di Armando Polito
Moltissimi vocaboli dell’uso comune assumono spesso una valenza semantica specialistica con la loro adozione, accompagnati o no da un altro, da parte di un settore specialistico, per lo più scientifico. Talvolta, poi, il vocabolo appare proteiforme grazie all’evoluzione del costume, e non solo di quello..
Così, per fare un esempio legato all’attualità, surrogato lo si incontra come participio passato con valore aggettivale nel settore burocratico e giuridico, come aggettivo sostantivato in quello della lingua comune con riferimento ad un cibo che sostituisce un altro, ma, essendo di qualità inferiore, appare come un ripiego, con tutte le connotazioni negative che tale concetto comporta. Gli ultimi sviluppi di tale processo sono rappresentati dalla locuzione maternità surrogata, sulla quale sorvolo per non uscire dal seminato …
Un cammino simile ha percorso parlante, normalissimo participio presente di parlare, che, usato al plurale usato al plurale con valore sostantivato designa coloro che usano una determinata lingua per le normali esigenze espressive, distinti, forse con un pizzico di spocchioso razzismo linguistico, dai letterati. Ma parlante, conservando la sua valenza originaria di participio presente, ha un impiego anche in epigrafia e in araldica con le locuzioni, rispettivamente, di iscrizione parlante e di stemma parlante.
Tutte le epigrafi, in fondo, parlano, ma quelle definite tecnicamente parlanti dannoi un’informazione diretta sul supporto che le ospita. Una delle epigrafi parlanti più famose è la fibula prenestina, una spilla in oro risalente al VII secolo a. C. rinvenuta a Preneste. Vi si legge, procedendo da sinistra verso destra, quella che è considerata la più antica testimonianza conosciuta fino ad ora del latino: MANIOS MED FHE FHAKED NVMASIOI, che nel latino classico sarebbe stato MANIUS ME FECIT NUMERIO (Manio mi fece per Numerio). L’epigrafe qui ci fa conoscere il nome dell’artista lche creòa spilla e quello del destinatario, probabilmente il committente, anche se non sapremo mai se l’oggetto era per uso personale o destinato ad essere donato.
Lo stesso vale per lo stemma parlante, in cui lo scudo mostra un dettaglio strettamente connesso con il nome della famiglia.
È il caso dei tre stemmi che seguono, relativi a famiglie con le quali, nella persona di un loro appartenente, il Salento ebbe a che fare nel corso del XVII secolo il Salento, nel bene e nel male e, in quest’ultimo con gli ultimi due, Nardò in particolare.
Per brevità rinvio chi ne abbia interesse a https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/02/06/iacopo-pignatelli-1625-1698-di-grottaglie-e-papa-alessandro-vii-gia-vescovo-di-nardo/
e, in particolare, per Pignatelli a https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/06/22/dialetti-salentini-e-non-solo-pignata-o-pignatta/
Duomo di Lecce, dettaglio dello stemma arcivescovile di Luigi Pappacoda (in carica dal 1639 al 1670)
Nardò, Stemma di Giovanni Granafei nella chiesetta (sconsacrata) di S. Maria della Grotta e, per agevolarne la lettura, di seguito lo stemma della famiglia del palazzo Granafei Nervegna a Brindisi.
Sempre per brevità (e non per autoreferenzialità) rinvio a https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/03/02/alessandro-vii-un-papa-gia-vescovo-fantasma-di-nardo-e-il-suo-vice/