrovertibile che è più antica di Studi francesi.

Archiviato questo dettaglio non indotto, come ben sa chi mi conosce, da risentimenti di natura campanilistica in senso estensivo, continuo con altre testimonianze ed immagini, quasi un quaderno di appunti utili, credo, per chi vorrà cimentarsi in un lavoro ben più colplesso, qual è quello evocato dall’ultima parola del titolo.

Per una ricostruzione della sua carriera:

Bollettino periodico settimanale del Ministero dell’educazione nazionale, anno XV, n. 10, 11 marzo 1937, p. 603 (Dall’Elenco dei professori idonei all’ufficio di preside dei Regi Istituti di istruzione media classica, scientifica e magistrale dal 16 settembre 1936 al 15 settembre 1937Idonei all’ufficio di preside nei regi ginnasi.

Nel n. 20 del 20 maggio 1937 dello stesso bollettino a p. 1333 (Dalla Relazioine della commissione giudicatrice del concorso a professore straordinario alla cattedra di lingua e letteratura francese del Regio Istituto superiore di scienze economiche e commerciali di Venezia (sezione filologica):

Mi lascia perplesso in questo giudizio, che sostanzialmente è una stroncatura, quel possesso pratico della lingua (avrà saputo usare merde! al momento opportuno?) e ancor più quel difetto di spirito critico sia gli smilzi saggi con quel che segue, quasi a confermare il triste nemo propheta in patria, vista la considerazione di cui Nicola godeva proprio nella patria degli autori che, secondo il parere della commissione, aveva trattato smilzamente.1 Come dire, ribaltando la trita locuzione di cui sono intrisi i muri di tutte le aule scolastiche  il ragazzo s’impegna ma non è intelligente

Tornando cronologicamente indietro, ecco il primo contatto di Nicola con Parigi (diploma di studi universitari rilasciato dalla Sorbona). Nell’elenco gli unici cognomi italiani sembrano essere il suo e quello di M. Ungarelli. Da Le matin del 4/6/1914:

La tappa successiva, dieci anni dopo, da Le Petit Comtois  del 18 giugno 1924

(COMUNICATI DIVERSI Facoltà di Lettere- Discussione di tesi. Il signor Cacudi, direttore degli studi francesi a Bari (Italia), discuterà, lunedì 23 giugno 1924, alle ore 11, 30, una tesi in vista del dottorato dell’Università di Besançon. La tesi ha per titolo: “La Fontaine imitateur de B occace”. Questa discussione avrà luogo nell’aula magna della facoltà di Lettere, in via Mégrevand)

E, dopo quasi vent’anni dai primi passi registrati nell’articolo del 1914, a ruoli questa volta invertiti, da Lèclair Comtois del 5/8/1932

(RICEVIMENTO DEGLI ALUNNI STRANIERI DAGLI ALUNNI DI BESANÇON

Giovedì pomeriggio, alle ore 16, nei pressi della sede dei nostri alunni in via Laconée, presentavano una vivace e gioiosa animazione gli alunni di Besançon, con la loro cortesia e la loro amabilità consueta, ricevendo degli alunni stranieri venuti per seguire i corsi estivi delle nostre facoltà. Numerose personalità erano presenti a questa manifestazione che fu tanto affascinante quanto cordiale. Si distinguevano in particolare i Signori: Van Daèle, decano di Lettere, vicepresidente dell’Istituto di Lingua e Civiltà francesi; Maugras, direttore dei corsi; Seignier, segretario delle facoltà; Fournaud, presidente dell’assemblea; Vercier, tesoriere; Piquet, Gallot, Dupré, Cacudi, Beckér, Nicolas, professori …)

Per l’anno successivo, , da  Dépêche républicaine del 28/7/1933

(Besançon. Il signor Cacudi, anche nostro ex allievo, dottore della nostra Università, fondatore e direttore della rivista franco-italiana “Rassegna di studi francesi”, che è al suo decimo anno di vita prospera e conta numerosi lettori in tutti i paesi, il signor Cacudi terrà anche in agosto , come gli anni precedenti, lezioni sempre godibilissime sulla letteratura francese).

Seguono ora le immagini relative alle pubblicazioni, a cominciare da l n. 1 dell’anno XV (1936) della rivista da lui fondata e diretta (come si legge nel sommario, alle pp. 30-46 uno dei suoi abituali contributi).

Tra le sue pubblicazioni alle quali la commissione giudicatrice di cui sopra applicò,  non senza ombra di supponente disprezzo,  l’etichetta di scolastiche (come se un testo destinato ai giovani fosse a priri meno pregevole di un saggio destinato, forse, ad essere letto solo dai non più giovani), spicca quel corso di francese, precoce applicazione del metodo globale (soppiantato solo decenni dopo da quello fonetico), tutt’altro che spregevole, come inequivocabilmente dimostra l’elevatissimo  numero di edizioni2; di seguito quella del 1957 con dedica alla moglie Maria  (A Te, Maria, che il mio insonne lavoro sorreggesti sempre col Tuo sereno profondo amore ed oggi conforti e illumini con la luce del Tuo Spirito eletto).

Delle altre innumerevoli pubblicazioni3 riproduco per brevità solo due frontespizi:

Dieci anni fa, col post all’inizio segnalato, ho potuto ascoltare e far ascoltare la voce di Nicola Cacudi e di sua moglie Maria nella registrazione datata 17/3/1914 (25 anni Maria, 31 Nicola), oggi di Nicola sappiamo qualcosa in più sulla sua carriera, sull’impegno culturale e sulla produzione letteraria, ma non abbiamo nulla che ci restituisca il suo aspetto fisico, anche se per gli uomini di un certo livello (tra gli andati e tra chi, almeno per ora, resta …) questo conta poco. Non so se avrò il tempo di colmare questa lacuna, ma lascio, comunque, una traccia.

Dalla Gazzetta ufficiale della repubblica italiana, a. 107° n. 22 del 7/9/1966:

Non sarebbe bello se da Bari, che a Nicola ha intitolato una via,qualche volenteroso desse notizia, dopo averla acquisita sul campo, e dei 1502 volumi e del ritratto ad olio?

_________________

1 La commissione era composta da Giulio Bertoni (vedi i8l penultimo dato della nota successiva)  della R. Università di Roma (Presidente), Luigi Sorrento dell’Università cattolica<di Milano, Alfredo Schiaffini della R. Università di Genova, Carlo Pellegrini della R. Università di Firenze e Francesco Picco della R. Università di Genova. Il concorso fu vinto da Italo Siciliano, mentre Nicola Cacudi si piazzò al sesto posto su nove concorrenti.

2 Oltre ai saggi nella Rassegna:

Nuovo metodo di lingua francese : testo unico per le scuole medie. Società Editrice Tipografica, Bari, 1931

Nuovo metodo di lingua francese : testo unico per le scuole medie, Società Editrice Tipografica, Bari, 1932

Nuovo metodo di lingua francese : testo unico per le scuole medie, Società Editrice Tipografica, Bari, 1938

Nuovo metodo di lingua francese : fonetica, letture, morfologia, sintassi, lingua : volume unico per l’intero corso di studio, Società Editrice Tipografica, Bari, 1946

Nuovo metodo di lingua francese : volume unico completo per l’intero corso di studio, Società Editrice Tipografica, Bari, 1955 

Nuovo metodo di lingua francese : volume unico per l’intero corso di studio, Società Editrice Tipografica, Bari, 1957 

 Nuovo metodo di lingua francese : volume unico per le scuole di ogni ordin e grado, Tipografia Resta, Bari, 1960

Nuovo metodo di lingua francese : volume unico per le scuole di ogni ordine e grado, Resta, Bari, 1964

3 Alfred De Musset e I suoi canti di dolore, Tipografia A. Trani, 1905

La quistione del metodo nell’insegnamento delle lingue moderne, Paravia & c., Torino, 1906

La révolution au pensionnat: pièce en un acte pour les enfants, Paravia & c., Torino, 1906

La coniugazione dei verbi francesi. Studio analitico per le scuole medie, con l’aggiunta di un dizionarietto dei verbi irregolari, Paravia, Torino, 1907

Le verbe francais dans la proposition et la periode, a l’usage Des ecoles superieures d’Italie, E. Pantaleo & C., Torre del Greco, 1910

Psychologie de deux ames [W. Goethe et H. Foscolo], E. Pantaleo & C., Torre del Greco 1910

Impressions de lecture, Tipografia E. Capelli, Rimini, 1913

La Fontaine imitateur de Boccace, Accolti, Bari, 1924

Alphonse de Lamartine Graziella, Le Monnier, Firenze, 1924, 1931, 1938 e 1964

Molière,  L’avaro, Le Monnier, Firenze, 1926 e 1927

Spunti letterari, Società Editrice Tipografica, Bari, 1931

Gabriel Faure, Società Editrice Tipografica, Bari, 1933

Gabriel Faure, Autunno, Società Editrice Tipografica, Bari, 1933

Il nuovo progetto italo-francese di Codice delle obbligazioni e dei contratti : testo definitivo approvato a Parigi nell’ottobre 1927, anno VI, Società Editrice Tipografica, Bari, 1936

Alexandre Dumas fils. Les idées de madame Aubray, comédie en quatre actes, en prose, Adriatica Editrice, Bari, 1949

Un innamorato dell’Italia: Gabriel Faure, Alfredo Cressa, Bari, 1952

La Biblioteca Estense Universitaria di Modena custodisce (Carerteggio Bertoni, fascicolo Nicola Cacudi) una lettera inviata Il 2/12/1934 da Nicola Cacudi a Giulio Bertoni.

La Biblioteca Nazionale Sagarriga Visconti Volpi di Bari custodisce (Epistolario Fiore, lettera n. 082) inviata  a Nicola Cacudi il 20/6/1950

Il Salento e la sua viabilità principale in tre mappe ottocentesche

di Armando Polito

È scontato il fatto che in una mappa l’abbondanza, la dimensione e la leggibilità dei dettagli sono legati alla seconda cifra del rapporto scalare: quanto più esso è alto, tanto meno la mappa risulta dettagliata. Quelle prese in considerazione solo in una scala che rende impossibile qui una loro riproduzione che sia leggibile, per cui per ognuna di loro all’immagine ridotta seguirà un primo dettaglio relativo alle tre provincie di Terra d’Otranto ed un secondo riguardante il circondario di Nardò.

La prima, dal titolo  Atlante del Regno di Napoli ridotto in 6 fogli per ordine di Sua Maestà Giuseppe Napoleone re di Napoli e Sicilia. L’opera, di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni (disgno di Alessandro d’Anna), risalente a data probabilmente non successiva al 1807,  anticipa quella più nota, dello stesso autore, in 31 fogli e con lo stesso dedicatario, la cui pubblicazione iniziò, sempre a Napoli, nel 1808 e terminò nel 1812.

La seconda, pubblicata da Basset a Parigi nel 1822, è di Pierre Lapie.

La terza mappa è, addirittura, in scala 1: 563.000 e questo dato tradisce la sua origine militare. Essa, infatti, è uno dei 21 fogli  (disposti 3 in latitudine e sette in longitudine) disegnati e pubblicati nel 1829 a Vienna dal colonnello austriaco Franz von Weiss (1791-1858).

L’insieme dei fogli occupa una superficie di circa sei m2 e questo fa intuire che anche il foglio che ci riguarda ha dimensioni notevoli, tanto che la sua immagine digitale è un file di oltre 54 MB!. Per questa sua caratteristica sono stato costretto qui a riprodurre il foglio in dimensione ridotta compatibile con quella supportata dal blog, ma ho aggiunto, leggibile, il dettaglio relativo a Nardò ed al suo circondario.

Dialetti salentini … e non solo: pignata o pignatta?

 

di Armando Polito

Non avrei avuto nessun motivo per porre il dilemma se fossi stato disponibile ad accettare come corretta pignatta, a quanto registrano tutti i dizionari. Unica eccezione il GDLI (Grande dizionario della lingua italiana), che al lemma pignata e derivati rinvia a pignatta e derivati, dove all’inizio pignata è riportato tra le forme antiche insieme con pegnata, pegnatta, pigniacta, pigniata e pigniatta). Al di là delle altre considerazioni che via via farò, ricordo che in campo linguistico, volenti o nolenti (e io mi pongo tra questi ultimi), è l’uso che decide la sopravvivenza di un forma su un’altre e in non pochi casi è quella pIù corretta a lasciarci le penne. Ad ogni buon conto, pur rispettando l’autorevolezza di chi senza dubbio ne sa più di me, non ho mai confidato  nell’ipse dixit, locuzione che nel nostro caso, vista l’unanimità di opinioni,  sarebbe opportuno cambiarla in ipsi dixerunt. Tuttavia, anche un povero e sconosciuto ille come me ha il diritto di fare le sue osservazioni; e non è detto che alla fine si levino tanti illi a sostegno del primo ille che osò lanciare la sfida.

Ma procediamo con ordine, cercando di individuare, pur con tutte le riserve del caso, la data di nascita delle due voci, non senza aver detto che nel Dizionario De Mauro per pignatta (pignata, come prima detto non è registrato) si legge av. 1342, il che dovrebbe stare a significare che era quella  la data più antica conosciuta  al momento della pubblicazione (2000) o, per essere generosi, fino a qualche anno prima. Sorprende, però, che un testo lanciato come Il dizionario della lingua italiana per il terzo millennio e compilato in tempi in cui già la ricerca testuale poteva fruire dell’aiuto fondamentale dell’informatica, mostri di ignorare l’esistenza di attestazioni più antiche, molto più antiche e, aggiungo, pubblicate, cioè non ancora disperse in carte antiche e destinate a restare sconosciute per chissà quanto tempo.

Come si sa, l’italiano che oggi parliamo è, in fondo, frutto della lenta evoluzione del latino, arricchita nel tempo da molteplici entrate da altri ambiti culturali. Tuttavia, almeno fino ad oggi, la maggior parte del nostro lessico mostra origini latine e a questo non si sottraggono pignata/pignatta né deve suscitare meraviglia o essere considerato come una riduzione dell’attendibilità delle conclusioni alle quali perverrò,  il fatto che i primi documenti, dei quali riporterò solo i dettagli che ci interessano, sono in latino.

Il primo1 è custodito nell’Archivio pubblico di Bologna (Reg. Gross. v. I, p. 94) ed è un atto del 14 maggio 1200. Nel lungo elenco di oggetti risulta anche pignatam de cupro plenam de ferro extimatam cum ferro … (pignata di rame piena di ferro stimata col ferro ).

Il secondo riguarda un episodio riportato da Fra Salimbene Adami (1221-1288) nella sua Cronica, episodio tanto simpatico che mi piace riportarlo tutto, citandolo dall’edizione che ancora oggi è il testo di riferimento.2

Item tempore illo, procurante ministro, Rex Hungariae misit Assisium magnam cuppam auream, in qua caput beati Francisci honorabiliter servaretur. Cum autem portabatur, et in conventu senesi quodam sero in sacristia ad custodiendum ponetur, quidam fratres, curiositate et levitate ducti, optimum vinum biberunt cum ea, volentes in posterum gloriari quod cum cuppa Regis Hungariae ipsi bibissent. Sed guardianus conventus senensis, qui magnus zelator erat justitiae et honestatis amator, nomine Johannettus, qui etiam de Assisio fuerat oriundus, cum cognovisset haec omnia, praecepit refectorario, qui similiter Johannettus de Belfort dicebatur, ut in sequenti prandio poneret coram quolibet illorum, qui cum cuppa biberat, unam ollam parvulam, nigram et tinctam, quam pignattam dicunt, in quibus oportuit eos bibere, vellent nollent, quatinus si vellent in posterum gloriari  quod cum cuppa regis Hungariae quinque jam biberant, possent similiter recordari quod propter illam culpam cum olla tincta bibissent.  

(Parimenti in quel tempo, per interessamento del ministro il re d’Ungheria mandò ad Assisi una grande coppa di oro perché vi fosse conservata con tutti gli onori la testa del beato Francesco. Però, mentre la si trasportava e per un certo ritardo la si poneva, perché fosse custodita, nel convento di Siena in sagrestia, certi frati, spinti dalla curiosità e dalla leggerezza, bevvero con quella dell’ottimo vino, volendo in seguito vantarsi di aver bevuto proprio loro con la coppa del re d’Ungheria. Ma il guardiano del convento di Siena, che era gran assertore della giustizia ed amante della correttezza, di nome Giovannetto, che era anche oriundo di Assisi, essendo venuto a conoscenza di tutto questo, ordinò all’addetto alla refezione, che similmente era chiamato Giovannetto Belfort, che nel pranzo successivo mettesse davanti a ciascuno di quelli che avevano bevuto con la coppa una piccola pentola1, nera e sporca, che chiamano pignatta, in cui dovevano bere, volenti o nolenti, perché se in futuro avessero voluto vantarsi del fatto che cinque avevano già bevuto con la coppa, del re d’Ungheria, potessero allo stesso modo ricordare che per quella colpa avevano bevuto con una pentola sporca)

Per il momento, dunque, in anzianità, per quanto riguarda le forme latine, pignata (nominativo del pignatam del documento datato 1200) batte largamente pignatta (nominativo del pignattam della Cronica del Salimbene).

E per il volgare, le cose come stanno? Direi allo stesso modo, visto che per pignata la più antica attestazione è in una ricevuta di pagamento di affitto dell’anno 1315.3 e per pignatta nella novella IV de II Trecentonovelle di Franco Sacchetti (1332-1499), che era nato in Croazia ma che visse prevalentemente a Firenze: Son io così dappoco, ch’io non vaglia più d’una pignatta? Ho volutamente precisato l’ambito culturale del Sacchetti, il toscano, come faccio ora per quello del documento del 1200 (l’emiliano) e per quello del 1315, il veneto, mentre un caso a sé stante, di problematica classificazione mi sembra quello del Salimbene, che era nato sì a Parma, ma che si mosse in Emilia, in Toscana, oltre che in Francia.

Quanto fin qui riportato m’indurrebbe a supporre che pignatta sia la correzione toscana del veneto pignata, forma che, però,  risulta presente  nei testi a stampa di ogni argomento (letterario, religioso, scientifico) a partire dal XVI secolo. La cronologia escluderebbe la possibilità che la voce sia entrata con lo spagnolo piñata, che al pari della voce salentina, ma con reciproca autonomia, sembra confermare l’ipotesi di chi propone come etimo il latino medioevale pineata(m)=simile a pigna4, con esito –nea– largamente collaudato nel nostro dialetto (p. e.: staminea>stamegna).

Questo sarebbe sufficiente, forse, per chi si occupa della compilazione dei vocabolari, quanto meno di registrare pignata, anche se con il marchio, ancora quasi infamante, direi forma di razzismo linguistico, di voce regionale, per non dire, poi, di voce meridionale. Non ho nulla contro Dante & C., però continuare a manifestare ossequio  al fiorentino e tollerare, se non favorire, la proliferazione infestante dell’inglese anche quando non c’è nessun motivo per farlo, mi sembra contraddittorio, per non dire stupido. A tal proposito sfido chiunque si occupi, spero seriamente, di queste cose a citarmi un solo testo di culinaria, ripeto, uno solo, in cui compaia pignatta e non, come puntualmente ho rilevato,  pignata.

E la voce evoca o, almeno spero che ancora lo faccia, ambienti, colori, profumi sapori e perfino saperi della nostra terra, in cui la pignata è ancora insostituibile per cuocere, come natura e saggezza antica hanno consigliato da millenni, i legumi, la carne di cavallo  e il polpo, tutti, appunto, a pignatu.

Non deve sorprendere in pignatu il cambio di genere, perché pignato è attestato oltre che in altri autori meno famosi, nel Candelaio di Giordano Bruno, che uscì nel 1582. Bisogna, però, rivendicare al salentino una maggiore creatività per via del diminutivo pignatieḍḍu, che in triplice esemplare celebra il suo trionfo nello stemma parlante della famiglia Pignatelli, con il massimo della coerenza in Iacopo (1625-1698), nato a Grottaglie …

Nardò: Vora, un toponimo perduto?

di Armando Polito

È destino comune a tutti i toponimi di subire le cosiddette ingiurie del tempo, ma anche in questo caso i pesi e le misure non sempre sono equi. C’è, infatti, quello che si è conservato tale e quale (Roma), quello che è rimasto vittima di mutamenti fonetici più o meno imponenti, ma non tali da renderlo irriconoscibile almeno agli studiosi (Nardò da Neretum, Lecce da Lupiae), quello che già in tempi antichi ha cambiato veste solo parzialmente (Benevento è da Benventum, che prima aveva sostituito Maleventum), quello che, infime (ma la casistica non finisce qui) , è stato soppiantato da un concorrente non sempre sponsorizzato dalla damnatio memoriae.

Credo che nell’elenco già sterminato e che il tempo puntualmente rimpolperà potrebbe essere inserito il Vora del titolo. Per dimostrarlo mi avvarrò inizialmente dello strumento più suggestivo per il suo impatto immediato e che oggi detta legge: l’immagine. Nessuno, però, si aspetta di vedere non dico miniature tratte da qualche manoscritto ma semplici ingiallite foto d’epoca, che molto probabilmente non verranno mai  alla luce, anche perché il fenomeno naturale, più precisamente geologico, in questione è molto diffuso nel nostro territorio, ricco di spunnulate1 e inghiottitoi e la normalità non ha mai fatto notizia, salvo, negli ultimi tempi, quella del male …

I documenti che mi accingo a presentare documenti hanno la loro bella età e, pensando agli strumenti della cartografia moderna tra i quali spiccano le immagini satellitari che ne consentono, volendo, un aggiornamento in tempo reale di un paesaggio globalmente soggetto, ormai, a rapidi cambiamenti, le tavole che riproduco in ordine cronologico e seguite dal dettaglio che ci interessa opportunamente ingrandito.  fanno tenerezza.

Asciugata la lacrimuccia, comincio con la prima, che è Terra di Otranto olim Salentina et Iapigia La prima è di Giovanni Antonio Magini (1555-1617), pubblicata postuma dal figlio Fabio a Bologna nel 1620, con dedica, come si legge nel cartiglio in basso al centro, All’Ill.mo Sig.re, et Pron2. Coll. mo3 Ludovico Magnani dell’habito4 di S.to  Jago.

 

Ho evidenziato con la sottolineatura tre topomimi. A nord dI Nardò si legge Vora, alla destra di un simbolo inequivocabile, come altrettanto inequivocabile ai fini dell’identificazione è come riferimento posizionale Logliastro5. La posizione corrisponde esattamente all’inghiottitoio oggi denominato ufficialmente Vora del Parlatano6, da sempre nota al popolo col nome di Ora ti li Culucci (dalla masseria Colucci, in prossimità della quale si trova).

Un nome comune, dunque, (vora) qui sembrerebbe diventato per antonomasia un toponimo, cioè un nome proprio. Tale dettaglio, insieme con le dimensioni del simbolo in rapporto alle proporzioni scalari e con la constatazione che le altre numerosissime vore presenti nella tavola sono rappresentate col solo simbolo (con la sola eccezione di un altro Vora che si legge accanto al simbolo a nord ovest di Casalnuovo, l’odierna Manduria), sottolinea  la fama che da sempre questo inghiottitoio ha avuto, tanto da dar vita ad una similitudine popolare nell’espressione mi pari l’ora ti li Culucci (mi sembri la vora dei Colucci), con la quale viene stigmatizzata la voracità di qualcuno che pare inghiottire il cibo senza masticarlo.

E io, che di ghiottonerie linguistiche vado pazzo, posso perdere l’occasione di aprire una breve parentesi di dilettantesca (mi auguro dilettevole per qualche lettore) filologia? L’ora dell’espressione  appena riportata nasce da vora con aferesi  della v, fenomeno più che usuale nel nostro dialetto (valere>alire, vedere>itire; vincere>incìre; voce>oce, etc. etc.). Per le ulteriori considerazioni rinvio alla nota (altrimenti, dove starebbe la brevità della parentesi? …).7

Siamo ora alla seconda tavola: Terra di Otranto olim Salentina et Iapigia di Jean Blaeu pubblicata ad Amsterdam nel 1648.

Nel cartiglio in basso a  sinistra si legge (il lettore potrà farlo agevolmente con l’immagine che segue) la dedica, sulla quale mi soffermo perché riguarda direttamente Nardò:  ll.mo ac Rev.mo Domino D. FABIO CHISIO  Episcop. Neritonensi, S.mi   D. PP. Innocentii  X, ad tractum Rheni et Infer. Germ. partes, Ordinario, nec  non, ad tractatus generalis pacis Munasterii, extraordinario, cum potestate de latere Legati, Nuncio, Patrono suo colendiss.mo , D. D. D. Joh. Blaeu (All’illustrissimo e Reverendissimo Signore Don Fabio Chigi, Nunzio Ordinario del Santissimo Divino Pontefice Innocenzo X presso il tratto del Reno e le parti inferiori della Germania, nonché straordinario con potestà di legato a latere per i trattati di pace di Münste, suo padrone onorabilissimo  Giovanni Blaeu diede dedicò in dono).

 

Mentre per Fabio Chigi rinvio a quanto indicato in nota 8, ricordo che il Blaeu (per par condicio …) dedicò un’altra sua tavola (Civitas Neritonensis vulgo Nardo) a Girolamo Acquaviva d’Aragona duca di Nardò.

Riprendendo l’esame già iniziato della mappa faccio notare come il titolo sembra plagiato dal Magini, il che non lascia presagire alcuna novità, per quanto in questo tipo di rappresentazione esse siano per natura rare. E infatti …

 

È la volta della terza: Terra di Otranto olim Salentina et Iapigia di Gerard Valck, pubblicata ad Amsterdam fra il 1670 e il 1690. Anche per questa valgono le considerazioni di scarsa originalità, al meno nel titolo …,  fatte per la precedente.

 

L’osservazione riguardante, comunque, le caratteristiche dimensionale del simbolo, non fa escludere, a mio parere, che esso fosse connesso con il sistema di inghiottitoi di cui il Parlatano fa parte e che, perciò, il avesse una funzione di rappresentazione collettiva. È, infatti difficile immaginare che il sito, fra l’altro ancora oggi non eccessivamente antropizzato, abbia subito uno stravolgimento del suo aspetto e, in particolare, una riduzione della bocca del Parlatano.

È probabile, invece, che in breve tempo il toponimo Vora abbia perse la sua importanza, tant’è che esso è assente nella tavola che il De Rossi pubblicò presso la sua Stamperia alla Pace a Roma nel 1714, nonostante nel cartiglio si legga PROVINCIA DI TERRA D’OTRANTO GIÀ DELINEATA DAL MAGINI E NUOVAMENTE AMPLIATA IN OGNI SUA PARTE SECONDO LO STATO PRESENTE.

 

E Vora, quasi a sancire definitivamente la fine di un toponimo,manca pure nell’Atlante geografico del Regno di Napoli di Giovanni Antonio Rizzi Zannoni  del 1808, dove, nonostante il rapporto scalare imparagonabile con quello delle tavole precedenti, non si nota neppure il simbolo del nostro inghiottitoio.

______________________

1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/05/29/la-palude-del-capitano-la-donna-malaffare

2 2 Abbreviazione di Padrone.

3 Abbreviazione di Colendissimo (latinismo:=omorabilissimo).

4 Per Ordine.

5 Ogni toponimo va preso con le pinze, nel senso che bisogna tener conto dei fattori che ne possono aver condizionato il rilevamento, tra cui il più importante coinvolge il settore degli informatori che, giocoforza, sono locali e, dunque, soggetti a problemi linguistici che spesso devono fare i conti con l’inttreccio tra forme dotte e popolari. È il caso tutt’altro che isolato, come fra poco vedremo anche con Vora, di Logliastro, frutto dell’agglutinazione dell’articolo, secondo la trafila Ogliastro>l’Ogliastro>Logliastro.

6 Nel 1749 Federico Colucci è proprietario della masseria Colucce, che comprende, oltre l’abitato, alcuni terreni: il pezzo Dell’Arene, del Parlatano, Dell’Otano, delle Ore e la chiusura della Ratta (Archivio di Stato di Lecce, atti del notaio Saverio Felline, anno 1749, cc. 46v-54r). Debbo questa preziosa informazione all’amico Marcello Gaballo. Essa, però, se ha sancito la relativa antichità del toponimo, ha suscitato in me ulteriori interrogativi, non per nulla l’appetito vien mangiando …, circa l’etimo del nostro e dei restanti toponimi. Posso solo avanzare ipotesi destinate a restare tali in assenza di pezze giustificative. Arene potrebbe alludere alle caratteristiche fisiche del terreno, come anche Ore (per vore, secondo quanto si dirà più avanti e soprattutto in nota 7) e lo stesso potrebbe valere per Otano, se è italianizzazione  del dialettale  lòtanu (=terreno fangoso, forma aggettivale dal latino lutum=fango, argilla, che continua nel latino medioevale lutare, che può significare lavare, ma anche il suo opposto, sporcare) attraverso la discrezione dell’articolo (Lotanu>l’Otanu>l’otano). Restano Ratta e, ironia della sorte, proprio Parlatano, per i quali, sempre ipoteticamente, potrebbe essere avanzata un’origine prediale.

7 Questo ha comportato che con l’aggiunta dell’articolo da la vora si è passati a la ora e, infine, a l’ora, in cui ora, anche se si conosce il latino ma si è sbrigativamente superficiali, può essere interpretato come derivante da ore(m), accusativo di os, che significa bocca e che in italiano  ha dato solo la forma aggettivale orale e alla prima parte di composti come oro-faringeo, mentre il denominale orare (=parlare in pubblico, pregare) ha dato vita all’italiano orare e ai suoi derivati (oratore, oratorio, orazione). L’equivoco etimologico potrebbe essere ulteriormente  alimentato, oltre che dall’affinità fonetica tra ore(m) e ora, anche da quella semantica, dal momento che la vora ella sua parte visibile non è altro che una grande, grandissima bocca. Bisognerebbe, però, dimostrare che il latino ore(m) e l’italiano vora sono parenti, il che non è. L’italiano vora, infatti, non nasce da un latino vora(m), che non esiste,  ma è deverbale da vorare, che sempre in latino, ha dato vita a vorago (da cui l’italiano voragine) e vorax (da cui l’italiano vorace). Oltretutto orare comporta sì l’apertura della bocca, ma per un’emissione, mentre vorare coinvolge il concetto esattamente opposto, quello dell’immissione.

8 https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/04/10/lo-stemma-di-fabio-chigi-vescovo-fantasma-di-nardo-e-poi-papa-celebrato-in-versi/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/04/12/fabio-chigi-facebook-e-il-motore-di-ricerca-ovvero-quando-lironia-rende-piu-simpatiche-le-persone/

 

 

 

Dialetti salentini: ‘nzurfione, ovvero quando la tromba marina si tagliava

di Armando Polito

Il dialetto spesso nelle sue similitudini è più poetico della lingua nazionale, anche quando, come nel caso di oggi, appare più legato ad aspetti, dettagli, oggetti, esseri della comune vita quotidiana. Così quella che in italiano è la tromba d’acqua o tromba marina, in dialetto neritino è zumfione (attestato pure per Aradeo, Neviano e Otranto), zumfioni  (Sava), zimfiune (Galatina)S. Pietro Vernotico), zurfione (Castrignano dei Greci), zurfioni (Oria), zurfiune (Calimera), nzumfiune (Squinzano, Surbo). Tutte le voci appena riportate dal Rohlfs1 hanno il corrispondente italiano perfetto foneticamente, di non immediata comprensione semanticamente, in sifone, che è dal latino siphone(m), con i significati di tubo, condotto, pompa per spegnere gli incendi, a sua volta dal greco σίϕων (leggi sifon)=tubo.

Il lettore avrà già notato che è l’ultimo dei significati latini riportati ad eliminare la difficoltà nel collegare il significato di sifone col fenomeno atmosferico. Stesso etimo hanno le innumerevoli varianti registrate per tutta la fascia adriatica e che nel dialetto calabrese, a seconda delle zone, la tromba d’aria è zifune, ziiune, ifune, zifisni e rifuni. Inoltre in Grecia la tromba d’aria si chiama generalmente sifunas/szifunas, quella marina trumba tra i marinai e gli abitanti delle isole, tra i contadini sifuni. Io non escluderei per la m o n che precede f le varianti salentine una dissimilazione da ff per incrocio con soffione.

Com’è sotto gli occhi di tutti, negazionisti compresi, da fenomeno raro, al meno dalle nostre parti, le trombe d’aria si manifestano molto più frequentemente che in passato, con la differenza che oggi non c’è più nessuno (debbo dire fortunatamente, perché di cialtroni ce ne sono già troppi) che tenti, o presuma, di fronteggiarla e ridurla alla ragione. Eppure, lo dico con amara ironia, oggi qualcuno in grado di tagliare una tromba d’aria, come di eseguire una danza della pioggia in tempo di siccità, tornerebbe comodo, non fosse altro che per illusoria consolazione per chi ancora crede nella magia, nera, bianca o multicolore che sia. Il taglio della tromba d’aria era un rito, probabilmente di origine marinara, articolato, sostanzialmente, in due fasi.

Nella prima il capitano dell’imbarcazione, avvistata la tromba, recitava il Padrenostro verde (verde perché è questo  il colore tradizionale del drago) per placarne l’ira, mentre, brandendo un coltello, mimava tre tagli nell’aria. Nella seconda, ad effetto raggiunto, recitava il Padrenostro a Dio per ringraziarlo, stabilendo, così, la vittoria della religione corrente su quella pagana e mettendosi in pace la coscienza accontentando con un comportamento inconsapevolmente  opportunistico, divinità antiche e nuove …

Di regola molte sono le varianti del testo di queste preghiere rituali, destinate a scomparire per sempre, a meno che qualche studioso in passato non abbia fatto in tempo a raccoglierle ed a pubblicarle.

Per la Sicilia lo fece  Giuseppe Pitrè in Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Libreria L. Pedone Lauriel di Carlo Clausen, Palermo, 1889, v. III, pp. 79-85. Qui nella sezione dedicata alla meteorologia nel capitolo X intitolato Il dragone il Pitrè, prima di registrare le varianti testuali del Padrenostro verde, riporta quelle riguardanti il nome stesso del fenomeno: trumma marina e cura ri rattu (Palermo), cura ‘i rau (Palermo e Borgetto), cura di mammadrau (Baucina), cuda (Francofonte), cura draune (Vittoria), dragunara e dragunera (Termini, Roccapalumba, S. Fratello, Siculiana), sufunara (Naso), mànica e rragani (Noto).  A parte trumma marina e rragani (traduzioine, probabilmente recenti, di tromba marina e uragano), alcune sono legate ad una similitudine animalesca: cura ri rattu (coda di ratto), cura ‘i rau (coda di drago), cura di mammadrau (coda di mamma drago), cuda (coda), cura draune (coda di dragone), dragunara e dragunera (forme aggettivali da drago).

A proposito di dragunara, la più antica attestazione a mia conoscenza del fenomeno della tromba d’aria è in Rolandino, un cronista di Paova del XIII secolo. Ce ne ha lasciato il ricordo nella sua Chronica, inserita in MGH (Monumenta Germaniae Historica), XIX, 32-147, da cui riporto, traducendolo, il brano che ci interessa:  Audiens haec alius retulit in exeplum quod ipse viderat in principio guerrae per Estense confinium, nocte quadam ivisse quamdam Dragonariam sive nubem, quae sic destruxit arbores, fruges, vineas et herbas radicitus, ut mane facto visum sit omnibus manifeste quod illic unde ivit non fuisset unquam herba, arbor, aliqua vel cultura.

(Un altro, sentendo ciò, addusse ad esempio il fatto che egli di persona aveva visto all’inizio della guerra, lungo il confine estense, che una notte era arrivata una cosiddetta dragonera, cioè una nube, la quale aveva distrutto dalle radici alberi, raccolti, vigneti ed erbe, a tal punto che, fattosi giorno, apparve chiaro a tutti che laddove era passata non ci sarebbero stati mai erba, albero o qualche coltura)

E così il drago, questo favoloso animale sputafuoco, accusato da tempo immemorabile di essere dispensatore di terrore, distruzione e morte, accomuna l’immaginario collettivo del nord (Veneto con la tromba d’aria) e del sud (Sicilia) con la tromba marina). E, ad integrazione delle notizie sull’uso militare del sifone che darò più avanti, come non ricordare il dragone, cioè il soldato di un antico corpo di cavalleggeri, la cui origine si collega agli archibugieri a cavallo italiani? Infine, per lasciarlo in pace (ma non tanta …) penso agli altri significati di dragone: nel XVI secolo nome di una bocca da fuoco di grosso calibro; in pirotecnica razzo per l’accensione a distanza di fuochi artificiali; in ittiologia nome generico della tracina [(pure questa voce dal greco δράκαινα (leggi dràcaina, che è la femmina del drago e, e, come divinità, corrisponde a ciascuna delle latina Furiae)]  e della pastinaca (ha il corpo a forma di rombo e la coda provvista di un aculeo velenifero (la stessa voce, poi, è sinonimo di carota); in ornitologia la sgarza ciuffetto (ha sul capo un ciuffo di penne erigibili, lanceolate, bianche; in botanica nome comune del dragoncello (diminutivo di dragone) ma pure in zoologia nome comune  di un verme parassita agente della malattia tropicale nota con il nome di dracunculosi. Ora, però, nessuno dica che sono un drago: il mio nome non è Cerutti Gino

Come avevo anticipato, completo il discorso circa gli usi militari del sifone. La fonte principale è Leone VI detto il Saggio, imperatore bizantino dall’886 fino alla morte avvenuta nel 912. L’opera principale è Tactica, un trattato di arte militare, da cui sono tratti i passi che seguono2.

XIX, 6, colonna 9923

La trireme) abbia assolutamente a prua il sifone anteriormente rivestito tutt’intorno di bronzo, com’è prassi, per mezzo del quale scagli contro i nemici il fuoco preparato. E dalla parte superiore di questo sifone in giù una specie di recinto fatto di assi, e questo protetto intorno da tavole, in cui staranno uomini guerrieri che combattono quelli dei nemici che giungono da prua, oppure scagliano frecce contro tutta4 la nave nemica con quante armi è possibile immaginare.

 

XIX, 8, colonna 9935

… di quelli che manovrano a prua gli ultimi due siano uno addetto al sifone, sifonatore, l’altro a gettare l’ancora in mare. 

XIX, 51, colonna 10086

Anche molti strumenti furono escogitati dagli antichi e pure dai moderni contro le navi nemiche e contro chi combatteva su di esse. Per esempio anche il fuoco preparato con fragore e fumo scagliato  mediante i sifoni e che le avvolgeva. 

XIX, 57, colonna 10087

Si useranno anche in altra maniera i piccoli sifoni scagliati con la mano tenuti a disposizione dietro gli scudi di ferro dai soldati, armi che sono chiamate chirosifoni,  poco fa escogitate dal nostro re. Scaglieranno anche questi di fuoco preparato contro il volto dei nemici.   

Ho reso con con lanciafiamme il χειροσίφωνα dell’originale. È voce composta da χείρ (leggi cheir), che significa mano e da σίφων (leggi sifon), che, come ho già detto, significa alla lettera tubo).

In coda ai Tactica lo stesso tomo della Patrologia riporta un’appendice premessa al programma dell’Università di Zurigo del 1854, in cui furono raccolti frammenti adespoti tratti da diversi codici, che prima erano stati pubblicati sparsim. Di seguito il brano che ci interessa.

cap. LIII, colonna 11158

… sono utili quelli chiamati intrecci che emanano per mezzo di una macchina fuoco liquido, certamente anche quello che presso molti è chiamato spendente e quelli chiamati lanciafiamme, armi che ora il nostro re ha escogitato …

Altra fonte è Anna Comnena (XI-XII secolo), figlia dell’imperatore Alessi, autrice dell’Alessiade, in sostanza una biografia del padre:

XI, 109

… avendo sistemato in ciascuna prua delle navi attraverso teste di leoni e altri animali terrestri fatte di bronzo e ferro con bocche aperte e avendole rivestite di oro in modo che alla sola vista apparissero spaventoso, dispose di far passare  il fuoco che cominciava ad uscire contro i nemici mediante elementi attorcigliati attraverso le loro bocche, in modo che sembrasse che a farlo fossero i leoni e gli altri animali di tal genere.    

un fuoco, che naturalmente divampa verso l’alto, ma in questo caso era diretto in qualunque direzione desiderasse il mittente, spesso verso il basso o lateralmente

XIII, 310

Questo fuoco fu preparato da loro [i difensori di Durazzo] attraverso siffatto procedimento. Dal pino e da alcuni altri alberi simili  sempreverdi  s’addensa una lacrima infiammabile. Questa schiacciata  insieme con  zolfo viene introdotta in tubi di canne e viene spinta da chi usa lo strumento con un soffio energico e continuo e così lo indirizza ed applica al fuoco all’estremità e come un fulmine cade sugli occhi di chi sta di fronte.   Questo fuoco usarono i difensori del territorio di Durazzo appena si trovarono faccia a faccia con i nemici e bruciarono le loro barbe e i volt. Ed era possibile vederli come uno sciame di api messo in fuga dal fumo precipitarsi disordinatamente  da dove erano entrati ordinatamente.  

Sulla composizione di questa miscela incendiaria innumerevoli sono state le ipotesi, destinate a restare tali, perché a tal proposito la fonte più dettagliata resta Anna Comnena col suo ultimo brano appena riportato11. La cosa appare scontato, trattandosi di un segreto militare o, se si preferisce, di stato e a talproposito illuminante è quanto ci ha tramandato l’imperatore Costantino Porfirogeneta (    ) nel suo De administrando imperio, XIII12:

Così è necessario che tu anche riguardo al fuoco liquido scagliato mediante i sifoni ti dia pensiero e curi che se mai  alcuni osino chiederlo, come spesso hanno chiesto pure a noi, che essi siano respinti e mandati via con queste parole: “Anche questo fu manifestato e insegnato da dio mediante un angelo al grande e primo re cristiano, S. Costantino. Ricevette anche su questo dallo stesso angelo grandi prescrizioni, come dai padri e dai nonni   abbiamo ricevuto con piena certezza, affinché per i soli cristiani e per la città regnante su di loro fosse preparato , non altrove, e non fosse in alcun modo trasmesso o insegnato ad un altro popolo.  Perciò roteggendolo anche per  coloro che verranno dopo di lui questo grande re su questo dispose che sul sacro altare della chiesa di dio  fossero scritte delle maledizioni  affinché chi avesse osato dare di questo fuoco ad altri popoli non fosse chiamato cristiano né fosse giudicato degno di carica o potere, ma anche se lo avesse avuto per caso e l’avesse portato fuori da questa città fosse colpito da anatema e stigmatizzato nei secoli dei secoli , o re o  patriarca o qualche altro simile, o arconte o suddito che per caso  abbia tentato di violare tale precetto. E esortò tutti quelli che avevano amore e al timore di dio a considerare come un nemico comune e trasgressore di questo importante precetto e ad affrettarsi a a prenderlo chi ha tentato di fare una cosa simile e mandarlo a morte odiosissima e penosa. Accadde una volta, trovando sempre la malvagità l’occasione, che uno dei nostri soldati ,dopo aver accettato dai pagani cospicui doni, li resero partecipi del fuoco e che dio inflessibile non lasciò impunita la trasgressione: un fuoco venuto dal cielo lo divorò uccidendolo mentre si accingeva ad entrare nella sacra chiesa di dio. E allora paura e tremito entrarono nell’animo di tutti e da allora nessuno, né re né arconte né privato né comandante né uomo in generale  osò pensare a qualcosa di simile, mettere mano all’opera, agire, portarla a termine”.13

Ad ogni modo, questa invenzione bizantina, precursore del moderno e già obsoleto  lanciafiamme trova anche una testimonianza grafica nelle due miniature con le quali pongo termine a questa lunga e, per certi versi, molto sofferta digressione sul sifone.

Manoscritto del secolo XI custodito nella Biblioteca Apostolica Vativana (Vat. gr. 1605, f. 30r

Dettaglio ingrandito dell’immagine precedente

Codice Skylitzes Matrilensis del secolo XI custodito nella Bibliteca Nazioinale Spagnola (Vitr. 26-2, Bild. Nr. 77), f. 34 v

 

Prima di chiudere vorrei fare un’annotazione etimologica sulle varianti di dragunara registrate dal Pitrè. Se per sufunara ritorna in campo inequivocabilmente il sifone (e nel dialetto siciliano sufunata non è solo il getto di seltz, ma anche, più genericamente, il getto saettante e il tiro rapido del pallone), per mànica ipotizzerei un rapporto di somiglianza di forma, partendo da ciò che trovo in Michele Pasqualino, Vocabolario siciliano etimologico, Reale Stamperia, Palermo, 1789, al lemma manica: Mannica diciamo anche lo stretto della rete, che rassomiglia a un sacco.

Che la voce indicante la tromba marina sia connessa con la pesca trova ulteriore conferma in  Vincenzo Mortillaro, Nuovo dizionario siciliano-italiano, Pensante, Palermo, 1853, al lemma manica: Canale di rame o d’altro per cui si conduce il vino per empire le botti ed a vari arnesi di farmacia, di pesca di marina, ed altro si dà pure il nome di manica. D’altra parte l’idea del tubo è nel significato primario della voce italiana, nonché in quelli dei derivati manicotto e manichetta (con quest’ultima il pensiero corre al già detto siphon antincendio degli antichi romani. Ma, giacché ci sono, faccio notare come l’idea del tubo si connetta con quella del serpente (simbolo del maligno fin dai tempi di Adamo ed Eva) e come questo possa essere considerato un parente del drago. D’altra parte, per quanto tempo i fenomeni naturali avversi sono stati spacciati dalla religione come punizione divina dei peccati umane?

Se per la Sicilia rimane, tutto sommato, un bel gruzzolo di memoria, lo stesso non può dirsi per la Puglia e, ancor più, per Nardò. Io stesso non sarei venuto a conoscenza dello zumfione se nel corso di una conversazione come tante non fosse uscito dalla bocca di mio cognato Giuseppe Presicce, che, pur essendo più giovane di me, ne aveva sentita parlare da suo padre, che aveva avuto, fra l’altro,  l’opportunità di vedere all’opera una tagliatrice di zumfioni.

Ho già detto delle innumerevoli varianti del rituale e dal ricordo di mio cognato (che, fra l’altro, all’epoca del racconto del padre era un ragazzino) emerge che la tagliatrice di Nardò posava il coltello sulla paglia prima di usarlo per il taglio e che nel corso dell’operazione pronunciava parole incomprensibili (capisco che pure il millantatore di un potere non comune sia geloso degli strumenti del mestiere e abbia pure il diritto di difendersi dal plagio, ma non posso fare a meno di ricordare che ciò che è strano e ancor più ciò che è incomprensibile suscitano, comunque, curiosità e, a seconda delle situazioni e  degli individui, timore, rispetto, fiducia, fede (e questo accomuna tutte le religioni).

Resta così, pure per Nardò, press’a poco solo la memoria del nome, destinata anch’essa a scomparire, perché non vivificata da testimonianze a loro tempo registrate. In passato i vecchi erano una fonte preziosa di conoscenza e, siccome da parecchio tempo ormai abbiamo per so quasi completamente la virtù dell’ascolto, la tradizione orale, in pratica, non esiste più. Tuttavia una speranza mi ha ispirato a scrivere questo post: quella che qualche volenteroso onesto (pure per me sarebbe facile inventarmi una giaculatoria e spacciarla per autentica … ) ci renda partecipi di quanto, eventualmente, appreso dal bisnonno grazie al nonno …

Sarebbe, oltretutto, una prova dell’interesse suscitato da argomenti diversi da questo, quale, per esempio, Magia popolare: le legature con il sangue mestruale, che su questo blog, ancora oggi, a distanza di più di cinque anni dalla sua pubblicazione, riscuote quotidianamente il più alto numero di visualizzazioni (sicome ne ho la possibilità, periodicamente mi piace studiare fenomeni statistici di questo tipo). Per questo mi ha fatto meraviglia che il 3 u. s. abbia registrato solo 5 visualizzazioni rispetto alle 151 del mio post, ancor più datato (4/11/2011) L’escort e la pulandra: magra consolazione dovuta probabilmente ad un pruriginoso passaparola, nella conferma di una regola … .

Forse un titolo più accattivante o, addirittura, sparato, avrebbe dato alla mia speranza qualche possibilità in più, ma sono un pacifista e non sparo a nessuno e a niente, nemmeno a un titolo

Vi raccomando di non segnalare questo post al vostro idraulico, per evitare le conseguenze sintetizzate in questa vignetta di coda.

____________

 

Note

1 Gerhard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976

2 Li cito, aggiungendo la mia traduzione, dall’edizione di Giovanni Lamio, 1745 inserita nel v. CVIII della Patrologia del Migne, 1863. Questo per risparmiare al lettore la rettifica delle innumerevoli (quando ci sono …) citazioni fasulle e traduzioni fantasiose che s’incontrano in rete.

3  XIX, 6, colonna 992

Ὲχέτω δἑ  πάντως τὸν σίφωνα κατὰ τὴν πρώραν  ἔμπρσθεν χαλκῷ ἠμφιεσμένον,  ὡς ἔθος, δι’οὗ τὸ ἐσκευασμένων πῦρ κατὰ τῶν ἐναντίωνἀκοντίσαι. Καὶ ἂνωθεν  δἑ  τοῦ τοιοὺτου σίφωνος ψευδοπάτιον ἀπὸ σανίδων, καὶ αὑτὸ περιτετειχεσμένον σανίσιν, έν ᾧ στήσονται ἄνδρες πολεμισταὶ τοῖς έπερχομένοις ἀπὸ τῇς πρώρας τῶν πολεμίων ἀντιμαχόμενοι ᾓ κατὰ τῇς πολεμίας νεὼς ὁλῇς βάλλοντες δι’ ὅσων ἄν έπινοᾑσουσι ὅπλων.

4 L’edizione, che, fra l’altro, è quella di riferimento, reca ὄλης (leggi oles), che in greco non esiste; per questo nel testo riportato nella nota precedente’ho emendato in ὁλῇς  (leggi olès). Fra l’altro la voce risulta comodamente omessa nella traduzione latina a fronte, che accompagna il testo originale.

5 τῶν δὲ πρῳρέων ἐλατῶν οἱ τελευταῖοι δύο ό μὲν ἔστω σιφωνάτωρ, ό  δὲ ἔτερος ό τὰς  ἀγκύρας βάλλων κατὰ θάλασσαν.

6 Πολλὰ δὲ καὶ ἐπιτηδεύματα τοῖς παλαῖοις καὶ δὲ τοῖς νεωτέροις ἐπενοήθη κατὰ τῶν πολεμικῶν πλοίων καὶ τῶν ἐν αὐτοῖς πολεμούντων. Οἶον τό τε ἐσκευασμένον πῦρ μετὰ βροντῇς καὶ καπνρῦ προπείρου διὰ τῶν σιφώνων πεμπόμενον, καὶ καπνίζον αὐτά.

7 Χρήσασται  δὲ καὶ τῇ ἂλλῃ μεθώδῳ τῶν διὰ χειρὸς αλλομένων μικῶν σιφώνων ὄπισθεν τῶν σσιδερῶν σκουταρίων παρὰ τῶν στρατιωτῶν κρατουμένων, ἄπερ χειροσίφωνα λέγεται, παρὰ τῆς ἡμῶν βαοιλείας ἄρτι κατεσκευασμένα. Ρίψουσι γὰρ καὶ αὐτὰ τοῦ ὲσκευασμένου πυρὸς κατὰ τῶν προσώπων  τῶν πολεμίων. 

8 … λυσιτελεῖ τὰ στρεπτὰ καλούμενα τὰ διὰ μηχανῆς τὸ ὑγρὸν πέμποντα δηλαδὴ πῦρ , ὃ δὴ καὶ λαμπρὸν παρὰ τοῖς πολλοῖς, ὀνομάζεται , καὶ τὰ λεγόμενα χειροσίφωνα , ἅπερ νῦν ἡ βασιλεία ἡμῶν ἐπενόησε .

9 … ἐν ἑκάστῃ πρώρᾳ τῶν πλοίων διὰ χαλκῶν καὶ σιδήρων λεόντων καὶ ἀλλοίων χερσαίων ζῴων κεφαλὰς μετὰ στομάτων ἀνεῳγμένων κατασκευάσας, χρυσῷτε περιστείλας αὐτὰ ὡς ἐκ μόνης θέας φοβερὸν φαίνεσθαι, τὸ διὰ τῶν στρεπτῶν κατὰ τῶν πολεμίων μέλλον ἀφίεσθαι πῦρ διὰ τῶν στομάτων αὐτῶν παρεσκεύασε διιέναι, ὥστε δοκεῖν τοὺς λέοντας καὶ τἆλλα τῶν τοιούτων.

… οὐδὲ γὰρ ἐθάδες ἦσαν τοιούτων σκευῶν ἢ πυρὸς ἄνω μὲν φύσει τὴν φορὰν ἔχοντος, πεμπομένου δʼ ἐφʼ ἃ βούλεται ὁ πέμπων κατά τε τὸ πρανὲς πολλάκις καὶ ἐφʼ ἑκάτερα …

10

Τοῦτο δὲ τὸ πῦρ ἀπὸ τοιούτων μηχανημάτων αὐτοῖς διεσκεύαστο. ἀπὸ τῆς πεύκης καὶ ἄλλων τινῶν τοιούτων δένδρων ἀειθαλῶν συνάγεται δάκρυον εὔκαυστον. Τοῦτο μετὰ θείου τριβόμενον ἐμβάλλεταί τε εἰς αὐλίσκους καλάμων καὶ ἐμφυσᾶται παρὰ τοῦ παίζοντος λάβρῳ καὶ συνεχεῖ πνεύματι, κᾆθʼ οὕτως ὁμιλεῖ τῷ πρὸς ἄκραν πυρὶ καὶ ἐξάπτεται καὶ ὥσπερ πρηστὴρ ἐμπίπτει ταῖς ἀντιπρόσωπον ὄψεσι. τούτῳ τῷ πυρὶ κεχρημένοι οἱ τἄνδον τοῦ Δυρραχίου κατέχοντες, ἐπείπερ ἀντιπρόσωποι ἦσαν τοῖς πολεμίοις, τάς τε γενειάδας αὐτῶν κατέφλεξαν καὶ τὰ πρόσωπα. καὶ ἦν ἰδεῖν τούτους καθάπερ σμῆνος μελισσῶν ὑπὸ καπνοῦ διωκόμενον ἐξαγομένους ἀτάκτως, ὅθεν εὐτάκτως εἰσῄεσαν.

11 Tale non può essere considerato il Liber ignium ad comburendos hostes (Libro dei fuochi per bruciare i nemici), un breve trattato,  il cui manoscritto del secolo XV, fu rinvenuto nella biblioteca Nazionale di Parigi da Gabriel de La Portel, che lo pubblicò nel 1804. Il trattato, del quale è dichiarato come autore Marcus Graecus, è in latino, ma si è certi che si tratta della traduzione da un originale greco, per la cui datazione è possibile indicare solo il termine ante quem in qualche decennio prima del 1267, anno in cui lo conoscevano Alberto Magno e Ruggero Bacone, che lo citano nelle loro opere. Il testo, magnificato poi dagli eruditi di tutta Europa nei secoli XV e XVI, successivamente vide drasticamente ridotta la sua importanza, almeno per quanto riguarda la ricetta per la preparazione del fuoco greco, che, comunque, riporto proprio dalla prima edizione: Ignem Graecum tali modo facies: Recipe sulphur vivum, tartarum, sarcocollam et picem, sal coctum, oleum petroleum et oleum gemmae. Facias bullire invicem omnia ista bene.    Postea impone stuppam et accende, quod si volueris exhibere  per embotum ut supra diximus.    Stuppa illinita non  extinguetur, nisi urina vel aceto vel arena. (preparerai il fuoco greco in tal modo: prendi zolfo naturale, tartaro, sarcocolla e pece, sale cotto, petrolio e olio di gomma. Fai bollire bene tutto questo insieme. Poi immergi della stoppa e accendila e se vuoi gettala con uno stantuffo, come ho detto prima. La stoppa accesa si spegne solo con l’orina o con l’aceto o con la sabbia)

12 L a mia traduzione è sul testo originale riportato nella nota successiva, quale si legge nell’edizione critica Weber, Bonn, 1840, p. 84.:

13  Ὡσαύτως χρή σε καὶ περὶ τοῦ ὑγροῦ πυρός, τοῦ διὰ τῶν σιφώνων ἐκφερομένου μεριμνᾶν τε καὶ μελετᾶν, ὡς εἴπερ ποτὲ τολμήσωσί τινες καὶ αὐτὸ ἐπιζητῆσαι, καθὼς καὶ παρ’ ἡμῶν πολλάκις ἐζήτησαν, τοιούτοις αὐτοὺς ἔχεις ἀποκρούεσθαι καὶ ἀποπέμπεσθαι ῥήμασιν, ὅτι· “Καὶ αὐτὸ ἀπὸ τοῦ Θεοῦ δι’ ἀγγέλου τῷ μεγάλῳ καὶ πρώτῳ βασιλεῖ Χριστιανῷ, ἁγίῳ Κωνσταντίνῳ ἐφανερώθη καὶ ἐδιδάχθη. Παραγγελίας δὲ μεγάλας καὶ περὶ τούτου παρὰ τοῦ αὐτοῦ ἀγγέλου ἐδέξατο, ὡς παρὰ πατέρων καὶ πάππων πιστωθέντες πληροφορούμεθα, ἵνα ἐν μόνοις τοῖς Χριστιανοῖς καὶ τῇ ὑπ’ αὐτῶν βασιλευομένῃ πόλει κατασκευάζηται, ἀλλαχοῦ δὲ μηδαμῶς, μήτε εἰς ἕτερον ἔθνος τὸ οἱονδήποτε παραπέμπηται, μήτε διδάσκηται. Ὅθεν καὶ τοῖς μετ’ αὐτὸν ὁ μέγας οὗτος βασιλεὺς ἐξασφαλιζόμενος περὶ τούτου ἐν τῇ ἁγίᾳ τραπέζῃ τῆς τοῦ Θεοῦ ἐκκλησίας ἀρὰς ἐγγραφῆναι πεποίηκεν, ἵνα ὁ ἐκ τοῦ τοιούτου πυρὸς εἰς ἕτερον ἔθνος δοῦναι τολμήσας μήτε Χριστιανὸς ὀνομάζεται, μήτε ἀξίας τινὸς ἢ ἀρχῆς ἀξιοῦται· ἀλλ’ εἴ τινα καὶ ἔχων τύχῃ, καὶ ἀπὸ ταύτης ἐκβάληται καὶ εἰς αἰῶνας αἰώνων ἀναθεματίζηται καὶ παραδειγματίζηται, εἴτε βασιλεύς, εἴτε πατριάρχης, εἴτε τις ἄλλος ὁ οἱοσοῦν ἄνθρωπος, εἴτε ἄρχων, εἴτε ἀρχόμενος τυγχάνοι ὁ τὴν τοιαύτην ἐντολὴν παραβαίνειν πειρώμενος. Καὶ προετρέψατο πάντας τοὺς ζῆλον καὶ φόβον Θεοῦ ἔχοντας, ὡς κοινὸν ἐχθρὸν καὶ παραβάτην τῆς μεγάλης ταύτης ἐντολῆς, τὸν τοιοῦτον ἐπιχειροῦντα ποιεῖν ἀναιρεῖν σπουδάζειν, καὶ ἐχθίστῳ καὶ χαλεπῷ παραπέμπεσθαι θανάτῳ. Συνέβη δέ ποτε, τῆς κακίας ἀεὶ χώραν εὑρισκούσης, τινὰ τῶν ἡμετέρων στρατηγῶν δῶρα παρά τινων ἐθνικῶν πάμπολλα εἰληφότα μεταδοῦναι αὐτοῖς ἐκ τοῦ τοιούτου πυρός, καὶ μὴ ἀνεχομένου τοῦ Θεοῦ ἀνεκδίκητον καταλιπεῖν τὴν παράβασιν, ἐν τῷ μέλλειν αὐτὸν ἐν τῇ ἁγίᾳ τοῦ Θεοῦ εἰσιέναι ἐκκλησίᾳ πῦρ ἐκ τοῦ οὐρανοῦ κατελθὸν τοῦτον κατέφαγε καὶ ἀνάλωσεν. Καὶ ἀπὸ τότε φόβος μέγας καὶ τρόμος ἐν ταῖς ἁπάντων ἐνετέθη ψυχαῖς, καὶ οὐκέτι οὐδεὶς τοῦ λοιποῦ, οὔτε βασιλεύς, οὔτε ἄρχων, οὔτε ἰδιώτης, οὔτε στρατηγός, οὔτε ὁ οἱοσοῦν ὅλως ἄνθρωπος κατετόλμησέ τι τοιοῦτον ἐνθυμηθῆναι, μήτι γε καὶ ἔργῳ ἐπιχειρῆσαι ποιῆσαι ἢ διαπράξασθαι.

 

Dialetti salentini : “iata a” o “iat’a”?

di Armando Polito

Uno dei problemi ancora irrisolti dello studio dei dialetti riguarda la fase principale, cioè quella della trascrizione, dalla quale tutto muove. Pur tenendo conto delle difficoltà che nella raccolta del materiale orale sono connesse con differenze più o meno percettibili nella pronuncia, spetta allo studioso registrare e trattare il lemma senza, possibilmente, ricorrere a forzature semantiche o fonetiche o a comode quanto dubbie attribuzioni di marca grammaticale. Sono dell’avviso che, finché un fenomeno è interpretabile col già noto, è inutile ricorrere a giustificazioni che ben poco hanno di scientifico e sanno di espediente più o meno autoritariamente furbesco.È il caso dei due nessi di oggi, soprattutto del primo, dal quale comincio. E lo faccio riportando, e potevo fare altrimenti?, il trattamento riservatogli dal Rohlfs.

Jatu, dunque, ha il suo esatto corrispondente nell’italiano beato, rispetto al quale mostra l’aferesi di b-, fenomeno normalissimo (bilancia/iḍḍanza; botte/otte; bocca/occa, etc. etc.).
Mi permetto di non condividere quel jata forma invariabile quando è in composizione con la preposizione a: nella pronuncia dei parlanti una differenza più o meno percettibile (come succede nel caso di un’elisione)  può indurre a grafie diverse e nel nostro caso le grafie jat’a ttie (beato a te), jat’a iddu (beato a lui) e jat’a mme (beato a me, sottinteso in tutti dico) come, invece, è avvenuto in iat’a iḍḍhu, non avrebbero costretto a ricorrere a quel comodo jata forma invariabile. Ne approfitto per precisare che la forma con aferesi a Nardò ricorre solo nel nesso del quale stiamo trattando; le forme puramente aggettivali, invece, sono biatu/biata/biati/biate.

Sulle orme del Rohlfs si muove il Garrisi.

Dialetti salentini: fiata, fiatu, fiatare

di Armando Polito

 

 

L’apparenza inganna e, infatti, le due prime voci non sono legate ad una differenza di genere e hon sono, nemmeno lontanamente, parenti.

La prima, fiata, appartiene all’insospettabile schiera delle parole il cui uso è classificato nei vocabolari d’italiano come letterario , ma che, nonostante questa caratteristica nobiliare, sono tanto radicate nel nostro dialetto da non essere state affiancate, tanto meno sostituite, da sinonimi. Non sentirete mai un salentino dire Pi ‘sta volta ti perdonu o, nel raccontare una favola (circostanza poco probabile, a meno che non si tratti di un politico …), C’era ‘na volta

Per chiarezza ripercorro, sia pure rapidissimamente la vita di fiata, partendo dalle origini: latino volgare vicata (dal classico vicis=alternanza, sorte)> francese antico fiée>italiano fiata

E siamo a fiatu, esatto corrispondente dell’italiano fiato, dal latino flatu(m), a sua volta deverbale da flare=soffiare. Nel salentino fiatu entra pure nella locuzione esclamativa fiatu mia!, a sottolineare una situazione favorevole (da un amore corrisposto al gradimento di un cibo, da una promozione in vista ad una appena ottenuta, etc. etc.). Qui fiatu è utilizzato nel significato traslato di respiro, anima, come in italiano in anima mia!, vita mia!.

Fiatare, tal quale la voce italiana (che è dal latino tardo flatare, forma intensiva del flare prima citato),  assume nel salentino il significato di soffiare (che è pure dell’italiano letterario).

La vignetta riassume, forse più eloquentemente, quanto fin qui detto.

 

Dialetti salentini : “iata a” o “iat’a”?

di Armando Polito

Uno dei problemi ancora irrisolti dello studio dei dialetti riguarda la fase principale, cioè quella della trascrizione, dalla quale tutto muove. Pur tenendo conto delle difficoltà che nella raccolta del materiale orale sono connesse con differenze più o meno percettibili nella pronuncia, spetta allo studioso registrare e trattare il lemma senza, possibilmente, ricorrere a forzature semantiche o fonetiche o a comode quanto dubbie attribuzioni di marca grammaticale. Sono dell’avviso che, finché un fenomeno è interpretabile col già noto, è inutile ricorrere a giustificazioni che ben poco hanno di scientifico e sanno di espediente più o meno autoritariamente furbesco.È il caso dei due nessi di oggi, soprattutto del primo, dal quale comincio. E lo faccio riportando, e potevo fare altrimenti?, il trattamento riservatogli dal Rohlfs.

Jatu, dunque, ha il suo esatto corrispondente nell’italiano beato, rispetto al quale mostra l’aferesi di b-, fenomeno normalissimo (bilancia/iḍḍanza; botte/otte; bocca/occa, etc. etc.). Mi permetto di non condividere quel jata forma invariabile quando è in composizione con la preposizione a: nella pronuncia dei parlanti una differenza più o meno percettibile (come succede nel caso di un’elisione)  può indurre a grafie diverse e nel nostro caso le grafie jat’a ttie (beato a te), jat’a iddu (beato a lui) e jat’a mme (beato a me, sottinteso in tutti dico) come, invece, è avvenuto in iat’a iḍḍhu, non avrebbero costretto a ricorrere a quel comodo jata forma invariabile. Ne approfitto per precisare che la forma con aferesi a Nardò ricorre solo nel nesso del quale stiamo trattando; le forme puramente aggettivali, invece, sono biatu/biata/biati/biate.

Sulle orme del Rohlfs si muove il Garrisi.   

Negli esempi riportati al n. 1 del  lemma iatu è chiaro il valore aggettivale in perfetta concordanza con il sostantivo che l’accompagna. Al n. 2, invece, si parla di aggettivo indeclinabile, dicitura omologa al forma invariabile. Osservo anche qui che iata alle soru toi! vale dico (sottinteso) beata alle tue sorelle! e la mancata concordanza al plurale per iata è dovuto al fatto che il beata è detto a ciascuna delle sorelle. Di conseguebza, gli esempi del lemma iata per me vanno scritti così: iat’a ddi frati toi!, iat’alli ii e no alli muerti!, iat’a dde case a ddu na chierica nci trase.

Ora, per quanto il Rohlfs sia un indiscusse ed indiscutibile maestro e, pur ipotizzando che i dati fornitigli dai suoi informatori locali siano attendibili (cosa che non sempre avviene), c’è una sensibilità, direi genetica, legata alla terra d’origine ed al dialetto in essa parlato. Sotto questo punto di vista il suo vocabolario ha del miracoloso, ma niente è perfetto. E se un tedesco ha dato vita ad un’opera monumentale, sarebbe opportuno che qualche salentino ogni tanto, pur pigmeo di fronte ad un gigante, si ponesse qualche dubbio, sfruttando proprio una, almeno  teoricamente, sufficiente  dimestichezza con il proprio dialetto. Le osservazioni che ho fatto hanno bisogno di un corollario, costituito da quanto mi permette di far notare l’esatto opposto del lemma finora oggetto del contendere:  maru (amaro) anch’esso con aferesi (ma è una semplice coincidenza) come iatu rispetto a beatu.

Maru, intanto, è in uso come aggettivo, ma ricorre pure in locuzioni esclamative come mar’a tte! (guai, alla lettera, amaro per te!), mar’a llu muertu ci non è cchiantu allora! (guai per il morto che non è pianto al momento!). Anche qui mar’ (da maru con elisione) mi appare come aggettivo sostantivato (cosa amara) o ellittico del sostantivo (destino).

Il lemma è trattato dal Rohlfs nel modo che segue.

 

In la maru ciucciu la testimonianza è letteraria e, come spesso succede nella letteratura dialettale la scrittura può risente delle ridotte capacitò filologiche degli autori; in questo caso, però,l’autore (Francesco Morelli, Canti in vernacolo, Lecce, 1935) ha al suo attivo parecchie altre pubblicazioni1 e, anche se questo non è garanzia di affidabilità, è più probabile che si tratti di un errore di stampa (nella pubblicazione originale 2 o nella citazione) per lu maru ciucciu più che per l’amaru ciucciu.

Passo ora al rimando che ci riguarda più da vicino.

In tutti gli esempi riportati (tranne due, in cui la diversa grafia può essere legata, come detto, alla pronuncia) compare mar’, per il quale, a differenza di jata non si parla minimamente di forma aggettivale invariabile e il guai a della definizione potrebbe tradire una valutazione, non dichiarata, di mar’ come aggettivo sostantivato.

Vediamo ora cosa si legge nel Garrisi.

I due lemmi dimostrano emblematicamente come la pronuncia può indurre a valutazioni grammaticali errate e ad una altrettanto errata riproduzione grafica: nel secondo lemma Mmara ddu muertu ci nun ete chiantu all’ura e non Mmar’a … ha obbligato ad inserire nella triade , stavo per dire ammucchiata, delle varianti del secondo lemma un mmara (aggettivo famminile, che mal si legherebbe al resto anche sottintendendo il sorte che il Garrisi ha messo in campo nel primo lemma; se se ne fosse ricordato l’avrebbe messo in campo pure per iata? …). D’altra parte non si comprende come un semplice, quasi fisiologico per il salentino, raddoppiamento della consonante iniziale in mmara avrebbe comportato la soppressione della preposizione a richiesta, invece, da mara.

In conclusione: le grafie iat’a e mar’a del titolo rispecchiano, secondo me, il valore grammaticale nativo (aggettivo sostantivato) del quale il parlante sarà pure inconsapevole, ma la cui individuazione da parte dello studioso è doverosa per evitare bizantinismi interpretativi, dimenticando che l’eeccezione cinferna la regola, proprio

____________

1 Liriche, L’italia Meridionale (Tip. G. Garrisi), Lecce,1934

Saggio delle nuove poesie in vernacolo, Scorrano, Lecce, 1936

Poesie in vernacolo: secondo saggio, Cafaro, Lecce, 1936?

Poesie in vernacolo: terzoo saggio, Cafaro, Lecce, 1936?

Liriche: saggio del primo volume, Cafaro, Lecce, dopo il 1936

Fiori e sorrisi: versi  giovanili, R. Tipografia Editrice Salentina, Lecce, 1909

2 Sarei grato a chiunque  potesse comunicarmi l’esito di un controllo, magari occasionale,  che non ho potuto fare.

Le “cattedre ambulanti di agricoltura” in Terra d’Otranto

di Armando Polito

La stupida divaricazione esistente tra la cultura scientifica e quella umanistica si è, a mio avviso, accentuata da quando la scienza cosiddetta pura ha ceduto il passo a quella applicata, per cui la stessa ricerca può contare quasi esclusivamente su sponsorizzazioni pubbliche, e ancor più private, se il campo d’indagine è promettente in vista di uno sfruttamento economico dei suoi risultati. Non auspico certamente che pure quella umanistica diventi schiava del profitto ma che almeno vitalizzi con la pratica una teoria altrimenti destinata a restare stucchevole, noiosa e, purtroppo, sterile sotto tutti i punti di vista, non escluso quello economico. Che senso ha, ad esempio, in un liceo classico studiare il latino ed il greco e, sfruttando il laboratorio d’informatica e la versione elettronica dei vocabolari delle due lingue (per non dire delle risorse reperibili in rete), non  dare agli allievi un’idea, almeno quella, delle enormi potenzialità offerte dall’informatica, senza, per questo, però, trascurare di parlare delle velleità della linguistica computazionale col connesso rischio che dall’IA (‘intelliggenza artificiale) si passi all’IA (idiozia acquisita)? Che ci sarebbe di strano, poi, se già a partire dalla fine del biennio, si mettessero gli allievi in contatto guidato se non con un manoscritto antico, almeno con un’epigrafe? Purtroppo temo che ancora oggi nello studio della letteratura la sezione antologica del manuale sia la cenerentola, oppure che avvenga il contrario, illudendosi che la lettura possa prescindere dalla conoscenza della grammatica o, peggio, che quest’ultima possa essere bypassata.

Oggi ci si lacera le vesti e ci si scompiglia i capelli sciacquandosi la bocca con fenomeni come la dispersione scolastica. I pochi benemeriti come Lorenzo Milani, purtroppo, non fanno testo, perché dovrebbe essere lo stato a farsi carico di portare la scuola nella strada, visto che la strada tiene lontano dalla scuola. Sotto questo aspetto pure il passato può insegnarci qualcosa e per questo entro in argomento.

Le cattedre ambulanti d’agricoltura hanno portato la scuola sul camo, visto che il campo, per una serie di motivi facilmente intuibili (e non per la congenita impossibilità a muoversi …), non poteva andare a scuola.

La prima in Italia nacque ad Ascoli Piceno nel 1868. Via via seguirono le altre, tutte  come associazioni private gestite da figure di grande prestigio in campo agrario. La loro diffusione, proprio per il loro carattere volontaristico, era limitata alle aree in cui l’agricoltura era più avanzata e le amministrazioni locali più attive e lungimiranti. Solo il 13 luglio 1907 con la legge n. 513 esse saranno istituzionalizzate con normativa statale riguardante all’assetto giuridico, la costituzione delle commissioni interne di vigilanza e lo svolgimento dei concorsi per l’attribuzione della carica di direttore. il compito primario delle cattedre era quello di diffondere le più avanzate pratiche di agricoltura attraverso una adeguata serie di conferenze da tenere nei vari paesi, seguite da libere discussioni, con dimostrazioni pratiche in sede o in aperta campagna e con la pubblicazione di un bollettino quindicinala o mensile, oggi documento prezioso per la ricostruzione delle attività ma anche dell’organigramma. La cattedra ambulante di agricoltura di Terra d’Otranto (comprendente all’inizio le sezioni di Brindisi, Taranto, Gallipoli, Tricase e il Comizio agrario di Lecce, nacque (o, quanto meno, iniziò a pubblicare il suo bollettino, L’agricoltura salentina, nel 1902. L’immagine che segue riproduce il frontespizio del primo numero del 1904 e l’analisi che farò, integrata con i dati registrati da altre pubblicazioni ufficiali può dare concretamente un’idea dell’importanza documentaria della quale ho detto prima.

A tale scopo basterebbe solo soffermarsi sui nomi citati ed è quello che farò nelle schede che seguono, anticipando solo che essi, i più non salentini (in quanto la mobilità dell’insegnante, occasione di nuove esperienze e, dunque, di miglioramento professionale, era all’epoca considerata come un fenomeno normale e non una iattura, qual è oggi per l’insegnante che vorrebbe il posto di lavoro a pochi metri da casa sua …), rappresentano, com’è naturale quando è la competenza a prevalere nell’attribuzione di un qualsiasi incarico, la crema della scienza agraria di allora.

FERDINANDO VALLESE

Non sono riuscito a reperire nessuna nota biografica, anche se la sua carriera iniziò a Lecce, continuò a Sassari, per concludersi ancora a Lecce. Il fatto che in quest’ultima città una strada è intitolata al suo nome indurrebbe a supporre, rischi connessi con l’omonimia a parte, che fosse, quanto meno, salentino. Un altro indizio è dato dal suo articolo La coltivazione della Batata a Calimera pubblicato sul n. 23 del 15 dicembre 1902 debollettino; il tema appare troppo legato al territorio [la patata zuccherina di Calimera oggi risulta inserita nel PAT (Prodotti Agroalimentari Tradizionali)] per essere oggetto di studio da parte di uno straniero. Quasi sterminata è la serie delle sue pubblicazioni1.  

GIOVANNI MOLÈ

Nessuna notizia biografica; tuttavia, il cognome e il territorio prevalente oggetto di studio dei suoi lavori2 autorizzano ad ipotizzare un’origine siciliana.

GIOVANNI D’AMBROSIO

Il prevalente luogo di pubblicazione dei suoi lavori3 (Casalbordino) induce a pensare che fosse di origine abruzzese.

 GIOVANNI DONINI

I primi dei suoi lavori4 risultano pubblicati a Gallipoli, ma questo da solo non basta per ipotizzare la sua origine salentina.

GIUSEPPE GRAVINA

L’unica sua pubblicazione5 non aiuta a individuarne l’ origina.

FEDERICO SOLERI

I luoghi prevalente delle sue pubblicazioni6 indurrebbero a pensare ad un’origine toscana.

Da notare come nel frontespizio del bollettino riprodotto tra le sezioni (Brindisi, Taranto, Gallipoli e Tricase) manca Nardò. Evidentemente alla data del 15 gennaio 1904) la sua sezione non era stata ancora istituita, mentre risulta presente alla data del 1927, come riportato dall’ Annuario del Ministero dell’economia nazionale, 1927-V – 1928 VI, Libreria Provveditorato Generale dello Stato, Roma, 1928, p. 206, dal dettaglio di seguito riprodotto.

Naturalmente molti altri prestarono la loro opera nella cattedra ambulante di Terra d’Otranto  fino al 1928, anno in cui furono tutte soppresse7. Solo pochi nomi:

LUIGI SCODITTI (1896-1973) Iniziò la sua carriera professionale presso le Cattedre Ambulanti di Agricoltura (gli attuali Ispettorati Provinciale dell’Agricoltura). Prestò servizio dapprima a Lecce, poi a Gallipoli, Francavilla Fontana, Cerignola. Fu autore molto prolifico e dai molteplici interessi8.

LIBORIO SALOMI (Carpignano Salentino 1882 – Lecce 1952). Subito dopo la laurea lavorò presso la “Cattedra ambulante per le malattie dell’olivo” di Lecce e quando questa cessò di esistere passò ad insegnare Storia Naturale presso l’Istituto Tecnico  “Oronzo Gabriele Costa” di Lecce, succedendo a Cosimo De Giorgi. Non ha lasciato nessuna pubblicazione, ma non è questo, soprattutto per quei tempi …, l’unico metro del valore di un uomo di scienza.

ATTILIO BIASCO (1882-1959)  di Presicce. Scienziato principe dell’olivicoltura, come dimostra la maggior parte dei titoli delle sue numerosissime pubblicazioni9. Diresse L’agricoltura salentina dal 1923.

Oggi il PSR (Piano di Sviluppo Rurale) di ogni regione prevede la rinascita in chiave moderna delle cattedrev ambulanti, ma, pur non mancando le risorse, è indispensabile la volontà politica, al momento latitante, di realizzarla.

Tutte le cattedre all’epoca si avvalsero del veicolo pubblicitario all’epoca più potente e in pratica tutte dettero la loro intestazione a cartoline postali, oggi ricercate dai collezionisti. Per risparmiare spazio mi limito a riportare ub solo esempio che ci riguarda più da vicino.

La cartolina, spedita da Lecce il 25/10/1926 e incredibilmente giunta nello stesso giorno a Trani, è indirizzata All’Ill.mo Sig. Conte Pasquale Romano, Palazzo Antonacci, Trani.

I bollettini mensili, che le cattedre, come s’è detto, erano obbligate a pubblicare, sono preziose fonti d’informazione e ricostruzione storica. Nel nostro caso, invece, un aiuto ci viene dall’ Annuario del Ministero dell’economia, op. cit. nel dettaglio prima riprodotto e che, per comodità del lettore, replico.

Apprendiamo così non solo che il conte Pasquale Romano era un avvocato ma pure che alla data del 1928 ricopriva ancora la carica di presidente, mentre direttore era Attilio Biasco.

 

Lo stesso numero ci dà notizia delle cattedre delle altre provincie (Per Brindisi a p. 203 e per Taranto a p. 210).

 

Ho l’impressione che negli ultimi tempi le cattedre passarono, almeno per quanto riguarda la presidenza,  dal controllo dei professori di agraria, vantanti, come abbiamo visto, numerose pubblicazioni, a quello dei latifondisti (conte Pasquale Romano, barone Giuseppe Pantaleo) e di Mosè Stefanelli, che non pubblicarono nulla mentre che non pubblicarono nulla. Sorprende, per la provincia di Brindisi l’assenza del direttore, ma, in compenso, di quello della provincia di Taranto, Aurelio Bianchedi, si registra un numero apprezzabile di pubblicazioni10 .Su Giuseppe Pantaleo riproduco quanto si legge nella Rassegna puglese dfi scienze, lettere ed arti, anno XXX, v. XXVIII, nn. 6-7-8, Trani-Roma, Giugno-Luglio-Agosto 1913, p. 284

È certo, però, che nel meridione le cattedre non si distinsero per attivismo e spirito d’iniziativa, mentre le provincie settentrionali pubblicarono, oltre al bollettino periodico previsti dalla legge, anche alcune delle lezioni.

Non poche coniarono pure medaglie commemorative, con esiti esteticamente apprezzabili grazie alle allusioni a modelli del passato remoto o recente, come volta per volta dirò.

Al dritto lo stemma della provincia di Cuneo e legenda PROVINCIA DI CUNEO; al verso CATTEDRA AMBULANTE DI AGRICOLTURA MOSTRA DI FRUTTICOLTURA OTTOBRE 1928


Al dritto un seminatore; al verso un fascio di spighe a destra ed a sinistra un ramo di pianta di difficile, almeno per me, identificazione, replicata in esergo, e legenda CATTEDRA AMBULANTE DI AGRICOLTURA PROVINCIADI COMO. La raffigurazione del seminatore sembra essere sta ispirata  dal famosissimo Seminatore al tramonto di incent van Gogh (ne riporto il dettaglio per comodità di confronto).

 

Al dritto la dea Fortuna seduta in trono regge con la sinistra la cornucopia, simbolo dell’abbonsanza e con la destra il timone dell’aratro; legenda NIHIL MAIUS MELIUSVE TERRIS (Niente è maggiore e migliore delle terre) FERRARIA; al verso in campo vuoto CATTEDRA AMBULANTE DI AGRICOLTURA MDCCCXCIV    FERRARA MCMXXIV. NIHIL MAIUS MELIUSVE TERRIS è citazione da Orazio (Odi, IV, 2, 37). La medagli celebra il trentesimo anniversario anniversario dalla fondazione della cattedra (1894-1924) La raffigurazione appare ispirata a quella che nelle monete romane di epoca imperiale è uno dei due stereotipi (l’altro prevede la Fortuna seduta non sul trono ma sulla ruota. Di seguito due dei tantissimi esempi delle due varianti.

Asse: nel dritto testa laureata di Adriano (fu imperatore dal 117 al 138); al rovescio la Fortuna, nell’iconografia sopra descritta.

Al dritto testa di Aureliano (fu imperatore dal 270 al 275); al rovescio la Fortuna seduta sulla ruota.

Il piccolo repertorio di medaglie delle cattedre ambulanti fin qui presentato termina con due ultimi esemplari.


Al dritto testa di Mussolini rivolta a sinistra e legenda DUX con una fiamma a destra; al verso CATTEDRA AMBULANTE DI AGRICOLTURA DI LUCCA COMM(ISSIONE) PROVINCIALE GRANARIA, in esergo una spiga di grano

Al dritto testa di Mussolini rivolta a sinistra e legenda PIÙ FONDO IL SOLCO PIÙ ALTO IL DESTINO  e in basso al centro DUX e una fiamma; Al verso in alto un aratro e legenda CATTEDRA AMBULANTE AGRICOLTURA PADOVA GARA DISTRETTUALE 1930 e  al margine intorno COMMISSIONE PROVINCIALE GRANARIA. La medaglia attesta apertamente con GARA il clima di competizione tra le varie cattedre nel quadro della cosiddetta Battaglia del grano, caposaldo del programma autarchico del regime fascista.

Da notare nei due dritti l’utilizzo dello stesso modello iconografico, molto simile ad uno dei due (prima immagine sottostante) utilizzato in altre medaglie, in alternativa all’altro (seconda immagine).

Se le medaglie potevano costituire motivo di orgoglio per le cattedre, un carattere più peronale e privatistico avevano i diplomi rilasciati per aver partecipato con profitto ai corsi.

CATTEDRA AMBULANTE DI AGRICOLTURA

DI MODENA

ISTRUZIONE PROFESSIONALE DEI CONTADINI

ANNO 1930-1931-IX

CONCORSO GENERALE DI CAMPOSANTO

Si certifica che Moprselli M.O Luigi figlio di Giuseppe

nato a Camposanto il giorno 16 del mese di ottobre dell’annp 1869

ha frequentato regolarmente il suddetto corso professionale con esito ottimo.

Modena, li 30 giugno 1931

IL DIRETTORE                                                              L’ISTRUTTORE DEL CORSO

della cattedra ambulante di agricoltura

Diplomi erano previsi anche per i partecipanti ai concorsi, ma in questo caso, naturalmente, il premiato non era un contadino ma un produttore, che spesso poteva vantare il titolo di dottore.

CATTEDRA AMBULANTE DI AGRICOLTURA DI FANO

CONCORSO DI FORAGGIERE LEGUMINOSE

4° PREMIO

Diploma di Medaglia di Bronzo

Al Signor

Giovannelli Dott. Alberto

Fano, Giugno 1906 

In tempi molto recenti, poi, c’è chi ha pensato di sfruttare l’improbabile suggestione alimentata dal ricordo di questa istituzione: Giovanni Gregoletto (a cura di), Viti ambulanti. Nuove cattedre di enologia e viticultura, Edizioni SUV, s. l., 2014.

L’autore, nato a Conegliano nel 1963, vive a Premaor di Miane in provincia di Treviso. Viticultore, ha promosso la realizzazione in località Pedeguarda di Follina, sempre in provincia di Treviso, di un luogo museale che ospita gli oggetti che compaiono nel libro. Non a caso SUV è l’acronimo di Spazio dell’Uva e del Vino.

_____________________

1

Brevi norme pratiche per riconoscere, prevenire e combattere alcuni nemici della vite, s. n., Lecce, 1884

La cantina sperimentale di Lecce nel 1886, Lazzaretti, Lecce, 1887  

Le viti americane nella provincia di Sassari, Dessi, Cagliari, 1894

Le viti americane e la viticoltura moderna, Vallardi, Milano, 1896

Nuovo vivaio di viti americane nel podere della Scuola pratica di agricoltura in Sassari, Rizzo, Catania, 1898

La regia scuola pratica di agricoltura in Marsala nel suo primo bienno di esistenza, Giliberti, Marsala, 1900

Il presente e l’avvenire della viticoltura marsalese, Giliberti, Marsala, 1900  

Gl’ibridi produttori diretti, Giliberti, Marsala, 1901  

La caprificazione in Terra d’Otranto: osservazioni ed esperimenti, Tipografia cooperativa, Lecce, 1904

La cattedra ambulante di agricoltura per la provincia di Terra d’Otranto nel suo primo biennio di esistenza, Regia Tipografia Editrice Salentina, Lecce, 1904

Le cause certe o probabili dell’improduttività degli oliveti leccesi, Tipografia Giurdignano, Lecce, 1907

Gelsi e bachi: istruzioni pratiche per gli agricoltori salentini, Tipografia Giurdignano, Lecce, 1907

ll fico: nozioni botaniche, varietà, coltivazione, produzione, disseccamento, commercio, avversita, Battiato, Catania, 1909

ll trifoglio alessandrino o bersim (trifolium alexandrinum lin.) in Terra d’Otranto : esperimenti culturali eseguiti durante l’anno 1909-1910, Regia Tipografia Editrice Salentina, Lecce, 1910

Il gelso: nozioni pratiche di coltivazione, con speciale riguardo al Mezzogiorno d’Italia, Battiato, Catania, 1912

Esperimento contro la mosca delle olive, (dacus oleae gml) col metodo delle capannette dachicide, Tipografia Editrice Salentina, Lecce, 1913

La gelsicoltura e la bachicoltura in Terra d’Otranto nel 1913-14, Regia Tipografia Editrice Salentina, Lecce, 1914

2

Studio scientifico-economico sull’ex feudo Bosco di S. Pietro con speciale riguardo sulla coltivazione ed utilizzazione della sughera in Sicilia, Stabilimento tipografico vesuviano, Portici, 1902

La terra ai contadini, Industrie grafiche romane “ars nova”, Roma, 1924    

Perfosfati o fosforiti macinate? Problemi agrari, Stamperia della Libreria italiana e straniera, Sassari, 1926

L’ irrigazione ed il latifondo in Sicilia, s. n., Milano, 1926

Studio-inchiesta sui latifondi Siciliani, Tipografia del Senato, Roma, 1929

Contributo allo studio dell’emigrazione in rapporto alle condizioni dell’agricoltura in Sicilia, Lucci, Roma, s. d. 

3

L’innesto erbaceo delle viti, Tipografia Nicola De Arcangelis, Casalbordino, 1903 

Concimi di origine organica e concimi di origine inorganica. Istruzioni pratiche sul loro uso, sul loro commercio e sul loro controllo, Tipografia Nicola De Arcangelis, Casalbordino, 1905 

L’olivicultura nella zona adriatica brindisina, Tipografia Nicola De Arcangelis, Casalbordino, 1905 

La nostra vigna nei riguardi ai concimi e alle concimazioni, Tipografia del commercio, Brindisi, 1913

Potatura dell’ulivo : norme da servire di guida ai pratici ulivicultori, Tipografia del commercio, Brindisi, 1915  

Protezione degli animali utili all’agricoltura, Fratelli Puglisi, Ragusa, 1932 

4

Come si dovrebbe coltivare il castagno nell’alta zona santafiorese, Stefanelli, Gallipoli, 1904

Parassitismo o Saprofitismo dello Agaricus Melleus? Appunti e ricerche, Stefanelli, Gallipoli, 1904

La questione fillosserica e le viti americane nel territorio di Sansevero, Stefanelli, Gallipoli, 1904

Bisogna mutarsi!…,Stefanelli, Gallipoli, 1905

Per una scuola d’agricoltura nel canton Ticino, Tipografia della Camera dei Deputati, Roma, 1910

Ancora della scuola agraria F. Gigante di Alberobello, Cressati, Noci, 1912

grani Strampelli e Todaro nel Fabrianese, Tipografia Federazione Consorzi Agrari, Fabriano, 1921

Della ginestra spartium junceum L., Gentile, Fabriano, 1937

Della ginestra, Arti grafiche Gentile, Roma, 1938 

5

Sunto sull’attività della cattedra dal 1 ottobre al 30 giugno 1905, Tipografia L. Caforio, Taranto, 1905

6

Guida e norme per l’acquisto e Controllo delle materie utili in agricoltura, Tip. Rusconi-Gavi-Nicrosini Succ. Gatti, Voghera, 1902

Relazione sulla attività della cattedra ambulante per la provincia di Massa-Carrara dal Maggio 1904 al Dicembre 1905, Massa, Tipografia E Medici, 1906  

Guida pratica per l’applicazione dei concimi artificiali : Esperienza di concimazione su lupini diretta dal prof. Federico Soleri, eseguita nel 1905 nella tenuta del Conte a. Guerra, Soc. Tip. Già Compositori, Bologna, 1906 

Relazione sugli esperimenti di concimazione istituiti sui Prati e Pascoli Montani in provincia di Massa e Carrara, Massa, Tipografia E Medici, 1908   

L’attività della Cattedra nel primo sessennio, Poligrafica Stagi, Conti & C., Livorno, 1910

Si può aumentare la produzione granaria in prov. Di Massa-Carrara? : Dati e risultati degli esperimenti di concimazione Chimica del grano istituiti dalla cattedra ambulante di agricoltura, Massa, Tipografia E Medici, 1922

Per le prossime semine del grano : Consigli pratici agli agricoltori apuani, illustrati dai risultati di alcuni esperimenti di concimazione chimica del grano istituti per conto del Ministero di agricoltura, Massa, Tipografia E Medici, 1923

7

Oggi il PSR (Piano di Sviluppo Rurale) di ogni regione prevede la rinascita in chiave moderna delle cattedrev ambulanti, ma, pur non mancando le risorse, è indispensabile la volontà politica, al momento latitante, di realizzarla.

8

La lotta contro le principali malattie delle piante. Note pratiche per gli agricoltori del Salento, Tipografia Guido, Lecce, 1927

Note storico-rurali su Mesagne nel Salento, Atel, Roma, 1962

Le origini di Latiano patria di Bartolo Longo. Arti Grafiche Ciccolella, Bari, 1964

Numerosissime sue monografie dattiloscritte sono custodite nella Biblioteca Nicola Bernardini di Lecce:

Origine e fine dei casali medievali del Salento, s. d.

L’ attività agricola dei monaci basiliani nel Salento nello alto medio evo, s. d.

Le incursioni turche nel Salento, 1950  

La patria di Ennio era presso Francavilla Fontana?, 1953

I templi di Minerva ed il porto in cui sarebbe sbarcato Enea sulla costa sud-orientale del Salento, 1955

Tre piazzeforti messapiche tra Oria e Brindisi, 1955

Note storico-rurali sul Salento, 1958

L’ antica via Appia nel Salento, 1959

Specchie e paretoni nel Salento, 1959

I Messapi e le guerre dei Messapi con Taranto, 1959;

Le origini ed il nome di Lecce, 1959

I nomi dialettali salentini dei fioroni di fico, 1959

L’ origine e la denominazione dei centri abitati della provincia di Brindisi, 1959

Il Limitone dei greci e la muraglia confinaria messapica nel Salento, 1959

Le città dell’antica Messapia, 1960

Torri della Regina Giovanna nel Salento, 1960

L’origine del tratto Monopoli-Lecce dell’odierna strada statale adriatica, 1961

La congetturata città di Sibari nella Messapia, 1962

Le origini e la denominazione di Otranto, Gallipoli e Leuca, 1962

Le famose lane tarantine dell’epoca romana, 1962

Fabbricati rurali fortificati del Salento e le loro origini, 1962

Oria fumosa, 1962

Tracce di aziende agrarie e colonizzazione agraria nel Salento dell’epoca romana, 1962

Le antiche diligenze e l’antica strada di Puglia da Napoli a Lecce, 1962

Neviere e neve nel passato a Mesagne a Francavilla Fontana ed altrove, 1962

L’agro di Arneo nel passato nel Salento, 1963

Le masserie del Salento e le loro vicende, 1963

Ancora sulla località in cui sarebbe sbarcato Enea nel Salento, 1963

Antichi passaggi sotterranei nel Salento con particolare riguardo a Mesagne, 1963

Chi era la regina Donna Sabetta del canto popolare di Melendugno nel Salento?, 1963

Centri balneari nel Salento nel penultimo decennio dell’ottocento, 1963

Il culto di Santa Cesaria nel Salento, 1963

Le origini e la denominazione di Santa Cesarea e di Porto Cesareo nel Salento, 1963

Le antiche vie Appia e Traiana Appia nel Salento, 1963

Note critico-storiche su Oria nel Salento, 1964

L’ origine e la denominazione di Campi Salentina e di Carmiano nel Salento, 1965

Aggiunte e modifiche alla nota n. 8 del mio opuscolo “L’origine e il nome di Campi Salentina e di Carmiano nel Salento, 1966

Le antiche numerazioni dei fuochi e l’entità della popolazione nel Regno di Napoli, 1966

Note critico-storiche sulle origini del Vescovato di Oria nel Salento, 1966

La chiesa di S. Maria della Mutata in agro di Grottaglie ed il suo nome, 1967

La popolazione di Mesagne dal 1378 al 1961, 1968

Brindisi non è la città di Temesa citata da Omero, 1968

9

L’ olivicoltura nel basso leccese : memoria monografica, Giannini, Napoli, 1807

La brusca nel mandorlo e nell’albicocco; sulla distanza degli alberi negli oliveti leccesi , R. stabilimento tipografico Francesco Giannini & figli, Napoli, 1908

Ricerche anatomo-patologiche sul roncet della vite, Stabilimento tipografico vesuviano, Portici, 1909

La coltivazione dell’asparago, Stabilimento tipografico Giordignano, Lecce, 1909

La quercia vallonea, Tipografia editrice salentina fratelli Spacciante, Lecce, 1912

Notizie intorno alla Quercia Vallonea (Quercus Aegilops L.), Premiato stabilimento tipografio Ernesto Della Torre, Portici, 1914

Sulla improduttività degli oliveti : cause, rimedi, Editrice salentina, Lecce, 1915

Per il miglioramento dei tabacchi levantini nel Salento : note sulla concimazione, Tipografia sociale G. Oronzo, Lecce, 1924

Per l’incremento della cerealicoltura salentina : a proposito della battaglia del grano, Tipografia sociale, Lecce, 1925

Fattori ambientali e concimazione nella coltivazione dei tabacchi da sigarette, Tipografia Edoardo Pizzi, Milano, 1926

Acqua del sottosuolo ed irrigazione nel Salento, Tipografia O. Guido, Lecce, 1928

L’ asparago : generalità, coltivazione ordinaria, coltivazione forzata, parassiti, commercio, F. Battiato, Catania, 1928

Relazione sull’attività della cattedra ambulante d’agricoltura di Terra d’Otranto : dalle sue origini a tutto il 1927, Guido, Lecce, 1928

Nuovo orientamento dell’agricoltura salentina: conferenza agli agricoltori (Federazione dei Sindacati fascisti degli agricoltori, Commissariato di zona di Gallipoli), Tip. E. Stefanelli, Gallipoli, 1931

Progetto di massima per la trasformazione fondiaria dell’Arneo, Editrice Salentina, Lecce, 1932

Granicoltura salentina, 1925-1932 : Commissione provinciale per la propaganda granaria, Lecce, Tip. Salentina, Lecce, 1932

La gallina leccese selezionata, Editrice salentina, Lecce, 1933

La tabacchicoltura salentina, Editrice salentina, Lecce, 1933

La trasformazione fondiario-agraria dell’Arneo, Stabilimento tipografico Scorrano, Lecce, 1934

La trasformazione agraria nel Comprensorio di bonifica di Ugento : consorzio per la bonifica di Ugento : paludi Mammalie-Rottacapozza e Pali, R. Tip. Edit. Salentina, Lecce, 1934

Per la fertilizzazione dei terreni in Provincia di Lecce, Editrice salentina, Lecce, 1935

Saltuarietà di produzione dell’olivo e concimazione ad alte dosi, Favia, Bari, 1935

L’ olivicoltura salentina attraverso i secoli, Tipografia degli agricoltori, Roma, 1937

La concimazione dell’olivo, Istituto Italiano Arti Grafiche, Bergamo, 1939

La regione salentina, Tipografia Editrice salentina, Lecce, 1946

Una antica pratica che ritorna agli onori della ribalta, Editrice salentina, Lecce, 1958

Cotonicoltura salentina : vicende storiche : prospettive per l’avvenire, Editrice salentina Pajano, 1958

10

Che cosa si e fatto in provincia jonica per la battaglia del grano, Tipografia delle Terme, Roma, s. d.

Appunti di analisi chimica qualitativa, ad uso degli studenti del 4. Corso d’Istituto tecnico, Cooperativa Tipograica Forlivese, Forlì, 1912

l tabacco sostituisca la barbabietola, Cooperativa Tipografica Forlivese, Forlì, 1915

Gelsicoltura moderna. I prati di gelso, Cooperativa Tipografica Forlivese, Forlì, 1919

Corso pratico di viticoltura. Lezioni svolte agli agricoltori ex-combattenti, Stabilimento Tipografico Editoriale Romano, Roma, 1925

L’attivita della cattedra nel triennio 1927-1929, Arti grafiche A. Dragone & C., Taranto, 1930

La razza asinina di Martina Franca, Arti Grafiche A. Dragone & C., Taranto, 1930

L’uva da tavola tardiva Saint Jeannet, Gandolfi, San Remo, 1932

L’allevamento del coniglio e le sanzioni economiche : norme pratiche ad uso dei volonterosi, Gandolfi, San Remo, 1935

Direttive per un maggior consumo di fiori, Gandolfi, San Remo, 1936

Disciplina dei mercati di produzione per la vendita all’ingrosso dei fiori, Gandolfi, San Remo, 1936

Le armi della vittoria contro le infami sanzioni, Gandolfi, San Remo, 1936

Il garofano e la floricoltura italiana, Tipografia San Bernardino, Siena, 1937

L’allevamento del coniglio : norme pratiche ad uso dei volenterosi, Gandolfi, San Remo, 1940

L’ importanza del lavoro nella floricoltura : primo contributo sulle aziende floreali della provincia di Imperia, S.A.I.G.A., Genova, 1940

La lavanda, Ramo editoriale degli agricoltori, Roma, 1940

L’allevamento familiare della pecora : norme pratiche ad uso dei volenterosi, Gandolfi, San Remo, 1940

I mais ibridi in provincia di Treviso : Pubblicato in occasione della Mostra provinciale del granoturco. 25 settembre-2 Ottobre 1951. (Ispettorato provinciale dell’agricoltura, Treviso), Tipografia Longo e Zoppelli, Treviso, 1951

Quintali di granoturco per ettaro : Altri 18 concorrenti hanno superato I 100 quintali, Tipografia Longo e Zoppelli, Treviso, 1953

Relazione sull’attività svolta dall’ispettorato nel 1955 : (Ispettorato provinciale dell’agricoltura, Treviso), Tipografia Editrice Trevigiana, Treviso, 1956

I radicchi di Treviso: storia, coltivazione, forzatura, commercio, Ramo editoriale degli agricoltori, Roma, 1961

BIBLIOGRAFIA

Come s’è detto, fondamentali sono le pubblicazioni periodiche (bollettini ed annuari). quasi sempre di difficile reperibilità. Per quanto riguarda L’agricoltura salentina, fornisco di seguito un quadro della sua dislocazione con relativa consistenza:

Biblioteca dell’Accademia nazionale di agricoltura – Bologna 1907 (6), 1910 (9), 1916 (15); lacunosi 1907 (6), 1913 (12), 1916 (15)

Biblioteca nazionale centrale – Firenze 1902 (1), 1905 (4), 1907 (6), 1910 (9), 1917 (16), 1919 (18), 1939 (32) in gran parte lacunosi

Biblioteca di scienze tecnologiche – Agraria – Università degli studi di Firenze – Firenze 1914) (13); lacunosi 1914 (13)

Biblioteca Roberto Caracciolo – Lecce 1902(1), 1910 9), 1912(11), 1916 (15); lacunosi 1904, 1908-1912

Biblioteca della Camera di Commercio – Lecce  1902 (1), 1915 (14);  lacunosi 1902, 1909

Biblioteca delle Civiche raccolte storiche – Milano  1909 (8 n. 3)

Biblioteca Fondazione Banco di Napoli – Napoli 1925 (18),  1929 (22) tutti lacunosi

I titoli che seguono possono aiutare nella ricostruzione storica.

Tito Poggi, Le cattedre ambulanti di agricoltura in Italia, Società editrice Dante Alighieri, Roma, 1899
Tito Poggi, Le cattedre ambulanti d’agricoltura in Italia: loro origine e scopi, Officine grafiche di C. Ferrari, Venezia, 1903
Enrico Fileni, Elenco completo delle cattedre ambulanti d’agricoltura o speciali con l’indicazione del loro personale tecnico e dell’ammontare e provenienza dei loro bilanci preceduto da brevi notizie sull’Associazione Italiana delle cattedre ambulanti d’agricoltura, Tipografia operaia romana cooperativa, Roma, 1906
Cattedre ambulanti di agricoltura. Disposizioni legislative e regolamentari, Tipografia G. Brunello, Vicenza, 1908
Dino Sbrozzi, Riordinamento delle cattedre ambulanti di agricoltura, Tipografia A. Nobili, Pesaro,1911,
Pietro Zambrini, Le cattedre ambulanti di agricoltura italiane, Tipografia E. Cattaneo, Novara, 1923
Luigi Pagani, Della ricostruzione delle cattedre ambulanti di agricoltura, Arti Grafiche Esperia, Venezia, 1946
A. Bianchi, Dalle cattedre ambulanti agli ispettorati provinciali dell’agricoltura, Centro studi agricoli Shell, Borgo a Mozzano, 1960
Mario Zucchini, Le cattedre ambulanti di agricoltura, G.Volpe, Roma, 1970
Franco Antonio Mastrolia, Istituzioni e conoscenze agrarie in Terra d’Otranto (1910-1930), Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 2018

Dialetti salentini: giuncare, giùnculu e risciuncare

di Armando Polito

 

Quando si opera un’indagine etimologica bisogna anzitutto considerare il significato della parola, compreso, eventualmente,  quello o quelli con slittamento metaforico, senza lasciarsi suggestionare più di tanto da sirene fonetiche, che, magari, indurrebbero a credere che due parole con più suoni in comune abbiano lo stesso etimo. Questa premessa non è casuale, perché le tre voci del titolo sono adattissime a spiegarlo in concreto.

Cominciamo, dunque, con le definizioni.

Giuncare esprime l’irrigidimento o il blocco di un’articolazione:  m’hannu ggiuncatuli tèscite (mi si sono anchilosate le dita). La voce ha il suo esatto corrispondente italiano in ciocare, sinonimo di tagliare, mozzare, che è da cionco (di etimo incerto, anche se da alcuni connesso col latino truncus=pezzo di legno tagliato, da cui, con leggero slittamento semantico, tronco), che come aggettivo è sinonimo di mozzato, ma in valenza sostantivata di storpio, sciancato.

Giùnculu è lo spicchio d’arancia o di melagrana (di questa voce dirò più estesamente alla fine).

Risciuncare esprime il rammollimento, soprattutto di un alimento che ha perso la croccantezza a causa dell’umidità: ‘sti friseddhe so’ risciuncate  (queste friselle si sono rammollite, hanno perso la croccantezza).

 

Ma il dialetto (beninteso, non solo quello salentino) è capace delle più ardite metafore: cce aria rrisciuncata! (che afa!).

Risulta chiaro dalle definizioni che le due voci si riferiscono a due concetti opposti: giuncare all’irrigidimento e rsciuncare al rammollimento, come anche i risvolti erotici della vignetta indicano inequivocabilmente …

Rimane da individuare l’etimo di risciuncare, in cui a prima vista, appare chiaro solo il prefisso ripetitivo ri-. Resta sciuncare, che non dovrebbe avere nulla a che fare con giuncare, perché, a parte quanto già detto sul piano semantico, se così fosse stato, non si capirebbe per quale motivo non avremmo dovuto avere rigiuncare e non risciuncare.

Il segmento –sciuncatu mi fa venire in mente sciuncata l’esatto corrispondente salentino all’italiano giuncata, latte rappreso con caglio, non salato, messo a scolare, in passato, in cestelli o su piccole stuoie di giunco.

L’adeguamento linguistico imporrebbe che oggi questa prelibatezza venisse chiamata plasticata, dal momento che in virtù (?) delle direttive europee cestelli e stuoie in giunco sono stati banditi per motivi igienici e sostituiti da quelli in plastica, grazie ai quali il tifo o malattie simili sarebbero nell’immediato scongiurate, salvo, poi, morire di cancro, magari a distanza di qualche anno.

Meglio tornare alla nostra sciuncata, participio passato sostantivato di un sciuncare, verbo totalmente inusitato per quanto riguarda tutti gli altri modi, se la sua presenza non emergesse nel composto, per ora solopresunto, risciuncare.

Ma, per far fuori la presunzione, che legame ci può essere tra questo verbo e la sciuncata? Per ora vi invito solo a pensare alle sue caratteristiche organolettiche, con particolare riguardo alla sua consistenza.

Nel frattempo faremo un’incursione tra coloro che hanno affrontato il problema e vedremo che le sorprese non mancano. La prima è che proprio il più qualificato a dire la sua, cioè il Rohlfs1, non propone alcunché, etimologicamente parlando.

Il Garrisi2 tratta il lemme nel modo che segue.

Viene proposto uno dei soliti, disinvolti incroci, che in più di un’occasione ho definito pericolosi. Qui, addirittura, si sarebbero incrociati gli opposti (cedevolezza del giunco da una parte e rigidità del cionco dall’altra), come risulta dal lemma giuncare.

La contraddizione tra i significati 1 e 2 riportati per rresciuncare è insanabile e può essere soppressa solo collegando etimologicamente 1 a sciuncu e 2 a cionco e non privilegiando quest’ultimo, per cui 1 appare come suo figlio bastardo. E tutto perché ci si è intestarditi sull’esito sc– che il salentino mostra rispetto all’italiano g– seguito da e o da  i (sciardinu/giardino; sciuncu/giunco; sciùu/giogo; sciurnata/gioornata; scelu/gelo, etc. etc.). Lo stesso non avviene rispetto all’italiano c-, sempre seguito da e o da i), che rimane tal quale (cirieddhu/cervello; ciùcciu/ciuco, etc. etc.). Tutt’al più c– può diventare g– (ggimentu/cemento; giintare/cimentare, etc. etc.), cosa, questa, successa pure proprio al cionco di giuncare e, come vedremo tra breve, di giunculu.

Passiamo a Giuseppe Presicce3.

Stesso riferimento alla cedevolezza del giunco già vista nel Garrisi, attraverso una strada che non presenta intersezioni con incroci di sorta. Tuttavia, a me pare che la caratteristica del giunco sia la sua elasticità, ben diversa dalla cedevolezza, tant’è che in passato esso era utilizzato pure come rudimentale legaccio, in omaggio alla probabilissima  parentela del latino iuncus (padre di giunco) con iùngere (=unire, da cui giungere e composti), da una radice iug– condivisa pure da iugum (da cui giogo)..

La confusione concettuale e quella fonetica (relativa all’esito sc-), prima abbondantemente rilevate con le conseguenti acrobazie etimologiche,  permangono e raggiungono il parossismo in Ciarfera-Mennonna4, con in più una serie di snervanti e distraenti rimandi, che riporto integralmente, mettendomi a disposizione del lettore che avesse eventualmente bisogno di orientarsi in simile labirinto nella ricerca disperata di una via d’uscita diversa dalla mia.5 

risciuncare: verbo intransitivo [da sciuncare, vds. voce, con il pref. ri-]. Rattrappirsi o rammollirsi del pane per l’umidità; avvizzirsi delle verdure o dei legumi. Lu pane s’è risciuncatu tuttu: questo pezzo di pane si è tutto rammollito. Si dice anche ggiuncare (vds. voce).

sciuncare: verbo transivo/intransitivo [dall’aferesi di giuncare, vds. voce, con il prefisso s-1].Atrofizzare; paralizzare;afflosciarsi sulle gimocchia. Il termine potrebbe derivare dal fatto che il giunco è debole, pieghevole e privo di forza.     

ggiuncare verbo transitivo [da ggiuncu, vds. voce]. Atrofizzare; paralizzare: addormentare un arto; afflosciarsi sulle ginocchia. Il termine può derivare dal fatto che il giunco è debole, pieghevole e senza forza.

Ora non mi risulta per Nardò sciuncare come variante di giuncare, ma, anche se così fosse, sarebbe voce d’importazione dal tarantino, dove sciuncà, in forma riflessiva, significa non svilupparsi più e acciuncà, sempre in forma riflessiva, è usato come invito a sedersi ad un bambino irrequieto, invito decisamente non beneaugurante, pensando al significato di partenza; e poi, nel brindisino, acciungà, sempre riflessivo, sinonimo di rattrappirsi. La valenza semantica, ancora una volta, risulta determinante per l’etimo del presunto neritino sciuncare, che sarebbe, comunque, da cioncare (a sua volta da cionco) con prostesi di s– intensiva; e a tal proposito non posso non ricordare pure il calabrese ciuncare, sinonimo di storpiare.

Per farla finita: secondo me la metafora sta sì nel giunco, ma in forma mediata, cioè in riferimento alla sciuncata, grazie alla quale è nato, con l’aggiunta di un prefisso, un verbo che ancora una volta prova, laddove ce ne fosse stato bisogno, quant’era poeticamente fervida la fantasia popolare.

Era rimasto in sospeso giùnculu. Di seguito il lemma com’è trattato dal Rohlfs.

Come già per risciuncare, non compare proposta alcuna di etimo. La variante figghiùnculu farebbe pensare ad un diminutivo-dispregiativo di fìgghiu (figlio) con l’aggiunta a quest’ultimo del suffisso, di origine latina, presente in italiano in foruncolo, ladruncolo, omuncolo, peduncolo, ranuncolo, mentre fuggiùnculu appare deformazione di figghiùnculu.  Nel primo dettaglio riportato spicca l’attestazine di giùnculu solo per Nardò e Galatone, mentre le altre varianti riguardano il Brindisino ed il Tarantino, ad eccezione di fungiùnculu attestato per Lecce (lo riporta anche il Garrisi, ma senza etimo; nel Presicce il lemma è assente). Questo autorizza a supporre, pur con prudenza, che giùnculu sia voce, per così dire, autoctona, non derivata da figghiùnculu per aferesi e per strana perdita del suono gutturale di g, ma diminutivo di cionco (quello stesso di giuncare), con l’aggiunta del suffisso già visto per figghiùnculu. Certo, l’immagine poetica del parto plurigemellare dell’arancia non può competere con quella prosaica in cui uno spicchio evoca un pezzo del frutto separato per natura dagli altri che lo costituiscono, ma nulla è perfetto, nemmeno la fantasia …

_____________

1 Gerard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976

2 Antonio Garrisi, Dizionario leccese-italiano, Capone, Cavallino, 1990

3 Giuseppe Presicce, Il dialetto salentino come si parla a Scorrano (solo in rete: http://www.dialettosalentino.it/risciuncare.html:)

4  Enrico Ciarfera-MarioMennonna, Il Vulgare Neritino, Congedo, Galatina, 2020

5 Eppure, sarebbe bastato, forse, a gettare un po’ di luce, che gli autori avessero tenuto conto del trattamento da loro stessi riservato ai due lemmi che riproduco:

ggiùnculu sostantivo maschile [da ggiuncu, vds. voce, con suffisso -ulu]. Spicchio di agrumi; seme di fava. Il termine può derivare dal fatto che lo spicchio diventa tale se separato e che il seme di fava è tenuto stretto nel baccello.

ggiuncu: aggettivo [cfr. it. cionco, dal lat. truncu(m): tronco, mozzato]. Storpio, sciancato; rattrappito nelle membra; attrappito; paralitico.

 

Dialetti salentini: scilare

di Armando Polito

I cambiamenti climatici sono destinati ad influenzare pure la lingua, tant’è che non è difficile immaginare la rapida obsolescenza della voce dialettale del titolo e del suo esatto corrispondente italiano, che è gelare.

Da notare nella voce dialettale l’esito sc– di g– seguito da e o da i, come in sciurnata/giornata (ma giurnu/giorno) e, per restare alla voce primitiva, in scelu/gelo (ma gelone, e non scilone, /gelone).

L’afa soffocante di questi giorni ci fa rimpiangere tutte le voci attinenti al concetto di freddo finora riportate, ma non è sufficiente a farmi desistere dal chiedermi il perché del comportamento piuttosto capriccioso dell’esito sc-. Mi rendo perfettamente conto che la lingua, essendo lo specchio della stessa vita, è soggetta a fenomeni talora non facilmente spiegabili o perché affondano le loro radici in un passato troppo antico perché possa essere analizzato o, addirittura, nell’irrazionale. In casi simili, purtroppo, formulare ipotesi è come tentare di arrampicarsi sugli specchi, mentre la scienza richiede di stare con i piedi ben piantati per terra.

Munito di un paio di ventose che si chiamano l’una incoscienza e l’altra presunzione, inizio la scalata a caccia di quello che in questi giorni è l’oscuro oggetto di un desiderio che non può essere certo soddisfatto da qualcosa destinata a scomparire al massimo dopo qualche minuto: il gelato..

Participio passato sostantivato di gelare, la voce rimane tal quale nel salentino gelatu, nel quale, da scilare (corrispondente a gelare, come scelu a gelo) ci saremmo aspettato scilatu. Che il mancato esito sc– dipenda da motivi di differenziazione semantica, peraltro poco spinta, per cui scilatu è riservato all’esclusivo uso verbale (m’ha scilatu=ho sentito freddo) e gelato a quello sostantivato?  Difficile attribuire all’uso dialettale la capacità di operare una distinzione di marca grammaticale. E allora? Io non escluderei che gelatu sia entrato nel salentino in tempi relativamente recenti, cioè da quando pure il mondo contadino ha potuto conoscere l’esistenza di questo prodotto e a gustarlo. Lo stesso può essere successo per gelone, che certamente è stato da sempre più democratico di gelato, per cui, pur conoscendolo da sempre, il mondo contadino non poteva barattare il suo poeticissimo pruticeddhu (privilegiante l’effetto, cioè il prurito e non la causa, icioè l freddo) con una voce anch’essa nata in tempi relativamente recenti (il dizionario De Mauro daia gelone al 1822; ma con queste date bisogna andare molto cauti).

Sento che una ventosa, quella della presunzione, emette uno strano scricchiolio; basterà quella dell’incoscienza a riportarmi indenne a terra? Posso sperare che nel frattempo qualcuno stenda un bel telone di salvataggio (leggi interpretazione più attendibile)?. E, se pensate che il caldo mi abbia dato alla testa, pensate al personaggio della vignetta e, se vi resta un briciolo di lucidità,  comunicatemi la soluzione della sciarada …

 

Tricase: un toponimo dall’etimo in…trica..to’!

di Armando Polito

Il passato ha sempre registrato l’attività truffaldina (altro attributo non so riservarle) di non pochi storici, soprattutto locali. Nardò può vantare un campione probabilmente insuperabile, Giovanni Bernardino Tafuri, la cui attività di produttore di documenti falsi è ben nota agli studiosi. Un falsario può essere spinto ad esercitare la sua nefasta attività da una miriade di motivi, tutti, però, riconducibili ad un illecito profitto, non necessariamente da identificare nel denaro. Quest’ultimo nel caso del Tafuri non gioca un ruolo diretto e personale (non ne aveva certamente bisogno); sono piuttosto altre le motivazioni, forse un pizzico di narcisismo (che manca solo nelle cosiddette bestie, nei vegetali e nei minerali …), la frequentazione di cattive compagnie (il compagno di merende Pietro Polidoro), l’intento di nobilitare le memorie patrie col fine di accrescere il prestigio della chiesa neritina, con tutti i vantaggi, anche economici, connessi. Siamo alla prostituzione più vergognosa di ciò che ci distingue, si dice, dalle cosiddette bestie, la conoscenza, quella autentica, che parte da dati reali, non inventati, anche se, poi, la loro interpretazione, sempre operata in buona fede …, resta, deve restare, libera.

Sistemati gli storici, passo ai divulgatori, che hanno una responsabilità di cui spesso, soprattutto quelli sedicenti, non si rendono conto.

E siamo ai letterati, intesi in senso ristretto, nella cui produzione la fantasia e, dunque, la finzione e l’invenzione hanno un ruolo fondamentale.

Ho lasciato per ultimi i lettori, destinatari, in fondo (è proprio il caso di dirlo, dell’attività dei primi tre e sempre più esposti al rischio di essere presi, questa volta ancora più in fondo, per i fondelli.

Tutti, però, si avvalgono, giustamente, degli strumenti che il loro tempo offre, per cui, se fino al recente passato la realizzazione e diffusione (e, dunque, la lettura) delle opere a stampa era molto limitata, oggi i mass media, nel bene e nel male e soprattutto con l’avvento della rete, hanno drasticamente contratto i parametri del tempo e dello spazio nella diffusione della conoscenza, ma, nel contempo, hanno dilatato in maniera esponenziale le possibilità di errore, equivoci, ambiguità e truffe.

Questa premessa è indispensabile per comprendere correttamente il titolo di questo post, quanto sto per argomentare e per collocare i protagonisti al posto giusto.

Qualche giorno fa, avendo incontrato il toponimo Tre casi nella lettura di un manoscritto (autentico ed inedito) del XVI secolo (nell’immagine di testa il ritaglio della carta dell’originale, al quale ho aggiunto il rettangolo evidenziatore del toponimo qui coinvolto), ho avvertito la necessità di aggiornare le mie conoscenze circa il suo etimo. Chiunque utilizzi la rete per le sue indagini sa benissimo che i motori di ricerca in casi simili ti portano dritto dritto, bene che ti vada …, a Wikipedia, a meno che uno non punti, subito dopo la comparsa del primo link, al filtro Libri.

E proprio da Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Tricase#Origini_del_nome) riporto fedelmente con un copia-incolla quanto vi si legge:

” Tricase, anticamente forse denominato Treccase, poi Trecase, successivamente Tricasi o Tricasium, dovrebbe il suo nome all’unione di tre casali differenti che, unendosi, avrebbero dato origine ad un unico nucleo abitativo[7]. L’etimologia più accreditata tuttavia traduce il nome Tricase come inter casas, vale a dire, un paese formatosi in mezzo ad altri casali[8]. Secondo una nuova tesi, sostenuta dai documenti portati in luce dal ricercatore in studi Bizantini Giovanni U. Cavallera, l’origine del nome non avrebbe un’etimologia latina bensì greca, facendone risalire la genesi a Demetrios Tricás, giovane funzionario dell’Impero Romano d’Oriente, incaricato di monitorare la situazione del Capo di Leuca[9].

Per farla completa, riporto di seguito anche il testo delle note:

“[7] Secondo gli storici Tasselli, Micetti, D’Elia e Marciano.

[8]  Mons. Giuseppe Ruotolo, Ugento – Leuca – Alessano, Siena, Editore Cantagalli, 1952.

[9]  Cavallera U. Giovanni, Il viaggio di Tricàs, 2018

Senza perdere tempo con le due precedenti (peraltro, la prima chiaramente incompleta nella sua sommarietà, oltre al fatto che gli autori risultano citati non in ordine cronologico, in parole povere, alla rinfusa) mi soffermo sulla nota 9 connessa con la parte di testo che ho colorato in rosso, evidenziato col grassetto e sottolineato (se potevo fare di più, fatemelo sapere …). Lì per lì mi sono pure vergognato di non essere a conoscenza di questa nuova tesi (!). Siccome non mi fido nemmeno di me stesso, ho voluto, come al solito, controllare e ho trovato in rete la riproduzione del libro citato (https://www.google.it/books/edition/Il_viaggio_di_Tric%C3%A1s/QhZpDwAAQBAJ?hl=it&gbpv=1&dq=IL+VIAGGIO+DI+TRICaSE&pg=PA4&printsec=frontcover). Nonostante fosse parziale (le prime 22 pagine e l’ultima, la 91, contenente l’indice), essa ha fatto diventare quasi certezza i pesanti dubbi (a cominciare da quello iniziale sul passaggio Tricàs>Tricase) che via via emergevano. Mi hanno colpito, nell’ordine:

1 Il sottotitolo Un inedito bizantino dell’XI secolo, in cui spicca quell’intrigante inedito, che evoca subito l’idea di un manoscritto antico.

2) Il fatto che la stampa è stata curata da una di quelle aziende, spuntate come funghi in questi ultimi anni, grazie alle quali chiunque può pubblicare qualsiasi cosa, purché paghi. Ma, in riferimento al punto 1, se si fosse trattato di un saggio, perché l’autore, non nuovo a pubblicazioni scientifiche, avrebbe dovuto operare una scelta editoriale che condannava questo suo lavoro a non comparire registrato, come gli altri, in OPAC e, tutt’al più, godere dell’effimera gloria delle solite passerelle (https://www.facebook.com/photo/?fbid=1947615412021901&set=il-viaggio-di-tricas-di-giovanni-u-cavalleria-sabato-1-dicembre-scuderie-di-pala&locale=it_IT)?

3) Un’intera pagina ospita la pubblicità di un’azienda con il contributo della quale è detto chiaramente essere stato realizzato il libro.

4) La presentazione, in cui si fa una frittura mista, molto indigesta già al primo assaggio, di Romei, imperatore Basilio, un Giovanni, magistros e didaskalos, ultimo fra i grammatici (che si presenta come traduttore del testo in greco del manoscritto) e un Alessandro, gloria dei Domenicani. Chi, come me, ha avuto la fortuna di vivere in tempi in cui a scuola era obbligatorio leggere I promessi sposi, ricorderà senz’altro che il Manzoni nella parte introduttiva s’inventa l’esistenza di un dilavato e graffiato autografo, dal quale avrebbe  poi deciso di tratto le vicende del suo romanzo.

5 L’attacco del testo vero e proprio, il cui stile e lessico Giovanni, per rendere più credibile per qualche secondo in più il tutto, avrebbe dovuto antichizzare: Il sole sorgeva dietro i monti dell’Epiro delineando lo scuro profilo della rocca di Dyrrachion

Nonostante fossi più che certo delle mie conclusioni tutt’altro che benevoli per il furbesco sottotitolo, la mia, forse congenita, peccaminosa e perversa mania di accuratezza e precisione ha finito ancora una volta per prevalere. Così, pur non nutrendo nessuna speranza di trovarvi non dico la riproduzione di qualche carta dell’inedito bizantino, ma almeno qualcosa di vero, come la confessione dichiarata, sia pure alla fine, di un’invenzione, nelle Annotazioni e nella Nota storica che si leggono nell’indice, ho comprato il libro, la cui lettura integrale ha ulteriormente confermato ciò di cui ero più che certo. In aggiunta debbo dire che l’autore avrebbe fatto meglio, ma si tratta di un gusto mio personale, a chiarire da subito la natura del lavoro (onde diradare la nebbia del sottotitolo) nella controcopertina, occupata dalla solita, stucchevole scheda personale,  che ormai accompagna tutte le pubblicazioni col pretesto di presentarsi educatamente prima di entrare in casa altrui, in realtà con finalità autoreferenziali e pubblicitarie. Per quanto riguarda, infine, il dotto corredo delle note, peraltro puntuale ed esaustivo, mi permetto di osservare circa quella dedicata a Trikàs , che sarebbe quanto meno strano che non sia sopravvissuto della famiglia proprio il nome di colui che avrebbe potuto aver dato il nome alla città, a parte il fatto che basare un etimo sulla coincidenza parziale o totale dei fonemi è pericoloso e fuorviante. Questa  precisazione mi è sembrata doverosa solo in riferimento a quella velleità etimologica che certamente l’autore non ha, ma che, pur inconsapevolmente (leggi per leggerezza), Wikipedia gli attribuisce.

Il libro, comunque, vivrà, difficile dire per quanto tempo, il suo momento di fasulla gloria scientifica su questa che, purtroppo, è l’enciclopedia più consultata di tutte le altre (compresa la Treccani) disponibili (da un po’ di tempo, però, col ricatto dell’accettazione dei biscotti; io, che non so parlare, chiamo così i cookies. E poi qualcuno ha detto che con la cultura non si mangia e parecchi ingenui ci hanno pure creduto …) in rete, grazie alla dabbenaggine di chi ha compilato la scheda relativa a Tricase. Tutto questo, lo ribadisco,  sicuramente senza che lo volesse l’autore e a tal proposito debbo supporre che alla data odierna egli non ne sia a conoscenza, non essendo intervenuto, se non per una querela, almeno per una richiesta di rettifica, prima che a qualche laureando o a qualche aspirante accademico di ultima generazione venga la tentazione di fare scellerato uso di simile ghiottoneria.  Insomma, un caso di malarete, simile a due altri dei quali mi ero occupato alcuni anni fa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/16/leucasia-una-sirena-salentina-no-unaltra-bufala-e-lo-dimostro/ e https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/13/torre-colimena-wikipedia-ed-altro/) e che, per restare nell’ambito salentino, espone agli stessi rischi della saga su Arthas di Fernando Sammarco. Per Leucasia all’epoca non lessi (né comprai …) il libro: ero meno rincoglionito o sono oggi più dotato di spirito critico, che si nutre di dubbi, suscettibili di diventare certezza o, per quanto umanamente possibile, verità, dopo aver superato i vagli più disparati?

E mi piace chiudere, a dimostrazione che nemmeno a me manca la fantasia, certamente meno raffinata di quella esibita dal creatore di Tricàs, con un messaggio all’estensore della voce wikipediana, che potrà aggiornare pure la scheda relativa a Nardò, aggiungendo, a proposito dell’etimo del toponimo, queste poche righe, possibilmente, se ne è capace, con un copia- incolla, per evitare errori che nel campo della divulgazione, soprattutto scientifica, sono esiziali : Secondo una nuova tesi il toponimo non avrebbe un etimo latino o greca o messapico, e pure tutta l’acqua messa in campo con la radice nar- è, ormai, acqua passata sotto i ponti, per giunta sporca, ragione per cui va buttata, mentre il bambino, cioè l’etimo, è tra le braccia sicure di Armando Polito il (ri)cercatore, per qualcuno presto ricercato(re), abitualmente di funghi e casualmente di manoscritti, come quello  dell’età della pietra da lui rinvenuto in una caverna. Esso conserva il ricordo di Odràn (i genitori l’avevano chiamato Udràn, ma era stato proprio lui a cambiarlo in Odràn perché il suono della u gli sembrava più cavernicolo di quello della o), giovane cavernicolo dotato di capacità profetiche, appassionato di enigmistica, nonché di italiano antico e poetico (odràn), come mostra il suo nome, udite!, udite! (l’aveva pronosticato …), letto all’incontrario.

A breve, non appena avrò trovato uno sponsor all’altezza per la pubblicazione del saggio già pronto, sarà mia cura inviare tutti i dati necessari per la doverosa integrazione con una nota bibliografica.

Neritini, alla ricerca del nonno!

di Armando Polito

L’invito è rivolto direttamente a coloro ch , avendo pressappoco la mia età (78 anni),presumibilmente  hanno avuto la fortuna di conoscere il nonno, ma è aperto a tutti coloro che, coinvolti direttamente o no, vogliano collaborare a questa piccola, ma non insignificante per gli interessati, ricostruzione di un pezzo di storia,  ormai non più recente di Nardò, per ora attraverso i soli nomi, nella speranzosa attesa che qualche lettore ci renda partecipi di documenti, aneddoti, foto. – Va bene cercare il nonno, ma la nonna no? – dirà sommessamente qualcuno giustamente assertore della par condicio o, se preferitre, delle pari opportunità, mentre qualche femminista dal dente avvelenato, non potendo mordermi, mi avrà già mandato al soggiorno sdoganato dai grillini. Già, le pari opportunità oggi sono almeno oggetto di discussione e rivendicazione, ma quasi un secolo fa non esistevano nemmeno come concetto astratto. Questo spiega la ricerca del solo nonno, perché nelle tabelle che  seguono non compare nemmeno un nome, dico  uno solo, che sia femminile. Molto probabilmente sarebbe accaduta la stessa cosa se i dati si fossero riferiti non a notai, medici e simili ma a pittori, scultori, letterati e simili. Fra un secolo, forse, qualcuno farà, utilizzando strumenti ben poù abanzati della rete, dei blog e dei social, la stessa mia operzione utilizzando i dati di oggi  e, magari, non lo dico per conforto vanamente compensativo, ma come sincero auspicio, la situazione risulterà parzialmente o totalmente ribaltata,  anche se il secondo esito mi pare quasi impossibile, essendo improbabile che un costume millernario possa così radicalmente cambiare nell’arco di un secolo.

Nelle tabelle, estrapolate ma fedelmente riprodotte da Il Salento, rassegna abbuale della vita e del pensiero salentino, v. VII compilato da Gregorio Carruggio per l’anno 1933, Editrice “L’talia Meridionele”, Lecce, 1933, ho evidenziato, aggiungendo all’originale la sottolineatura, i nomi dei neritini, tra i quali l’unico che ho conosciuto personalmente è il dottore oculista  Crispino Vetere, padre del professore Benedetto, cuche mi prescrisse il mio primo paio di occhiali. Io ho iniziato; e voi?

pp. XLVII-XLVIII

pp. CIII-CIV

p. 219

Il Salento e tre stemmi parlanti

di Armando Polito

Moltissimi vocaboli dell’uso comune assumono spesso una valenza semantica specialistica con la loro adozione, accompagnati o no da un altro, da parte di un settore specialistico, per lo più scientifico. Talvolta, poi, il vocabolo appare proteiforme grazie all’evoluzione del costume, e non solo di quello..

Così, per fare un esempio legato all’attualità, surrogato lo si incontra come participio passato con valore aggettivale nel settore burocratico e giuridico, come aggettivo sostantivato in quello della lingua comune con riferimento ad un cibo che sostituisce un altro, ma, essendo di qualità inferiore, appare come un ripiego, con tutte le connotazioni negative che tale concetto comporta. Gli ultimi sviluppi di tale processo sono rappresentati dalla locuzione maternità surrogata, sulla quale sorvolo per non uscire dal seminato …

Un cammino simile ha percorso parlante, normalissimo participio presente di parlare, che, usato al plurale usato al plurale con valore sostantivato designa coloro che usano una determinata lingua per le normali esigenze espressive, distinti, forse con un pizzico di spocchioso razzismo linguistico, dai letterati. Ma parlante, conservando  la sua valenza originaria di participio presente, ha un impiego anche in epigrafia e in araldica con le locuzioni, rispettivamente, di iscrizione parlante e di stemma parlante.

Tutte le epigrafi, in fondo, parlano, ma quelle definite tecnicamente parlanti dannoi un’informazione diretta sul supporto che le ospita. Una delle epigrafi parlanti più famose è la fibula prenestina, una spilla in oro risalente al VII secolo a. C. rinvenuta a Preneste. Vi si legge, procedendo da sinistra verso destra, quella che è considerata la più antica testimonianza conosciuta fino ad ora del latino: MANIOS MED FHE FHAKED NVMASIOI, che nel latino classico sarebbe stato MANIUS ME FECIT NUMERIO (Manio mi fece per Numerio). L’epigrafe qui ci fa conoscere il nome dell’artista lche creòa spilla e quello del destinatario, probabilmente il committente, anche se non sapremo mai se l’oggetto era per uso personale o destinato ad essere donato.

Lo stesso vale per lo stemma parlante, in cui lo scudo mostra  un dettaglio strettamente connesso con il nome della famiglia.

È  il caso dei tre stemmi che seguono, relativi a famiglie con le quali, nella persona di un loro appartenente, il Salento ebbe a che fare nel corso del XVII secolo il Salento, nel bene e nel male e, in quest’ultimo con gli ultimi due, Nardò in particolare.

 

Per brevità rinvio chi ne abbia interesse a https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/02/06/iacopo-pignatelli-1625-1698-di-grottaglie-e-papa-alessandro-vii-gia-vescovo-di-nardo/

e, in particolare, per Pignatelli a https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/06/22/dialetti-salentini-e-non-solo-pignata-o-pignatta/

Duomo di Lecce, dettaglio dello stemma arcivescovile di Luigi Pappacoda (in carica dal 1639 al 1670)

Nardò, Stemma di Giovanni Granafei nella chiesetta (sconsacrata) di S. Maria della Grotta e, per agevolarne la lettura, di seguito lo stemma della famiglia  del palazzo Granafei Nervegna a Brindisi.

Sempre per brevità (e non per autoreferenzialità) rinvio a https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/03/02/alessandro-vii-un-papa-gia-vescovo-fantasma-di-nardo-e-il-suo-vice/

I porti di Brindisi e Taranto in due mappe del XVII secolo

di Armando Polito

Ad integrazione delle due mappe riportate tempo fa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/24/gallipoli-e-taranto-in-due-mappe-del-xvii-secolo/) ne segnalo altre due facenti parte di una collezione custodita nella Biblioteca Nazionale di Francia (collocazone: Bibliothèque nationale de France, département Cartes et plans, GE DD-2987 (5656). Lo faccio a beneficio di chi volesse fare un esame comparativo anche sul piano grafico, tenendo presente che, quando , come nella cartografia, dev’essere rappresentato fedelmente lo stesso soggetto, tutto si gioca sui dettagli. Poi ci sono gli scopiazzamenti spudorati, che coinvolgono pure nomi di cartografi ed editori famosi del passato (solo di quello?…), ma questo è un altro discorso.

Dialetti salentini … e non solo: pignata o pignatta?

 

di Armando Polito

Non avrei avuto nessun motivo per porre il dilemma se fossi stato disponibile ad accettare come corretta pignatta, a quanto registrano tutti i dizionari. Unica eccezione il GDLI (Grande dizionario della lingua italiana), che al lemma pignata e derivati rinvia a pignatta e derivati, dove all’inizio pignata è riportato tra le forme antiche insieme con pegnata, pegnatta, pigniacta, pigniata e pigniatta).

Al di là delle altre considerazioni che via via farò, ricordo che in campo linguistico, volenti o nolenti (e io mi pongo tra questi ultimi), è l’uso che decide la sopravvivenza di un forma su un’altre e in non pochi casi è quella pIù corretta a lasciarci le penne.

Ad ogni buon conto, pur rispettando l’autorevolezza di chi senza dubbio ne sa più di me, non ho mai confidato  nell’ipse dixit, locuzione che nel nostro caso, vista l’unanimità di opinioni,  sarebbe opportuno cambiarla in ipsi dixerunt. Tuttavia, anche un povero e sconosciuto ille come me ha il diritto di fare le sue osservazioni; e non è detto che alla fine si levino tanti illi a sostegno del primo ille che osò lanciare la sfida.

Ma procediamo con ordine, cercando di individuare, pur con tutte le riserve del caso, la data di nascita delle due voci, non senza aver detto che nel Dizionario De Mauro per pignatta (pignata, come prima detto non è registrato) si legge av. 1342, il che dovrebbe stare a significare che era quella  la data più antica conosciuta  al momento della pubblicazione (2000) o, per essere generosi, fino a qualche anno prima.

Sorprende, però, che un testo lanciato come Il dizionario della lingua italiana per il terzo millennio e compilato in tempi in cui già la ricerca testuale poteva fruire dell’aiuto fondamentale dell’informatica, mostri di ignorare l’esistenza di attestazioni più antiche, molto più antiche e, aggiungo, pubblicate, cioè non ancora disperse in carte antiche e destinate a restare sconosciute per chissà quanto tempo.

Come si sa, l’italiano che oggi parliamo è, in fondo, frutto della lenta evoluzione del latino, arricchita nel tempo da molteplici entrate da altri ambiti culturali. Tuttavia, almeno fino ad oggi, la maggior parte del nostro lessico mostra origini latine e a questo non si sottraggono pignata/pignatta né deve suscitare meraviglia o essere considerato come una riduzione dell’attendibilità delle conclusioni alle quali perverrò,  il fatto che i primi documenti, dei quali riporterò solo i dettagli che ci interessano, sono in latino.

Il primo1 è custodito nell’Archivio pubblico di Bologna (Reg. Gross. v. I, p. 94) ed è un atto del 14 maggio 1200. Nel lungo elenco di oggetti risulta anche pignatam de cupro plenam de ferro extimatam cum ferro … (pignata di rame piena di ferro stimata col ferro ).

Il secondo riguarda un episodio riportato da Fra Salimbene Adami (1221-1288) nella sua Cronica, episodio tanto simpatico che mi piace riportarlo tutto, citandolo dall’edizione che ancora oggi è il testo di riferimento.2

Item tempore illo, procurante ministro, Rex Hungariae misit Assisium magnam cuppam auream, in qua caput beati Francisci honorabiliter servaretur. Cum autem portabatur, et in conventu senesi quodam sero in sacristia ad custodiendum ponetur, quidam fratres, curiositate et levitate ducti, optimum vinum biberunt cum ea, volentes in posterum gloriari quod cum cuppa Regis Hungariae ipsi bibissent. Sed guardianus conventus senensis, qui magnus zelator erat justitiae et honestatis amator, nomine Johannettus, qui etiam de Assisio fuerat oriundus, cum cognovisset haec omnia, praecepit refectorario, qui similiter Johannettus de Belfort dicebatur, ut in sequenti prandio poneret coram quolibet illorum, qui cum cuppa biberat, unam ollam parvulam, nigram et tinctam, quam pignattam dicunt, in quibus oportuit eos bibere, vellent nollent, quatinus si vellent in posterum gloriari  quod cum cuppa regis Hungariae quinque jam biberant, possent similiter recordari quod propter illam culpam cum olla tincta bibissent.  

(Parimenti in quel tempo, per interessamento del ministro il re d’Ungheria mandò ad Assisi una grande coppa di oro perché vi fosse conservata con tutti gli onori la testa del beato Francesco. Però, mentre la si trasportava e per un certo ritardo la si poneva, perché fosse custodita, nel convento di Siena in sagrestia, certi frati, spinti dalla curiosità e dalla leggerezza, bevvero con quella dell’ottimo vino, volendo in seguito vantarsi di aver bevuto proprio loro con la coppa del re d’Ungheria. Ma il guardiano del convento di Siena, che era gran assertore della giustizia ed amante della correttezza, di nome Giovannetto, che era anche oriundo di Assisi, essendo venuto a conoscenza di tutto questo, ordinò all’addetto alla refezione, che similmente era chiamato Giovannetto Belfort, che nel pranzo successivo mettesse davanti a ciascuno di quelli che avevano bevuto con la coppa una piccola pentola1, nera e sporca, che chiamano pignatta, in cui dovevano bere, volenti o nolenti, perché se in futuro avessero voluto vantarsi del fatto che cinque avevano già bevuto con la coppa, del re d’Ungheria, potessero allo stesso modo ricordare che per quella colpa avevano bevuto con una pentola sporca)

Per il momento, dunque, in anzianità, per quanto riguarda le forme latine, pignata (nominativo del pignatam del documento datato 1200) batte largamente pignatta (nominativo del pignattam della Cronica del Salimbene).

E per il volgare, le cose come stanno? Direi allo stesso modo, visto che per pignata la più antica attestazione è in una ricevuta di pagamento di affitto dell’anno 1315.3 e per pignatta nella novella IV de II Trecentonovelle di Franco Sacchetti (1332-1499), che era nato in Croazia ma che visse prevalentemente a Firenze: Son io così dappoco, ch’io non vaglia più d’una pignatta? Ho volutamente precisato l’ambito culturale del Sacchetti, il toscano, come faccio ora per quello del documento del 1200 (l’emiliano) e per quello del 1315, il veneto, mentre un caso a sé stante, di problematica classificazione mi sembra quello del Salimbene, che era nato sì a Parma, ma che si mosse in Emilia, in Toscana, oltre che in Francia.

Quanto fin qui riportato m’indurrebbe a supporre che pignatta sia la correzione toscana del veneto pignata, forma che, però,  risulta presente  nei testi a stampa di ogni argomento (letterario, religioso, scientifico) a partire dal XVI secolo. La cronologia escluderebbe la possibilità che la voce sia entrata con lo spagnolo piñata, che al pari della voce salentina, ma con reciproca autonomia, sembra confermare l’ipotesi di chi propone come etimo il latino medioevale pineata(m)=simile a pigna4, con esito –nea– largamente collaudato nel nostro dialetto (p. e.: staminea>stamegna).

Questo sarebbe sufficiente, forse, per chi si occupa della compilazione dei vocabolari, quanto meno di registrare pignata, anche se con il marchio, ancora quasi infamante, direi forma di razzismo linguistico, di voce regionale, per non dire, poi, di voce meridionale. Non ho nulla contro Dante & C., però continuare a manifestare ossequio  al fiorentino e tollerare, se non favorire, la proliferazione infestante dell’inglese anche quando non c’è nessun motivo per farlo, mi sembra contraddittorio, per non dire stupido. A tal proposito sfido chiunque si occupi, spero seriamente, di queste cose a citarmi un solo testo di culinaria, ripeto, uno solo, in cui compaia pignatta e non, come puntualmente ho rilevato,  pignata.

E la voce evoca o, almeno spero che ancora lo faccia, ambienti, colori, profumi sapori e perfino saperi della nostra terra, in cui la pignata è ancora insostituibile per cuocere, come natura e saggezza antica hanno consigliato da millenni, i legumi, la carne di cavallo  e il polpo, tutti, appunto, a pignatu. Non deve sorprendere in pignatu il cambio di genere, perché pignato è attestato oltre che in altri autori meno famosi, nel Candelaio di Giordano Bruno, che uscì nel 1582. Bisogna, però, rivendicare al salentino una maggiore creatività per via del diminutivo pignatieḍḍu, che in triplice esemplare celebra il suo trionfo nello stemma parlante della famiglia Pignatelli, con il massimo della coerenza in Iacopo (1625-1698), nato a Grottaglie …

(Tavola tratta da Consultationes canonicae, De Tournes, Lione, 1775)

 

E mi piace chiudere con un’informazione destinata a quell’unico lettore che ha avuto l’eroica (per me, per altri perversa)  perseveranza di seguirmi fin qui e che, preso dall’entusiasmo (!) ha intenzione di comprarne una per farle vivere nuove, calde esperienze: la pignata non serve a preparare la frittata, anche se uno dei tanti sedicenti esperti e, nel nostro caso di linguistica, prima in circolazione solo la domenica, oggi tutta la settimana, è riuscito con la pignata a fare l’esilarante frittata che di seguito vi servo insieme col suo prezioso link (affrettatevi a controllare, perché blog di questo tipo hanno fiutato l’affare, ma, nel momento in cui lo sponsor li abbandona in quanto non più produttivi, improvvisamente scompaiono), dopo aver osato evidenziare anche con la sottolineatura il fuoco d’artificio degno finale di un simile spuntino …

(https://comesiscrive.it/dubbi/pignatta-o-pignata/)

________________

1 Pubblicato in Annali bolognesi, s. n., Bassano, 1789, v. II, p. II, p. 220

2 Chronica Fr.  Salimbeni Parmensis Ordinis Minorum ex codice Bibliothecae Vaticanae nunc primum edita, Ex officina Petri Fiaccadorii, Parmae, MDCCCLVII, p. 407

3 Alfredo Stussi, Testi veneziani del Duecento e dei primi del Trecento, Nistri Lischi, Pisa,1966, doc. n. 77 a p. 124)

4 Per alcuni la somiglianza riguarderebbe l’intero contenitore, per altri il coperchio col suo pomello terminale;  a nessuno è venuto in mente che la disposizione delle brattee sembra aver ispirato la messa in opera delle tegole e, se si pensa che pignata in salentino è anche la tegola (mentre l’italiano pignatta designa un laterizio differente), il passo dalla pigna alla pignata/pignatta è veramente breve. Breve, come il passaggio dalla vita alla morte, se si pensa che tegola (insieme con teglia) è dal latino tegula(m)=padella, tegame, pentola, casseruola, a sua volta dal verbo tègere Iil cui participio passato, tectum, ha dato vita a tetto; tetta ha altro etimo)=coprire, per cui ricordo che una sola tegola fungeva spesso da piccola bara nelle sepolture infantili. Per completezza d’informazione dico pure che la pigna non è la sola indiziata di aver messo alla luce la pignata: per esempio, Giovanni Battista Pellegrini mette un campo un’altra trafila che, parte dall’aggettivo latino pinguis=grasso,  attraverso una seconda tappa il cui arrivo per me resta sub iudice, giunge a pignatta: pinguis>*(ollam) pinguiottam (pentola per conservare il grasso)>pignatta (Archivi Glottologico Italiano,61, 1976, pp. 165-172). Infine non va dimenticato il coppo, che della tegola è il sinonimo, imparentato semanticamente con  la  pignata, nonché figlio di coppa, che è dal latino tardo cuppa(m), di cui coppola è il diminutivo, as ua volta dal classico cupa(m), di cui cupola è il diminutivo, che poi ha trovato ridimensionamento opposto nella cupola per antonomasia, quella di S. Pietro, il Cupolone.

Due solenni tirate d’orecchi (la prima di quasi un secolo fa) al letterato neritino Francesco Castrignanò (1857-1938)

di Armando Polito

castrignanò Francesco

Qualcuno, leggendo le prime cinque parole del titolo, si sarà aspettato un prosieguo all’altezza, infarcito di ingiurie e parolacce, come la corrente pratica più o meno giornalistica e televisiva impone per scopi ben diversi dall’interpretazione per quanto è possibile corretta (e urbanamente, lo dico con il massimo rispetto per chi non vive in città) di ciò che istante per istante accade. Sempre quel qualcuno sarà rimasto deluso nel leggere la determinazione temporale delle successive cinque parole, non certo perché fosse chiaro che non potevo essere stato io a tirare le orecchie a Francesco Castrignanò, ma per il fatto che acqua passata non macina più e, se di fronte ad un rimprovero pur non privo di fondamento più o meno tutti reagiamo, se siamo educati, con un’alzata di spalle, senza usare locuzioni in cui la parola finale della proposizione precedente mostra la perdita di s-…, figurarsi quanto può incuriosire l’annunciata, addirittura doppia, tirata d’orecchi fatta tanto tempo  fa. Non è questo un gossip che si rispetti! E poi, Francesco Castrignanò, almeno dalla foto allegata, non sembra che fosse un attore, un cantante, un atleta o qualcuno (stavo per dire, forse più opportunamente … qualcosa) di simile. Infatti era un letterato e, forse m’illudo, le cose per il lettore cambiano. La categoria dei cosiddetti intellettuali non gode, molto spesso a ragione, specialmente ai nostri tempi, di grande considerazione e noi, cosiddetti comuni mortali (sicuramente siamo mortali, ma, se non lo fossimo, ognuno di noi potrebbe discutere per secoli sul comuni), non possiamo rinunziare a quel pizzico di soddisfazione che si prova quando qualche personaggio meritatamente o no in vista viene colto in fallo, soprattutto se quest’ultimo riguarda il campo per il quale e nel quale ha acquisito la notorietà.  Forse, allora, mio unico lettore ancora rimasto, questa è un’occasione da non perdere.

Non ho nulla contro Francesco Castrignanò e l’alta considerazione, che di lui ho mostrato di avere parlandone ripetutamente su questo blog1, non è minimamente cambiata e le due tirate d’orecchi che sto per documentare hanno il solo scopo di scuotere quell’aureola di superiorità che noi stessi poniamo sulla testa di qualcuno un po’ per invidia suscitata dalla consapevolezza dei nostri limiti  o, al contrario, da un’eccessiva autostima.

Comincerò dalla testimonianza di Nicola Vacca (1899-1977), storico salentino (era nato a Squinzano). Una delle sue innumerevoli pubblicazioni riguarda il Libro d’annali de’ successi accaduti nella città di Nardò, una cronaca dal 1632 al 1656, il cui manoscritto autografo sembra perduto, anche se, per fortuna, esistono alcune copie. Nel fare la collazione di quelle a sua conoscenza il Vacca incappò nell’inconveniente che così racconta: Una copia fatta su quella del De Michele, o essa stessa, fu soltanto vista da me, in Nardò presso il Sig. Francesco Castrignanò che non me la volle affidare neanche con deposito cauzionale! È la prima volta che mi succede un fatto simile nel corso – ormai non breve – dei miei studi patri

Non è per giustificare il concittadino, ma è chiaro che per il Castrignanò quel manoscritto, pur se copia, aveva un valore inestimabile, anche se è facile dire, per chi ne è al di fuori, che le ragioni della cultura e della conoscenza non debbono essere prevaricate dalla paura del rischio. Tutt’al più il neritino, anche per evitare  qualsiasi rischio di essere accusato di temere, in un cero senso, la concorrenza7, avrebbe fatto molto meglio a proporre al Vacca di studiare sul posto il manoscritto ospitandolo per il tempo necessario, senza, naturalmente, sorvegliarlo a vista, quasi avesse a che fare non con un cartografo, quale il Vacca in un certo senso pure era, ma con un cartofago …

Non so se il Castrignanò lesse mai quanto appena riportato o come reagì essendone eventualmente venuto a conoscenza anche per via indiretta. Certo è che, se avesse potuto sentirla,  la seconda tirata d’orecchi sarebbe stata avvertita molto dolorosamente, non solo perché coinvolgeva il letterato ma anche per la statura mondiale del suo critio.  Quella tirata d’orecchi non potè sentirla perché era morto quasi vent’anni prima che Gerhard Rohlfs pubblicasse la sua opera ancora oggi fondamentale per chiunque si approcci seriamente, e con la dovuta competenza filologica, allo studio dei dialetti del nostro territorio. Due neritini ebbero l’onore di esservi citati tra le fonti scritte di cui lo studio, oltre quelle orali ricercate personalmente sul campo, si avvalse: Luigi Maria Personè per le sue Etimologie neritine, apparse a puntate sul quindicinale napoletana Giambattista Basile dal 1888 al 1889, e Francesco Castrignanò per il citato Cose nosce e, in particolare, per il vocabolarietto di voci dialettali posto in appendice. Se per il Personè l’unico appunto che si può fare al maestro tedesco è il fatto di aver citato solo il suo primo contributo (lacuna giustificata dalla reperibilità già allora difficile della rivista), pur dando il dovuto risalto ai lemmi in esso trattati, nulla si può obiettare a quanto si legge a proposito del Castrignanò: (il dizionarietto che segue le poesie) è molto incompleto e contiene parecchi errori.

E questa volta osservo che, se il buon Francesco, pur essendo un letterato, non aveva specifiche competenze filologiche, in tempi recenti, molto recenti,  è uscito un vocabolario etimologico del dialetto neritino, in cui la trattazione di moltissimi lemmi, e non solo per quello che riguarda gli etimi, ha scombussolato me e, credo, farebbe sobbalzare le spoglie del Rohfs, anche se posto a decine di km dalla sua tomba …

_______________

1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/30/gli-affreschi-di-cesare-maccari-a-nardo-visti-con-gli-occhi-del-popolo-e-raccontati-da-un-poeta-dialetta       

2 https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/01/19/la-pazienza-agli-sgoccioli/

3 https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/06/sscercule/

4 Cose nosce, Tipografia neritina, Nardò, 1909 (ristampa Leone, Nardò, 1969)

5 Fiori di neve: versi, Tipografia neritina, Nardò, 1897

In morte di Giuseppe Garibaldi, Tipografia Garibaldi, Lecce, 1882

Antonio Caraccio: cenno biografico-critico,Tipografia Garibaldi, Lecce, 1895

Per il 1° cinquantenario dell’unità d’Italia, Mariano, Galatina, 1911

Un saluto a la R. Scuola tecnica gallipolina ospitata in Nardò, Tipografia Emilio Pignatelli, Nardò, 1913

L’alleanza de’ popoli, Bortone, Lecce, 1915 

Triste novembre, s. n., Nardò, 1921

A proposito del risultato della recente e rifatta graduatoria del concorso alla cattedra di lingua francese presso la scuola pareggiata di Nardò: abbasso il favoritismo, s. n. Nardò, 1921

Patria mia: rime, Vergine, Galatina, 1923

Per le nozze della sig.na Maria Zuccaro di Giacinto con l’avv. sig. Antonio de Mitri, Guido, Lecce, 1923

Il libro degli Acrostici (A’ turisti d’italia), Carrà, Matino, 1926

Lo Czar e il chimico: novella in versi e liriche sacre, Vergine, Galatina, 1926

A Benito Mussolini, Mariano, Galatina, 1928

La storia di Nardò esposta succintamentre, Mariano, Galatina, 19030

L’acquedotto pugliese e il duce: canzone in dialetto, Mariano, Galatina, 1930

Nel solenne ingresso a Castellaneta del suo novello vescovo mons. Francesco Potenza da Nardò, Tipografia R. Antonaci & C., Nardò, 1932

Per l’eccezionale festa a S. Antonio dopo eseguiti in gran parte i restauri della sua Chiesa in Nardò (19 giugno 1932), s. l., s. n., 1932

Nozze Nisio-Giubba, s. n., Nardò, 1933

Omaggio d’un settantenne a Mussolini, Gioffreda, Nardò, 1934

Vesi, Mariano, Galatina, 1935

Tirar dritto, resistere, vincere, Ferrari & C., Palermo, 1935

Ode, Ferrari & C., Palermo, 1935 

Siam tutti eroi, s. n. Nardò, 1936

Acrostici ì: Francesco Castrignanò a un suo concittadino, s. n., Nardò, 1936

6 Nicola Vacca, G. Battista Biscozzi e il suo “Libro d’Annali” in Rinascenza salentina, n. 1,  1936, p.

7 Ricordo, già citato in nota 5, La storia di Nardò esposta succintamente, Mariano, Galatina, 1930

8 Gerhard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto). Verlag der Bayer. Akad. d. Wiss., München, 2 volumi (1956-1957)

VECCHIA NOTA-MODERNO LINK ∞-0

di Armando Polito

 

Ciò che sto per dire non ha a che fare, almeno direttamente,  con gli argomenti qui di solito trattati. Tuttavia riguarda una spiacevole situazione  destinata, a parer mio, ad aggravarsi sempre più.

Ho certamente esagerato nel titolo con l’attribuire all’esito dell’incontro un divario più che stratosferico. Restando coi piedi su questa terra e pensando alla caducità umana, ben poco cambia nella sostanza. Parecchi frequentatori del web avranno notato da tempo un fenomeno, del quale ho sottovalutato lì per lì la negatività, finché non ho constatato di averci rimesso le penne o, forse, pur nella modestia delle mie scritture, la penna.

Nella stesura di un lavoro del quale mi sto occupando, nel rivedere qualche mio contributo pubblicato su questo blog, ho constatato con disappunto (anche se, e sono sincero, in misura enormemente inferiore a quello provato quando l’inconveniente si è verificato, in tutto il web, con i contributi altrui) che solo qualche link, dei numerosi che avevo inserito, prima attivi, non conducevano da nessuna parte. Infatti, quando non si tratta di una interruzione provvisoria dovuta ad una momentanea disfunzione della rete (e non è questo il nostro caso), si resta con l’amaro, più che in bocca, nel cervello, per aver perso, molto probabilmente, un’occasione per soddisfare, quanto meno, la propria curiosità.

In fondo, cos’è un link se non la versione moderna, a video, forse più dispersiva, della nota di un libro a stampa? Siamo abituati, ormai, ad osannare le nuove tecnologie come la panacea di tutti i nostri mali, ma la cecità, che per compensazione esalta gli altri sensi,  è forse peggiore dell’allucinazione, tanto più se essa è continua. Può darsi che un tempo anche i libri a stampa non fossero insensibili alle sirene del profitto fine a se stesso, ma oggi, e qualcuno mi dimostri che non è così, la maggior parte dei siti nascono e si sviluppano, sperando (speranza tutta calcolata nella prospettiva di realizzazione …) di non imbattersi in qualche novello Ulisse.

Nascono, si sviluppano e solo qualcuno muore, troppo tardi per i miei gusti. Difficilmente sopravvive, comunque, quello che, in qualche modo, non generi profitto e lo spettacolo diventa ancor più desolante quando, tanto per fare un solo esempio, pure con l’Enciclopedia Treccani on line, per avere una fruizione indenne da finestre che si aprono in continuazione facendoti correre il rischio di beccarti una polmonite informatica, sei  costretto ad accettare i biscottini, trattato, in forma ricattatoria, peggio di un animale , il quale di solito lo riceve come premio dopo l’esercizio …..

Nei condizionamenti e nell’aleatorietà che contraddistinguono il nostro passaggio terreno, i supporti informatici, ai quali affidiamo ciò che di noi potrebbe restare a futura memoria, non hanno ancora dimostrato di avere un’affidabilità e, soprattutto, una longevità superiore a quella, non dico dei manoscritti (non mi riferisco a quelli antichi, che, pure, sono giunti fino a noi,  anche perché, pur volendolo, chi, come me che in questo momento sto freneticamente pigiando tasti manco fossero grappoli d’uva, scrive manualmente?) ma delle opere a stampa. Così basta solo che un dominio non sia più redditizio o le spese per la sua gestione non siano più sostenibili, oppure, nel caso di quelli non nati a scopo di lucro o per soddisfare idioti narcisismi, che il titolare passi a miglior vita senza che gli eventuali eredi ne continuino la meritoria e disinteressata iniziativa, perché tutto scompaia. Un solo topo (o, al limite, un vandalo  umano non tempestivamente bloccato) basta per distruggere più o meno rapidamente un’intera biblioteca, basta  un solo sbalzo incontrollato di tensione dell’energia elettrica o il sadismo, più o meno prezzolato,  di un solo novello pirata per distruggere in un attimo un intero archivio.

Ben venga, dunque, la digitalizzazione, anche quella che permette di copiare fedelmente testi antichi, consentendone a tutti la fruizione virtuale e, per limitarne l’usura, riservare quella diretta solo  a studi sofisticati e specialistici, ma non facciamone un idolo, se non vogliamo che l’esito dell’incontro diventi,  anche se per la definizione corrente di infinito appare impossibile, ancor più pesante, naturalmente a vantaggio della cara, vecchia ma sempre viva, stampa. Non è vedo, forse, che dopo decine di secoli possiamo ancora ammirare piramidi ed acquedotti, mentre strade, ponti e viadotti costruiti pochi lustri fa sono già, errori di progettazione, scarsa qualità dei materiali utilizzati e insufficiente manutenzione a parte, pericolanti?

Dialetti salentini: ‘sta

di Armando Polito

Supponiamo che tra i salentini sia indetto un referendum che ponga la domanda: Ritieni sto venendo traduzione letterale di Sta bbegnu?; immagino che la risposta positiva sarebbe univoca o, comunque, largamente dominante. E poi, non basterebbe l’autorevolezza del Rohlfs a confermarlo?

A dire il vero, nella sua ancora fondamentale opera dedicata al salentino1 al lemma sta (v. II, p. 693) si legge:

e a stu (v. II, p. 714):

A parte il fatto che la grafia più esatta sarebbe dovuta essere ‘sta e ‘stu per aferesi tanto se considerati dall’italiano (questa/questo) che dal latino (istam/istum), per trovare traccia del nostro nesso bisogna andare al lemma staci (v. II, p. 693):

Ad aci (v. I, p. 30):

Non si comprende come per il Rohlfs staci (con la sua abbreviazione aci) sia forma “fossilizzata” di stare (sarebbe, a mia conoscenza, l’unica del salentino e la presunta fossilizzazione non giustificherebbe, comunque, l’assenza di una più dettagliata analisi etimologica e per questo mi sembra essere  stata messa in campo per spiegare la sua invariabilità. A mio parere, invece, la voce napoletana e quella calabrese citate a supporto alla fine del lemma  stace sono corrispondenti all’italiano stacci (forma letteraria per ci sta), in cui ci (in posizione enclitica) è dal latino ecce hic (=ecco qui), dunque non pertinenti. Oltretutto, le due voci usate in funzione perifrastica reggono il gerundio e non l’indicativo (in napoletano stace facenno=sta facendo). La funzione enclitica di –ci in staci/aci trova la sua conferma in altre forme enclitiche da lui registrate al lemma stare1 (p. 68): stocu, stoche (io sto), stave (egli sta).

Al lemma stare2:

 

Insomma, le voci staci e aci riportate per il salentino per  me lungi dall’avere qualsiasi legame con stare, sarebbero anche loro, al pari di ‘sta, dall’avverbio latino istac, come mi accingo a motivare, ripercorrendo passo dopo passo la strada che mi ha portato a questa conclusione..

Anch’io per lungo tempo ho creduto che la traduzione suffragata dal Rohlfs fosse esatta al micron, convinto che sta fosse voce del verbo stare. Poi, tornendoci su, ha cominciato a suscitare perplessità la sua reggenza dell’indicativo nell’espressione dialettale e del gerundio nell’italiana. Supponendo inizialmente corretta l’analisi del Rohlfs, ho controllato le coniugazioni complete, come nello specchietto che segue. Ho evidenziato con la sottolineatura il perdurare nel dialetto di un unico sta, mentre in italiano si susseguono le diverse forme delle persone  del presente indicativo:

sta bbegnu/sto venendo

sta bbieni/stai venendo

sta bbene/sta venendo

sta bbinimu/stiamo venendo

sta bbiniti/stateo venendo

sta bbèninu/stanno venendo

Lo stesso puntualmente si ripete anche con l’altro tempo previsto per il supposto stare in formazione perifrastica, cioè l’imperfetto:

sta bbinìa/stavo venendo

sta bbinìi/stavi venendo

sta bbinìa/stava venendo

sta bbinìamu/stavano venendo

sta bbinìi/stavate venendo

sta bbinìanu/stavano venend

Il perdurare di sta solo nel dialetto fa capire che esso è sicuramente una parte invariabile del discorso, che nel nostro caso non può essere che quella che, come dice il suo nome, è più connessa con il verbo, cioè un avverbio; ma quale? Ci viene in aiuto ‘sta (per aferesi dal latino ista (=questa), femminile del pronome/aggettivo dimostrativo iste, presente in italiano solo nelle voci composte designanti le fasi del giorno: stasera, stanotte, stamane o stamani, stamattina. Connesso con ista è l’avverbio istac (=per di qua, per questa via), da cui, sempre per aferesi e consueta caduta della consonante finale, il nostro ‘sta.1

Per concludere, abbiamo nel dialetto salentino due voci che sembrano omografe (stessa grafia ma diverso significato), ma lo sono solo parzialmente perché la loro comune paternità (anzi maternità, visto che ista è di genere femminile …) si riflette nella conservazione del concetto originario pur nella differenziazione della marca grammaticale (il primo aggettivo, il secondo avverbio:

1) ‘sta aggettivo dimostrativo dal citato ista (‘sta cosa=questa cosa)

2) ‘sta avverbio da istac (chiaramente connesso col precedente ista), usato solo nel nesso dell’immaginario referendum, in cui, dunque, sta (inesistente come forma verbale, essendo le voci del presente indicativo

sto/stai/stae/stamu/stati/stannu) e ricorrente solo in composizione pronominale nella seconda persona singolare statte, corrispondente all’italiano statti, e plurale stàtibbe, corrispondente all’italiano stàtevi,   va emendato in ‘sta e la corretta traduzione in italiano sarà costà (vedi nota 2). Null’altro da aggiungere a quanto detto su quello che mi sembra  un esempio emblematico di un equivoco basato su un errore filologico indotto da suggestioni fonetiche istintive, anche se le conseguenze semantiche per il nesso completo non sono, nel nostro caso, drammatiche

__________

1 Gerhard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976.

2 Da eccum istac (=ecco di qua) nasce l’italiano costà, in cui l’accento sull’ultima sillaba è giustificato dalla necessità di evitare  la confusione col sostantivo costa; lo stesso succede per costì (da eccun istic), che altrimenti si confonderebbe con costi, voce verbale di costare.

A volte tornano, pure le testuggini

di Armando Polito

Meglio loro che un Hitler o un altro simile umano (solo la nostra razza lo sa fare …). Il lettore già col titolo si starà chiedendo se si trova di fronte ad un giornalista extrapazzo o da strapazzo, ma io, parafrasando l’immenso Totò (per i giovani e per i non ancora anziani

(https://www.youtube.com/watch?v=MuaJdM5JKzs), che sono, un giornalista? E allora, in attesa di altre bordate, proseguo. Le testuggini, anzi la testuggine di cui sopra è quella della quale mi sono occupato su questo blog; consiglio per chi continua a pensare che stia farneticando: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/15/melpignano-due-epigrafi-del-palazzo-marchesale/.

Partita da Melpignano, or sono più  di due anni, e approdata grazie alle vele di questo blog in quel di Ferrara, in Salento  è tornata, arricchita come solo le esperienze, stavo per dire le avventure, culturali consentono, sotto forma di un pdf a firma di Micaela Torboli, dal titolo La formica e la testuggine. L’epigrafe di casa Achille Pozzati di Via della Ghiara a Ferrara, un saggio pubblicato in Atti e memorie della Deputazione provinciale ferrarese di storia patria,  serie V, volume I, Baraldini edizioni e stampe, Finale Emilia, 2021, pp. 99-150. Sarei un ipocrita se non dicessi che l’apprezzamento per qualche mia modesta fatica mi fa piacere (e in questo sono ancora nella razza umana …), ma certamente sono sincero quando dico che mi fanno più piacere le eventuali, tutt’altro che improbabili, critiche negative (e, mi si creda o no, in questo comincio a collocarmi al di fuori di quella razza …). Sorvolo, perciò, sulle locuzioni gratificanti contenute nel saggio e mi soffermo sull’unico appunto che mi si muove, cioè la mancata indicazione del luogo di ubicazione di un manoscritto, riguardo al quale mi si rimprovera pure di non averne sottolineato la rilevanza. Prendo atto della lacuna nella quale sono incorso nonostante il mio rigore quasi maniacale, quanto meno  nella citazione della fonte quando non sia stato possibile fornire alcuna immagine o controllare de visu il manufatto; in questo caso c’è l’aggravante che un manoscritto esattamente con lo stesso nome Palatino 147 (coincidenza quasi incredibile) è custodito nella Biblioteca Vaticana.  Ho già provveduto  alla quanto mai opportuna integrazione, con un doveroso richiamo in nota e  ora intendo disobbligarmi forse contando un po’ troppo nelle mie reali o presunte competenze di cultura classica e in partticolar modo di filologia e, per scendere ancor più in dettaglio, in metrica.

L’autrice nel suo saggio manifesta più volte il dubbio, per non dire la certezza, del rimaneggiamento del supporto, il che avrebbe indotto anche una lacuna nella parte iniziale dell’epigrafe ferrarese.

Di seguito  come essa si presenta nella sua trascrizione, che ho tratto in formato grafico dal documento originale.

Subito dopo l’autrice aggiunge: Questa trascrizione riprende quasi esattamente lo stato grafico del testo, impaginato su due linee.  Esso fa comprendere che la lastra è mutila, perché la linea superiore manca di un verbo iniziale, chiave, come vedremo, per chiarire il senso della frase, e che doveva sporgere sulla sinistra, rendendo armonica la distribuzione delle lettere capitali nello specchio, così:  

Posso assicurare, per quanto mi compete (sul supporto nulla posso dire,  non avendolo, fra l’altro, visionato), che l’iscrizione in sé è assolutamente integra e mi accingo a dimostrarlo,  chiedendo scusa ai meno (cioè ai cosiddetti addetti ai lavori) per rendere fruibile quanto dirò ai meno (ahimè, sempre meno …) disposti a non perdere neppure un po’ del loro tempo per seguire le ultime vicende di questo o quel presunto artista del momento  piuttosto che argomenti come questi. Non confido, comunque, nelle mie capacità divulgative, che, almeno teoricamente, avrei dovuto possedere in partenza e, se non ottuso, affinare proprio grazie al mio mestiere (ricordo che la parola è, tramite il francese, dal latino ministerium=ufficio, incarico,  servizio; e quello dell’insegnante dovrebbe essere, soprattutto, un servizio …).

Intanto la trascrivo con l’emendamento di perambulat (presente indicativo) con perambulet  (presente congiuntivo), non solo perché tale modo esprime la potenzialità solo augurale, purtroppo, delle due azioni, per giunta rese ancora più problematiche dallo scambio dell’habitat naturale (terra/mare) dei due animali  (la congiunzione donec regge, invece, l’indicativo quando si riferisce ad un atto già compiuto o suscettibile di compimento nel futuro), ma anche perché la congiunzione et, che è una coordinante, sarebbe una pessima coordinatrice di una coppia sgangherata quale sarebbe quella formata da due proposizioni, la prima col verbo al congiuntivo, la seconda all’indicativo. Un esame più accurato del manufatto dovrebbe confermare l’emendamento, anche se è sempre in agguato l’errore dell’esecutore, non certo del committente o di chi, per lui, ha fornito il testo da incidere o, se si tratta di un’inscriptio picta, da dipingere.

Haec  domus hic donec fluctus formica marinos

ebibat et totum testudo perambulet orbem

Tuttavia, lo scambio perambulat/perambulet non inciderebbe minimamente, come s’intuisce, sul problema dell’ipotizzata mutilazione  del testo, ipotesi basata su motivi puramente estetici (armonica la distribuzione delle lettere), e di una conseguente  difficoltà di comprendere il senso.

Dirimente, invece, è l’esame metrico; di seguito la scansione.

I due esametri, anche il primo sospettato di essere rimasto vittima di un incidente, mostrano una struttura perfetta, che non lascia alcuna possibilità dell’intrufolamento di STET, perché, almeno fino ad ora, non ho incontrato un solo esametro con un piede mostruoso fatto di quattro sillabe (STET HAEC DOMUS).

– Va bene ! – mi si dirà.  – E col senso, come la mettiamo? Difficile, no? -.  La risposta è – Facile! – e si trova proprio nella parte finale delle due battute, in quel verbo che, paradossalmente, esprime la presenza, l’esistenza, l’essenza, ma che non solo in italiano spesso, senza che ce rendiamo conto, è sottinteso.

Per farla breve: all’inizio dell’epigrafe è sottinteso SIT (sia, esista, resti in piedi), la cui presenza, sarebbe stata certamente plausibile dal punto di vista semantico (da qui lo STET di altre epigrafi in esametri col testo più o meno simile, riportate dall’autrice e che, se trascritte correttamente, mostrerebbero anche loro una struttura perfetta.

Pertanto la traduzione letterale dell’epigrafe suona così:

Sia questa casa qui finché i flutti marini la formica

berrà e la testuggine farà il giro di tutta la terra

Resto a disposizione per ogni ulteriore chiarimento ed esprimo la mia gratitudine perché una delle piccole onde generate da un sassolino gettato in mare è giunta a felice destinazione o, per tornare al titolo,  una piccola testuggine, dopo essere diventata adulta, è tornata a farmi visita …

Dialetti salentini: caissa e bancillera, due probabili, per quanto insospettabili, citazioni dotte? *

di Armando Polito

*Questo post sostituisce quello pubblicato per un equivoco nella stesura provvisoria il 17 u. s.    

Succede, quando meno te lo aspetti, che nella memoria riaffiori il ricordo di un evento, di una persona, di una parola, anzi di due, come nel nostro caso. Nel corso di una piacevolissima conversazione tele un amico (non dico il nome ma, leggendomi, lui capirà …), dopo che gli avevo chiesto conferma sull’uso di peu  nel dialetto di Nardò prima di redigere la scheda relativa con l’intento di farla uscire su questo blog1, ha sottoposto alla mia attenzione caissa (vocabolo che già mi era noto per averlo sentito dalla  bocca di mia madre, ma del cui significato, certamente dispregiativo, non ero in  grado di individuare i riferimenti specifici, se non un generico indizio di cattiveria dedotto dal contesto) e, subito dopo bancillera (lì per lì avevo capito bacciollera, ma la forma corretta è emersa dopo qualche giorno nel corso di un’altra telefonata), sentito, sempre con valenza dispregiativa e nel nesso caissa e bancillera, da sua nonna

Nell’affrontare un problema che non richieda una soluzione rapida e, direi, istintiva, ciascuno di noi segue, o dovrebbe seguire, una procedura articolata in due fasi. La prima, che vuol mettere alla prova la nostra competenza, reale o presunta, consiste nel formulare una o più ipotesi di lavoro, mettendosi subito dopo alla ricerca di prove corroboranti. La seconda, che può portare, a seconda degli esiti, la soddisfazione di una conferma o della certezza della propria integrazione o, addirittura, correzione,  oppure la frustrazione per non esserci arrivato, consiste nel conoscere come il problema è stato trattato da chi se ne è occupato prima di noi. Non si sottrae certamente a tutto questo la filologia e, in particolare, Individuare l’etimo di una parola del cui significato si ha una conoscenza sfumata, nel nostro caso pure troppo, è sempre impresa non facile ma intrigante, soprattutto quando si giunge alla seconda delle due fasi prima descritte.

Alla prima di esse si riferiscono le due schede che seguono (quella relativa a bancillera è nella forma originaria, redatta quando ancora era baccillera).

CAISSA è l’invenzione di William Jones, filologo inglese del XVIII secolo (Londra, 28 settembre 1746 – Calcutta, 27 aprile 1794) particolarmente interessato alle  lingue orientali, tra i primi studiosi del sanscrito e da considerare come il precursore dell’indoeuropeistica.

Spesso menti simili passano con disinvoltura dal rigore alla sfrenatezza, com’è naturale che succeda quando dalla scienza si passa alla fantasia. Frutto della fantasia, appunto, è Caissa, una driade (divinità boschereccia) che testardamente respinge Marte, invaghitosi di lei, ma che alla fine cede, conquistata da un  gioco che il dio della guerra, su suggerimento di un’altra driade, le ha regalato. Tutto questo in un poemetto intitolato, appunto, Caissa, composto quando aveva solo diciassette anni ma pubblicato insieme con altri poemetti in Poems, Consisting Chiefly of Translations from the Asiatick, Clearend-Press, Oxford, 1772 (di seguito il frontespizio del volume e il titolo del poemetto).

Il gioco è quello degli scacchi; e qui i conti tornano, nel senso che s’incontrano il letterato con la creazione di una nuova favola mitologica, l’orientalista che conosce bene l’origine orientale del gioco e che al gioco di parola non sa rinunciare, dando con Caissa un alone foneticamente classico a chess, la parola inglese corrispondente al nostro scacchi.

Va, comunque, detto che l’inglese era stato preceduto due secoli prima dall’italiano Marco Gerolamo Vida nel 1525 con il suo Scacchi ludus, in cui celebra in esametri una memorabile partita giocata tra Apollo e Mercurio, arbitrata da Giove e con le più importanti  divinità come spettatori, non all’Olimpico … ma sull’Olimpo.

L’opera del Vida fu tradotta in inglese e pubblicata nel 1750  (di seguito il frontespizio).

 

Può darsi che sia stata questa pubblicazione (con  il testo originale più che con la traduzione annessa, visto lo spessore del filologo) ad ispirare il Jones, come, d’altra parte, dichiarato espressamente nell’advertissement che precede tutte le edizioni, a partire dalla prima2.

Fatto sta che grazie al filologo inglese Caissa sarà celebrata come la dea degli scacchi. Una bufala mi pare la presunta Caissa che sarebbe stata dipinta dal bolognese Domenico Maria Fratta, la cui riproduzione circola in rete e che di seguito riporto.3

 

Ma, per tornare a noi,  quale sottile legame legherebbe Caissa a caissa? Intanto va detto che la voce dialettale è usata sempre antonomasticamente, cioè non come aggettivo, ma preceduta dall’articolo (queddha gggh’è nna caissa=quella è una donna prepotente, e non  queddha ggh’è caissa=quella è prepotente). Proprio l’uso antonomastico rende plausibile che un personaggio capace di tener testa, almeno fino ad un  certo punto, al dio della guerra ben appaia come un modello di donna forte, decisa e, per traslato amplificato, prepotente e, magari, pure cattiva; senza contare che contro uno scacchista è difficile misurarsi anche per uno esperto, figurarsi contro la dea degli scacchi!

 

BANCILLERA

Non mi pare un  caso che compaia, come riportato all’inizio, in coppia con caissa. Credo che questa volta la valenza metaforica non sia quella dell’antonomasia, ma di un sarcasmo, per così dire, doppio. Credo che la voce abbia il suo esatto corrispondente nell’italiano baccelliere, usato, però al femminile. Quello di baccelliere era un titolo di studio corrispondente alla licenza di scuola media superiore. Nel nostro caso  sta scherzosamente (tanto più per una donna che in passato era costretta a vivere in un clima talebano ante litteram, per cui il titolo di studio non  era nemmeno immaginabile) per sapientona, saccente ed un  tipo così non è certamente indenne dall’essere contemporaneamente anche prepotente, cioè caissa.

Mi muovo da solo un’obiezione, prima che altri lo facciano: com’è possibile che due voci di origine dotta (soprattutto la prima, legata, fra l’altro, ad un gioco tutt’altro che popolare) abbiano allignato nell’uso popolare? Non sarebbe l’unico esempio, e certamente non sarà l’ultimo, a patto che ci sia pure un pizzico di fortuna a sancire anche tra il popolo il successo di una parola, per così dire, di alto lignaggio.

Fin qui la prima fase, con esiti sottesi, come è bene che sia sempre, dal dubbio.

Nella seconda in questo tipo di indagine punto obbligato di partenza è il Rohlfs. Nel nostro caso, però, nessuna delle due parole è registrata nel suo vocabolario sui dialetti salentini.

Nel volume del maestro tedesco caissa e bancillera non sono le uniche voci in uso, magari ancora oggi, a Nardò che risultano assenti, il che, tuttavia, non è da ascrivere come colpa al grande studioso tedesco ma alle lacune dei suoi informatori locali. Mi chiedo sempre cosa ci avrebbe lasciato se ai suoi tempi avesse potuto fruire delle nuove tecnologie e in particolare della rete e delle immense possibilità offerte dai motori di ricerca. Ed è proprio grazie alla rete (e dopo aver appreso che baccillera era in realtà bancillera) che ho potuto apprendere che dell’etimo di queste due voci si era già occupato alla fine del XIX secolo un mio concittadino, cioè Luigi Maria Personè, i cui contributi dal titolo Etimologie neritine vennero ospitati alla fine del XVIII secolo nel quindicinale napoletano Gaiambattista Basile  (anno VI, n. 11, Napoli, 15 novembre 1889, p. 87; anno VII, n. 3, Napoli, 15 marzo 1889, p. 17; anno VII, n. 6, Napoli, 15 giugno 1889, p. 46; anno VII, n.11, Napoli,1 ottobre 1889, p. 87).

Come ho detto, i due vocaboli sono assenti nel Rohlfs nonostante il Personè sia citato nella bibliografia (di seguito il dettaglio).

Mi fa venire il sospetto che il Rohlfs non abbia mai letto il contenuto di questo dato bibliografico (probabilmente passatogli da qualcuno poco avvezzo alla precisione) il fatto che nel numero del Giambattista Basile riportato non appare nessun contributo del meritino, che, invece, collaborò con il quindicinale napoletano dal 1888 al 1889 per un totale non di 15 ma di ben 56 vocaboli, come documenterò in un prossimo lavoro.

Nel secondo tra i contributo del Personè che ho sopra citato compaiono, insieme con altre, pure le due voci che ci interessano e che di seguito riproduco.

Come chiunque può notare, non tutto il male vien per nuocere, perché senza il mio fraintendimento di bancillera con baccillera molto probabilmente non sarei approdato alla soluzione della scheda precedente, anche se mi son perso l’intermediario spagnolo, che oggi è bachillera con la seguenti definizioni tratte dal dizionario della Real Academia Española:

1 Persona que ha cursado o está cursando los estudios de enseñanza secundaria. (Persona che ha frequentato o cvhe sta frequentando gli studi di scuola secondaria)

Persona que había recibido el primer grado académico que se otorgaba a los estudiantes de una facultad universitaria (Persona che abbia conseguito il primo grado accademico che si rilasciava agli studenti di una facoltà universitaria)

Persona que habla mucho e impertinentemente (Persona che parla molto impertinentemente)

desusado Persona instruida, experta. Era u. t. c. adj. Era u. t. en sent. despect. (obsoleto Persona istruita, esperta. Era usato solo come aggettivo. Era usato solo in senso dispregiativo)

Credo che il n. 4 sia proprio la pietra tombale per qualsiasi dubbio relativo a bancillera, che non sia la trafila seguita: dalla voce spagnola indicata  con geminazione di –c– e successiva dissimilazione (bacillera>*bacciller>bancillera) , oppure direttamente (senza la geminazione di –c– ma con la stessa dissimilazione) dall’italiano baccelliera?

La pietra, invece, resta sullo stomaco per caissa. Il Personè cita il Facciolati, che a sua volta cita Festo, il quale nomina Lucilio. è quasi inevitabile in questa catena che l’affidabilità dell’informazione ne risenta, anche perché manca un anello. Ecco la catena con tutte le sue maglie (ho sottolineato quella mancante): Facciolati ( XVII-XVIII secolol)<Paolo Diacono (VIII secolo)<Festo (II secolo d. C.)<Lucilio (II secolo a. C.). Per quanto può essere utile, traduco le parole di Festo tramandate da Paolo Diacono: Carissa presso Lucilio  significa scaltro. Rispetto a Festo, poi, il Facciolati rincara la dose: Carissa, ruffiana scaltra e arguta. E sulla Carissa di Lucilio i letterati medioevali si sbizzarrirono. Basti come esempio Uguccione da Pisa (XII-XIII  secolo), che nelle Derivationes (riporto il testo dall’editio princeps a cura di Enzo Cecchini e di Guido Arbizzoni, Sismel-Edizioni del Galluzzo, Firenze, 2004) al lemma careo (=mancare) così scrive:

Item a careo hoc carenum -ni, idest mustum, quia fervendo careat parte; tertia enim parte musti amissa, quod remanet carenum est, cui contraria est sapa, que fervendo ad tertiam partern redacta descendit; et carino -as verbum neutrum, idest arguere vel conviciari vel illudere, unde hic carinator idest conviciator et maledicus, et hec carisia -e idest lena vetus et litigiosa vel potius dicitur a careo, unde et fallaces ancille carisie dicuntur, quia veritate carentt. (Parimenti da careo questo careno, cioè il mosto, poiché fervendo viene a mancare di una parte; infatti, persa la terza parte del mosto, quello che rimane è il careno, al quale si contrappone la sapa, che, ridotta fervendo alla terza parte, discende; e  carino/carinas, parola neutra, cioè significa accusare o insultare o prendersi gioco, donde questo carinatore, cioè oltraggiatore e maldicente  e questa carisia/carisiae, cioè ruffiana vecchia e litigiosa o piuttosto è detta da careo, donde anche le ancelle che raccontano falsità sono dette carisie, poiché mancano di sincerità)

Perchè carissa (o carisia) possa essere considerata  madre di caissa, bisognerebbe spiegare la caduta di –r– suffragata da almeno una voce in cui tale fenomeno si sia verificato, come caterve di esempi si possono, invece, addurre per la caduta di –v–  (anche quando nasce da un originario –p-, come in capezza>cavezza già in italiano; il salentino ha capezza, ma la variante caezza fa capire l’azione di cavezza.

Sulla scorta di quanto appena documentato potrei anch’io lanciarmi senza paracadute e ipotizzare che caissa sia ciò che rimane di un originario *capessa, femminile di capo, attraverso un *cavessa>*cavissa; non so, comunque, se questa conclusione etimologica sarebbe gradita o meno dalle femministe …

Quanto al χάσσα (leggi chasssa) che il Personè sembra fornire come dato proprio, i controlli effettuati hanno rilevato l’assenza di questa voce nel greco classico, in quello bizantino e in quello moderno.

Per aggiornare il quadro a tempi a noi più vicini aggiungo che caissa (non bancillerra) è registrato in Enrico Ciarfera-Mario Mennonna, Il Volgare Neritino, Congedo, Galatina, 2020, col significato specifico di donna prepotente, ma con una proposta etimologica, peraltro formulata senza l’aggiunta di un forse o di un probabilmente[i], che per nulla convince: [dal greco kaké-kakè: cattiveria] donna cattiva; donna oppressiva.4

Un’ipotesi etimologica, infatti, per essere plausibile deve manifestare congruità sul piano fonetico (sempre soggetto alle insidie di calchi, ricalchi, incroci, assonanze e consonanze) e su quello semantico (sempre soggetto a slittamenti metaforici talora non prevedibili e non chiari). La proposta citata soddisfa la seconda condizione ma è lontana anni luce dalla soddisfazione della prima, col risultato che la fonetica appare arbitrariamente e maldestramente asservita alla semantica.5

Siamo giunti alla fine di questo lungo viaggio, le cui tappe, almeno per caissa, non hanno dato un esito definitivamente convincente. In fondo andare alla caccia di un etimo significa immettersi sull’autostrada del tempo, la quale è piena di rettilinei ingannevoli, curve pericolose, svincoli che spesso confondono e costringono a tornare indietro, con una segnaletica sbiadita e, comunque, di interpretazione non sempre immediata. Io con un pizzico d’incoscienza ho imboccato quest’autostrada e, pur avendo pagato il pedaggio,  sto per essere fermato da una pattuglia che certamente mi chiederà anzitutto di esibire una patente che io non ho. Ma, siccome in questo sono presuntuosamente recidivo e non ho nulla da perdere, nemmeno, come ho detto, la patente, la storia potrebbe non finire qui …

______________

1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/02/13/dialetti-salentini-peu-e-bbunatu/

2 Alla prima, già citata, del 1772 seguirono quelle del 1774 (Richter, Altenburg) e del 1777 (W. Bowiee & J. Nichols, Londra) e altre nel secolo successivo.

Suscita quanto meno sospetti prima di tutto il fatto che non è mai citata la fonte, né è fatto, almeno, riferimento , magari solo generico, ad una collezione, pubblica o privata che sia. E, poi, il Fratta morì nel 1763, cioè proprio nell’anno in cui il Jones scriveva Caissa: come faceva a conoscere un’opera che sarebbe sta pubblicata dopo 9 anni?

4 Ad essere precisi: in greco κακήκακῆς (leggi kakèkakès) sono il nominativo e il genitivo del femminile dell’aggettivo κακός/κακή/κακόν, che significa cattivo; non esiste un κακήκακῆς sostantivo.

5 Collegare, come mi sembra sia stato fatto, l’-ss– di caissa con il sigma (-ς-) del genitivo κακῆς è un’operazione assolutamente improponibile.

 

Dialetti salentini: caissa e baccillera, due probabili, per quanto insospettabili, citazioni dotte?

di Armando Polito

Succede, quando meno te lo aspetti, che nella memoria riaffiori il ricordo di un evento, di una persona, di una parola, anzi di due, come nel nostro caso. Nel corso di una piacevolissima conversazione telefonica un amico (non dico il nome ma, leggendomi, lui capirà …), dopo che gli avevo chiesto conferma sull’uso di peu nel dialetto di Nardò prima di redigere la scheda relativa1 con l’intento di farla uscire su questo blog1, ha sottoposto alla mia attenzione caissa (vocabolo che gia mi era noto per averlo sentito dalla  bocca di mia madre, ma del cui significato, certamente dispregiativo, non ero in  grado individuare i riferimenti specifici, se non una generico indizione di cattiveria dedotto dal contesto) e, subito dopo baccillera (sentito, sempre con valenza dispregiativa e nel nesso caissa e baccillera, da sua nonna.

Individuare l’etimo di una parola del cui significato si ha una conoscenza sfumata, nel nostro caso pure troppo, è sempre impresa non facile ma intrigante, soprattutto quando altri non se ne sono occupati, primo fra tutti il Rohlfs, nel cui vocabolario sui dialetti salentini mancano non poche parole ancora oggi usate a Nardò, il che certamente non è da ascrivere come colpa al grande studioso tedesco ma alle lacune dei suoi informatori locali. Mi pare doveroso aggiungere, però, a conferma del dato per Nardò, che caissa (non baccillerra) è registrato in Enrico Ciarfera-Mario Mennonna, Il Volgare Neritino, Congedo, Galatina, 2020, col significato specifico di donna prepotente, ma con una proposta etimologica, peraltro formulata senza l’aggiunta di un forse o di un probabilmente2, che per nulla convince: [dal greco kaké-kakè: cattiveria]] donna cattiva; donna oppressiva.3

Un’ipotesi etimologica, infatti, per essere plausibile deve manifestare congruità sul piano fonetico (sempre soggetto alle insidie di calchi, ricalchi, incroci, assonanze e consonanze) e su quello semantico (sempre soggetto a slittamenti metaforici talora non prevedibili e non chiari). La proposta citata soddisfa la seconda condizione ma è lontana anni luce dalla soddisfazione della prima, col risultato che la fonetica appare arbitrariamente e maldestramente asservita alla semantica.

Di seguito le conclusioni alle quali sono giunto.

CAISSA è l’invenzione di William Jones, filologo inglese del XVIII secolo (Londra, 28 settembre 1746 – Calcutta, 27 aprile 1794) particolarmente interessato alle  lingue orientali, tra i primi studiosi del sanscrito e da considerare come il precursore dell’indoeuropeistica.

Spesso menti simili passano con disinvoltura dal rigore alla sfrenatezza, com’è naturale che succeda quando dalla scienza si passa alla fantasia. Frutto della fantasia, appunto, è Caissa, una driade (divinità boschereccia) che testardamente respinse Marte, invaghitosi di lei, ma che alla fine cede conquistata da un  gioco che il dio della guerra, su suggerimento di un’altra driade, le ha regalato. Tutto questo in un poemetto intitolato, appunto, Caissa, composto quando aveva solo diciassette anni ma pubblicato insieme con altri poemetti in Poems, Consisting Chiefly of Translations from the Asiatick, Clearend-Press, Oxford, 1772 (di seguito il frontespizio del volume e il titolo del poemetto).

Il gioco è quello degli scacchi; e qui i conti tornano, nel senso che s’incontrano il letterato con la creazione di una nuova favola mitologica, l’orientalista che conosce bene l’origine orientale del gioco e che al gioco di parola non sa rinunciare dando con Caissa un alone foneticamente classico a chess, la parola inglese corrispondente al nostro scacchi.

Va, comunque, detto che l’inglese era stato preceduto due secoli prima dall’italiano Marco Gerolamo Vida nel 1525 con il suo Scacchi ludus, in cui celebra in esametri una memorabile partita giocata tra Apollo e Mercurio, arbitrata da Giove e con le più importanti  divinità come spettatori, non all’Olimpico … ma sull’Olimpo.

L’opera del Vida fu tradotta in inglese e pubblicata nel 1750  (di seguito il frontespizio).

Può darsi che sia stata questa pubblicazione (con  il testo originale più che con la traduzione annessa, visto lo spessore del filologo) ad ispirare il Jones, come, d’altra parte, dichiarato espressamente nell’advertissement che precede tutte le edizioni, a patire dalla prima5.

Fatto sta che grazie al filologo inglese Caissa sarà celebrata come la dea degli scacchi. Una bufala mi pare la presunta Caissa che sarebbe stata dipinta dal bolognese Domenico Maria Fratta, la cui riproduzione circola in rete e che di seguito riporto.6

Ma, per tornare a noi,  quale sottile legame legherebbe Caissa a caissa? Intanto va detto che la voce dialettale è usata sempre antonomasticamente, cioè non come aggettivo, ma preceduta dall’artiicolo (queddha ggh’è nna caissa=quella è una donna prepotente, e non  queddha gghìè caissa=quella è prepotente). Proprio l’uso antonomastico rende plausibile che un personaggio capace di tener testa, almeno fino ad un  certo punto, al dio della guerra ben appaia come un modello di donna forte, decisa e, per traslato amplificato, prepotente e, magari, pure cattiva; senza contare che contro uno scacchista è difficile misurarsi anche per uno esperto, figurarsi contro la dea degli scacchi!

 

BACCILLERA

Non mi pare un  caso che compaia, come riportato all’inizio, in coppia con caissa. Credo che questa volta la valenza metaforica non sia quella dell’antonomasia, ma di un sarcasmo, per così dire, doppio. sarcasmo de che la voce abbia il suo esatto corrispondente nell’italiano baccelliere usato, però al femminile. Quello di baccelliere era un titolo di studio corrispondente alla licenza di scuola media superiore. Nel nostro caso  sta scherzosamente (tanto più per una donna che in passato era costretta a vivere in un clima talebano ante litteram, per cui il titolo di studio non  era nemmeno immaginabile) per sapientona, saccente ed un  tipo così non è certamente indenne dall’essere contemporaneamente anche prepotente, cioè caissa.

Mi muovo da solo un’obiezione, prima che altri lop facciano: com’è possibile che due voci di origine dotta (soprattutto la prima, legata, fra l’altro, ad un gioco tutt’altro che popolare) abbiano allignato nell’uso popolare? Non sarebbe l’unico esempio, e certamente non sarà l’ultimo, a patto che ci sia pure un pizzico di fortuna a sancire anche tra il popolo il successo di una parola, per così dire, di alto lignaggio.-

_______

1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/02/13/dialetti-salentini-peu-e-bbunatu/

2 Sono profondamente convinto, ma non è detto che abbia ragione, che la vera conoscenza si basa sul dubbio ricorrente,  anche perché ciò che appare certo può non corrispondere al varo.

3 Ad essere precisi: in greco κακήκακῆς (leggi kakèkakès) sono il nominativo e il genitivo del femminile dell’aggettivo κακός/κακή/κακόν, che significa cattivo; non esiste un κακήκακῆς sostantivo.

4 Collegare, come mi sembra sia stato fatto, l’-ss– di caissa con il sigma (-ς-) del genitivo κακῆς è un’operazione assolutamente improponibile.

5 Alla prima, già citata, del 1772 seguirono quelle del 1774 (Richter, Altenburg) e del 1777 (W. Bowiee & J. Nichols, Londra) e altre nel secolo successivo.

6  Suscita quanto meno sospetti prima di tutto il fatto che non è mai citata la fonte, né è fatto, almeno, riferimento , magari solo generico, ad una collezione, pubblica o privata che sia. E, poi, il Fratta morì nel 1763, cioè proprio nell’anno in cui il Jones scriveva Caissa: come faceva a conoscere un’opera che sarebbe sta pubblicata dopo 9 anni?

Dialetti salentini: peu e ‘bbunatu

di Armando Polito

 

È fenomeno ricorrente in tutte le lingue quello di alcune voci, il cui significato ha subito, col passare del tempo e con l’intervento di fattori non sempre facilmente individuabili, un ribaltamento totale della valenza positiva o negativa (in senso etico) del significato originario.

Così è stato per peu, usato nel dialetto neritino col significato di stupido. Il Rohlf non registra questa voce nella sua opera da me già citata fino alla noia, per cui non ne ripeterò gli estremi bibliografici né riprodurrò, giocoforza, il dettaglio grafico del lemma. L’aureola del Maestro questa volta non m’illuminerà nella ricerca etimologica e posso solo sperare che il mio avventuroso e, forse, avventato tentativo non si risolva in una catastrofe.

Ritengo che peu abbia l’esatto corrispondente italiano in pio, che è dal latino piu(m), accusativo di pius/pia/pium, aggettivo che qualifica l’uomo virtuoso, devoto (da vivente) ed il beato (da defunto). Lo stesso aggettivo in funzione onomastica come cognomen (soprannome) è Pius, da cui l’italiano Pio, nome, fra l’altro, assunto  da ben dodici papi1.

Derivato di pius è pietas, dal cui accusativo (pietatem) è l’italiano pietà, che rispetto alla voce latina significante  virtù e devozione (cioè due fondamentali valori laici e religiosi) ha perso gran parte del suo valore morale, limitandosi ad esprimere un sentimento di compassione, di partecipazione alle miserie altrui, infarcite di astratte elucubrazioni e vuota retorica, quando, in concreto, non finisce per prostituirsi a losco affare, come recenti fatti di cronaca nazionale ed internazionale hanno portato alla luce. Con queste premesse uno si chiede come mai dal concetto gratificante di pio si sia passati a quello mortificante di peu. La risposta viene dalla storia dell’uomo, soprattutto da quella contemporanea e da ciò che è una costante del costume italiano, per cui chi è onesto e rispettoso, anzitutto della legge, è considerato un fesso rispetto ai furbi, categoria alla quale appartengono i politici, che, senza distinzione di colore, nulla hanno fatto, fanno e faranno per porre rimedio alle tante piaghe sociali, in primis l’evasione fiscale2. Prima di deragliare metto in azione la rapida e mi stabilizzo sul binario … La donna, poi, è quella doppiamente coinvolta in questo gioco perverso che non risparmia neppure il sentimento religioso, per cui oltre che pea (stupida) poteva essere anche piarella. Questa voce è dal latino classico piare (propiziare, placare, onorare, venerare una divinità; compiere, celebrare riti espiatori; allontanare, stornare, scongiurare con sacrifici; purificare, espiare con riti espiatori), connesso col pius messo in campo all’inizio. Piare in unione alla preposizione ex (expiare) ha dato in italiano espiare, mentre la tecnica di formazione del nostro piarella è simile a quella che ha portato, per esempio, da cacare a cacarella e da tremare a tremarella, solo che nelle voci appena citate la nota, per così dire, negativa continua a riguardare un’azione, nel nostro caso, invece, una persona che era considerata troppo ligia, forse solo formalmente, ai doveri religiosi.3  Contadino, scarpe grosse e cervello fino, recita un vecchio proverbio; e così ci voleva il suo dialetto e la sua filosofia (o più semplicemente saggezza nascente dalla realistica, nella sua amarezza, quasi cinica visione del mondo, scevra da ogni edulcorazione retorica) per scoprire con peu e piarella l’altra faccia di pio. In fondo lo stesso è successo con cretino, che è dal franco-provenzale crétin, col significato in origine di cristiano, poi adoperato con sentimento di commiserazione nel senso di povero cristiano, povero cristo, poveraccio e, infine, in quello dispregiativo che conosciamo; e che dire di idiota (dal latino idiota, a sua volta dal greco ἰδιώτης (leggi idiotes), che, partendo dal concetto di privo, attraverso progressive integrazioni si specializzò già in epoca classica nel senso di rozzo (privo di eleganza), ignorante (privo di cultura), privato (senza cariche pubbliche), per arrivare all’attuale, dominante significato  di privo d’intelligenza?

Siccome, forse presuntuosamente, a proposito d’intelligenza, credo di non esserne totalmente privo, mi concedo il beneficio del dubbio, prima che qualcuno con il suo graditissimo intervento mi mostri che l’ipotesi etimologica avanzata per peu equivale ad una disastrosa arrampicata sul proverbiale specchio. Talora la soluzione più semplice si rivela alla fine come quella più attendibile; per questo non escluderei che peu (non piarella) nasca per aferesi da babbèu, corrispondente all’italiano babbèo, che è di origine onomatopeica). Sul piano fonetico il passaggio b>p non pone alcun problema perché sono entrambe labiali e basterebbe pensare alla lunga storia di Giuseppe>Giuseppino>Peppino>Peppe

>Beppe.

Nessun dubbio suscita, invece, bbunatu, usato, anch’esso come peu, col significato di stupido‘Bbunatu ha il suo esatto corrispondente nell’italiano abbonato, participio passato di abbonare. Però gli abbonare  nella nostra lingua sono due. Il primo, che per comodità chiameremo abbonare 1, ha il significato di fare un abbonamento a favore di uno ed è è dal francese abonner, a sua volta dall’antico francese bonne, dal quale il francese  moderno borne =confine, limite. Abbonare 2, invece, ha i significati di condonare in parte o interamente (abbonare un debito), in senso figurato non tenere in considerazione (abbonare un errore), considerare qualcosa come già adempiuto (abbonare un esame) e, infine, (registrato come obsoleto, il che  non mi pare casuale …) rendere buono, migliorare. Appare evidente come abbonare 2 è da ad+ buono, che è dal latino bonu(m) e fratello, per così dire, del francese bon, ma nemmeno lontano parente di bonne e borne prima citati. Il nostro ‘bbunatu, dunque, è per aferesi da abbonato, participio passato di abbonare 2 e mostra di condividere l’amaro destino di cretino, di idiota e, forse, di pio. Sarà pure vero che il troppo storpia, ma viviamo in una strana società, in cui l’eccesso nel male  viene giustificato, anzi, premiato e quello nel bene deriso e penalizzato (buono>troppo buono>fesso), col trionfo della furbizia, che è anch’essa intelligenza, ma nella sua forma più perversa nutrita di ipocrisia e, non solo nel senso corrente, di abuso di potere.

Alla fine di questa tiritera ricordo, forse anche per dare una comoda giustificazione alle fesserie che potrei aver detto, che in fondo l’etimologia non è altro che l’archeologia della parola, solo che nell’archeologia propriamente detta qualsiasi ipotesi di lavoro può trovare in qualsiasi momento e luogo credito più o meno definitivo in un reperto materiale protetto nel tempo, insieme col suo contesto, dal terreno; lo scavo filologico, invece, ha a che fare con un elemento instabile , non univoco e, quel che è peggio, estremamente labile insieme con il suo contesto, soprattutto orale, qual è la parola.

__________

1 San Pio I (II secolo), Pio II (Enea Silvio  Bartolomeo Piccolomini, XVI secolo), Pio III (Francesco Nanni Todeschini Piccolomini, XVI secolo), Pio IV (Giovanni Angelo Medici di Marignano, XVI secolo), Pio V (Antonio Michele Ghislieri, XVI secolo), Pio VI (Giovanni Angelico Braschi, XVIII secolo), Pio VII (Barnaba Niccolò Chiaramonti, XVIII secolo), Pio VIII (Francesco Saverio Castiglioni,  XIX secolo), Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti, XIX secolo), Pio X (Giuseppe Melchiorre Sarto, XX secolo), Pio XI (Achille Ratti, XX secolo), Pio XII (Eugenio Pacelli, XX secolo).

2   Solo un idiota metterebbe  in discussione il primato dell’economia e magari negherebbe pure il rapporto strettissimo esistente tra potere e denaro; eppure c’è chi, considerato meno idiota, in rapporto a quest’ultimo (il denaro, per restare nell’ambito economico) continua a non ritenere necessario adottarne il controllo. Uno stato poliziesco è certamente odioso, ma trovo pretestuosamente osceno accampare la ridicola e opportunistica scusa della tutela della privacy e di una libertà dannosa per gli onesti, per non eliminare (altro che limitare!) l’uso del contante e sostituirlo con strumenti tracciabili, quando ormai da tempo la nostra privacy è nelle mani, anzi nella cassa,  del mercato globale.

3 Su piarella vedi pure  https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/02/02/dialetti-salentini-piarella/

Dialetti salentini: scarfisciatu e ‘nfitisciutu

di Armando Polito

Per la poco gratificante serie1 delle voci salentine designanti una particolare puzza , oggi tocca a due altre componenti.

Si sente fièzzu ti scarfuisciatu (Si sentee puzza di fermentato) e Si sente fièzzu ti ‘nfitisciùtu (Si sente puzza di imputridito) sono espressioni ricorrenti, la cui analisi inizia dall’elemento comune, cioè fièzzu.

Fièzzu è da un latino *foetiu(m), dal classico foetère (=puzzare), da cui il salentino fitire, dal quale, con l’aggiunta in testa (pròstesi in linguaggio tecnico) della preposizione in ridottasi poi per sincope in ‘n, la forma incoativa ‘nfitiscire (imputridire), il cui participio passato (nfitisciùtu) è usato con valore sostantivato, come nella seconda delle due espressioni riportate all’inizio.

Scarfisciatu è participio passato, anch’esso in funzione sostantivata, di scarfisciare, frequentativo di scarfare, che è, con sincope di –ce-, dal latino excalfàcere, variante sincopata di excalefàcere, composto dalla preposizione ex (in funzione intensiva e che in scarfare  per aferesi si è ridotta ad s)+calefàcere, a sua volta da càli(dum) fàcere (=rendere caldo). Sopra ho tradotto scarfisciatu con fermentato, che non a caso è da fermentare, a sua volta da fermento, che è dal latino fermentu(m) nato per sincope da *fervimentu(m), a sua volta dalla radice di fervère (=essere caldo, bollire). Da quanto fin qui detto, a parte il fenomeno fonetico ricorrente della sincope che sembra in linea con quello fisico che potrebbe colpire, di fronte ad una puzza, soggetti particolarmente sensibili …, si può concludere che l’azione di ‘nfitiscire è il fatale sviluppo di quella indicata da scarfisciare e che la protagonista (tutt’altro che improbabile con i tempi che corrono …) della vignetta di testa non sa che il caldo dell’armadio altera, il freddo del frigorifero conserva …

___________

1 Per lientu vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/01/18/dialetti-salentini-lientu/

e per lagnu https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/01/22/dialetti-salentini-lagnu/

Dialetti salentini: lagnu

di Armando Polito

 

 

Dopo lientu,  del quale mi sono recentemente rioccupato1, è la volta di un altro omofono da aggiungere alla lista presente in calce a quel post. Confido nell’aiuto di qualche volenteroso lettore per individuare, al di là degli omofoni, altre voci del nostro dialetto designanti una puzza particolare. Mi rendo conto di quanto l’argomento possa essere gradevole e gradito; però la scienza (!) vuole i suoi sacrifici e, si sa, omnia munda mundis, che viene canonicamente tradotto con tutto è puro per i puri; nella fattispecie basta sostituire puro con pulito e puri con puliti  per comprendere come, forte del mio cognome, mi sia autoautorizzato  (premio in palio per chi individua colui che ha usato questa voce prima di me …) a trattare il tema.

lagnu1 usato nel significato di lamento insistente e fastidioso, corrisponde esattamente all’italiano lagno, che è da lagnarsi, a sua volta dal latino se laniare=graffiarsi, lacerarsi dal dolore (da cui l’italiano dilaniarsi).

lagnu2 usato per significare il cattivo odore emanato dalle capre.

Di seguito come il Rohlfs tratta il lemma nel Dizionario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976

v. I, p. 283

Su lagnu1 1 non c’è niente da osservare, mentre l’attenzione va riservata a lagnu2 con i suoi numerosi rimandi:

v. I, p. 283

v. II, p. 795

v. II, p. 804

v. I, p. 267

Da quanto riprodotto il Rohlfs fa intendere (anche se il gioco di rimandi sembra un espediente per non dichiararlo apertamente) che lagnu2 è connesso con la pecora, per cui deriverebbe per aferesi da valagna/velagna/ilagna.

Dopo l’osservazione più o meno critica che mi sono permesso nei riguardi delle scelte  esclusivamente formali nella trattazione del lemma, pecco d’audacia più o meno cosciente ed avanzo due altre, a mio parere plausibili,  proposte etimologiche:

1) dal latino classico làneu(m)=relativo alla lana.

2) dal latino Claniu(m), poi Làniu(m), none di un fiume campano ricordato dagli antichi autori2, dal quale deriverebbe Regi Lagni, opera di canalizzazione e bonifica idraulica effettuata tra il 1610 e il 1616 dal viceré Pedro Fernández de Castro durante il predominio spagnolo in Italia. Ancora oggi  in Campania lagni sono chiamati i fossati d’acqua, i maceri per la canapa e i canali collettori di acque stagnanti o piovane.

______

1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/01/18/dialetti-salentini-lientu/

2 Tra gli altri: Virgilio, Georgiche II, 225; Silio Italico, Punica, VIII, 537; Livio, Ab Urbe condita libri, XXXII, 29; Stefano Bizantino, Ethnica, v. Γλάνις (leggi Glanis).

 

 

Dialetti salentini: lientu

di Armando Polito

 

In linguistica l’omografo è  una parola che presenta, rispetto ad un’altra, la stessa grafia ma etimo, significato e talvolta pronuncia diversi.  Questo fenomeno non è estraneo al dialetto salentino1 e vi rientra, tra molti altri, anche lièntu, del quale mi sono occupato già più di dodici anni fa con un post su questo stesso blog (https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/10/omografi-del-dialetto-neritino-lientu/); da quello ho replicato le vignette di testa, che ho preferito non aggiornare, ridotto, come sono, su una sedia a rotelle, dettaglio che mi auguro non faccia piacere oggi all’ex studente … ..

Per comodità di trattazione, indicherò con numeri diversi.

lientu 1 corrisponde all’italiano lento, che è dal latino lentu(m) con una caterva di significati non privi, in qualche caso, di apparente contraddizione:

a) pieghevole, elastico, flessibile
b) duttile, malleabile
c)viscoso, appiccicoso
d) prolungato, persistente, tenace, lungo, duraturo
e) resistente, duro, rigido
f) tenace, ostinato, caparbio
g) lento, pigro, tardo, indolente, ozioso
h) placido, tranquillo, paziente, calmo, flemmatico
i) insensibile, indifferente

Può aiutare chi legge a comprendere la convivenza di concetti opposti l’esempio dell’acciaio che si spezza (dunque, debole)ma non si piega (dunque, forte).

lientu 2 (che non ha corrispondente diretto in italiano2) è usato solo col nesso puzza ti (puzza di) con riferimento specifico all’uovo marcio; lientu è per aferesi da un latino *olentum, voce non attestata (da qui l’asterisco) nel latino classico, tardo e medioevale ma in quello scientifico (p. e.: olentum ammoniatum in Archiv der pharmacie, In Verlsag der Hahn’schen Hofbuchandlung, Hannover, 1842, p. 196).

Olentum è dalla radice (olent-) del participio presente (olens/olentis) di olere (mandare odore, cattivo o buono). Da olere (in italiano tal quale, di uso poetico insieme con il participio olente) deriva   l’aggettivo olidus (=odoroso, puzzolente) da cui il verbo *olidare, dal quale, attraverso un *olidiare è derivato l’italiano olezzare, da cui olezzo e da quest’ultimo, per aferesi, lezzo (specializzatosi negativamente col significato di cattivo odore). La prolificità della voce latina si mostra in italiano, oltre alle parole semplici prima citate, in molte altre composte come fraudolento (alla lettera che emana odore di frode), macilento (alla lettera che emana odore di magrezza), violento (alla lettera che emana odore di violenza) e, per finire con il trionfo del concetto di base, maleolente (alla lettera che emana odore malamente) e il quasi tautologico (come, tutto sommato, è puzza ti lientu)  puzzolente (alla lettera che emana odore di puzza). Non deve sorprendere più di tanto l’incontro, pur se probabilmente casuale, tra la scienza (olentum) e il dialetto (lientu); basti l’esempio di munètula (un fungo), che è deformazione (con aggiunta di un suffisso diminutivo) di Amanita. E, quanto a fedeltà rispetto alla forma di partenza, con lientu è andata pure meglio …

_________

1 Per altri omografi vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/?submit=Cerca&s=ncarrare

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/10/14/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-16-critazzu/

 https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/10/13/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-15-stuccare/

 https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/29/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-14-cuerpu/

 https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/19/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-spirdare/

 https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/02/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-ncarnare/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/01/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-3/

 https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/08/31/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-casu/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/08/29/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-2/

 https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/08/28/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti/

 https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/08/27/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-mpicciare/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/08/26/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-mazzu/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/08/24/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-la-corsa/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/08/23/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-la-cagge/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/08/22/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-la-carza/

2 Riproduco di seguito i due lemmi come sono trattati dal Rohlfs nel suo Dizionario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto), Congedo, Galatina, 1976, p. 293)

Laddove esiste un esatto corrispondente tra la voce dialettale e quella italiana l’insigne studioso si limita a riportare quest’ultima; in caso contrario riporta la sua proposta etimologica, a parte i lemmi in cui essa manca, perché, evidentemente, nemmeno lui è riuscito a raccapezzarsi. Così in lientu1 si legge come primo significato lento; in lientu2, invece, lezzo non è il suo esatto corrispondente italiano, perché le due voci, pur nascendo dalla stessa radice (ol- di olere), hanno seguito strade diverse, sicché il lettore comune, per il quale è di banale evidenza anche fonetica la corrispondenza di  lientu1a lento, resterebbe perplesso di fronte a lientu2/lezzo. Il Rohlfs non poteva sprecare tempo e spazio e la mia precisazione ha solo lo scopo di dare una risposta alla sua legittima perplessità. E poi come poteva scovare quel decisivo olentum con gli strumenti a disposizione ai suoi tempi, quando l’informatica e la digitalizzazione con il connesso sviluppo dei motori di ricerca non era nemmeno agli albori?

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!