Dialetti salentini: caissa e bancillera, due probabili, per quanto insospettabili, citazioni dotte? *

di Armando Polito

*Questo post sostituisce quello pubblicato per un equivoco nella stesura provvisoria il 17 u. s.    

Succede, quando meno te lo aspetti, che nella memoria riaffiori il ricordo di un evento, di una persona, di una parola, anzi di due, come nel nostro caso. Nel corso di una piacevolissima conversazione tele un amico (non dico il nome ma, leggendomi, lui capirà …), dopo che gli avevo chiesto conferma sull’uso di peu  nel dialetto di Nardò prima di redigere la scheda relativa con l’intento di farla uscire su questo blog1, ha sottoposto alla mia attenzione caissa (vocabolo che già mi era noto per averlo sentito dalla  bocca di mia madre, ma del cui significato, certamente dispregiativo, non ero in  grado di individuare i riferimenti specifici, se non un generico indizio di cattiveria dedotto dal contesto) e, subito dopo bancillera (lì per lì avevo capito bacciollera, ma la forma corretta è emersa dopo qualche giorno nel corso di un’altra telefonata), sentito, sempre con valenza dispregiativa e nel nesso caissa e bancillera, da sua nonna

Nell’affrontare un problema che non richieda una soluzione rapida e, direi, istintiva, ciascuno di noi segue, o dovrebbe seguire, una procedura articolata in due fasi. La prima, che vuol mettere alla prova la nostra competenza, reale o presunta, consiste nel formulare una o più ipotesi di lavoro, mettendosi subito dopo alla ricerca di prove corroboranti. La seconda, che può portare, a seconda degli esiti, la soddisfazione di una conferma o della certezza della propria integrazione o, addirittura, correzione,  oppure la frustrazione per non esserci arrivato, consiste nel conoscere come il problema è stato trattato da chi se ne è occupato prima di noi. Non si sottrae certamente a tutto questo la filologia e, in particolare, Individuare l’etimo di una parola del cui significato si ha una conoscenza sfumata, nel nostro caso pure troppo, è sempre impresa non facile ma intrigante, soprattutto quando si giunge alla seconda delle due fasi prima descritte.

Alla prima di esse si riferiscono le due schede che seguono (quella relativa a bancillera è nella forma originaria, redatta quando ancora era baccillera).

CAISSA è l’invenzione di William Jones, filologo inglese del XVIII secolo (Londra, 28 settembre 1746 – Calcutta, 27 aprile 1794) particolarmente interessato alle  lingue orientali, tra i primi studiosi del sanscrito e da considerare come il precursore dell’indoeuropeistica.

Spesso menti simili passano con disinvoltura dal rigore alla sfrenatezza, com’è naturale che succeda quando dalla scienza si passa alla fantasia. Frutto della fantasia, appunto, è Caissa, una driade (divinità boschereccia) che testardamente respinge Marte, invaghitosi di lei, ma che alla fine cede, conquistata da un  gioco che il dio della guerra, su suggerimento di un’altra driade, le ha regalato. Tutto questo in un poemetto intitolato, appunto, Caissa, composto quando aveva solo diciassette anni ma pubblicato insieme con altri poemetti in Poems, Consisting Chiefly of Translations from the Asiatick, Clearend-Press, Oxford, 1772 (di seguito il frontespizio del volume e il titolo del poemetto).

Il gioco è quello degli scacchi; e qui i conti tornano, nel senso che s’incontrano il letterato con la creazione di una nuova favola mitologica, l’orientalista che conosce bene l’origine orientale del gioco e che al gioco di parola non sa rinunciare, dando con Caissa un alone foneticamente classico a chess, la parola inglese corrispondente al nostro scacchi.

Va, comunque, detto che l’inglese era stato preceduto due secoli prima dall’italiano Marco Gerolamo Vida nel 1525 con il suo Scacchi ludus, in cui celebra in esametri una memorabile partita giocata tra Apollo e Mercurio, arbitrata da Giove e con le più importanti  divinità come spettatori, non all’Olimpico … ma sull’Olimpo.

L’opera del Vida fu tradotta in inglese e pubblicata nel 1750  (di seguito il frontespizio).

 

Può darsi che sia stata questa pubblicazione (con  il testo originale più che con la traduzione annessa, visto lo spessore del filologo) ad ispirare il Jones, come, d’altra parte, dichiarato espressamente nell’advertissement che precede tutte le edizioni, a partire dalla prima2.

Fatto sta che grazie al filologo inglese Caissa sarà celebrata come la dea degli scacchi. Una bufala mi pare la presunta Caissa che sarebbe stata dipinta dal bolognese Domenico Maria Fratta, la cui riproduzione circola in rete e che di seguito riporto.3

 

Ma, per tornare a noi,  quale sottile legame legherebbe Caissa a caissa? Intanto va detto che la voce dialettale è usata sempre antonomasticamente, cioè non come aggettivo, ma preceduta dall’articolo (queddha gggh’è nna caissa=quella è una donna prepotente, e non  queddha ggh’è caissa=quella è prepotente). Proprio l’uso antonomastico rende plausibile che un personaggio capace di tener testa, almeno fino ad un  certo punto, al dio della guerra ben appaia come un modello di donna forte, decisa e, per traslato amplificato, prepotente e, magari, pure cattiva; senza contare che contro uno scacchista è difficile misurarsi anche per uno esperto, figurarsi contro la dea degli scacchi!

 

BANCILLERA

Non mi pare un  caso che compaia, come riportato all’inizio, in coppia con caissa. Credo che questa volta la valenza metaforica non sia quella dell’antonomasia, ma di un sarcasmo, per così dire, doppio. Credo che la voce abbia il suo esatto corrispondente nell’italiano baccelliere, usato, però al femminile. Quello di baccelliere era un titolo di studio corrispondente alla licenza di scuola media superiore. Nel nostro caso  sta scherzosamente (tanto più per una donna che in passato era costretta a vivere in un clima talebano ante litteram, per cui il titolo di studio non  era nemmeno immaginabile) per sapientona, saccente ed un  tipo così non è certamente indenne dall’essere contemporaneamente anche prepotente, cioè caissa.

Mi muovo da solo un’obiezione, prima che altri lo facciano: com’è possibile che due voci di origine dotta (soprattutto la prima, legata, fra l’altro, ad un gioco tutt’altro che popolare) abbiano allignato nell’uso popolare? Non sarebbe l’unico esempio, e certamente non sarà l’ultimo, a patto che ci sia pure un pizzico di fortuna a sancire anche tra il popolo il successo di una parola, per così dire, di alto lignaggio.

Fin qui la prima fase, con esiti sottesi, come è bene che sia sempre, dal dubbio.

Nella seconda in questo tipo di indagine punto obbligato di partenza è il Rohlfs. Nel nostro caso, però, nessuna delle due parole è registrata nel suo vocabolario sui dialetti salentini.

Nel volume del maestro tedesco caissa e bancillera non sono le uniche voci in uso, magari ancora oggi, a Nardò che risultano assenti, il che, tuttavia, non è da ascrivere come colpa al grande studioso tedesco ma alle lacune dei suoi informatori locali. Mi chiedo sempre cosa ci avrebbe lasciato se ai suoi tempi avesse potuto fruire delle nuove tecnologie e in particolare della rete e delle immense possibilità offerte dai motori di ricerca. Ed è proprio grazie alla rete (e dopo aver appreso che baccillera era in realtà bancillera) che ho potuto apprendere che dell’etimo di queste due voci si era già occupato alla fine del XIX secolo un mio concittadino, cioè Luigi Maria Personè, i cui contributi dal titolo Etimologie neritine vennero ospitati alla fine del XVIII secolo nel quindicinale napoletano Gaiambattista Basile  (anno VI, n. 11, Napoli, 15 novembre 1889, p. 87; anno VII, n. 3, Napoli, 15 marzo 1889, p. 17; anno VII, n. 6, Napoli, 15 giugno 1889, p. 46; anno VII, n.11, Napoli,1 ottobre 1889, p. 87).

Come ho detto, i due vocaboli sono assenti nel Rohlfs nonostante il Personè sia citato nella bibliografia (di seguito il dettaglio).

Mi fa venire il sospetto che il Rohlfs non abbia mai letto il contenuto di questo dato bibliografico (probabilmente passatogli da qualcuno poco avvezzo alla precisione) il fatto che nel numero del Giambattista Basile riportato non appare nessun contributo del meritino, che, invece, collaborò con il quindicinale napoletano dal 1888 al 1889 per un totale non di 15 ma di ben 56 vocaboli, come documenterò in un prossimo lavoro.

Nel secondo tra i contributo del Personè che ho sopra citato compaiono, insieme con altre, pure le due voci che ci interessano e che di seguito riproduco.

Come chiunque può notare, non tutto il male vien per nuocere, perché senza il mio fraintendimento di bancillera con baccillera molto probabilmente non sarei approdato alla soluzione della scheda precedente, anche se mi son perso l’intermediario spagnolo, che oggi è bachillera con la seguenti definizioni tratte dal dizionario della Real Academia Española:

1 Persona que ha cursado o está cursando los estudios de enseñanza secundaria. (Persona che ha frequentato o cvhe sta frequentando gli studi di scuola secondaria)

Persona que había recibido el primer grado académico que se otorgaba a los estudiantes de una facultad universitaria (Persona che abbia conseguito il primo grado accademico che si rilasciava agli studenti di una facoltà universitaria)

Persona que habla mucho e impertinentemente (Persona che parla molto impertinentemente)

desusado Persona instruida, experta. Era u. t. c. adj. Era u. t. en sent. despect. (obsoleto Persona istruita, esperta. Era usato solo come aggettivo. Era usato solo in senso dispregiativo)

Credo che il n. 4 sia proprio la pietra tombale per qualsiasi dubbio relativo a bancillera, che non sia la trafila seguita: dalla voce spagnola indicata  con geminazione di –c– e successiva dissimilazione (bacillera>*bacciller>bancillera) , oppure direttamente (senza la geminazione di –c– ma con la stessa dissimilazione) dall’italiano baccelliera?

La pietra, invece, resta sullo stomaco per caissa. Il Personè cita il Facciolati, che a sua volta cita Festo, il quale nomina Lucilio. è quasi inevitabile in questa catena che l’affidabilità dell’informazione ne risenta, anche perché manca un anello. Ecco la catena con tutte le sue maglie (ho sottolineato quella mancante): Facciolati ( XVII-XVIII secolol)<Paolo Diacono (VIII secolo)<Festo (II secolo d. C.)<Lucilio (II secolo a. C.). Per quanto può essere utile, traduco le parole di Festo tramandate da Paolo Diacono: Carissa presso Lucilio  significa scaltro. Rispetto a Festo, poi, il Facciolati rincara la dose: Carissa, ruffiana scaltra e arguta. E sulla Carissa di Lucilio i letterati medioevali si sbizzarrirono. Basti come esempio Uguccione da Pisa (XII-XIII  secolo), che nelle Derivationes (riporto il testo dall’editio princeps a cura di Enzo Cecchini e di Guido Arbizzoni, Sismel-Edizioni del Galluzzo, Firenze, 2004) al lemma careo (=mancare) così scrive:

Item a careo hoc carenum -ni, idest mustum, quia fervendo careat parte; tertia enim parte musti amissa, quod remanet carenum est, cui contraria est sapa, que fervendo ad tertiam partern redacta descendit; et carino -as verbum neutrum, idest arguere vel conviciari vel illudere, unde hic carinator idest conviciator et maledicus, et hec carisia -e idest lena vetus et litigiosa vel potius dicitur a careo, unde et fallaces ancille carisie dicuntur, quia veritate carentt. (Parimenti da careo questo careno, cioè il mosto, poiché fervendo viene a mancare di una parte; infatti, persa la terza parte del mosto, quello che rimane è il careno, al quale si contrappone la sapa, che, ridotta fervendo alla terza parte, discende; e  carino/carinas, parola neutra, cioè significa accusare o insultare o prendersi gioco, donde questo carinatore, cioè oltraggiatore e maldicente  e questa carisia/carisiae, cioè ruffiana vecchia e litigiosa o piuttosto è detta da careo, donde anche le ancelle che raccontano falsità sono dette carisie, poiché mancano di sincerità)

Perchè carissa (o carisia) possa essere considerata  madre di caissa, bisognerebbe spiegare la caduta di –r– suffragata da almeno una voce in cui tale fenomeno si sia verificato, come caterve di esempi si possono, invece, addurre per la caduta di –v–  (anche quando nasce da un originario –p-, come in capezza>cavezza già in italiano; il salentino ha capezza, ma la variante caezza fa capire l’azione di cavezza.

Sulla scorta di quanto appena documentato potrei anch’io lanciarmi senza paracadute e ipotizzare che caissa sia ciò che rimane di un originario *capessa, femminile di capo, attraverso un *cavessa>*cavissa; non so, comunque, se questa conclusione etimologica sarebbe gradita o meno dalle femministe …

Quanto al χάσσα (leggi chasssa) che il Personè sembra fornire come dato proprio, i controlli effettuati hanno rilevato l’assenza di questa voce nel greco classico, in quello bizantino e in quello moderno.

Per aggiornare il quadro a tempi a noi più vicini aggiungo che caissa (non bancillerra) è registrato in Enrico Ciarfera-Mario Mennonna, Il Volgare Neritino, Congedo, Galatina, 2020, col significato specifico di donna prepotente, ma con una proposta etimologica, peraltro formulata senza l’aggiunta di un forse o di un probabilmente[i], che per nulla convince: [dal greco kaké-kakè: cattiveria] donna cattiva; donna oppressiva.4

Un’ipotesi etimologica, infatti, per essere plausibile deve manifestare congruità sul piano fonetico (sempre soggetto alle insidie di calchi, ricalchi, incroci, assonanze e consonanze) e su quello semantico (sempre soggetto a slittamenti metaforici talora non prevedibili e non chiari). La proposta citata soddisfa la seconda condizione ma è lontana anni luce dalla soddisfazione della prima, col risultato che la fonetica appare arbitrariamente e maldestramente asservita alla semantica.5

Siamo giunti alla fine di questo lungo viaggio, le cui tappe, almeno per caissa, non hanno dato un esito definitivamente convincente. In fondo andare alla caccia di un etimo significa immettersi sull’autostrada del tempo, la quale è piena di rettilinei ingannevoli, curve pericolose, svincoli che spesso confondono e costringono a tornare indietro, con una segnaletica sbiadita e, comunque, di interpretazione non sempre immediata. Io con un pizzico d’incoscienza ho imboccato quest’autostrada e, pur avendo pagato il pedaggio,  sto per essere fermato da una pattuglia che certamente mi chiederà anzitutto di esibire una patente che io non ho. Ma, siccome in questo sono presuntuosamente recidivo e non ho nulla da perdere, nemmeno, come ho detto, la patente, la storia potrebbe non finire qui …

______________

1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/02/13/dialetti-salentini-peu-e-bbunatu/

2 Alla prima, già citata, del 1772 seguirono quelle del 1774 (Richter, Altenburg) e del 1777 (W. Bowiee & J. Nichols, Londra) e altre nel secolo successivo.

Suscita quanto meno sospetti prima di tutto il fatto che non è mai citata la fonte, né è fatto, almeno, riferimento , magari solo generico, ad una collezione, pubblica o privata che sia. E, poi, il Fratta morì nel 1763, cioè proprio nell’anno in cui il Jones scriveva Caissa: come faceva a conoscere un’opera che sarebbe sta pubblicata dopo 9 anni?

4 Ad essere precisi: in greco κακήκακῆς (leggi kakèkakès) sono il nominativo e il genitivo del femminile dell’aggettivo κακός/κακή/κακόν, che significa cattivo; non esiste un κακήκακῆς sostantivo.

5 Collegare, come mi sembra sia stato fatto, l’-ss– di caissa con il sigma (-ς-) del genitivo κακῆς è un’operazione assolutamente improponibile.

 

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Un commento a Dialetti salentini: caissa e bancillera, due probabili, per quanto insospettabili, citazioni dotte? *

  1. E quindi, conclusivamente, “Caissa” per indicare/rappresentare una persona non priva di personalità: positiva, negativa, neutra … come la “paletta” della Polizia che ci obbliga di fermarci o rallentare se scossa ritmicamente. Comunque, è bello poter riassumere in una parola la “varianza” della Vita. Ed in questo, noi “meridionali” forse siamo un po’ più bravini.

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