Una torre colombaia appena fuori l’abitato di Lecce

 

di Giovanni Maria Scupola

La torre colombaia, presente nel parco, apparteneva al complesso della Masseria Madama, che era situato appena fuori l’abitato di Lecce.

Esteticamente assimilabile alle torri di difesa, per la sua forma prevalentemente cilindrica e priva di finestre sull’esterno, la torre era usata nell’antichità per l’allevamento dei piccioni, particolarmente apprezzati per le loro carni, commestibili, dall’alto potere nutrizionale, prodotte con bassi costi e molto ricercate nella dieta alimentare dei salentini del tempo, e poiché gli escrementi prodotti dai colombi erano utilizzati come fertilizzante naturale del tempo in quanto ricchi di palombino, ottimo concime a base di azoto di origine animale, utilizzato anche nella concia delle pelli.

Dobbiamo ricordare inoltre, tra i motivi che dovettero spingere alla costruzione di questa tipologia architettonica che a lungo i piccioni sono stati impiegati per inviare messaggi, grazie alla loro straordinaria capacità di orientamento e resistenza alla fatica e che spesso i colombi allevati venivano usati come animali da richiamo per la caccia di quelli selvatici.

Non conosciamo precisamente l’epoca della sua costruzione ma il suo impianto planimetrico circolare, e i connotati cinquecenteschi fanno pensare che essa sia stata edificata nei primi anni del ‘500.

La torre è stata realizzata interamente in pietra leccese, come poche altre torri colombaie presenti in prossimità degli abitati di Lecce e Maglie.

L’accesso originario ad essa è il varco posto in posizione sopraelevata, ricavato nell’interruzione della tessitura muraria, ciò serviva per evitare l’accesso all’interno della torre di animali come faine, donnole, topi, rettili o altri predatori che vi si avvicinavano per predare i suoi abitanti e vi si accedeva solitamente tramite una scala in legno.

Una recente apertura, appena sotto quella originaria, consente invece attualmente di accedere alla torre, questa è stata sicuramente aperta dagli uomini della masseria quando la torre aveva perso la sua funzione di colombaia, per poterla utilizzare più comodamente.

All’interno della torre vi sono circa 1760 piccole celle, di forma trapezoidale, le case dei colombi; queste nicchie, ricavate nello spessore della cortina muraria, sono ottenute dalla disposizione sfalzata dei conci che costituiscono la torre. Ogni nicchia ospitava di solito una coppia di colombi, pertanto, per avere un’idea di quanti volatili vi fossero all’interno della torre, si deve moltiplicare per due il numero delle celle.

Nel nostro caso quindi, la torre avrebbe potuto ospitare sino a 3520 colombi, anche se è difficile che tutte le celle fossero occupate contemporaneamente. All’interno, un sistema di sei rampe elicoidali consente il raggiungimento delle celle più alte.
Nel Salento, dove attualmente se ne contano circa 96, di varia tipologia, le torri colombaie rappresentano un’importante testimonianza della presenza dell’uomo sul territorio, tale presenza sottolineava la ricchezza e lo status sociale del proprietario della masseria che la possedeva, ed era motivo di vanto ed orgoglio.

Libri| Racale in età feudale

 

Lunedì 12 settembre, alle ore 19.30, il prof. Mario Spedicato, con la moderazione di Paola Ria, presenterà nella biblioteca Comunale di Racale il volume di Antonio Sebastiano Serio Racale in età feudale.Territorio vassalli utili signori fra XI e XVIII secolo, a cura di Marcello Gaballo, Claudio Grenzi Editore, inserito nella Collana Analecta Nerito-Gallipolitana.

Antonio Sebastiano Serio non è nuovo a simili imprese editoriali: oltre al volume Racale. Note di storia e di costume, di cui è stato co-autore Giuliano Santonio, ha pubblicato uno studio di grande interesse sulla Chiesa di S.Maria La Nova a Racale e, di recente, Casarano nel Tardo Medioevo.

Racale in età feudale è un volume di ben 900 pagine, frutto di accurati studi tra archivi locali e nazionali, che ha richiesto buona parte della vita dell’Autore che – come scrive don Guliano Santantonio nell’Introduzione – con “questo volume offerto alla pubblica fruizione, è un atto di amore alla sua città natale, che ha dapprima servito come amministratore e che poi ha voluto conoscere fino in fondo scavando lungamente e indagando faticosamente nei meandri spesso oscuri della sua parabola storica. Ognuno si potrà facilmente rendere conto che si è trattato di un’impresa a dir poco ciclopica, che ha richiesto più di quarant’anni di ricerca e che lascia un segno indelebile nella storia di Racale e costituisce per questa città uno straordinario valore aggiunto: nessuno potrà in seguito ignorare questo basilare e imprescindibile lavoro. Lo dico non certo per piaggeria, di cui non vedo quale potrebbe essere per me il vantaggio, e senza esagerazione, ma a ragion veduta: chi ha contezza di cosa significhi raccogliere, interpretare e raccontare in modo veritiero e imparziale ciò che fa la storia di un luogo, me ne darà conferma”.

L’incredibile supporto bibliografico, il numero di note, i rimandi documentari tratti dall’Archivio di Stato di Napoli e di Lecce e l’analisi puntigliosamente scientifica delle fonti, , ne fanno un’opera davvero straordinaria e – scrive sempre Santantonio – “non sono molti i centri abitati che, al di là di improbabili e fantasiose congetture prive di riscontri e quasi sempre mosse da spirito campanilistico, possono vantare una ricostruzione della propria vicenda storica nel corso del II millennio (fino all’abolizione del feudalesimo) così completa, dettagliata e suffragata da fonti documentali di assoluta attendibilità, come quella che ci viene consegnata attraverso il poderoso volume Racale in età feudale… 

Un altro elemento di pregio che spicca in questo lavoro è che l’autore non si è accontentato di indagare le figure di rilievo sul piano socio-politico, ma ha provato a trarre fuori dall’oblio nomi, volti, vicende di quante più persone è stato possibile e che nel corso del tempo hanno costituito la comunità racalina, restituendo loro un’identità che, pur nell’umiltà del lignaggio, ha contribuito a costruire quel patrimonio immateriale di valori, di stili di vita, di esperienze, che tramandato di generazione in generazione rappresenta la tradizione peculiare e distintiva di un paese come Racale. E’ come dire che una storia fatta solo dai “grandi” mancherebbe di completezza e non basterebbe per dare piena ragione degli sviluppi che ne sono conseguiti.  Per altro canto, è un modo per certi versi nuovo e sicuramente suggestivo quello di narrare la storia non come fredda sequenza di fatti, ma come attenzione alle persone, al loro vissuto, ai loro sentimenti, alle loro relazioni e alle vicende che le hanno caratterizzate: ne viene fuori un afflato di umanità, capace di restituire sensazioni ed emozioni, che sono poi il filo rosso che collega tra loro le generazioni che si succedono, promuovendo il senso di appartenenza e di radicamento in un luogo…”.

Questo è il ricco piano dell’opera, attraverso i titoli dei 35 capitoli:

CAPITOLO I. Le origini
CAPITOLO II. L’età normanno-sveva e i feudatari della famiglia de Tallia
CAPITOLO III. Feudatari la cui Signoria è documentata da un falso della storiografia del XVII secolo (Guglielmo Bonsecolo), o da dati problematici (Guglielmo Pisanello), o da equivoci storiografici (De Monti e Malaspina)

CAPITOLO IV. Le figlie di Agnese de Tallia e l’avvento nel Regno di Carlo
d’Angiò

CAPITOLO V. L’età primoangioina e la divisione in due quote della terra dei de Tallia

CAPITOLO VI. La famiglia di Pietro de Marra

CAPITOLO VII. Risone II de Marra, II Signore di Racale

CAPITOLO VIII. Pietro II e Risone III de Marra, III e IV Signore di Racale

CAPITOLO IX. Giovannuccio de Marra, V Signore di Racale

CAPITOLO X. Giovannotto de Marra, VI Signore di Racale

CAPITOLO XI. Riccardo de Marra, VII e ultimo Signore di Racale

CAPITOLO XII. La famiglia di Riccardo de Marra

CAPITOLO XIII. Bucio Tolomei de Senis e l’insediamento su Racale di una nuova famiglia di feudatari

CAPITOLO XIV. Salvatore Tolomei de Senis e la sua famiglia

CAPITOLO XV. Racale ai tempi di Salvatore Tolomei de Senis

CAPITOLO XVI. Buccio e Marcantonio Tolomei: la conquista ottomana di Otranto e veneziana di Gallipoli

CAPITOLO XVII. Bindo Tolomei e la conquista spagnola del Regno

CAPITOLO XVIII, Alfonso Tolomei e la scomparsa dell’antica chiesa matrice
di S. Giorgio

CAPITOLO XIX. Porzia Tolomei contessa di Potenza

CAPITOLO XX. La terra ai tempi della Signoria di Porzia Tolomei

CAPITOLO XXI. La popolazione nel XVI secolo

CAPITOLO XXII. I feudatari della fine del XVI

CAPITOLO XXIII. I Cappello feudatari di Racale fra fine XVI e inizio XVII secolo

CAPITOLO XXIV. Il clero tra XVI e XVII secolo: rissosità, litigi e bravate nei regesti
dei processi del tribunale ecclesiastico diocesano

CAPITOLO XXV. Ferrante Beltrano conte di Mesagne e Signore di Racale

CAPITOLO XXVI. Racale al tempo di Ferrante Beltrano

CAPITOLO XXVII. La Signoria di Maria Beltrano e il miracolo del 1653

CAPITOLO XXVIII. 1664-1695. Racale nelle mani di diversi affittatori

CAPITOLO XXIX. L’apprezzo del 1682

CAPITOLO XXX. L’acquisto di Racale da parte di Felice Basurto e la refuta in
favore del figlio Domenico

CAPITOLO XXXI. Racale nella prima metà del XVIII secolo

CAPITOLO XXXII. Il duca Francesco Paolo Basurto senior e lo smantellamento delle opere di fortificazione della terra

CAPITOLO XXXIII. La fine del feudalesimo

CAPITOLO XXXIV. L’amministrazione della giustizia feudale

CAPITOLO XXXV. Sindaci ed eletti universali

Corredano il volume tre utilissimi indici, indispensabili per districarsi nella mole di nomi e luoghi puntaualmente menzionati tra i testi e le note: Indice delle sigle, Indice dei personaggi e Indice dei toponimi.

 

Geremia Re, pittore leveranese del Novecento

Geremia Re, autoritratto (dal sito geremiare.it)

 

di Giovanni Maria Scuppola

Geremia Re nasce a Leverano il 21 giugno 1894, primo di sei figli. Artista originale e creativo, è da annoverarsi nell’élite degli artisti salentini della prima metà del Novecento.

Nel 1912 si iscrive all’Istituto d’Arte di Roma, conseguendo il diploma nel 1917. Dal 1922 al 1928 insegna decorazione pittorica a Lecce presso la Regia Scuola Industriale d’Arte ove viene subito apprezzato per le sue doti artistiche e qualità umane.

Tra il 1928 ed il 1929 si reca a Parigi, a quel tempo principale centro d’irradiazione della cultura artistica in Europa.

Nella capitale francese espone le sue opere al Salon d’Automne, venendo a contatto con numerosi pittori appartenenti a diverse correnti. Importante nella sua formazione è anche il soggiorno a Parma, dove, agli inizi degli anni ’40, occupa la Cattedra di Figura presso l’Istituto d’Arte della città emiliana.
Sempre durante il periodo emiliano ha modo di frequentare artisti innovativi e di forte calibro come Mattioli, Soldati, Lilloni, Morandi e Guttuso.

Ritornato a Lecce, riprende il posto di insegnante di decorazione pittorica presso la Regia Scuola. Re non impone mai stili pittorici, ma esorta i suoi allievi a farsi guidare soprattutto dalla propria creatività e sensibilità, senza tuttavia ignorare i cambiamenti artistici che in quegli anni interessano l’Italia e l’Europa.
La sua pittura, sospesa tra tradizione e modernità, è caratterizzata dalla presenza e dall’uso di colori luminosi e vivaci, pieni di contrasti, senza dubbio legati alla sua terra.

Viene a mancare improvvisamente nel 1950 a Lecce, a 54 anni, per strada, per un attacco di angina.

Così Vittorio Pagano (poeta, scrittore e docente di italiano) raccontò il corteo funebre che accompagnò l’artista al cimitero di Leverano: “Non ci furono croci dietro la sua salma indosso alla quale era stata trovata una tessera di iscrizione al PCI. I religiosi non si ricordarono di Dante e di Manfredi, e questa è dolorosa cronaca dei nostri tempi, una cronaca dell’Anno Santo. Ma c’era, fra gli accompagnatori” come ricorda Pagano (1919-1979), “un frate francescano, pittore valorosissimo come Geremia Re”.

Geremia Re, Paesaggio (dal sito geremiare.it)

 

Per approfondire:

Geremia Re :: Pittore del Novecento

Libri| “Su canzoni mai cantate – poesie scelte (1994-2017)” di Cosimo Russo

“Su canzoni mai cantate – poesie scelte (1994-2017)” di Cosimo Russo

 (Musicaos Editore, Poesia 37, 2022)

 

di Renato De Capua

 

“Le poesie più belle mai le ho scritte

le ho lasciate lievitare nello stupore dello sguardo

custodite nello scrigno del non detto

prigioniere della gabbia amorevole del cuore

orfane di confine e di parole

le ho nutrite di silenzi”

(Cosimo Russo)

 

Ogni terra, tra i copiosi frutti che ospita fra le sue zolle, ha i propri poeti. Sono essi ad alimentare, con le loro opere e i loro giorni, l’humus culturale e identitario su cui si fonda un tessuto sociale, nonché a rendere uno spazio vasto, una sconfinata distesa feconda di messi.

Per tale ragione è importante leggere la poesia e raccontare i poeti; per far sì che il loro canto sia ancora udibile e che le parole da loro profuse, siano un invito a proseguire nell’andare.

Cosimo Russo

 

Su canzoni mai cantate[1], è la nuova pubblicazione postuma di Cosimo Russo, poiché racchiude un gran numero di poesie scelte in un arco cronologico che parte dal 1994 e arriva al 2017 (anno della sua prematura scomparsa). Il dato temporale è importante in quanto racchiude in sé una parabola poetica già compiuta, troppo presto sottratta alla vita, ma nel contempo ben dialetticamente definita. Il poeta ne era ben consapevole e infatti, poco prima di andarsene, confidò al fratello che sentiva di aver detto tutto quello che poteva mediante il linguaggio poetico e che da un po’ di tempo non stava più componendo poesie.

Cosimo Russo nasce a Gagliano del Capo il 26 giugno 1972 da Luigina Paradiso, bibliotecaria del paese, fervida lettrice dall’animo sensibile e appassionato; e da Umberto Russo, un imprenditore e un grande amante del mare e dei suoi silenzi. Cosimo, chiamato “Mimmo” dai familiari e dagli amici più cari, ha un fratello, Antonio, che è per lui una parte imprescindibile di sé e quindi motivo di interlocuzione poetica, così come le figure genitoriali.

La frequenza della biblioteca è un punto chiave nella formazione di Russo, poiché è lì che inizia a manifestarsi una certa propensione per la letteratura. Dopo aver conseguito il diploma da ragioniere, nel 1995 ha ventitré anni e trascorre un significativo soggiorno in Argentina, che non manca di tradurre in parola mediante la poesia; al suo ritorno inizia a partecipare alla vita culturale della città e pubblica l’unica poesia edita in vita dal poeta Il mio paese (1997), che gli vale una menzione di merito nell’ambito del concorso di poesia Premio Presicce “Poesia-Giovani”. Nel 2001 si laurea in Economia e Commercio all’Università del Salento, poi inizia un nuovo ciclo di studi in Giurisprudenza, che era riuscito quasi a terminare. In questi anni è cruciale la lettura di Girolamo Comi e la frequenza delle sale del suo palazzo di Lucugnano, dove è custodita la biblioteca del poeta. Comi è per Russo un padre spirituale, a cui dimostra una certa adesione e devozione, come un navigante che cerca con gli occhi le luci del faro di destinazione.

Nel 2002 sposa Lucia Ciardo e ha la prima figlia Sofia Luigina Maria; nel 2006 nasce la più piccola Chiara Maria.

Il 19 febbraio 2017, a causa di un’embolia polmonare, si spegne presso l’ospedale di Tricase. Ma prima di trasalire all’altra sponda del cielo, Russo aveva avviato un’attenta revisione dei suoi testi e comunicato ai suoi familiari l’intenzione di voler realizzare una silloge poetica. Così dal 2017 la famiglia Russo-Paradiso porta avanti, divulga con abnegazione e sacrificio, l’eredità di Russo uomo e poeta, consegnandolo ai lettori e alla storia letteraria.

Le sue poesie sono divenute argomento di ricerca, studio e interesse da parte di studenti, docenti universitari, cultori di lettere e di appassionati lettori.

Per comprendere pienamente la poetica di Russo, si deve tener conto del dato biografico. Alcuni motivi cruciali legati alla sua esistenza, divengono presenza costante nei suoi versi e motivo di riflessione e interrogazione poetica: il territorio e gli enti che lo abitano, l’amore, la famiglia, la vita, la morte, lo scorrere del tempo.

Ma a questi se ne potrebbero accostare molti altri; il lettore potrà scegliere quale strada percorrere.

Certo è che ognuno di questi temi merita un singolare approfondimento, per poter far luce negli orizzonti poetici di una figura che ha ancora tanto da dire.

Tutte queste immagini, inizialmente personali, confluiscono in un’atemporalità che può essere collettivamente condivisa. Se il Salento in questo contesto, come ha osservato Massimo Bray in apertura del volume, può essere interpretato come “il primitivo e archetipico ordinamento del suo mondo”, è anche l’immagine del luogo natio, del simbolo, della nostalgia, dell’inatteso, del ritorno nel quale sempre sperare nella lontananza.

La formazione letteraria e umana di Russo è sconfinata e poliedrica. Molti sono gli autori che sono stati per l’autore oggetto di studio e probabilmente ispiratori della sua linea poetica. Tra questi nella sua biblioteca figurano Antonin Artaud, Georges Bataille, Charles Baudelaire,Walter Benjamin, Jorge Luis Borges, Celine Louis-Ferdinand, Rimbaud, Osip Mandel’Stam, Ludwig Wittgenstein e molti altri[2].

L’enumerazione di questi grandi nomi della letteratura e della filosofia, può fungere da indicazione per chi volesse leggere in queste liriche la formazione di un grande poeta contemporaneo, in cui si compendiano il sentire letterario e l’indagine filosofica.

La prima lirica che apre la silloge illustra un tipico paesaggio del Salento e ha la funzione di condurre il lettore “nell’aria aperta/ tra gli ulivi e le/vigne/ e i fichi color di miele/ qui rigoglioso nasce il mio/paese”. Il paesaggio è dominato dalle case di calce bianca, da alberi di limone carichi di frutti; da un mare pigro che contempla la notte prima dell’alba. Successivamente, in un altro componimento, da uno sguardo più ampio che guarda il paesaggio, il lettore viene condotto tra le mura più intime e appartate della casa del poeta; è un luogo che Russo sente come quello dell’appartenenza per eccellenza, dove il suo spirito è “chiuso come una perla in un’ostrica” e può contemplare il fluire delle stagioni, dei loro colori e del tempo. Il poeta si presenta come un navigante errante poiché, come insegna l’immagine di leopardiana memoria della siepe ne “L’infinito”, un luogo fisico può sempre essere travalicato dall’immaginazione, dalla capacità creativa dell’uomo. Così è la stessa casa a essere fonte di materna rassicurazione, è l’unica in cui l’io lirico può aggirarsi come un principe e che continuerebbe a riconoscere, anche se gli venissero sottratti l’udito e l’olfatto. La sua casa è in grado di alleviare le sue sofferenze e di riscaldare il suo cuore. Quante volte abbiamo pensato alla nostra casa, dovendone essere lontani?

Un altro motivo ricorrente in Russo è la condizione del poeta e l’importanza della poesia. In “Le ali spezzate”, al poeta vengono spezzate le ali, non può innalzarsi ed è costretto a giacere su uno scoglio. Invoca la morte quasi fosse un atto di liberazione, verso un altrove, nuovi cieli in cui poter emanare il suo canto.

In questo passaggio è chiaro il riferimento a Baudelaire e al suo Albatro de “I fiori del male”, l’uccello dalle grandi ali che appare goffo e impacciato, quando viene imprigionato per scherno dai marinai. Infatti Russo è stato un grande amante dei maudits francesi e del loro fonosimbolismo ha saputo trarre gli strumenti per fornire una chiave interpretativa inedita della realtà.

Il lavoro di un poeta, come è stato spesso evidenziato, avviene nel silenzio della notte, quando “intorno è spenta ogni altra face,/ e tutto l’altro tace”[3] per dirla ancora una volta con Leopardi. Russo adopera due immagini suggestive per mostrare il lavorio del poeta. Nella prima è colui che si ripara “in un/ campo di stelle,” tra una e l’altra,/ pigre prede e/ cacciatrici del /silenzio.”;  nella seconda è colui che in estate riflette, medita, vive la vita, sempre con poesie nella mente.

Alcuni credono che la poesia sia inattuale e inadeguata a spiegare il tempo in cui viviamo; quest’asserzione può essere sostenuta soltanto da argomentazioni labili, fallaci e soprattutto superficiali. Il poeta americano George Carlin scrisse[4] che il problema del nostro tempo risiede nell’avere autostrade sempre più grandi, ma orizzonti mentali sempre più ristretti. Russo dimostra a noi tutti che la poesia è anche esigenza di riflessione sull’attualità, esemplificazione del paradosso del nostro tempo “Abbiamo immense/miniere di oro/ e d’argento/ innumerevoli/battaglie da vincere, /oggi abbiamo vinto?”.

Il quesito finale risuona d’imponenza, la domanda è formulata con puntuale chiarezza e indirizza un’eventuale risposta ai numerosi margini di perfettibilità a cui l’uomo dovrebbe pensare e tendere.

Nella lirica Plenilunio, Russo evidenzia poi il sottile e silenzioso meccanismo attraverso cui il mondo cambia ogni giorno, in maniera manifesta o piuttosto implicita. Mentre l’uomo guarda un plenilunio “la terra/si faceva/ carezza di metamorfosi”, poiché come enuncia una legge della fisica

“Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. E così come quest’essere “carezza di metamorfosi” è inscritto nel destino e nell’essenza costituente dell’uomo, un’altra componente fondamentale e antropologicamente constatata è la tendenza a scoprire il nuovo, l’innata  curiositas, quasi un’attrazione fatale, l’ammaliamento di un canto.

“Siamo figli di Ulisse,/ crediamo alle cose per quanto sono lontane;/ e più sono lontane e più le carichiamo/di noi stessi.”

In questi tre versi Russo riassume la vicenda esistenziale di Ulisse che, secondo la mitografia e la rappresentazione dantesca (e quindi anche secondo l’immaginario medievale), aveva osato attraversare le colonne d’Ercole, sfidare quel limite di demarcazione imposto dagli dei, peccando di hybris (tracotanza).

L’uomo di oggi, secondo il poeta, discende da Ulisse, poiché tende a voler raggiungere ciò che è lontano e ciò che appare propenso a farsi carico di significati ulteriori. Così alla fine del componimento, s’ipotizza che forse tutta la vita sia una pura approssimazione, dove alla fine la testa e la croce della moneta hanno lo stesso valore. E forse tutta quella sete di conoscenza potrebbe ridursi all’essenziale.

La poesia è quindi per Russo strumento di designazione della propria identità, è l’unità di misura del tempo che è concesso a una vita.

L’uomo appare spesso disorientato, come se fosse sull’orlo di un dirupo. È qui che la poesia salva, e rende eterno l’attimo.

Come sottolineato dalla curatrice Cudazzo, l’agire poetico di Russo “vive di antitesi e antinomie”, di nessi ossimorici come ad esempio tempo-eternità; finitudine–infinito; limite–desiderio di oltrepassarlo. E anche quando il poeta tocca punti di natura pessimistica, il tutto non si conclude nel nichilismo, come ci si potrebbe aspettare, ma ogni cosa tende all’amore. Che sia per le piccole cose, per la natura, la famiglia o una donna, è sicuramente l’atto di amare, l’azione, il senso e il sentimento dominante nella poetica di Russo. Così come l’uomo tende a voler raggiungere ciò che appare lontano, difficile o remoto, allo stesso modo dovrebbe tendere all’amore, quello vero, puro e scevro d’infingimenti. È questo l’invito e il messaggio di fondo dell’opera di Russo poeta.

Ritorno ancora sul libro. Il titolo “Su canzoni mai cantate” è stato scelto dalla famiglia dell’autore e dall’editore. Le fonti che gli hanno concesso di prendere corpo e forma sono state fogli di manoscritti autografi, conservati presso la casa dell’autore, alcuni testi comparsi nelle due raccolte poetiche già precedentemente pubblicate “Per poco tempo” e “Ancora una volta”, scrupolosamente revisionati. È stata quindi fatta un’accurata operazione filologica.

Il criterio d’ordinamento dei testi segue una scansione cronologica, scandita in alcuni casi dalle date, in altri dalle variazioni dello stile e dei temi, per la delineazione di un compiuto disegno di poetica.

 

“Su canzoni mai cantate

muore la mia lingua

in note perdute su verdi

alberi

si nasconde il mio segreto.

 

Su gabbiani del mediterraneo

si muove leggero l’alito

delle onde.

(I rosai si sono bevuti

i silenzi della notte).

 

Su distese lattiginose divampa un’ansia

mentale.

Come granuli di seta gialla

dorme nel petto del mondo.”

 

Eppure la lingua di Russo non è destinata alla morte, ma è anzi un inno alla vita che si rinnova e nella cui speranza ognuno di noi deve credere. È infatti poesia che abita i luoghi anche materialmente, perché alcune epigrafi sono state collocate, in comune accordo con la famiglia e gli enti del territorio, a Gagliano del Capo, a Santa Maria di Leuca e nella Marina di Novaglie.

E così un viaggiatore che si trovi presso il Lungomare Cristoforo Colombo di Leuca può leggere, sognare e incantarsi con Leuca all’Alba, con la quale concludo queste mie note, aventi lo scopo dell’invito alla lettura e all’approfondimento.

Leuca all’alba

Sbucano col sole

Leuca

E le sue onde

e l’immobile

Faro

Riposa come muto.

[1] C.Russo, Su canzoni mai cantate- poesie scelte (1994-2017), a cura di Annalucia Cudazzo con interventi di Massimo Bray e Michela Biasco, Neviano, Musicaos Editore, 2022.

[2] Per l’elenco degli autori facenti parte della biblioteca personale di Cosimo Russo, è stata di fondamentale importanza la testimonianza della madre, Luigina Paradiso, a cui va il mio ringraziamento.

[3] G. Leopardi, Il sabato del villaggio, da I Canti.

[4] G. Carlin, Pensieri dopo l´11 settembre.

Il porto di Brindisi: le tante favole inventate su Andrea Pigonati (II parte)

di Nazareno Valente

C’è tuttavia un disastro ambientale ben più consistente d’una semplice secca che viene addossato a Pigonati e riguarda addirittura la stessa ostruzione della foce del bacino d’accesso al porto interno. Infatti, a detta dello storico locale Giacomo Carito, «fino a prima dei lavori di Pigonati, le navi entravano sicuramente nel porto interno»29 e che, solo successivamente, questa possibilità fu loro negata. Come dire in altre parole che l’interrimento non esisteva neppure, o non aveva consistenza tale da impedire la navigazione, quando l’ingegnere siracusano tracciò il tanto discusso canale, e fu pertanto lui a generarlo sbagliando l’esecuzione dei lavori. Posta così la questione, si ha il sospetto che Carito rimanga in un qualche modo legato alla ormai datata visione di Ferrando Ascoli, convinto che i problemi del bacino brindisino fossero dovuti ad un errore tecnico compiuto da Pigonati. Mentre nella realtà è ormai assodato da un secolo e mezzo e più che l’insabbiamento era dovuto a fenomeni naturali, che i tecnici del tempo non seppero certo gestire ma che, in ogni caso, prescindevano da come il canale potesse essere scavato od orientato. In particolare, l’insabbiamento era conseguente allo stato delle coste e delle correnti, come Tommaso Mati riferì nel suo progetto presentato nel lontano 25 novembre 186130. L’ingegnere aretino, «dopo accurate visite lungo le coste esterne ed interne del golfo» appurò, che nella costa Guacina e, soprattutto, nella costa Morena — collocate rispettivamente a ponente ed a levante dell’allora porto esterno — «scorgevansi indizi di grandi corrosioni antiche e recenti» e si convinse che gli interrimenti erano dovuti «quasi esclusivamente dalle avvertite corrosioni e che bastava impedire queste per render possibile la conservazione dei fondali»31. Mati in definitiva provò coi fatti che l’insabbiamento era in maniera preponderante dovuto a fenomeni di erosioni cui erano soggette le coste, del tutto indipendenti da eventuali lavori realizzati nella zona. La foce, quindi, si ostruiva per un evento naturale di corrosione, probabilmente intensificatosi sempre più con il trascorrere degli anni, che l’ingegneria romana  era stata forse in grado di gestire con protezioni, poi rese inservibili dal tempo, oppure con normali interventi di manutenzione. In definitiva, salvo che Pigonati non avesse avuto anche poteri taumaturgici, tali da rendere friabili le coste al suo solo apparire, non poteva indurre un simile fenomeno, a prescindere dai possibili errori compiuti.

In poche parole, l’ipotesi dello storico brindisini appare basata già di per sé su premesse errate e presuppone in aggiunta che le proteste dei brindisini sullo stato del porto non avessero granché motivo d’essere se, come lui afferma, «le navi entravano sicuramente nel porto interno». Per cui non si capirebbe su cosa i nostri concittadini recriminavano, se la foce non era in effetti ostruita a tal punto da inibire le principali attività che si svolgono normalmente in un porto. Ebbene, per Carito, si trattava di semplice strategia del lamento: «come spesso si fa» in queste circostanze per ottenere qualcosa, si «descrive una situazione molto peggiore di quella che è in realtà»32. Peccato che lo storico non chiarisca quale fosse questa «realtà» e dove fosse il problema, se l’insabbiamento di cui ci si lamentava tanto era per lo più solo un pretesto, un modo per ingigantire il disagio e convincere le autorità ad intervenire in fretta. Verrebbe quasi da considerare che, se le cose stavano davvero così, i nostri amati concittadini se l’erano un po’ voluta, se poi l’interrimento era effettivamente arrivato, come il lupo della storiella, dopo le tante volte che lo si era evocato a sproposito.

Ma, a parte questo, sul versante lamentele andrebbe forse ricordato che le suppliche da rivolgere al sovrano non potevano certo essere fatte dal primo venuto, ma dovevano essere avanzate da persone autorevoli, di riconosciuto prestigio, oltre che titolate a rappresentare la città. Tutta gente che non avrebbe naturalmente messo in gioco la propria reputazione per questioni di poco conto o per recriminazioni in buona parte inventate. Senza poi contare che tali suppliche, prima di arrivare al sovrano,  passavano al vaglio di chissà quanti funzionari regi che verificavano se l’istanza era supportata dai fatti. Pertanto è già di per sé troppo semplicistico lo stare a credere che fosse sufficiente piangere di più, o con più calde lacrime, per ottenere qualcosa.

Ma a prescindere da tutte queste argomentazioni, che fanno già comprendere come l’ipotesi sia difficile da sostenere, vi sono testimonianze e documenti che permettono di affermare senza ombra di dubbio che il porto interno brindisino aveva grossi problemi ben prima che Pigonati comparisse all’orizzonte e che i Brindisini avevano valide ragioni per richiedere che s’intervenisse a mettere a posto le cose. In pratica si verificherà, anche per questa via, che l’ingegnere siracusano non creò di certo lui l’interrimento. Ribadito che, anche volendolo, non l’avrebbe potuto fare, se, come più volte ripetuto, era un evento del tutto naturale.

Per avere un’idea di qual era la situazione prima di Pigonati, sarà sufficiente prendere in considerazione la documentazione e le fonti più significative che danno informazioni sulle condizioni del porto brindisino dal Cinquecento in poi.

Partiamo così dalla testimonianza del Galateo, autore di grande affidabilità, che all’inizio del Cinquecento raccontava nel “De situ Iapygiae” che, ai suoi tempi, il canale del porto interno era attraversato dalle sole imbarcazioni di piccole dimensioni, a due o a tre ordini di remi («nunc non nisi  parvis navibus, et biremibus, et triremibus pateat»33). Quindi già all’inizio del XVI secolo i navigli d’una certa consistenza non potevano accedere nei seni interni del porto brindisino e, di conseguenza, la foce del canale di collegamento era parzialmente insabbiata.

Sebbene meno circostanziata, pure la relazione di Camillo Porzio, inviata nel 1575 al viceré Don Innico Lopez de Mendoza, va nello stesso senso sospettando per altro che l’interrimento fosse creato di proposito dalla gente del posto per impedire ai «Saracinidella comodità» di accedere nel porto interno34. Aspetto questo confermato dal nostro concittadino Giovanni Maria Moricino, il quale rilevava con malizia che la medesima ragione «ha mosso a’ tempi nostri il Re di Spagna a non consentire che s’apra, e si scavi quel tratto di mare che ormai diventa terra. Dovendo al suo Consiglio (dove la cosa più volte è stata proposta) che sia maggior sicurezza de la Città lo starsene così chiusi»35.

L’interrimento pare perdurare pure all’inizio del Seicento. Anzi si aggrava. A confermarlo un documento ufficiale redatto nel 1612 da un funzionario vicereale, probabilmente il visitatore generale delle fortezze, che riferiva sulla condizione dei castelli del regno. Parlando del castello Svevo («El Castillo de’ tierra dela ciudad de Brindez») collocato nel porto interno,  c’è l’esplicita annotazione che la bocca del porto «està ciega de manera que en menguando la mar apenas pueden entrar barquillas» («è cieca, sicché essendo lì il mare basso possono a malapena entrare le piccole barche»36). La quale affermazione già di per sé non dà adito ad altra possibile interpretazione. In più, trattando del castello di Mare, che chiama «castillo de Brindez»  (castello di Brindisi), lo stesso funzionario rileva un aspetto ancor più interessante. Sottolinea infatti che, insieme al forte, il castello presidia la zona del porto situata tra l’isola e la città, il cui altro suo porto tanto famoso ha l’entrata cieca («El fuerte y el Castillo de Brindez… sobrestan á un puerto muy capaz, que de su naturalezza se haze dentro la ysla, y la Ciudad, cuyo puerto tan famoso está ciego enla entrada»37). Lasciando così chiaramente intendere che il porto, quello «tanto famoso» che abbraccia la città, quindi in definitiva l’interno, è inutilizzato, sicché quello che si trova tra l’isola e la città, vale a dire il bacino portuale esterno, è divenuto il solo porto utilizzabile. Per cui nel 1612, non solo l’interrimento esisteva, causando l’inagibilità del porto interno, ma questa circostanza faceva sì che era la rada ad essere considerata il porto di Brindisi.

Uno dei punti di forza dell’ipotesi che prima di Pigonati i seni interni erano praticabili e che sia stato lui a causare la loro inagibilità, si collega alla guerra quasi personale che Pedro Téllez-Girón de Osuna, viceré di Napoli, aveva ingaggiato tra il 1617 ed il 1618 contro i Veneziani e che ebbe a volte, come teatro delle operazioni, proprio il porto di Brindisi. Carito afferma infatti che nel porto interno c’era normale attività tanto che «addirittura intorno al 1618, si concentrò qui tutta l’armata spagnola»38. A parte che lo storico confonde l’armata spagnola, che non c’entrava nulla con queste operazioni militari, con quella del vicereame napoletano, di gran lunga meno consistente, il fatto che la flotta fosse giunta a Brindisi non vuol necessariamente dire che fosse approdata nel porto interno. E, nella realtà, dove questa armata abbia effettivamente gettato l’ancora, ce lo fa sapere un testimone illustre, don Diego Duca di Estrada, protagonista di rilievo di quegli avvenimenti bellici. Nelle sue memorie racconta infatti che, giunto nel porto di Brindisi nel giugno del 1617 con una flottiglia di cinque galeoni, ormeggiò, insieme ad altri tredici galeoni, trenta galee e quattro brigantini, vicino a «una Fortaleza que está sobre un escollo grande» («vicino un forte che sta su un isolotto»39). Risulta pertanto del tutto evidente che l’armata vicereale non approdava nel porto interno, ma attraccava  vicino a Forte a Mare, se non proprio nella sua darsena. A dissipare ogni eventuale dubbio, don Diego spiega perché la flotta gettasse l’ancora così lontano dalla città, dichiarando che a Brindisi ci sono di fatto due porti: quello interno cieco («ciego»), le cui acque sono quasi morte («las aguas casi muertas»), e l’altro, appunto vicino alla fortezza, che invece ha la capacità di ospitare molte navi («hai capacitad para muchos bajeles»40). A confermare le parole di don Diego, un personaggio ancor più compromesso in quegli avvenimenti, vale a dire Francisco de Quevedo, famoso scrittore politicamente impegnato che, in quel periodo, era addirittura corresponsabile con il viceré di Napoli di quella strana guerra avviata contro i Veneziani, essendone  segretario delle finanze e condividendone l’odio per la Serenissima. Nel suo “Lince de Italia”,  de Quevedo decantava i seni interni del porto di Brindisi ritenendoli una risorsa inestimabile, potenzialmente in grado di far rivaleggiare lo scalo brindisino con quello di Venezia come postazione commerciale strategica con l’Oriente. Peccato però, soggiungeva papale papale che il porto interno di Brindisi «è cieco, come quelli che non vogliono disturbare Vostra Maestà per farlo pulire» («ciego, como los que no importunan a Vuestra Majestad que le limpié»), lasciandolo così in uno stato di totale abbandono41. Quindi testimonia anche lui che la foce del canale di accesso al porto interno era a quei tempi ostruita e che di conseguenza le armate potevano essere ospitate solo nel porto esterno.

C’è da aggiungere un’altra considerazione. Il fatto che si era costretti a svolgere le attività portuali nella zona esterna, limitava di certo il porto brindisino che però restava ugualmente una risorsa preziosa, per il semplice motivo che in quel particolare momento storico tutti i porti del regno erano in condizioni precarie e che c’era quindi penuria di approdi. E questo avveniva soprattutto sulla sponda adriatica, dove il vicereame poteva contare solo su due porti in grado di ospitare un consistente numero di navigli: quello di Manfredonia — pur esso mezzo insabbiato — e, innanzitutto, di Brindisi che, sebbene privato dei seni interni, aveva un bacino esterno molto ampio e protetto in cui le navi da guerra potevano essere proficuamente ospitate. In pratica ci si doveva accontentare di quello che passava il convento, ed il porto esterno brindisino, visto il contesto, svolgeva bene il suo compito soprattutto d’inverno, mentre d’estate la cattiva aria della città poneva, a detta dei cronisti del tempo, più d’un problema.

Era da un punto di vista commerciale che l’inagibilità del porto interno creava, invece, grosse complicazioni. Erano di fatto le operazioni di sbarco ed imbarco ad essere penalizzate, perché si dovevano usare le barchette, in grado di navigare nel canale, a mo’ di moderne navette per trasportare le merci dall’ormeggio delle navi vicino Forte a Mare ai moli interni, e viceversa. E questo comportava un aggravio non banale nei costi e nei tempi di svolgimento delle operazioni.

Che nel Seicento i galeoni, i brigantini e qualsiasi legno appena consistente non potesse ormeggiare nei seni interni è ribadito in aggiunta dai portolani o dalle carte che prevedevano questo specifico tipo di informazione, rappresentando le guide dei viaggiatori dell’epoca.

Significativa in questo senso è la pianta del 1650, firmata dall’ingegnere militare Onofrio Antonio Gisolfo (figura n. 8), dove nella legenda è esplicitato che nel porto di Brindisi si ormeggia solo nel porto esterno. In corrispondenza ad esso, è  infatti specificato: «mare grande dove danno fondo li vascelli et distante due miglia dalla città è il loco dove sta’ il forte et è tutto porto». Mentre nessun ancoraggio è previsto per il porto interno.

 

Ancor più chiara, quantomeno da un punto di vista visivo, l’indicazione contenuta nel portolano del cartografo olandese Johannes van Keulen, pubblicato nell’ultimo ventennio del Seicento nei volumi dell’atlante “De Nieuwe Groote Lichtende Zee-Fakkel” (figura n. 9): tutti i simboli delle ancore sono disegnati nel porto esterno, mentre quello interno ne risulta privo. Altro aspetto interessante i seni interni non fanno neppure più parte del porto brindisino, identificato in questo portolano dalla sola rada.

 

C’è quindi documentazione più che sufficiente per ritenere che il porto interno di Brindisi era nel Seicento negato ai bastimenti. Ed ancor più agevole dimostrare che questa situazione persisteva pure nel Settecento. Aiuta in questo senso una vivace disputa accademica, accesasi  agli inizi del Settecento, a cui partecipano tre intellettuali del tempo.

Il tutto ha inizio quando Nicolas Lenglet Du Fresnoy, un erudito pieno d’interessi e senza peli sulla lingua, tanto da incappare più volte nella censura ai tempi di Luigi XV ed in svariati periodi di prigionia anche alla Bastiglia, compone nel 1718 “Méthode pour étudier la geographie” in cui parla del regno di Napoli. Uno storico napoletano, Matteo Egizio, trova lo scritto del Lenglet lacunoso, così gli indirizza una lunghissima lettera polemica in cui gli contesta tutta una serie di errori, uno dei quali riguarda proprio il porto di Brindisi che l’abate francese aveva citato come uno dei più rinomati tra quelli esistenti. «Sarebbe uno dei più belli del Mediterraneo — lo riprende lo storico — se non fosse chiuso»42. Lenglet, che non si dà pensiero neppure del giudizio del re, figuriamoci se bada a quello d’un comune mortale, per cui non replica neppure. Interviene invece in sua difesa un geografo campano, Giuseppe Antonini, il quale fa presente ad Egizio che è vero, come lui afferma, che il porto di Brindisi «è guasto, o chiuso, o (come volgarmente diciamo) ciccato», però, «bisogna distinguere, e sapere, che i porti di Brindisi son due: l’interiore, ed il più vicino alla città, anzi che quasi tutta intorno la cinge, è quello, che capace d’un numero grandissimo di navi, ed a cui per istrettissima bocca si entra, è chiuso; l’esteriore, ed a l’uscir di questo primo, è formato, e coverto da un’isola, su di cui sta fabbricato un Forte con buon presidio. Questo porto è bello, grandissimo, ed intero, poiché per qualunque arte, e spesa non si può mai chiudere»43. In pratica è vero che il porto interno è chiuso, ma è aperto, e pienamente operativo, quello esterno. Per cui — per Antonini — è evidente che Lenglet si riferisca, pur non avendolo specificato, al porto esterno, visto che è risaputo che quello interno è “ciccato”.

In risposta Agezio ammette d’essere in torto, riconoscendo che, non essendoci stata precisazione, avrebbe dovuto capire che il Lenglet alludeva al porto «esteriore». In ogni caso, precisa: «So che Brindisi abbia due porti come Tolone, l’uno interiore, l’altro esteriore, e che l’interiore, che sarebbe più sicuro per una grande armata, sia chiuso per i vascelli grandi, e che perciò, l’area sia resa mal sana… Ne fui informato circa 30 anni addietro da D. Antonio di Felice, che ivi era stato giudice e governatore»44.

Così come era consuetudine negli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo di dare per scontato che, quando si parlava del porto, s’intendeva senza dubbio alcuno di quello interno, perché in quelli medio ed esterno non si svolgeva praticamente nessuna attività portuale, l’opposto avveniva nel Seicento e nel Settecento. Allora si dava per certo che, quando s’indicava il porto di Brindisi senza nessun’altra specificazione, ci si riferiva implicitamente al porto esterno. Pertanto è del tutto usuale trovare in scritti di quell’epoca la citazione generica del porto di Brindisi, ma questo non significa che si stia parlando del porto interno. Anzi sarebbe esattamente vero il contrario. Basterebbe, ad esempio, consultare la raccolta della “Colección de documentos inéditos para la historia de España”, contenenti i documenti sugli episodi bellici che coinvolsero negli anni 1617 e 1618  i Veneziani ed il viceré de Osuna. Come sappiamo dai racconti dei protagonisti Diego Duque de Estrada e Francisco de Quevedo in quegli anni il porto interno di Brindisi era inagibile e pertanto qualsiasi naviglio spagnolo ormeggiava nei pressi della «Fortaleza» (Forte a Mare). Ebbene nei documenti questa specificazione non viene molto spesso fatta, pur tuttavia, quando si tratta d’ormeggi, magari tra le righe, grazie a  qualche piccolo indizio, si desume che si tratta in ogni caso del porto esterno.

Ciò non toglie che vi possano essere stati dei periodi il cui la foce di collegamento venisse pulita rendendola per brevissimi intervalli di tempo navigabile per i navigli di limitata consistenza, che quindi potevano entrare nel porto interno. Di questi particolari periodi se ne conoscono sia dopo, sia prima l’intervento di Pigonati. Ad esempio, a seguito dell’operazione di spurgo del bacino progettato nel 1828 dall’ingegnere Lorenzo Turco, il canale scavato da Pigonati fu portato ad una profondità di 10-12 palmi (tra 2,63 e 3,15 metri circa) «onde vi passano i legni di 100 a 120 tonnellate; e prima non dava passaggio che a piccole barche»45, come ebbe a dichiarare Francesco Antonio Monticelli, nella terza memoria in difesa della città e del porto.  Allo stesso modo, quando verso la fine del periodo di dominazione austriaca, il viceré Giulio Borromeo Visconti tra il 1733 ed il 1734 tentò in ogni modo di non cedere il regno alla dinastia spagnola dei Borbone, vi furono analoghi lavori di pulitura della foce che portarono, quasi in una parata, a vedere navigare cinque feluche tra il molo di Porta Reale e Forte a Mare46. Situazione talmente particolare da essere ricordata nella “Cronaca dei Sindaci” la quale in genere parla anch’essa, nei fatti narrati per il Settecento, genericamente di porto di Brindisi, lasciando però facilmente intuire che si riferisce al porto esterno, in quanto se scende nei dettagli fornisce località che si trovano nell’attuale porto medio o nelle immediate vicinanze. In tal senso si ha più di un esempio. Il notaio Perrino, raccogliendo l’attestazione di un capitano di ventura nel 1703,  aggiunge, dopo aver parlato del porto di Brindisi, in località «le Calcinari»47, cioè un posto che si trovava dalle parti di Forte a Mare nel porto esterno. Un’altra volta, il 30 giugno 1734, per timore che «li Tedeschi non facessero qualche disbarco» nel porto, si presidiano le zone della «massaria di Pascale Blasi e tutta la marina di S. Leonardo»48, vale a dire zone vicine alla Cala della Navi che si trovava nel porto esterno. Oppure quando il 22 maggio 1741 arrivano nel porto delle tartane sbarcando attrezzi militari vicino alla masseria di Pascale Blasi49; o la volta in cui il 7 settembre 1742 tal Felice Chisiena approda con una tartana nel porto, scaricando un elefante a San Leonardo50. E, come già riportato, sia la masseria di Pascale Blasi, sia la marina di San Leonardo erano vicine alla Cala delle Navi che era l’approdo ufficiale. In definitiva si desume che, quando la “Cronaca” parla di sbarchi nel «porto di Brindisi», implicitamente dà per scontato che si tratti di ormeggi nella Cala delle Navi, in caso contrario indica in maniera esplicita la zona dove l’ancoraggio avviene. Infine qualora l’approdo non avviene nel porto esterno, tale circostanza viene evidenziata affermando che il porto di cui si parla è quello «interiore» oppure indicando l’ormeggio di Porta Reale.

Anche i portolani conosciuti del Settecento attestano, al pari di quelli del Seicento, che nel porto di Brindisi i bastimenti ed i velieri possono ormeggiare solo nella rada. Ne è un tipico esempio il portolano firmato da Roux nel 1764 (figura n, 10), dove le ancore, a simboleggiare gli approdi, sono disegnate tutte nel porto esterno, mentre quello interno ne è del tutto privo. Anche in questo portolano, lo scalo brindisino è limitato al solo porto esterno; quello interno, non avendo approdi, non è infatti più ritenuto un porto.

 

Già così ce ne sarebbe davanzo per non avere dubbi che, anche prima dei lavori di Pigonati, le navi non entravano nel porto interno e che, quindi, non fu lui ad ostruire la foce. Tuttavia c’è disponibilità di altra documentazione che discolpa Pigonati e, tanto per convincere anche i più indecisi, ci sono due preziosi documenti del 1762 e del 1763, collegati con l’intervento di Pigonati, che sgombrano il campo da ogni possibile equivoco.

Il primo l’abbiamo già in parte descritto in quanto riguarda le lamentele sulle condizioni critiche del porto interno brindisino esposte nel 1762 al sovrano dall’arcivescovo di Brindisi. Il secondo è la relazione del 1763 d’un funzionario governativo — redatta proprio a seguito della predetta supplica —  contenente le proposte di Giovanni Bompiede, ingegnere idraulico delegato a verificare lo stato dello scalo brindisino; l’elenco fatto dall’arcivescovo stesso dei fondi con cui il comune di Brindisi avrebbe potuto partecipare all’eventuale spesa ed il parere del capitano generale di marina sulle proposte avanzate da Bompiede.

Intanto, diversamente da quanto raccontato da Carito che anche in questo caso equivoca, l’arcivescovo che avanzò la supplica non fu Annibale de Leo51, allora ancora giovane canonico di belle speranze impegnato negli studi di diritto ecclesiastico a Roma e che, solo un trentennio e passa dopo (1798), avrebbe ricoperto quell’incarico. L’arcivescovo che si rivolse al sovrano è, come già riportato, Domenico Rovegno il quale scrisse a re Ferdinando IV quando ormai era consapevole di essere all’epilogo della sua esistenza — quindi in un momento in cui si fa ammenda delle bugie dette, e si cerca di non aggiungerne delle altre — per una malattia dovuta proprio a l’aria insalubre di Brindisi su cui l’arcivescovo si soffermò abbastanza per convincere Ferdinando IV ad intervenire. Allo stesso modo Rovegno si soffermò sull’altro aspetto critico che penalizzava la città, vale a dire la situazione precaria vissuta dal porto. «La negoziazione del mare poi è oltremodo difficile — segnalò con decisione — poiché alla bocca del porto interiore non possono accostare i legni grossi da carico, e l’imbarco dell’oglio, e d’altre derrate non può farsi che in due miglia di distanza dalla città, caricandosi prima su piccole barchette, che incagliando talora nello stretto, bisogna con grande stento tirar fuori con le funi, e per tal motivo un porto tanto rinomato si vede oggi abbandonato da tutti»52. L’arcivescovo faceva poi presente che questa condizione difficile avrebbe sollecitato le attenzioni de «l’Augusto Genitore Vostro», che sicuramente sarebbe intervenuto per aggiustare le cose, come fatto per i porti di Taranto e Cotrone53, «se ei non fosse andato a dimostrare la sua paterna Pietà a’ regni più ampî»54, in quanto aveva rinunciato al regno di Napoli, abdicando a favore del figlio Ferdinando, per succedere sul trono di Spagna. Per questo si rivolgeva a lui: «animato dalla clemenza della M.V. in nome del mio povero gregge umilmente la supplico ordinare gli espedienti più propri per l’apertura del porto predetto»55.

A sentire l’arcivescovo Rovegno, anche le barchette stentavano a passare il canale e dovevano essere trainate con le funi; i vascelli ormeggiavano così due miglia lontani dalla città e dovevano essere caricati e scaricati dalle merci al largo, proprio grazie al via vai delle barchette. Il che è in linea con quanto riscontrabile negli altri documenti dell’epoca, nei portolani ed anche nel più volte citato dipinto di Filippo Hackert.

La barchetta usata prevalentemente come navetta è infatti disegnata dal pittore nel momento in cui è impegnata in operazioni di scarico (n. 6 del dipinto). Si tratta di una chiatta che i brindisini chiamavano lontro, dal basso pescaggio e dalla forma piatta (in questo caso allargata) che ricorda le famose caudicarie impiegate dai romani per il trasporto fluviale mediante un sistema di alaggio. Lo si nota pure dagli scalmi presenti a poppa e a prua, ed invece assenti ai lati dove comunemente trovano posto i remi, la qual cosa chiarisce che l’imbarcazione era trainata a braccia con l’aiuto di una fune. D’altra parte era del tutto usuale, nei porti pugliesi con i fondali bassi o interriti, che le navi restassero ancorate al largo e che le operazioni di carico fossero svolte con barchette dallo scarso pescaggio, molto simili a quelle ancora in uso sui fiumi. C’è però da precisare che i lontri più comunemente usati dai brindisini erano molto simili alle canoe e, quindi, con una struttura ben più limitata di quella raffigurata da Hackert. In quei periodi di inagibilità, i navigli approdavano così esclusivamente nelle anse del porto esterno e l’ormeggio più favorevole si trovava sulla costa Guacina, nelle insenatura situate nei pressi delle Fontanelle, ed era di uso talmente comune che il suo toponimo, Cala delle Navi, veniva riportato nelle mappe e nei testi di navigazione.

Come però detto, Carito è convinto che l’arcivescovo esagerasse e che invece anche i grossi vascelli entravano nel porto interno. Ribadito che, non si comprenderebbe di cosa l’arcivescovo si doleva, se in realtà le attività portuali si potevano davvero svolgere nel porto interno, occorre aggiungere che la supplica era fatta con tono pacato e triste, più che a fosche tinte. Forse, a cercare il pelo nell’uovo, calcava un po’ la mano sulle questioni finanziarie in quanto a simili aspetti i burocrati incaricati dell’esame preliminare delle suppliche erano particolarmente sensibili, mettendo in rilievo che le molte difficoltà avrebbero potuto portare  il porto brindisino ad essere «abbandonato da tutti», con un costo economico non banale per la corona. Ma, a parte questa timida sottolinetura, non c’era nessuna esagerazione riguardo all’interrimento e l’arcivescovo brindisino riportava le cose come per davvero stavano: quando c’era bassa marea neanche le barchette riuscivano ad attraversare la foce. Figuriamoci se erano in grado di farlo i navigli.

E non era il solo a dichiararlo.

Lo affermava a chiare lettere pure Bompiede, l’ingegnere idraulico incaricato dal sovrano di verificare quali erano le condizioni reali del porto brindisino. E lo confermava il capitano generale di marina che era perfettamente a conoscenza della situazione critica in cui versava la struttura portuale.

Queste opinioni sono contenute nel secondo documento, sottoposto all’attenzione del sovrano da un funzionario deputato a raccogliere ed a riassumere i progetti e i pareri su un possibile intervento sullo scalo brindisino. Re Ferdinando IV, ricevuta la lamentela di Rovegno, aveva infatti ordinato un accertamento di cui era stato incaricato Giovanni Bompiede, un ingegnere di marina molto stimato, mentre, allo stesso tempo, era stato richiesto all’arcivescovo brindisino di quali possibili fondi disponeva il comune per un eventuale concorso alla spesa.

Nel dicembre del 1763, quando Rovegno era nel frattempo morto, il funzionario governativo stende appunto la sua relazione in maniera asettica  raccogliendo le opinioni di un tecnico, che non aveva nessun interesse a ingigantire le cose, e quelle di un politico, il capitano generale di marina, portato semmai a sminuirle per non essere accusato d’essere stato negligente. Ebbene il quadro che ne emerge non è per nulla meno fosco di quello tratteggiato dall’arcivescovo brindisino, tanto è vero che l’ingegnere Bompiede conferma appieno la condizione tragica in cui si trova il bacino interno dello scalo brindisino. Valutata infatti la situazione generale del porto interno di Brindisi, Bompiede sottolinea in maniera perentoria che: «tanto dalla parte di fuori dell’imboccatura, quanto internamente, essere un tal porto inservibile e pregiudiziale alla salute, ed al Commercio, perché in tempo di basso mare, oltre il non potervi passare nemmeno le barchette scariche, si rendono altresì li due bracci di mare, che ne formano l’interiore, privi di flusso e riflusso»56. Per questo «in tempo d’esta’, come da’ stagni ne derivano perniciose esalazioni, le quali crescono sempre più a caggione delle acque piovane, che mischiate co’ ristagni medesimi danno più materia all’infezione dell’aria e producono frequentemente nella città e luoghi vicini delle più pertinaci e mortali malattie, anche per caggione del limo con l’alga [alaga] infracidita che lasciasi steso sul suolo de’ suddetti due bracci dalle Sciabiche, che in tempo d’esta’ vi pescano»57.

Oltre alla curiosità che l’ingegnere Bompiede riteneva la pesca con le sciabiche nociva per lo stato delle acque dei seni interni e ne suggeriva il divieto58, l’aspetto che salta agli occhi è quindi il giudizio netto che lui dà sullo stato del porto interno stesso: «inservibile e pregiudiziale alla salute». Un parere che non ammette repliche e che riconosceva pertanto del tutto valide le lamentele esposte da Rovegno. Per migliorare le cose Bompiede prendeva in considerazione due possibili rimedi in alternativa tra loro: uno di basso profilo volto a «render l’imboccatura del porto navigabile alle barche ed alli schifi che tragittavano le botti dell’olio alli bastimenti»59;  l’altro di ampio respiro che rendeva possibile «il beneficio dell’entrata de’ bastimenti mercantili nel porto interiore»60. Per la prima soluzione che avrebbe mantenuto almeno «aperta la imboccatura del porto interiore necessaria alle barchette» e al «libero flusso e riflusso alle acque interiori con miglioramento dell’aria» era prevista una spesa dai 3.500 ai 4.000 ducati61. La seconda soluzione più radicale prevedeva che fosse scavato  un canale dove edificarvi «due moli paralleli di fabbrica; dovendo il primo verso ponente e per lungo palmi 1.800; ed il secondo verso levante di lunghezza maggiore»62, con un progetto quindi molto simile a quello poi adottato da Pigonati. La spesa però prevista da Bompiede era di gran lunga superiore, in quanto avrebbe potuto «ascendere a ducati centoottantanovemila»63, salvo imprevisti. Se si pensa, che Pigonati eseguì le stesse opere con una spesa di poco superiore a 54.000 ducati, quindi di neppure un terzo, occorre dire che l’ingegnere siracusano trattava i soldi pubblici con la stessa parsimonia di quanto avrebbe fatto con i propri. E fu, forse proprio questo suo voler essere a tutti i costi troppo sparagnino a fargli commettere gli errori più gravi: la mancata bonifica totale e la parziale fragilità delle sponde del canale. Tra questi però non si può annotare quello che gli addebita lo storico, cioè a dire l’aver creato lui i problemi di interrimento del bacino di accesso al porto interno, per il semplice motivo che questo era insabbiato da almeno un paio di secoli, come s’è potuto verificare nei documenti e nelle testimonianza appena elencati. L’ultima, quella del capitano generale di marina è, con ogni probabilità, la più composita ed esplicativa delle condizioni in cui, almeno dagli inizi del Seicento, versava il porto interno di Brindisi e del perché non si pensava di modificare le cose.

Il capitano generale di mare, pur riconoscendo a sua volta che i seni interni erano interdetti alla navigazione, fa intendere che era da così tanto tempo che si era in quella situazione da essersi ormai abituati ad utilizzare il porto esteriore per tutte le attività militari e commerciali, per cui riteneva eccessivo impegnarsi in un’impresa tanto costosa per ridare vita al porto interno del quale si faceva da molti decenni a meno senza eccessivi scompensi64. Mentre si dichiarava d’accordo per il progetto, volto a migliorare le condizioni ambientali ed a vietare la pesca «che si fa d’esta’ nei due bracci di detto porto con sciabiche», che avrebbe portato sollievo alle sofferenze della città65.

In conclusione, dieci anni prima dell’avvio dei lavori di Pigonati, il porto interno era, a detta di tutti, «inservibile», essendo la foce di comunicazione completamente ostruita, e paiono di conseguenza del tutto infondate le accuse rivolte all’ingegnere siracusano d’aver generato lui l’interrimento. Anzi, al contrario, occorrerebbe porre in rilievo che, sia pure per un periodo limitato di tempo, Pigonati rese possibile l’agibilità nei seni interni. Lo attestano Giovanni Monticelli e Benedetto Marzolla nella loro “Difesa della città e del porto di Brindisi” affermando che benché le opere del Pigonati «non furono ben dirette né durevoli, pur tutta volta qualche utilità portarono a quelle popolazioni… Intanto tornarono a vedersi nel porto interno legni da guerra e navi mercantili di qualunque portata sino al 1800»66.  Chiarendo quindi anch’essi — non certo estimatori di Pigonati — che prima del suo intervento il porto interno era precluso alla navigazione e che successivamente, sia pure per breve tempo dal 1778 al 1800, grazie ai lavori dell’ingegnere siracusano, poté ospitare navigli di ogni portata. Quanto riportato dai due illustri nostri concittadini trova conforto in un portolano dei primissimi anni dell’Ottocento nel quale, dopo due secoli e più, il simbolo dell’ancora compare anche nel porto interno (figura n. 11).

 

In conclusione, diversamente da quanto asserisce Carito, se c’è qualcosa di sicuro è che il porto interno era del tutto fuori uso ben prima dell’arrivo di Pigonati e che le navi erano di conseguenza costrette ad ormeggiare in quello «esteriore». Ed il suo pare un accanimento persino esagerato quando, in altra occasione,  ribadendo che Pigonati «sbagliò completamente i lavori», ritiene bizzarro che la foce abbia «il nome di colui che in effetti l’ha chiusa»67. Peccato che pure in questa circostanza lo storico si sia mantenuto sul generico, senza specificare in alcun modo quali siano stati questi errori e senza chiarire, in particolare, come essi avrebbero potuto comportare l’ostruzione della foce.

Pigonati non fu certo esente da colpe — sponde fragili, orientamento del canale non del tutto adeguato, mancata bonifica della valle di Ponte Grande e, soprattutto, l’invenzione della favola dei moli di Cesare che avevano, a sua detta, dato esca all’interrimento — malgrado ciò nessuno di questi suoi errori era in grado di far insabbiare la foce. Per il semplice motivo che tale fenomeno, come ampiamente spiegato dall’ingegnere Mati nel suo progetto del lontano 1861, era dovuto allo stato delle vicine coste ed al gioco delle correnti.

In fondo, sarebbe bastato perdere un po’ di tempo a leggere il progetto di Mati, per convincersi che Pigonati, pur non avendo saputo risolvere il problema che attanagliava da secoli il porto interno di Brindisi, non era di sicuro stato lui ad originarlo.

( 2 – fine)

 

Note

29 G. Carito, intervento webinar della presentazione del libro di G. Perri,  Pagine di storia brindisina, vol. II, Ottobre 2021, https://www.youtube.com/watch?v=sLyVzlJvPVI (visitato il 9 luglio 2022).

30 T. Mati, Lo zibaldone di casa Mati, A cura di l. salvestrini, Montaione.net, p. 145.

31 Ibidem, pp. 139 e 140.

32 G. Carito, Cit.

33 Galateo,  De Situ Iapygiae, per Petrum Pernam, Basileae 1558, p. 64.

34 Autori vari, Collezione di opere inedite o rare di storia napoletana, Officina tipografica, Napoli, 1839,  pp. 18 e 19.

35 G.M. Moricino, Dell’antichità e vicissitudine della città di Brindisi. Opera di Giovanni Maria Moricino filosofo, e medico dell’istessa città. Descritta dalla di lei origine sino all’anno 1604, manoscritto ms_D12, 1760-1761, Biblioteca pubblica arcivescovile “A. De Leo”, Brindisi, 233r.

36 Los Castillos del Reyno de Napoles Maniscrito, manoscritto n. 1933, Biblioteca Nazionale di Spagna, p. 27.

37 Ibidem, p. 29.

38 G. Carito, Cit.

39 D. De Estrada, Comentarios del desengañado, ó sea vida de d. Diego Duque de Estrada, escrita por él mismo, in Memorial Histórico Español, Imprenta Nacional, Madrid 1860, pp. 166 e 167.

40 Ibidem, p. 166.

41 F. De Quevedo villegas, Obras de Don Francisco de Quevedo Villegas, Tomo primero, colección completa, corregida, ordenada e ilustrada por Aureliano Fernández-Guerra y Orbe, M. Rivadeneyra, Madrid 1852, p. 244.

42 M. Egizio, Lettera amichevole di un napoletano al signor abate Langlet du Fresnoy, in g. antonini, La Lucania: discorsi di Giuseppe Antonini, parte III, Francesco Tomberli, Napoli 1797, p. 151.

43 G. Antonini, Lettera scritta al signor d. Matteo Egizio, in g. antonini, Cit., p. 188.

44 M. Egizio, risposta, in g. antonini, Cit., pp. 209-210.

45 F.A. Monticelli, Terza memoria della città e de’ porti di Brindisi, Gabinetto bibliografico e tipografico, Napoli 1833, p. 33.

46 P. Cagnes – N. Scalese, Cit., p. 296.

47 Ibidem, p. 153.

48 Ibidem, p. 308.

49 Ibidem, p. 357.

50 Ibidem, p. 361.

51 G. Carito, Cit.

52  D. Rovegno, Cit., 195v-195r.

53 Crotone.

54  D. Rovegno, Cit., 195v.

55 Ibidem.

56 Memoria sul porto di Brindisi 3 dicembre 1763, Casa reale antica, fascicolo 864, Archivio di Stato di Napoli, p. 2.

57 Ibidem.

58 Ibidem, p. 6.

59 Ibidem, pp. 2-4.

60 Ibidem.

61 Ibidem, p. 5.

62 Ibidem, p. 3.

63 Ibidem, p. 4.

64 Ibidem, pp. 8 e 9

65 Ibidem, p. 8.

66 G. Monticelli – b. marzolla, Difesa della città e del porto di Brindisi, II edizione, Gabinetto Bibliografico e Tipografico, Napoli 1832, p. 24.

67 G. Carito, Gli interventi sul porto: pillole di storia, History Digital Library https://www.youtube.com/watch?v=r9-vy1ZvTRQ Brindisi s.d., (visitato il 9 luglio 2022).

 

Per la prima parte:

Il porto di Brindisi: le tante favole inventate su Andrea Pigonati (I parte) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Antonio Scupola: l’ultimo Impressionista salentino

 

Antonio Scupola, Scorcio di un vicolo a Lecce

 

Antonio Scupola nasce a Taurisano, in provincia di Lecce, il 2 febbraio 1943. Trasferitosi a Lecce, si diploma presso l’Istituto Statale d’Arte “Giuseppe Pellegrino” e frequenta l’Accademia di Belle Arti.

Ha come mentori i leccesi Mario Palumbo (1905-1979) e Raffaele Giurgola (1898-1970), pittori che hanno lasciato un solco indelebile nello scenario artistico di Terra d’Otranto della prima metà del 900.

Antonio Scupola davanti al cavalletto

 

Negli anni ‘60, si reca a Milano, dove lavora per noti galleristi del capoluogo lombardo. Rientrato nella sua Terra, viene in contatto con i maggiori artisti salentini del secondo dopoguerra, in particolar modo con Amerigo Buscicchio, pittore figurativo e fortemente legato alla tradizione accademica della scuola napoletana, che influenzerà la sua futura produzione pittorica.

Antonio Scupola, Natura morta

 

Servendosi di colori vividi, magistralmente disposti, lo Scupola raffigura nel suo repertorio: scorci di campagna, marine, paesaggi ed angoli della città, pieni di riflessi di luce ed intrisi da un alone di quiete.

Nelle sue opere, narra le leggiadrie della Terra d’Otranto, servendosi di un personale e prosaico stile; realtà ed irrealtà si fondono, rivelando tutta la viscerale sensibilità dell’esteta.

Stimato dai collezionisti per la sua riguardevole abilità tecnica, Antonio Scupola può essere considerato, innegabilmente, uno dei principali pittori impressionisti salentini del XX secolo.

 

I colori da soli non dicono nulla, è l’artista che li anima mescolandoli insieme al suo stato d’animo, così nasce la pittura di uno schivo artista che non deve essere necessariamente né gioiosa né esteticamente bella, ma solo la cronaca delle proprie, e più intime, emozioni.

Il porto di Brindisi: le tante favole inventate su Andrea Pigonati (I parte)

di Nazareno Valente

 

«Brindisi è inoltre fornita di un buon porto: entro un’unica imboccatura sono racchiusi diversi seni tutti dalla forma sinuosa che li pone perfettamente al riparo dai flutti e che li fa rassomigliare alle corna d’un cervo» («Καὶ εὐλίμενον δὲ μᾶλλον τὸ Βρεντέσιον: ἑνὶ γὰρ στόματι πολλοὶ κλείονται λιμένες ἄκλυστοι, κόλπων ἀπολαμβανομένων ἐντός, ὥστ᾽ ἐοικέναι κέρασιν ἐλάφου τὸ σχῆμα»)1.

Questa la più antica descrizione pervenutaci del porto di Brindisi dovuta a Strabone, uno storico e geografo vissuto tra il I secolo a.C. ed il I secolo d.C., che pone in evidenza come lo scalo consentisse molteplici approdi, quasi fosse costituito da più porti. In particolare il geografo di Amasea rappresenta quello che per noi è il porto interno, vale a dire solo una parte dell’attuale complesso portuale brindisino, costituito com’è noto anche dal porto medio e dal porto esterno. In antichità il bacino che contiene i moderni porti medio ed esterno non era considerato un porto vero e proprio ma dai Romani una «statio» e da parte dei Greci un «ὅρμος» (ormos), perché consentiva unicamente di attraccare, mentre una struttura portuale — identificata rispettivamente con i termini di «portus» e di «λιμήν» (limén) — doveva permettere, oltre al semplice ormeggio, pure un’adeguata protezione dai venti e dai flutti, come riportato nella caratterizzazione di Strabone che utilizza appunto nel passo citato il vocabolo «λιμήν». A quei tempi, quando si parlava del porto di brindisi s’intendeva quindi il solo porto interno; il porto medio e quello esterno facevano invece parte della cosiddetta rada.

Che Strabone si riferisca al porto interno è chiarito anche da quell’unica imboccatura che ne consente l’accesso2 e che racchiudeva le varie insenature protette dai venti e dal mare aperto, allora composte dagli attuali seni di Ponente e di Levante e, con ogni probabilità, anche dal canale navigabile che scorreva nello spazio ora occupato da corso Garibaldi e dagli inizi di corso Roma.

I Greci caratterizzavano un porto di prestigio, in cui le navi trovavano un sicuro rifugio, con il termine «εὐλίμενος» (eulìmenos, buon porto), che è appunto la voce usata da Strabone per caratterizzare il porto brindisino che rimase di alto livello per secoli, almeno sino a “Lo Compasso de navegare”, un portolano del Duecento, ritenuto il più antico tra quelli conosciuti, dove viene presentato come «bom porto», per evidenziarne gli indubbi pregi ancora posseduti. Tuttavia, finiti i tempi in cui i grandi imperi (romano e bizantino) e le grandi monarchie (normanna, sveva, angioina, aragonese) presidiavano le rotte dell’Adriatico e ne proteggevano le coste, arrivarono periodi bui per Brindisi. Tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento s’incomincia ad aver timore ad allontanarsi dalla costa. Ed i motivi sono presto detti, ormai l’Adriatico è uno spazio governato da altre nazioni e «perciò i marinai, pescatori e legni, che usano in questo mare, escono quasi tutti dal dominio Veneziano»3 e, soprattutto, essendo Terra d’Otranto, la provincia in cui è inserita Brindisi, quella più prossima «allo stato del Turco, sta in maggior pericolo di ricever danno da lui che tutto il restante Regno»4. Non a caso le sue coste sono disseminate di fortezze e di torri; protette stabilmente da ben 2.543 fanti locali e presidiate «in tempo di sospizione di armata Turchesca» da armigeri reali5. Il mare non è più una finestra aperta sul mondo, ma un varco da tenere sbarrato perché da lì possono arrivare terrore e morte.

 

Brindisi, pertanto, non è più la porta d’accesso al ricco Oriente, quanto piuttosto un possibile cavallo di Troia di cui il «Saracino» potrà nella bisogna avvalersi per compiere le sue scorrerie. Il suo porto non è più una risorsa, ma un pericolo costante, e va pertanto interdetto. Così, sebbene ci siano già il Castello Alfonsino e Forte a Mare a vigilare sugli ingressi, a scanso di equivoci, si gettano sassi e terra nel canale di comunicazione con il porto interno perché sia «dal terreno in alcuna parte diminuito» e non consenta così l’ingresso delle grosse navi6.

Proprio a questa difesa passiva, seguita da una totale incuria, si devono i motivi principali del dilagare dell’ostruzione della foce del canale di comunicazione tra porto e rada che resero i due seni interni di fatto interdetti alla navigazione. Limitazione per lo scalo brindisino destinata a perdurare sino alla seconda metà dell’Ottocento tanto da farla diventare una caratteristica tipica della città, di cui si ricordava appunto il porto interno «ciccato» o «guasto».

Il mancato rinnovo delle acque del bacino interno creava in più degli stagni maleodoranti e un conseguente ambiente insalubre alimentato pure dalle paludi che, per colpa del mancato controllo del territorio e dei frequenti terremoti che ne avevano sconvolto l’assetto idrico, si andavano dilatando alle estremità dei seni dalle parti di Ponte Grande a ponente e di Ponte Piccolo a levante, e per l’appunto chiamate palude di Ponte Grande e palude di Ponte Piccolo o di Porta Lecce. Anche in questo caso, erano finiti i tempi in cui i Romani compivano una manutenzione maniacale dei corsi d’acqua. Quando i lavori di pulitura di porti e fiumi venivano fatti a regola d’arte, in modo che alvei e rive fossero resi liberi da qualsiasi pianta che potesse costituire causa d’impedimento o di pericolo per le navi che vi transitavano («ne quid aut morae aut periculi navibus in ea virgulta incidentibus fieret»7). Nell’ottica poi di «attenuare i danni di un’aria malsana» («quibus mitigetur pestifera lues»8), analoga attenzione si dava alla difesa dal paludismo ed al controllo delle acque reflue facendovi fronte con un corretto mantenimento e con regolari opere di bonifica.

Manutenzione e gestione del territorio che invece vennero a mancare con la caduta dell’impero romano con conseguente impaludamento dei canali — il Cillarese e il Palmarini-Patri, nelle vecchie mappe indicati rispettivamente con i nomi di Patrica e di Masina — che si riversavano nelle acque del porto interno nelle anse estreme di ponente e di levante. Un’altra palude, detta delle Torrette, s’era formata nella curva di entrata  del canale, dove si depositavano le alghe e vi stagnavano le acque piovane trattenute dal terriccio e dai cespugli che, soprattutto d’estate, producevano «orribile fetore»9. In più di fronte, dalle parti del molo di Porta Reale, si riversavano in mare gli scoli che confluivano nella depressione posta tra le collinette a nord e  a sud della città (di fatto l’attuale corso Garibaldi). Questo avvallamento che, come detto, in antichità era stato un terzo piccolo ramo del porto interno, diventava con l’aiuto dell’acqua piovana esso stesso un veicolo costante di trasporto di detriti, privo com’era di pavimentazione. Anche qui l’odore era così acre che la zona, pur centrale, era sgombra di abitazioni ed ospitava solo sparuti negozi collegati con le attività portuali. In definitiva contribuivano all’interrimento, alle paludi ed alla conseguente aria insalubre, balzane strategia di difesa, cause del tutto naturali ed una marcata inefficienza di fondo nella manutenzione e nella gestione del territorio.

Con il tempo i problemi si andarono accentuando, sicché i servizi portuali furono spostati prevalentemente sulla costa Guacina e nei presi di Forte a Mare, nell’attuale porto medio, e la rada incominciò ad essere chiamata «porto esteriore» mentre il porto storico, ormai ridotto alla semplice navigazione di barchette, assunse quello di «porto interiore» ed in molti portolani neppure più considerato un porto. All’arrivo della dinastia Borbone, la foce era più melma che mare ed i seni interni erano in una situazione precaria per altro non molto dissimile da tutti gli altri scali meridionali. C’era però un ritrovato interesse per i porti, diretta conseguenza questa della ripresa economica d’inizio Settecento che aveva impresso nuovi stimoli pure alle attività commerciali marittime. Non a caso sin dal 1734, anno di insediamento dell’amministrazione borbonica, il nuovo governo puntò subito a rinnovare le strutture portuali per adeguarle alle nuove esigenze.

Uno dei primi atti riguardanti Brindisi fu la decisione di costruirvi un lazzaretto — collocato a nord sull’isola di Sant’Andrea — che rendeva per certi versi evidente l’intenzione di Carlo di Borbone di riportare la città nella sua antica configurazione di porta per l’Oriente. Infatti la presenza del lazzaretto era allora condizione indispensabile per divenire uno dei possibili scali nei viaggi diretti a levante. Con ogni probabilità, in quell’occasione, la città si avvalse per la prima volta di una novità introdotta in campo finanziario dal regime borbonico. Riguardo alle spese concernenti le infrastrutture portuali, le comunità locali potevano infatti concorrere sia con propri fondi, sia istituendo delle apposite casse con fondi provenienti dalle rendite comunali, dai dazi e dalle gabelle derivanti dall’abolizione delle franchigie ecclesiastiche. E questo rendeva più agevole la possibilità di reperire liquidità per l’esecuzione di lavori d’interesse locale, senza intaccare quelli a bilancio. In pratica era un modo come un altro per la città di autotassarsi, qualora l’avesse ritenuto funzionale ai propri scopi.

Si iniziò pure nel concreto a pensare al restauro del porto. Ed è proprio di quegli anni un’accorata lettera dell’arcivescovo di Brindisi, Domenico Rovegno, indirizzata nel 1762 al re Ferdinando IV, che dà il segno della dolorosa condizione in cui versava la città di Brindisi.

Su ordine dei medici, l’arcivescovo si trova in convalescenza a Napoli, tuttavia il suo desiderio è di ritornare dal suo  «gregge» e per questo comunica che sta per ripartire per Brindisi con la consapevolezza, però, di «andare incontro alla morte»10. Il motivo della sua malattia «altro non è stato, che l’aere infetto della stessa città» che, «per la divisata cagione», è destinata alla rovina «se dalla M.V. non saranno presi gli opportuni rimedi»11. Gli abitanti sono infatti «oppressi da pericolose infermità, ed atterriti dalle mortalità continue, rilevandosi chiaramente da’ libri parrocchiali, che il numero dei morti in ogni anno è doppio di quello dei nati»12. E sarebbe già spopolata da tempo se, «mantenendo la città de’ singolari privilegi da passati sovrani di questo regno», non avesse potuto accogliere abitanti provenienti da altre zone13.

Il privilegio citato dall’arcivescovo riguardava l’esonero da qualunque gravame o vincolo feudale accordato a chi risiedeva a Brindisi per almeno cinque anni. Era questo il marchingegno utilizzato da secoli per mantenere in vita le zone depresse: piuttosto che intervenire sulla causa, si  concedevano bonus che, come al solito, erano un modo come un altro per rendersi graditi e lasciare però le cose al punto di partenza.

Per fortuna i tempi erano maturi per tentare di riportare a nuova vita il porto interno, e a non lasciarlo più ostaggio della poltiglia e degli odori nauseabondi. Anche se si dovette aspettare un’altra decina d’anni sopratutto a causa della grave crisi economica innescata dalla carestia del 1764. Era così il luglio del 1775 quando l’ingegnere Andrea Pigonati, direttore del Genio militare incaricato di progettare la riapertura del porto interiore, mise per la prima volta piede sul suolo brindisino. Fu il primo dei tanti tentativi non riusciti compiuti dai Borbone per risolvere i problemi d’una foce che, non appena ripulita, tornava senza scampo ad insabbiarsi nuovamente ma che, rispetto a tutti i successivi fallimenti, ha ottenuto gli onori della cronaca per il fatto che  sui lavori compiuti si sono addensate le spietate ed arbitrarie critiche degli storici e dei cronisti locali.

In sintesi, il progetto14 con cui l’ingegnere siracusano cercò di ridare funzionalità alla struttura portuale di Brindisi prevedeva la realizzazione di un canale, che mettesse in comunicazione il porto interiore col porto esteriore, e la bonifica delle principali paludi, vale a dire quella delle Torrette, che era nei pressi della foce del canale, e di quella di Porta Lecce o di Ponte Piccolo, che si trovava all’estremità nel seno di Levante. In questo modo Pigonati riteneva di rendere navigabile il porto interno e di risanare le condizioni ambientali della città. Quindi tutta una serie di lavori che l’ingegnere siracusano condusse con molto zelo tanto che, in poco più di due anni d’intensa attività, riuscì a far scavare un nuovo canale di collegamento (di fatto quello poi a lui intitolato); a colmare le principali paludi; a risanare il molo di porta Reale e, quel che più conta, ad aprire il cuore dei Brindisini alla speranza. Speranze che, come ben sappiamo, andarono ben presto deluse, ma, a differenza di quanto narrato nelle ricostruzioni approssimative di buona parte della cronachistica locale, non tutta la colpa dei successivi guasti è da ascriversi all’ingegnere borbonico, verificato che nei fatti concorse in maniera non banale la mancata manutenzione ordinaria da parte delle autorità locali15. Comunque sia, dopo nemmeno un decennio, il porto interno ripiombò nei suoi soliti problemi.

Il primo a lanciare specifiche accuse sull’operato di Pigonati fu Ferrando Ascoli che, riprendendo una critica fatta dall’ingegnere Tironi quando peraltro era già ritenuta priva di ogni fondamento, affermava in maniera categorica che Pigonati aveva commesso un errore colossale nell’orientare l’imboccatura del canale da lui scavato verso greco-levante, mentre avrebbe dovuto disporla nella direzione di greco «per metterla al riparo da ogni traversia e da ogni interrimento»16. Il che era in parte corretto per quanto riguarda le traversie, ma del tutto fantasioso riguardo all’interrimento che si era nel frattempo appurato non dipendeva dalla direzione del canale ma da cause del tutto naturali. Tuttavia, poiché questa storiella, diffusasi acriticamente da un cronista all’altro, passa ancora per buona, è tuttora convinzione comune che Ascoli avesse tutte le ragione del mondo ad incolpare Pigonati d’aver sbagliato i calcoli e che il canale s’insabbiasse proprio a causa dell’orientamento che lui gli aveva impresso. Per questo il buon Pigonati passa ancora adesso per un povero sprovveduto, mentre era un tecnico che gli stessi Brindisini, che avevano avuto modo di conoscerlo, apprezzavano soprattutto per la sua onestà17.

 

Nella realtà, era l’approccio al problema ad essere sbagliato, e quantomeno l’ingegnere siracusano, essendo il primo ad averlo affrontato, non poté contare su esperienze pregresse, a differenza di tutti gli altri che, sino a quando nel 1861 non si trovò la soluzione, perseverarono nel commettere gli stessi errori e non ottennero certo risultati migliori dei suoi. Ciò nonostante, Pigonati viene sempre presentato come l’unico responsabile di ottant’anni di insuccessi che, invece, accomunarono molti tecnici borbonici e non. Sarà magari stato per questa consuetudine a crederlo capace dei più banali errori che non c’è nefandezza, perpetrata in quel torno di tempo, che non gli venga inevitabilmente addossata.

Oltre all’errore della direzione del canale, di cui il lettore interessato potrà trovare tutti i dettagli in un mio precedente intervento18, Pigonati è accusato della demolizione di antiche costruzioni e di disastri ambientali.

Per quanto concerne i beni architettonici, in quegli anni sparirono infatti dallo scenario cittadino due antiche costruzioni: Porta Reale, che si trovava non molto lontana dai Giardinetti, e la chiesa di Santa Maria de Parvo ponte, che era dalle parti di Porta Lecce. Ebbene i più raccontano che Pigonati, avendo bisogno di pietre per mandare avanti i suoi lavori, se l’era procurate demolendo entrambi i monumenti. Non solo, sempre per lo stesso motivo, si dice avesse fatto abbattere una delle due torrette angioine, alle cui fondamenta si attribuisce la fantasiosa origine della secca, chiamata anch’essa angioina, che solo le mine riuscirono in seguito a distruggere; in questo caso, oltre a depauperare la città d’un bene artistico, Pigonati avrebbe causato anche un dissesto ambientale. Di malefatta in malefatta qualcuno è stato capace di narrare che persino ponte Grande, ancora in piedi quando l’ingegnere faceva da decenni parte del mondo dei più, fosse stato da lui demolito, quasi che anche da morto vagasse per le strade di Brindisi alla ricerca di pietre per il suo canale. Il che rientra nel nostro radicato vezzo di trovare un capro espiatorio a tutti i costi: capitò lo scorso secolo negli anni Cinquanta per la demolizione del parco della Rimembranza e del teatro Verdi (colpevole il “ciclone” che, in effetti, arrivò solo a proposito); negli anni Sessanta per gli scompensi edilizi e la mancata edificazione del nuovo teatro (colpevole un costruttore che i sussurri malevoli dicono abbia goduto di presunti privilegi per aver portato la locale squadra di calcio in serie B); in maniera simile, a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, l’Attila di turno fu appunto Pigonati. Eppure ci vorrà poco per dimostrare tutte queste accuse destituite di fondamento e scagionare così Pigonati dall’aver compiuto i disastri di cui lo si biasima senza ragione.

Iniziamo da porta Reale che, in effetti, scomparve in modo misterioso dallo scenario del porto brindisino insieme al suo molo proprio in quel periodo, tuttavia, i dati in nostro possesso discolpano del tutto l’ingegnere dell’amministrazione borbonica. L’ultima volta che un documento cita la famosa porta è nel riepilogo contenuto nella “Cronaca dei Sindaci di Brindisi” sui lavori fatti da Pigonati specificatamente su quelli realizzati sul canale e sui suoi argini, a conclusione di tutto l’intervento di ripristino del porto. Viene infatti riportato che i lavori, terminati con la posa dell’ultima pietra il 26 novembre 1778, erano stati iniziati sui moli del canale in maggio dello stesso anno con materiale (pietre) ricavato dalle case «della Corte, vicino la porta Reale»19. Quindi non solo qui è precisato dove Pigonati si era rifornito delle pietre necessarie «per il fabbrico del gran canale»20 ma è anche espressamente indicato che porta Reale era ancora bella e in piedi alla fine dei suoi lavori.

 

D’altra parte c’è il famoso dipinto di Jakob Philipp Hackert, “Baja e porto di Brindisi”del 1789 (figura n. 3), a confermarlo ritraendo il molo di porta Reale in piena attività, mentre le botti di olio vengono caricate sulle barche per poi essere trasportate sino alla Cala delle Navi nel porto esteriore dov’erano infine trasbordate sui bastimenti. La porta era così ancora in piedi ad oltre dieci anni dal compimento dei lavori di Pigonati. Da quel momento in poi della porta Reale non si ha più notizia ed è dalla mappa, ”Pianta della città, porto e rada di Brindisi” (figura n. 4), disegnata nel 1811 da Vincenzo Tironi, che il monumento ed il suo molo non vengono più citati. La demolizione avviene quindi tra il 1879 ed il 1811. Quando e perché, è difficile dirlo con precisione, non essendoci riscontri oggettivi. È però ugualmente possibile formulare un’ipotesi del tutto verosimile e coerente con il successivo svolgimento dei fatti.

 

Il tentativo di Pigonati non aveva sortito gli effetti sperati e già circa dieci anni dopo, mentre Hackert lavorava al dipinto, se ne  avviò uno nuovo di cui fu incaricato l’ingegnere Carlo Pollio. Ebbene, tra le opere realizzate da Pollio ci furono, nei pressi di porta Reale, la costruzione «della deputazione di sanità, che volle chiamare lazzaretto»; il riadattamento della strada del canale di scolo della Mena, poi rialzata sul livello delle acque del porto e che diede origine alla strada Carolina, poi divenuta corso Garibaldi, e l’edificazione d’un tratto di banchina «a cominciare dalla Sanità o lazzaretto verso ponte Grande per una lunghezza di canne 250»21. Con ogni probabilità il rialzamento del piano stradale della Mena, congiunto alla banchina costruita dalla Sanità verso ponente per più di 500 metri, dovette costare il sacrificio della porta Reale che si trovava appunto lungo le direttrici dei lavori. In merito, non ho potuto trovare documenti che l’attestino, tuttavia è questa l’ipotesi più plausibile, visto che è certo che porta Reale scompare tra il ritratto di Hackert e la mappa di Tironi e che, in quel ventennio, le uniche opere di rilievo effettuate su quella zona del porto sono quelle realizzate dal Pollio.

Secondo la cronachistica bene informata, nel corso del risanamento della palude che si trovava nell’estremo ramo di levante, sempre per penuria di materiale da costruzione, Pigonati abbatté poi attorno al 1777 la pregevole chiesa di Santa Maria de Parvo ponte. Questa  chiesa, che si trovava sulla strada che da porta Lecce conduceva fuori le mura della città a quello che era appunto il Ponte Piccolo (Parvo ponte), era stata edificata nel XII secolo grazie alle sovvenzioni del famoso ammiraglio Margarito da Brindisi. Già «diruta» ai tempi dei lavori dell’ingegnere siracusano è citata anch’essa nella “Cronaca dei Sindaci di Brindisi” quando si descrivono gli effetti benefici dei lavori di sanificazione compiuti nella zona dal «direttore del porto, d. Andrea Pigonati… fuori la porta di Lecce, e la chiesa nominata del Ponte, avendone avuto grande utile per l’aria la città»22. Quindi anche in questo caso è certificato che la struttura esisteva ancora, una volta colmata la palude che l’ospitava. In aggiunta la chiesa compare, sempre “diruta” circa trent’anni dopo nella mappa del Tironi (figura n. 5) e quindi non è stata certo smantellata da Pigonati.

 

Con ogni probabilità, la chiesa di Santa Maria de Parvo ponte fu demolita un poco alla volta, come avveniva a quei tempi per tutti gli edifici in rovina. Si deve infatti considerare che allora era usuale adoperare nelle costruzioni materiali di risulta, e che chi ne aveva bisogno faceva man bassa di pietre dalle costruzioni abbandonate perché in disfacimento.

 

Allo stesso modo, Pigonati è del tutto incolpevole anche per la distruzione di ponte Grande, non fosse altro perché in quella zona non ebbe neppure modo di operare. D’altra parte Ponte Grande risulta ancora in funzione nella mappa del Tironi e nella cartografia anche successiva, quantomeno sino alla carta di Benedetto Marzolla (figura n. 6) — redatta forse nei primi anni Quaranta dell’Ottocento — e rimase con ogni probabilità in piedi finché usato per superare la vallata omonima. Quando le acque e la palude di quella zona furono canalizzate (all’incirca tra il 1858 ed il 1862) e fu successivamente creato un nuovo invaso, non servendo più, il ponte fu con ogni probabilità demolito. Difficile poter dire con esattezza però quando e ad opera di chi. Dubito per altro che la sua struttura fosse, come taluni dicono, di epoca romana. In ogni caso sopravvisse molti decenni all’ingegnere siracusano.

Ai tempi dell’intervento di Pigonati, sulle opposte sponde del vecchio canale Angioino, si trovavano i resti delle due torrette costruite dagli Angioini nel lontano 1279 per impedire che la città fosse attaccata con truppe da sbarco dalla parte del mare. La più grande, fabbricata sulla riva di ponente, era originariamente collegata all’altra torretta con una catena che, in caso di bisogno, un congegno tendeva in modo da precludere l’accesso al porto interno. Con il passare del tempo simili metodi di difesa divennero anacronistici e le due torri subirono successivi riadattamenti, tant’è che Pigonati, all’iniziò dei suoi lavori, attesta ancora l’esistenza della maggiore — risistemata però per alloggiare le guardie della dogana — ed i soli «avanzi»23 di quella edificata a levante. Il dipinto di Hackert evidenzia l’integrità della torretta adattata a dogana e, sulla riva opposta, la presenza dei resti dell’altra torretta, ben un decennio dopo la conclusione delle opere del Pigonati. Questa testimonianza grafica può quindi essere usata per confutare una surreale ipotesi avanzata da Ferrando Ascoli, nell’ultimo ventennio dell’Ottocento.

Afferma appunto l’Ascoli che Pigonati, nel fabbricare il molo a ponente del canale, trovatosi in difficoltà per la penuria di materiale, «impiegò le pietre estratte dalla diruta casa della Torretta fabbricata dagli Angioini»24. E poi prosegue: «Di questa torretta rimasero le fondamenta che aperto il canale, furono intieramente ricoperte dalle acque, formarono col tempo una secca abbastanza estesa, chiamata secca Angioina»25. In definitiva, a detta dell’Ascoli, la secca, che sarebbe divenuta in effetti fonte di gravi alterazioni per l’agibilità del porto brindisino, era diretta conseguenza di uno dei tanti errori compiuti dal Pigonati, a cui doveva quindi addebitarsi anche questo ulteriore guasto.

Già lo stesso interessato aveva precisato d’aver sopperito alla mancanza di materiale con il «cavar pietre dall’isoletta»26, vale a dire dall’isola Angioina, ma le affermazioni dell’Ascoli sono come visto palesemente smentite pure dal dipinto di Hackert. La cosa ancor più curiosa è che tutti i successivi autori, ritenendo la supposizione dell’Ascoli credibile, l’hanno propagata sino a farla passare per una delle tante verità incontrovertibili.

Eppure, dovrebbe essere noto agli addetti ai lavori che il canale Angioino fu preservato da Pigonati non per il transito ma al solo fine di agevolare lo scorrimento delle acque e non sconvolgere il naturale flusso delle correnti. In pratica era stato solo ripulito ed aveva quindi un fondale basso per altro intervallato, dove cambiava direzione, da un rialto (n. 6, figura 2) che lo rendeva impraticabile anche alle barchette. Se poi si tiene conto che era il luogo più soggetto ad insabbiarsi, gli allagamenti erano in effetti un evento quasi del tutto impossibile. In ogni caso, il dipinto di Hackert smentirebbe già di per sé le supposizioni fantasiose dell’Ascoli ma, in merito, ancora più eloquente appare la documentazione disponibile.

 

La cartografia della seconda metà del XIX secolo ha infatti rappresentato in maniera chiara la situazione che s’era creata nel porto brindisino ed è pertanto sufficiente esaminare una qualsiasi pianta dell’epoca per ricavare che la secca Angioina, oltre ad essere molto estesa, si trovava proprio nel punto in cui sino a poco tempo prima era posizionata l’isola Angioina ed i suoi estesi bassi fondali (n. 7 della mappa di Tironi). È quanto emerge in tutta la sua evidenza in un particolare del “Piano generale del porto di Brindisi” del 1866 (figura n. 7): la secca ha due lati ampi più di cento metri ciascuno ed è disegnata proprio dove una volta c’era l’isoletta omonima. Appare a questo punto ovvio che le fondamenta di una torretta alta pochi metri non avrebbero mai potuto generare una secca di simile sviluppo, la cui origine era molto più semplicemente dovuta ai lavori per l’abbassamento dell’isola Angioina iniziati formalmente nel 184227 e conclusisi ben oltre il 1860. È infatti nelle mappe di quegli anni che nello scenario del porto brindisino la secca incominciò a prendere il posto dell’isoletta. Non fu quindi la mania demolitrice del Pigonati a crearla, per il semplice motivo che questa preesisteva, come si evidenzia pure dal disegno di Tironi, e fu in seguito ampliata dal «profondamento dell’isola Angioina», come si desume con precisione da una relazione di metà Ottocento28. Scavata quindi sino a restare poco al di sotto della superficie del mare, l’isola Angioina ed i bassi fondali vicini non potevano che trasformarsi in secca. Con buona pace della bizzarra versione dell’Ascoli che, anche in tempi recenti, trova numerose adesioni.

(1 – continua)

 

 

 

 

 

 

 

Note

1 Strabone (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, VI 3, 6.

2 Sino ad i lavori iniziati tra il 1863 ed il 1864, la rada aveva tre possibili ingressi: la Bocca di Puglia, spazio ora occupato dalla diga che congiunge la cala Materdomini all’isola di Sant’Andrea; lo spazio tra Forte a Mare e le Pedagne e il passaggio dei Trapanelli, anch’esso ora occupato da una diga.

3 C. Porzio, Relazione del regno di Napoli al marchese di Mondesciar, viceré di Napoli, tra il 1577 e 1579,  in Collezione di opere inedite o rare di storia napoletana, Officina tipografica, Napoli 1839,  pp. 17 e 18.

4 Ibidem, p. 18.

5 Ibidem, p. 19.

6 Ibidem, p. 19.

7 Gellio (II secolo d.C), Notti attiche, XI 17.

8 Columella (I secolo d.C), Res Rustica, I 4.

9 A. Pigonati, Memoria del riaprimento del porto di Brindisi sotto il Regno di Ferdinando IV, Michele Morelli, Napoli 1781, p. 12.

10  D. Rovegno, Rappresentanza dell’Arcivescovo di Brindisi al Re per l’apertura del porto, Manoscritto ms_L1, Miscellanearum Tomus I, Biblioteca pubblica arcivescovile “A. de Leo”, Brindisi, 193v.

11 Ibidem, 193r.

12 Ibidem, 194r.

13 Ibidem.

14 N. Valente, Quando Pigonati scavò il canale nel porto di Brindisi, “Il7 Magazine”, Brindisi 2022, n. 254, pp. 36-39.

15 N. Valente, Il porto di Brindisi: la favola di come il canale andava orientato, “Il7 Magazine”, Brindisi 2022, n. 255, pp. 30 e 31.

16 F. Ascoli, La storia di Brindisi, Forni editore, Sala Bolognese 1981, p. 371.

17 Anonimo, Sulle opere del porto di Brindisi eseguite sotto la direzione del tenente colonnello Albino Mayo, Brindisi s.d. In questo pamphlet dell’Ottocento, redatto da Brindisini inviperiti contro i tecnici borbonici per le ruberie da loro perpetrate, Pigonati viene presentato come uno dei pochi funzionari onesti.

18 N. Valente, Il porto di Brindisi: la favola di come il canale andava orientato, “Il7 Magazine”, Brindisi 2022, n. 255, p. 33; N. Valente, La lunga agonia del porto interno di Brindisi, “Il7 Magazine”, Brindisi 2022, n. 256, p. 34.

19 P. Cagnes – N. Scalese, Cronaca dei sindaci di Brindisi (1529 – 1787), A cura di R. Jurlaro, Amici della “A. De Leo”, Brindisi 1978, p. 460.

20 Ibidem.

 21 F. Ascoli, Cit., p. 373.

22 P. Cagnes – N. Scalese, Cit., pp. 459 e 460.

23 A. Pigonati, Cit, p. 12.

 24  F. Ascoli, Cit., p. 367.

25 Ibidem.

26 A. Pigonati, Cit, p. 72.

27 S. Morelli, Brindisi e Ferdinando II o il passato, il presente e l’avvenire di Brindisi, Del Vecchio, Lecce 1848, p. 118.

28 l. Giordano, Intorno alla struttura di un nuovo porto in Bar”, Fratelli Cannone, Bari 1853, p. 26.

I Martiri di Otranto

 

di Giovanni Maria Scupola,

Per comprendere al meglio l’eccidio dei martiri otrantini è opportuno inquadrarlo nel tempo e nella tradizione, la cui conoscenza appare fondamentale a spiegare il motivo per cui la popolazione idruntina preferisce la morte piuttosto che rinnegare la propria fede.

Il 13 agosto di ogni anno, Otranto ricorda con una grande e suggestiva celebrazione i suoi Martiri uccisi nel 1480.

Il significato è da ricercare nella storia, facendo esattamente un salto alla prima metà del 1400, quando il sultano Maometto II, iniziò un progetto volto alla realizzazione di un grande Impero Ottomano e, per il raggiungimento di tale disegno bellico, era basilare conquistare nuovi territori, tra cui la provincia di Otranto.

Come tristemente auspicato, il 27 luglio del 1480 l’Impero Ottomano approdò con alcune delle proprie imbarcazioni nei pressi di Roca e l’esercito idruntino uscì dalla città per affrontare i Turchi nei pressi dei Laghi Alimini.

Gli abitanti furono abbandonati al loro triste destino e le milizie turche iniziarono ad attaccare la città. La popolazione riuscì a resistere per 14 giorni e l’11 agosto del 1480 i turchi riuscirono ad entrare nel paese.
Gli abitatori, sospinti da una solida fede religiosa, si consegnarono nelle mani del nemico affermando di voler morire in onore della fede di Cristo e così, all’interno della cattedrale, si consumò una delle carneficine più terribili.

Circa 813 sopravvissuti all’eccidio dopo essersi rifiutati di ripudiare la propria religione, furono condotti sul colle della Minerva e decapitati su una pietra.

Il primo a subire questa fine atroce fu un anziano tessitore, Antonio Pezzulla: fu il primo a venire decapitato, motivo per cui fu soprannominato Primaldo.
In seguito a questa infausta vicenda storica furono riconosciuti ufficialmente Martiri della Chiesa ed i resti, si trovano tutt’oggi disposti in sette grandi teche in legno nella Cappella dei Martiri ricavata nell’abside all’interno della Cattedrale.

Furono, altresì, dichiarati beati il 14 dicembre 1771 da Papa Clemente XIV e canonizzati il 12 maggio 2013 da Papa Francesco.

La loro memoria liturgica ricorre il 14 agosto, tranne che nella diocesi di Napoli, che ospita le reliquie di circa 250 di essi e che li onora ogni 13 agosto.

Libri| Il Salento dei primi del ‘900

Una macchina del tempo in forma di libro: Il Salento dei primi del ‘900 di Palumbo e Resta

 

di Giuseppe Corvaglia

Già nel 2021, leggendo il libro di Eugenio Imbriani “Fiabe e canti dell’antica Terra d’Otranto “, avevo scoperto le meravigliose fotografie di Giuseppe Palumbo  e oggi le Edizioni Grifo ce ne offrono una antologia quasi completa nel libro “Il Salento nel Novecento – Come eravamo nelle immagini di ieri”.

San Foca : pescatore nel vano di una grotta 1925 (AFP 681)

 

Il libro, oltre alle presentazioni di Luigi de Luca e all’introduzione di Hervè Cavalera, si arricchisce di uno scritto di Antonio Resta che spiega in maniera efficace quello che potrebbe sembrare un film, ma che, invece, è un vero e proprio viaggio nel tempo in un mondo apparentemente lontano, ma non così distante.
Chi ha la mia età alcune di quelle immagini se le ricorda (ricordo le strade sterrate e le ginocchia sbucciate); altre emergono dai ricordi dei racconti degli anziani.

E se il pregio del libro può  sembrare la sontuosa raccolta di foto che ci mostrano luoghi, volti e vita del Salento nella prima metà del ‘900, lo scritto di Antonio Resta è significativo e davvero bellissimo perché descrive quella vita e quella società contadina che ci mostrano le foto fin nel più minimo dettaglio.

Il telaio a mano nelle borgate del Salento 1920 (AFP 853)

 

Uno dei pregi di questo libro, come detto, sta nella collezione di foto, ma è particolarmente importante anche la loro genesi.

Giuseppe Palumbo, con una sensibilità e una perspicacia non comuni, vede questo mondo che sembra abbia una sua solidità,  una sua immutabilità e invece si appresta a scomparire e a mutare sia che si tratti degli uomini che lo popolano, sia che si tratti di luoghi.

Allora prende macchina fotografica e bicicletta (ma non solo) e gira il Salento a immortalare luoghi e volti, monumenti e situazioni, oggetti e natura.

Lecce: piazza S. Oronzo come si presentava prima dell’attuale sistemazione. 1923 (AFP 101)

 

Quelle foto, fatte nell’arco di diversi decenni, le offrirà al Museo Castromediano a costituire un archivio fra i più completi e un documento prezioso frutto della sua curiosità ma anche della consapevolezza di cui parlavo prima.

Attento ai luoghi trasformati dal tempo e dalle intemperie, ma anche dall’incuria, attento pure alla Natura mirabile sia quando la doma l’uomo sia quando da esso non si fa domare, Palumbo non resiste a immortalare anche gli abitanti di quei luoghi catturando negli sguardi, nelle posture e negli atteggiamenti, sensazioni, stupore, rabbia, gioie, dolori e dignità.

Impasto della creta all’interno di un’officina . 1919 (AFP 869)

 

Ed ecco un documentario in bianco e nero, senza sonoro che, però, parla… eccome se parla!
Il testo di Resta davanti a quella mole di immagini potrebbe sembrare un corollario e invece è parte indispensabile di quella macchina del tempo con tutta la sua complessa descrizione, fatta di odori, sapori, suoni quasi percepibili nella descrizione, che associata alle immagini riporta proprio fisicamente in quei luoghi, e fa rivivere eventi di normale quotidianità o anche inusuali o ancora straordinari.
E lo fa con una cura delle informazioni, con una meticolosa sistematicità, con una esaustività per ogni argomento trattato di quella povera vita, che sono davvero mirabili.

Inizia con discrezione a  raccontare la vita di tutti i giorni del Salento dei primi anni del ‘900, una vita povera, molto distante da quella che viviamo noi, ma poi ci accorgiamo che ce la descrive senza trascurare alcun aspetto e lo fa con tratti, mi verrebbe da dire pennellate, essenziali, senza fronzoli, ma efficacissime.

 

Parla del ciclo della vita e della morte, ma anche del desinare, del lavoro nei campi, di come i contadini si procuravano quel lavoro, di cosa facevano le donne, di come giocavano i bambini di come passavano il tempo i grandi con immagini che a qualcuno, in qualche caso, potrebbero sembrare manchevoli di qualcosa, ma che, a ben vedere, vanno a trattare con efficacia tutti, ma proprio tutti, gli aspetti.
Approfondirli tutti (come lo stesso autore ha fatto per i giochi di una volta in un libro dello stesso editore) avrebbe reso il testo un “mattone” interessante, più esauriente, ma non così gradevole.
Il libro si legge tutto d’un fiato ed è davvero una lettura divertente; subito dopo ci si sente contenti di averlo letto ma ne vorremmo ancora. Allora al lettore, che comprende che si è parlato di tutto, che ha visto la gran parte di cose che pensava perdute, non resta che sfogliarlo di nuovo per rivedere le immagini e  leggere qualche passo, rinnovando il godimento.

Dal mio punto di vista penso che sia un libro da leggere per ogni salentino per almeno due ragioni. Una è intuibile: se non conosci le tue radici, anche quando queste sono scomode,  non hai una tua identità.

Contadini intenti ad infilzare la foglia 1924 (AFP 774)

 

E conoscere le proprie radici non vuol dire vagheggiare un ritorno al passato, ma vuol dire riflettere sul presente, capire cosa c’era di buono del passato che abbiamo buttato via e che potremmo recuperare e quali delle cose belle del presente  sono valori da custodire e quali, pur sembrando allettanti piaceri o vantaggi fugaci, si rivelano poi disvalori o rischi dissennati per la nostra felicità e il nostro benessere.

 

La seconda ragione, non meno importante, è che una lettura, non dico attenta, ma utile, ci farebbe vedere che la condizione dei nostri nonni in termini di diritti umani e soprusi, di livello culturale e di credenze, di restrizioni sociali e di condizioni igieniche, di libertà e di benessere, non era molto diversa da quella di popolazioni che, con dispregio, etichettiamo come arretrate, incivili, barbare, rimaste ancora nel Medioevo e se leggiamo questo libro capiremo che nel Medioevo, nella inciviltà e nella arretratezza c’erano i nostri nonni, quelli che ci tenevano sulle ginocchia a farci galoppare con ” hoppi, hoppi cavallucciu…”

Maglie Edificio del Liceo Ginnasio Capece 1928 (AFP 280)

 

Se capissimo questo forse non saremmo più censori spietati nel giudicare quegli uomini e quelle donne e li capiremmo quando decidono di partire o di lasciar  partire i propri figli esponendoli a pericoli potenzialmente mortali e allora, forse, saremmo non dico più benevoli, ma almeno più cauti nel giudizio.
Il libro costa 10 euro in edicola con Il Quotidiano e penso che sia una operazione editoriale meritoria per chi come l’editore Grifo e il Quotidiano,  trova questi tesori e ce li mette a disposizione per poterne fruire comodamente.

Note sul pittore Gioacchino Toma

 

di Giovanni Maria Scupola

La personalità artistica di Gioacchino Toma, originario di Galatina, ove nasce nel 1836, caratterizzata da una spasmodica ricerca del vero e delle diverse sfaccettature della psiche umana, risente molto del dolore e della malinconia legati al ricordo degli anni infausti dell’infanzia e dell’adolescenza.

Rimasto orfano, a soli 6 anni, sia di padre che di madre, nel 1853 viene accolto presso il Regio Ospizio di Giovinazzo nel barese, dove frequenta un’illustre scuola d’arte sotto la guida del napoletano Nicola Ricciardi, e si avvia alla decorazione ed alla pittura.

Intorno alla metà degli anni Cinquanta del XIX secolo, ritorna nel Salento, dove inizia la sua vera e propria carriera artistica, dipingendo su committenza ritratti di aristocratici, borghesi ed opere a tema religioso.

Nel 1856 Toma si reca a Napoli, dove frequenta le botteghe di Gennaro Guglielmi e di Alessandro Fergola (per quest’ultimo realizzerà “trasparenti” ossia tende da finestre, parzialmente decorate con arabeschi, paesaggi o figure), subendo successivamente l’influenza pittorica di noti artisti come Filippo Palazzi e Domenico Morelli.

Particolarmente impegnato nelle lotte risorgimentali contro il regime borbonico di Napoli, viene arrestato per ben due volte, confinato a San Gregorio Matese presso Caserta e a Piedimonte d’Alife, poi imprigionato ad Isernia.
Una volta liberato dall’esercito garibaldino, nel 1878, viene chiamato da Domenico Morelli per insegnare disegno presso il prestigioso Istituto di Belle Arti di Napoli.

Da quest’ultima esperienza trae l’impulso ad abbandonare la pittura accademica spinto dal forte bisogno di narrare la realtà circostante: “Un prete rivoluzionario” (1861), “I figli del popolo” (1862).

Agli anni Settanta risalgono celebri ritratti di donne aristocratiche come “Luisa San Felice in carcere”, una delle principali protagoniste della rivoluzione napoletana del 1799 morta sul patibolo.

Nell’ultima fase della sua carriera, dipinge paesaggi, marine, ville e case rustiche campane, vedute di Napoli e del Vesuvio in varie ore del giorno.

In queste opere, sembra aderire alla lezione dei macchiaioli e degli impressionisti parigini della seconda metà del XIX secolo mettendo in evidenza l’interiorità e la profondità dell’animo del soggetto rappresentato.

Il pittore del grigio, tra i protagonisti dell’Ottocento napoletano, muore a Napoli nel gennaio del 1891 a soli 55 anni.

Libri| Ossi di parole in “Malesciana” di Giacomo Giancane

 

di Renato De Capua

“E fu un sogno inatteso vedere

le cinque punte di una rondine

tramutarsi in una stella”

(G. Giancane, Il Pompelmo, da Malesciana)

 

“Malesciana”[1] è il titolo del primo album poetico di Giacomo Giancane, giovane autore salentino che nella sua poesia esprime un’attenta osservazione del territorio: le bellezze naturali, i costumi e le atmosfere del Salento, divengono lo spunto per una riflessione di ampio respiro sull’esistenza e sulle istanze dell’umano.

Il libro, in un crescendo emozionale, è una confessione d’amore, un atto di fede verso la propria terra che, sin dalla dedica posta in limine alla raccolta, viene definita “amata terra a sud del sud”.

Il dato geografico è importante per muovere i primi passi all’interno degli orizzonti poetici di questa silloge: siamo nel Salento, nei paesi e nella terra più a sud della penisola italiana; chi li abita può riconoscersi facilmente nelle descrizioni e ritrovarsi tra quelle vie scandite dalla pulsazione di una “vita che ribolle in quelle ore” (v.6 “Le spighe) e si dipana e poi s’infrange “sulla falce della luce” (v. 11).

L’idea di fondo della concezione del tempo che emerge dalle poesie, può essere esemplificata attraverso l’arco della vita di un frutto; il poeta per indicarne lo sviluppo non usa il verbo “crescere”, ma “maturare”, poiché l’idea della maturazione va più facilmente incontro allo scacco dell’esistenza[2]. Un frutto deve essere colto nel giusto tempo, proprio come le opportunità della vita, altrimenti si spezza, recide il legame con la pianta da cui è stato generato, cade e si perde tra le zolle sottostanti.

Il tempo è quindi percepito come effimero, mutevole, sfuggente come la “brevità dei fiori”, altra immagine[3] che si presta a una descrizione fugace di quello che è il fluire degli eventi attorno a noi. Se da un lato i fiori adornano col loro sguardo la nostra vista, dall’altro ci ricordano che tutto è cangiante e transitorio; intenso sì, ma pur sempre breve nell’estensione.

Si leggano i vv. 6-8 di “Simulacri” (pag. 12), nel prosieguo della nostra trattazione.

“Abito ogni cosa che rimane

Un giardino conchiuso nella ruggine,

un paese sgominato dalla polvere.”

 

Il nostro viaggio è partito da un dato geografico e dall’estremo sud, ma questi versi ci inducono a trascenderlo e disancorarci da uno spazio determinato, perché il poeta e la poesia abitano ogni cosa che rimane; il canto si eleva, diviene memoria, un simulacro; oltrepassa le barriere e s’insinua tra molteplici scenari.

La poesia attraversa i luoghi, è parte costituente di essi e non a caso proprio la parola “paese” trova dimora numerose volte nel corso dell’opera. Innanzitutto fa da sfondo a ogni suggestione catturata e tradotta in parola: è speranza e attesa (“tornerò nel mio paese” pag. 9 v.1); è la personificazione di un Padre che attende il ritorno del proprio figlio (“Padre mio paese mio” v. 1 pag. 20); è intimo raccoglimento (“il sole è tardo/sul paese che prega” vv.1-3 pag. 23); è lentezza schiacciante e rarefatta (nel lento paese/ dove presto guastano/i gelsi vv. 3-5 pag. 53).

È una realtà complessa, da narrare con “parole striminzite”, intrise dall’arsura del sole, ma estremamente precise e veritiere.

La scelta delle parole, infatti, non è mai approssimativa, ma designa un aspetto particolare; rende tangibile il silenzio del meriggio in cui un cane riposa raggomitolato su se stesso (l’autore usa il termine “letargo” per rendere l’idea[4]); evoca mediante ardite analogie l’avverarsi del possibile o, perlomeno, di ciò che la mente costruisce e rappresenta, come si legge ai vv. 3-5 di “Lecce, Via Beccherie Vecchie”:

“nell’ora stellata di geranio

S’odono le rondini

Leggere il Corano”.

 

Immaginiamo un borgo antico in estate e sul far della sera, quando i gerani emanano il profumo alacre dalle loro foglie misto a quello dei fiori. Le rondini in stormo passano e creano forme nel cielo, e l’immaginazione rende a parole il loro canto.

Un altro aspetto determinante è la condizione del poeta espressa in “Malesciana”. Egli è la voce del suo paesaggio; mediante l’uso di un’efficace metafora animale e iconografica, il poeta viene paragonato a un geco guardingo e solitario nel suo angolo e a un geroglifico, simbolo accattivante di un tempo remoto ma criptico e talvolta non immediatamente decodificabile[5].

In questa raffigurazione della figura del poeta, ritornano echi della letteratura; si pensi a Baudelaire e all’Albatro de “I fiori del male” che ci ricorda i limiti che l’uomo può imporre all’arbitrio della parola poetica: anche se si hanno grandi ali, se queste sono avvinte e derise da una fune, non si può spiccare il volo. Ricordiamo anche Aldo Palazzeschi che in una sua nota lirica, “Chi sono?”, prova a definire la figura stessa del poeta, partendo da se stesso e concludendo di essere il saltimbanco della sua stessa anima.

Su questa linea di pensiero, ma con un tocco di leggero ottimismo si ritrova in “Testamento” di Giancane l’idea di un poeta che riesce a esorcizzare se stesso, proiettandosi nel tempo “ tra i posteri/ a nutrire con la torba dei versi/ la sete dei frutteti futuri” (vv.10-12).

Tra il bilico dell’incertezza e del limite, è sicuro che ogni tempo ha bisogno del suo racconto, delle sue voci, dei suoi poeti.

Non si possono raccogliere buoni frutti, senza che qualcuno si prenda cura degli alberi che li producono; così è per gli uomini che senza la letteratura stenterebbero a trovare le parole e si sentirebbero ancor più soli.

Il titolo dell’opera di per sé incuriosisce. La parola “malesciana” è in dialetto salentino ed è composta a sua volta da due sostantivi tra loro accostati, “male” (usato come prefisso conferente un’accezione negativa al termine) e “sciana” (parola che significa “umore, disposizione”; ma anche “stato dell’anima”).

Una traduzione letterale del termine con “cattivo umore/ stato turbato dell’anima”, sarebbe un azzardo un po’ goffo, perché “malesciana” in poesia si carica di significati ulteriori.

È un concetto accostabile al male di vivere montaliano che lotta e prova a esprimere la propria insofferenza in un mondo che bada troppo alle apparenze; è lo spleen malinconico di Baudelaire che vuole imprimere un cambiamento alla realtà, ma non sempre ci riesce e ne rimane devastato.

Quindi la “malesciana” di Giancane è una preghiera e un auspicio, che si dissimula nella pienezza di un sole “che muore sulla biada del mare” (v. 5 “La malesciana” pag. 8).

La lingua che il poeta sceglie di adoperare è media e talvolta settoriale; parla del quotidiano, ma gli conferisce una declinazione precisa nelle consapevolezze delle proprie modalità espressive.

C’è un’attenzione al fonosimbolismo delle parole, che nel suono padroneggiano il verso. Ad esempio il vento dà voce e movimento alle mandorle, “facendole vibrare come chitarre”.

Alcuni termini dialettali vengono poi armoniosamente accostati a quelli italiani, quasi da renderne difficile la distinzione.

Ad esempio in “Le spighe” si trova l’espressione perifrastica “vado scerrando”, che risulta indefinita ma dinamica e progressiva. Il termine “scerrare” significa dimenticare e in questo caso la progressione della dimenticanza, è restituita dall’idea di volersi lasciare tutto alle spalle per sentirsi più leggeri e perdersi e confondersi nella luce.

Un altro dialettismo presente nella stessa lirica è il termine “friculare”, coniugato all’infinito, modo dell’estensione e della distensione dell’azione. Esso significa sfregare, strofinare, ma anche “darsi da fare”, “occuparsi di più cose”.

L’immagine delle spighe che tra loro “friculano” rende ambedue le accezioni del termine: il suono dello sfregamento reciproco, l’idea di una vegetazione che cresce “e s’affretta, e s’adopra/ di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba”, forse avrebbe detto Leopardi[6].

Il viaggio all’interno di un’opera letteraria conduce sempre a molteplici conclusioni, a strade che mai si chiudono e sempre sorgono nuove e sconfinate. Ognuno, leggendo quest’opera, troverà la propria voce o le parole per esprimerla, perché il senso dello scrivere è quello di tessere legami tra gli uomini.

È un invito al viaggio, a tornare “in questa malaugurata piana”, a scoprirla con occhi nuovi senza timore.

Chi decide di restare fermo a guardare e ha paura di meravigliarsi, potrebbe rimanere immobile “come aprili incastrati/ in una muraglia d’inverni”[7]. Leggere questa raccolta può condurci a sud del sud o ovunque vorremmo essere.

 

 

Giacomo Giancane nasce e vive nel Salento e inizia a dedicarsi alle lettere sin da giovanissimo. Fervido lettore dei “maledetti” francesi, degli ermetici italiani e degli avanguardisti russi, esordisce con “Malesciana”, album di liriche nel quale l’autore esplora esperienze di luce e ombra in una penisola salentina che diviene ideale, patria lirica e interiore di vita e desiderio.

Oltre a quella per la letteratura, coltiva un’ardente passione per la musica. Vuole diventare uno scrittore ed è attualmente al lavoro sul suo primo romanzo.

 

Note

[1] G. Giancane, Malesciana (poesie), edizioni esperidi, Lecce, 2021.  Le citazioni, dove non diversamente specificato, fanno riferimento a questa edizione.

[2] Si fa riferimento al v. 1 de “Il tempo quaggiù”.

[3] “la brevità dei fiori” è l’immagine conclusiva presente in “La basilica barocca” a pag. 29.

[4] Si legga “Persiane” vv.7-8 pag. 95.

[5] Si legga “Le giuggiole” vv. 1-3 pag.102.

[6] Leopardi G., Il sabato del villaggio, da Canti, vv. 36-37, contenuto in Canti, Operette morali, Pensieri pag. 101,  De Agostini, Novara, 1961.

[7] La similitudine è ripresa dai vv. 8-9 di “Io non lo so”, pag. 33.

Il monumento a Francesca Capece in Maglie opera di Antonio Bortone

 

di Giovanni Maria Scupola

Il monumento a Francesca Capece, ultima feudataria di Maglie, è collocato nella piazza principale della cittadina.

In marmo bianco di Carrara, rappresenta una anziana signora seduta su una poltrona. Sulla spalliera è raffigurata l’arma gentilizia, un leone rampante; la contessa amorevolmente si rivolge ad un fanciullo ignudo: il piccolo regge con la mano sinistra uno scudo con lo stemma civico e con la mano destra prende un libro ed una croce che la benefattrice gli porge.

Su due scudi, scolpiti a rilievo sulle fiancate del basamento ornato da festoni sono riportati un motto della prima lettera di San Paolo ai Corinzi (Ego plantavi …suddeus incrementum dedit) ed un verso del XXX canto del Paradiso della Divina Commedia (Luce intellettual, piena d’amore).

Ma chi è la donna che troneggia nel cuore della città? Francesca Capece nasce a Maglie nel 1769, da Nicola Capece, marchese e barone di San Marzano e di Maglie, e da Maria Vittoria Della Valle di Aversa, e governa dal 1805 al 1843 il feudo avuto in eredità. Sposa molto giovane nel 1778 Antonio Lopez y Royo, duca di Taurisano e Monteroni.

Non avendo discendenti, dona nel 1843 i suoi beni ai Gesuiti affinché istituissero scuole pubbliche di orientamento umanistico. Muore a Lecce nel 1848 ed è sepolta a Maglie nella chiesa Matrice ai piedi di un altare laterale.

Si deve all’avvocato Alessandro De Donno nato a Maglie nel 1821, del quale la baronessa era madrina, la modifica del testamento a favore della cittadinanza magliese.

Le argomentazioni utilizzate dal De Donno puntano sulla mancata attuazione da parte dei Gesuiti delle condizioni poste dalla Capece per la suddetta donazione.

La modifica del testamento fu però un successo temporaneo: i Gesuiti ritornarono nel 1849 alla carica mostrando di adempiere agli obblighi testamentari: istituirono scuole pubbliche che gestirono per circa un decennio, ma con l’Unità d’Italia questo patrimonio fu incamerato dallo Stato.

Si deve allo stesso De Donno l’idea di un monumento da dedicare alla benefattrice. Un desiderio intenso, come si evince nella lettera pubblicata da Popolo Meridionale del 12 dicembre 1896: “Oh! Se prima di morire mi fosse dato ammirare e prostrarmi dinanzi a quel monumento! Quello sarebbe sì l’unico premio a cui ambisco per quel che ho fatto ed è il più bel giorno della mia vita”.

Ed è ancora Alessandro De Donno che ha l’idea di rivolgersi al cavaliere Antonio Bortone. Lo scultore nasce a Ruffano nel 1844 da genitori di modesto ceto sociale. Fu scultore assai stimato e numerose sono le sue opere sparse in tutta Italia.

Discepolo di Maccagnani, grande cartapestaio leccese, che lo avviò allo studio della plastica e del disegno. Dal 1910, dopo un lungo soggiorno a Firenze dal 1865 al 1905, risiedette a Lecce, di cui divenne cittadino onorario, e dove continuò a lavorare fino alla morte, avvenuta nel 1938 a 94 anni.

È del periodo fiorentino la statua a Francesca Capece, la cui realizzazione avviene dopo aver ricevuto, dal De Donno, il libretto delle “Memorie” accompagnato da una lettera nella quale chiede di eseguire un bozzetto del monumento.

Dopo pochi mesi, il bozzetto di gesso è esposto in una sala del palazzo De Donno, dove accorsero tanti cittadini per ammirarlo. Nacque, quindi, un comitato con lo scopo di raccogliere, mediante una pubblica sottoscrizione, i fondi occorrenti per l’emolumento della statua, un compenso (diciassettemila lire) che, per espresso desiderio dell’artista era assai modesto (un altro scultore, il magliese Giuseppe Mangionello, propose, senza successo, un suo bozzetto).

Il Municipio concorse alla sottoscrizione con cinquemila lire e si impegnò a versare mille lire l’anno, a partire dal 1898.

Il 29 luglio 1900 a Maglie si inaugura il monumento alla Benefattrice. Quella candida statua illumina ed ombreggia le nostre giornate e la sua icona vive in questi centoventidue anni nelle attività commerciali, politiche, turistiche, culturali ed istituzionali.

Considerazioni sulla “veduta” di Ugento del Pacichelli del 1703

di Luciano Antonazzo

 

Delle mura messapiche e di quelle bizantine della città di Ugento, negli ultimi decenni, si sono occupati diversi istituti di ricerca e diversi studiosi, sia italiani che stranieri.

Per quanto riguarda le più recenti ed esaustive pubblicazioni dei nostri connazionali, il prof. Antonio Pizzurro ha parlato diffusamente delle mura messapiche nel suo Ugento- Dalla preistoria all’Età Romana[1]. A lui ha fatto seguito il prof. Giuseppe Scardozzi con La cinta muraria di Ugento[2] e da ultimo la prof. Giovanna Occhilupo ha realizzato un importante lavoro dal titolo Ugento – La città medievale e moderna[3] nel quale ha dedicato un capitolo alle Mura medievali, ossia alla cinta muraria bizantina, lunga circa un chilometro, realizzata verso il X secolo per proteggere la parte alta della città.

Per i loro lavori i succitati autori si sono avvalsi della cartografia storica pervenutaci su Ugento: la “veduta” della città del Pacichelli del 1703, la Pianta iconografica dell’antica e moderna città di Ugento, realizzata dall’arch. Palazzi nel 1810 e la Pianta generale dei beni della casa Colosso in Ugento, realizzata dall’ing. Giuseppe Epstein nel 1897.

La dott.ssa Occhilupo nel suo testo rimarca come attorno alle mura della città, sia messapiche che bizantine, vi sia notevole confusione e discordanza tra gli studiosi riportandone le diverse opinioni.

La sua analisi parte dalla veduta della città che il Pacichelli (1634 – 1695) inserì nel secondo volume de Il Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodici province, edito postumo nel 1703.

Veduta della città di Ugento – Pacichelli 1703

 

Si tratta di una pianta pseudo prospettica nella quale la città è vista da Est. In basso è evidenziato il borgo dal quale si diparte una strada che conduce alla fortificazione bizantina. L’accesso alla città per chi proveniva dal borgo era quello di Porta Paradiso, ma accanto a questo il Pacichelli ne riporta un secondo denominato Porta Piccola[4]. Sono quindi riportati gli edifici più importanti della città, indicati numericamente ed elencati in legenda. Alle spalle del centro urbano è raffigurata la cinta muraria messapica con tre porte denominate Porta S. Giorgio, Porta Santa Croce e Porta S. Nicola. Oltre le mura è raffigurato il mare su cui si affacciano altri centri urbani sovrastati da rilievi montani.

Questa pseudo-pianta però non è realistica in quanto vi sono delle incongruenze sia con lo stato dei luoghi che con quanto riportato da diversi documenti, sia anteriori che posteriori al 1703. Che detta riproduzione, assieme ad altre, non fosse del tutto affidabile lo si evince dal giudizio che ne diedero i posteri. Infatti, se il Regno di Napoli in prospettiva agli inizi raccolse molti elogi, successivamente fu oggetto di critiche severe.  Pietro Antonio Antonio Corsignani dichiarò che il Pacichelli incorreva in “vari abbagli”, come era “solito fare in quella sua opera,[Il Regno di Napoli..] affastellata senza discernimento” (1738. I, p.27)[5], mentre Lorenzo Giustiniani giunse a dire che si trattava di opera “con rami rozzi daddovero[6] e mal fatti” e “scritta da uomo acciabattante qual egli era[7]. Altri sollevarono dubbi sulla veridicità delle informazioni da lui riportate nelle sue opere, nelle quali si sarebbe dovuto “distinguere ciò che egli stesso ha veduto, da ciò che ha udito narrare per tradizione[8]. Anche studi recenti hanno accertato che la fama del Pacichelli è da ritenersi in larga misura usurpata. Risulta infatti che egli si limitò a riportare notizie raccolte qua e là, e che i suoi viaggi si svolsero solo dopo che aveva consegnato il manoscritto agli editori[9].

La prima osservazione da farsi è che egli, nel descrivere la città, dice che era “un miglio distaccata dal mare”, mentre in tutti i documenti, più o meno antichi, si dice (come in effetti era ed è) che la città distava dal mare “quattro miglia”; inoltre, nei due scudi ai vertici superiori della pianta non è raffigurato lo stemma di Ugento, benché lo stesso, come documentato, fosse stato adottato dalla città almeno dalla prima metà del ‘500[10].

In terzo luogo, nella cerchia delle mura messapiche indica a N/E della città, col n. 4, Porta S. Nicola, in corrispondenza dell’ex monastero dei Celestini, a Nord del borgo. In realtà questa porta era situata a S/O della cinta muraria bizantina e la conferma si ha, oltre che da innumerevoli documenti, dal fatto che detta porta prese la denominazione dell’esistenza nei suoi pressi di una chiesetta intitolata a S. Nicasio[11], appena fuori le mura.  Ed ancora, nel circuito delle mura messapiche col n. 3 è indicata a N/O porta S. Giorgio, mentre la stessa si trovava esattamente a N/E, nella contrada che da sempre è stata identifica col toponimo Santi Giorgi[12]. A N/E egli colloca invece Porta Santa Croce che certamente prese il nome dalla contrada S. Croce, poi Acquarelli[13], che si trovava a N/O dell’antico centro abitato.

E veniamo alla cosidetta Porta piccola che il Pacichelli colloca a S/E della muraglia bizantina, a poca distanza da Porta Paradiso sita a N/E, dalla quale secondo Salvatore Zecca irruppero in città i turchi nella loro incursione del 1537[14].

Dell’esistenza di questa porta non si è mai avuta cognizione ed il solo a parlarne fu il Pacichelli che ebbe come primo emulo l’arch. Palazzi il quale nella sua Pianta Iconografica di Ugento, la collocò, identificandola col n. 17, alle spalle della cattedrale, al vertice posteriore del suo lato destro (vista di fronte).

Tutti i successivi studiosi e scrittori locali, con dei distinguo, hanno preso per veritiera la “veduta” del Pacichelli, ma nei documenti pervenutici è rimarcato che due erano gli accessi alla città: Porta Paradiso[15] e Porta S. Nicola. Il primo di questi documenti è del 1634; si tratta dell’apprezzo che fece il tavolario Giulio Cesare Giordano in occasione della messa all’asta del feudo di Ugento. Vi si legge: “La città di Ugento […] è posta su una cima di Montetto murata attorno con bastioni, torri et altre fortificazioni, tiene li suoi ingressi per due parti, una dimandata la Porta di Paradiso, nella regione di levante, e l’altra dimandata Porta di Santo Nicola nelle regione di Ponenente […][16].  

Il feudo fu aggiudicato a Don Emanuele Vaaz de Andrada e nel documento della presa di possesso è precisato che la comitiva entrò in città da “Portam dictam del Paradiso” e che attraversando la piazza giunse a Porta S. Nicola[17]. Non vi è menzione di nessuna altra porta.

Oltre un secolo dopo, nell’apprezzo del tavolario Luca Vecchione del 1761, si legge che la città di Ugento si trovava: “quasi nel mezzo del feudo, sopra un dolce colle, da ogni intorno murato: si entra in essa mediante due porte: una detta del Paradiso, che riguarda Oriente, l’altra nominata di Santo Nicola coll’aspetto ad Occidente[18]. Anche qui non si accenna ad altre porte.

È verosimile che qualche decennio dopo vennero aperti altri varchi nella muraglia bizantina, ma fino ai primi dell’Ottocento, quando cominciarono ad essere usurpate le antiche mura bizantine[19], non si è rinvenuta alcuna testimonianza documentale in proposito.

Ma tornando alla famigerata “Porta piccola”, da dove salta fuori?

La spiegazione si trova nei protocolli del notaio Francesco Carida, di proprietà privata. In diversi suoi atti rogati tra il 1679 ed il 1696 troviamo che l’abitazione dei Papadia (corrispondente all’attuale sede degli uffici per il turismo che dà su Piazza A. Colosso e fa angolo von via Barbosa) era sita “in strada ubi dicitur la porta piccola di S. Vincenzo[20], o “ in strada ubi dicitur la porticella di S. Vincenzo[21], “in strada ubi dicitur la Porticella[22], “in strada ubi dicitur la porta piccola della chiesa di S. Vincenzo[23], “in strada ubi dicitur la porticella di S. Vincenzo[24], “ in strada ubi dicitur la porticella[25], “in strada ubi dicitur la porticella della Cattedrale di Ugento[26], “ in strada ubi vulgo dicitur la porticella della chiesa di S. Vincenzo[27], “in strada ubi dicitura la porticella[28], in strada ubi dicitura la porta piccola di Santo Vincenzo[29].

La denominazione ufficiale della strada era via Sferracavalli e come dice il notaio “dal volgo” era detta della

“porticella della chiesa di S. Vincenzo” perché conduceva alla porta secondaria e laterale di accesso alla cattedrale; non si trattava pertanto di un piccolo accesso aperto nella antica muraglia per comodità dei cittadini. Lo conferma anche il fatto che allora, fra il costone roccioso su cui sorge la cattedrale ed il piano sottostante, vi era un dislivello a strapiombo di oltre una decina di metri. Ai piedi di questo costone roccioso, prima che fosse realizzata l’attuale Via dei Cesari, correva un viottolo che permetteva ai contadini di raggiungere i propri poderi che si sviluppavano fino all’incrocio con Via Sallentina, nella contrada Barco. Tale dislivello venne superato solo alla fine dell’Ottocento con una ripida e lunga scalinata, oggi denominata salita Brancia, che si sviluppa in quattro rampe per un totale di una sessantina di gradini.

Tralasciando la disamina della rappresentazione e dell’ubicazione imprecisa di alcuni edifici della città raffigurati nella pianta del Pacichelli, è da attribuirsi dunque agli errori in essa contenuti la gran confusione che si è creata successivamente. Il Pacichelli (o chi per lui) probabilmente prese per buono, o equivocò, quanto riferitogli senza appurarne la veridicità e raffigurò una porta inesistente. A lui seguì il Palazzi il quale nella intestazione della pianta scrisse che la stessa era stata realizzata anche “per supplire alla deficienza delle memorie del primiero lustro di essa Città”. Probabilmente fu per perpetuare una fallace memoria che egli riportò l’esistenza di quella porta nelle mura bizantine mai esistita.

In effetti la città, data la sua esiguità all’interno delle mura, non necessitava di nessuna altra porta oltre le due documentate. Per recarsi nei fondi fuori le mura erano sufficienti le stradine che correvano attorno alla muraglia e per recarsi nei paesi limitrofi o alla marina erano sufficienti le strade che originavano dalle due porte poste ad Est ed a Sud/Ovest dell’abitato e distanti tra loro in linea d’aria circa 250 metri.

 

Delle mura messapiche

Il primo accenno alle mura messapiche è verosimilmente individuabile nel breve passaggio della Stima dei beni della Contea di Ugento, redatta da Troano Carafa nel 1530, in cui si dice: “La città a quattro miglia dal mare è cinta di forti mura con fossato[30].  Esplicitamente delle mura messapiche parla invece padre Secondo Lancellotti nel suo Il Mercurio Olivetano. Testualmente egli scrisse:

“Con l’occasione, che io l’anno 1616. girando per notare l’antichità, e raccorre le cose più degne dè nostri luoghi, mi trovai in queste parti, e mi trattenni l’inverno, fui chiamato a predicare la Quaresima ad Ogento. Hora è questa una città di sì pochi abitatori, che io credo, che non passino il numero di 500. […]. Dicevano gli Ogentini, che già la loro era una gran Città, ma non mi mostravano scrittore antico, che ne parlasse. […]. Ne meno apparivano vestigia di edifitij antichi a Città pretesa sì nobile convenevoli. È posta sopra un colle assai ben pietroso. Quindi, questo è ben vero, vedesi giù alla pianura un terzo di miglio lungi, gran giro di sassi coperti da gli sterpi, e dalle spine, e questo affermavano essere dell’antico Ogento. Io per curiosità fui quivi appresso, e volsi scavare un poco e vidi realmente essere una muraglia di pietre grandi, e quadrate secondo l’usanza di quei tempi, e tanto più stupij della rovina di tanta città, & e ancora quasi d’ogni memoria d’essa”[31].

Dopo quella pseudo prospettica del Pacichelli del 1703, la più datata pianta della città di Ugento si deve all’architetto Angelo Palazzi del 1810. La sua intestazione recita: Pianta iconografica dell’antica e moderna città di Ugento rilevata nel mese di febbraio dell’anno 1810 per supplire alla deficienza delle memorie del primiero lustro di essa Città. Nella planimetria, espressa in canne napoletane e piedi francesi, il sud è rappresentato in alto ed assieme al nucleo cittadino con le mura bizantine e i suoi torrioni, vi sono rappresentati il borgo e le diverse vie di comunicazione. Il tutto è circoscritto dalle mura messapiche il cui perimetro non presenta interruzioni. In alto, a destra, è raffigurato lo stemma antico di Ugento, e alla sinistra e ai piedi della pianta si sviluppa la legenda esplicativa dei diversi elementi raffiguratevi indicati con dei numeri. Il circuito messapico è contrassegnato col n. 1 e nella Annotazione si legge: “Antiche mura rilevate dai ruderi esistenti, e dalle traccie che tuttavia sovrastano, le quali il tempo non ha finora cancellato, della larghezza di circa palmi 18 per quanto si è potuto raccogliere. Il perimetro effettivo di detta città è di miglia italiane due e mezzo, e quarantanove canne lineari. L’estensione di suolo che occupavasi dall’antica città è ỻe [tumulate] 185, e passi quadri 1101, considerato il tomolo di passi quadri 1600 e ciascun passo di palmi 8[32].

Alla base della pianta vi è una dedica appena percettibile non riportata da alcuno degli studiosi che l’hanno visionata e tantomeno è presente nelle riproduzioni che ne sono state fatte a stampa. In essa si legge: “Dedicata al Sig. d.(?) Gius.pe  Colosso”. Si trattava dell’Arcidiacono e Cantore don Giuseppe Colosso sr. (1745-1833), personaggio di profonda cultura ed erudizione che scrisse diverse importanti opere rimaste inedite. Fra queste quella riguardante la storia di Ugento ispiratagli probabilmente proprio dalla pianta del Palazzi dato che egli la intitolò: “Antichità di Ugento esposte da Adelfo Filalete, O sia Rischiaramento su la Pianta iconografica dell’antica e moderna città di Ugento, rilevata dall’Architetto Angelo Palazzi l’anno 1810, e dell’Annotazione su la stessa dal medesimo fatta[33].

A questa pianta fece seguito nel 1897 la Pianta generale dei beni della Casa Colosso in Ugento, realizzata dall’Ingegnere Giuseppe Epstein con scala in metri 1: 10.000. In questa pianta sono raffigurati la città ed i territori circostanti con relativi toponimi, mentre con linee tratteggiate sono rappresentate le parti della muraglia messapica ancora visibile al suo tempo.

Riferisce il prof. Domenico Novembre in una sua pubblicazione che lo stesso Epstein aveva in precedenza ispezionato la cinta muraria e ne aveva stabilito il perimetro in 7 km.[34] A tal proposito Pizzurro, rifacendosi al citato autore, scrive:

“Nel 1889 Apstein (Epstein) misurò le mura e le trovò lunghe m. 7.000, in quanto sosteneva di aver trovato tracce di mura sia nella parte settentrionale (al di là della masseria Crocifisso) sia in quella orientale (al di là della cisterna del Serpe). Purtroppo non ci è giunto alcun rilievo di Apstein né la descrizione del perimetro della cinta muraria da lui rilevata”[35].

Ho il piacere, in questa occasione, di sottoporre all’attenzione degli studiosi proprio quella che ritengo sia una copia dell’originale (e malridotta) pianta realizzata dall’Epstein nel 1889, andata evidentemente perduta. La pianta in oggetto reca l’intestazione “UGENTO dentro le sue antiche muraglie”, mentre allo spigolo inferiore destro si legge. “Rilevò e disegnò Gius. Epstein – ing. l’anno (?) 1889”.

Pianta di “Ugento dentro le sue antiche muraglie” – Ing. G. Epstein 1889

Imm. 2

 

Di detta copia, assolutamente inedita, sono venuto casualmente in possesso e dal suo confronto con le altre due citate è possibile verificare il progressivo disfacimento delle mura messapiche.

È racchiusa in una cornice che misura cm. 39,5 x 30 ed è espressa anch’essa in metri con scala 1: 5.000, ciò che permette, a differenza del variabile valore della canna napoletana, di risalire all’effettiva lunghezza delle mura rilevata dall’Epstein. Misurando i vari tratti del perimetro (comprensivi dei tratti mancanti all’altezza della Cripta del Crocifisso e di quelli verosimilmente corrispondenti alla presenza di porte ubicate sulle strade di accesso alla città), complessivamente il tracciato misura circa 95 cm, corrispondenti sul terreno a circa 4.750 m., misura molto vicina a quella definitivamente accertata di m. 4.900 circa. Risulta pertanto errata e priva di fondamento la lunghezza delle mura messapiche di 7.000 metri attribuitagli.

Vi è rappresentata la città e il territorio compreso entro la cerchia messapica con alcuni toponimi ed il nome dei proprietari dei deversi appezzamenti di terreno.  Non vi è legenda ma per ognuna delle strade è indicato il nome del luogo o abitato verso cui conduce.  Vi sono raffigurate le nuove strade per Taurisano, per Gemini, per la marina di Torre S. Giovanni e per Gallipoli. Vi è delineato il percorso della futura Ugento – Casarano (1893) e la variante D’elia per via Monteforte. Vi è anche indicata l’ubicazione di una “antica tomba” lungo la strada che attraversava la contrada Colonne, poco prima che la stessa ripiegasse a S/O verso masserie Mandorle. Il circuito murario messapico è rappresentato con linee continue, tratteggiate o interrotte, a seconda dello stato delle mura, se intatte, con tracce visibili o inesistenti. Non vi sono indicate torri o porte specifiche. Un lieve differenza nel circuito con quella del Palazzi è riscontrabile nel tratto a sud/est, all’altezza dell’estremità sinistra della Terra dell’Aia. Per il Palazzi le mura formavano una specie rientranza a forma di cuneo fra la strada delle Pastane e la via vecchia per Acquarica. Secondo l’Epstein questa deviazione non c’era ed il percorso da lui tratteggiato proseguiva quasi per linea retta.

Si evidenzia anche come la strada delle Pastane (come appurato dagli studiosi succitati) si sviluppava a ridosso, o al di sopra, delle mura. Si differenzia ancora questa pianta con quella del Palazzi per quel che concerne il tracciato della vecchia via per Taurisano. Questa stradina partiva dalla via della Madonna della Luce (ex Sallentina), dal lato sinistro della chiesetta di S. Lorenzo, ed attraverso i campi giungeva ad incrociare la via per Taurisano che proseguiva, costeggiando le mura, fino all’incrocio tra la via per Melissano e quella per Casarano. Nella pianta dell’Epstein si vede invece chiaramente come questa strada sia stata interrotta dalla creazione di nuovi fondi agricoli. Il tratto occultato di questo sentiero conduceva direttamente a quello che il Palazzi riportò sotto la denominazione di “Torrione di S. Giorgio”, verosimilmente già demolito ai tempi dell’Epstein dato che egli nella sua pianta rappresenta il breve tratto di mura verso la nuova strada per Taurisano con una linea punteggiata. Come ritengono gli studiosi, il torrione prese la denominazione di S. Giorgio dalla porta omonima e nei suoi pressi una ventina di anni fa fotografai una grande lastra in pietra quasi integra che, se non è stata rimossa o distrutta, dovrebbe essere ancora sul posto. Molto probabilmente fungeva da copertura ad una tomba. Se ne riporta l’immagine:

Manufatto in pietra rinvenuto in prossimità del torrione S. Giorgio delle mura messapiche

 

Note

[1] A. PIZZURRO, OZAN UGENTO. Dalla Preistoria all’Età Moderna, Edizioni Del Grifo, Lecce 2002.

[2] G. SCARDOZZI, La cinta muraria di Ugento, Edizioni Leucasia, Presicce 2007. Accanto a questo testo è da menzionarsi l’ultima sua opera dal titolo Topografia antica e popolamento dalla Preistoria alla tarda Antichità – La Carta archeologica di Ugento, Edizioni Quatrini, Viterbo 2021.

[3]G. OCCHILUPO, Ugento – La città medievale e moderna – Metodologie integrate per la conoscenza degli abitati, Claudio Grenzi Editore, Foggia 2018.

[4] Le due porte sono contrassegnate rispettivamente con i numeri 11 e 12.

[5] P. A. CORSIGNANI, Reggia Marsicana ovvero memorie topografiche-storiche di varie Colonie, e città antiche e moderne della Provincia de i Marsi e di Valeria, Presso il Parrino, Napoli 1738, parte I, p. 277.

[6] Daddovero – arc. letterario = davvero

[7] L. GIUSTINIANI, La Biblioteca storica, e topografia del Regno di Napoli, Stamperia Vincenzo Orsini, Napoli 1793, p. 110.

[8] G. TIRABOSCHI, Storia della letteratura italiana del cavaliere abate Girolamo Tiraboschi, presso la Società Tipografica, Modena 1793, l. I, p. 98.

[9] V.: G. DE ROSA – A. CESTARO (a cura) Storia della Basilicata. 3. L’Età moderna, Editori Laterza, Bari (Ed. Digitale: dicembre 2021), p. 137. Le “vedute” utilizzate da Pacichelli sono opera del cartografo Francesco Cassiano da Silva  

[10] V.: L. ANTONAZZO, Gli stemmi della città di Ugento, Tip. Marra, Ugento 2016.

[11] Questa chiesetta bizantina era sita a pochi passi a nord della chiesetta della Madonna del Corallo, fuori le mura.

[12] Not. F. Carida, protocollo del 22/11/1683, c. 139v. Questo atto conferma che la località S. Giorgio era adiacente ad ovest all’Armino, suffeudo che si trovava ad Est del feudo di Ugento; vi si legge infatti “in loco ubi dicitur Santo Giorgio, iusta bona feudi nuncupati l’Armino ex occidente”.

[13] Not. F. Carida, protocollo del 10/1/1684, c. 12r.

[14] S. ZECCA, Portus Uxentinus vel Salentinus, Editore Mariano, Galatina 1963, p. 44.

[15] Se, come detto, Porta San Nicola derivava la sua intitolazione dalla vicina chiesetta di S. Nicasio, Porta Paradiso aveva assunto questa denominazione per la presenza nei suoi pressi di un giardino murato. Infatti il termine “paradiso” deriva dal persiano pairidaeza  (= giardino recintato) reso in greco con  paràdeisos. Il giardino in questione non corrispondeva però a quello realizzato dai conti Pandone sui lati nord ed ovest del castello, ma a quello degli Urso, esistente in parte ancora di fronte all’attuale ingresso al castello stesso.

[16] Archivio di Stato di Napoli, atto del notaio Leonardo Aulisio del 31 gennaio 1643 attinente all’acquisto del feudo di Ugento da parte di Pietro Giacomo d’Amore (Emptio Civitatis Ugenti pro Petro Jacobo de Amore).

[17] ASLe, Sez. Not., 46/39, not. G. F. Gustapane, protocollo del 15 marzo 1636, cc. 197r-216r.

[18]V.: G. OCCHILUPO, Ugento – La città medievale e moderna, cit. Appendice documentaria, p. 155.

[19]V.: L. ANTONAZZO, Trasformazioni urbane a Ugento tra Ottocento e Novecento, Edizioni Leucasia, Presicce 2005.

[20] Not. F. Carida, prot. del 6 gennaio 1679, c. 2v.

[21] Idem. Prot. del 30 ottobre 1683, c. 114r.

[22] Idem, prot. del 4 gennaio 1684, c. 3v, prot. del 11 gennaio 1684, c. 39r.; prot. del 18 settembre 1685.

[23] Idem, prot. del 21 febbraio 1685, c. 3r.

[24] Idem, prot. del primo agosto 1685, c. 60v.

[25] Idem, prot. del 18 settembre 1685, c. 111v.

[26] Idem, prot. del 5 dicembre 1685, c. 142r.

[27] Idem, prot. del 6 gennaio 1693, c. 1r.

[28] Idem, prot. del 3 settembre 1696,

[29] Idem, prot. del 8 luglio 1697, c. 108r.

[30] V.: F. CORVAGLIA, Ugento e il suo territorio, Editrice Salentina, Galatina 176, p. 77. Questo inciso potrebbe far riferimento anche alla cinta muraria bizantina, ma è improbabile data la morfologia del terreno che solo a nord e ad ovest delle mura, per essere pianeggiante, consentì la realizzazione di un fossato prospiciente il castello. Per quanto concerne il fossato antistante le mura messapiche, la sua esistenza per il momento è stata accertata limitatamente ad una porzione del lato est, in contrada Armino.

[31] S. LANCELLOTTI, Il Mercurio Olivetano, overo la Guida per le strade d’Italia, per le quali sogliono passare i Monaci Olivetani, Perugia 1628, pp. 55-56.

[32] La canna napoletana variava a seconda dei luoghi da un minimo di m. 2,14 ad un massimo di m. 2,37. Il Pizzurro, dando alla canna napoletana il secondo valore stabilì il perimetro delle mura messapiche in m. 5.237 (A. PIZZURRO, Ozan …, cit.p. 246). Rifacendosi invece al primo valore la lunghezza delle mura sarebbe stata di m. 4.729, misura più vicina ai circa m. 4.900 stabiliti negli anni Novanta del secolo scorso dagli studiosi.

[33]Ricalca pedissequamente questa operetta, anche nella ripartizione dei capitoli, l’opuscolo Memorie sulle antichità di Ugento 1857, di autore anonimo custodito presso la Biblioteca Provinciale Nicola Bernardini di Lecce ed edito a cura dello scrivente nel 2003 per Edizioni Leucasia.

[34] D. Novembre, Ricerche sul popolamento antico del Salento con particolare riguardo a quello messapico, in Annuario del Liceo Ginnasio “G. Palmieri”, Lecce 1965-66, pp. 78-79.

[35] A. PIZZURRO, Ozan …, cit., p. 247.

Libri| Il poeta della cartapesta: Giuseppe Manzo tra Supersano e Castro

Copertina del libro di Gianluigi Lazzari

 

di Filippo Giacomo Cerfeda

Nel 1896 il Cavaliere Luigi Maggiulli di Muro Leccese nel dare alle stampe la sua pregevole “Monografia di Castro” scrive in premessa a tutti i lettori che “nel dare avviamento a questa Monografia di Castro, ci fu sprone il Reverendo Canonico Gabriele Ciullo, benemerito Arciprete di quella Cattedrale, il quale entusiasta com’è della sua patria, volle che fossero evocate dal buio dei secoli le sue memorie. Noi entusiasti al pari di lui per strappare dagli artigli del tempo divoratore la storia delle vetuste nostre città, che sono un mito per quasi tutti gli scrittori di gran parte d’Italia e d’oltr’alpi, aderimmo ben volentieri al patriottico desiderio dell’Onorevole Amico”.

Nel tracciare una breve recensione del libro di Gianluigi Lazzari sul canonico Ciullo e sul grande artista salentino Giuseppe Manzo ho avvertito subito l’esigenza di appropriarmi della premessa del Cavaliere.

Con lo stesso entusiasmo che animò l’arciprete a commissionare un libro di memorie sulla sua tanto amata Castro, anche Gianluigi, mosso dagli stessi sentimenti, è approdato a quest’ultimo lavoro, in soluzione di continuità con una pubblicazione precedente sulle opere del maestro Manzo a Castro, edita nel 2013.

Dopo le iniziali fatiche, successive alla presa di possesso dell’arcipretura curata della chiesa cattedrale di Castro (1880), l’arciprete Ciullo avviò un intenso e significativo percorso pastorale che portò in breve tempo la sua Parrocchia a traguardi straordinari, inaugurando, in tal modo, un periodo di “nuove glorie” pari a quelle dell’antico splendore della cittadina castrense. Riparata la cattedrale, anche con l’apporto di contributi ministeriali, l’arciprete orientò la sua attenzione e la sua profonda devozione alla Vergine Santissima, sotto il titolo del Rosario, con l’edificazione del santuario mariano e l’annesso Istituto delle orfanelle. Mancavano però i volti della fede, quella fede espressa in maniera autentica e genuina attraverso le opere dell’insigne artista Giuseppe Manzo, commissionate proprio da Ciullo, con la grande aspettativa e l’immensa fiducia che il popolo di Castro, ed i villeggianti della Marina, avrebbero certamente gratificato l’immane sforzo economico sostenuto dalla Parrocchia. Ed ecco che tra il 1907 e il 1913 arrivarono a Castro le quattro opere del maestro leccese, artista che ha lasciato molti altri capolavori nelle chiese salentine, italiane e anche oltre oceano.

foto dell’artista Giuseppe Manzo (gentile concessione della famiglia Manzo)

 

Con quest’ ultima opera “Il poeta della cartapesta: Giuseppe Manzo tra Supersano e Castro“, patrocinata e sostenuta dall’azienda “Le Stanzie” di Supersano, l’autore Gianluigi Lazzari aggiunge un altro tassello, un tassello importante nell’opus tassellatum dell’antico scenario storico di Castro: una rilettura delle “opere magnifiche”, citando l’elogio funebre letto in occasione della morte del canonico Ciullo, che hanno arricchito la piccola comunità diventata “civitas mariana”, con le grandiose testimonianze della cattedrale e del santuario, del patrimonio artistico ivi contenuto e dell’Istituto delle orfanelle, realizzato anch’esso dalla instancabile opera del Ciullo e dalla munificenza di migliaia di devoti.

Lo scavo archivistico e documentario ha portato l’autore a decifrare e collocare nel tempo e nello spazio quattro opere in cartapesta realizzate dal maestro Giuseppe Manzo, commissionate dall’arciprete e venerate nell’antica cattedrale romanica e nel grazioso santuario della Marina. I registri privati del Manzo, gelosamente custoditi dagli eredi, hanno restituito i soggetti in cartapesta, le date di realizzazione, il committente ed il costo, elementi questi oggetto di severa analisi storico-artistica di un esperto nella storia dell’arte.

Con la stessa competenza e metodologia di analisi delle opere di Castro, l’autore ha allargato il focus dell’indagine archivistica anche alla comunità di Supersano, enucleando dai registri di bottega del Manzo i dati più significativi di otto capolavori in cartapesta per una esatta cronologia delle opere, le disposizioni di committenza e le modalità di pagamento. L’arco temporale delle opere di Supersano è più ampio di quello di Castro, ossia dal 1899 al secondo decennio del Novecento. Per i gruppi scultorei di San Giuseppe Patriarca l’autore, mediante comparazione stilistica, ne afferma l’assoluta somiglianza, e, per quello di Supersano ne attribuisce la paternità allo stesso Giuseppe Manzo.

Nel volume quindi tanti medaglioni agiografici, presentati ciascuno con un apparato documentario. Ogni opera d’arte è mirabilmente intrecciata con fatti e vicende locali, esempio tangibile di come la cronaca entra nella storia e ne caratterizza la valenza ideologica e sociale. Esemplificativa la pagina del giornale “L’Ordine” del 10 gennaio 1942 riguardante la scomparsa del maestro cartapestaio: in questa pagina la cronaca fa irruzione nella storia, nella storia dell’arte non solo di Castro e Supersano ma del Salento intero.

Nonostante tutti questi studi e ricerche, resta ancora molto da investigare. Lo afferma Lazzari nella Premessa del suo libro: “Con la viva speranza che in un futuro non lontano ci possano essere momenti più propedeutici verso una maggiore conoscenza della civiltà salentina, anche attraverso una nuova luce sulla personalità e sull’opera di questo grande maestro, mediante il fattivo coinvolgimento di tutti ed in specie degli Enti religiosi …”. Condividiamo pienamente l’auspicio di Gianluigi e vogliamo nutrire il desiderio di un maggiore interesse ed impegno nella ricerca e recupero di documentazione ancora inedita custodita negli archivi civili ed ecclesiastici.

In conclusione, Gianluigi Lazzari ci consegna un nuovo contributo che recupera ulteriori acquisizioni circa il carteggio e la corrispondenza tra i due “grandi”, Manzo e Ciullo, focalizzando la sua attenzione oltre i confini di Castro, fino al repertorio statuario della Parrocchia di Supersano.

Dopo aver preso in mano il libro di Lazzari e aver gustato la sua pregevole ricerca storica non ci resta altro che ammirare con occhi nuovi e diversi i “volti della fede” delle meraviglie artistiche del maestro Giuseppe Manzo a Castro e Supersano.

Iscrizioni latine a Spongano. Quando le epigrafi raccontano la storia.

INTERVISTA di Donato Nuzzaci a Giuseppe Corvaglia, Filippo G. Cerfeda, Giorgio Tarantino, autori del libro: ISCRIZIONI LATINE A SPONGANO

 

di Donato Nuzzaci

 

Come è nato il progetto di raccogliere le iscrizioni latine a Spongano?

Giuseppe C.: l’idea è nata tantissimi anni fa e si era arenata. Negli ultimi tempi l’Associazione Panara Antica ha pensato di riprendere un’iniziativa del passato e ridare vita a una Collana, “Nuove note di storia locale”, che riprende una vecchia iniziativa dell’Amministrazione comunale. Questo libro sulle iscrizioni latine ci è sembrato il viatico migliore per partire.

In questa prospettiva ci siamo ritrovati e abbiamo lavorato alacremente senza farci spaventare dai problemi di ognuno e dalle distanze: io a Loano, Filippo a Padova e Gino a Spongano, un triangolo dal perimetro di centinaia di chilometri.

È chiaro che la tecnologia ci ha aiutato molto: trent’anni fa questi supporti ce li saremmo sognati. D’altra parte, questa intervista stessa la stiamo realizzando con un incontro a distanza…

 

Quante iscrizioni avete raccolto?

Gino T.: Sono più di 70 iscrizioni raccolte in 58 schede corredate da 160 foto.  Ogni scheda riporta il testo, la data, la traduzione, la collocazione e ne racconta la storia e il significato o anche dettagli e particolarità raccolte attraverso i documenti e le testimonianze orali dirette.

Epigrafe Torre dell’orologio già Sedile

 

Che senso ha oggi scrivere un libro sulle epigrafi latine?

Giuseppe C.: Meglio di quanto potremmo dire noi ha scritto Salvatore Rizzello nella prefazione dicendo: “…proporre un libro sulle iscrizioni latine non è un’operazione anacronistica, ma una “missione” che ha un triplice merito: far emergere il percorso carsico della storia e la continuità della conoscenza comune nei mutamenti generazionali, mettere in luce il sottile legame con altre comunità, anche molto lontane, di profonde radici identitarie, farci riconoscere per ciò che realmente siamo, viandanti nel tempo su sentieri tracciati e già percorsi.”

 

Di solito, dove venivano collocate le iscrizioni?

Gino T.: Ne abbiamo trovate in diversi posti scolpite, segnate sulle facciate e all’interno di case, chiese e luoghi sacri, in edifici privati e pubblici, su muri o su dipinti, una addirittura su una scultura d’arte moderna.

 

E i proprietari hanno collaborato al progetto di raccolta delle iscrizioni?

Gino T.: Abbiamo sempre trovato disponibilità da parte di tutti che non hanno esitato a fornirci informazioni, dati e notizie, ma abbiamo riscontrato anche la disponibilità di amici che si sono messi a disposizione. Per esempio, un amico ci aveva detto che c’era una epigrafe su Palazzo Stasi (Arcana tua et aliena tace) e io sono andato a cercarla, anche con una certa insistenza e quasi irritando il proprietario. Poi un giorno un altro amico va in farmacia, alza gli occhi e vede l’epigrafe che stava nel palazzo di fianco al palazzo Stasi dove la stavamo cercando.

Come puoi vedere senza la collaborazione di tutti questo libro non avremmo potuto realizzarlo.

 

Qual è stata l’iscrizione che più vi ha colpito tra tutte?

Giuseppe C.: Potrei dire “Arcana tua et aliena tace”, posta sulla facciata di un palazzo in via Diso, perché è un modo elegante per suggerire di farsi gli affari propri e penso che potrei parlare a nome di tutti e tre gli autori, ma a parte questa mi ha colpito molto l’epigrafe posta sul lato ovest della torre dell’orologio di Spongano che è una dedica mariana ed è ricomparsa dopo i restauri di qualche anno fa e già oggi si sta perdendo di nuovo per gli agenti atmosferici. Ci fa capire che il recupero delle testimonianze non è una cosa rinviabile perché può andare perduto facilmente. La stessa cosa possiamo osservare per alcune formelle del timpano del Calvario.

Arcana tua et aliena tace

 

Filippo, qual è stata l’iscrizione che ti ha interessato particolarmente?

Filippo G. C.: Molte iscrizioni hanno suscitato interesse e curiosità, ma in particolare una iscrizione mi ha coinvolto particolarmente: quella collocata sul palazzo della famiglia Marzo, oggi palazzo Polimeno.

Nella iscrizione l’aggettivo MARTIUM è un attributo di EMBLEMA che è neutro.

Con la sua traduzione vediamo la volontà di opposizione tra 2 stemmi gentilizi diversi: l’Ancora (simbolo di attività legata al mare o cognome di un’altra famiglia) e la Palma simbolo della vittoria (specie in battaglia perché Marte è il dio della guerra). Quindi la Palma è simbolo/ornamento di Marte, marziale e, per associazione di idee, dei Marzo, visto che vuole essere l’arme della famiglia Marzo.

 

Forse una competizione con un’altra famiglia di Spongano?

Epigrafe di Palazzo Marzo ora Polimeno

 

Gino, qual è stata l’iscrizione che ti è rimasta più impressa?

Gino T.: Dobbiamo dire che le epigrafi raccolte ci sono piaciute tutte e tutte hanno suscitato un vivo interesse in noi. Ogni epigrafe è stata una scoperta sia per informazioni che ritrovavamo, sia per il ritorno a maneggiare il latino che nel caso mio e di Giuseppe non si basava su una frequentazione consueta.

A me poi è piaciuta molto quella di Casina Stasi, “Pusilla domus…” perché esprime manifestamente il senso di ospitalità, di giorno e di notte, verso persone a cui si tiene molto ed evoca uno dei valori più belli che ci siano: l’amicizia. La casa, per quanto piccola è a disposizione degli amici, con generosità e affetto. Un motto che mi sentirei di fare mio.

Epigrafe Casina Stasi

 

Filippo, perché venivano realizzate queste epigrafi-iscrizioni?

Filippo G.C.: Un’epigrafe è un manifesto: dichiara una scelta di vita, una filosofia. Può essere anche ostentazione di ricchezza; a volte appare quasi come un comizio contro avversari veri o presunti; oppure è una preghiera, o una maledizione: è tante cose.

Nel momento in cui si edificava la casa o il palazzo, la massima che il proprietario voleva scolpita sull’architrave equivaleva ad un blasone di nobiltà intellettuale e morale, un blasone che diventava uno stimolo categorico a bene operare per sé e per i propri discendenti, per i vicini, per i parenti, per coloro che di là passavano e la leggevano, per la propria e le future generazioni. Essa aveva un valore assoluto in quanto nasceva da una profonda convinzione e da lunga esperienza di vita vissuta.

Le società del passato amavano ostentare il sapere, e non solo, ma anche il “fare”. Tutte le opere di misericordia materiale, le pie istituzioni, a vantaggio dei poveri, orfani, vedove e maritande: tutto ciò veniva “inciso su pietra”, come a perpetuare nei secoli la presenza e l’esistenza di quelle generazioni.

 

Gino, chi erano – di solito – i committenti?

Gino T.: Sicuramente nobili, borghesi e benestanti, ma anche la popolazione, attraverso il Comune e la Chiesa, per fissare nel tempo un evento importante per la comunità.

Quindi le iscrizioni spesso esaltavano nobili o possidenti, giammai singoli cittadini, vero? Oppure vescovi o uomini di chiesa, o ancora riportavano passi di testi religiosi particolarmente significativi?

Gino T.: Non sempre erano celebrative di nobili. Ricordo una iscrizione in lingua italiana su un vaso scolpito del cimitero che celebrava una bimba, figlia di un artigiano, morta prematuramente che esprimeva il dolore dei genitori. (“A GRAZIA RIZZELLO I GENITORI” “a soli tre anni ti perdemmo, chi ne consolerà”)

Inoltre, ne abbiamo trovata una che diceva MOLIRE UT MOLAM che poteva essere addirittura uno slogan pubblicitario di un frantoio o di un mulino.

Epigrafe chiesa madre

 

Filippo, qual è la differenza tra epigrafi e araldica? Entrambi possono o potevano andare spesso a braccetto?

Filippo G. C.: L’epigrafe è una iscrizione scolpita su pietra o vergata a mano mentre l’araldica è una disciplina, una materia specifica che studia gli stemmi e i blasoni nobiliari o vescovili. Quasi sempre negli edifici pubblici o residenze nobiliari le epigrafi erano sempre accompagnate con il blasone di famiglia, con lo stemma gentilizio o nobiliare che ostentava ricchezza e affermazione sociale. Soprattutto sugli altari o sui dipinti la presenza dello stemma di famiglia era indicativa della committenza della stessa opera d’arte.

 

Quali erano le funzioni delle iscrizioni?

Gino T.: Potevano avere una funzione informativa, didascalica, ma anche morale, dove l’epigrafe diventava un monito per il lettore.

Tuttavia, non mancava fra gli scopi anche quello di un tributo alla memoria di personaggi particolarmente importanti ed amati dalla collettività.

 

Quale tipo di pietra veniva usata?

Giuseppe C.: La pietra poteva essere la più diversa anche se la maggior parte veniva vergata su pietra locale, ma epigrafi si trovano su marmo e anche su tela o targhe di metallo o scritte su stucco o su intonaco.

 

La lingua latina era capita dal popolo oppure erano messaggi per le persone colte e pochi eletti?

Giuseppe C.: Il popolo non comprendeva la lingua latina, anche nelle preghiere spesso le ripeteva senza comprenderne il senso e addirittura nel ripeterle le corrompeva con elementi di dialetto o di volgare.

Il messaggio delle epigrafi era un messaggio solenne e autorevole e doveva servirsi della lingua istituzionale perché doveva essere tramandato a futura memoria.

 

Si può affermare che le iscrizioni erano i manifesti, i giornali o i “social network” del passato? E viceversa gli attuali social possono avere la funzione delle iscrizioni del passato?

Giuseppe C.: Il messaggio dei social network vuole dare visibilità a chi lo scrive, ma non dà l’eternità per via del fatto che i messaggi arrivano dappertutto, magari hanno una risonanza maggiore, ma sono effimeri, mentre l’epigrafe era destinata a perpetuarsi ben oltre la vita di chi l’aveva scritta. Pensa all’epigrafe per antonomasia, la scritta che Dante trova sulla porta dell’inferno “…io etterna duro…” ecco quello era lo scopo dell’epigrafe, i post dei social va ancora bene se durano qualche giorno.

 

Come mai oggi si realizzano sempre meno iscrizioni durature?

Giuseppe C.: Non direi. Pensiamo ai murales o alle iscrizioni dei writers che usano l’italiano, l’inglese, talvolta un loro lessico particolare e criptico… anche la strofa di una canzone o il verso di una poesia può diventare una epigrafe nell’ambito di un murales. Anche loro hanno una loro ragione e una loro efficacia comunicativa e anche quelle possono durare per sempre o per lungo tempo.

Si potrebbe fare un paragone tra le iscrizioni del passato e i tatuaggi sulla pelle?

Anche i tatuaggi sono un messaggio forte e inequivocabile, a volte esplicito ed a volte criptico, che riguarda la persona che lo porta e fa parte della sua identità, ma non è destinato a durare nel tempo, ma dura soltanto per la durata della vita di chi lo porta.

 

Come mai sono piuttosto rare le iscrizioni in lingua italiana? Ne esistono in lingua dialettale?

Giuseppe C.: Io credo che epigrafi in italiano ce ne siano tantissime. Pensa ai monumenti, alle lapidi dei cimiteri, alle lapidi commemorative… Abbiamo poi esempi di epigrafi in volgare anche molto antichi come quella di Minervino del 1473 (COMO LU LIONE ET[E] LO RE DELLA NIMALI CUSI MENERBINO ET[E]LO RE DE LI CASALI A.D. MCCCCLXXIII regnante Rege Ferdinamdos) e il distico di Corigliano d’Otranto del primo ventennio del ‘500 (HUMILE /SO/ ELLHUMELTA / MABBASTA/ DRACON/ DEVE(N)TARO/ SALCHU(N)/ ME/ TASTA), sono certamente le prime due testimonianze epigrafiche volgari più antiche del Salento.

Il dialetto non è usuale, ma anche quello viene usato, io stesso, per l’epigrafe della tomba di mio padre ho usato il dialetto sponganese.

 

Filippo, qual è la funzione delle iscrizioni nelle chiese e nei luoghi sacri come, ad esempio, nel Calvario di Spongano?

Filippo G. C.: Le iscrizioni nelle chiese o all’interno delle cappelle, pubbliche o private, quasi sempre mettevano in evidenza i diritti di patronato laicale (Jus patronatus laicorum) delle famiglie più influenti e cospicue, oppure le committenze. Le chiese parrocchiali e confraternali erano costruite publico sumptu (con denaro dei cittadini) e con la loro fatica e sacrificio: tutto ciò veniva “inciso su pietra”, perché Scripta manent, come a perpetuare nei secoli la presenza e l’esistenza di quelle generazioni.

La simbolicità del Calvario di Spongano (a forma di tempio circolare) ci dice che il cielo e la terra sono collegati con questo Calvario, dove Dio si è abbassato fino alla morte per risollevare l’uomo fino al cielo. Inoltre, nel Calvario, ci sono altri due elementi che fanno di questo monumento un’autentica mistagogia ecclesiale, che introduce chi vi legge, nella comprensione più profonda del mistero stesso di Cristo; questi due elementi sono le epigrafi e le icone.

Nella tradizione della Chiesa cattolica i gesti dei sacramenti si esprimono “per ritus et preces”. Per “ritus”, ossia gesti simbolici, possiamo intendere le icone, mentre per “preces” possiamo qualificare le epigrafi.

Cupola interna del Calvario

 

Come continua oggi e come continuerà la tradizione delle iscrizioni in questa epoca di “social” dove sempre meno si lasciano segni scritti tradizionali e sempre più emergono rappresentazioni nella realtà internettiana, virtuale?

Giuseppe C.: La rete sarà la principale destinataria dei messaggi, ma credo che l’epigrafi non smetteranno mai di esistere, certo, non in latino, con modalità diverse, ma resisteranno perché chi passa da un luogo ricordi una persona, un evento, una lezione.

 

Cosa ha lasciato a voi tre questa esperienza?

Gino T.: Abbiamo imparato che è possibile lavorare in équipe anche in questo ambito. Lavorando insieme con pazienza e tenacia, mettendo in comune le proprie competenze e le risorse, rinunciando alle gelosie e agli interessi personali, un’idea è diventata un progetto fatto e finito che ha raggiunto uno scopo nobile, quello di offrire la conoscenza agli altri.

Abbiamo imparato che la lontananza fisica viene azzerata dalla tecnologia e la vicinanza dello spirito conta davvero, che chiedendo per scopi buoni, le porte si aprono e gli amici ci sono. Infine, abbiamo scoperto che lavorando si cresce e si può raggiungere una sana soddisfazione.

 

Avrete occasione di incontrare il pubblico? Quando?

Gino T.: Domenica 14 agosto 2022 nella bella cornice di Parco Rini a Spongano io e Giuseppe dialogheremo con Salvatore Rizzello dell’Università del Salento, e Dario Vincenti presidente della Società di Storia Patria Sezione Sud Salento “N.G. De Donno”. Filippo, che sarà assente, manderà un messaggio per i lettori.

 

Quale potrebbe essere l’iscrizione latina adatta per questo vostro libro?

Giuseppe C.: DONEC FERETRUM SEMPER DISCIMUS… AC FORTASSE ETIAM POSTEA , fino alla bara sempre si impara… e forse anche dopo.

 

Intervista a cura di Donato Nuzzaci

Agosto 2022

 

Il porto di Brindisi: una storia sconosciuta (terza parte)

di Nazareno Valente

 

  1. Il tentativo risolutivo.

Ci si è soffermati un bel po’ sull’argomento riguardante l’orientamento del canale fatto da Pigonati, sperando così di non lasciare più spazio alla fantasiosa tesi, cara ad Ascoli, che lo considerava il principio scatenante dell’interrimento, quasi che, trovata la direzione ideale, tutto si sarebbe d’incanto aggiustato. E, sebbene possa sembrare strano, numerose sono le cronache locali le quali affermano tuttora che questa modifica risolse il problema dell’insabbiamento del porto interno di Brindisi, a volte favoleggiando addirittura sull’anno preciso in cui si azzeccò l’angolazione esatta del canale. Per quanto su questo specifico punto, non ci sia accordo: c’è chi racconta che capitò nel 1847 e chi propende per il 1856, tirando per forza ad indovinare, considerato che un simile fausto evento non è mai capitato.

Nella realtà, s’è potuto constatare che, se presumibilmente nel 1843 un esperimento un tal senso fu fatto da Albino Mayo, esso si risolse in un fiasco: modificato l’orientamento nel modo che si riteneva giusto, il canale continuò ad insabbiarsi né più, né meno, di come accadeva prima.

Tra le altre cose, l’ipotesi sull’errata direzione del canale che Ferrando Ascoli formulò nell’ultimo ventennio del XIX secolo, già alla fine del secolo precedente godeva d’un credito molto limitato, considerato che sin da allora si cercava di percorrere altre vie. Non è un caso che Pollio aveva pensato di far ricorso ad un molo per attenuare gli effetti dei venti da sud-est, ritenendo quindi che l’orientamento del canale non fosse certo la causa principale e che le origini dell’insabbiamento fossero dovute alla cosiddetta corrente “littoranea”, come con doppia “t” veniva allora chiamato tale fenomeno negli ambienti specialistici. Nello specifico neppure la trovata ideata da Pollio, rimasta per altro pura teoria e mai realizzata nel concreto, avrebbe risolto il problema, ma il principio andava per certi versi nel senso giusto: il canale andava in un qualche modo tutelato. Bisognava però capire bene da cosa.

In definitiva, però, tra gli addetti ai lavori prevaleva ormai l’opinione che l’interrimento fosse dovuto alla corrente litoranea e che, di conseguenza, bisognasse proteggere il canale da un simile effetto. Semplificando al massimo le cose, vediamo cosa s’intendeva per corrente litoranea.

Intanto, per capirsi meglio si dia un’occhiata ad una delle mappe già fornita per caratterizzare il porto brindisino, in modo d’avere un’idea precisa di com’era strutturato a quei tempi.

Si noterà come l’isola di Sant’Andrea fosse un’isola a tutti gli effetti, non essendo ancora collegata alla terraferma con una diga. In aggiunta non aveva tutti quei moli che da essa adesso si dipartono, così come non c’era una diga che collegava le Pedagne a Capo Bianco e neppure tutto quel cemento che ricopre Costa Morena. In queste condizioni avveniva che tutti i flutti del settore compreso tra Nord-Ovest e Nord-Est, passando per Nord, irrompevano nel porto attraverso la Bocca di Puglia (ora chiusa dalla diga) e per l’apertura tra l’isola di Sant’Andrea e le Pedagne. Ebbene gli studi fatti nel periodo borbonico si basavano sul concetto che la corrente litoranea, spostandosi lungo il litorale a Ponente dell’ingresso del golfo brindisino, raccoglieva lungo il suo percorso detriti, sabbia e materia d’ogni genere che poi introduceva nel porto e sospingeva verso l’imboccatura del canale, proprio a causa dei flutti prima menzionati. Tuttavia poiché la costa a Ponente del porto esterno è composta prevalentemente da roccia bassa non facilmente friabile, era poco probabile che il materiale raccolto e convogliato all’interno fosse di tale entità da creare gli interrimenti rilevati. Pertanto questa teoria era in effetti priva di reale fondamento, tuttavia, essendo ritenuta quella corretta, le eventuali soluzioni si cercavano sempre nel suo ambito, e tutti i vari insuccessi collezionati erano dovuti a questo preconcetto.

A lungo andare, invece di considerare sbagliata la teoria su cui si basavano i progetti, si diffuse la sensazione, divenuta sempre più certezza, che era l’impresa in sé, vale a dire il non fare insabbiare il canale, ad essere impossibile. Per questo motivo tutti i principali ingegneri dell’epoca, che avevano fatto studi o progetti sul porto brindisino, erano convinti dell’inutilità di fare ulteriori tentativi, in quanto ritenevano impossibile che si potesse ristabilire la navigabilità dei suoi seni interni. In altre parole, non c’era  soluzione al problema: qualunque cosa si fosse fatta, il canale era in maniera ineludibile destinato ad ostruirsi. Salvo non si volessero fare periodiche pulizie del canale, il porto interno non sarebbe stato in grado di andare oltre il piccolo cabotaggio.

Con l’annessione del regno di Napoli al regno d’Italia, la questione del porto di Brindisi fu ripresa in esame e, sebbene si fosse ormai tutti persuasi che non ci fossero speranze per il porto interno, l’allora ministro Ubaldino Peruzzi decise ugualmente di fare un’ultima prova coinvolgendo nel progetto un ingegnere francese, Victor Poirel, residente in Toscana, che godeva di buona fama per aver diretto con successo i lavori di ricostruzione del porto di Livorno. Poirel fu così incaricato, con dispaccio del 15 maggio 1861, di «proporre i lavori occorrenti per ristabilire il porto di Brindisi lasciato in abbandono». Nel disimpegno di questo problematico compito, l’ingegnere francese chiese ed ottenne di essere coadiuvato da un ingegnere aretino del Corpo del Genio Civile, Tommaso Mati, che era già stato suo primo aiutante nelle opere per il porto di Livorno.

È utile a questo punto ritornare per qualche altro istante sulla configurazione all’epoca posseduta dal porto brindisino, utilizzando la relazione della commissione costituita dalla Camera dei deputati che, tra il 1861 ed 1862,  analizzò il progetto di restaurazione, in sede di predisposizione del disegno di legge.

«Nella provincia di Terra d’Otranto, quasi all’imboccatura dell’Adriatico, fra la punta di Penna ed il Capo Cavallo si apre un vasto golfo, in mezzo del quale un ampio profondo seno conterminato dalla punta di Mater Domini e dal Capo Bianco, in parte difeso dalle isolette denominate le Petagne e dall’isola, ove sorge il Forte di Mare, forma il gran porto esterno di Brindisi, ossia la rada. Il fondo del seno restringendosi tra le falde de’ colli soprastanti, si parte in due rami, o seni minori, i quali contornando una punta di terra, su cui ergesi la città, ed inoltrandosi sino allo sbocco di due valli, costituiscono il vasto porto interno». Dopo aver fornito lo scenario in cui era collocato il porto brindisino, la commissione riferì sugli aspetti tecnici. Si viene così a sapere che, a quel tempo, il porto esterno aveva una profondità dai 7 ai 18 metri in tutta la sua estensione e nella porzione del lato occidentale, denominata “Cala delle Navi”, poteva dare sicuro ricetto a moltissime navi di qualsiasi grandezza, anche quando erano in atto i fortunali. Nel porto interno il seno di ponente aveva una profondità dai 6 agli 8 metri nei trequarti della sua estensione, per degradare nella restante parte sino agli 0,5 metri, in prossimità delle spiagge; il seno di Levante aveva, invece, una profondità dai 4 ai 5 metri per metà della sua estensione e per l’altra metà da 1 a 3,5 metri. Il canale di comunicazione tra porto interno e rada (o, come diremmo noi, porto medio) aveva a sua volta una profondità dai 3 ai 4 metri, però decrescenti verso la foce, e queste pur limitate profondità si avevano «solo nel mezzo a guisa d’un solco tortuoso, che rende malagevole la navigazione sin delle più piccole navi». Quindi lo stato del canale rendeva precaria la comunicazione tra rada e porto interno e precludeva la navigazione e gli ormeggi in quest’ultimo. Le navi erano così costrette ad ormeggiare nel porto esterno, dove avrebbero potuto accedere in teoria da tre ingressi. Il primo a ponente dell’isola di Sant’Andrea, tra la stessa isola e la punta di Materdomini, denominata come sappiamo Bocca di Puglia; il secondo, a levante, tra Forte a Mare e le Pedagne ed il terzo dal Passaggio dei Trapanelli, tra le Pedagne e Capo Bianco. Tuttavia quest’ultimo accesso era di difficile transito sia per le scogliere che vi si addensavano, sia per l’ampia secca allora esistente che s’incontrava superata la sua imboccatura. L’ingresso per la Bocca di Puglia creava a sua volta grossi problemi, quando spiravano forti venti da sud, ed inoltre era di difficile transito per i bastimenti d’una certa stazza, sia per la strettezza, sia perché poco profondo. Di fatto l’unico ingresso agevole era quello tra Forte a Mare e le Pedagne che, in più, era talmente largo da «potervisi anche volteggiare».

 

La pianta della rada e del porto di brindisi del 1863 (figura n. 5) fornisce un utile riferimento visivo dei possibili accessi al porto esterno, delle secche esistenti, e dello stato in cui l’ultimo tentativo borbonico avevano lasciato il canale di comunicazione. Più che un canale aveva le sembianze d’un imbuto (figura n. 6) — si riteneva infatti che i detriti depositativi dalla corrente litoranea sarebbero defluiti con maggiore facilità, grazie alla ristrettezza dell’imboccatura — con un fondale che solo in alcuni punti raggiungeva i 5 metri e con ancora l’esistenza della secca angioina, che rendeva ancor più difficile la navigabilità in ingresso nel porto interno.

Il fallimento dell’ultimo grande progetto in cui i funzionari borbonici avevano dilapidato una cifra considerevole, senza ottenere in riscontro risultato alcuno, aveva lasciato un senso d’impotenza soprattutto nei tecnici napoletani che avevano partecipato al tentativo, convinti, come già s’è detto, che il porto interno doveva considerarsi perso per la grande navigazione. Sicché a Poirel e Mati, che erano andati a Napoli per acquisire il loro parere, oltre a prendere possesso della documentazione dei tentativi fatti in precedenza, non poterono che ribadire il loro convincimento, vale a dire che non c’era modo di evitare che il canale di comunicazione s’insabbiasse.

Se ne stava persuadendo pure Poirel, molto meno Mati che, essendo l’aiutante, aveva dovuto sobbarcarsi il lavoro di riordinare ed esaminare tutti documenti ed i rilievi idrografici esistenti nell’archivio napoletano sul porto di Brindisi, e s’era quindi potuto fare un’idea più precisa di come stavano le cose. In poche parole l’opinione dei tecnici riprendeva, come già accennato, quella di Afan de Rivera: per loro bisognava abbandonare i seni interni, o al più  ridurli a bacini di commercio per piccole imbarcazioni, e creare, ex novo, un comodo porto commerciale nel seno esterno, nel quale avrebbe potuto trovare spazio pure una rada o un avamporto. Mati invece, già dall’esame delle carte idrografiche, s’era persuaso del contrario: c’era una possibile soluzione al problema, per altro neppure tanto sofisticata, e si poteva  evitare l’interrimento del canale, ristabilendo quindi la piena funzionalità dei seni interni, che lui trovava «bellissimi». Tuttavia si astenne, in quella sede, dal fare obiezioni, ritenendo necessario innanzitutto studiare di persona il porto analizzzandone «il regime della costa esterna, nonché quella della lingua di terra nella quale apresi il canale di comunicazione fra il seno esterno e quegl’interni; canale soggetto a continui e rilevanti interrimenti».

Mentre Poirel e Mati aspettavano che un piroscafo della regia marina arrivasse a Napoli per trasportarli a Brindisi, l’ingegnere francese si ammalò gravemente e la missione fu sospesa. Mati rientrò così a Livorno con tutta la documentazione raccolta sul porto di Brindisi, certo che la questione non sarebbe stata ripresa prima della guarigione del suo diretto superiore. Ma, per fortuna del futuro del nostro porto, così non avvenne. Il ministro Ubaldino Peruzzi, impaziente che la questione del porto di Brindisi fosse definita in breve tempo, considerandola di estrema urgenza  per i futuri risvolti commerciali con l’Oriente, non volle attendere che Poirel si riprendesse. Così, con decreto del 17 luglio 1861, incaricò Mati di studiare la situazione e di «presentare, entro breve termine, un progetto di massima». Come dire che si sovvertivano tutte le gerarchie: la direzione veniva data ad un aiutante il cui grado era inferiore alla maggior parte degli ingegneri con cui avrebbe avuto a che fare. Questo creò malumori e pose Mati in una situazione di disagio sin dall’inizio di questo suo estemporaneo incarico.

Sulla nave che da Livorno lo portava a Napoli, Mati incontrò il barone Nisco, parlamentare del regno, il quale, sapendo dell’incarico affidatogli, dopo avergli parlato a lungo delle vicende del porto di Brindisi e di tutto il denaro che s’era sprecato invano, lo invitò, appena giunti a Napoli, a partecipare ad una riunione dei principali ingegneri napoletani che lui aveva di proposito organizzato. La riunione avvenne e fu per Mati scoraggiante, sia per le difficoltà che gli venivano esposte, essendo la gran parte dei suoi interlocutori contraria che un tentativo fosse effettuato, sia per il fatto che tutti i convenuti erano ingegneri capo oppure ispettori mentre lui era un semplice ingegnere ordinario di prima classe. Quelli, che in questa particolare circostanza erano dei semplici interlocutori, sarebbero divenuti al momento opportuno suoi giudici, considerato che per l’alto ruolo ricoperto avrebbero sicuramente fatto parte della commissione incaricata di valutare il suo progetto. Dal loro attuale atteggiamento, comprese sin da subito l’opposizione che avrebbe incontrato, qualunque fossero state le sue proposte.

Mati giunse alfine a Brindisi in agosto con un piroscafo francese, noleggiato dal governo italiano per raccogliere gli sbandati dell’esercito napoletano, che ormeggiò nel porto esterno nella Cala delle Navi, quindi poco distante dal canale e poté subito rendersi conto che i fondali limitrofi erano talmente interriti da «non permettere il passaggio che di piccole barche». Constatò inoltre che ben pochi porti, e forse nessuno del Mediterraneo, erano stati favoriti dalla «natura come quello di Brindisi» che quindi, messo in condizione di funzionare a pieno regime, era attrezzato con i suoi seni interni e quello esterno «a soddisfare a qualunque siasi esigenza del commercio e della navigazione». Per il resto, gli furono sufficienti una ventina di giorni per confermare la convinzione, già formatasi a Napoli, che non vi sarebbero state soverchie difficoltà per far sì che il porto di Brindisi tornasse perfettamente in funzione.

Gli scandagli fatti e gli accurati esami delle coste esterne ed interne del golfo, soprattutto la costa Guacina e la costa Morena, rispettivamente a ponente ed a levante del porto esterno, gli avevano fatto comprendere quali erano le cause dell’interrimento cui erano soggetti il canale e le zone limitrofe. Le summenzionate coste presentavano infatti manifesti indizi di grandi corrosioni antiche e recenti che facevano comprendere come i «potenti interrimenti» fossero dovuti «quasi esclusivamente dalle avvertite corrosioni e che bastava impedire queste per rendere possibile la conservazione dei fondali del porto esterno, nel canale di comunicazione con i seni interni e nelle zone più prossime al detto canale». Di fatto Mati aveva constatato che la costa Guacina e, soprattutto, la costa Morena, essendo composte di incrostazioni «arenarie conchilifere, commiste a strati di terra», erano soggette «a progressiva soluzione e a corrosioni continue» creando dei depositi sia a nord-ovest, sia a nord-est del canale. Per questo andavano protette con un «rivestimento» per evitare questo fenomeno di corrosione continua: la costa Morena con scogliera  alla base di tutto il tratto tra Fiume Grande e Fiume Piccolo e analogamente la costa Guacina per un buon tratto a partire dalla sponda occidentale del canale.  Inoltre ad ulteriore protezione della bocca del canale, e sempre per garantirsi da depositi di materiale in prossimità della foce, il Mati prevedeva che dalla punta più sporgente della Costa Morena, a destra di Fiume Piccolo, fosse edificata una diga che avanzasse verso nord per circa 500 metri. Appurò infine che il contributo ambientale negativo dato dalle vallate di Ponte Grande e Ponte Piccolo ai seni interni era limitato e comunque tale da poter essere tenuto a freno con «periodiche escavazioni».

In definitiva, oltre alle soluzioni specifiche previste per evitare che il canale si ostruisse, creando di conseguenza estese paludi nei seni interni, e che altre parti della rada s’insabbiassero, il progetto di Mati riorganizzava complessivamente il porto in modo da poterlo porre in competizione con i principali porti nel commercio con l’Oriente. In prima battuta, vista la necessità che lo scalo fosse funzionale in concomitanza con l’apertura del canale di Suez, il progetto prevedeva l’esecuzione dei lavori più urgenti. Pertanto, alfine di liberare dagli interrimenti il canale, il porto interno e la rada, e per difendere la rada, o porto esterno, dai venti, il Mati progettava per l’immediato futuro, oltre a proteggere le coste Guacina e Morena dai fenomeni di erosione, i seguenti lavori:

  1. di chiudere con una diga la Bocca di Puglia, in modo da impedire la formazione di depositi fatti dai venti dominanti da nord-ovest; inizialmente la diga sarebbe stata costituita da una semplice gettata e, in seguito, munita di coronamento, banchine e muri di difesa;
  2. di costruire altre due dighe, la prima lunga 400 metri con inizio la punta del telegrafo di Forte a Mare e direzione mezzogiorno scirocco (SSE); la seconda, già prima descritta, con inizio la punta più sporgente della costa Morena, così che le testate incontrandosi con la direzione di greco-levante (ENE) difendessero la rada dai venti di traversia; anche in questo caso inizialmente si sarebbe trattato di semplici gettate;
  3. riaprire il canale di comunicazione tra porto esterno e porto interno, corredandolo da entrambi i lati da robusti muri di sponda ed alla profondità di 10 metri, in modo che la sua minore larghezza alla foce non fosse inferiore agli 80 metri e che s’allargasse con curve regolari sino ad unirsi con i muri di sponda del porto interno;
  4. di distruggere le varie secche;
  5. di costruire banchine sia nel porto interno, sia nella rada.

Le dighe proposte avrebbero creato un avamporto, come si diceva allora, ben protetto dai venti e dalle correnti, dove con sicurezza, ed in alternativa ai seni interni, avrebbero potuto trovare ricovero i bastimenti che non avessero avuto necessità di inoltrarsi sino alle banchine del porto interno. Di fatto adesso è lo spazio che contraddistingue il porto medio, dove vengono in prevalenza svolte le attività portuali. Oltre a questo scopo, avrebbero concorso anch’esse a preservare le coste dai fenomeni di erosione.

Operando in questo modo Mati assicurava che si poteva porre riparo ai problemi sino ad allora evidenziati dell’interrimento e dell’impaludamento nei due seni interni, portando allo stesso tempo beneficio alla situazione ambientale della città.

Cosa che, a lavori appena abbozzati, avvenne.

Fu quindi l’ingegnere Tommaso Mati a risolvere i problemi del nostro porto, e noi Brindisini dovremmo serbarne ricordo, dandogli così merito del futuro meno problematico cui, grazie al suo progetto, andò incontro la città. Depistati però dalle fantasie cronachistiche, è già tanto se sappiamo che egli sia mai esistito.

In definitiva, la soluzione era stata finalmente trovata, e non era legata all’orientamento del canale oppure alla corrente litoranea, quanto piuttosto al regime delle coste e delle spiagge. Iniziava però a quel punto la parte difficile del percorso, perché bisognava ottenere il consenso delle autorità.

Come Mati aveva temuto, il suo progetto, presentato il 25 novembre 1861, fece arricciare il naso a più d’un ingegnere. A manifestare il maggiore dissenso erano soprattutto quelli che, nel passato regime, s’erano interessati della questione senza riuscire a venirne a capo. Fortuna volle che in quel lasso di tempo fosse divenuto ministro dei lavori pubblici Luigi Federico Menabrea — ritenuto dai più un retrogrado ma che studiava da sé i progetti e non si lasciava suggestionare dalle opinioni altrui — il quale, invece, trovò valido il documento presentato da Mati.

Altra circostanza fortunata fu che, proprio al momento opportuno, si schierò a favore del progetto di restaurazione del porto un personaggio allora di grande influenza per i suoi trascorsi militari: il generale Bixio. Se per il porto interno di Brindisi non fu intonato il de profundis, molto si deve all’ingegnere Tommaso Mati che trovò la soluzione tecnica al problema dell’interrimento del canale di comunicazione. Ma non piccolo merito ebbero, come meglio si vedrà nel prosieguo, i generali Luigi Federico Menabrea e Nino Bixio.

 

  1. Lo scontro parlamentare sul progetto Mati.

Allegato agli atti parlamenti, un prezioso disegno inedito (figura n. 7)  riassume con chiarezza come il progetto di restaurazione del porto brindisino presentato da Mati intendesse realizzare un avamporto, delimitato dalla diga tra Materdomini e l’isola di Sant’Andrea e dai due moli rispettivamente da edificarsi da Forte a Mare, con direzione mezzogiorno scirocco (SSE), e dalla costa Morena con direzione tramontana (nord). La diga ed i moli  summenzionati avrebbero inoltre coadiuvato le scogliere “salvaripa” delle coste Morena e Guacina nel proteggere la foce ed il canale di comunicazione da futuri interrimenti, consentendo così l’accesso di qualsiasi tipo di bastimento nel porto interno.

Era un progetto per certi versi rivoluzionario che proprio per questo sollevò da più parti critiche d’ogni genere. Le disapprovazioni più numerose riguardavano i due moli che, pur avendo il pregio di rendere l’avamporto più protetto dai venti, rischiavano tuttavia di renderlo di più difficile accesso per le navi a vela. Qualcuno temeva inoltre che  il molo di costa Morena avrebbe potuto essere esso stesso una causa d’insabbiamento del canale e non già uno strumento idoneo a prevenirlo. Tali considerazioni traevano in genere spunto dal fatto che a quei tempi  la navigazione a vapore non s’era ancora del tutto imposta, e molti dei “vecchi” ammiragli erano più avvezzi  alla navigazione a vela, la quale non amava gli ostacoli ed il dover fare manovre per superare strettoie, come quella prevista tra i due moli, soprattutto quando non si godeva del favore del vento.

C’era però un’altra necessità che in quel periodo era sorta con la nascita del nuovo regno: quella di un’adeguata difesa marittima. Occorre infatti ricordare che a quel tempo le coste adriatiche erano sotto la minaccia dell’allora tradizionale nemico, l’Austria, che aveva le sue basi sull’altra sponda e che estendeva il suo dominio ancora su tutto il Triveneto. E questa minaccia era resa ancor più inquietante dal fatto che, proprio l’uso del vapore, consentiva lo spostamento rapido di notevoli contingenti di truppe e che la sponda italiana dell’Adriatico era, con l’eccezione di Ancona, sguarnita di basi navali che potessero difenderla. Gli Austriaci, ben più attrezzati, avrebbero pertanto potuto senza eccessivo sforzo attaccare il Basso Adriatico, del tutto indifeso, e costituire in breve tempo una testa di ponte, poi difficile da scacciare. Per questo motivo la marina militare aveva pensato di rafforzare la difesa marittima creando altre basi, e gli unici porti attrezzati per ospitarle erano allora Manfredonia e, soprattutto, Brindisi. Il nostro porto era particolarmente favorito perché i suoi seni interni avrebbero potuto permettere di ormeggiare in acque tranquille, proprio ciò di cui le navi corazzate a vapore, ancora del tutto sperimentali, avevano maggiormente bisogno. Sicché la marina militare, avendo interesse all’uso del porto interno brindisino, avrebbe preferito che i soldi fossero stati spesi per il suo potenziamento piuttosto che per evitare l’interrimento del canale, cui si sperava in un qualche modo di ovviare senza però adottare il sistema alquanto oneroso di scogliere e di moli proposto da Mati. A tutti i mugugni si aggiunse il parere sfavorevole del Consiglio superiore dei lavori pubblici che, a quel punto, sembrò sancire la fine anticipata del progetto.

Il ministro Menabrea, però, pur non essendoci l’assenso del Consiglio superiore dei lavori pubblici, ottenne ugualmente dal re l’autorizzazione a presentare al parlamento il progetto di legge che prevedeva lo stanziamento di 6 milioni «per i lavori più urgenti di ristorazione del porto di Brindisi», da effettuarsi tra il 1864 ed il 1869, secondo quanto previsto dal progetto Mati.

Con tanti spifferi che facevano temere il peggio, il progetto approdò così alla Camera dei deputati il giorno 22 luglio 1863, avendo almeno acquisito, sia pure con qualche distinguo, il parere favorevole della commissione incaricata dell’esame preliminare del disegno di legge proposto. La commissione, ricordata con il nome del suo relatore, Devincenzi, sottolineava a ragione che era necessario pensare anche alle infrastrutture — la cui mancanza comportò appunto che lo scalo brindisino con il tempo finì per perdere peso rispetto a Marsiglia, che si riappropriò così del ruolo di capofila nei viaggi per l’Oriente — e ad un’azione più incisiva riguardo la bonifica dell’entroterra brindisino, per migliorare le condizioni ambientali della città.

Sin dall’inizio della discussione si poté comprendere che non spiravano certo venti favorevoli. A sfavore parlò soprattutto il contrammiraglio Napoleone Scrugli, in buona parte perché ancora legato alla navigazione a vela, un po’ perché, per il ruolo ricoperto, non poteva esimersi dal farsi portavoce delle esigenze della marina militare. La proposta era da lui ritenuta non solo inadeguata ma addirittura deleteria, tanto da fargli prevedere a chiare lettere che avrebbe portato il porto brindisino alla sua definitiva rovina. Propugnatore della teoria della corrente litorale, di cui abbiamo già fatto cenno la volta scorsa, egli così argomentava: «Questa corrente [litoranea] diviene più forte allo spirare dei venti di tramontana», appunto come avveniva all’ingresso della Bocca di Puglia, ed «è impossibile allontanare la torba che la corrente seco porta, quindi non si eviteranno i suoi sedimenti se non rispettando o promuovendo possibilmente il suo ordinario corso». In pratica, per garantirsi dall’interrimento, il contrammiraglio riteneva fosse sufficiente allargare il canale, quasi a farlo sparire, e «darsi inoltre alla bocca interna del canale una minore ampiezza, onde le acque acquistassero in quel punto maggiore velocità. Egli è per sua natura evidente che le acque medesime, una volta entrate nel porto, debbano, reagendo, sortirvi, e quindi in quel punto egual forza riacquisterebbe nel riflusso la corrente nel riportar fuori quelle arene che seco dapprima conduceva… [così] da lasciare il canale sempre scevro da interrimento, e quindi non ostruito l’adito al porto». Mentre, a sua detta, la proposta di Mati, chiudendo la Bocca di Puglia, creava maggiori complicazioni. In aggiunta, la previsione dei due grandi moli avrebbe lasciato una via di accesso così «angusta e difficile che le arene per rigurgito di corrente vadino a depositarsi lì nei porti ove le acque restano nella massima quiete e senza affatto moto». Pertanto, impedire che la corrente faccia il suo corso e che la «torba una volta gettata sulla costa non possa essere dalla corrente medesima ricacciata, che ne avverra? che l’interrimento ne sarà l’effetto». Infatti, a suo giudizio, le correnti «non trovando più la Bocca di Puglia» avrebbero portato nel porto interno «tutte le torbe e tutto il materiale» che poi, sopraggiunta la calma, le acque avrebbero deposto con la conseguenza di insabbiare  «in pochissimi anni il vostro porto». Quindi il progetto Mati non solo creava ostacolo alla navigazione ma rischiava di ostruire ancor più il canale. In conclusione, Scrugli proponeva che la Camera sospendesse «qualunque progetto pel porto esterno di Brindisi», concedendo i soli «fondi necessari ai lavori pel porto interno e canale di comunicazione».

In pratica, sarebbe stato come continuare a non affrontare il problema dell’interrimento alla fonte e consegnarsi ad un nuovo fallimento. Malgrado ciò, l’intervento di Scrugli fece in un qualche modo  presa sui deputati, mettendo in imbarazzo anche chi era inizialmente favorevole alla proposta. Suggestionato dalle sue vivaci critiche c’era già chi invitava alla prudenza ritenendo meglio, prima d’iniziare i lavori, di consultare «una commissione composta da uomini di mare, e soprattutto di persone del luogo» per verificare la bontà della soluzione proposta. Sicché, insieme a qualche preannuncio di voto negativo, sembrava farsi spazio il rischio di un possibile rinvio che avrebbe comportato un pericoloso stop del progetto. Fu a questo punto che intervenne il generale Bixio il quale con molta decisione espresse totale apprezzamento al piano predisposto da Mati, dando così una significativa svolta all’andamento della discussione.

Sin dalle prime battute si schierò a favore dei proponenti e della commissione istruttoria, dei cui consigli sulle bonifiche e sulle infrastrutture si dichiarò in totale sintonia. Riguardo alle obiezioni di Scrugli trovava corretta la sua analisi condotta «da un punto di vista che potrebbe dirsi marittimo, ma nel senso nautico come un tempo poteva intendersi, cioè dal punto di vista della sola marina a vela». Le sue argomentazioni erano però basate su un concetto, a suo avviso, «ristretto» e «del tempo passato» mentre il porto di Brindisi, così come pensato da Mati, si rivolgeva al futuro ed alle navi in rotta per l’Oriente, quindi ad una navigazione  fatta esclusivamente «a vapore ed a vapore misto», dove la vela non avrebbe più trovato spazio. Per questo Scrugli era in errore: «Brindisi sarà un gran porto per la marina a vapore e lo sarà secondario per quello a vela». Di conseguenza, rispetto al passato, «è necessario che il porto interno di Brindisi abbia un avamporto»;  un avamporto con  «i vantaggi della rada senza gl’inconvenienti dei porti, che abbia dunque superficie vasta, acque tranquille, facilità all’imbarco e sbarco di passeggeri». In questo modo i «vapori della Compagnia peninsulare» la cui stazza raggiungeva «le tre mila tonnellate» e una lunghezza media «da 80 a 100 metri» non sarebbero stati in ogni caso costretti «a penetrare all’interno del porto». In altre parole, «l’avamporto e l’insieme dei lavori proposti per il porto di Brindisi risponde ai bisogni ed alle necessità generali che si vogliono in un porto di vera importanza commerciale», in quanto il porto interno avrebbe potuto ricevere qualunque bastimento e vi sarebbe stato spazio «per lo stabilimento dei magazzini». I timori del contrammiraglio Scrugli erano quindi infondati, in quanto: «Ci sarà dunque profondità d’acqua, sicurezza, facilità di sbarco, facilità di approdo, facilità di partenza. Quali vantaggi si possono desiderare maggiori? Se non che l’onorevole Scrugli, il quale, se non ha preso di mira la marina a vapore, ha potuto avere in vista quella a vela, si dà fastidio che col progetto presente venga chiusa la bocca di Puglia, per cui i bastimenti a vela correrebbero pericolo con certi venti, e sarebbe più difficile l’entrare nel porto». Dopo aver poi ricordato che i porti inglesi erano strutturati nel medesimo modo perché ormai nell’ottica d’una marineria indirizzata alla navigazione a vapore, Bixio lanciava un’altra frecciatina nei riguardi del contrammiraglio, sottolineando che anche per una nave a vela non ci sarebbero state difficoltà ad entrare nel porto di Brindisi, salvo per chi conta d’avere «sempre il vento in poppa» oppure a non «aprir gli occhi».

Bixio trovò poi modo di stuzzicare Scrugli anche sulla menzionata teoria della corrente litorale: «egli ha voluto entrare nella questione delle correnti, questione che io reputo molto scabrosa. Né vale il citare autorità, perché in quanto ad autorità a tale riguardo ne troviamo per tutte le opinioni». In ogni caso, «il ragionamento dell’onorevole Scrugli non ha, a mio modo di vedere, alcun fondamento, e che perciò si debba respingere l’ordine del giorno da lui proposto». Allo stesso modo andavano respinte tutte le obiezioni fatte da altri parlamentari sulle questioni finanziarie. Infine, così Bixio concluse il suo intervento: «Il mio voto è che l’impianto del porto di Brindisi si faccia nel miglior modo e prontamente».

Come ebbe modo di sottolineare lo stenografo, il suo intervento riscosse «vivi segni di approvazione».

Il successivo intervento stizzito di Scrugli ebbe poco effetto. Invitò nuovamente a sospendere i lavori: «questi lavori così grandiosi nei quali si buttano a mare tanti denari senza ritrarne nessun utile; sospendeteli per ora. Una commissione che voi ordinerete, composta di tutte le branche dello scibile, marini, ingegneri, gente del luogo, questa giudicherà con cognizione di causa il progetto del Mati». Nel frattempo si sarebbe potuto pensare al canale, allargandolo sino ai 100 metri da lui proposti. Ribadiva che diga e moli avrebbero avuto l’effetto opposto a quello desiderato e cercò, forse con troppa eccessiva foga, di instillare il dubbio che il progetto presentato era del tutto inutile: «sinché della sua bontà non siate convinti, perché, Dio buono, volete gittare immense somme inutilmente? Pur qualche dubbio vi deve scendere nell’animo. Calcolatemi un uomo da nulla; ma infine più volte ho navigato in quei mari, e quando vi dico: badate che voi sbagliate, queste parole debbono almeno farvi restar alquanto in dubbio».

In effetti i 6 milioni di lire in gioco erano allora una cifra enorme e, su questo spesa  invero fuori dell’ordinario, Scrugli puntò per mettere sul chi vive coloro che l’ascoltavano e indurli così alla cautela. Tuttavia, accentuando troppo i toni, ottenne l’effetto opposto: invece di spaventare, suscitò ilarità, quest’ultima evidenziata dallo stenografo, a commento della fine del discorso di Scrugli.

Prese a questo punto la parola il ministro Menabrea il quale sottolineò che, a seguire il consiglio dell’onorevole Scrugli, si sarebbe ricaduti negli stessi errori commessi nel passato. Pigonati, Pollio, Mayo e tutti gli altri avevano fallito appunto perché avevano pensato al canale, alla sua larghezza ed al suo orientamento, senza preoccuparsi di quello che avveniva nella rada e di quale fosse lo stato delle coste. Per questo tutti quei lavori erano risultati inutili in quanto, avevano scavato e rivangato il canale, senza adottare preliminarmente nessun accorgimento per tutelare le coste dalla corrosione, ed i problemi d’insabbiamento si erano prontamente riproposti. Neppure con l’ultimo tentativo, per il quale solo dal 1852 al 1861 s’erano spesi l’equivalente di 4 milioni di lire, si era riusciti ad ottenere risultati concreti ed il porto di Brindisi si trovava «in condizioni peggiori di quel che fosse quando furono iniziati i primi lavori. Ora, signori, ciò che vi propone l’onorevole Scrugli non è né più né meno che quello che fu tentato per ben tre o quattro volte e che riuscì così malamente e cagionò inutilmente enormi spese».

Spiegò poi che la diga ed i moli previsti dal progetto Mati dovevano essere edificati prima di dar mano ai lavori sul canale, perché essi stessi aiutavano, insieme alle scogliere, a proteggere la costa Guacina e la costa Morena dai flutti e dai venti, in modo da non subire quei processi di corrosione che creavano depositi di materiale, causa principale dell’interrimento. Infatti «la massima parte delle materie sono trasportate all’interno del porto verso la bocca di Puglia, e che di più le onde le quali corrodono la costa Guacina provengono da questa bocca di Puglia». Ed era evidente «che la prima idea fu quella di chiudere questa bocca. Inoltre vi sono anche le materie provenienti da corrosione della costa Morena, le quali sono portate da altri venti ed anche dalle onde. Se è perciò anche necessario d’impedire che le materie provenienti da questa corrosione siano portate alla bocca del porto interno, ne nasce la convenienza di formare anche quel molo che si attacca alla costa Morena e si estende dal sud al nord». In definitiva bisognava prima proteggere la rada dal trasporto di materiale che avevano sino ad allora prodotto l’interrimento. «Una volta che questi lavori saranno terminati, si potrà poi procedere nell’ordine inverso da quello proposto dall’onorevole Scrugli, perché si avrà allora la sicurezza che i lavori di scavo non saranno più compromessi dai depositi provenienti da queste correnti». Fece presente poi che «queste conseguenze non sono basate sopra un semplice ragionamento, ma sui risultati» e sull’esperienza data dagli errori passati: il progetto che veniva presentato alla Camera «non lo fu a caso, ma formò esso l’oggetto di lunghi studi». Assicurò infine che le bonifiche sarebbero state trattate «simultaneamente alla questione del porto».

Alla fine della discussione, la Camera, dopo aver respinto l’ordine del giorno presentato da Scrugli, approvò il progetto di legge relativo al porto di Brindisi con 148 voti favorevoli e 52 contrari.

C’è da ricordare che il fenomeno di erosione cui era soggetta la costa Guacina era già stato rilevato dalla commissione costituita nel 1834 dal re Ferdinando II, che aveva anche previsto la costruzione di «una scogliera atta a garentire la parte più esposta della costa Guacino [ndr. Guacina], a sinistra della rada». Ed anche quella che interessava la costa Morena era a piena conoscenza degli ingegneri dell’epoca borbonica, tanto che Luigi Giordano nel suo progetto per il porto di Bari, riporta che la parte dell’anzidetta costa che si trova tra Fiume Piccolo e Fiume Grande «ha per lunghi tratti una scarpa verso il mare quasi verticale, di più o men notevole altezza, composta di terra, bolo, e tufo carpino, disposti per lunghi e spessi strati; una sì fatta scarpa così pronunziata della costa, è normale alla direzione dei venti boreali, che la pongono in franamento continuo». Tuttavia nei lavori eseguiti dal 1842 al 1860 non era stato previsto nulla per proteggere la costa Morena da questo franamento continuo che depositava il materiale che poi causava l’ostruzione del canale Pigonati. Quindi, sebbene l’erosione cui erano soggette le coste a ponente ed a levante del canale fossero state individuate, esse non furono ritenute la causa principale dell’interrimento del canale, tant’è vero che Giordano, dopo averne parlato, sottolineava che il problema dell’approdo brindisino è l’impossibilità di mantenere la profondità «data alle acque del canale di comunicazione tra lo stesso porto e la rada». Concludendo poi che «la qual cosa si otterrà sicuramente, se sarà possibile d’impedire gli interrimenti nella rada stessa, o piuttosto di spiegare le cagioni onde essi derivano». È del tutto evidente quindi che, per i tecnici borbonici, le erosioni delle due coste non spiegavano «le cagioni» dell’interrimento, forse perché continuavano a dare maggior rilievo alla corrente litoranea ed ai sedimenti portati alle estremità dei seni dalle vallate di Ponte Grande e Ponte Piccolo.

Va dato pertanto merito a Tommaso Mati d’aver considerato che la corrente litoranea non poteva avere da sola la forza di convogliare materiale a sufficienza per insabbiare il canale e tantomeno poteva esserne causa «il tributo di torbide» arrecato dalle vallate di Ponte Grande e di Ponte Piccolo. In merito a queste ultime, era bastato rilevare che gli scandagli nel seno di Ponente dapprima crescevano per poi degradare andando verso la bocca del canale, per desumere che l’interrimento del canale non poteva derivare dal materiale che i torrenti scaricavano nei seni interni perché, nel caso, sarebbe avvenuto l’opposto. E d’aver di conseguenza compreso che il problema era causato dalle erosioni cui sottostavano la costa Guacina e, soprattutto, la costa Morena e che bastava, tramite scogliere e moli, proteggerle dai flutti e dalle correnti per risolvere il problema. L’immagine, “Porto di Brindisi rilevato nell’anno 1872” (figura n. 8), mostra appunto le due scogliere edificate a protezione delle coste per evitare che fossero erose creando quei depositi di materiale che poi ostruivano il canale.

Dopo ottant’anni e più di tentativi falliti, Mati riuscì finalmente, avendone compreso le cause, ad impedire che il canale continuasse ad insabbiarsi. Se quindi il porto di Brindisi poteva voltare pagina ed avere un futuro diverso fu tutto merito dell’ingegnere aretino.

Ironia della sorte, nei racconti sul porto brindisino, è già tanto se Mati viene citato en passant: storici e cronisti locali in genere lo ignorano. Figuriamoci a dargli il merito per aver risolto un problema che, ad un certo punto, sembrava senza possibile soluzione.

Così come per la favola dell’errato orientamento del canale, anche in questa circostanza non poco peso ha avuto la fervida fantasia di Ferrando Ascoli il quale trovò assurdo il sistema di moli previsto da Mati, tanto da rivolgersi a lui con un beffardo: «perdoni il signor ingegnere», mentre ne criticava il piano progettato. E qui in effetti siamo all’assurdo: Mati aveva disegnato il porto di Brindisi con cinquant’anni di anticipo rispetto a quello che avrebbero poi fatto le autorità militari in previsione delle operazioni belliche della grande guerra, ed il marino Ferrando Ascoli trovava modo di bacchettarlo.

C’è sempre un motivo a tutto.

E forse si deve a questo strano giudizio d’un cronista poco documentato — oltre a chi, leggendolo, l’ha copiato passivamente prendendo tutto per oro colato — se Tommaso Mati è rimasto per i Brindisini un perfetto sconosciuto.

(3 – fine)

 

Riferimenti bibliografici

 

  1. Il tentativo risolutivo.

Camera dei Deputati, “Relazione della commissione relativa alla ristorazione del porto di Brindisi”, sessione 1861-62.

(A cura di R. SALVESTRINI), op. cit.

  1. Lo scontro parlamentare sul progetto Mati.

Camera dei deputati, “Tornata del 22 luglio 1863”, sessione del 1863.

Camera dei deputati, “Tornata del 23 luglio 1863”, sessione del 1863.

GIORDANO L., op. cit.

 

 Per la prima parte clicca qui:

Il porto di Brindisi: una storia sconosciuta (prima parte) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 Per la seconda parte clicca qui:

Il porto di Brindisi: una storia sconosciuta (seconda parte) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

 

 

 

 Una campagna elettorale nella Ugento della seconda metà del XIX secolo

Una campagna elettorale nella Ugento della seconda metà del XIX secolo molto simile alle campagne elettorali dei nostri tempi

 

di Fernando Scozzi

Mi capita di leggere un opuscolo1 scritto da Niccola Vischi  (Trani, 1849 – Napoli, 1914) uno dei più illustri avvocati italiani, deputato e poi senatore a vita. E’ la pubblicazione dell’arringa pronunciata “Pei Signori Colosso Luigi, Massimo e Adolfo”, rispettivamente padre e figli, imputati di avere minacciato alcuni elettori allo scopo di indurli a votare per i candidati della loro lista. Le elezioni sono quelle per il rinnovo di un quinto dei consiglieri comunali, tenutesi ad Ugento il 31 luglio 1882.2 Al  partito di Vito Pezzulla, sindaco in carica, si contrappone il partito dei  Colosso che risulta vincitore delle elezioni.

La prima pagina dell’opuscolo dell’avv. Vischi

 

Che cosa fanno gli amici del Pezzulla dopo la sconfitta? Si oppongono alla convalida degli eletti;  ma il ricorso viene respinto. “A questo punto – secondo l’avv. Vischi –  il sindaco cerca di gittare un grido di allarme e rivolgendosi al magistrato inquirente scrive: A disimpegno dei miei doveri, quale Autorità locale di pubblica sicurezza ed ufficiale governativo vedomi nell’obbligo e nell’interesse della giustizia, di porgere quei lumi che portano allo scovrimento dei fatti ed indicando dodici testimoni denunzia alcune situazioni che secondo lui devono costituire i capi di accusa contro i signori Luigi, Adolfo e Massimo Colosso, Giovanni Rovito, Vincenzo Milone e Carmine Rizzo.” A conferma delle sue accuse, il  sindaco scrive: “ Colgo di poi questa opportunità per far conoscere alla Giustizia come gli elettori Vito Molle, Vito Congedi, Basile Lorenzo, Luigi Fiorito, Salvatore Ponzo, Luigi Santacroce, tutti di Ugento, mi dichiararono che i signori padre e figli Colosso, nonché il principe d’Amore Francesco ripetute fiate li minacciarono che ove non dessero il voto a seconda dei loro desideri, siccome si trovano, come si trovavano, fittuari e colòni di proprietà loro, li avrebbero scacciati a viva forza il giorno dopo la elezione; anzi, il primo dei nominati, Vito Molle, aggiungeva di essere stato minacciato di revolverata. Mi consta, poi – continuava il Sindaco – che dalla minacce passarono alle blandizie e vennero corrotti chi con pranzi, chi con denari, chi con generi”.

Panorama di Ugento. Acquerello di Cosimo De Giorgi (1882).

 

Le indagini sono affidate ad un delegato di pubblica sicurezza, il quale nella sua relazione al sottoprefetto di Gallipoli sottolinea “lo stato di eccessiva esaltazione in cui i partiti si contendono il potere amministrativo in Ugento”. Ciò nonostante  i Colosso sono rinviati a giudizio.

I primi a deporre sono Lorenzo Basile, Vito Molle, Luigi Fiorito ed altri, i quali negano di avere ricevuto minacce dai Colosso.  E d’altronde,  anche se le minacce ci fossero effettivamente state, potevano costoro testimoniare contro i loro “padroni?” Successivamente, depongono altri testimoni definiti dall’avv. Vischi come “i dodici apostoli” del Sindaco che hanno il compito speciale di asserire i fatti e la missione generale di avvalorare i detti degli altri con le parole anch’io ho inteso a dire, etc… .  Tra costoro – secondo il Vischi – abbiamo il vero capo partito nella persona di Donato Piccinno che si presenta con i suoi due figli: Oronzo, (assessore spodestato dal partito dei Colosso) e Giuseppe, definito violento e prepotente. In seconda linea vengono Salvatore Moro3 , maestro della scuola elementare della frazione Gemini, Ambrogio Rizzo, medico condotto (del quale i Colosso vogliono il licenziamento) e Paolo Andrioli, esattore delle imposte. Tutti  tre, essendo dipendenti comunali, sono dalla parte del sindaco, al quale  devono la nomina.  In terza linea – continua l’avv. Vischi –  vengono gli agenti dell’ultima classe, quelli che nei partiti hanno la missione di sbraitare, correre, encomiare, calunniare, sempre facendo da eco, e lavorando poco di coscienza e di mente, molto di gambe, di polmoni e di fiele, e tutto ciò per l’unica soddisfazione di sentirsi dire bravi ad ogni loro racconto di eccessi compiuti, nonché l’altra di potere esclamare: abbiamo vinto noi. Poveri iloti del ceto elettorale! Esercitano anch’essi in questa maniera la loro sovranità!…”

Insomma,  è la  descrizione di una campagna elettorale di 140 anni fa che, per molti aspetti, è uguale alle contese elettorali dei nostri tempi. Infatti, come non paragonare Donato Piccinno (definito  dal Vischi il vero capo del partito del Sindaco) ai tanti personaggi che, pur non scendendo in campo in prima persona, manovrano dietro le quinte e poi ottengono un posto di assessore per  un loro parente? Ed i “poveri iloti” di quel periodo non sono i “galoppini” contemporanei  che,  alla stessa maniera, sbraitano, calunniano, corrono di qua e di là…? Il discorso non cambia per i dipendenti comunali, che si comportano come la maggior parte degli impiegati, sempre pronti ad interpretare la volontà del Capo allo scopo di ottenere una promozione. E poi vengono i Colosso, il cui potere economico insieme a quello dei Rovito (con i quali sono imparentati) pervade la società ugentina del XIX secolo. Per questi è quasi un gioco vincere le elezioni  avendo dalla loro parte uno stuolo di affittuari, di colòni, di inquilini e di debitori ben disposti a  votare la lista dei Colosso pur di non avere altri problemi oltre a quelli dovuti alla povertà.  In un certo senso, è una sorta di voto di scambio, come quello che, in molti casi, si consuma tra elettori e candidati di tutte le campagne elettorali: cambiano i tempi, cambiano i protagonisti, ma ci sarà sempre chi sfrutterà i bisogni economici degli elettori, le loro convinzioni ideologiche, la loro fede religiosa per conquistare o mantenere il potere.

Ma torniamo al processo contro i Colosso ed all’arringa dell’avv. Vischi il quale, dopo aver ribaltato le accuse affermando che sono gli amici del Pezzulla ad essere “rei di broglio elettorale”, invoca l’assoluzione dei suoi assistiti, “distintissimi gentiluomini”, non per “insufficienza di prove” (come chiede il Procuratore del Re) ma per inesistenza del reato, giacchè l’influenza e le pressioni  non possono essere confuse con le minacce”.

E il sindaco Pezzulla? Il suo destino politico è segnato perché l’anno successivo si vota per il rinnovo dell’altro quinto dei consiglieri comunali e vince ancora una volta la lista dei Colosso. Il Pezzulla non ha più l’appoggio della maggioranza dei consiglieri comunali e quindi si dimette. Al suo posto si insedia un regio delegato straordinario;  poi il Re nomina Sindaco il principe Francesco d’Amore: i baroni Colosso (almeno in quel periodo)  non sono lusingati dall’umile carica di Sindaco di Ugento.

Antico stemma del Comune di Ugento

 

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(1) L’opuscolo è datato Trani, 29 agosto 1883

(2) La legge elettorale n. 2248 del 20.3.1865 prevedeva che i consigli comunali si rinnovassero, ogni anno,  di un quinto dei loro componenti. Le operazioni di voto si svolgevano nel seguente modo: gli elettori si riunivano nella sala della votazione; quindi, il presidente del seggio elettorale chiamava ciascun elettore nell’ordine della sua iscrizione nella lista. Trascorsa un’ora dal termine del primo appello, si procedeva  ad una seconda chiama degli elettori che non avevano votato. Per essere elettore occorreva avere compiuto il 21° anno di età, godere dei diritti civili e pagare un certo tributo rapportato alla classe del Comune. Le donne non erano ammesse al voto. La Giunta veniva eletta dal Consiglio Comunale, mentre il Sindaco, nominato dal Re fra i consiglieri comunali, durava in carica tre anni.  Il Comune di Ugento, nel 1882, aveva una popolazione superiore a 3.000 abitanti e quindi il Consiglio era composto da 20 consiglieri.

(3) Salvatore Moro, originario di Galatina e maestro elementare a Gemini (frazione di Ugento)  era il nonno dell’ on. Aldo Moro. In quel periodo, i maestri della Scuola Elementare venivano nominati dal Consiglio Comunale essendo l’istruzione primaria di competenza del Comune.

 

Il porto di Brindisi: una storia sconosciuta (seconda parte)

di Nazareno Valente

 

  1. La polemica su cosa fare del porto interno di Brindisi

 

Inizialmente, oberato dai debiti contratti per riconquistare il regno, Ferdinando IV, divenuto poi Ferdinando I con la costituzione nel 1816 del regno delle Due Sicilie, non era certo nelle condizioni economiche per poter varare nuove iniziative per i porti. La situazione si aggravò anche a causa della carestia del 1817 e delle incertezze politiche che fecero seguito ai moti del 1820-21. Solo al tempo di Francesco I ci fu la possibilità di avviare quantomeno l’attività progettuale che interessò però altri porti pugliesi, quelli di Bari e di Gallipoli. Brindisi ripiombò così nelle tragiche condizioni del periodo antecedente i lavori di Pigonati, quando solo le barchette riuscivano a fatica a superare il canale e l’aria insalubre mieteva vittime a decine. Per lenire le difficoltà del momento, fu mandato nel 1828 l’ingegnere Lorenzo Turco con l’incarico di progettare un intervento di spurgo generale del bacino. Come ebbe però poi a lamentarsi Francesco Antonio Monticelli, nella “Terza memoria in difesa della città e del porto di Brindisi”, l’operazione fu fatta parzialmente tant’è che nel 1833, a cinque anni dall’inizio, erano stati spesi solo 5.600 ducati dei 13.000 promessi. Ciò nonostante si era potuto scavare in parte il canale — che il Monticelli, forse riprendendo una consuetudine popolare, chiamava ormai canale Pigonati — portandolo ad una profondità di 10-12 palmi (tra 2,65 e 3,15 metri circa) «onde vi passano i legni di 100 a 120 tonnellate; e prima non dava passaggio che a piccole barche». Il finanziamento infatti era stato con ogni probabilità bloccato su consiglio di Giuliano de Fazio, ispettore generale del Corpo di Ponti e Strade, il quale riteneva che l’aria malsana fosse una componente ineliminabile e congenita della città e che era quindi inutile compiervi lavori di ogni tipo. A sostegno di questa sua strana tesi riportava brani di Cesare e di Cicerone che s’erano soffermati brevemente a parlare del clima brindisino. In effetti, de Fazio era tanto innamorato delle proprie idee — o forse era solo malafede — da forzare quello che i due illustri personaggi dell’antica Roma avevano nella realtà riferito in merito. Per questo, si dichiarava in definitiva apertamente contrario a sprecare del denaro per risanare il porto di Brindisi in quanto, qualsiasi lavoro fosse stato compiuto, non avrebbe comunque potuto risolvere i problemi cronici della città. In questa mistificazione dei fatti, volta a mandare avanti il suo progetto su Gallipoli e ad affossare quello alternativo su Brindisi, l’ispettore generale trovava buon gioco sia all’interno della deputazione provinciale, che come lui riteneva più conveniente appoggiare la posizione del porto di Gallipoli che gestiva un fiorente traffico dell’olio, sia all’interno del Corpo di Ponti e Strade il cui direttore, Carlo Afan de Rivera, condivideva nella sostanza le sue idee. Certo Afan de Rivera era meno categorico, tuttavia riteneva che per il bene di Brindisi era meglio spostare tutte le principali attività portuali nel porto esterno, rendendo disponibile il porto interno alla navigazione di piccolo cabotaggio.

Contro questa soluzione si schierarono i Brindisini Giovanni Monticelli, sostenuto dallo zio Teodoro Monticelli insigne vulcanologo, Benedetto Marzolla e, con particolare verve, il barone Francesco Antonio Monticelli, appoggiati in ciò da liberi studiosi e, per certi versi, dagli ingegneri del Genio militare che si opponevano in linea di principio alle idee innovative di de Fazio ritenendole a giusta ragione poco sicure. Occorre ricordare che il progetto su Brindisi fu il classico compromesso ideato su due piedi da Afan de Rivera tra la posizione estrema di chi voleva che Brindisi fosse abbandonata — si narra che i suoi residenti avrebbero dovuto trasferirsi a Mesagne, anche se non ho trovato alcun documento ufficiale che avvalori una simile ipotesi — e quella dei Brindisini che volevano rimanere a Brindisi e vedere riaperti i seni interni alla navigazione di tutti i tipi di bastimenti. Per cui, da un punto di vista teorico, soprattutto Francesco Antonio Monticelli ne mise facilmente a nudo tutte le pecche. Ciò nonostante l’ascendente di cui godevano i due dirigenti del Corpo di Ponti e Strade e la posizione contraria a Brindisi assunta dalla deputazione provinciale sembrava rendere la partita quasi dagli esiti scontati. Quando la disputa diventò particolarmente accesa e le parti in campo si scambiavano reciproche accuse ed offese, rasentando lo scontro fisico, fortuna volle che l’astro del de Fazio si eclissasse dall’oggi al domani. Aveva infatti voluto fare di testa sua nella sistemazione della Riviera di Chiaia, contravvenendo a precise disposizioni del sovrano che, venutolo a sapere, lo destituì sui due piedi da ogni incarico. S’aggiunse che incominciava a girare il progetto dell’apertura del canale di Suez, che avrebbe posto il porto di Brindisi in una posizione di privilegio nei commerci con l’Oriente. Questi eventi fecero forse pendere la bilancia a favore dei nostri concittadini e la Consulta generale «riconobbe — a detta di Ascoli — fondato e giusto l’allarme dei Brindisini». Poco dopo, il 10 novembre 1834, con rescritto reale, Ferdinando II nominava una commissione incaricata di recarsi a Brindisi, di valutare la situazione e di redigere un progetto definitivo «il più utile sotto il triplice aspetto politico, militare e commerciale».

Occorre a questo punto ricordare che, dopo il ritorno dei Borbone, l’onere delle spese riguardanti le principali opere pubbliche non erano più a carico del tesoro statale ma delle casse provinciali e del comune interessato. La decisione di Ferdinando II sollevò pertanto vibrate proteste, non solo da parte di Afan de Rivera e dei principali dirigenti del Corpo di Ponti e Strade, ma pure della deputazione provinciale che, invece, avrebbe voluto avviare i lavori per il porto di Gallipoli la cui richiesta era stata avanzata sin dal 1831. Per questo, Ferdinando II stesso nell’aprile del 1835 si recò a Brindisi per convincere l’intendente e i dirigenti provinciali e locali dell’importanza dell’operazione che avrebbe avuto favorevoli riscontri commerciali per tutta la provincia. A quanto racconta Ascoli i Brindisini «lo accolsero trionfalmente» e «con la città addobbata a festa»; non è, invece, dato di conoscere quale fu l’atteggiamento dei dirigenti provinciali che, però, con ogni probabilità cercarono in tutti i modi di bloccare l’iniziativa. Non a caso, la commissione presentò il progetto al re il 15 marzo 1836 ma il Consiglio di Stato l’approvò solo dopo ben sei anni nel luglio del 1842 ed il re con decreto reale del 27 agosto 1842.

 

  1. Il grande progetto fallito nel nulla

 

Il progetto conteneva un programma ben articolato che interveniva su tutti gli aspetti nevralgici del porto di Brindisi: orientamento del canale e sua profondità, da portare a 32 palmi (8,50 metri); eliminazione dell’isola Angioina dandole, insieme al canale Angioino, una profondità di 18 palmi; escavazione dei Seni di Ponente e di Levante, in cui avrebbero dovuto trovare posto rispettivamente il porto militare e quello commerciale, bonifica di Ponte Grande e di Ponte Piccolo e dei luoghi paludosi; costruzione di una scogliera per garantire dalle frane la parte più esposta della costa Guacina e di tre fari nel porto. Un progetto quindi imponente, come la spesa prevista di 336.000 ducati a totale carico della Provincia di Terra d’Otranto e del Comune di Brindisi, così ripartita: porto 287.000 ducati; bonifiche 31.000 ducati; spese varie 18.000 ducati.

Per quanto riguarda l’orientamento del canale, Ascoli ci fa sapere che la commissione prevedeva «un angolo di  11° 15’ verso nord con quello di Pigonati» e quindi in direzione “quarto di greco verso levante”, come dire con un angolo verso nord di circa 51°, considerato che quello scavato da Pigonati, diretto verso greco-levante, formava con ogni probabilità un angolo con il nord di circa 62°.

I lavori ebbero effettivo inizio nel dicembre del 1842 sotto la direzione di Albino Mayo, tenente colonnello del Corpo del Genio. Sebbene non lo si sottolinei mai, fu questa la peggiore esperienza tra tutti i tentativi fatti di restaurare il porto brindisino: i lavori andarono avanti a rilento, le spese lievitarono in maniera esponenziale e non si approdò praticamente a nulla. Uno dei limito più ricorrente fu che si iniziassero tanti diversi lavori senza però portarli mai a termine. Avvenne così anche per i primi due impegni a cui Mayo si dedicò, vale a dire scavare il canale dandogli maggiore profondità ed un diverso orientamento e procedere all’abbassamento dell’isola Angioina che creava difficoltà al deflusso delle acque ed al transito delle imbarcazioni.

L’isola fu fatta sparire dalla vista dei Brindisini ma, lasciata non si sa bene perché a pelo d’acqua, creò la secca Angioina che dava problemi di navigazione all’ingresso del porto interno ancora nel 1867, quando fu finalmente distrutta. Contestualmente si iniziò a scavare il canale dandogli una diversa direzione. Su quest’ultimo aspetto non sapremmo nulla, se non fosse per la testimonianza di Domenico Cervati, capitano del Corpo del Genio Idraulico, che cita l’evento nel suo “Per la stabile ristaurazione del porto di Brindisi” del 1843, in quanto convinto che per superare il problema dell’insabbiamento bisognasse intervenire sulla forma del canale e non sulla sua direzione. Per questo, per evidenziarne l’inutilità, riferiva sul nuovo orientamento dato al canale da Mayo che differiva da quello adottato da Pigonati di 9° verso nord. Come dire che formava un angolo di circa 53° gradi con il nord e che quindi era indirizzato all’incirca verso greco, direzione che a detta dei presunti consigli dei marini e dei pescatori brindisini richiamati dall’Ascoli, avrebbe dovuto proteggere il canale, oltre che dalle traversie, anche dall’insabbiamento. A cose fatte, si appurò invece che, variato l’orientamento, il canale continuava ugualmente ad insabbiarsi. Né più, né meno, di prima.

Quindi divenne un fatto accertato che l’interrimento della foce non aveva nulla a che fare con l’orientamento scelto da Pigonati nel tracciare il canale. Da quel che Cervati lascia intendere,  mentre lui scrive — siamo con ogni probabilità agli inizi del 1843, nel momento stesso in cui Mayo variava l’orientamento del canale — si era ormai tutti convinti che le cause dell’interrimento andavano ricercate altrove.

In senso generale, il progetto diretto da Albino Mayo era talmente imponente che c’erano tutte le condizioni per credere che il porto di Brindisi sarebbe stato restituito ai suoi antichi splendori. L’euforia però si tramutò presto in delusione, quando ci si accorse che i lavori venivano fatti in maniera disordinata, aprendo tanti fronti e senza arrivare a concludere mai niente. Insoddisfazione del tutto scontata, se si pensa che in quel “grande” progetto i Brindisini avevano riposto le loro migliori speranze per un futuro meno problematico e impegnato parte dei loro risparmi, autotassandosi per raccogliere i 2.000 ducati all’anno necessari per finanziarlo. E senza contare che i negozianti della città si erano sottoposti ad una sovraimposta «di carlini due a soma sulla estrazione degli olii» raccogliendo nel corso degli anni «una somma di circa 130 mila ducati».  Lo scontento divenne acredine quando con il passare del tempo fu evidente che, sebbene fosse stata costituita la “Deputazione speciale del porto e della bonifica di Brindisi”, incaricata di vigilare sull’esecuzione dell’opera, i lavori erano del tutto fuori controllo. Una, o più mani anonime, mandarono così alle stampe un pamphlet dal titolo chilometrico, “Sulle opere del porto di Brindisi eseguite sotto la direzione del tenente colonnello Albino Mayo”, in cui si accusava senza mezzi termini il direttore dei lavori e gran parte di coloro che erano impegnati nell’opera di fare la cresta, ed anche di peggio.

Lasciando da parte le accuse dei Brindisini, vediamo cosa raccontava la documentazione dell’epoca. Almeno sino al 1847, le fonti ufficiali si mantengono sul generico e negli Annali civili del regno delle Due Sicilie di quegli anni non ci si dilunga più di tanto sulle opere fatte a Brindisi. In quello del 1844 si riporta che le opere «procedono innanzi senza interruzione» preannunciando con troppo ottimismo che la città a breve «potrà riacquistare maggiore importanza e maggior lustro di quella che godeva per lo passato». Anche nel 1845 ci si mantiene sul vago, ma sempre improntato alla visione rosea, e si riferisce che le opere sono «condotte con alacrità, essendosi adoprati nel medesimo tempo a nettarlo tre cavafanghi a vapore e due sandali, oltre un quarto battello a vapore addetto a trasportare le sabbie raccolte fuori le Petagne». L’alacrità è tale che, pur essendosi a metà anno, sono già stati spesi le tre rate annuali della provincia (complessivi 128.000 ducati) e le tre annualità  del finanziamento del comune di Brindisi (in totale 6.000 ducati), tanto che la Deputazione speciale del porto di Brindisi suggeriva, in attesa delle successive rate e per mantenere la stessa celerità, di chiedere addirittura un prestito alla «cassa di sconto». Sempre sulla stessa linea il commento del 1846 in cui si annota che «ferve l’opera», in maniera talmente ardente che, nei primi quattro mesi di quell’anno, sono già stati spesi circa 20.000 ducati e complessivamente nei tre anni 160.000 ducati. Forse, essendosi esauriti gli aggettivi per indicare la velocità con cui le opere avanzavano, nessuna menzione è fatta nel 1847, quando la pubblicazione degli “Annali” viene sospesa insieme ai lavori a causa dei moti del 1848.

Di là dell’enfasi — con ogni probabilità era lo stesso Mayo a redigere questi brevi e generici sunti — in tutto questo tempo non si ha riscontro di nessun lavoro completato, sebbene risulti a consuntivo che, a fine 1847, siano stati già spesi 300.000 ducati dei 336.000 concessi. Il caso a questo punto vuole che Mayo muoia all’improvviso nel maggio del 1848 e che il sottintendente del distretto di Brindisi, Benedetto Stragazzi, sia incaricato, con ogni probabilità su richiesta della direzione subentrante, preoccupata di dover essere chiamata a rispondere delle malefatte sin lì compiute, di verificare lo stato dei lavori. A Stragazzi basta poco per constatare la gravità della situazione e di riferire nel 1849 all’intendente le innumerevoli irregolarità di vario genere commesse. Contestualmente il sottintendente trasmette copia dell’anzidetta relazione a Napoli accompagnandola da una nota in cui si comprende che, subito dopo la morte di Mayo, era stato mandato a Brindisi con il compito specifico di esaminare l’andamento dei lavori. Per questo manifesta senza nessuna titubanza il suo giudizio: «L’opera della bonifica di questo porto è grandiosa e forma la gloria del nostro sovrano che tante generose cure vi ha prodigato; ma, schiettamente posso assicurarvi, ch’è stata malamente eseguita, e perciò han tradito la sua augusta fiducia. Credetemi, me ne piange il cuore nel vedere tanto denaro e tempo malamente barattato con poco risultato, e ciò per poco accorgimento degli agenti a cui è stata affidata». Nel proseguo della lettera il sottintendente consigliava la formazione di una commissione incaricata di valutare se proseguire con il progetto in atto e, in ogni caso, lasciava trasparire che non intendeva seguire più la questione, perché aveva preso una piega difficilmente modificabile. Non a caso, un anno dopo, come richiesto, Stragazzi fu nominato sottintendente a Gerace e, poco prima di lui, fu trasferito anche l’ingegnere Vincenzo Fergola che era subentrato nella direzione dei lavori a Mayo.

Nel frattempo le spese calcolate ad agosto del 1848 erano pari a 415.056 ducati, quindi già superiori al finanziamento inizialmente previsto e, molto benignamente, anche le fonti ufficiali lamentavano che non era stato completato nemmeno un terzo dei lavori programmati. Di finito «il solo fuoco di porto sul Forte di mare», quindi un faro, acceso il 20 gennaio 1844, neppure basato sulle più recenti tecniche ma sull’antico sistema dei riverberi a lume fisso, la cui installazione rese necessario l’acquisto di due lampade di supporto per renderlo maggiormente visibile e del rinnovo del cupolino, spese queste ultime non preventivate e che comportarono una spesa aggiuntiva di 1.297 ducati. Per il resto erano stati iniziati, senza portarli a termine i seguenti lavori: scavo dei rami interni, solo parzialmente e senza aver raggiunto in nessuna zona la profondità fissata; riduzione ad imbuto con modifica dell’orientamento del canale di comunicazione, senza però aver raggiunto la profondità fissata e senza aver ottenuto nessun risultato per evitare che s’insabbiasse; abbassamento solo a pelo d’acqua dell’isola Angioina; edificazione parziale della scogliera a protezione della costa Guacina; bonifica di alcune paludi dei due rami del porto interno e di una piccolissima parte di Fiume Piccolo; edificazione di parte della banchina del porto interno. In più si annotava che molte delle opere non erano state neppure fatte nel migliore dei modi.

Vista la situazione, il suggerimento del sottintendente non poteva che essere accolto e nello stesso 1849 fu nominata una commissione la quale valutò che, per completare il progetto condotto sino ad allora in maniera deficitaria, sarebbero stati necessari altri 820.000 ducati. Considerato l’elevato importo, la commissione proponeva in alternativa di completare solo i lavori che consentivano di non rendere del tutto inutile quanto già fatto, conseguendo nel contempo risultati sufficientemente apprezzabili. Proponeva pertanto di scavare: il canale sino a raggiungere i 32 palmi di profondità previsti nel progetto; la secca creata dall’isola Angioina sino ad una profondità di 8 palmi;  il seno di Levante sino ad una profondità di 6 palmi. Di proseguire poi nella bonifica dei due seni interni e di Fiume Piccolo e nella edificazione di alcune banchine e della scogliera a protezione della costa Guacina. In questo modo si sarebbe potuto rendere navigabile il canale a tutti i tipi di bastimenti, riunendo il porto mercantile a quello militare nel seno di Ponente, ed ottenere migliori condizioni ambientali a seguito della bonifica delle valli e dei seni interni. In questo modo la spesa si riduceva a 222.000 ducati.

La proposta alternativa della commissione fu accolta con una novità riguardante le quote a carico dei fondi della deputazione provinciale e del comune, le quali risultarono pari rispettivamente a 15.000 e a 1.200 ducati annui, mentre il completamento annuale di 15.280 ducati gravava ora sulla Tesoreria generale. In pratica l’insuccesso del tenente colonnello Mayo aveva posto le autorità provinciali in una posizione sempre più critica riguardo al progetto, mentre permaneva l’interesse del governo che, pur di proseguire la restaurazione del porto di Brindisi, aveva deciso straordinariamente di farsi carico di parte della spesa, sempre nella certezza di sfruttare le possibilità commerciali derivanti in futuro dall’apertura del canale di Suez. Tuttavia per un certo tempo, furono fatti solo interventi di routine, in attesa che la direzione generale di Ponti e Strade redigesse i progetti esecutivi. Concluso questo iter ci si accorse che la spesa in realtà era di gran lunga superiore a quella preventivata dalla commissione e che necessitavano invece 396.519 ducati. In seguito, la spesa lievitò ancor più, sia perché a quelle cifre gli appalti  andarono deserti, sia per altri non precisati motivi, sino a superare il mezzo milione di ducati. Per l’approvazione dei progetti definitivi ci vollero pertanto ulteriori passaggi — tre ministeriali e quattro rescritti tra il 1854 ed 1857 — così solo al 17 gennaio 1856 furono ripresi «i nuovi e grandiosi lavori… con molta pompa», come sottolineavano con ironia le stesse fonti ufficiali, con l’obiettivo di bonificare del tutto «l’aere di Brindisi, spurgato il minor seno orientale, e ridotto per ora l’altro di ponente a porto militare e mercantile».

Nel frattempo però anche l’interesse del sovrano s’era affievolito. Parallelamente alla restaurazione del porto era infatti andato avanti il progetto per la strada ferrata che avrebbe dovuto unire Napoli a Brindisi, per accelerare il trasporto delle merci del regno sino al terminale di comunicazione con l’Oriente. Ed in tal senso c’era già stato nel 1852 un accordo di massima con i Rothschild per la linea ferroviaria Napoli-Brindisi, che saltò proprio al momento della stipula per un diverbio sul miglio da adottarsi nel contratto: i Rothschild ritenevano si parlasse del miglio inglese, mentre il ministro dei Borbone si riferiva a quello napoletano. In seguito, la concessione della costruzione e dell’esercizio della stessa linea ferroviaria fu accordata a Melisurgo ma, dopo l’inaugurazione dei lavori del marzo del 1856, il progetto abortì malamente. Nella visione dei Borbone le ferrovie dovevano unire la capitale Napoli alle altre città del regno e non entrare in un sistema “aperto” al mondo, come desiderato dai maggiori investitori che, quindi, non sottoscrissero le azioni emesse da Melisurgo per la ferrovia delle Puglie, che rimase di conseguenza a corto di finanziamenti e dovette interrompere i lavori. Il blocco della costruzione della linea ferroviaria rese inutile una celere restaurazione del porto Brindisino che, quindi, dal 1857 rimase in una specie di limbo.

Sicché nel 1858, per quanto il barone Carlo Sozi Carafa, intendente della provincia di Terra d’Otranto, magnificasse gli effetti delle opere compiute per il porto di Brindisi, l’aspetto sostanziale era, come lui stesso riconosceva, che «i legni di grossa portata» non potevano tuttora entrare nel porto interno perché poco profondo «e dovendo rimanersi nello esterno, soggiacciono a molti disaggî, e dispendî pei caricamenti e scaricamenti». Quindi, ancora a quella data, il porto interno era usato solo per il piccolo cabotaggio e le navi mercantili dovevano ormeggiare ed essere caricati tuttora nel porto esterno. Sino alla caduta della dinastia Borbone, la situazione non si modificò più, rimanendo di fatto congelata. Lo testimonia un prezioso documento in cui il ministro dei Lavori pubblici del regno, Raffaele Carrascosa, evidenzia come i ritardi nell’esecuzione delle opere nei porti fossero diretta conseguenza del meccanismo di ripartizione di spesa adottato: «Imperocché facendoseli il Comune a sue spese, gli è facile ispirarsi a’ soli consigli del proprio vantaggio, e non a quelli dell’universale». In definitiva il ministro, nel sottolineare che la gestione decentrata dei lavori, affidata  a deputazioni speciali sotto la superiore vigilanza degli intendenti e delle deputazioni provinciali, soggiaceva a forme di pressione locale che potevano ritardare «il libero e spedito corso delle opere medesime», ne chiedeva la centralizzazione. Negli esempi dei ritardi e dei disservizi che un simile sistema comportava, il ministro elencava anche il caso del porto di Brindisi le cui opere, bloccate da tempo, solo «ora appunto cominciano ad eseguirsi», lasciando così trasparire che si era ancora in alto mare.

Naturalmente, si fosse potuta sentire la campana delle intendenze e delle deputazioni provinciali, si sarebbero ascoltate lamentele di segno opposto, che avrebbero attribuito l’impossibilità di raggiungere gli obiettivi ai lacci e laccioli imposti dall’apparato centrale. In definita, i soliti palleggiamenti che bisogna sorbirsi anche ai nostri giorni, che lasciano però trasparire che, chiunque avesse più o meno responsabilità dell’accaduto, erano le norme amministrative con cui venivano gestite le opere a condizionare in maniera prevalente i risultati, in aggiunta ad un difficile rapporto tra apparato centrale e periferico,

Comunque stessero davvero le cose, siamo ormai nel 1859 inoltrato e, chi di competenza, non ritenne neppure fosse il caso di inoltrare la relazione del ministro al sovrano, la cui attenzione non poteva essere distolta dagli avvenimenti, ben più pressanti ed importanti, ormai all’orizzonte.

Ed è questo, in epoca borbonica, l’ultimo importante appunto ufficiale sul porto di Brindisi che, oltre a chiarire che permanevano le ormai croniche disfunzioni, fornisce anche una possibile chiave di lettura  per comprendere i motivi degli innumerevoli fallimenti collezionati dai vari tentativi compiuti in quasi un secolo: non erano mancati i buoni progetti o le idee, era l’esecuzione che difettava sia per le lungaggini burocratiche, sia per gli interessi di parte che condizionavano ogni aspetto della questione. In effetti, la deputazione provinciale di Terra d’Otranto non era mai stata molto convinta della necessità della restaurazione del porto brindisino e più volta aveva espresso la sua preferenza per il porto di Gallipoli. Come al solito, interessavano più i vantaggi conseguibili a breve di quelli ottenibili nel lungo periodo: usando una frase trita si preferiva un uovo oggi piuttosto che una gallina in futuro. In definitiva, il fervore delle proposte non aveva mai trovato riscontro nelle esecuzioni. Naufragò così anche l’ultimo tentativo della dinastia Borbone di dare nuova vita al porto brindisino. Di tutto l’imponente progetto si riuscì a completare solo le torri dove ospitare i fari di Punta Penne e delle Pedagne, ed il faro di Forte a Mare. Un bilancio davvero mortificante per diciotto anni di lavori costati in aggiunta un patrimonio che, oltre a lasciare il canale con un fondale per lo più inferiore a quelli scavati da Pigonati e Pollio, non aveva nemmeno risolto i problemi principali, tra i quali quello, sempre più impellente, dell’interrimento. Pertanto, perché il canale non s’insabbiasse del tutto venivano fatte pulizie periodiche con cavafanghi a vapore, ciò malgrado il porto interno era interdetto alla navigazione. Sicché, ancora nel 1861, le imbarcazioni ormeggiavano nel porto esterno perché il canale ed i fondali limitrofi erano talmente interriti da «non permettere il passaggio che di piccole barche». Una commissione parlamentare istituita in quegli anni, riferiva in aggiunta che sempre nel 1861 il canale aveva una profondità dai 3 ai 4 metri, però decrescenti verso la foce, pertanto il canale lasciato in eredità dall’amministrazione borbonica aveva un fondale inferiore a quello scavato da Pigonati. Tenuto conto che, nei quasi novant’anni intercorsi tra il primo e l’ultimo progetti dei Borbone, la stazza dei navigli era decisamente aumentata, si può ricavare che Pigonati aveva fatto decisamente meglio. E con una spesa  di più di dieci volte inferiore.

 

  1. Una storia raccontata in maniera diversa.

 

Malgrado l’intendente provinciale di Terra d’Otranto ed il ministro dei Lavori pubblici del regno di Napoli dichiaravano che l’ultimo progetto condotto dalla loro amministrazione non aveva restituito al porto interno di Brindisi neppure una accettabile funzionalità, visto che i problemi dell’interrimento della foce permanevano, ci sono narrazioni che rappresentano uno scenario del tutto differente.

Ad esempio Giacomo Carito, parlando dei lavori avviati inizialmente sotto la direzione di Albino Mayo e proseguiti fino alle soglie dell’unità d’Italia, afferma che «di fatto i Savoia  troveranno il porto di Brindisi già completamente restaurato ed abile ad ospitare grandi navi di linea». Peccato che lo storico non avvalori in nessun modo questa sua  affermazione che contrasta anche con la documentazione di parte borbonica che, pur avendone tutto l’interesse, fornisce un quadro molto meno roseo delle condizioni dello scalo brindisino nel momento del passaggio da un regno all’altro. In effetti anche in un altro intervento lo stesso storico  aveva dato per scontato che le attività portuali si fossero da tempo normalizzate  affermando che «i grandi piroscafi del Lloyd austriaco entrano in porto già negli anni Quaranta dell’Ottocento con i lavori di Albino Mayo, diretti da Albino Mayo,… già nel 46-47 i piroscafi del Lloyd, che erano grandi unità navali, riescono ad entrare nel porto interno». Quindi, secondo Carito, che anche in questa occasione non supporta la notizia data con nessun riferimento documentale, già dal 1846 o dal 1847, grazie ai lavori di Albino Mayo, il porto interno era accessibile. Eppure il sottintendente del distretto di Brindisi, Benedetto Stragazzi,  nel 1849 raccontava tutt’altra realtà al sovrano e, così, gli stessi rapporti della commissione di nomina regia oppure quello dell’ingegnere Giordano del 1853 presentavano uno scenario del tutto opposto, senza contare le già richiamate relazioni dell’intendente di Terra d’Otranto del 1858 e del ministro dei Lavori pubblici del 1859.

Vero, come narra Carito, che le navi del Lloyd austriaco erano grandi unità navali e che in quegli anni era stato istituito un servizio che, partendo da Trieste, transitava da Brindisi un paio di volte al mese, prima di raggiungere le città del Mediterraneo orientale. La documentazione disponibile, però, non consente in nessun modo di ipotizzare che tali navi gettassero l’ancora nel porto interno, anzi, all’opposto, chiarisce che, come tutti gli altri bastimenti, erano obbligate ad ancorare in quello esterno — per la precisione nella zona dell’attuale porto medio — visto il limitato fondale del canale di comunicazione e la secca angioina che non permetteva l’ingresso se non ai soli piccoli natanti. D’altra parte questa circostanza è avvalorata dalle testimonianze dei viaggiatori. Ad esempio, Wilhelm Vischer, un docente svizzero di lingua e letteratura greca, di passaggio da Brindisi il 16 marzo 1853 con un vapore del Lloyd austriaco, annota: «Alle cinque della sera ci ancorammo vicino Brindisi», quindi non a Brindisi ma “vicino” Brindisi. Poi, dopo aver decantato l’antica Brundusium, precisa: «Il porto interno, spazioso e ben protetto, è infatti ora insabbiato (ist versandet) e accessibile soltanto ad alcune piccole imbarcazioni. Quelle più grandi devono rimanere in quello esterno, più esposto al vento, sul cui lato nord si trova una fortezza con il faro e il telegrafo». Per quanto riguarda l’affermazione di Carito più di carattere generale che i Savoia avevano trovato «il porto di Brindisi già completamente restaurato ed abile ad ospitare grandi navi di linea», oltre ai documenti ufficiali in precedenza già riportati, serve anche dare un’occhiata ad una testimonianza locale.

Nel 1861 un gruppo di “Cittadini di Brindisi”, in risposta alla circolare del consigliere del dicastero dei Lavori Pubblici che invitava le autorità, ed anche i privati cittadini, «a dar notizie delle opere pubbliche fatte o a farsi nelle provincie», richiede proprio che siano una volta per tutte completati i lavori sul porto di Brindisi. I Brindisini, con ogni probabilità negozianti ed imprenditori, in quanto approfondisco spesso gli aspetti finanziari delle questioni trattate, lamentano infatti come il porto di Brindisi sia ben lontano dall’essere «completamente restaurato», come giudicato da  Carito. Anzi c’è ancora tanto da fare:  «è una di quelle opere cominciate sin dal 1842, e che sin ora non sapremmo dire se a metà o anche a terza parte condotta». Per quanto poi riguarda gli aspetti specifici, il documento indugia sui vari problemi ancora rimasti irrisolti, in particolare il porto interno che «è quello in cui son da praticare i restauri in massima parte progettati» e, soprattutto il canale «scopo vitale di quell’impresa» in cui l’intervento è miseramente fallito in quanto non si è «risoluto il gran problema di non farne più interrire il canale». Dal momento che questo ormai «sembra problema troppo arduo e di difficile soluzione», i cittadini chiedevano quantomeno che «finalmente si stabilisca rigorosamente l’annuo mantenimento, e propriamente lo sfangamento di quel “piccolo” deposito di materiali trasportati, che annualmente si forma nel canale, e che si accumula di anno in anno in guisa da chiudere nuovamente l’entrata». Quindi non solo non si era risolto il problema dell’interrimento — che i Brindisini non ardivano neanche più a sperare che fosse risolto — ma non era stata neppure fatta una normale manutenzione. Per cui, salvo che i Brindisini dell’epoca non siano stati degli autolesionisti visionari che chiedevano d’intervenire lì dove non ce n’era nessun bisogno, occorre convenire che, al momento dell’annessione del regno di Napoli, il porto di Brindisi era tutto fuorché l’essere «già completamente restaurato ed abile ad ospitare grandi navi di linea».

In conclusione, a differenza di quanto affermato da Carito, quando i Savoia si sostituirono ai Borbone, il porto brindisino era ancora in balia dei soliti difetti e non risultava neppure lontanamente attrezzato per affrontare la competizione che l’apertura del canale di Suez avrebbe innescato. Difetti, in aggiunta, dai più ritenuti ormai cronici e impossibili da risolvere. Certo il canale non era una palude quasi solidificata d’una volta, e almeno le barchette lo attraversavano in agilità. Nemmeno l’aria era quella mefitica dell’epoca di metà XVIII secolo, o del primo trentennio del secolo successivo, ma non era ancora a livelli sufficientemente buoni, e chi poteva si teneva lontano da Brindisi.

Come fece anche l’ingegnere che risolse alfine il problema dell’interrimento del canale, il quale pose come condizione per accettare la destinazione brindisina, di non dovervi risiedere. Preoccupato di mettere a repentaglio la salute dei suoi familiari e la propria, preferì piuttosto stare a Lecce e destinarsi ogni santo giorno alla vita del pendolare.

Cosa  disagevole pure ai giorni nostri.

Figuriamoci con le ferrovie appena nate di centocinquanta e più anni fa.

                                                             (2 – continua)

 

Riferimenti bibliografici

 

  1. La polemica su cosa fare del porto interno di Brindisi

F.A. MONTICELLI, “Terza memoria della città e de’ porti di Brindisi, Gabinetto bibliografico e tipografico”, Napoli 1833.

  1. ASCOLI, op. cit.
  2. Il grande progetto fallito nel nulla
  3. ASCOLI, op. cit.
  4. CERVATI,“Per la stabile ristaurazione del porto di Brindisi”, Tipografia del Filiatre-Sebezio, Napoli 1843.

Alcuni cittadini di Brindisi, “Opere nel porto di Brindisi”, Brindisi 1861.

ANONIMO, “Sulle opere del porto di Brindisi eseguite sotto la direzione del tenente colonnello Albino Mayo”, Brindisi s.d.

Annali civili del regno delle Due Sicilie, volume XXXV, Real ministero di stato degli affari interni, Napoli 1844.

Annali civili del regno delle Due Sicilie, volume XXXVIII, Real ministero di stato degli affari interni, Napoli 1845.

Annali civili del regno delle Due Sicilie, volume XLI, Real ministero di stato degli affari interni, Napoli 1846.

L. GIORDANO, “Intorno alla struttura di un nuovo porto in Bari: memoria premessa al progetto di arte”, Tipografia Cannone, Bari 1853.

A cura di R. JURLARO, “Cronaca dei sindaci di Brindisi (vol. II, 1787 – 1860)”, Edizioni Amici della “A. de Leo”, Brindisi 2001.

Annali civili del regno delle Due Sicilie, volume LX, Real ministero di stato degli affari interni, Napoli 1857.

C. SOZI CARAFA, “Discorso per inaugurare le sessioni del consiglio provinciale nel dì 1° maggio 1852”, Lecce 1852.

Ministero e Real Segreteria di Stato de’ Lavori Pubblici,  “Relazione sullo stato dei porti e dei fari del regno di Napoli”, in a cura di G. SIMONCINI, “Sopra i porti di mare (Regno di Napoli)”, volume II, L.S. Olschki,  Firenze 1994.

F. MERCURIO, “Le ferrovie e il Mezzogiorno: i vincoli ‘morali’ e le gerarchie territoriali (1839-1905)”, In “Meridiana”, n. 19, Nobiltà, gennaio 1994.

C. SOZI CARAFA, “Discorso per inaugurare le sessioni del consiglio provinciale nel dì 6 maggio 1858”, Lecce 1858.

A cura di R. SALVESTRINI, “Lo zibaldone di casa Mati”, Montaione.net.

Camera dei Deputati, “Relazione della commissione relativa alla ristorazione del porto di Brindisi”, sessione 1861-62.

 

8. Una storia raccontata in maniera diversa.

G. CARITO, “Gli interventi sul porto: pillole di storia”, History Digital Library https://www.youtube.com/watch?v=r9-vy1ZvTRQ

Brindisi, s.d.

W. VISCHER, “Erinnerungen und Eindrücke aus Griechenland”, Schweighauser, Basel 1857.

A cura di R. JURLARO, op. cit.

Alcuni cittadini di Brindisi, op. cit.

 

Per la prima parte clicca qui:

Il porto di Brindisi: una storia sconosciuta (prima parte) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

Il porto di Brindisi: una storia sconosciuta (prima parte)

di Nazareno Valente

 

  1. La supplica dell’arcivescovo al sovrano

 

«Sono già tre anni che per volontà dell’Augusto Genitore della M.V. Monarca delle Spagne che Dio sempre feliciti, essendomi stato concesso il governo della Chiesa Metropolitana di Brindisi, quando nella medesima mi condussi per quanto le forze mie debolmente il permettevano la Pastorale cura del Mio gregge intrapresi».

Questo l’incipit della lettera con cui nel 1762 Domenico Rovegno, arcivescovo di Brindisi, si rivolge a Ferdinando IV re di Napoli per chiedergli di intervenire e porre rimedio alla drammatica situazione in cui versavano a quel tempo il porto e la città di Brindisi. Per ordine dei medici, l’arcivescovo si trova in convalescenza a Napoli, tuttavia il suo desiderio è di ritornare dal suo  «gregge» e per questo comunica che sta per ripartire per Brindisi con la consapevolezza, però, di «andare incontro alla morte». Il motivo della sua malattia «altro non è stato, che l’aere infetto della stessa città» che, «per la divisata cagione», è destinata alla rovina «se dalla M.V. non saranno presi gli opportuni rimedi». Gli abitanti sono infatti «oppressi da pericolose infermità, ed atterriti dalle mortalità continue, rilevandosi chiaramente da’ libri parrocchiali, che il numero dei morti in ogni anno è doppio di quello dei nati». E sarebbe già spopolata da tempo se, «mantenendo la città de’ singolari privilegi», non avesse potuto accogliere abitanti provenienti da altre zone. Il privilegio citato dall’arcivescovo riguardava l’esonero da qualunque gravame o vincolo feudale accordato a chi risiedeva a Brindisi per almeno cinque anni. Era questo il marchingegno utilizzato da secoli per mantenere in vita le zone depresse: piuttosto che intervenire sulla causa, si  concedevano bonus che, come al solito, erano un modo come un altro per rendersi graditi e lasciare però le cose inalterate.

L’arcivescovo passa poi a parlare della causa di questa tragica condizione: «la materia» che si è andata addensando nella «bocca del porto interiore» per cui «le acque del medesimo son ridotte a segno, che il necessario flusso gli manca» e questo aveva originato estese paludi nei seni interni che disseminavano puzza e morte. Il che creava problemi anche di carattere economico: «La negoziazione del mare poi è oltremodo difficile, poiché alla bocca del porto interiore non possono accostare i legni grossi da carico, e l’imbarco dell’oglio, e d’altre derrate non può farsi che in due miglia di distanza dalla città, caricandosi prima su piccole barchette, che incagliando talora nello stretto, bisogna con grande stento tirar fuori con le funi, e per tal motivo un porto tanto rinomato si vede oggi abbandonato da tutti».

A questo punto l’arcivescovo faceva poi presente che questa condizione difficile vissuta dalla città di Brindisi avrebbe sollecitato le attenzioni de «l’Augusto Genitore Vostro», che sicuramente sarebbe intervenuto per aggiustare le cose, come aveva fatto per i porti di Taranto e Crotone, «se ei non fosse andato a dimostrare la sua paterna Pietà a’ regni più ampî»1. Per questo si rivolgeva a lui: «animato dalla clemenza della M.V. in nome del mio povero gregge umilmente la supplico ordinare gli espedienti più propri per l’apertura del porto predetto».

Per meglio comprendere la supplica di Rovegno — ma pure per inquadrare nel miglior modo possibile gli argomenti che saranno in seguito trattati — è il caso di vedere a questo punto la struttura del porto di Brindisi, aiutandoci con una carta del Settecento (figura n. 1).

Carte particulière de la rade et du port de Brindisy avec les plans de la ville et chateaux situez dans le golfe de Venize au sud entre Berlette et Osrante Settecento

 

Come si può notare il porto si snoda in un golfo nel cui punto più interno, su un basso promontorio, si erge la città, la quale è quasi del tutto abbracciata dal porto interno che rappresenta il luogo storico dove avvenivano in antichità le principali attività portuali. Il porto interno ha due seni, quello di Ponente, molto più esteso, e quello di Levante, e, tramite un canale, si trova in comunicazione con la rada, o porto esterno2, la quale risulta a sua volta protetta dall’Isola di Sant’Andrea e dal piccolo arcipelago delle Pedagne.

In pratica, l’arcivescovo, considerato che l’ostruzione del canale  non consentiva il ricambio delle acque ed ai navigli di accedere al porto interno, chiedeva al sovrano d’intervenire per ovviare a questo grosso inconveniente che causava danni ambientali e finanziari di ampia portata, in quanto creava malaria e disagio alle attività commerciali. E, per quanto lo riguardava, fu facile profeta: ritornato a Brindisi il 22 dicembre 1762, si riammalò e di lì a poco, entrato in agonia, morì nell’ottobre del 1763. Seguiva così la sorte del suo predecessore, Giovanni Angelo de Ciocchis, cui l’aria malsana aveva provocato una paralisi del lato sinistro del corpo che l’aveva costretto a dimettersi e, dopo breve tempo, a morire. Per le stesse cause epidemiche, i reggimenti Virz e Giudi di stanza a Brindisi subirono delle vere e proprie falcidie e parecchi dei loro soldati morirono nelle estati del 1763, 1764, 1766 e 1767; manifestazioni evidenti di condizioni ambientali davvero devastanti.

Nel versante economico-commerciale era quello un periodo di profondi cambiamenti, dovuti alla cosiddetta prima rivoluzione industriale, che coinvolgevano pure il settore dei trasporti. Sicché, dopo essere rimasti per tempo immemorabile in ombra, i porti del Mediterraneo stavano riassumendo nuovamente grande importanza. Da un punto di vista tecnologico, il ritorno di fiamma lo si doveva in particolare alle innovazioni navali già intervenute ed a quelle che ormai si preannunciavano nei rudimentali esperimenti che si stavano conducendo sulle macchine a vapore. Per quanto la vela non fosse stata ancora soppiantata dalla propulsione a vapore, i vascelli avevano sostituito dal Seicento i galeoni e con la scoperta dell’America lo sviluppo, che sino ad allora era sempre passato per il Mediterraneo, aveva spostato il suo asse nel Nord Europa. L’importanza dei porti mediterranei era divenuta sempre più marginale ed anche questo aspetto aveva concorso all’incuria in cui tutti i porti del regno erano stati abbandonati. Grazie al declino dell’impero ottomano e della potenza navale veneziana, s’era modificato pure lo scenario politico, sicché il mare Adriatico tornava ad essere controllabile da chi ne deteneva le coste ed il Mediterraneo si riapriva ai traffici. Ed una prima avvisaglia del vuoto di potere creatosi fu dato da Ragusa, importante città mercantile della Dalmazia, che, lasciato il patronato veneziano, richiese di porsi sotto il protettorato del regno di Napoli, accentuando così le mire del sovrano Borbone di subentrare alla Serenissima nel dominio delle rotte dell’Adriatico. C’erano pertanto interessi di varia natura: sanitari, commerciali e, sia pure sorti per ultimi, ma non ultimi, politici che invogliarono ad accelerare i tempi per sfruttare il momento propizio per un rilancio in grande stile del regno.

Di là dai propositi di rinnovamento, però, i porti del regno erano in condizioni per lo più vicini al collasso e risultavano in generale inadatti alle nuove necessità mercantili e militari, privi com’erano delle più essenziali infrastrutture e delle condizioni ambientali adeguate. Bisognava pertanto sopperire ad un periodo di abbandono, che s’era prolungato troppo nel tempo, ed imporre un cambio di passo e di mentalità non sempre facili da acquisire in tempi brevi.

Brindisi, insieme a Taranto, era uno dei pochi porti naturali la cui collocazione strategica andava sfruttata se si desiderava assumere una posizione di rilievo nel Mediterraneo. Per questo l’amministrazione borbonica ritenne di giocare molte delle sue carte sullo scalo brindisino nell’intento di riportarlo agli antichi splendori. Sicché, dopo aver per un certo tempo tergiversato alla richiesta dell’arcivescovo, nel 1775 il sovrano incaricò l’ingegnere Andrea Pigonati, direttore del Genio militare, di progettare la riapertura del porto interno brindisino.

Fu questo il primo di tre vani tentativi compiuti in quasi novant’anni dal governo borbonico, finché il regno di Napoli non fu annesso al regno d’Italia. Dopo Pigonati, toccò all’architetto idraulico Carlo Pollio e, successivamente, al tenente colonnello del Corpo del Genio, Albino Mayo, di non riuscire ad evitare che il canale, ripulito,  non si insabbiasse di nuovo. In pratica, malgrado si sprecarono ingenti risorse, non si ovviò all’interrimento del canale che continuò a creare problemi di malaria e di navigabilità.

La soluzione così fu trovata solo ad unità d’Italia avvenuta anche se, a sentire i cronisti e gli storici soprattutto brindisini, le cose sono andate diversamente da come io ora sto qui a raccontarvi. Sicché, nei resoconti storici su questo specifico punto, è raccontata invece una felice conclusione, collocandola sia pure in maniera vaga tra il 1845 ed il 1856, variando l’anno a seconda delle intuizioni e della fantasia dei singoli autori. In ogni caso, tuttavia, a dar credito alle anzidette versioni, l’epilogo e la soluzione all’interrimento del canale si ebbe sempre prima dell’avvento dei Savoia, e quindi nel periodo di amministrazione borbonica. Mentre la documentazione ufficiale non lascia dubbi in merito e chiarisce, in maniera inequivocabile, che il problema fu risolto solo dopo il 1861, grazie al progetto presentato in quell’anno da un ingegnere aretino, di cui già è tanto se si ha consapevolezza della sua esistenza.

Quindi quello che sarebbe potuto diventare un eroe, in quanto nella mia trasposizione dei fatti fu in grado con la sua trovata di dare un consistente impulso al futuro della città di Brindisi, è rimasto sino ad oggi un perfetto sconosciuto agli stessi Brindisini.

Per questo, la storia di come si riuscì a superare l’interrimento del canale e della foce del porto brindisino merita d’essere trattata una volta di più perché, per come è stata raccontata sinora, non pare che si siano ben compresi i motivi che causavano un simile fenomeno.

 

  1. Il tentativo di Pigonati

 

Parlando del tentativo fatto dall’ingegnere siracusano, una premessa è d’obbligo. La cronachistica brindisina ha fatto di lui il tipico capro espiatorio, tant’è che non c’è colpa consumata in quel periodo che non gli sia stata con faciloneria attribuita. C’entrasse o no con i successivi problemi cui andò incontro il porto, poco importava; tutto fu riversato nella direzione di Pigonati, scelto appunto come vittima espiatoria dei peccati commessi in città, anche per questioni che niente avevano a che fare con il canale e lo scalo. Tra i tanti difetti che gli vengono addossati non si può, però, certo includere l’indolenza, per il semplice motivo che i fatti testimoniano, almeno su questo aspetto, un dinamismo apprezzabile o, quanto meno, insolito per un dirigente statale. Ricevuto l’incarico l’8 luglio 1775, il 13 dello stesso mese si pose in viaggio per Brindisi che raggiunge dopo quattro giorni e notti di viaggio; quindi in un tempo notevole per le strade ed i mezzi di trasporto d’allora. Compiuto un meticoloso ed approfondito sopralluogo, il 20 luglio ripartì per la volta di Napoli, giungendovi dopo un’altra veloce scarpinata il 24 dello stesso mese e, nemmeno dopo un mese, il 15 agosto, fu in grado di consegnare il progetto dettagliato, comprensivo di disegni, fabbisogni e analisi delle spese. L’assenso del re arrivò invece con la dovuta calma cinque mesi appresso, il 27 gennaio 1776, dopo essere transitato nei vari uffici della burocrazia borbonica, insieme all’invito ad iniziare i lavori. Questi, incominciati a tamburo battente, si conclusero il 26 novembre 1778 con la cerimonia di consegna ufficiale del porto a «l’ingegnere del dettaglio, Pietro Galdo, alfiere del corpo del Genio», vale a dire al funzionario che seguiva l’esecuzione puntuale dei lavori. In definitiva, in meno di tre anni Pigonati portò a termine tutte le opere programmate. Cosa questa di non poco conto, se si considera che il suo fu il primo progetto sui porti dell’epoca borbonica ad essere completato senza interruzioni o rallentamenti in corso d’opera, senza modifiche e senza aumento di spesa: un vero e proprio record, conseguito lavorando, se occorreva, anche nelle feste comandate.

La proposta accolta dal re prevedeva la realizzazione di un canale, che mettesse in comunicazione il porto interno, ridotto ad un «lago stagnante, al mare del porto esteriore», arginandolo con strutture di sostegno realizzate con pali lignei a sezione rotonda, dotati di un’estremità a punta per l’infissione in profondità nel terreno, e fascine.  Il canale sarebbe stato prolungato con due moli della stessa materia protesi verso il porto esterno in modo da formare «angoli acuti colle spiaggie, acciò trattenuto avessero le arene, ed alghe, che per costa entrar potevano nella bocca del canale». In succinto, contemplava l’apertura di un nuovo canale e la costruzione in esso di due moli diretti verso la rada, con lo scopo di limitare l’ingresso di alghe e terra e, di conseguenza, di prevenire l’insabbiamento.

Il progetto prevedeva inoltre la bonifica della palude delle Torrette, che era nei pressi della foce del canale, e di quella di Porta Lecce o di Ponte Piccolo, che si trovava all’estremità del seno di Levante,  mentre non era nel preventivo la bonifica della  palude di Ponte Grande, collocata nell’estremità del seno di Ponente. Così, ciò «che doveva farsi» per il «riaprimento del porto», fu fatto: «un canale, che ha unito il porto interiore, col porto esteriore»; «due moli nella direzione del canale stesso», oltre a colmare «le paludi laterali al luogo dove si è formato il gran canale, non meno che la palude detta Porta di Lecce».

Nelle sue “memorie”, Pigonati si dilunga, su un aspetto interessante, vale a dire la profondità massima da dare al canale, chiarendo sin da subito che non era stata una sua scelta. Il canale doveva infatti essere progettato per garantire il passaggio di bastimenti mercantili «che pescano al più palmi 16 di acqua, che era il fondo maggiore che il re voleva si desse» al canale. Quindi la profondità del canale, non troppo superiore ai 16 palmi (poco più di 4 metri, considerato che il palmo napoletano allora era pari a 0,2636 metri), derivava da un’esplicita volontà del re e, in quanto tale, dettata da motivi non indagabili «da’ laici della ragion di stato». Come dire che essendo lui un tecnico non voleva discutere le scelte politiche o quantomeno non poteva opporsi. Si adeguava, ma con poca convinzione, ed il suo disaccordo, sia pure velato da frasi di circostanza, traspare in più di un’occasione: avesse potuto, avrebbe portato la profondità a 30 palmi (circa 8 metri). In ogni caso, a lavori ultimati la profondità era, per questioni tecniche, di 19 palmi, ovvero poco più di 5 metri.

 

Il particolare del disegno “Prospetto orientale della città di Brindisi” (figura n. 2), allegato alla memoria redatta da Pigonati, consente di vedere qual era la situazione al termine dei lavori. Come si può rilevare dalla figura, il nuovo canale tracciato da Pigonati (n. 1) e ciò che rimaneva del preesistente canale (n. 2) conferivano al bacino di collegamento una caratteristica forma ad Y con la creazione di un’isoletta (n. 5), che rimase nello scenario del porto interno per una settantina d’anni. Il nuovo canale, a cui fu assegnato il nome di Borbonico, incrociava il vecchio, chiamato Angioino, all’altezza di dove iniziavano i due moli che, nelle intenzioni, avrebbero dovuto preservarlo dall’interrimento e perpetuare al tempo stesso la memoria dei sovrani. Infatti anche ai moli Pigonati attribuì un nome: Carolino, quello di ponente (n. 3) — ricordiamo che la moglie del re si chiamava Maria Carolina — lungo 210 metri; Ferdinando, quello di levante (n. 4) lungo 148 metri, che però furono poi modificati, non si sa da chi e perché, in molo di san Carlo e di san Vito. La preservazione del canale Angioino non era stata prevista da Pigonati per il transito ma al solo fine di agevolare lo scorrimento delle acque e non sconvolgere il naturale flusso delle correnti. In pratica era stato solo ripulito ed aveva quindi un fondale basso per altro intervallato, dove cambiava direzione, da un rialto (n. 6) che lo rendeva impraticabile anche alle barchette. In quel canale, Pigonati aveva anche accarezzato l’idea di coltivarvi le «chiocciole nere», vale a dire le cozze di Taranto. A tale scopo, aveva fatto pure venire da Taranto un esperto, certo Diego Portolano, il quale aveva fissato «quattro luoghi addetti per piantare i pali di Pino selvaggio, acciò ivi, come è di natura delle Chiocciole, si attaccasse d’intorno il seme». Uno dei posti prestabiliti era appunto nei bassi fondali del canale Angioino; gli altri in punti imprecisati del porto interno. Il progetto del vivaio, che aveva pure ottenuto l’assenso del sovrano, non doveva tuttavia essere visto di buon occhio «per causa dell’odio, che  molti conservano per le novità», considerò amaramente il nostro ingegnere.

I lavori suscitarono dapprima apprensione in parte della cittadinanza la quale — a detta di Pigonati — temeva che «il riaprimento del porto, ed il coprimento della palude dovesse cagionare l’ultimo loro sterminio per la ragione, che le acque richiamate dall’esteriore del porto per comunicazione di canale, tutta dovessero sommergere la città, come in un nuovo diluvio». Poi, con l’andar del tempo, attirarono una sempre crescente curiosità ed aspettativa e, nell’ultimo anno dei lavori, il 18 giugno 1778, i Brindisini poterono fare la processione del «Cavallo bianco» passando per la marina tra gli spari «di vari legni ch’erano già approdati nel porto interiore». Qui, allo stupore dei nostri concittadini, si unì quello del Pigonati per l’originalità della cerimonia che apprezzò senza riserve: «o è l’unica, eccettuando Roma, o è la più distinta nel mondo». Pochi giorni dopo, il 26 giugno, una nave olandese, la Giovane Andriana, arrivò sino al molo per caricare olio. A memoria non se n’era vista una così grande neppure nel porto esterno, sicché «così osservata sull’ultima riva del porto interiore, cagionò a tutti un sorprendente piacere, giacché sino a tal punto li lontri erano stati i legni maggiori».

Certo sono parole del Pigonati il quale, raccontando della meraviglia dei Brindisini di fronte al nuovo canale, l’avrà pure accentuata per magnificare ancor più la sua creatura, come un qualsiasi oste è portato a fare con il vino che ha prodotto. Tuttavia, in questo caso, la soddisfazione per i risultati raggiunti la si coglie anche dal versante del cliente, vale a dire da una fonte brindisina, la “Cronaca dei sindaci di Brindisi”. Dalla “Cronaca” si ricava infatti che «Alla fine di marzo 1778, han principiato a caricare sul molo della porta Reale i bastimenti l’oglio, ed il primo fu padrone Francesco Alloj con gran risparmî de’ negozianti, frutto dell’apertura del canale». Ma risultati apprezzabili si evidenziano, oltre che dall’apertura del canale, anche dai lavori di bonifica. Infatti, «dal signor direttore del porto, d. Andrea Pigonati, furo fatte otturare di terre tutte quelli paludi fuori la porta di Lecce, e la chiesa nominata del Ponte, avendone avuto grande utile per l’aria la città, e specialmente quelli padri domenicani del Crocifisso, che non hanno avuto più nell’està malatie secondo il solito, ma sono stati sempre bene». L’euforia è quindi tale che, quando «il capo mastro muratore Giuseppe di Simone… metté l’ultima pietra al fabbrico» sono presenti i Brindisini di maggior prestigio e «gran popolo» e la conclusione dei lavori si svolge «con gran rumore e strepito de voci che gridavano tutti, viva il re». Così pure la partenza del Pigonati è per la “Cronaca” un avvenimento da ricordare: «il giorno 30 [novembre] se ne partì il direttore d. Andrea Pigonati per la volta di Napoli, portando le piante del gran canale alla maestà del re». Nell’inverno successivo, particolarmente rigido e con frequenti nevicate, il porto attira ancora l’attenzione della “Cronaca” che annota con compiacimento e soddisfazione: «per le gran tempeste sortite nel mese di febbraro, e marzo si è veduto il porto interiore pieno di bastimenti grossi sino al numero di ventiquattro; cosa veramente da vedersi». Pure i maggiori detrattori di Pigonati dovettero riconoscere che i miglioramenti dovuti alla sua opera erano tangibili: la mortalità era diminuita e le attività commerciali avevano ripreso vigore. Anche la vita materiale evidenziava indiscutibili sviluppi positivi. In breve, il “gran canale”, lungo 492 metri e largo all’imboccatura esterna 48,80 metri ed a quella interna 42,75 metri, aveva aperto il cuore dei Brindisini alla speranza.

Gli odori pestilenziali, le paludi, le malattie sembravano preoccupazioni tutte superate e ormai lasciate dietro le spalle.

Invece erano dietro l’angolo.

Pronte a rifare capolino.

 

  1. Il tentativo di Pollio.

 

Per quel che è dato di sapere, al 10 agosto 1781, quindi a quasi due anni dalla conclusione dei lavori, la creatura del Pigonati continuava a funzionare com’era nelle aspettative di tutti. Poi una serie di circostanze sfortunate fece sì che non si svolgesse nessun lavoro di manutenzione sul canale e questo ritornò ad ostruirsi. Sicché nel giro di pochi anni si ricrearono le tragiche condizioni d’una volta, come sottolineò  Carlo Ulisse De Salis Marschlins, viaggiatore di passaggio da Brindisi nel 1789, avendo trovato il porto interno «inaccessibile e l’aria così mefitica come lo erano prima dei lavori» di Pigonati.

Con la situazione che precipitava, la cittadinanza si appellò di nuovo al re, il quale doveva essere davvero interessato alle sorti della nostra città, se intervenne ancora una volta prontamente, incaricando di un secondo radicale intervento l’architetto idraulico Carlo Pollio, «determinato — come ebbe modo di precisare nelle sue “Determinazioni per lo porto di Brindisi” — a procurare per ogni verso la conservazione del celebre porto di Brindisi, e a facilitare in quella guisa all’industria, ed al commercio nazionale una nuova, e molto apprezzabile risorsa.

I più importanti interventi assegnati al coordinamento di Pollio riguardavano: l’allargamento del canale da portarsi nella parte esterna sino a 200 palmi (53 metri) e a 160 palmi (poco più di 42 metri) nella parte interna; l’aumento della profondità del canale sino a 25 palmi (6,60 metri); il prolungamento di altri 200 palmi dei due moli di san Carlo e di san Vito; la bonifica di entrambe le due paludi di Ponte Grande e di Ponte Piccolo, e non di una sola di esse come avvenuto per il progetto di Pigonati; la costruzione di grandi fossi per la sistemazione delle «materie più consistenti», provenienti dai «corsi immondi» e dagli «scoli della città», da rimuovere periodicamente in modo che non finissero in mare; la riapertura dei canali di collegamento con il mare delle «due lagune, denominate ora Fiume grande e Fiume piccolo» facendo in modo di deviare altrove gli scoli ed i «torrenti più torbidi che v’imboccano».

Non esiste una solida documentazione ufficiale sui lavori effettivamente fatti dal Pollio, che ricevette l’incarico verso il 1789 e dovette chiuderli all’incirca nove anni dopo, probabilmente per ragioni di forza maggiore, quando le tensioni del regno con la Francia erano ormai al culmine e non perché s’erano conclusi. Se ne hanno così notizie sparse per lo più da fonti diverse da quelle borboniche.

La principale, di fattura francese databile tra il 1806 ed il 1810, non è altro che il rifacimento dei disegni, “Topografia della città e porti di Brindisi” e “Prospetto della città di Brindisi”, predisposti da Pigonati per la sua “memoria”, aggiornati con l’indicazione dei lavori eseguiti da Pollio sino al 1794 circa. Dalla “Topografia” (Figura n. 3) si deduce che Pollio scavò il canale Borbonico negli anni 1791 e 1792, dilatandolo per cento palmi napoletani, e che pulì quello angioino nel 1793, munendolo forse di due «scogliere». Dal Prospetto si ricava che la profondità del canale era stata riportata nel 1791 tra i 16 ed i 17 palmi — accanto a questa informazione venne però annotato : «Adesso il Canale Borbonico è diverso ma di 11 palmi al più» — e la collocazione degli edifici della Sanità, «il nuovo lazzaretto principiato al 1791 [e] terminato da poco» e dell’Arsenale, «fatto al 1791», strutture queste posizionate dalle parti dell’ex stazione marittima e dei Giardinetti. Pollio aveva infatti operato molto per dotare il porto delle necessarie infrastrutture, quali appunto gli uffici della deputazione di sanità, che volle chiamare lazzaretto, e l’arsenale.

Dal resoconto fatto dal “Giornale letterario di Napoli”, in occasione del passaggio a Brindisi del re Ferdinando IV nella primavera del 1797, si ricava inoltre che il canale aveva una larghezza di 200 palmi ed una lunghezza di 1.800 palmi (475 metri); che erano stati «asciugati gli stagni e colmati i bassi fondi» di Ponte Grande e Ponte Piccolo, dove era stata tracciata una strada «di un miglio e più» dalla Porta di Lecce sino a quella di «Napoli» (vale a dire Porta Mesagne); che era stata edificata «l’altra grande strada della Mena [l’attuale corso Garibaldi e corso Roma sino all’incrocio con via Conserva], che prima era ingombra di tutte le acque di scolo della città, e che oggi per canali sotterranei, laterali all’istessa strada, vanno a deporsi in ampi recipienti». Queste vasche depuratrici anche delle acque piovane erano state piazzate una «innanzi al palazzo Montenegro» e l’altra accanto alla salita che «dalla strada della Marina porta alla piazza delle Colonne».

In definitiva un bel po’ di lavori, alcuni anche criticati dallo stesso re, ad esempio l’edificio della Sanità, che tuttavia non risolvevano il problema principale  dell’insabbiamento del canale.

Quasi certamente — almeno questa è la mia opinione — Pollio non poté completare tutti gli interventi che aveva in mente di fare per la situazione politica che s’andava maturando. Lo sconcerto provocato dalla rivoluzione francese e, in particolare, dall’esecuzione di Maria Antonietta, sorella della regina Maria Carolina, i timori per le evidenti mire espansionistiche dei Francesi e, non ultima, la mancanza di liquidità conseguente alle notevoli spese per il riarmo, resero necessaria l’interruzione di ogni attività di ammodernamento dei porti, delle vie marittime più in generale, e della rete stradale.

 

  1. I Francesi pensano di riattivare il porto interno

 

Abbandonato nuovamente a sé stesso, il canale ricominciò ad insabbiarsi ed il suo stato, insieme a quello del porto interno a cui avrebbe dovuto dare accesso, fu valutato una decina di anni dopo dai Francesi, subentrati momentaneamente alla dinastia borbonica. Gli intendimenti dei nuovi dominatori erano di utilizzare il porto di Brindisi per scopi militari più che commerciali, visto il blocco continentale imposto dall’Inghilterra alla Francia proprio nel 1806, anno del loro insediamento a Napoli.

Dopo un’analisi preliminare incentrata sulla sussistenza delle condizioni adeguate per riattivare lo scalo di Brindisi — la cui documentazione s’è appena utilizzata per avere più dettagli sulle opere realizzate dal Pollio — nel 1810 il generale Campredon affidò al tenente colonnello del Genio Vincenzo Tironi (o Tirone, come appare in altri documenti) il compito di redigere una relazione anche «sul bonificamento del Porto della Città di Brindisi» nell’ottica di un suo possibile utilizzo per scopi militari.

Nel dettagliato rapporto presentato, Tironi dichiarò la configurazione dello scalo idonea ad accogliere in piena sicurezza bastimenti di ogni tipo. Riscontrava però i soliti limiti: insalubrità dell’aria, periodico ammasso di alghe e di sabbia, presenza di paludi, accentuate nelle estremità dei seni di Ponente e di Levante che rendevano la zona economicamente depressa. Forniva poi alcuni particolari sulla situazione del porto, da lui ritenuto ormai in stato di totale abbandono dal 1799: il canale di comunicazione con la rada era profondo all’imboccatura solo sette palmi ed era destinato ad insabbiarsi sempre più, tanto che, nel giro di due anni, prevedeva avrebbe nuovamente precluso l’accesso a qualsiasi bastimento; molte banchine laterali dovevano essere aggiustate e le paludi s’erano riformate in molte zone del bacino interno. Il seno di Ponente aveva ancora acque in buona parte «sempre vive» e profonde, mentre in quello di Levante il fondo era diminuito e le alghe venivano imputridite dai raggi del sole.

Tironi esaminò pure i lavori fatti in precedenza da Pigonati e Pollio, mostrandosi molto critico per le due banchine, giudicate mal edificate e, soprattutto, per i moli di prolungamento che, costruiti per  preservare il canale da ostruzioni, avevano finito per modificare la linea costiera accentuando il ristagno di alghe e sabbia e dando così origine a nuove formazioni paludose. Dava invece un giudizio decisamente positivo al sopraelevamento della strada Carolina e alla edificazione di una fogna sotterranea, compiute da Pollio. Anche se, secondo lui, sarebbe stato meglio se la strada fosse stata lastricata e se non fossero stati adottati i recipienti per bloccare e depurare le acque torbide della città, poco pratici ad essere gestiti oltre che costosi.

In particolare sui lavori svolti da Pigonati, Tironi riconosce un difetto di fondo nelle scarse risorse finanziare poste a sua disposizione ma pure suoi significativi errori commessi in sede di progettazione, tra i quali quello di maggior peso per il risultato finale era a suo dire costituito dall’orientamento “greco-levante” dato al canale, che di fatto facilitava l’interrimento, a differenza della direzione “greco” che lui riteneva più favorevole. A tal proposito, occorre precisare che questo presunto errore di Pigonati sarebbe tutto da provare, non essendo per niente pacifico che la direzione greco-levante favorisse l’interrimento rispetto a quella verso greco, come affermava Tironi, e, ancor più da provare, che l’orientamento del canale fosse in sé tanto influente da essere la causa scatenante dell’insabbiamento. Pur tuttavia questo concetto è divenuto un tema caro alla cronachistica che ne ha fatto la bandiera delle sue argomentazioni per screditare le capacità dell’ingegnere siracusano e, più in generale, l’intervento da lui compiuto per la riapertura del porto interno brindisino.

Ma soprattutto, come si vedrà, per cambiare la storia ed individuare quale causa dell’interrimento l’orientamento dato al canale.

 

  1. Come si depista la realtà

 

Il primo a ricamarci su fu Ferrando Ascoli che, in forza dell’essersi proclamato un “marino”, fu molto categorico nell’affermare che «Pigonati commetteva uno sbaglio tecnicamente grosso nel fare l’imboccatura del canale rivolta a greco-levante». Avrebbe dovuto invece orientarla nella direzione «di greco, cioè nella direzione di Forte a Mare, per metterla al riparo da ogni traversia e da ogni interrimento». E, per avvalorare  la sua tesi, l’Ascoli introduce un argomento divenuto con il passare del tempo un must, asserendo in maniera perentoria che, se Pigonati «avesse interrogato i marini e i pescatori locali», si sarebbe convinto che «i tempi cattivi da greco-levante costituiscono la “traversia”,  l’unica traversia del porto esterno» e, di conseguenza, non sarebbe incorso — sempre a suo parere — nel grave errore di scegliere proprio quell’orientamento per il canale.

In effetti parecchi cronisti e storici locali hanno modificato sostanzialmente la sparata del “marino”: quella che per l’Ascoli era una mancanza di umiltà, nel non aver voluto sentire l’opinione di chi aveva una solida conoscenza pratica, per loro s‘è tramutata in vera e propria arroganza, in quanto nei loro racconti i Brindisini avevano cercato più e più volte di avvertire Pigonati dell’errore che stava compiendo a scegliere la direzione greco-levante in luogo di quella verso greco, ma invano, lui aveva fatto con alterigia spallucce perseverando nell’abbaglio.

Ora dubito che i marini ed i pescatori brindisini del tempo si siano messi a pontificare sulle direzioni più utili per evitare l’insabbiamento, ma, a parte questo, il ritenere che il fenomeno dell’interrimento potesse essere risolto con la pratica esperienza della navigazione e della pesca, o analizzando soltanto la direzione delle traversie, come fatto dall’Ascoli, appare una banalizzazione eccessiva d’un problema all’opposto molto complesso su cui in genere pesano ben altri fattori, quali, solo per citare i più evidenti, l’effetto dei venti sulle coste e la composizione delle coste stesse.

Certo, in linea teorica aveva ragione Tironi, se il canale di comunicazione con il porto esterno avesse avuto la direzione nord-est (greco), avrebbe potuto fruire della protezione dalle correnti dall’isola di Sant’Andrea, cosa che non avveniva avendolo Pigonati indirizzato verso est-nord-est (greco-levante). Una diversa angolazione volta a greco avrebbe quindi di certo salvaguardato il canale dalle correnti ma non era del tutto scontato, come affermava Ascoli, che l’avrebbe tutelato anche dall’insabbiamento, in quanto, all’atto pratico, non era per niente conseguente che i detriti e la sabbia, responsabili dell’interrimento del canale, seguissero la stessa direzione delle traversie. Ed in effetti, scopriremo che l’insabbiamento del canale del porto di Brindisi era dovuto a ben altri fattori. La stranezza è che quando Ferrando Ascoli riprende la critica fatta da Tironi a Pigonati essa era ormai da una ventina di anni destituita di ogni fondamento, visto che nel frattempo il problema era stato risolto, e non certo perché il canale era stato diversamente orientato ma agendo appunto su altri  aspetti del problema. E stranezza ancor maggior che è tuttora convinzione comune che Ascoli avesse tutte le ragione del mondo ad accusare Pigonati d’aver sbagliato i calcoli e che il canale s’insabbiasse a causa dell’orientamento che lui gli aveva dato3.

Radicalizzando tale discorso, c’è chi arriva addirittura ad affermare che l’insabbiamento abbia avuto origine proprio dagli errori commessi da Pigonati e che, prima dei suoi lavori, nel porto interno arrivavano navigli d’ogni tipo perché non era interrito4. Vedremo, ma in un altro intervento, che non fu Pigonati, con i suoi errori, a far insabbiare la foce del porto interno per il semplice motivo che l’interrimento era dovuto a cause naturali, e non allo scavare il canale in un modo piuttosto che in un altro. Senza contare che vi sono documenti e testimonianze a iosa che attestano che l’interrimento era preesistente a Pigonati, almeno dal Seicento.

In realtà Pigonati fallì, al pari di tutti gli altri che realizzarono analoghi tentativi nel periodo borbonico per non aver capito quali erano le ragioni che creavano l’interrimento della foce che, come vedremo in seguito, erano dovute appunto a cause del tutto naturali che prescindevano da possibili errori di carattere tecnico. Rispetto a tutti gli altri interventi preunitari, quello di Pigonati, ebbe piuttosto il pregio quantomeno di indicare la via: in fondo fece scavare lui quel canale che, per quanto parecchio criticato, rappresentò l’embrione del definitivo canale Pigonati e che fece in aggiunta comprendere che, con i dovuti aggiustamenti, la città avrebbe potuto sconfiggere la malaria ed avere un futuro migliore. In aggiunta il suo progetto fu quello del periodo borbonico di gran lunga meno oneroso e l’unico ad essere stato almeno completato.

Comunque sia, dopo Pigonati, anche Pollio fallì nell’intento e nemmeno con Tironi, almeno a considerare la sua dettagliata relazione, sussistevano i presupposti per risolvere alla fonte i problemi d’insabbiamento del canale. Era quindi destinato a fallire pure il tentativo francese, se la mancanza di tempo non ne avesse tarpato le ali sin dall’inizio, e, come si vedrà,  naufragò ancor più miseramente pure quello attuato dopo il ritorno della dinastia Borbone, che pure era sostenuto da un impiego ingente di risorse.

(1 – continua)

 

 Note

1 Carlo di Borbone abdicò nel 1759 a favore del figlio Ferdinando per succedere sul trono di Spagna.

 2 Attualmente c’è un porto interno che è lo stesso di quello indicato nella mappa di riferimento, un porto medio dove si svolgono le principali attività portuali ed un porto esterno. Gli attuali porto medio e porto esterno costituivano in antichità la rada e successivamente, quando il porto interno non consentiva più l’accesso ai bastimenti, incominciò ad essere chiamato anche porto “esteriore” (esterno).

3 In tal senso, ad esempio, G. PERRI, “Brindisi nel contesto della storia”, Lulu.com, 2019, p. 106: «Pigonati, agendo con buona dose d’ignoranza nonché di arroganza, aveva commesso il grossolano errore di orientare l’imboccatura del canale a greco-levante e quel grave errore d’ingegneria finì per vanificare l’ingente sforzo» e G. MEMBOLA, “Le vicende del canale d’ingresso al porto interno“, Tutto Brindisi n. 39, marzo 2012: «Ma l’evidente errore di calcolo commesso dell’ingegnere nel progettare l’imbocco del porto, orientandolo a greco-levante proprio a direzione delle correnti marine predominanti, causò nel giro di pochi anni il progressivo intasamento dell’apertura e la conseguente ricomparsa delle malattie malariche».

4 G. CARITO, intervento nel webinar della presentazione del libro di G. PERRI: “Pagine di storia brindisina”, vol. II, Ottobre 2021, https://www.youtube.com/watch?v=sLyVzlJvPVI

 

Riferimenti bibliografici

  1. La supplica dell’arcivescovo al sovrano

Manoscritto ms_L1, “Miscellanearum Tomus I”, Biblioteca pubblica arcivescovile “A. de Leo”, Brindisi.

  1. Il tentativo di Pigonati
  2. PIGONATI, “Memoria del riaprimento del porto di Brindisi sotto il Regno di Ferdinando IV”, Michele Morelli, Napoli 1781.
  3. CAGNES – N. SCALESE, “Cronaca dei sindaci di Brindisi (1529 – 1787)”, A cura di R. Jurlaro, Amici della “A. De Leo”,

Brindisi, 1978.

  1. Il tentativo di Pollio

Dispaccio inviato da G. Acton al sotto intendente di Brindisi, Nicola Vivenzio, il 20 ottobre 1789, riportato in “Determinazioni di Sua Maestà il Re Nostro Signore per lo porto di Brindisi”, Napoli, 1790 (Biblioteca Nazionale di Napoli).

Giornale letterario di Napoli”, volume LXXVI, giugno 1797, Michele Morelli, Napoli 1797, p. 98.

ASCOLI, “La storia di Brindisi”, Forni editore, Sala Bolognese 1981.

4. I Francesi pensano di riattivare il porto interno

Rapporto del Tenente Colonnello del Genio Tirone al Sig. Generale di Divisione Campredon, Comandante in Capo il Corpo del Genio, sul “Bonificamento del Porto della Città di Brindisi, dei terreni che l’avvicinano, e su di uno Stabilimento in questa Città di un Bagno per custodia di duemila Condannati”, Brindisi, 17 marzo 1811, BNN, Manoscritti, Biblioteca Provinciale, n. 19.

5. Come si depista la realtà

F. ASCOLI, op. cit.

G. PERRI, “Brindisi nel contesto della storia”, Lulu.com, 2019.

G. MEMBOLA, “Le vicende del canale d’ingresso al porto interno“, Tutto Brindisi n. 39, marzo 2012.

G. CARITO, intervento webinar della presentazione del libro di G. PERRI: “Pagine di storia brindisina”, vol. II, Ottobre 2021, https://www.youtube.com/watch?v=sLyVzlJvPVI

Marco De Mirto, nuovo spazio espositivo a Lecce

Nella splendida cornice di Piazzetta Leonardo Prato, si inaugura un nuovo spazio espositivo ad opera del pittore leccese Marco De Mirto.
Dotato di straordinario e precoce talento, si forma all’Istituto delle Arti della sua città natale, l’artista vanta partecipazioni in musei prestigiosissimi come il Louvre di Parigi e la Carsten’s Gallery di Miami, riuscendo a conquistare con successo il mercato americano ed il collezionismo nordeuropeo.
Le sue produzioni pittoriche sono fortemente influenzate dal Rinascimento italiano e la metafisica figurativa, anche attraverso l’utilizzo di olii e tempere ad uovo ottenute secondo tecniche antichissime, mai immutate nel tempo. Gli esperti del settore definiscono il suo stile “Realismo Magico” per la capacità di creare vere e proprie scenografie su tela introducendo elementi pagani, misti ad iconografie religiose reinterpretate in modo squisitamente personale. Quella di De Mirto è un’affascinante cosmogonia popolata da personaggi legati al mito greco e alla tradizione cristiano-barocca: ecco quindi comparire sulla tela Giove trasformato in aquila, Diana Cacciatrice, giovani fauni dei boschi, animali esotici come archetipi manichei, altari sacri, omaggi all’opera lirica Italiana e molto altro ancora da scoprire di persona.”
L’eclissi di Venere, acrilico su tela (60×70 cm)
Aperto al pubblico tutti i giorni fino a Settembre 2022
info e contatti: 320 198 8979 – marco.demirto@gmail.com
Facebook: Marco De Mirto Painter
Instagram: marco_de_mirto

Libri| Francesco e Federico, due giganti allo specchio

 

Introduzione di Ruggero Doronzo

 

Con questo volume Vito Telesca torna ad approfondire ulteriormente quanto aveva già esaminato nella prima edizione di Francesco e Federico, due giganti allo specchio e Il sogno orientale. Se nel primo volume l’Autore colloca le sue ricerche in uno spazio mediterraneo, col quale si era dedicato a esaminare l’ascesa e gli incontri di Federico II e di Francesco, così diversi negli intenti perseguiti che trovarono nella figura del sultano al-Malik al-Kamil un punto di incontro, nel secondo circoscriveva il raggio di azione all’estrema propaggine della Puglia, il Salento. Qui, ma il discorso vale un po’ per l’intera regione, la posizione strategica aveva favorito le relazioni con tutto il bacino medio-orientale in quanto la Puglia ha per secoli rappresentato il naturale ponte fra Occidente e Oriente, tappa obbligata per quanti erano diretti in Terrasanta e per quelli che dopo aver reso omaggio ai luoghi di Gesù facevano ritorno a casa. In viaggio verso l’Oriente, dalla Puglia si salpava dai maggiori porti (Barletta, Trani, Molfetta, Bari, Monopoli, Brindisi, Gallipoli) e, a ritroso, in essi si approdava, così come era possibile attraversare l’Adriatico mediante la cosiddetta via Egnatia, dal nome dell’antica città, già centro dei Messapi, nei pressi di Savelletri di Fasano. Al tempo dei Romani soprattutto, il porto di Egnatia era adoperato per raggiungere l’antica via di comunicazione della Repubblica romana che congiungeva l’Adriatico con l’Egeo e il mar Nero.

Realizzata a partire dal 146 a.C. per volontà del proconsole di Macedonia Gneo Egnazio, la via Egnatia, giunti sulla sponda opposta della Puglia, toccava importanti centri (per ricordare i più importanti) come Dyrrachium (Durazzo), Lychnidos (Ohird), Edessa, Tessalonica, Filippi sino ad arrivare a Costantinopoli.

Va da sé che per tutto il Medioevo essa rappresentò uno dei maggiori collegamenti fra Occidente e Oriente, attraversata da mercanti, crociati, uomini diplomatici, religiosi e pellegrini. Fra questi ultimi sicuramente va ricordato san Francesco, sul quale Vito Telesca torna a scrivere partendo dalle fonti agiografiche redatte da Tommaso da Celano subito dopo la sua morte, il 5 ottobre 1226.

Tommaso da Celano fu autore di due versioni della biografia di san Francesco, la prima composta entro il 1229, la seconda scritta fra il 1232 e il 1239. Esse, come la critica ha messo da tempo in luce (C. Frugoni, Francesco e l’invenzione delle stimmate. Una storia per parole e immagini fino a Bonaventura e Giotto, Torino 1996, con bibliografia; A. Vauchez, Francesco D’Assisi. Tra storia e memoria, Torino 2010; F. Cardini, Francesco d’Assisi, Milano 2020, con bibliografia) furono sostituite dal racconto agiografico redatto da Bonaventura da Bagnoregio, destinato a diventare la biografia ufficiale di Francesco. Nonostante ciò gli scritti di Tommaso da Celano, cui si aggiunge il Trattato dei miracoli, continuarono a rappresentare le fonti da cui desumere ispirazione per quanto riguarda la raffigurazione in pittura dei miracoli compiuti dal santo, in un’area che grossomodo abbraccia la Toscana, l’Umbria, le Marche e il Lazio e, per l’Italia meridionale, la Campania, la Puglia e la Basilicata.

L’Autore con questo volume indaga le vicende storiche che seguirono subito dopo la morte di san Francesco e che in Italia vedevano ormai l’ascesa di Federico II, figlio di Enrico VI, eletto nel 1215 e incoronato nel 1220. Preoccupato di rinsaldare il controllo sul Regno di Sicilia, Federico II rimandò per alcuni anni la crociata in Terrasanta, che, a seguito della caduta di Gerusalemme, era fra le priorità dei pontefici. Salpato nel 1227 dal porto di Brindisi fu costretto a rientrare subitissimo a causa di un’epidemia esplosa sulla flotta e ciò portò papa Gregorio IX a scomunicarlo.

Come si anticipava, Federico II aveva incontrato il sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil, il medesimo che qualche anno prima Francesco aveva raggiunto per convincerlo, ma invano, alla conversione degli infedeli. Federico II intavolò col sultano delle trattative diplomatiche che gli fruttarono la cessione da parte dei musulmani di una parte di Gerusalemme, nonché un’area di transito sino al porto di Acri. Tale incontro, durante il quale il dialogo si sostituiva per la prima volta alla guerra, portò Federico a essere accusato di miscredenza. Quando fece ritorno in Italia, l’imperatore diede avvio alle operazioni militari contro i comuni lombardi, ottenendo una nuova scomunica nel 1239.

Telesca indaga la fitta trama socio-politica che si sviluppa nel terzo e nel quarto decennio del Duecento sottolineando come per il pontefice Gregorio IX san Francesco, emblema della cristianità, fu in più occasioni contrapposto alla figura di Federico II. Se l’imperatore, scomunicato una terza volta nel 1245 dal successore di Gregorio IX, Innocenzo IV, veniva indebolito sempre più, il culto nei confronti di san Francesco cresceva e si diramava in Italia centro meridionale, non solo grazie alla politica papale di propaganda e alla predicazione dei frati, che ormai si dirigevano in più parti della penisola, ma soprattutto a seguito del ricordo di un passaggio diretto del santo di Assisi sulle strade pugliesi.

Questo porta l’Autore a soffermarsi e a esaminare i luoghi presso cui san Francesco si sarebbe recato durante il suo viaggio verso la Terrasanta e di quelli che dovette eventualmente visitare al suo ritorno: vengono così ricordati importanti luoghi della cristianità pugliesi presso cui la tradizione ricorda la presenza del santo di Assisi, come per esempio il santuario micaelico di Monte Sant’Angelo.

Il libro di Telesca, seguendo tale pista di indagine, offre allora la possibilità di fare il punto della situazione sull’arrivo dei primi Francescani in Italia meridionale e della diffusione delle prime immagini di sapore francescano. Questa disamina, infatti, non esula così dal trattare anche le testimonianze pittoriche nel quadro storico-artistico generale dei secoli XIII e XVI limitatamente alla Puglia e alla Basilicata.

In tale contesto si inserisce il capitolo intitolato Presenza francescana nell’arte in Puglia e Basilicata tra XIII e XVI secolo a firma di chi scrive, nel quale sono tornato su temi di cui mi sono già occupato (R. Doronzo, La chiesa di San Donato a Ripacandida. Storia e arte di un santuario lucano dimenticato, Bari 2018; R. Doronzo, Fonti per la Regio Vulturis. Arte e devozione nella Terra di Ripacandida, Bari 2019; R. Doronzo, M. Pasculli Ferrara, La basilica di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina, Bari 2019), allargando però l’area di indagine in particolar modo in Capitanata, in Terra di Bari e, ancora una volta, in territorio lucano, in cui i cicli pittorici presenti (soprattutto in edifici legati all’Ordine francescano) presentano soluzioni figurative dove vengono coniugati gli stilemi più diversi maturatisi all’interno delle tradizioni regionali e soluzioni che rimandano più nello specifico alla cultura figurativa ‘adriatica’, non prescindendo da alcune iconografie codificate da Giotto nella basilica superiore di Assisi. Faccio specifico riferimento all’episodio delle Stimmate di san Francesco, di cui Giotto traduce in immagine quanto narrato da Bonaventura da Bagnoregio nella sua Legenda Maior, composta fra il 1260 e il 1263. La medesima iconografia si ritrova sia nella basilica di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina (Lecce), in cui modelli e caratteri di provenienza napoletana si legano in una contaminatio di alto valore con quelli derivanti dalle aree marchigiana e veneta[1], e sia nella chiesa di San Donato a Ripacandida.

Se a Galatina numerose figure dei cicli pittorici (Storie dell’Apocalisse sulle pareti della prima campata, Storie veterotestamentarie sulle pareti della seconda, Storie di Gesù su quelle della terza e Storie della vita di santa Caterina d’Alessandria su quelle del presbiterio) eseguite dal 1391 al 1406 (anno della morte di Raimondello del Balzo Orsini, cui è legata la fondazione della chiesa di Santa Caterina d’Alessandria) e, soprattutto, fra il 1415 e il 1446 (anno in cui morì la munifica committente Maria d’Enghien Bienne)[2], instaurano uno stretto dialogo col versante artistico adriatico a cavallo fra XIV e XV secolo[3], a Ripacandida una tale iconografia poté essere conosciuta nella zona del Vulture mediante la circolazione di tavole e codici miniati che viaggiavano assieme a monaci e religiosi lungo i principali tratturi che collegavano i centri pugliesi a quelli lucani. All’episodio raffigurato nella chiesa lucana prende parte anche frate Elia, il quale divulgò la notizia della presenza delle stimmate sul corpo di Francesco al momento della morte.

Tornando alle pagine a firma di Vito Telesca, lo studioso cerca di far luce sugli eventi che portarono Elia a seguire vie che spesso si incrociarono con quelle perseguite da Federico II e la lettura, chiara e scorrevole, rende il contenuto avvincente sia per gli addetti ai lavori che per gli appassionati di storia religiosa.

 

Note

[1] Rammento che G.B. Cavalcaselle, J.A. Crowe, Storia della pittura in Italia dal secolo II al secolo XVI, vol. IV, Firenze 1900, pp. 326-327, individuavano all’interno della basilica galatinese il veneziano Caterino.

[2] M. Pasculli Ferrara, R. Doronzo, La basilica di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina, Bari 2019, con bibliografia precedente.

[3] Sulla cultura veneta in genere negli affreschi galatinesi si veda A. Cucciniello, Galatina, Basilica di Santa Caterina d’Alessandria. D’agli intendenti ammirata. La decorazione pittorica, in S. Ortese, Pittura tardogotica nel Salento, Galatina 2014, pp. 3-71, in part. p. 43.

Giuseppe Lisi. Il profumo del tempo

Accademia di Belle Arti di Lecce, Galleria dell’Accademia | via Libertini 
29 giugno ore 11

Mostra a cura di Lucia Ghionna

Catalogo a cura di Gianluca Russo – edizioni Il Raggio Verde
Si inaugura il 29 giugno, ore 11, nella Galleria dell’Accademia di Belle Arti di Lecce “Il profumo del tempo” mostra personale dell’artista Giuseppe Lisi.
Una mostra, curata da Lucia Ghionna e accompagnata dal catalogo a cura di Gianluca Russo per i tipi de Il Raggio Verde edizioni, che suggella la conclusione dell’attività didattica di Giuseppe Lisi, che  ritorna nel luogo che lo ha visto formare intere generazioni di studenti iscritti alla Cattedra di Decorazione da lui diretta per quarant’anni.
«Giuseppe Lisi  – si legge nella presentazione firmata da Nicola Ciraci e Nunzio Fiore rispettivamente Presidente e Direttore dell’Accademia di Belle Arti – ha guidato con passione lo sviluppo di numerosi studenti sia negli aspetti creativi, sia in quelli produttivi, elementi imprescindibili del percorso formativo dei giovani artisti.»
E non solo riservata ai giovani studenti dell’Accademia, ma aperta al grande pubblico saranno  fruibili le opere de  “Il profumo del tempo” che, dal 29 giugno al 6 luglio 2022 (con ingresso libero dalle 10 alle 17), trovano spazio nella Galleria dell’Accademia. In mostra una selezione di lavori che coprono un arco di tempo che va dalle prime opere del 1979 fino alle ultime inedite del 2021.
Un titolo – che è anche quello del catalogo monografico – che suggerisce la cifra espressiva di Giuseppe Lisi che ha messo al centro della sua ricerca artistica la Natura nel senso più alto e poetico del termine con l’intento di fermarne l’essenza, di catturarne colori, forme e profumi per preservarne il ricordo.
«Le opere di Giuseppe Lisi  – scrive Gianluca Russo curatore del catalogo – sono caratterizzate da una forte complementarietà, nonostante siano state realizzate tra il 1979 e il 2021 e con svariate tecniche espressive: dalla pittura alla grafica, alla cartapesta, alla fotografia, all’installazione. Si sviluppano da un’attenta indagine e successiva riflessione sulla natura e sui ricordi ad essa collegati. Ne scaturisce un segno poetico e gestuale impresso dall’autore su carta e in seguito su tela, segno che conserva la sua freschezza nel passaggio dalle superfici cartacee di piccole dimensioni alle tele decisamente più imponenti. In quest’ultime, seguire il percorso-racconto impresso dal pennino, risulta complesso, tanto da rendere gratificante smarrirsi tra le loro intricate trame. Lo stesso segno invade il supporto tridimensionale nelle pitto-sculture in cartapesta, dove le maglie della natura prendono il sopravvento esaltandone la superficie.»
Non solo carta e tele. La cartapesta, materiale povero che si intreccia con la storia e l’identità culturale della sua terra, diventa mezzo espressivo che si piega alla creatività dell’artista che con i suoi totem, le sculture intitolate “Profumi di Macchia Mediterranea”, continua la sua indagine sulla natura e sui luoghi della sua terra che inevitabilmente è anche un racconto che scava nel passato e nella memoria anche quando l’artista, cambia registro espressivo, realizza fotografie, installazioni e le dia-installazioni facendo coincidere lo spazio dell’opera con quello del fruitore.
«In tutto il suo lavoro – scrive ancora Russo – è evidente la necessità di sperimentare tecniche e linguaggi e, allo stesso tempo, aggrapparsi ai propri ricordi, alla quotidianità, al territorio e alle sue peculiarità. Nonostante la presenza di una bulimia culturale diretta verso un uso sfrenato delle nuove tecnologie, Giuseppe Lisi rimane concentrato nel ricercare i dettagli che la natura, instancabile, gli propone; convinto che ci siano ancora profumi e colori da scoprire e dei quali nutrirsi per poi essere rivelati sul supporto creativo.»
La monografia che sarà presentata in occasione dell’apertura della mostra è il racconto del percorso artistico di Giuseppe Lisi e si conclude con i testi critici e le testimonianze letterarie e un apparato  fotografico, in bianco e nero, che documenta il suo passaggio nell’Accademia di Belle Arti di Lecce come artista e docente del corso di Decorazione.
Notizie biografiche
Giuseppe Lisi nasce a Nardò (LE) il 18 febbraio 1954. In giovane età si appassiona alla fotografia frequentando il laboratorio di un suo familiare; attratto dalla natura desolata e incontaminata dei litorali salentini di un trentennio addietro effettua i suoi primi scatti e intanto si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Lecce. Diplomatosi in decorazione seguendo i corsi dei maestri Raffaele Spizzico, Mimmo Conenna e Rocco Coronese inizia la sua attività artistica partecipando a collettive e personali in Italia e all’estero. Pur non trascurando gli ambienti artistici locali (con Corrado Lorenzo si interessa ad esempio alla poesia visiva che, nata negli anni settanta del ‘900 ad opera del gruppo 70, ha l’intento di polemizzare e demistificare, attraverso la combinazione parola-immagine, la società consumistica) sente la necessità di confrontarsi con quanto accade in ambito nazionale; vive quindi tra Roma, Firenze e Venezia, città delle quali ha uno studio oltre quello di Nardò. Nel capoluogo veneto è nominato docente di Tecniche dell’Incisione presso la locale Accademia di Belle Arti, carica che ricopre fino a al 1995 quando diviene titolare della Prima Cattedra di Decorazione all’Accademia di Belle Arti di Lecce.
I referenti della sua ricerca sono la memoria e la natura dei luoghi della sua terra; in una serie di pitto-sculture (Profumi di macchia mediterranea, Danza la luna nella sterpaglia) la loro rievocazione è affidata alla cartapesta che, plasmata e dipinta con colori acrilici, assume le forme vegetali del brullo, arso ed assetato Salento. Natura e memoria, costantemente presenti in tutti i suoi lavori, permeano anche disegni e dia installazioni; con queste ultime l’artista salentino è tornato all’utilizzo della fotografa, punto di partenza del suo interesse verso il mondo dell’arte. Giuseppe Lisi vive e lavora a Nardò.

Santa Maria della Rosa a Nardò

Nobili committenze. Santa Maria della Rosa a Nardò. 27.a Giornata FAI di primavera, Nardò 23-24 marzo 2019 / Marcello Gaballo, con un contributo di Donato Giancarlo De Pascalis

Nardò, Fondazione Terra d’Otranto, 2019

46 p. : ill. ; 24 cm

[ISBN] :978-88-94229-77-6

Per la scheda e per le bibliotehe in cui si trova:

Risultati ricerca – OPAC SBN

Per sfogliare:

(PDF) Nobili committenze. | Santa Maria della Rosa a Nardò Marcello Gaballo – Academia.edu

 

A Brindisi non ci si va e non ci si ferma, si arriva e si parte

Porto di Brindisi: piroscafo della Valigia delle Indie – 1905

 

Brindisi: città ‘al limite’ e ‘città ‘limes

da meta ideale d’ogni fuga a frontiera verso l’immaginario

 

di Gianfranco Perri

Parecchi anni fa scrissi di Buenos Aires1 e raccontai di quella bella e interessante città sudamericana che in più occasioni ho avuto il piacere di visitare, sia per lavoro che per diletto. Il contesto di quel mio scritto mi portò a tentare un improbabile parallelismo tra Buenos Aires e Brindisi, che feci, in realtà, per segnalare una specifica ed in apparenza incongruente differenza tra le due città, pur entrambe portuali e pur entrambe – in senso geografico – estreme: Brindisi, con il suo porto intagliato presso l’estremità del tacco dello stivale italico propenso a sudest nel Mediterraneo a mo’ di spartiacque tra i due mari Adriatico e Ionio e Buenos Aires, con il suo porto anch’esso situato prossimo ad una estremità geografica, addirittura la punta dell’intero continente americano, propensa a sud a mo’ di spartiacque tra i due oceani Atlantico e Pacifico.

Ebbene, mente Buenos Aires è, in apparente pieno rispetto della logica, un luogo estremo dal quale non si passa, ma al quale si arriva di proposito, per fermarsi – non si va a Buenos Aires per poi proseguire il viaggio, o ci si ferma o si torna indietro – a Brindisi, invece, normalmente e storicamente parlando, non ci si va, non ci si ferma, a Brindisi si arriva e da Brindisi si parte.

Quale sarà, allora, la ragione di tale sostanziale differenza? Ebbene, la spiegazione è semplice e va ricercata nel fatto che, pur essendo geograficamente entrambe città luoghi ‘al limite’, solamente Brindisi è – anche – luogo ‘di limes’, cioè ‘di frontiera’: di separazione ossia tra due entità e, nel caso specifico, nientemeno che tra due mondi, Occidente e Oriente. Ed è proprio a tale singolarità, a tale doppia peculiarità, che Brindisi deve gran parte – nel bene e nel male – della sua plurimillenaria storia nonché della sua indiscussa fama nel mondo: essere una città di frontiera è attributo abbastanza comune, ma essere allo stesso tempo città sita all’estremo di una propaggine geografica, di fatto continentale, è invece attributo decisamente singolare, forse unico.

Molto probabilmente lo aveva ben scoperto anche Ernest Hemingway quando nel suo famoso ‘Addio alle armi’, nel dialogo tra Frederic – il giovane tenente medico volontario americano, protagonista del romanzo – e Gino, ufficiale medico italiano incontrato nelle retrovie del fronte del Carso, tra Gorizia e Caporetto nell’autunno del 1917, fa dire al secondo: «Tu cosa faresti se avessi una frontiera fatta di montagne?» E Frederic risponde: «Una volta gli austriaci venivano sempre bastonati nel Quadrilatero attorno a Verona, li lasciavano scendere in pianura e li bastonavano lì.» E Gino: «Ma i vincitori erano francesi, in casa d’altri è più facile risolvere i problemi militari.» E Frederic: «E già, quando si tratta del tuo paese non lo puoi usare così scientificamente.» E Gino: «Eppure i russi l’hanno fatto, per intrappolare Napoleone.» E Frederic: «Sì, ma quelli avevano un paese veramente enorme, se in Italia tentaste di ritirarvi per intrappolare Napoleone, vi ritrovereste a Brindisi! …» Quindi, come a voler significare “in Italia, il luogo più remoto dove si potrebbe pensar di andare per fuggire da un nemico, è Brindisi: un luogo sito all’estremo geografico ed in più, luogo di frontiera”.

Qualcuno ha finanche avanzato la suggestiva idea che Hemingway in quel suo romanzo scritto nel 1928 abbia prefigurato per Brindisi – città limite e città limes – la meta della fuga del re nel ’43 per da lì, come fecero i russi dalla Siberia con Napoleone, attendere pazientemente la ritirata degli invasori: intrigante l’ipotesi della prefigurazione e, comunque, una citazione certamente premonitrice.

Del resto, già ben prima del ’43, praticamente da sempre nel corso della storia, a Brindisi erano fuggiti – se pur con fughe dalle cause e dagli esiti dissimili – veramente in tanti: a cominciare da Falanto, Spartaco, Cicerone, Pompeo, per solo citare i primi tra quelli divenuti famosi, e via via molti altri. E anche proprio subito prima e subito dopo quel ’43 si registrarono alcune tra le più eclatanti fughe a Brindisi, con tanti arrivi e tante partenze: a cominciare dall’inverno del 1915-1916 con il biblico esodo dell’esercito serbo – con più di 270.000 tra soldati serbi, re Pietro I di Serbia e re Nicola I di Montenegro inclusi, profughi e prigionieri austroungarici – e continuando, nel 1945, con il continuo affluire a Brindisi dei profughi giuliani, fiumani, dalmati, e quindi degli ebrei che venivano dall’Europa orientale e dall’Africa settentrionale. E poi ancora, solo trenta anni fa nel 1991, con l’impressionante arrivo in massa di varie decine di migliaia di Albanesi.

E tra i primi fuggitivi a Brindisi sopra citati, vissuti prima di Cristo, e gli ultimi giunti in fuga a Brindisi, vissuti sul finire del secondo millennio, quanti altri più o meno famosi ce ne furono? Sarebbe certamente troppo lungo e troppo arduo poterli menzionare e pertanto: meglio rinunziare a farlo. Solamente provo ad accennare a quanto accadde a Brindisi, sempre in relazione a fughe arrivi e partenze, nel bel mezzo dei due estremi epocali sopra indicati, già entrato cioè il secondo millennio, nell’epopea delle crociate, fin dalla prima – nel 1100 Goffredo, signore normanno di Brindisi, accoglie i reduci della prima crociata e sposa sua figlia Sibilla al reduce Roberto Courteheuse, duca di Normandia, sfarzosamente dotandola grazie alle ricchezze che aveva accumulate proprio in Brindisi2 – e lo faccio alimentando il mio racconto con parte di quanto richiamato da Rosanna Alaggio in un suo interessante articolo sulle frontiere nell’occidente medievale3.

Risultano numerose, per tutta la durata del fenomeno crociato, le attestazioni di spostamenti che assegnano al porto di Brindisi il ruolo di terminale di scambio per le armate al seguito di alcuni dei più importanti membri dell’aristocrazia d’Oltralpe, oltre che di alcuni sovrani europei di ritorno da Gerusalemme, di dignitari e di alti prelati – forse mai si era verificata un’affluenza numericamente paragonabile a quella che la spedizione federiciana del 1227, la sesta crociata, riuscì a coinvolgere. Per tutti quei tempi, tra la fine dell’XI secolo e il XIV infatti, numerose testimonianze pervenute attribuiscono a Brindisi una importante funzione negli spostamenti degli eserciti cristiani per e dalla Terra Santa, che comportarono un gran numero di transiti, imbarchi e sbarchi, anche di nobili, dignitari e membri delle più importanti dinastie regnanti europee con il loro seguito armato, o comunque di soggetti spesso rappresentanti di istituzioni aventi a diversi livelli rapporti – compresi intricati legami familiari – con la monarchia normanno-sveva, cui Brindisi apparteneva.

L’eco delle loro imprese, diffusa in tutta Europa dai tanti racconti dei protagonisti e dai resoconti di cronisti che molte volte erano loro stessi membri delle spedizioni, contribuì in buona misura a consolidare nella coscienza collettiva della civiltà occidentale la percezione di Brindisi quale avamposto di una frontiera, e non solo in termini meramente geografici. Brindisi inoltre, allo stesso tempo, con il suo porto divenne base strategica fondamentale per tutti i principali potenti ordini monastico cavallereschi, quali giovanniti teutonici e templari: vi svernavano le flotte dei monaci guerrieri e mentre nei cantieri navali si dava corso alle necessarie riparazioni, in città si producevano contatti e incontri tra personaggi di prim’ordine, provenienti da tutta Europa e dal vicino e lontano Oriente.

Rosanna Alaggio riferisce del grandissimo numero di citazioni ricevute dalla città di Brindisi proprio a proposito della sua duplice condizione di ‘città estrema’ e di ‘città limes’: “Brindisi si trova menzionata in diciotto opere, tra romanzi e cronache redatte in antico francese e in altre lingue romanze, e in ben ventiquattro Chanson de Geste.” E anche se i rimandi a Brindisi nella maggioranza dei casi sono citati in relazione a postazioni di transito e d’imbarco per le imprese crociate di protagonisti eroici e temerari, spesso sono utilizzati anche come termine di riferimento per voler esplicitamente esprimere per quella Brindisi “la dimensione di una distanza ai limiti del raggiungibile e del conosciuto”. Un’immagine che non necessariamente derivava da una conoscenza diretta, ma che piuttosto risentiva dell’influenza di proiezioni fantastiche e che per tal motivo in certi casi aggiungeva alla realtà accenti suggestivi di una dimensione addirittura esotica, enfatizzando i parametri che ne mettevano maggiormente in risalto le caratteristiche proprie di una terra di frontiera – la Puglia – elaborata dall’immaginario collettivo come limite estremo di un’intera civiltà: il luogo della separazione che diventava anche momento di coesistenza tra il reale, la consuetudine e l’ideale:

«Nel Galeran de Brertagne l’eroina protagonista è descritta come la più bella che si possa trovare fino a Brindisi, e nel Tournoi Chauvency viene fatta menzione di un uomo come il migliore che possa esistere fino a Brindisi. Nell’Ugo Capeto si cita Brindisi per ben tre volte: non è possibile trovare cavalieri valenti come Beuve de Tarse fino al porto di Brindisi; un figlio di Brabante si vanta dell’opulenza della casa di suo padre che non ha pari in tutta la Francia e neppure a Brindisi; e, infine, lo stesso Hugo Capeto è un cavaliere che non ha pari fino al porto di Brindisi. Nel Le Batard de Bouillon la regina Margalie è la più bella che esiste fino al porto di Brindisi. Nell’Enfances Renier il porto di Brindisi è menzionato come riferimento per esprimere una distanza enorme. Nel Lion de Bourges si fa riferimento all’oro di Brindisi. Nel Garin de Loheren un elmo di notevole fattura proviene da Brindisi. Nell’Elie de Sant Gilles Brindisi è una città pagana. L’Ipodemon è ambientato nella Brindisi medievale. E Brindisi, infine, nel Roman du Chastelain de Coucy et de la dame de Fayel, viene scelta come città in cui si spegne e viene seppellito il Castellano de Coucy, verosimilmente Guy de Ponciaus, morto in Terra Santa al seguito di Riccardo Cuor di Leone: un’ambientazione, quella a Brindisi, privilegiata per la descrizione della morte di un valoroso cavaliere cristiano al ritorno dalla Terra Santa.»3

Riavvicinandosi poi, a poco a poco ai tempi nostri, si scopre che tra fine 800 e inizi 900, proprio mentre si inaugurava il canale di Suez, da Brindisi il visionario professor Sapeto e l’ammiraglio Acton il 12 ottobre 1869 salpavano verso la baia di Assab in Eritrea, muovendo il primo passo dell’avventura coloniale italiana, e poco dopo «…con lo scalo dei grandi piroscafi della Valigia delle Indie, Brindisi ritorna nell’immaginario europeo non più, come era stato nei secoli immediatamente precedenti, quale limes della cristianità innanzi al turco, ma nuovamente quale porta verso l’esotico. Fogg, per compiere il suo Giro del mondo in ottanta giorni è verso Brindisi che deve muovere, come del resto lo fanno anche molti personaggi creati da Agata Christie o da Gide. Sulle banchine del porto per mesi, prima d’essere coattivamente rimpatriato, s’aggirò Rimbaud [in realtà non vi giunse perché in camino da Milano a Brindisi, nel 1875, fu colto da un’insolazione che gli impedì raggiungere la meta]. E qui sarebbe sbarcato Tagore che riconobbe in una appena intravista ragazza di Brindisi il volto giovane dell’Europa. Finanche Emilio Salgari, l’idea del suo oriente immaginario è possibile l’abbia colta a Brindisi, capolinea, con Venezia, dell’unica tratta di mare che si sa da lui percorsa. La storia della città, del resto, può riassumersi in quella delle fortune del suo porto e intendersi nel più generale quadro di riferimento offerto dall’evoluzione dei rapporti fra gli stati rivieraschi del Mediterraneo e dei grandi itinerari saldanti Europa, Africa e Asia.»4

Ed eccomi di ritorno al mio articolo su Buenos Aires; iniziava con queste esatte parole:

«Caro direttore Gianmarco, nel mio andare per il mondo avrò incontrato forse un centinaio, e anzi molte più, di persone che di fronte alla mia affermazione di essere di Brindisi rispondendo alla naturale domanda che tra conoscenti circostanziali ci si scambia sul rispettivo luogo di provenienza, mi hanno replicato con decisione: certo Brindisi, io la conosco, ci son stato per andare in… ‘oriente’ via mare, un bellissimo porto!»1

Naturalmente quel mio “andare per il mio mondo” si riferiva ad anni che ormai son trascorsi da parecchio, quanto meno, naturalmente, ad anni precedenti la data – 2011 – dell’articolo. Anni, comunque, in cui non imperversavano ancora i voli low cost, anni in cui per andare dall’Europa in Oriente, in Grecia, Albania, Turchia, Egitto, India, eccetera, generalmente si ‘prendeva’ una nave e molto spesso la si prendeva proprio da Brindisi.

E adesso? Certo, Brindisi continua ad esistere nella sua posizione geografica di sempre, quindi di ‘città al limite’. Ma continua ad essere città limes? Probabilmente sempre meno, in un mondo che sembra voler tendere, pur tra tanti ostacoli, all’eliminazione delle frontiere, anche se per ancora un po’ ci si dovrà accontentare d’averne solo spostato più in là alcune avendone eliminato alcune altre: Dubrovnik, Durazzo, Vallona, Corfù, Pireo e tanti altri posti per Brindisi non sono più dall’altro lato del limes. Un percorso ancora lungo e accidentato che sull’altra sponda del limes vede tuttora rimaste la Turchia, l’Egitto, l’India, eccetera. In entrambi i casi però, si tratta pur sempre di luoghi, vicini o lontani che siano, che oggi di fatto si raggiungono tutti con l’aereo. E anche se Brindisi ha il suo bell’aeroporto, non è assolutamente la stessa cosa!

Porto di Brindisi: – 1910

 

Dubito fortemente – con un poco di malinconia – che i miei figli, e ancor più i miei nipoti, al comunicare le loro origini brindisine ad un qualche interlocutore incontrato circostanzialmente, si possano sentir rispondere: “Ah! Brindisi, io la conosco, ci son stato per andare a…” Ma, magari e spero, mi sbaglio.

Porto di Brindisi: faro isola Traversa delle Pedagne – costruito nel 1859

 

BIBLIOGRAFIA

  • Perri Gianfranco Brindisi, perla in un pianeta di bellezze – Senzacolonne dell’11 novembre 2011
  • Ordericus Vitalis Historia Ecclesiastica – Patrologia Latina, Parigi 1835
  • Rosanna Alaggio “Finis est Europae contra meridiem” Immagini da una frontiera dell’Occidente medievale – Incontri di studio del Mæs, 2005

Una pelike attica nel Museo Sigismondo Castromediano di Lecce

di Pietro De Florio

 

Introduzione

Il mondo greco antico ha sempre esercitato un importante influsso culturale e commerciale nel Salento. Un segno tangibile sono gli acquisti, da parte delle aristocrazie messapiche, di splendidi  vasi attici classici, provenienti da Atene1.

Il vasellame attico in genere era a figure nere (dal VII sec. a.C.), cioè dipinto con una vernice nero – brillante sul fondo rosso della terracotta e con i particolari ottenuti a graffito, lasciando affiorare il rosso cotto della creta. Si otteneva una specie di pittura piatta, lineare con figure viste di profilo2.

Nel V secolo cambia il procedimento. Si dipingeva tutto il vaso di nero brillante, lasciando scoperta in rosso la silhouette, e all’interno degli spazi rossi i particolari venivano delicatamente tratteggiati con un sottile pennellino intriso di nero. Un segno nero tracciato su rosso viene meglio percepito, quindi si ottiene una pittura fluida raffinata e analitica, grazie anche all’arte di veri artisti come Psiace, Eutimide, Duride, il Pittore di Chicago (N.d.A.) e altri.

Esiste anche la tipologia dei vasi bianchi privi di campiture cromatiche definite; la decorazione, dal contorno libero, viene fatta a punta di pennello, richiamando suggestioni plastiche3.

Nel Museo di Lecce è possibile ammirare la bellissima pelike attica a figure rosse (inventario n. 573) attribuita al Pittore di Chicago, della seconda metà del V sec. a.C., sulla quale sono raffigurati, da un lato A l’episodio mitologico di Polinice che offre a Erifile la collana di Armonia, e dall’altro B una donna che si volge a parlare con un efebo, cioè un adolescente appena entrato nella pubertà. Le scene sono delimitate in alto da una decorazione di palmette a ventaglio e in basso da una fascia a meandro cadenzata da rettangoli (Figg. 1,2).

Figura 1

 

Figura 2

 

Il Mito

A Tebe sta per compiersi la maledizione di Edipo4 sui figli Etèocle, che significa “della vera fama”, e Polinice, cioè “l’uomo dalle molte contese”5.

I due dopo aver scacciato il loro padre re di Tebe, stabilirono che avrebbero regnato un anno ciascuno. Ma Etèocle finito il suo turno di regno non volle cedere il trono a Polinice. Allora questo chiese aiuto a suo suocero Adrasto re di Argo e fratello di Erifile. Si formò una coalizione di sette re (per quante erano le porte di Tebe), pronta a marciare contro Etéocle. Ma uno di questi, il re Anfiarao marito di Erifile, non aderì dalla spedizione di Adrasto e, come scrive Kerény, “egli la sconsigliava poiché, sebbene fosse un valoroso guerriero, aveva anche quelle qualità degli esseri connessi al mondo sotterraneo [… ] per cui conosceva il futuro. Sapeva che sarebbe morto nella guerra contro Tebe”, perciò si nascose; soltanto sua moglie Erifile sapeva dove fosse. “Polinice si recò quindi da lei. Un dipinto vascolare famoso ce lo rappresenta mentre va dalla bella Erifile in veste di pellegrino –  tra i due sta una gru, parente del cigno – e prendendo la collana di Armonia dalla scatola dei gioielli, induce in tentazione la giovane donna. Ella tradisce il marito e gli ordina di obbedire ad Adrasto”.

D’altro canto Erifile era già intervenuta in passato in qualità di paciere nelle controversie tra il proprio fratello e suo marito. I due probabilmente si sarebbero uccisi, pertanto giurarono d’ora in avanti di rispettare sempre il giudizio di Erifile. “Anfiarao l’indovino, pur sapendo della corruzione, andò comunque in guerra, ordinando ai suoi figli di uccidere la madre, qualora non fosse ritornato”6.

Va ricordato, inoltre, che la collana d’oro fabbricata da Efesto dava un irresistibile fascino a chi la portava ed Erifile, timorosa di perdere le propria bellezza, ne anelava il possesso.  Il monile apparteneva ad Armonia (ava di Erifile) figlia di Afrodite e di Ares. Fu sua madre a donargliela, quando andò in sposa a Cadmo, fondatore di Tebe, e da suo figlio Polidoro nacque la sventurata stirpe di Edipo.

Intanto la guerra contro Tebe finì in una carneficina, si salvò solo Adrasto, la città non venne espugnata, mentre Polinice ed Eteocle si scannarono a vicenda7.

 

La Descrizione

Sul lato A (Fig. 1), si vede Polinice barbuto, indossa una corta tunica stretta alla vita decorata con animali selvaggi e fiori stilizzati (rosette) e un laccio legato alla caviglia destra. Mediante la mano del braccio sinistro, coperto parzialmente dalla clamide pendente, regge una scatola portagioie da cui ha appena tratto la collana di armonia (dipinta di bianco) e con l’altra  mano fa penzolare davanti agli occhi della donna il monile.

Costui è armato di spada sostenuta dal balteo di cui si intravede l’elsa e, sul capo, porta l’elmo a calotta8 quali segnali che rimandano all’imminente guerra. All’immagine larvata di guerriero,  fa da contrasto la succinta veste di pellegrino e il lungo bastone di appoggio, quasi a dissimulare le proprie intenzioni, con un dono apparentemente disinteressato. Tra Polinice ed Erifile è presente una gru9 che, oltre ad essere una cesura compositiva, probabilmente nel suo significato iconologico, rappresenta la vigilanza, secondo una vecchia leggenda citata da Aristotele nella Storia degli animali (9,10). Un animale che al minimo rumore si sveglia, pertanto è sempre vigile e attento. Quindi l’attenzione dev’essere rivolta a quello che sta per accadere: la debolezza morale, la vanità umana, l’apparire, il fascino delle cose materiali e la brama del loro possesso, possono spingere a compiere le azioni più sconsiderate (giacchè Erifile sapeva delle profetiche doti del marito e, quindi, come sarebbe andata a finire)  (Figg. 3, 4).

Figura 3
Figura 4

 

Frontalmente si vede Erifile con la testa di profilo rivolta a Polinice, mentre i suoi occhi fissano il monile, verso il quale distende la mano, l’altro braccio, invece, si accosta il fianco del corpo. Indossa l’apotygma allacciata da fibule su entrambe le spalle, sotto il peplo dorico orlato di nero e il capo ingentilito da un semplice chignon e da sottili nastri. In alto in prossimità delle teste si leggono i nomi dei due protagonisti10.

Sul lato B della pelike si vede frontalmente una giovane donna con chitone,  himation e una banda ornamentale intorno al capo, voltandosi guarda un efebo anche questo indossa l’himation, lasciando scoperto quasi tutto il petto. Ha la testa cinta da una fine tenia bianca, sta fermo con le gambe incrociate, puntellandosi con un lungo bastone bitorzoluto, posto sotto l’ascella sinistra. Una scritta incomprensibile è posta tra le due figure11 (Fig.2). Ci sarebbe da riflettere sui due episodi figurati del vaso (A, B): da una parte l’inganno, la corruzione e, infine la guerra, dall’altra, invece la semplice reciproca attrazione tra giovani, una specie di rapporto paleofreudiano thanatos ed eros.

Per la prossemica rimane aperta la posizione dei due protagonisti nella scena mitologica, cioè l’uno a lusingare e l’altra a lasciarsi convincere. Infatti i piedi di Polinice sono rivolti verso Erifile mente quelli di costei sono visti frontalmente, solo la testa si gira verso l’uomo. In uno spazio reale e relazionale i due personaggi sarebbero più o meno uno accanto all’altra (sarebbe una prossemica aggressiva, se fossero di fronte), con un punto in comune a terra dato da due linee immaginarie che, rispettivamente,  partendo dai piedi dei due protagonisti vanno a formare sul terreno un angolo di circa 90 gradi; ciò indicherebbe un comportamento condiviso o di complicità12 (Fig. 6).

Figura 5. In basso fig. 6

Infatti la prossemica indica che la distanza personale (di relazione, per la stretta di mano, interazione ecc.), tra due individui  varia tra i 45 – 120 cm., quindi  osservando le braccia protese dei due personaggi e le loro teste (anche per l’efebo e la giovane donna sull’altra faccia del vaso) si intuirebbe questa “vicinanza”13, sebbene entrambi i busti arretrino, per la convessità della superficie vascolare. Si nota un clima di reciproca connivenza, il collo e la testa della donna sono inclinati verso l’uomo denotando l’interesse per la collana di Armonia, infatti la mano istintivamente si apre sollevandosi, anche il capo e il petto di Polinice si protendono in avanti come spinti dalla rigidità della gamba sinistra, mentre con la mano destra, le offre il seducente monile (Figg. 1,3)

In definitiva si potrebbe dire che nei due protagonisti (lato A), la determinazione interessata del donare e la brama edonistica del ricevere si traducano in espressioni corporee.

 

Ornamentazione e Stile

Gli episodi figurativi riprodotti sul vaso sono delimitati in alto da un elegante fregio a palmette interrotto solo dall’innesto delle due anse e, in basso, da una fascia decorativa con motivi a meandro, limitatamente alla base delle figure umane, insomma dal geometrico astratto in basso, si passa al vegetale stilizzato in alto.

In genere la bordura vegetale nei vasi attici a figure rosse risente dei motivi egizi, cirenaici e roditoti, caratterizzati da petali, boccioli, fiori o frutti a forma di pera, che sono disposti in coronamenti tripartiti, sostenuti da tralci schematici14. Riguardo alla pelike leccese il tralcio (come in altri esemplari analoghi), alla base a volute, sviluppa un regolare e sinuoso percorso, incorniciando e avvolgendo in eleganti ventagli, gruppi di palmette, intervallati da residui stilizzati tripartiti di fiori di loto,  boccioli o calici, ossia i residui stilistici della tipologia anzidetta più antica15 (Figg. 7,8)

figura 7

 

figura 8

 

In basso sotto i piedi delle figure scorre un nastro decorativo in sequenze di riquadri geometrici a meandro, interrotti ogni cinque, quattro o tre volte da rettangoli crociati, nel tipico stile della decorazione geometrica –  astratta a banda articolata in linee spezzate16. Su questo vaso, come in altri della stessa specie e periodo, si hanno due tendenze ornamentali: una ritmico – iterativa stilizzata, potenzialmente figurativa con elementi vegetali e un’altra geometrico – astratta con una propensione integralmente antifigurativa17. Tuttavia i due orientamenti quello di derivazione protostorica astratto e l’altro naturalistico tendente all’organico non sono incompatibili18, anzi coesistono nella pelike leccese: il meandro sta insieme alle palmette e allo schema dei boccioli (Figg. 7, 8, 9, 10).

figura 9

 

figura 10

 

Dunque il tralcio nel periodo classico si libera dalle rigidità lineari più antiche, diviene un fluido segno ornamentale ed anche elemento iconologico di raccordo tra corpo fittile e ansa. Il tralcio nella pelike del Museo di Lecce, assume anche il compito di evidenziare i due punti di contatto, tra il corpo del vaso e le anse, quale indicazione di continuità19. Alla base delle anse il disegno a palmette viene simmetricamente suddiviso in due ventagli di coronamento, separati da altrettanti tralci a volute contrapposte che formano una specie di innesto per l’elemento vegetale (Figg. 11, 20). A tal proposito Worringer vede nel tralcio ondulato a volute la geometria che si trasforma in forza elastica viva e naturale, lasciando immaginare l’alternativa figurativa e organica20. Infatti le palmette, nella pelike volgono delicatamente verso i lati, rispetto alla foglia centrale, secondo lo schema della palmetta traboccante già studiata da Riegl21 (Figg.8, 10).

figura 11

 

La pelike 570 è stata attribuita al Pittore di Chicago22, cioè un ceramografo attivo pressappoco dopo la metà del V secolo a.C. esponente di quella “classicità più consapevole e matura”23. Il disegno è dettagliato, grazie al fine tratto grafico che annota particolari e gesti,  come nella tunica di Polinice o nell’istintiva mano protesa di Erifile (Figg. 1, 2, 3, 5, 8). Un sapiente equilibrio si nota tra la linea analitica di contorno esaltata dal rosso sul nero (e i bianchi della collana e fascette sul capo di Erifile) e il suggerimento delle masse plastiche rese dal controllo formale dei panneggi e dai vividi dettagli (ciuffi di barba, riccioli, acconciature, bordature ecc.), rendendo le superfici vive e delicate.

È lo stile del “temperamento lirico” del Pittore di Chicago che “si esprime in effetti con maggior compiutezza in un mondo di figure femminili”24: Erifile con delicatezza distende il braccio, quasi aspettando che l’uomo lasci cadere il monile nella sua mano, il tutto nella elegante descrizione del gesto sospeso, sottolineato da una snella, ma incisiva linea di contorno. Una grazia compositiva ribadita dalle pieghe parallele e dalla mossa orlatura del peplo di Erifile a cui corrisponde frontalmente il panneggio della clamide pendente dal braccio dell’uomo (Figg. 11, 12).

figura 12

 

Sul versante B, si nota analoga elasticità plastica, le due figure giovanili (donna e uomo) si guardano, lei pare quasi che si sia per un attimo fermata e volge lo sguardo indietro in direzione del ragazzo appoggiato a un lungo bastone obliquo, come posto in una specie di diagonale, quasi a controbilanciare l’attrazione reciproca degli sguardi (Figg. 2, 13, 14, 15, 16)

figura 13

 

figura 14

 

figura 15

 

Se l’arte classica rinuncia allo spazio per privilegiare la corporeità intrinseca delle singole figure o cose (come nelle volumetrie di Polinice, Erifile, dell’efebo e della giovane donna) a scapito di unità pittoriche coerenti25, nella pelike leccese il pittore, tuttavia, ha la premura di presentare un racconto figurato e dinamico facendo assumere importanza anche agli spazi, per così dire negativi, cioè ai neri tra le figure rosse.

Cioè, se gli spazi neri, in entrambi i lati (A, B), fossero stati troppo ampi avrebbero svilito l’importanza delle figure, ma con la presenza della gru, dei bastoni, della collana e delle braccia protese, i neri si riducono e si alternano gradevolmente con i rossi delle figure (Figg.1,2)

Il vaso consiste in un oggetto tridimensionale e, quindi, le figure dipinte seguono la superficie convessa: le teste si piegano, le braccia si estendono nello spazio e le masse si espandono 26, ma simultaneamente tendono a sottrarsi alla tridimensionalità, a vantaggio della superficie piana.

È questa che crea individualità e irrelatività, evitando il fluire ingannevole delle forme nello spazio, preferendo le estensioni geometriche lineari28. Ciò, nel vaso, si vede nell’assenza di scorcio, nei volti visti profilo, negli occhi mai rappresentati insieme frontalmente, di braccia e gambe come se muovessero sullo stesso piano. Spetta a drappeggi e ai piedi visti in alzato a completare la visione, lasciando immaginare il senso della profondità. Quindi nella pelike leccese si fondono i due poli estetici dell’arte classica: il naturalismo realistico empatico di apertura al mondo e l’aspetto geometrico astratto – stilizzato (di derivazione Dipylon), segno di stabilità e misura, oltre la  relatività del mondo esterno29.Tutto ciò si è notato, sia nell’ornamentazione astratta geometrica del meandro – labirinto e nella stilizzazione floreale, sia nel dispiegamento in piano della forma (vitale) umana (Figg. 1,2, 9,10).

figura 16

 

figura 17

 

La Forma

Nella pelike leccese si può cogliere il rapporto tra superficie e forma, cioè l’insieme strutturato delle decorazioni astratte e figurative. Gli ornamenti geometrici e vegetali stilizzati, se per un verso evidenziano o isolano gli episodi narrativi posti al centro del vaso, dall’altro e contestualmente uniscono la totalità iconica in forma conglobata estensiva. Vale a dire, i tralci e le palmette (superfici) si collegano con la geometria zig zag degli orli e pieghe sulla tunica di Polinice (forma), come il motivo a meandro (superficie) viene colto nella iniziale potenzialità formale di avviluppo, nell’himation (forma) dell’efebo (Figg. 18, 19) e, si potrebbe proseguire, con altri parallelismi configurativi, tra il momento astratto e quello figurativo.

figura 18

 

figura 19

 

Quindi, rispetto ad altri esemplari di vasi, è possibile notare il giusto equilibrio decorativo e formale che elimina dissonanze o elementi di separatezza, inoltre la semplicità e il rigore dello stile attico, non eccede nel decorativismo, non affolla o complica lo spazio pittorico, producendo quella pienezza da horror vacui 30, com’ è possibile notare in alcuni esemplari del IV sec. di ceramica apula e italiota.

Dunque il vaso si dà come forma e unità, possiede, stando a Simmel, una propria entità in sé conchiusa, rispetto allo spazio fluttuante intorno; un oggetto qualsiasi o un utensile, invece, si troverebbero in correlazione con il contesto esterno, insomma l’opera d’arte “ha reciso ogni legame con l’esterno e si accontenta di fondere i propri elementi in unità autarchica”31.

Ma un vaso, oltre a essere in alcuni casi, un’opera d’arte con un’esistenza separata, è anche un oggetto utilizzabile nella quotidianità. Esiste comunque un punto di contatto tra il mondo ideale dell’arte quale ritaglio di spazio “autarchico” e il mondo esterno collegato nelle anse che si protendono nel mondo, ma al tempo stesso rientrano nella sfera estetica dell’opera. Insomma la manipolazione esterna del versare, riempire, somministrare, inclinare, sollevare ecc. passa attraverso l’ansa e contestualmente il vaso quale “forma artistica che, indifferente al mondo esterno, rivendica l’ansa per sé”32. Quindi all’ansa spetta un compito estetico e pratico, essendo una specie di ponte tra idea e materia. Le pelikai attiche generalmente possiedono anse poco pronunciate rispetto all’ampia globosità strutturale, in quella leccese le anse procedono dal vaso come se vi fossero ancora incorporate, sembrerebbero già in origine inglobate nell’unità del manufatto, come in una scultura dove viene tolta la materia in eccesso33.

Nelle pelikai le anse appartengono al corpo ceramico, non si tratta di applicazioni aggiunte dalle forme dissonanti o irregolari, sono delle impugnature connaturate nel vaso, come membra umane facenti parte di un corpo, svolgendo una piena intesa formale33. Nell’opera leccese la convessità dell’organismo prosegue nelle anse, perché queste vanno a riempire la concavità tra spalla e collo del vaso, in una sorta di bilanciamento volumetrico. Allora l’ansa soggiunge Simmel “appartiene a un’altra provincia dell’essere, mentre al contempo l’omogeneità del materiale preserva la coerenza del tutto”34 ed è quello che pare coincidere nel modello leccese (Figg. 1,2).

I vari caratteri estetico – pratici sono nessi di “co-appartenenza” e “compresenza simultanea” tra il dentro e il fuori, cioè il mondo esterno maneggiante l’ansa entra nell’opera, consentendone l’utilizzo pratico fondendosi nella totalità estetica35. Il discorso metaforico di Simmel sta a significare che l’arte, pur rimanendo un fenomeno formale e visibile, non rinuncia ad essere ponte o ansa, cioè strumento di comunicazione.

Per concludere, vale la pena citare Tatarkiewicz, quando sostiene che nell’arte greca, anche per le arti cosiddette minori, compresa la ceramica, prevalgono le semplici figure geometriche, cioè il triangolo, il quadrato, il rettangolo e il cerchio36.

A tal proposito lo studioso riporta le ricerche degli americani Jay Hambidge e Lacey Davis Caskey37 i quali individuano nella forma dei vasi greci proto classici e classici proporzioni fisse. Spesso alcuni crateri rientrano in un quadrato cioè nel rapporto 1:1, oppure altri vasi: pelike, anfore, olpe, lèkythos ecc. si potrebbero perimetrare entro rettangoli aurei, vale a dire nel rapporto 1:0,61838.

La Pelike leccese è alta cm. 41 e ha un diametro alla bocca di 20 cm. e dalle foto è possibile dedurre il diametro tra pancia e spalla di cm. 27 circa. Quindi, cercando di comprendere se il vaso rientra nella proporzione aurea, semplificando si sono riportate le suddette misure (altezza e diametro massimo) in scala 1/5, per tracciare un rettangolo di cm. 8,2 x 5,4. Se si costruisce geometricamente con riga, squadra e compasso un altro rettangolo aureo sul lato maggiore (altezza pelike) di cm. 8,2 cm., si avrà nel lato minore la misura di cm.5. Quindi si potrebbe dire che il rettangolo aureo rilevato (cm. 8,2 x 5) risulta sovrapponibile a quello perimetrale e reale della pelike, con uno scarto di circa 4 mm. in meno (in scala), quindi l’ipotesi di Caskey verrebbe, per approssimazione, confermata, almeno per il modello preso in considerazione (Figg. 21, 22).

figura 20

 

figura 21-22

 

Note

1Dinu Adamesteanu, La Colonizzazione Greca in Puglia, in  La Puglia dal Paleolitico al Tardoromano, presentaz. C.D. Fonseca,  Electa,  Milano, 1979, p. 273

2 Giulio Carlo Argan, Storia dell’Arte Italiana, vol. I, Sansoni, Firenze, 1980, p. 108.

3 Ivi, pp. 108 – 109. Cfr. anche Martin Robertson, La Ceramica attica e le sue derivazioni, in Ceramica, EUA, Venezia – Roma, 1958 – 1986, Vol. III, pp. 320 – 325

4 Costui è il responsabile involontario, sia della morte del padre, sia del rapporto incestuoso con la madre. Disprezzato dai figli Eteocle e Polinice, li maledice, così questi “avrebbero dovuto dividere tra loro con il ferro l’eredità paterna” e uccidersi a vicenda sprofondando insieme negli inferi (Kàroly Kerény, Gli Dei gli eroi della Grecia (1958),  traduz. Vanda Tedeschi, Il Saggiatore, Milano, p. 333, da Sofocle Edipo a Colono 1375)

5 K. Kerény, op. cit. p. 509

6 Ivi, 511 – 512

7 Alcune fonti riguardo la vicenda mitologica: Igino, Fabula, 69, 70 e 73; Euripide, Le Fenicie, 105 e sgg., 408 e sgg. e 409 Le Supplici 132 e sgg. I Sette a Tebe, 375 e sgg.; Omero, Odissea XI 326 e segg. XV 247; Sofocle, Edipo a Colono 1316, Elettra 836 e sgg. ed Erifile, Edipo a Colono 1316; Diodoro Siculo IV 65 5 e sgg. IV 65 7 -9; Apollodoro I  9 17, III 6 1, III 6  4; Pausania, V 17 7 e sgg., IX 41 2, X10.3; Pindaro  Nemea, Argomento. (per approfondire la bibliografia, in parte riportata: Robert Graves, Miti Greci (1955), presentaz. Umberto Albini, traduz. Elisa Morpurgo, Longanesi Cde, Milano, 1986, pp. 347 – 384)

8 Mario Bernardini, I Vasi attici del Museo Provinciale di Lecce (1965), Congedo Editore Galatina, 1981, pp. 52 – 55. Centro Ricerche Arte Classica Università di Oxford, archivio Beazley: www.beazley.ox.ac.uk/XDB/ASP/recordDetails.asp?id=FEBB9664-89F2-4A41-9F1E-5708986055EC&noResults=&recordCount=&databaseID=&search=  e, in particolare www.beazley.ox.ac.uk/XDB/ASP/browseCVARecord.asp?id={FEBB9664-89F2-4A41-9F1E-5708986055EC}&startRef=&x=1&newwindow=true

9 O forse si tratterebbe di un airone, come sostiene Chiara Terranova, in Amphiaraos Chthonios betwen Greeks, Etruscans an  Apulians, in Accademic Journal of Interdisciplinary Studies, MCSER Publishing, Rome Italy, vol 4, n. 1, March, 2015, p. 500

10 M. Bernardini, op. cit. e Centro Ricerche Arte Classica Università di Oxford, archivio Beazley, op. cit

11 Ibidem

12 Allan e Barbara Pease, Perché mentiamo con gli occhi e ci vergogniamo con i piedi? (2004), traduz. Francesca Tissoni, RCS Mondolibri, Milano 2005, pp. 269 – 270. Scrivono gli autori: “Per evitare di essere considerati aggressivi, negli incontri amichevoli ci poniamo l’uno a 45 gradi rispetto all’altro, in modo da formare un angolo di 90 gradi […]. Dall’angolo così ottenuto si deduce che stiamo probabilmente conversando in modo non aggressivo e, visto il processo di imitazione in atto, dimostrando di possedere il medesimo status. La configurazione a triangolo, inoltre, invita un’eventuale terza persona a unirsi ai due”. D’altro canto anche tra gli animali quando non si vuole attaccare, l’uno si pone accanto all’altro, come fanno per esempio i cani.

13 James Borg, Il Linguaggio del corpo (2008), traduz. Simonetta Bertoncini, Tecniche Nuove, Milano, 2012, p. 157

14 Alois Riegl, Problemi di Stile (1893), traduz. Marco Pacor, prefaz. Carlo Arturo Quintavalle, Feltrinelli, Milano, 1963, p. 191

15 Ivi, p. 196 – 197

16 Eugenio Battisti, Repertorio Esemplificato dei Motivi, in Ornato, in EUA, vol. X, Venezia – Roma, 1958 – 1986, p. 260 – 272, fig. 23

17 Eugenio Battisti, Le Civiltà con prevalente espressione artistico mimetico – rappresentativa e l’autonoma dell’ornato, in Ornato, op. cit. p. 258

18 Ibidem

19 A. Riegl, op. cit. pp. 197 – 200

20 Wilhelm Worringer, Astrazione e Empatia (1908),  a cura di Andrea Pinotti, traduz. Elena De Angeli, Einaudi, Torino, 2008, pp. 73 – 74

21 A. Riegl, op. cit. pp. 209 – 210

22 John Beazley, Attic read figure- vase painters, Oxford, 1963, pp. 629, 1662, in M. Bernardini, op. cit. p. 55. Cfr. altra bibliografia riportata

23 Treccani.it/enciclopedia dell’arte antica/Pittore di Chicago/ di E Paribeni_1959. Cfr. Gisela M. A. Richter, Attici e Beotici Centri e Tradizioni, EUA vol. II, 1958 – 1986, p. 165

24 Ibidem

25Erwin Panofsky, La Prospettiva come Forma Simbolica (1927),traduz. Enrico Filippini, Asthetica Abscondita, Milano, 2013, pp. 25 – 26.

26 Adolf Von Hildebrand, Il Problema della Forma nell’Arte Figurativa (1893), a cura di A. Pinotti, F. Scrivano, Aestetica, Palermo, 2001, p. 37

28Cfr. Wilhelm Worringer, Astrazione e Empatia (1908), a cura di Andrea Pinotti, traduz. Elena De Angeli, Einaudi, Torino, 2008, pp. 44, 84

29 Ivi, pp. 24, 70 – 73

30 Paolo Enrico Arias, La Pittura vascolare, in Magna Grecia, arte e artigianato,  Cassa di Risparmio di Puglia, Electa, Milano, 1990, pp. 200 – 213

31Georg Simmel, L’Ansa del Vaso. Saggi di Estetica (1919), in G. Simmel Stile Moderno, a cura di Barbara   Carnevali e Andrea Pinotti, traduz. Francesco Peri, Einaudi, Torino, 2020, p. 306

32 Ivi, p. 307

33 Ivi, p. 308

33 Ivi, p. 310

34 Ivi, p. 310

35 Ivi, p. 313

36Wladyslaw. Tatarkiewicz, Storia dell’Estetica vol. I, L’Estetica Antica, (1970), traduz. Giorgina Fubini, Einaudi, Torino, 1979, pp. 85 – 87

37 Lacey Davis Caskey, Geometry of Greek Vases, Boston, 1922, in W. Tatarkiewicz, op. cit. p.85

38 W. Tatarkiewicz, op. cit. p.86

 

Libri| Nativitatis Imago

Nativitatis Imago. San Giuseppe nel ciclo natalizio. Il Santo Natale dal XVI al XX secolo, a cura di Vincenza Musardo Talò, Barbieri Edizioni, Manduria, ill., pp. 272 

 

 

dalla prefazione di Vincenza Musardo Talò

… Trattasi di rare incisioni, preziosi santini, suggestive cartoline, ricercati biglietti natalizi, magici presepi di carta e quant’altro, utile non solo all’evento, ma anche a celebrare e far rivivere negli incavi della memoria di ognuno, antichi rituali segnici, propri di un’infanzia mai dimenticata e che sempre ritornano nella festa più bella e più attesa dell’anno.

E per meglio legittimare un simile happening del sacro popolare e lasciarne testimonianza, ecco il Catalogo, Nativitatis Imago, accostato per i tipi della Barbieri Edizioni.

È un Catalogo cercato da cultori e studiosi dei santini d’epoca, innamorati dell’elegia devozionale della Notte Santa così come veicolata e liricamente trasposta sullo scorrere di tali immagini del Mistero del Natale. Da ormai un secolo, l’antropologia religiosa in particolar le osserva – sul piano fenomenologico – quali ineludibili fonti e documenti della pietà popolare nel succedersi dei secoli, soprattutto a partire dall’immediato postridentino, con il loro rilancio, voluto dai padri conciliari.

Dunque, venendo all’oggi, veramente speciale e imperdibile sarà – per cultori e collezionisti di santini – il Catalogo di questo Natale, per almeno due essenziali considerazioni: in primis, il suo essere un prezioso ed elegante contenitore (tra incisioni, santini e altre carte di devozione) di oltre quattrocento pezzi da collezione, molti dei quali stimati come rari o introvabili esemplari. Stampati in ogni parte dell’Europa cristiana e liberamente circolando per le strade della loro storia, lunga almeno cinque secoli, i santini soprattutto sono osservati e studiati dalla iconografia e dalla iconologia sacra quali radici e testimoni di devozioni e culti lontani soprattutto privati, domestici. Erano angoli di Paradiso su cui l’animo semplice del devoto trasferiva i segni di una fede incrollabile e la certezza del patrocinio speciale del Cielo, allocato su quel minuscolo pezzo di carta, ritenuto come il più potente dei talismani.

La seconda ma più incisiva considerazione è l’aver stimolato – questo 2021 due volte Anno Santo – esperti e accreditati studiosi del santino a indagare un tema iconografico, aperto su due fronti: San Giuseppe nel ciclo natalizio e l’iconografia della Vergine di Loreto, celeste patrona degli Aeronauti.

Infatti, a chiamare a tanto l’impegno dell’AICIS, vi è stata la straordinaria concomitanza, nella storia della Chiesa, di due eventi speciali, per primo la Lettera Apostolica Patris Corde del Santo Padre Francesco, tesa a celebrare il 150.mo del Decreto Quemadmodum Deus, con cui, nel 1870, Pio IX proclamava San Giuseppe “Patrono della Chiesa universale”.

In secondo luogo, ecco la Lettera Pastorale, che il 14 agosto 2019, vigilia dell’Assunta, indice il Giubileo lauretano, Chiamati a volare Alto. L’occasione di questo ulteriore dono della Chiesa è il Centenario della proclamazione della Vergine di Loreto, quale patrona degli Aeronauti (8 dicembre 2019-10 dicembre 2020). Fu il papa Benedetto XV, il 24 marzo 1920, a dichiarare la Gran Madre di Dio, Signora di Loreto “Patrona principale presso Dio di tutti gli aeronauti”. Questo straordinario evento, che il Santo Padre ha promulgato per un altro anno ancora, fino al 10 dicembre del 2021, stante il doloroso permanere della pandemia, è stato poi graziosamente arricchito dall’inserimento nelle Litanie Lauretane di tre nuove invocazioni, di tre speciali altri titoli alla Vergine di Loreto: Mater Misericordiae, Mater Spei e Solacium migrantium.

Per tutto questo, in ultima analisi, è d’obbligo rimarcare l’alta valenza dei due Giubilei straordinari, che si sommano nella mistica visione della Sacra Famiglia, quale modello universale dei valori più belli del vivere quotidiano fra le mura domestiche, di cui è “icona” la Santa Casa di Nazaret-Loreto.

Infatti, l’AICIS ha voluto celebrare anche il Giubileo lauretano, accogliendo nella sua Mostra natalizia incisioni e santini d’epoca sull’umile Casa di Nazaret-Loreto, testimone del trascorrere dei giorni della divina Trinità terrena. Sono santini dalle connotazioni proprie dell’iconografia devozionale lauretana, così come è nata e si è evoluta nel tempo. Parimenti ha voluto fare l’editore Barbieri, ampliando con tale tema la portata iconografica generale del Catalogo. Non posso tacere, poi, la preziosa presenza dei quattordici saggi di studio, per i quali mi è d’obbligo ringraziare gli Autori. Ognuno di loro ha saputo offrire un personale e inedito contributo alla storia e alle diverse valenze culturali e artistiche del santino, quivi indagato in ossequio alle liturgie giubilari che ci hanno accompagnato e sorretto lungo questo secondo anno, dominato dal maleficio pandemico e carico di incertezze e delle buie paure del domani…

 

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Palazzo Imperiale tra i rolli di Genova

Rolli days, strade e palazzi di Genova.

 

di Mirko Belfiore

Partiamo dall’inizio. Che cosa sono i Rolli Days? Sono delle giornate in cui Genova apre al mondo i suoi luoghi più rappresentativi, orgogliosa e trionfale, testimoni diretti di quel momento storico aureo, che lo studioso Fernand Braudel definì: El Siglo de los genoveses.

Nel corso del XVI secolo e nei primi decenni del XVII secolo, la Repubblica di San Giorgio acquisì un peso specifico sempre più rilevante all’interno delle complesse dinamiche del mercato finanziario europeo, influenzando le economie dei regni più importanti del Vecchio Continente. Di conseguenza, molti furono gli ospiti illustri che si recarono in Liguria per tessere rapporti con l’influente oligarchia genovese. Ed è proprio in corrispondenza di queste occasioni che si creò la necessità di come accogliere degnamente questi personaggi, vista la mancanza di un luogo ufficiale adatto a questo scopo.

Fu proprio per questo motivo che il Senato della Repubblica, l’8 novembre del 1576, approvò un decreto che istituiva una lista (i cosiddetti ruoli o “rolli”), dove vi venivano inserite tutte le dimore più sontuose della città e al nobile proprietario che veniva estratto a sorte si assegnava l’obbligo di accogliere l’autorità di turno, con decoro e a seconda della posizione da esso ricoperta; un sistema magistralmente sintetizzato dalle parole dello storico Ennio Poleggi, il quale definì Genova: “una reggia repubblicana diffusa”.

Stemmario dell’Albergo della famiglia Imperiale olim Tartaro

 

Fra queste numerose “case” di proprietà del facoltoso patriziato locale (più di un centinaio, e di cui una buona parte oggi è riconosciuto come patrimonio Unesco) ritroviamo anche il nominativo di palazzo Imperiale, iscritto nel bussolo di I classe fin dal 1576 e presente anche nelle successive liste: 1588 (III classe), 1599 (I classe), 1614 (I classe) e 1664 (II classe).

Dove si posiziona il palazzo? Il palazzo lo ritroviamo inserito nella parte più antica del centro storico, un’enorme babele di vie e vicoli che ancora oggi caratterizza la città.

Con la sua imponente mole e una splendida facciata tripartita decorata secondo tre stili diversi: a bugnato, ad affresco e con stucchi, si erge in tutta la sua bellezza nella cosiddetta area del Campetto, l’antico campus fabrorum.

Scorcio di Via di Scurreria con la facciata di palazzo Imperiale

 

Fu costruito fra il 1555 e il 1560 e fu commissionato al celebre architetto Giovan Battista Castello detto il Bergamasco, dal ricco uomo d’affari e proprietario di un “banco” fra i più remunerativi della città: Vincenzo Imperiale olim Tartaro. Nel 1580 il figlio Gio. Giacomo Imperiale, abilissimo uomo d’affari, subentrò nella proprietà del palazzo e oltre a saper ereditare la profonda cultura del padre, portò avanti la sua sfolgorante carriera politica, raggiungendo il seggio dogale fra il 1619-1621: massima carica istituzionale genovese. Egli, inoltre, si renderà protagonista di numerose trasformazioni architettoniche di tutte quelle che erano le proprietà del casato, extramoenia (Villa Imperiale-Scassi di Sampierdarena fra le tante) e intramoenia.

Si impegnò ad aumentare il ruolo di rappresentanza dello slargo del Campetto costruendo una nuova ala dell’edificio patronale, a cui sia aggiunse un vero e proprio progetto immobiliare ad ampio respiro. Acquistò un gruppo di edifici di epoca medievale prospicenti il portale d’ingresso e dopo averne demolito una parte, fece aprire nel 1584 un elegante asse viario (attuale Via di Scurreria, già Via Imperiale), che mise in collegamento la domus con la piazza antistante la Cattedrale di San Lorenzo, decorando tutti i palazzi che vi si affacciavano con affreschi e nuove linee architettoniche.

Palazzo Imperiale, particolare della facciata tripartita e del portale monumentale.

 

A conclusione di questo percorso, sintesi perfetta dell’uomo d’affari e del politico impegnato, troviamo quella figura che più di tutti seppe rappresentare la grande parabola di successo di Casa Imperiale: Gian Vincenzo. Raffinato collezionista d’arte e celebre letterato, fu educato fin dai primi vagiti alla “doppia vita” di uomo di finanza e di cultura. Percorse tutte le tappe del “corsus honorum”, arrivando a occupare nel 1625, lo scranno di senatore della Repubblica.

Fu mecenate, stimato poeta e infaticabile viaggiatore, riconosciuto anche per la sua innovativa produzione letteraria, talmente rilevante che lo pose all’attenzione degli ambienti culturali più importanti dell’epoca (le accademie dei Mutoli, degli Addormentati, dei Gelati, degli Intrepidi, etc.), circoli letterali dove ebbe l’opportunità di conoscere e confrontarsi con le principali menti dell’epoca come Gabriello Chiabrera, Angelo Grillo e Ansaldo Cebà.

Ritratto di Gian Vincenzo Imperiale (Anton Van Dick, olio su tela, circa 1626, Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique)

 

Fu protettore di molti artisti e pittori, i quali gravitarono presso la sua corte, non solo per le enormi possibilità economiche, ma anche e soprattutto perché in lui riconoscevano quella sconfinata cultura che seppe alimentare fino alla fine dei suoi giorni. A celebrazione di questo percorso familiare, lo stesso fece porre nel 1629, su una delle pareti del primo piano del palazzo, una lapide dedicatoria che ancora scolpita nel marmo recita: il palazzo fu eretto dall’ “Avo” Vincenzo, ampliato da “Padre” Giò. Giacomo e decorato da tutti con pitture, statue e libri.  Un vero e proprio manifesto programmatico che sintetizza la forte unione di intenti che unì i tre membri e di cui la dimora rappresenta uno dei massimi esempi.

Lapide dedicatoria in marmo del 1629, posta al primo piano di palazzo Imperiale.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Rossi A., R. Santamaria, Superbe carte: I Rolli dei Palazzo di Genova, Paginaria edizioni, Polignano a Mare 2018.

Montanari G., Palazzo Imperiale di Campetto in Genova, Aguaplano, Passignano sul Trasimeno 2017.

Poleggi E., L’invenzione dei rolli: Genova, città di palazzi, Skira, Milano 2004.

Poleggi E., Una reggia repubblicana: atlante dei palazzi di Genova 1576-1663, Allemandi, Torino 1998.

Grendi E., La repubblica aristocratica dei Genovesi. Politica, carità e commercio fra Cinque e Seicento, Il Mulino, Torino 1987.

Martinoni R., Gian Vincenzo Imperiale politico, letterato e collezionista genovese del Seicento, Antenore editore, Padova 1983.

Monte Magalastro tra Sava e Torricella

RESTI ARCHEOLOGICI, RICERCHE, DOCUMENTAZIONE E FONTI STORICHE

 

di Gianfranco Mele

Monte Magalastro si trova tra l’agro di Sava e quello di Torricella, a 96 mt. sul livello del mare. Dalla sommità dell’altura è possibile dominare con lo sguardo un’ampia fetta del panorama circostante, compresi il comune di Torricella e la zona costiera.

Gli studi intorno a questo sito (benchè non siano mai stati condotti veri e propri scavi archeologici ma soltanto indagini in superficie) riferiscono di significative presenze in epoca neolitica, greca o messapica, romana, bizantina.

Una veduta dall’altura di Magalastro

 

   UN CONTINUUM INSEDIATIVO DALLA PREISTORIA ALL’EPOCA ROMANA

Mario Annoscia, nel Notiziario Topografico Pugliese del 1978, individua in questo sito, da rinvenimenti in superficie, resti di materiali di varie epoche a partire da quella preistorica. Ritiene inoltre di identificare alcuni blocchi tufacei come resti di una fortificazione classica. L’Annoscia riferisce di  “diversi blocchi tufacei di forma parallelepipeda” sulla parte più alta della collina, che è circondata da un antico muro a secco. Ritrova ritrova inoltre nell’area i seguenti materiali: due schegge di ossidiana, numerosi frammenti di coppi e tegole, frammenti di unguentari del periodo ellenistico, frammenti di parete di vaso a vernice nera baccellato, un frammento di ciotola a vernice nera ellenistica, un frammento di parete di skyphos a figure rosse con motivo a volute, numerosissimi frammenti di vasi a vernice nera, acromi, da fuoco, d’impasto, due opercoli frammentati, fondi e pareti di ceramica grigia, un piccolo peso da telaio piramidale, alcune bocche e puntali d’anfore, una testina femminile confrontabile con i tipi della coroplastica tarantina.[1]

Monte Magalastro, Frammento di testina (fig. a) e frammento di parete di vaso (fig.b), foto Mario Annoscia

 

In area Magalastro, come si è anticipato,  purtroppo non risultano essere stati effettuate campagne di scavo archeologiche, a discapito di frequenti incursioni da parte di tombaroli. Tuttavia Paride Tarentini esplora meticolosamente il sito in superficie, rinvenendo una serie di materiali assai interessanti. I suoi studi rilevano la presenza di un insediamento neolitico, di presenze nelle età del rame, del bronzo e del ferro, di epoca greca (o messapica), di epoca romana.

Rispetto all’epoca neolitica il Tarentini segnala e offre documentazione fotografica circa  ritrovamenti superficiali di  “intonaci argillosi di capanna; industria litica su selce, ossidiana e pietra dura levigata, sparute ceramiche, frammenti vascolari ad impasto grossolano bruno e/o nerastro”.[2]

Per quanto riguarda l’ “epoca greca”, il Tarentini documenta la presenza di “frammenti ceramici e grandi blocchi squadrati in pietra carparo […], numerosissimi resti di coppi e tegole (alcune dipinte di rosso/bruno)”. Vi intravede perciò un insediamento di significativa consistenza, comprensivo di un sepolcreto e di un luogo di culto. Le funzioni sepolcrali e cultuali del sito sono confermate dalla presenza di “lastre tombali spezzate, resti ossei” e  ”vasetti miniaturistici, frammenti di statuette votive”. Il Tarentini inquadra cronologicamente questo insediamento tra il VI-V ed il  IV-III sec. a.C. , evidenziando la presenza rara  di “cocci a figure nere”, quella sporadica di cocci “a figure rosse” e quella prevalente di frammenti “a vernice nera con sovraddipintura tipo “Gnathia””.[3]

Monte Magalastro, frammento di vaso a figure nere e terracotta figurata (foto P. Tarentini)

 

Le tracce di frequentazioni e/o insediamenti di epoca romana sono documentate dai ritrovamenti, sempre del Tarentini, di ceramiche a pasta grigia (II-I sec. a.C.) e di un frammento in terra sigillata italica (I sec. d.C.).[4]

L’area archeologica di monte Magalastro è circondata da muri a secco, che sembrano perimetrare l’altura a mò di protezione. Il Tarentini, in accordo con l’Annoscia, ipotizza la presenza di un avamposto militare fortificato greco (phourion), a difesa dei confini della chora tarantina.[5] Questa ipotesi si allinea ad una serie di interpretazioni avanzate da storici e archeologi che vedono in una serie di siti (gli stessi che   molto più tardi faranno parte del limite orientale della diocesi medievale di Taranto), delle zone strategiche di confine della Magna Grecia, sviluppatesi durante la terza fase di espansione della Chora tarantina (VI sec. a.C.): si assisterebbe, così,  alla comparsa, a ridosso dei centri messapici, di una serie di siti rurali, luoghi di culto e villaggi fortificati.[6]

Tuttavia il fatto che questi luoghi fossero caratterizzati dalla presenza di divinità di frontiera (ovvero di divinità molto venerate anche dalla popolazione messapica) e che vi fosse la compresenza di elementi, sia votivi (terrecotte, vasellame) che architettonici rapportabili sia ad area magnogreca che messapica (e/o frutto di influenze, interazioni e scambi), può far pensare anche ad un dominio e possesso del territorio costantemente messapico e non già, a un dato momento storico, magnogreco (cosa della quale ad esempio è convinto lo studioso francavillese Cesare Teofilato, che intravede in Agliano, altro insediamento di confine nelle vicinanze di Magalastro, una cittadella messapica avamposto dei siti di Sava e Manduria).[7]

Perciò, benchè alcuni studiosi siano propensi per una caratterizzazione magnogreca di questi siti, altri si dimostrano più cauti, o li identificano come interni al confine messapico pur se caratterizzati da influenze  tarantine (proprio in quanto disposti a ridosso immediato della zona tarantina e quindi più suscettibili di rapporti di scambio e interazioni). A sostenere questo tipo di tesi, ad esempio, è il Mancarella, che intravede nei territori di Monacizzo e Torricella siti messapici “a influenza tarantina,  con necropoli a ceramica indigena e ceramica greca”.[8]

Lo Stazio invece mostra più cautela, scrivendo: “si ha l’impressione, in queste località, di essere in una zona di confine tra l’ambiente greco e quello indigeno e questa impressione è confermata dalla presenza di numerose cinte murarie relative a piccoli, ma ben fortificati centri, di cui però la mancata esplorazione non consente di precisare a quale dei due ambienti appartenessero”.[9]  D’altro canto, studi recenti  dimostrano come tra il IV ed il III sec. a.C. In ambito messapico si assista ad un proliferare di strutture del tipo torre, che permettono il controllo del territorio, e sono funzionali ad una serie di necessità: non solo di tipo difensivo-militare, ma anche di gestione delle risorse agricole (controllo e prevenzione dei furti di derrate), trasmissione di informazioni a distanza e “in rete” con altre strutture simili, adunate religiose e politiche, allestimenti di fiere e mercati. Il Mastronuzzi in particolare, elenca una serie di torri di età messapica con funzioni analoghe: la torre di Giuggianello, la torre sita presso la località Specchia Giovannella in Francavilla Fontana, la torre nei pressi della masseria Asciulo a Latiano,  la torre di monte Masciulo a Maruggio.[10]

I siti antichi di monte S. Petronilla (1), monte Celidonia (2), monte Magalastro (3), monte Masciulo (4), Monacizzo (5), Casabianca (6), nel contesto degli avamposti fortificati (phrouria) di epoca greca (qudrato pieno) ipotizzati a confine della chora tarantina (pianta  rielaborata da P. TARENTINI, in “Monacizzo, un antico centro magno-greco e medievale a sud-est di Taranto (Reg. Puglia, 2006, pag. 113),  e tratta da F.G. LO PORTO, “Testimonianze archeologiche della’espansione tarantina in età arcaica”, in “Taras”, X, 1, 1990,  tav. XXXV

 

MAGALASTRO E “IL PARETONE”

Questa località è parte integrante dell’antico confine che, attraverso i resti di un lungo ed imponente “parete grosso”, divideva il territorio di Taranto dalla Foresta Oritana: ciò è testimoniato in una serie di inventari (che partono dal XV secolo) redatti per chiarire detti confinamenti. Così, nel 1434 gli esiti di un accertamento disposto dal principe Giovanni Antonio del Balzo Orsini  sono raccolti in una relazione di Francesco de Ayello. Il Del Balzo Orsini, d’accordo con gli orietani e per risolvere una controversia tra i due territori, aveva difatti nominato una commissione composta da Ciccarello de Montefuscolo, consigliere dell’Orsini stesso, Roberto de Monteroni di Lecce, capitano di Taranto, e Ludovico di Urbino, capitano di Oria. Questa commissione si recò personalmente in visita ai territori delimitanti i confini, insieme ad una serie di testimoni (sindaci e uomini probi). Nella relazione finale si legge:

Li quali terreni, fini et dispartimenti incominciano dallo lito dello mare dove descende il fiume chiamato Borraco, et sale per lo detto fiume in una chiesa chiamata Santo Nicola vicina al detto fiume et ascende per un loco chiamato Le Fontanelle, da quelle piglia lo parete grosso et sale sopra lo monte chiamato Torre di Magalastro, dove sonno fatte tre para di curti; et da la discende per lo detto parete grosso in verso lo casale di Pasano, dove in parte dello parete detto è stato roinato, et in parte è più avante seguendo sale in verso lo casale de Agliano incluso lo terreno tarentino, et piglia sopra la rupa della Serra, la quale è verso Oriente, et per detta serra vene ad uno antichissimo edifico chiamato Lo Castello di Santo Marzano dove sono certe quantità d’arbori di termiti; et da questo passa per sopra il monte della Concha…”[11]  (sin qui la parte che ci interessa ai fini di questo articolo).

Dopo la ricognizione del 1434, ne ritroviamo altre datate 1452, 1464, 1489, 1528, 1562, 1570, 1669; tutte le varie descrizioni confinarie coincidono, e alcune di esse aggiungono altri particolari circa le località interessate.[12]

Il “Paretone” che attraversa l’agro di Sava è stato identificato in passato da alcuni come una muraglia eretta dai magnogreci tarantini a protezione della chora,[13] da altri come una muraglia confinaria eretta dai Messapi,[14] per poi giungere, con le tesi del Profilo del 1875, ad essere considerato un “Limes bizantino”[15] (ma lo stesso Profilo in precedenza, nel 1870, lo aveva identificato come costruito ai tempi degli scontri tra tarantini e messapi).[16]

Recentemente, studi dell’archeologo Stranieri hanno datato la costruzione del tratto di “paretone” savese tra la fine del VII e l’ultimo quarto del IX sec., ma l’interpretazione dell’archeologo è che la sua funzione doveva essere di protezione delle colture e delle abitazioni su scala locale, escludendo una funzione propriamente militare (datosi anche il fatto che, sempre a parere dello studioso, non vi sono tracce di continuità della costruzione, neanche remota, nei lembi di terra più caratterizzati da calcare argilloso: ove avese avuto funzione militare, invece, “non sarebbe stato difficile estenderlo anche sulle lenti tutto sommato non molto estese di calcare argilloso, a nord e a sud”).[17]  Detto muro, secondo lo Stranieri, fu costruito o nel periodo della conquista longobarda, oppure tra l’840 e l’880 al periodo dell’occupazione musulmana di Taranto.[18]

Fra coloro che citano Magalastro come attraversato dal cosiddetto Limes Bizantino, Primaldo Coco:

“… Cominciava questa grande muraglia dalle vicinanze di Otranto, città eminentemente bizantina e, costeggiando la via Appia Traiana, si protraeva sino alle vicinanze della distrutta Valesio, solcando il territorio di Mesagne e di Oria: prima di toccare Aliano volgeva verso mezzogiorno, continuava verso Pasano ed il feudo di Magalastro, ove se ne riscontrano tuttora non pochi avanzi, e finiva in riva al mare. Onde l’attuale territorio di Sava ne era diviso quasi per metà, tenendone i Greci la maggior parte, che comprendeva anche il territorio su cui sorge oggi il paese.[19]

Seguono, a più di mezzo secolo di distanza dagli scritti del Coco, gli studi di Gaetano Pichierri, lo storico locale che più di ogni altro ha studiato e  ispezionato il paretone  savese e il suo tragitto. Stando a quanto riportato dal  Pichierri, intorno al 1975 si intravedono ancora i resti del cosiddetto Limitone dei Greci sul monte Magalastro: lo storico savese difatti scrive che “sono avanzati gli strati più bassi”, e che “quelli più alti sono stati asportati per essere cotti in una fornace di calce che si trova nei pressi”.[20] Dal passo sopra riportato del Coco, si evince invece che intorno al 1915 la muraglia che attraversava Magalastro conservava un tratto più visibile e meglio conservato.  

L’ipotesi di Annoscia riguardo i blocchi tufacei in cima a monte Magalastro, identificati come resti di una torre, è ripresa anche dal Pichierri (nello stesso numero del Notiziario Topografico), che sottolinea come in alcuni documenti medievali è riportato come toponimo della località Torre Magalastro.[21] Il Pichierri mette in correlazione lo stesso Limitone con detta torre, ipotizzando che essa ebbe utilizzo come posto di guardia bizantino.

In un altro scritto del 1989 il Pichierri riferisce di un ritrovamento di monete angioine del 1339, avvenuto nel 1952 sull’altura di Magalastro.[22] Più precisamente, come vediamo appresso, si tratta di una località immediatamente confinante con quella propriamente denominata Magalastro. Il ritrovamento risale agli anni 1953-1954, periodo in cui il proprietario di un oliveto fece portare via dal suo terreno le pietre del Limitone (che furono poi utilizzate per la sistemazione della strada Litoranea Jonica Salentina): i lavori furono realizzati con l’impiego di moderni (a quel tempo) mezzi meccanici, e fu rinvenuto un vasetto d’argilla pieno di monete d’argento che andarono disperse. A distanza di anni il Pichierri riuscì a recuperarne alcune. Si trattava di monete battute da Roberto D’Angiò nel 1309-1343. La località esatta del rinvenimento era la contrada Morfitta[23] (nella quale, peraltro, erano state rinvenute anche tombe del II-IV secolo a.C., contenenti ceramiche di Gnathia.[24]

Le monete angioine rinvenute in contrada Morfitta, nei pressi di Magalastro

 

Secondo il Pichierri, il “Paretone” che attraversava Morfitta e Magalastro è la continuazione del paretone (a tutt’oggi ancora visibile) che insiste per un lungo tratto nelle contrade Camarda e Curti di l’Oru; da queste contrade giungeva, attraversandola, verso la attuale provinciale Sava-Lizzano e a pochi metri dal Santuario di Pasano.

Sul monte Magalastro, secondo i vari studiosi del passato, terminava il percorso rettilineo del Paretone, che da lì svoltava ad est. La svolta compiuta era direzionata verso la località dell’agro di Sava detta proprio Lu Paritoni, nella quale è ancora presente una masseria semidiroccata che prende il nome dalla contrada stessa.

Sul presunto tracciato del vecchio confine, prima di raggiungere Borraco, dai paraggi della Masseria Paritoni la muraglia discendeva verso le località SS. Trinità (in agro di Torricella) e S. Chiara, per raggiungere poi contrada Tremola e risalire attraversando il monte Maciulo[25] nei pressi di Maruggio. Da lì, attraversava una serie di contrade maruggesi (Olivaro, Fontanelle, San Nicola) per giungere al fiume Borraco. [26]

Monte Masciulo, monte Magalastro e S.M. di Pasano in una carta dell’Atlante geografico del Regno di Napoli (fg. 21, 1788-1812). Il cosiddetto Paretone attraversava questi  siti.

 

  IPOTESI SUL TOPONIMO

Per ciò che concerne il toponimo, il Ribezzo nelle sue Nuove ricerche per il Corpus inscriptionum Messapicarum  pone  il confine fra la Taranto magnogreca e la Manduria dei messapi, proprio all’altezza del Monte Magalastro, e fa inoltre derivare il nome Magalastro da un greco Μεγαλάστρον, senza fornire ulteriori spiegazioni.[27] La cosa interessante dello scritto del Ribezzo  è senz’altro il riferimento ad un sito di confine, cosa della quale abbiamo già parlato in precedenza. L’ipotesi della derivazione da  mεγαλάστρον pare invece discutibile, oltre che indimostrata.

Una mia vecchia supposizione, coerente con i riferimenti all’epoca greca o messapica del sito, era: Magalastro da Μεγάλαρτος. Quest’ultimo è un epiteto di Demetra. In onore di Demetra Megalartos (Demetra dai grandi pani) si istituivano feste dette Megalartia, a quanto sembra presenti anche in Messapia, e in questo caso dedicate, secondo alcune fonti, più che altro ad Arthas, re dei Messapi.[28]  Se Magalastro non è una deformazione di Malacastro, questa potrebbe restare una ipotesi valida (tuttavia, come vediamo più avanti, Malacastro-Malacastra-Malacastrum ricorre come toponimo in diverse località e sta ad indicare una altura con presenza di fortificazione)..  

Una serie di ipotesi (le più plausibili, peraltro) stabiliscono una derivazione legata al termine castra o castrum. Il Pichierri stesso, fa riferimento al Kάστρον bizantino, una fortificazione  eretta a scopo difensivo. Tale riferimento è dovuto al fatto che, come si è già detto,  in alcuni documenti, anziché Magalastro si ritrova Malagastro, Malacastro.

Il termine castra, o  castrum (“campo fortificato”, “fortificazione”) è tipico del periodo romano, ma continua ad essere comune e molto presente nella documentazione medievale, sebbene spesso sostituito da castellum. Specificamente,  castrum  si riferisce ad un quartiere o ad un recinto con fortificazione al cui interno sono raggruppate abitazioni ed altri dispositivi annessi, mentre castellum designa l’edificio il cui elemento più significativo è la torre (turrem), che domina l’ambiente e costituisce l’elemento difensivo più importante della fortificazione.[29]

Toponimi come Mamacastrum e Malacastrum si ritrovano  applicati a fortificazioni del medioevo spagnolo, come risulta da uno studio  di J. Medina.[30] In un altro ancor più dettagliato studio, che analizza detti toponimi (più una varietà di altri similari, tra cui Malagastre e Montmagastre) e relativi siti, si evidenzia come i toponimi derivanti dalla presenza di un apparato difensivo siano ricorrenti vista l’importanza che nei secoli questo tipo di elementi difensivi hanno avuto nella formazione e nella successiva organizzazione del  territorio,  e quindi la capacità deittica che questi dispositivi hanno sul paesaggio.[31] In questo genere di toponomastica, inoltre, ricorrono sempre, strettamente legati tra loro dal punto di vista formale e semantico, i nomi castro, castello, torre[32]  (abbiamo già evidenziato come il toponimo del sito di cui ci stiamo occupando sia anche “Torre di Magalastro” o “Torre di Malagastro”).

Tra le comunità spagnole  de La Rioja, Navarra, Catalogna, ricorrono toponimi “di origine castrale” come Bono Castro, Malacastro, Malagastre, Momegastre, Montmagastre, Ojacastro, Punicastro, Santa Maria de Montmagastrell.[33]

Il toponimo Momegastre corrisponde al castello di Momegastre, che sorge su una collina vicino a Peralta de la Sal. In alcuni documenti detto sito è riportato come Mamacastro. Montmagastre  è nei pressi di Artesa de Segre, in Catalogna, e il toponimo è riferito sia ad un monte che ad un villaggio medievale là situato.[34] Nei paraggi (Foradada) è presente anche il toponimo Malagastre, dovuto alla presenza di una antica fortificazione (conosciuta anche come “La Torreta”). Il sito è detto anche “Castro Malagastre”. Santa Maria de Montmagastrell, in origine facente parte di un enclave annesso a Montmagastre, deve la seconda parte del nome al diminutivo originale magastrellum. Nei pressi di  Anzánigo (Alto Gállego, Huesca), è presente Malacastro e il toponimo designa una altitudine di 1079 metri.[35]

L’autore di questo studio, Valenciano, in accordo con Federico Villar, fa risalire “Mal”, la prima parte del nome composto, alla radice indoeuropea *melh (“venir fuori”, “salire”, “apparire”, “mostrarsi”, “risaltare”, “elevarsi”), in riferimento appunto alla conformazione dei luoghi in cui è utilizzato il toponimo, osservando inoltre che il repertorio delle località  in cui è presente la radice * mal- include solo montagne, fiumi e isole, e che laddove presente, questa parte del toponimo, appare sempre legata ad alture o superfici sopraelevate. Conclude dunque che i dispositivi militari costruiti sulla sommità di questi  siti  ebbero come riferimento un antichissimo appellativo mal-, forse instauratosi  come toponimo molto prima che le fortezze fossero costruite.[36]

Altre interpretazioni invece propongono una derivazione dal cognomen latino Malus,[37] mentre appare piuttosto arzigogolata l’ipotesi del Pichierri, che in quel suffisso “mala” del Malagastro savese intravede una derivazione da un appellativo dato a Guglielmo I re dei Normanni, detto appunto “il malo”, nel cui periodo dovette avvenire, sempre secondo il Pichierri, un riutilizzo del vecchio forte bizantino con conseguente attribuzione ai Normanni.[38]

Tornando alla lista dei toponimi similari, e concludendo la relativa rassegna, in Albania ritroviamo  Mallakastër (detto anche Mallakastra, Malacastra).[39] Questo toponimo indica un comune e una regione collinare nella contea di Fier).[40]

Se dunque il toponimo Magalastro assegnato a questo sito nei pressi di Sava ha origine nel medioevo bizantino, ne esce rafforzata l’ipotesi di una presenza militare bizantina proprio lungo quel confine designato come “limes” e perciò si ribalta l’idea di un muro confinario costruito esclusivamente a protezione delle colture.

 

RIASSUNTO E CONCLUSIONI

L’ area di Magalastro, di proprietà privata, è segnata sulla Carta dei Beni Culturali Pugliesi come interessata da una “cinta di fortificazione di età ellenistica”. In effetti, si ritrovano tracce di presenze che vanno dal neolitico all’epoca medievale, attraversando le epoche magnogreco-messapica e quella romana. Il sito ed il complesso fortificato sembrano  aver subito nelle diverse epoche riutilizzi e rifacimenti, ma la torre (della quale rimangono pochi resti, consistenti in blocchi tufacei sparsi) sarebbe parte integrante di detta fortificazione e può essere identificata come simile e con analoghe funzioni ad una serie di strutture di età messapica situate in diverse località del Salento.

L’ altura risulta attualmente raggiungibile dalla strada provinciale Sava-Torricella, come dalla strada di proprietà Arneo attraversando la contrada Morfitta.

Resta sconcertante il fatto che non siano state mai intraprese serie campagne di scavo in quest’area, vista non solo la serie di reperti affioranti (testimoniata, tra l’altro dai ritrovamenti pubblicati dal Tarentini), visto il ritrovamento in passato del tesoretto angioino fotografato dal Pichierri, e vista l’importanza strategica, sottolineata da più studiosi, che il sito doveva avere in quanto centro di avvistamento e zona confinaria in diverse epoche storiche: di più, una ricognizione di questo genere avrebbe permesso probabilmente di cogliere  notizie più precise ed attendibili circa l’espansione reale della chora tarantina, l’organizzazione e il confine della Messapia, così come di raccogliere ulteriori elementi atti a ricostruire l’organizzazione e le caratteristiche del territorio in epoca bizantina.

 

Note

[1]    Mario Annoscia, Sava, monte Magalastro. Resti preistorici e fortificazione classica, in: Giovanni Uggeri (a cura di), “Notiziario Topografico Pugliese I, Contributi per la Carta Archeologia e per il Censimento dei Beni Culturali”, Brindisi, 1978, pag. 151. Dalla foto che ci offre Annoscia pubblicata sul Notiziario, il frammento di testina risulta poco identificabile, ma l’autore riferisce che è “priva del volto, ma si riconoscono chiaramente la capigliatura, la fronte e parte del viso”.

[2]    Paride Tarentini, Torricella. Itinerari storico-archeologici a sud-est di Taranto, Museo Civico di Lizzano,Quattrocolori studio grafico,  luglio 2018, pag. 14

[3]    Ibidem

[4]    Paride Tarentini, op. cit., pag. 15

[5]    Ibidem

[6]    Luigi Finocchietti, Il distretto tarantino in età greca, in “Workshop di archeologia classica. Paesaggi, costruzioni, reperti”, Annuario internazionale, Serra Editore, 6, 2009,  pp. 68-69

[7]    Cesare Teofilato, Segnalazioni archeologiche pugliesi – Allianum,  Il Gazzettino – Eco di Foggia e della Provincia – Anno (24) 7- n. 38, sabato, 21 settembre 1935 Anno XIII

[8]    Giovanbattista Mancarella, Storia linguistica del Salento, in  “L’Idomeneo”, n. 19, 2015, pag. 21; vedi anche Attilio Stazio, La documentazione archeologica in Puglia, in “La città e il suo territorio”, Atti del VII Convegno di Studi sulla Magna Grecia, 1969, pp. 265-285

[9]    Attilio Stazio, op. cit., pag. 272

[10]  Giovanni Mastronuzzi, Una “torre” di età ellenistica presso Giuggianello – Puglia meridionale, The Journal Fasti Online Documents e Researchs, 2018, 423, pp. 1-15. Sul sito di monte Maciulo situato a non molta distanza da quello di Magalastro, si veda Gianfranco Mele, Monte Maciulo in agro di maruggio e località viciniori. Tracciati storico-archeologici, La Voce di Maruggio, sito web, luglio 2020 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/monte-maciulo-in-agro-di-maruggio-e-localita-viciniori-tracciati-storico-archeologici.html

[11]  Il testo integrale della ricognizione confinaria del 1434 è riportato in  Giovangualberto Carducci,  I confini del territorio di Taranto tra basso Medioevo ed età moderna, Mandese Editore, 1993, pp. 114-118

[12]  Ciò che risulta chiaro dai vari inventari è  il fatto che un “paretone” o “parete grosso” si incontra almeno dal 1434 e da località Le Fontanelle (in agro di Maruggio),  prosegue verso monte Maciulo (questa specifica del tracciato la si ritrova in una delle descrizioni più dettagliate, quella del 1669), attraversa monte Magalastro, prosegue verso Pasano, Agliano, Ripa della Serra, il  “Castello di San Marzano”, il monte della Conca e funge da strumento atto a rilevare i confini tra il territorio tarantino e quello oritano. Dalla zona tra il “Castello di San Marzano” (che non è  da identificarsi in una costruzione del centro storico, ma in uno scomparso edificio in contrada Chiese Vecchie), e monte della Conca, il percorso confinario della città di Taranto cambia rispetto a quello individuato come percorso del cosiddetto Limes Bizantino: il primo difatti ruota circolarmente nell’ambito di un territorio che si estende intorno alla città, il secondo, stando alle ricostruzioni dei vari storici salentini che ne han parlato, passava a sud di Francavilla e Oria per proseguire verso Mesagne fino ad Otranto.

[13]  Joanis Juvenis, De antiquitate et varia Tarentinorum fortuna , 8, Salviano, Napoli, 1859, pp. 43-44

[14]  Per una rassegna delle varie tesi si veda Giovanni Stranieri, Un limes bizantino nel Salento? La frontiera bizantino-longobarda nella Puglia meridionale. Realtà e mito del “limitone dei greci”,  Archeologia Medievale, XXVII, 2000, pp. 333-355

[15]  Antonio Profilo, La messapografia, ovvero memorie istoriche di Mesagne in provincia di Lecce, Tipografia Editrice Salentina,  1875, pp. 7-8

[16]  Antonio Profilo, La messapografia, ovvero memorie istoriche di Mesagne in provincia di Lecce, 1870,  pp. 115-116

[17]  Giovanni Stranieri, Sistemi insediativi, sistemi agrari e territori del Salento settentrionale (IV-XV sec.),  in Giuliano Volpe (a cura di), Storia e archeologia globale dei paesaggi rurali in Italia fra tardoantico e medioevo, Insulae Diomedeae, 34, Edipuglia, 2018, Pag. 331

[18]  Ibidem

[19]  Primaldo Coco, Cenni Storici di Sava, Stab. Tipografico Giurdigniano, LE, 1915, pag. 19

[20]  Gaetano Pichierri, Il Limitone dei Greci nel Territorio di Sava, in “Omaggio a Sava”, opera postuma a cura di V. Musardo Talò, Edizioni Del Grifo, 1994,  pp. 55-56. Lo scritto appare per la prima volta in “ Cenacolo”, V-VI (1975-76), Società di Storia Patria per la Puglia sez. di Taranto, pp. 23-29. La fornace cui il Pichierri si riferisce è la cosiddetta “Carcara”, abbandonata da circa mezzo secolo e i cui resti sono ancora visibili nei pressi della provinciale Sava-Torricella

[21]  Gaetano Pichierri, Sava, il “Limitone dei Greci”, in: Giovanni Uggeri (a cura di), “Notiziario Topografico Pugliese I, Contributi per la Carta Archeologia e per il Censimento dei Beni Culturali”, Brindisi, 1978, pp. 152-154,   vedi anche Giovangualberto Carducci,  I confini del territorio di taranto tra basso Medioevo ed età moderna, Mandese Editore, 1993, pag. 63 e pag. 116

[22]  Gaetano Pichierri, Altre notizie sul Limitone dei Greci nell’agro di Sava, inedito 1989, pubblicato postumo in: Vincenza Musardo Talò (a cura di), Gaetano Pichierri – Omaggio a Sava, Del Grifo Ed., LE, 1994, pp. 66-69

[23]  Il Pichierri ipotizza un toponimo grecanico per Morfitta, precisando però che non riesce a rintracciare altri toponimi di confronto. (PP 242-243). In realtà esiste un toponimo confrontabile ed è quello di Molfetta, detta Melficta nel periodo medievale (a partire dal XI sec. circa) e fino almeno al 1500. Proprio (o almeno) intorno al 1500 pare sia ricorrente l’utilizzo anche di Morfitta per designare questa cittadella ( Leandro Alberti, Descrittione di tutta Italia, Venezia, 1561, pag. 243).

[24]  Gaetano Pichierri, Il “Limitone dei Greci” nel territorio di Sava, in: Vincenza Musardo Talò (a cura di), Gaetano Pichierri – Omaggio a Sava, Del Grifo Ed., Lecce, 1994, pag. 55 (l’articolo era già apparso nella rivista “Cenacolo” V-VI, Società di Soria Patria per la Puglia, Sez. di Taranto, 1975-76, pp. 23-29)

[25]  Vedi: Gianfranco Mele, Monte Maciulo in agro di Maruggio e località viciniori. Tracciati storico-archeologici, La Voce di Maruggio, sito web, luglio 2020 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/monte-maciulo-in-agro-di-maruggio-e-localita-viciniori-tracciati-storico-archeologici.html

[26]  Giovan Giovine scrive  che dopo il fiume Borraco e la (oggi scomparsa) chiesetta di S.Nicola, si giunge nella zona della cappelletta di San Marco d’Olivaro, “attraversando un oliveto selvatico e un grande muro costruito con sassi e macigni di mole straordinaria, dove, mediante un passaggio si sale sul crinale di un colle che si leva a sinistra e subito dopo sul monte Malagastro disseminato di folti olivi selvatici” (Joanis Juvenis, De antiquitate et varia Tarentinorum fortuna , Salviano, Napoli, 1859)

[27]  Francesco Ribezzo, Nuove ricerche per il Corpus inscriptionum Messapicarum, Roma, 1944, pag. 31. Probabilmente il Ribezzo intendeva da un composto di  μεγάλη (grande) + ἀστηρ, ἂστρον (astro, stella, costellazione). N.B. non ho potuto reperire di prima mano il testo del Ribezzo, e quindi traggo le informazioni citate in questo articolo da: Maria Teresa Laporta, Oscilla con epigrafi greche, in Quaderni del Museo archeologico F. Ribezzo di Brindisi, 9, 1976, pag. 83, nota 2

[28]  Andrea Rubbi, Dizionario di antichità sacre e profane, pubbliche e private, civili e militari, Tomo decimoquinto, Tipografia Curti, Venezia, 1805, Pag. 73; vedi anche Fernando Sammarco,  Arthas il Grande Eghemón ton Messapion, Il Pensiero Mediterraneo, Rivista Culturale online, aprile 2020. In entrambi i casi si fa riferimento ad uno scritto di Eustazio.

[29]  Marcelino Cortés Valenciano, Una peculiar serie toponìmica sobre castĕllum, castrum en el nordeste peninsular, Alazet, 26, 2014, pag. 19

[30]  Julio Medina Font, La formación política del Principado de Cataluña, siglos X-XII, Facultad de Derecho de la Universidad Complutense de Madrid,  1976, pp. 157-158

[31]  Marcelino  Cortés Valenciano, op. cit., pag. 18

[32]  Ibidem

[33]  Con caratteristiche simili, Aracastillo, Carocastillo, Cercastiel, Dicastillo, Serracastillo, Turdicastillo, Uncastillo. Carocastillo e Uncastillo sono detti anche rispettivamente Carocastro e Unocastro.

[34]  Marcelino Cortés Valenciano, op. cit., pag. 33

[35]  Marcelino Cortés Valenciano, op. cit., pag. 31

[36]  Marcelino Cortés Valenciano, op. cit., pag. 32

[37]  Ibidem

[38]  “I Bizantini presero in prestito dai Romani il termine castra perchè più diretto a rendere il significato di “forte, fortezza” […] L’aggiunta di mala dovette avvenire all’arrivo dei Normanni che avevano occupato altri castra nell’Italia meridionale.  […] Ad aver operato sul termine toponomastico vi è da pensare al nome di Guglielmo I, poiché questo re normanno è stato tramandato da certa storiografia con l’appellativo di “malo”. Costui fu qui di casa nel 1156, nelle azioni militari di Brindisi che portarono alla sconfitta dell’esercito e della flotta dei Bizantini” (Gaetano Pichierri, Altre notizie per una più sicura ubicazione del  Limitone dei Greci nel territorio di Sava, inedito gennaio 1989, pubblicato postumo in: Vincenza Musardo Talò (a cura di), Gaetano Pichierri – Omaggio a Sava, Del Grifo Ed., LE, 1994, pp. 74-75).

[39]  Secondo alcune interpretazioni, l’albanese Mal kashtër (montagna di paglia/pagliaio) deriverebbe da Mallakastra, voce di matrice pelasgica. Traggo questa informazione da: Elton Varfi, Parole derivate dalla lingua pelasgico-albanese, http://eltonvarfi.blogspot.com/2009/06/parole-derivate-dalla-lingua-pelasgico.html . L’autore cita come fone un libro pubblicato nel 1975 dall’ Istituto Linguistico Svedese , Webster’s New Twentieth Century Dictionary, Unabridged Second Edition, De Luxe Color, William Collins and World Publishing Co., Inc.

[40]  Oltre al toponimo e alla conformazione collinare, questo sito, che è divenuto sede di  un parco archeologico, ha curiosamente in comune con il Magalastro/Malagastro savese (e le adiacenti località Morfitta e Agliano) la presenza di ceramiche arcaiche, classiche, tardo classiche, ellenistiche, dell’antica Roma, del medioevo.  Al di là di ciò, a questo punto si potrebbe anche ipotizzare una origine albanese del toponimo (e in sostituzione di uno più antico), affermatasi nel XV secolo, quando vi fu una consistente migrazione albanese in zona, compreso il territorio savese: tuttavia se Magalastro è già citato e dunque attestato come toponimo in un documento del 1434 e l’ondata migratoria nel territorio invece avviene non prima del 1460, questa ipotesi non può essere accettabile ( cfr. Gianfranco Mele, Gli albanesi a Sava tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo. Studi, fonti storiche e contraddizioni sulla loro presenza e influenza nella cittadina jonico-salentina e nella ripopolazione del casale, La Voce di maruggio, sito web, marzo 2019).

Architettura della pietà popolare. I Calvari nel Salento

 

di Marcello Gaballo

Bruno Perretti, Calvari. Architettura della pietà popolare nell’area ionico-salentina, presentazione di Francesca Talò, Manduria, Barbieri Selvaggi, 2011 (271 pp., 26 cm).

 

Seppur datato al 2011, edito da Barbieri Selvaggi di Manduria, il volume di Bruno Perretti, Calvari. Architettura della pietà popolare nell’area ionico-salentina, resta fondamentale per la conoscenza e lo studio di queste caratteristiche costruzioni presenti nel Salento, realizzate tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, a torto poco considerate e ingiustamente relegate tra i cosiddetti beni culturali “minori”.

Rimandano al nome del monte su cui Cristo fu crocifisso e comprendono scene della Passione con vari personaggi e simboli ad essa collegati e quasi in tutti, al centro, domina la Crocifissione.

Sono tanti i centri che ancora possono disporne, anche se molti trascurati e in deplorevoli condizioni, venendo meno i committenti e la  memoria delle radici culturali che favorìrono la loro realizzazione con pietra locale da taglio in punti strategici delle cittadine, collocati scenograficamente a lato delle chiese principali o conventi oppure davanti ai cimiteri di un tempo.

“Graziosi santuari urbani, una volta occasione di aggregazione devozionale dell’umile popolo di Dio”. Così li riassume Francesca Talò, che presenta il bel volume, riccamente illustrato con foto a colori, che illustra gli 83 Calvari superstiti censiti dall’Autore nelle tre province di Brindisi (13), Lecce (ben 61) e Taranto (9). Di ognuno di questi viene presentata una scheda descrittiva, con adeguato corredo fotografico, che illustra la tipologia e varietà architettoniche (a tempietto, edicola, portico, esedra, etc.) e le diverse tecniche adoperate da artisti quasi sempre locali, siano essi pittori o scultori.

Sempre la Talò, nella sua ampia e condivisibile premessa del volume, precisa come “Non a caso, nei calvari, pur nella peculiarità propria della loro appartenenza geografica, si rinviene la testimonianza dei tanti segni della trascorsa religiosità popolare, leggibile (nelle tre direzioni di storia-arte-fede) unitamente anche ai rapporti con l’impianto urbanistico, quale contenitore di tali edifici, e tenendo in conto anche le diverse teorie stilistiche di cui si adornavano, perché capaci di raccontare dei fasti o della elementarità economica di quanti si sono fatti committenti di simili beni  del patrimonio sacro cittadino… monumenti che attengono la sfera del vissuto devozionale collettivo, trovano fondamentalmente la loro ragione di essere nel devoto desiderio di rivivere in loco, in maniera concretamente visibile e sperimentabile, le suggestioni della Terra Santa”.

Tra le diverse tipologie di calvari salentini torna molto utile l’approfondimento sul Calvario di Ortelle studiato da Angelo Micello, affrescato da Giuseppe Bottazzi (1821-1890) probabilmente negli ultimi anni della sua attività, “un vero e proprio manierista delle rappresentazioni religiose e dei Calvari in particolare. I tagli, le pose e i colori delle figurazioni del Bottazzi sono replicate per esempio nel Calvario di Montesano Salentino (commissionato nel 1873)”. Realizzò anche quelli di Specchia Preti e Morciano di Leuca (vedi Il Calvario di Ortelle – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it).

Sul Calvario di Spongano ne ha scritto invece Giuseppe Corvaglia (Il Calvario di Spongano sito in contrada Santa Marina – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it).

Purtroppo, come rileva Bruno Perretti, autore di questo utile ed originale censimento, non sempre si ritrovano le firme degli artisti certificati, come sono, oltre a Buttazzo, quelli di Alessandro Bortone (1848-1939) a Diso, Vignacastrisi e Vitigliano; Ciro Cimino a Racale; Agesilao Flora (1863-1952) a Latiano; Giuseppe Villani a Galatina; Ciro Fanigliulo (1881-1969) a Grottaglie e Monteiasi; Giuseppe Renato Greco a Manduria; Giuseppe Vaccaro a Lizzano; Leonardo Perrone a Squinzano; Luigi Giuseppe Martena a Trepuzzi; Nicola Pepe a Tiggiano; Giovanni Moscara a Soleto; don Oreste Paladini a Taurisano; Sebastiano Greco a Seclì.

La settimana santa a Francavilla Fontana

di Mirko Belfiore a colloqio con Antonio Di Castri.

Restando sul tema dei riti della Settimana Santa mi sono reso conto di come potesse essere interessante aggiungere alla mia personale visione da “migrante” il punto di vista di chi questi giorni li ha sempre vissuti in maniera più approfondita.  Mi sono chiesto, chi meglio di un francavillese fatto e cresciuto, può raccontare le esperienze su questo momento liturgico coì pregno di tradizione e storia? Non ho dovuto fare molta strada e mi sono rivolto a una persona a me molto cara, il quale ha aperto il cassetto dei ricordi e si è fatto rivolgere alcune domande:

Carissimo Antonio, come hai vissuto nel tuo percorso di crescita, i riti che conducono verso la Settimana Santa?

Sin da piccoli ci si approccia a questo elemento fondante della cultura cittadina grazie alle istituzioni ecclesiastiche e scolastiche. Nelle prime escursioni della nostra città si coglie l’occasione per visitare i luoghi più simbolici come la chiesa di santa Chiara o della Morte, edificio dove gelosamente si custodiscono le statue dei Misteri. In noi piccoli, la visione di questi oggetti alimentava emozioni controverse, date non solo dallo splendore artistico e dalla carica drammatica ma anche dall’aura di mistero che oggi come allora aleggia intorno a queste opere d’arte. All’approssimarsi del periodo pasquale e insieme ai compagni del catechismo, si faceva qualche piccola vendita clandestina dei rametti di ulivi benedetti durante la Domenica delle Palme, a cui seguitava la frenetica realizzazione “ti lu piattu”, sempre decorato con gioia e orgogliosamente mostrato a tutto il vicinato, riti di passaggio che seppur semplici hanno accompagnato i miei passi verso l’adolescenza.

La folla che attende la partenza della processione

 

i Crociferi con le loro enormi croci in legno mentre percorrono via Roma a Francavilla Fontana (questa e le altre foto del contributo sono di Andrea Turrisi)

 

Da spettatore esterno, come posso comprendere in maniera completa cosa rappresenta per un francavillese vivere questo momento così antico e così fortemente radicato?

Dal mio punto di vista, forse questo è l’unico momento in cui la comunità si riunisce realmente in un atto di purificazione, partecipando a questa performance pubblica. In quei giorni a Francavilla succede qualcosa di inspiegabile, c’è nell’aria un senso di attesa, un momento di stallo che anticipa tutto quello che avverrà. Non è solo l’insieme, ma anche le singole funzioni che rapiscono nella loro carica di fede. Ad esempio, per me, la processione della statua lignea della Madonna dell’Addolorata, la quale disperata e melanconica vaga per la città “in cerca del Figlio” con quegli occhi carichi di disperazione, rappresenta una delle immagini più toccanti. Le attività frenetiche dei giorni successivi restituiscono poi, quel senso di partecipazione e concordia che in molti mesi dell’anno manca. La realizzazione degli addobbi dei Sepolcri, ricchi di colori, manufatti e riempiti dalla fitta selva dei numerosi “piatti”, rimane un vero e proprio momento di concordia.

Una coppia di Pappamusci in preghiera

 

Fra i ricordi che emergono, cosa mi puoi raccontare dei “Pappamusci”, queste figure sinistre e quasi minacciose, che durante il Giovedì e il Venerdì Santo camminano accoppiate lunghe le vie di Francavilla?

Sin da bambini si è sempre spaventati da queste figure piene di mistero. Ricordo la filastrocca che spesso i più grandi ripetevano per intimorirci al loro passaggio, in modo da evitare che disturbassimo il loro atto di penitenza: pappamusci alla squazata, pigghia la mazza e ddalli an capu (pappamusci scalzi, prendi la mazza e daglielo in testa). Il terrore di essere colpito da quei lunghi bastoni, mi portava al silenzio e all’osservazione, unita a quella forma di rispetto che scaturiva al loro battere, usato sia durante il momento del saluto che nell’abbraccio simbolico. Ciò che mi ha sempre affascinato sono proprio questi atti rituali di riguardo, non solo verso il luogo di pellegrinaggio, ma anche verso l’altro fratello penitente, il quale si ritrova nella stessa condizione. C’è ordine in questi atti ma anche tenerezza, sentimenti che traspaiono quando tra di loro si sistemano la mozzetta o il cappello fuori posto, oppure quando un adulto incoraggia il bambino a proseguire nel suo cammino. I pellegrini spesso sono padre e figlio e in questo si può riconoscere un atto di trasmissione della tradizione, simbolo di quel legame che li univa.

Chiesa di Santa Chiara o della Morte, luogo di conservazione delle statue di cartapesta durante l’anno

 

Come può un giovane avvicinarsi a queste cerimonie, così avvolte da una sacralità quasi invalicabile?

Il rito è ancora attuale proprio perché è un atto performativo, codificato, ritmato. Il Venerdì Santo, impressiona per l’atmosfera assordante di silenzio che si può udire in città interrotto solo dal suono della “trenula”. Un suono secco e duro che annuncia nelle chiese e per le vie cittadine la morte di Cristo. Da quel momento in poi, l’interruzione delle attività tutte è d’obbligo e l’unico mormorio incessante che si ode è quello della preparazione dei gruppi statuari sapientemente allestiti all’interno della chiesa della Morte. A pochi passi, si preparano le enormi croci dei “Crociferi”, i quali assemblano con maestria e trepidazione gli oggetti che useranno successivamente. Quando la processione ha inizio i cittadini sono lì presenti. La caccia al posto più favorevole dove osservare il passaggio della processione porta molti a sistemarsi ore prima per individuare il punto migliore, anche sfruttando i balconi di amici e parenti. Questo per avere la migliore visuale possibile dove poter osservare il passaggio lento di quelle opere che in modo straziante restituiscono il dolore del Cristo. Un dolore che viene proiettato su sé stessi soprattutto al passaggio dei crociferi, i quali trascinano il loro pesante peso fra la preghiera e gli umili affanni di fatica per la stanchezza e il peso. Purtroppo, l’evolversi di questo evento cittadino in evento turistico toglie qualcosa a questo momento. Ricordo il silenzio delle folle cittadine al passaggio della processione, ora ci sono flash e chiacchiereccio, perché c’è chi vive quel momento come uno show. Il turista viene, guarda, scatta e va via. Non vive l’esperienza a pieno, non assapora tutti i passaggi che si effettuano per arrivare a quel momento. I giovani probabilmente ora mostrano disinteresse proprio per questo, perché nel momento in cui un atto così viene massificato perde della sua unicità pur nella sua replicabilità. Attenzione, non parlo di nostalgia dei vecchi tempi, perché sicuramente l’esperienza che ho vissuto io è differente da quella che hanno vissuto i miei genitori, i miei nonni. Si chiamano riti della Settimana Santa, non a caso, perché appartengono alla comunità, l’apertura all’ospite è insita nel rito stesso, ma non per questo si deve snaturare la sua funzione sociale e culturale. Il rito è efficace grazie al suo linguaggio semplificato e comprensibile ai tanti. Per questo ci deve essere da parte dei cittadini un interesse nel preservare questi eventi non come un monolite intoccabile, ma renderlo fruibile agli altri con la consapevolezza del valore che esso ha per chi lo vive sin dall’inizio.

Cristo alla colonna (XVIII secolo)

 

Che cosa rimane di tutto ciò, sapendo che quest’anno, dopo due lunghi anni, si tornerà a godere di tutto ciò, riassaporando quel senso di normalità?

Questo è, per i fuorisede come me, il momento del ritrovo, in cui la famiglia si riunisce e vive la Pasqua come un momento di gioia e spensieratezza, in alcuni casi di riappacificazione. A ciò aggiungo la mia personale speranza che si possa ritornare anche a quei momenti fatti di baci e abbracci, gesti che hanno una loro importanza e che stanno alla base di tutto quello che s’è detto sino ad ora. Quando torno a Francavilla e ospito i miei amici, spesso li porto ad osservare le statue, racconto loro quale posizione le stesse hanno nella processione e mi dilungo nella spiegazione delle varie fasi, lasciandoli stupefatti di tutta questa partecipazione. Quando sono solo invece, amo ritagliarmi un momento per andarle a visitare nel silenzio della mia intimità, così da poter godere in pieno della loro bellezza e delle emozioni che da esse scaturiscono. Ritornare a vivere tutti questi frangenti con quella libertà che per due anni ci è stata negata, per me rappresenta un sollievo dell’anima e una speranza che tutto possa riprendere con uno spirito nuovo.

Padre e figlio penitenti

Considerazioni sui riti della settimana santa a Francavilla Fontana

di Mirko Belfiore

Io, figlio di emigrati e cresciuto a Pane e Francaidda, sono parte di quella generazione di francavillesi che per necessità e virtù dovette espatriare in cerca di lavoro, trascorrendo la sua esistenza fra una delle tante città “dell’Alta Italia” e le frequenti discese nel paese natio. Non essendo una condizione così rara, non è difficile far comprendere di cosa parlo e di come ogni occasione fosse perfetta per percorrere la lunga strada che mi separava da Francavilla, viaggiando sul sedile di una macchina, in una cuccetta di un treno o prenotando un posto su un aereo. Cresciuto nel corpo e nello spirito, in me iniziò a farsi spazio un modo più maturo di vedere quella terra così lontana, grazie agli studi, la passione e al sapiente contributo di quelle che sono sempre state le mie fonti inesauribili di tradizioni e aneddoti: i Nonni.

Che cos’era quindi per me Francavilla? Un luogo che rimaneva sconosciuto per buona parte dell’anno, ma che con una semplicità disarmante sapeva regalarti anche per pochi giorni emozioni incredibili.

La sintesi perfetta di questo sentimento si sublima in un intervallo di tempo in particolare, dove quel percorso di fede fatto di tradizioni uniche, “rapisce” la comunità senza distinzioni di età.

I piatti decorati dai bambini che verranno portati in giro per le strade di Francavilla (questa e le altre foto che corredano il presente contributo sono di Andrea Turrisi)

 

Fra le molte possiamo citarne sicuramente alcune, come il piatto utilizzato dai fanciulli per la cerimonia del “Ce ti piace lu piattu mia”, i meravigliosi allestimenti creati all’interno delle chiese per i Sepolcri (Repositori), la commovente vestizione della statua dell’Addolorata, fino a giungere al massimo del coinvolgimento proprio durante le fasi finali del periodo pasquale fra il Giovedì e Venerdì Santo.

La statua della Vergine Addolorata prima e dopo la vestizione (XVIII secolo)

 

Durante il mattino, si possono ancora trovare per le strade o nei pressi dei templi religiosi “li Pappamusci”, parola dall’etimo incerto (gli studiosi ancora oggi si dibattono), che rimanda a quelle coppie di penitenti scalzi che a passo lento compiono il giro delle chiese cittadine per portare a termine il loro tragitto di redenzione.

Queste singolari figure sono abbigliate secondo un’usanza ben precisa: una veste bianca semplice o ricamata, una mantella color panna, un cappello da pellegrino indossato in segno di ossequio e un cappuccio bianco aperto solo all’altezza degli occhi, utilizzato per celare il volto e mantenere l’anonimato più assoluto.

Una coppia di Pappamusci in preghiera

 

Completano questo ricco corredo: il cingolo che li avvolge in vita, simbolo del sacrificio, e il bordone, il bastone del pellegrino con il cui suono il penitente può avvertire del proprio arrivo i fratelli in preghiera.

Secondo una sequenza ritmata che inizia fin dalle prime ore pomeridiane del Giovedì Santo, gli stessi iniziano e concludono il loro circuito partendo dalla chiesa del padri Carmelitani, privilegio ancora oggi testimoniato dallo scapolare color marrone che reca la scritta Decor Carmeli.

Giunti al calar della sera, le funzioni della giornata si concludono con l’uscita in processione dei gruppi statuari dei Misteri, manufatti di cartapesta dalla notevole resa empatica, risultato di un’antica tradizione sette-ottocentesca che a Francavilla e nel Salento fece scuola.

Essi rappresentano figurativamente i momenti cruciali della Passione di Gesù Cristo e vengono portate in spalla dagli appartenenti delle sette confraternite, a cui si aggiungono in coda al corteo le autorità, i gruppi religiosi e i laici. Lungo le vie cittadine, il lento serpentone viene accompagnato dai Crociferi, “Li Pappamusci cu li trai”, i quali al seguito della statua riproducente “La Cascata”, dove il figlio di Dio cede ormai stremato al peso della sua croce, trasportano individualmente e con enorme fatica, una copia in legno dell’emblema del sacrifico.

Statua di Cristo con la canna portata in spalla (XVIII secolo)

 

La processione segue l’itinerario avvolta da due grandi ali di folla e accompagnata da alcuni suoni molto caratteristici: il rumore incessante delle “trenule” che scandiscono i tempi di percorrenza, le malinconiche melodie eseguite dalla gloriosa banda locale e il silenzio assordante della calca, da dove emergono sempre due tipi di fedeli: chi prega rapito nel raccoglimento più totale e chi rimane impressionato dai gesti drammatici e dagli sguardi carichi di “pathos” delle raffigurazioni statuarie.

Le sette confraternite della città abbigliate secondo i colori che le contraddistinguono

 

Ultimate queste giornate ricche di avvenimenti, tutta la cittadinanza ritorna nelle proprie case per trascorrere in famiglia i restanti giorni e per prepararsi a riprendere la strada del ritorno, tutti uniti da quel sentimento di soddisfazione per aver partecipato a qualcosa di unico.

Pane, casu e ònguli è manciata te galantòmmini

di Marino Miccoli

E’ arrivato il tempo della maturazione di un apprezzato legume in baccello che nel nostro amato Salento si degusta quando è ancora tenero, spesso accompagnato deliziosamente con pane e formaggio fresco: le fave. Un noto proverbio infatti recita PANE, CASU E ONGULI E’ MANCIATA DE GALANTOMMINI!

Ma vi scrivo per raccontarvi un divertente  stornello popolare che mia amatissima nonna ADDOLORATA POLIMENO (uccèra di Spongano) ebbe a narrarmi quando ero ancora fanciullo: si intitola LE FAVE E LA MAZZA.

N’cera na’ fiata nu furese ca tinìa nà cisura e tutti l’anni la siminava de fave.
Nu cristianu ca se truvau a passare de nanzi a ddhra cisura, vidennu ca i primi ònguli s’erane chini se girau versu lu furese e li disse: “FAVARAZZA FAVARAZZA, CENTU TUMMINI CU NE FAZZA!”
Lu furese li rispuse: “MOI CA MA L’HAI BENEDITTE, TE NE POI CCUIRE NA RAZZATA CU TE LE PORTI A CASA!” e ddhru cristianu se ne ccose nu picca e poi se ne sciu.
Allu crai, de prima mmane, lu furese turnàu alla cisura e vidennu ca de notte s’erane rrubbate le fave se rraggiàu e disse: “STANOTTE ME CCUCCIU A NTHRA LA PAJARA E SPETTU LI LATRI… LI MOSCIU IEU NA COSA A DHRI DISCRAZIATI!” e cusì fice.
Verso la menzanotte sintìu nu rùsciu  a menzu alla cisura, allora ssìu de la pajara e cittu cittu, musceddhri musceddhri, se vvicinàu allu puntu addhru era ntisu lu rusciu… ncera ddhru cristianu de lu giurnu prima ca portava a ncoddhru doi fisazze.

Quannu spicciau de cuire le fave culle fisazze chine se azzàu tisu a menzu alla cisura e disse:” FAVARAZZA FAVARAZZA, CENTU TUMMINI CU NE FAZZA… E FAZZA O NO FAZZA, ME L’AGGIU CHINA LA FISAZZA!”
Lu furese tuttu de paru li zumpàu de nanzi e cridannu li rispuse: “…E IEU SU NTONI DE RAZZA, MOI LASSI LE FAVE E PROVI LA MAZZA!”

Poi cu lla mazza ca tinìa a mmanu cuminciàu cu bbinchia de mazzate lu latru. Quistu vidennu la male parata llassàu le fisazze chine de fave e se ne fuscìu.

 

Truppe russe a Lecce. Correva l’anno 1799… (III ed ultima parte)

di Davide Elia

Lo sbarco in Salento

Almeno inizialmente, quindi, la flottiglia russo-turca dovette cambiare il piano di sbarco: anziché alla costa di Brindisi, si avvicinò a quella di Lecce, città ormai ritornata saldamente all’obbedienza ai Borbone. Emanuele Buccarelli, reazionario leccese autore di una cronaca di quegli anni, riferisce di una delegazione composta da “due ufficiali moscoviti”, scesi a terra per portare alla città un proclama di re Ferdinando (naturalmente redatto da Micheroux). Essi si intrattennero fino a sera in casa del sindaco e furono informati che dopo soli sei giorni di occupazione Brindisi era stata frettolosamente evacuata dal contingente francese, probabilmente richiamato in Italia settentrionale per essere impiegato in altri scenari bellici. I due russi tornarono per imbarcarsi “al porto di San Cataldo nel quale v’erano quattro grossissime navi di guerra moscovite e turche e queste stavano sette miglie dentro il mare”. Il 18 aprile la spedizione alleata entrò nel porto di Brindisi.

Tuttavia, non tutte le notizie di quel giorno risultarono gradite a Micheroux: l’imbarcazione tripolina, che già poco dopo la partenza da Corfù si era distaccata dal resto della squadra, l’aveva preceduta a Brindisi di un giorno. Trovatala abbandonata dai francesi, aveva saccheggiato la fortezza cittadina e vi aveva issato la bandiera ottomana, confermando le preoccupazioni iniziali per la possibile condotta di quell’equipaggio e per le conseguenze sul morale delle popolazioni pugliesi.

Ad ogni modo, vennero sbarcati 40 russi, 20 napoletani e 10 turchi, che presero possesso del forte. Ben magra guarnigione rispetto alle mirabolanti promesse dei comandanti russo e turco e delle rispettive diplomazie!

Addirittura Sorokin si affrettò tornare subito indietro a Corfù con il pretesto di voler organizzare l’invio di nuovi e più consistenti rinforzi. Micheroux acconsentì a seguirlo solo a patto che anche i tripolini lasciassero la città insieme a loro, per scongiurare l’eventualità di ulteriori spoliazioni.

Non sapevano, Micheroux e Sorokin, che da Corfù era nel frattempo partita un’altra squadra di sei imbarcazioni che condizioni di tempo avverso avevano però costretto a ripararsi a Otranto.

Probabilmente fu da queste navi che sbarcarono i 150 turchi che il 22 aprile giunsero a Lecce. Narra Buccarelli: “Il corpo tutto della nostra città cioè il Sig. Sindaco e tutti li signori deputati per riceverli l’uscirono avanti colle carrozze infino alla Terra di Caballino, d’unita con più soldati a cavallo, portando anche con loro una scelta e sontuosa banda composta di trombe, grancascia, tamburri, fischietti, piattini ed acciarini, quale era cosa bellissima a sentirla. Furono onorevolmente e con amore grande ricevuti da tutto il popolo leccese, che loro ne rimasero confusi. Li fecero poi entrare dalla porta di Rugge e camminare per una buona porzione della città per essere quelli da tutto il popolo veduti e passando dalla Piazza della città nostra si fece fare un lunghissimo sparo di mortari e nell’entrare che fecero nel castello dove s’era situata la di loro residenza, anche si fece lo stesso”. In sostanza, i turchi nemici della fede e secolare minaccia delle popolazioni salentine venivano ora accolti in città tra i festeggiamenti come salvatori della causa del re e della religione cristiana!

Si fece poi un bando perché nessuno dei negozianti locali vendesse sostanze alcoliche ai turchi, i cui comandanti temevano che la propria truppa trasgredisse la relativa prescrizione dell’islam. Timori fondati, peraltro: già il giorno seguente, mentre i due ufficiali turchi più alti in grado facevano insieme al sindaco il giro della città in carrozza gettando monete di rame al popolino, una parte della truppa si disperdeva nelle taverne ad ubriacarsi. I colpevoli, che pare fossero una ventina, vennero condotti al castello e lì incatenati e “bacchettati sotto i piedi” per punizione. L’indomani la stessa delegazione, ancora tra carrozze, fanfare e distribuzione di monetine, venne ricevuta dai canonici del seminario. “Le battuglie di turchi continuamente si vedono camminare per la città, l’istessi sono uomini umani e aggarbati con tutta la gente, innamorati e amantissimi assai dei fiori, che sempre ne vanno pieni”, riferisce il Buccarelli, ancora grato agli occupanti che stavano garantendo l’ordine realista.

Divisa di fante ottomano dei primi dell’800.

 

Da Corfù, dopo essersi abboccato con i due comandanti russo e turco e averne ricevuto le solite strabilianti promesse di rinforzi per il futuro prossimo, Micheroux tornò a Brindisi praticamente con la stessa squadra navale della prima volta, arricchita di un solo ulteriore vascello russo. La flotta, giunta a Brindisi il 31 aprile, si ricongiunse con quella che inizialmente si era riparata a Otranto. Il capitano del presidio lasciato precedentemente in città aveva spedito 30 dei suoi uomini a Lecce “per rallegrare colla loro vista quegli abitanti”.

A Brindisi Micheroux ricevette la visita di Tommaso Luperto, il preside (oggi diremmo prefetto) della provincia di Terra d’Otranto, nominato l’8 marzo precedente da Boccheciampe e De Cesari. Luperto aveva fama di persecutore di giacobini tanto implacabile quanto ottuso. Il preside richiedeva truppe russe da destinare a Lecce, ma Micheroux, che non nutriva né stima né fiducia in questo individuo, si limitò a raccomandargli moderazione nella sua opera di repressione. A Lecce giunsero invece alcune ulteriori decine di turchi, sbarcati in precedenza a Taranto. Giunsero poi anche ambasciatori russi per conferire con Luperto, seguiti, l’indomani, 3 maggio, da 35 soldati di truppa. Fu questo il primo contingente russo a fare ingresso a Lecce: incontro a loro uscì “tutto il corpo dei nostri soldati […] con una bella e soave banda composta di grancassa, tamburri, fischietti, piattini, acciarini e trombe, che facevano una grata melodia; così accompagnati entrarono e camminarono una buona parte della nostra città con un infinito concorso di popolo leccese”. Il 13 maggio giunsero in città alcuni alti ufficiali russi che, ricevuti dal Luperto, furono poi alloggiati nel seminario, dove erano già acquartierati i loro soldati. Il 16 fu la volta di una delegazione di ufficiali turchi, al solito ricevuti con fanfare e grande partecipazione di popolo.

Al di là delle apparenze, è lecito immaginare che fu diverso lo stato d’animo con cui i due contingenti vennero accolti: i russi erano mediamente più disciplinati e risultavano sicuramente più rassicuranti agli occhi delle popolazioni nostrane, se non altro per l’affinità esistente dal punto di vista religioso. Così Micheroux descrisse i soldati moscoviti: “Stature gigantesche, bel disegno di membra, spalle vastissime, fisonomie virili non senza dolcezza. Questi bellissimi uomini sono estremamente sobri, ubbidienti, disciplinati, imperterriti nel combattere, senza la menoma alterazione di animo nel maggior calore dell’azione. Gli ho veduti servire i cannoni; gli ho veduti imbarcarsi per andare all’assalto con quell’istessa pace e serenità di volto che loro è propria. Sembra che possa farsi di loro ciò che si voglia, e basta vederli per accertarsi che non può darsi caso in cui sapessero retrocedere. La loro ubbidienza verso chi li comanda è senza esame. […]. In quanto alla robustezza è tale che sgomenta. […] Dicesi che i soldati russi, lontani dagli occhi dei loro ufficiali, si permettono non già di rubare, ma di chiedere ai cittadini ciò di cui si sentono voglia e bisogno. Ma non ho potuto aver di ciò la pruova, e d’altronde fui assicurato che essendo accusati ai capi, vengon severamente puniti. Il vero si è che in tutte le isole del Levante sono adorati, e che hanno il doppio merito di aver liberati gli abitanti dalla tirannia dei francesi, e di esser loro uno scudo contro la licenza degli albanesi e dei turchi loro alleati”.

 

 

Il 23 maggio, invece, Buccarelli scriveva di continue intemperanze da parte turca: molti soldati circolavano in preda all’ubriachezza, attentando all’onore delle donne in città e all’incolumità degli abitanti delle masserie circostanti. Cinque prostitute locali vennero arrestate per essersi intrattenute con militi turchi ed aver trasmesso loro il “morbo gallico”, ossia la sifilide. La coesistenza dei due contingenti alleati non era sempre pacifica: “Per esser queste due Nazioni moscovita e turca anticoniste tra loro, in ogni poco tempo sortisce qualche piccola briga tanto nella piazza quanto nelle pubbliche strade di questa città”.

Uniformi dell’esercito russo intorno al 1790.

 

Il 26 maggio giunsero in città di altri 40 turchi provenienti da Otranto. Il 30 maggio i soldati russi scortarono la tradizionale processione del Corpus Domini.

Più a nord, l’armata del cardinale Ruffo faceva grandi progressi e, dopo aver risalito la Calabria, dilagava in Lucania. De Cesari raggiunse il cardinale a Matera il 7 maggio e da lì concertarono l’assalto ad Altamura, roccaforte della causa repubblicana. Sulla città sconfitta si scatenò la violenza sanfedista: Altamura venisse barbaramente saccheggiata senza che il cardinale facesse molto per porre un freno alle sue truppe. La coppia reale, da Palermo, si rallegrò e complimentò con Ruffo per l’efferata impresa compiuta. La morsa intorno alla capitale andava stringendosi di giorno in giorno. Il 1° giugno 90 turchi partirono da Lecce alla volta di San Vito degli Schiavi (oggi dei Normanni); in città ne restarono altri 80 circa. Il 3 partirono tutti i russi, diretti a ingrossare le file di un contingente di 450 uomini complessivi da radunare a Manfredonia (al loro seguito era anche Micheroux). Il 16 fu la volta di oltre 100 veterani leccesi, diretti a prendere parte alla presa di Napoli. Non sapevano che questa era già stata riconquistata dai sanfedisti il 13 giugno, poiché la notizia giunse a Lecce solo il 26.

Tela raffigurante l’abbattimento dell’albero della libertà a Napoli in occasione della caduta della Repubblica Napoletana. Si notino le bandiere tricolori blu-rosso-gialle, vessillo della repubblica.

 

Terminò così quel periodo di presenza russa a Lecce (che però, come vedremo, non fu l’ultimo), mentre un contingente di turchi restò a dare man forte a Luperto nella sua caccia senza quartiere ai giacobini. In alcuni frangenti i soldati turchi, anziché garantire l’ordine pubblico, sembrarono fare causa comune con la folla inferocita che, all’occasione, cercava di fare giustizia sommaria di alcuni giacobini arrestati, a stento trattenuta dall’intervento delle milizie locali.

In quell’estate del 1799 continuarono a transitare da Lecce alti ufficiali e diplomatici ottomani: sbarcavano a Otranto e, diretti a Napoli, facevano tappa in città risiedendo nel castello che già ospitava le truppe dei loro connazionali. In occasione dei festeggiamenti per Sant’Oronzo, all’interno del castello vennero allestite delle luminarie sulle quali campeggiavano lo stendardo borbonico e quello ottomano. Il giorno dopo, sempre all’interno del castello, i soldati turchi si cimentarono in una sorta di gioco della cuccagna.

La partenza dei turchi ebbe infine luogo il 16 ottobre: le truppe lasciarono Lecce alla volta di Brindisi, dove si imbarcarono per l’Oriente. Sorprende come il giudizio dell’opinione pubblica nei loro confronti fosse radicalmente mutato rispetto all’epoca del loro arrivo: salutati sulle prime come salvatori dell’ordine sociale e della dinastia, ora nel diario di Buccarelli venivano definiti “bestie”, “inzolenti, senza disciplina, senza cervello e senza raggione”, violentatori di “moltissime oneste donne”, ladri di frutta e di “fronde di tabacco secche per fumare”, sia in città sia nelle campagne circostanti. Oltre a queste ruberie extra, il loro mantenimento ordinario aveva rappresentato già di per sé un notevole carico per la popolazione locale, pare intorno ai 50 ducati al giorno. Buccarelli conclude però che, pur avendo cagionato così terribili disagi, quelle truppe avevano garantito al Salento protezione da “moltissimi mali e guai” ulteriori.

Curiosamente, pare che due “turchi” riuscissero a disertare e a sottrarsi al rimpatrio, poiché in realtà si trattava di due salentini che erano stati rapiti in tenera età e convertiti a forza all’islam. Sfruttarono la ghiotta occasione di essere stati destinati al servizio proprio in Terra d’Otranto per tornare a casa e riacquistare finalmente la libertà. Pare che uno dei due, in particolare, fosse originario di Monteroni e venisse infine battezzato nella Cattedrale di Lecce il 7 giugno 1800.

I mesi invernali a cavallo tra il 1799 e il 1800 furono contraddistinti dalla feroce repressione verso gli esponenti di parte repubblicana e da una situazione di generale miseria: “Li furti si sentono spesso finanche vicino alle porte della città. Il denaro è scarsissimo e la fadica manca”.

 

Ancora truppe russe in città

Il 19 marzo 1800 sbarcarono a Otranto altri 2000 soldati russi. Ancora una volta, i venti non avevano consentito loro lo sbarco a Brindisi. Il 23 marzo fecero il loro ingresso a Lecce, alloggiati tra il castello e diversi monasteri della città. Il quartier generale venne posto presso il convento dei Teresiani Scalzi, edificio che fa ancora bella mostra di sé lungo via Libertini. Il comandante del contingente fu ospite del preside Luperto, mentre Micheroux, che da Napoli era tornato a Brindisi, venne anch’egli a Lecce e fu ospitato dal marchese Palmieri.

Da parte di molti cittadini illustri fu richiesto alle truppe russe di “esibirsi” in esercitazioni militari fuori le mura e questo avvenne il 28 nello “spazio di Santa Maria di Ogni Bene” (quindi nei pressi del convento degli Agostiniani). Per tre ore e mezzo seicento soldati eseguirono le manovre sotto gli sguardi curiosi ed entusiasti di nobili e popolo.

In quegli stessi giorni apparve evidente che tra le truppe russe serpeggiava un’epidemia: da Otranto giunsero una novantina di infermi che, sommati a quanti già si trovavano a Lecce, fecero ascendere a 128 il numero dei soldati moscoviti ricoverati nell’ospedale cittadino. Si cominciarono a contare anche i morti, che furono quattro tra il 29 marzo e il 17 aprile. I funerali venivano officiati nella Chiesa Greca, seguendo un suggestivo rituale descritto nei dettagli da Buccarelli: “La processione era questa. Prima un soldato Moscovita andava avanti, e portava la croce, dopo veniva un chierico che portava l’incenziero in mano; di poi seguivano pontificalmente vestiti il parroco greco ed il loro cappellano, con un altro di loro soldato veterano, il quale portando un libro in mano andava cantando ad alta voce col di loro cappellano, ed il prete greco. Dopo di questi veniva il defonto in una cassa condotta da quattro soldati della sua Nazione, e dopo di questi venivano ad accompagnarlo da circa venti soldati a due a due portando tutti l’armi al funerale, col tamburro e clarinetta tutti scordati. Arrivato in chiesa il cadavere si fecero dalli due sacerdoti greci d’unita col sopraddetto soldato veterano li funerali, e pria di inchiodare la sopra detta cassa del defunto tutti quelli soldati li baggiarono la bocca del defonto; di poi dal cappellano loro li fu sparsa una branca di ferro al defonto, fu inchiodata la cassa, e fu sepolto; in questo atto tutti quanti i soldati fecero la di loro scarica dell’armi e se ne andietero”. Per tutti e quattro i militi morti la sepoltura venne effettuata nella Chiesa Greca di Lecce.

Scena di funerale russo del XIX secolo.

 

Gli sbarchi di russi a Otranto non si fermavano: il 31 marzo giunse a Lecce un altro contingente. A Buccarelli la truppa parve “onorata”, temprata da ferrea disciplina: “l’officiali di essa sono troppo riggidi, e crudeli; anzi barbari ed inumani inclinati troppo alla ferocità; che a ogni frivolissima mancanza di un povero soldato li fanno consegnare 300, ed 800 lignate a spalle ignute, e senza pietà, e carità […]”.

Al tempo stesso le truppe, riunite e riorganizzate, riprendevano velocemente la marcia verso altre mete: il 3 aprile la quasi totalità dei russi lasciò Lecce, chi disse che fossero diretti a Napoli, chi a Palermo. Non si mossero però i 40 infermi ancora ricoverati presso l’ospedale e per assisterli restarono anche un ufficiale, un chirurgo e alcuni uomini di truppa. Una volta ristabilitisi, il 21 luglio quasi tutti ripartirono per Napoli; restarono ancora a Lecce un ufficiale affetto da idropisia e un soldato non ancora guarito, e inoltre il chirurgo e un altro militare addetti alle loro cure. L’ufficiale sarebbe infine morto l’8 agosto.

Furono questi gli ultimi russi ad abbandonare, in un modo o nell’altro, la città. Una presenza che non lasciò ricordi profondi per la sua breve durata e che, in ogni caso, per le popolazioni risultò molto più sopportabile di quella ottomana. Sicuramente suscitarono ammirazione e curiosità l’aspetto di quei militi venuti dal freddo, la loro rigida disciplina e i loro peculiari cerimoniali religiosi.

 

Le occupazioni militari non si fermano…

In quel periodo di guerre e rivoluzioni, non fu quella l’ultima presenza di truppe straniere in Salento. Presto sarebbero tornati i francesi. Potremmo anche concludere qui, dicendo che questa è un’altra storia, ma sarà bene riassumerne anche solo sommariamente gli aspetti principali, per coglierne analogie e differenze con la precedente occupazione russo-turca.

Già alla fine dell’aprile 1801, in seguito alla pace di Firenze tra il re di Napoli e Bonaparte che prevedeva lo stanziamento di truppe francesi a Pescara e in Terra d’Otranto per un anno a spese dei Borboni e l’amnistia per i “rei di Stato” del 1799, sbarcarono a Taranto le prime truppe francesi. L’occupazione francese di Lecce e della sua provincia si protrasse fino a giugno 1802: “L’estorsioni, sevizie, ed oppressioni fatte […] a questa nostra città sono state grandissime e moltissime”, scrive Buccarelli. Ritornarono nuovamente nel luglio 1803, seguiti nel dicembre da “truppa gesarpina e polacca”. “Gesarpina”, ossia cisalpina, designava una milizia proveniente dall’omonima repubblica dell’Italia settentrionale: Buccarelli, con un certo disprezzo, la dice composta da “veneziani, genovesi, romani, siciliani, napoletani, leccesi e di molte altre nazioni, quali nel tempo delle rivoluzioni si son ribellati, quali poi scappati dalla galera, quali dalle carceri, chi per omicidi, chi per furti, ed altri delitti commessi si sono poi rifuggiati per sfuggire il castigo dei loro rispettivi Sovrani sotto la bandiera francese”. Numerosi (svariate centinaia) al seguito dei francesi furono anche i polacchi, che ai cittadini leccesi in quel momento sicuramente ricordarono nell’aspetto gli occupanti russi di pochi anni prima.

Uniformi della Repubblica Cisalpina.

 

Quella seconda occupazione si concluse nell’autunno del 1804, in seguito a un nuovo accordo tra Bonaparte e Ferdinando IV. Presto i francesi sarebbero tornati ancora, questa volta più stabilmente, spodestando il Borbone e governando il Regno di Napoli per dieci anni.

Tornando al presente, e guardando alla nostra regione oggi così pacifica e accogliente, non possiamo non leggere con un certo sollievo e distacco quei fatti, ormai sepolti sotto la polvere dei secoli. Eventi che dipingono un Salento sotto il flagello di divisioni violente, di occupazioni straniere, di saccheggi, di governanti dispotici e di oppressione e miseria. Un quadro desolante che non ci appartiene più, ma che continua ad essere lo scenario quotidiano per le popolazioni inermi travolte dai tanti conflitti che ancora oggi scoppiano in angolo del mondo. Nulla ha imparato l’umanità dalle tragedie del passato e in particolare da quel “Secolo dei Lumi” di cui abbiamo parlato, il secolo in cui Voltaire condannava la guerra come un mostro voluto da “tre o quattrocento persone sparse sulla superficie del globo sotto il nome di principi e ministri, il suo scopo principale è “fare tutto il male possibile”.

 

Lecce, Piazza Sant’Oronzo nel 1700

 

Bibliografia essenziale

E. Buccarelli, “Cronache leccesi ossia libro di memorie (1711-1807)” (a cura di N. Vacca), Lecce, 1933

A. Dumas, “I Borboni di Napoli”, Napoli, 1862

B. Maresca, “Il cavaliere Antonio Micheroux nella reazione napoletana del 1799”, Napoli, 1895

P. Palumbo, “Risorgimento Salentino”, Lecce, 1911

Truppe russe a Lecce. Correva l’anno 1799… (II parte)

di Davide Elia

 

Il Salento e la Repubblica

Quali erano stati in Terra d’Otranto gli effetti di tutti quei rivolgimenti? La notizia della proclamazione della repubblica a Napoli giunse a Lecce con la posta dell’8 febbraio. Il giorno dopo fu eretto l’albero della libertà in piazza Sant’Oronzo. In numerosi centri del Salento si ebbero analoghi festeggiamenti e manifestazioni di carattere anti-borbonico.

Lecce, Piazza Sant’Oronzo nel 1700

 

L’infatuazione repubblicana ebbe però vita breve: già l’indomani si erano spase voci di presunti prodigi compiuti da svariate immagini sacre in tutta la provincia, ricondotti dalla credulità popolare ad un moto di disgusto da parte del divino nei confronti del nuovo regime ateo e giacobino. Tra questi, il clamoroso segno dato dalla statua di Sant’Oronzo che, si disse, dall’alto della sua colonna aveva deciso voltarsi sdegnosamente per distogliere lo sguardo dall’albero della libertà. Questo bastò a provocare una sollevazione popolare che abbatté l’albero e ripristinò a Lecce l’obbedienza alla monarchia. Violento fu l’accanimento su coloro che in città erano stati i protagonisti dell’effimera proclamazione della repubblica.

 

Una sceneggiata ben riuscita

In quegli stessi giorni stava iniziando la singolare, per certi versi inverosimile impresa di un gruppo di avventurieri corsi. Una vicenda così grottesca da essere ripresa innumerevoli volte da storici e narratori; pertanto qui ci limiteremo a riassumerne soltanto i contorni principali. Erano sette poco di buono che avevano abbandonato la Corsica, ormai possedimento della Francia rivoluzionaria, per sfuggire alla giustizia e si erano dapprima stabiliti a Napoli, dove avevano abbracciato la causa legittimista. Tra di loro, spiccarono i nomi di Giovan Battista De Cesari, domestico, Francesco Boccheciampe, soldato disertore, e Raimondo Corbara, vagabondo. I sette si erano poi portati in Puglia per scortare fino all’Adriatico due principesse francesi di sangue reale che cercavano un imbarco per Palermo per fuggire dalla rivoluzione. Proprio in Puglia essi decisero di trattenersi in cerca di fortuna. Mentre erano di passaggio a Monteiasi, nacque per la prima volta tra il popolo la diceria che si trattasse di un gruppo di aristocratici. Poco dopo, il 14 febbraio, in una Brindisi in rivolta contro l’effimero governo repubblicano, Corbara venne scambiato per il principe ereditario (il futuro re Francesco I), a causa di una lontana somiglianza. Constatato l’entusiasmo che la presenza del presunto principe aveva suscitato in città e i vantaggi che avrebbe potuto portare alla causa legittimista mettendo a frutto la credulità delle masse, questa sceneggiata fu subito salutata con favore e sostenuta con convinzione dalla fazione realista. L’equivoco fu ulteriormente alimentato stabilendo che Boccheciampe e De Cesari si sarebbero a loro volta fatti passare rispettivamente per il fratello del Re e per il Duca di Sassonia. I corsi si spartirono anche compiti operativi per l’immediato: De Cesari e Boccheciampe, presentandosi con il titolo di “Incaricati di Sua Maestà”, avrebbero agito per il ristabilimento dell’ordine nella provincia, mentre Corbara, per evitare di restare troppo a lungo a Brindisi con il rischio di essere smascherato, si sarebbe recato a Corfù, dove era presente una squadra navale russa, per richiederne l’intervento contro la repubblica.

Imbarcatosi da Otranto il 19 febbraio, il Corbara non raggiunse mai l’altra sponda dell’Adriatico, poiché la sua imbarcazione fu catturata dai pirati barbareschi. Condotto in prigionia, fu infine liberato in Sicilia per intercessione degli inglesi e non prese più parte alle vicende di Terra d’Otranto.

Intanto, Boccheciampe e De Cesari capitanavano la controrivoluzione nel brindisino, reclutando milizie volontarie e intervenendo nei vari centri in cui scoppiavano sommosse popolari avverse alla repubblica. In quei giorni in Puglia non era ancora giunto un solo soldato francese.

 

Russi e Turchi alla presa di Corfù

Dicevamo che Corbara avrebbe voluto raggiungere Corfù per abboccarsi con i russi. In quel momento, l’antica fortezza veneziana dell’isola, ora in mano francese, era infatti assediata dalle forze coalizzate di Russia e Impero Ottomano, le cui squadre navali erano comandate, rispettivamente, dagli ammiragli Ushakov e Kadir bey. Il sultano era in guerra con la Francia poiché questa aveva attaccato l’Egitto, suo possedimento nominale. Per lo zar, invece, il casus belli era stato l’espulsione da Malta dei cavalieri dell’Ordine di San Giovanni, di cui era formalmente il Gran Maestro, operata da Napoleone di passaggio sulla via dell’Egitto. Il Regno di Napoli aveva sottoscritto un’alleanza con la Russia già nel novembre precedente, e con l’Impero Ottomano a gennaio.

Pianta delle fortificazioni veneziane di Corfù nel 1780..

 

Il 15 febbraio da Palermo era partito per Corfù anche Antonio Micheroux, plenipotenziario di Ferdinando IV, di origini fiamminghe. Era stato incaricato dal sovrano di ottenere l’invio di un contingente russo per sedare possibili rivolte a Messina, la città siciliana maggiormente sospettata di covare malcontento verso la dinastia. Maria Carolina fantasticava l’invio di “almeno 3 mila russi a Messina, e poi gli altri faranno il loro sbarco sia in Puglia o in Calabria”; tuttavia da questi dovevano essere “esclusi i cosacchi, turchi, greci, albanesi non arregimentati”, ritenuti inaffidabili perché pericolosamente indisciplinati. Alle istruzioni che aveva fornito a Micheroux, però, il re aggiungeva che, definito l’accordo per il contingente da destinare a Messina, si sarebbe potuto chiedere ai russi ed anche ai turchi di inviare ulteriori truppe sul continente per combattere i francesi, e in quel caso sarebbe stato sufficiente “un grosso corpo di truppa di qualunque nazione, sia regolata, sia irregolata”. Sarebbe a dire che Ferdinando non badava a scrupoli pur di ottenere la riconquista del regno, incurante di far patire alle popolazioni l’invasione di soldatesche straniere, anche irregolari e pronte al saccheggio, e per di più appartenenti al nemico secolare, il Turco. Ricordiamo che ancora per tutto il secolo XVIII il meridione d’Italia era stato ancora funestato da incursioni piratesche provenienti da basi situate in territori nominalmente soggetti al sultano di Costantinopoli.

Giunto a Corfù, Micheroux dovette mestamente constatare la poca consistenza delle forze alleate che fronteggiavano i 3000 francesi asserragliati sull’isola. Sulle navi erano infatti presenti soltanto 1800 russi e, da parte ottomana, 3000 albanesi. Questi erano sudditi del noto Ali Pascià, governatore di Giannina che sarebbe passato alla storia per la sua ribellione al sultano nel 1820, ma che già in quel 1799 non faceva mistero di preferire una condotta autonoma e addirittura non mancava di manifestare simpatia per i francesi e per le idee di cui erano portatori.

L’ammiraglio russo Ushakov.

 

L’emissario borbonico prese atto delle accuse reciproche degli alleati: i turchi rimproveravano a Ushakov, cui spettava il comando congiunto, una certa inazione; l’ammiraglio russo, di contro, si lagnava per il mancato arrivo di consistenti truppe albanesi di rinforzo, promesse con la consueta leggerezza dagli ottomani. Dopo innumerevoli rinvii, reticenze e reciproci sospetti tra gli alleati, l’assalto a Corfù venne dato il 1° marzo. Un efficace cannoneggiamento dalle navi consentì poi lo sbarco delle truppe, che in breve ottennero la capitolazione della guarnigione francese: mentre i russi combatterono lealmente e risparmiarono i nemici che si arrendevano, le milizie ottomane compirono una carneficina (“mozzano il capo indistintamente ai morti, ai feriti e ai vivi”).

L’atteso sblocco delle operazioni che sarebbe dovuto seguire alla presa di Corfù non fu né immediato, né consistente come sperato. Micheroux si adoperava perché le due flotte si presentassero davanti alle coste pugliesi per infondere coraggio nelle città di fede realista (e in tal senso giungevano a Corfù richieste da comuni pugliesi come Trani, Brindisi, Lecce e Otranto), prima di proseguire alla volta di Messina. Nulla però era ancora deciso allorché Micheroux, il 10 marzo, ripartì per Palermo, dove arrivò il 19 successivo. In Sicilia l’inviato ebbe modo di comprendere che la corte borbonica non era affatto interessata allo sbarco in Salento di truppe turco-russe, che avrebbero dovuto essere unicamente impiegate per la riconquista di Napoli; nessuna rilevanza veniva data alle province pugliesi, per le quali sarebbe bastata un’azione dimostrativa della flotta di fronte alla costa.

A Micheroux, tornato nuovamente a Corfù il 9 aprile, Ushakov fece tuttavia sapere che un trasporto di truppe via mare fino a Napoli sarebbe stato troppo dispendioso e la via più ragionevole da seguire sarebbe stata piuttosto quella di uno sbarco sulle coste pugliesi e una prosecuzione della marcia via terra.

Il 13 aprile partì una squadra navale composta da 5 legni: una corvetta e due fregate russe, una corvetta e un brik tripolino, quest’ultimo praticamente un’imbarcazione pirata e, come tale, “regalo” che Micheroux trovò alquanto indigesto. A bordo, sotto il comando del commodoro Aleksandr Sorokin, erano trasportati 250 soldati russi, un numero non inferiore di marinai e 10 cannoni.

Durante la navigazione, la squadra incrociò un’imbarcazione di emissari otrantini, i quali portarono la notizia della caduta di Brindisi ad opera di una spedizione francese partita da Ancona. Boccheciampe, che aveva guidato la difesa della città, era stato preso prigioniero e da quel momento di lui si persero per sempre le tracce.

(continua)

per la I parte vedi:

Truppe russe a Lecce. Correva l’anno 1799… (I parte) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

Truppe russe a Lecce. Correva l’anno 1799… (I parte)

di Davide Elia

I drammatici eventi delle ultime settimane hanno riportato d’attualità quella “minaccia russa” che da secoli – almeno dai tempi di Pietro il Grande – ha costituito a più riprese una fonte di apprensione per i popoli europei.

Da un lato, per ridimensionare questa preoccupazione, si potrebbe ricordare che per l’Europa occidentale, a conti fatti, la minaccia non è mai giunta a concretizzarsi in un’invasione permanente. Dall’altro, però, occorre tenere presente che l’arrivo di truppe russe in Occidente si è comunque verificato in un paio di occasioni ai tempi delle guerre napoleoniche.

La prima, in occasione della guerra tra la Francia e la seconda coalizione, cui aderirono Austria, Russia, Gran Bretagna, Impero Ottomano, Regno di Napoli e Portogallo, contestualmente alla spedizione di Bonaparte in Egitto. Di quella guerra si ricordano ancora le brillanti vittorie del generale Suvorov al comando dell’armata austro-russa inviata a scacciare i francesi dall’Italia settentrionale nel 1799. La seconda si ebbe quando gli eserciti della sesta coalizione, guidati dello zar Alessandro I in persona, giunsero a occupare Parigi nella primavera del 1814, mentre Napoleone si incamminava verso l’abdicazione e l’esilio all’Isola d’Elba.

L’entrata di Suvorov a Milano nel 1799.

 

I fatti del 1799 investirono in pieno anche il meridione d’Italia, quel regno borbonico che era membro della seconda coalizione e che da essa ricevette un sostanziale apporto per abbattere la Repubblica Napoletana e ristabilire l’“ordine” precedente. In quel frangente storico si verificò il passaggio di truppe russe, e non solo, sul suolo della Puglia e della Terra d’Otranto in particolare.

Proveremo qui a rievocare questa presenza di cui pochi oggi sono al corrente, ma prima occorrerà delineare il contesto storico di quel turbolento fine XVIII secolo.

 

Nasce la Repubblica Napoletana

Negli anni della Rivoluzione Francese, la coppia di sovrani napoletani, Ferdinando IV di Borbone e Maria Carolina d’Asburgo, si era dimostrata, com’era naturale aspettarsi, avversa a ogni anelito di rinnovamento ispirato alle idee e agli avvenimenti d’Oltralpe. Essi si ersero apertamente a campioni del legittimismo e dei valori della religione e della tradizione, in una parola di tutto l’apparato dell’ancien régime che pure a Napoli come in molte altre capitali europee sino a pochi anni prima si era cercato di riformare, sia pur con cautela e a fatica.

Dopo che in Italia settentrionale le prime campagne napoleoniche avevano dato origine alle prime “repubbliche sorelle” di quella francese (la più famosa fu quella Cisalpina del 1797), la rivoluzione venne portata dai Francesi anche in casa del Papa. La Repubblica Romana fu proclamata nei primi mesi del 1798, mentre Pio VI veniva tradotto in prigionia. Per Ferdinando IV si prospettava l’occasione di regolare i conti con la rivoluzione, ormai giunta ai confini del suo regno: il 28 novembre 1798 l’esercito borbonico invase il territorio della Repubblica e meno di dieci giorni entrava a Roma con Ferdinando alla sua testa, senza aver incontrato una resistenza di qualche rilievo.

L’occupazione napoletana di Roma, tuttavia, durò meno di una settimana: la controffensiva francese non si fece più attendere e fu così immediata ed efficace che Ferdinando dovette battere in ritirata, che presto divenne una rotta, e infine un tracollo. Il Borbone, rientrato nella sua capitale ormai minacciata dalle truppe del generale francese Championnet, preferì infine rifugiarsi sulla nave dell’ammiraglio Nelson che lo trasportò fino a Palermo. Dopo un breve momento di anarchia contraddistinto dalla lotta tra la fazione realista e quella filo-francese, quest’ultima prevalse e proclamò la repubblica (23 gennaio 1799).

Il cambio di governo avvenuto nella capitale non fu riconosciuto né immediatamente, né uniformemente nelle varie province del regno. L’adesione al nuovo regime si rivelò infatti episodica e frammentaria: molto dipese, in ciascuna località, dal sentimento della popolazione e dall’eventuale presenza di un’élite culturale di fede repubblicana, possibilmente sostenuta dalla presenza di un contingente militare francese. Di certo le plebi si rivelarono spesso ostili alla repubblica e in ogni caso, quale che fosse il bersaglio delle loro sollevazioni, diedero luogo a frequenti esplosioni di violenza incontrollata che destarono, a seconda dei casi, la preoccupazione dell’una o dell’altra parte in lotta.

Dipinto di chiara matrice filoborbonica raffigurante la marcia dell’armata sanfedista, guidata dal cardinale Ruffo a cavallo e protetta dall’alto da Sant’Antonio da Padova.

 

Facendo appello ai valori della religione tanto radicati nelle popolazioni, già l’8 febbraio il cardinale Fabrizio Ruffo cominciò ad organizzare, a partire dai suoi possedimenti in Calabria, l’embrione di quello che sarebbe diventato l’esercito della Santa Fede, l’armata che avrebbe restituito Napoli ai Borboni nel volgere di quattro mesi.

(continua)

Canto di Passione, la settimana santa nella tradizione popolare salentina

CANTO DI PASSIONE

a cura di Enza Pagliara, Dario Muci e Antongiulio Galeandro

 

VENERDI 8 APRILE Chiesa di Sant’Antonio, Nardò ore 20

SABATO 9 APRILE Teatro Comunale, Leverano ore 20

DOMENICA 10 APRILE Chiesa San Michele Arcangelo, Trepuzzi ore 20

 

Eventi organizzati da Nauna Cantieri Musicali in collaborazione con gli Assessorati alla Cultura del Comune di Nardò e Leverano e Don Emanuel Riezzo della parrocchia di San Michele Arcangelo di Trepuzzi

 

L’ idea di uno spettacolo sulla passione è sorta cantando, praticando i canti di tradizione orale. Risulta subito evidente che la poesia popolare raggiunge una delle sue più alte espressioni proprio nelle vicende che narrano la vita e la morte di Cristo. Teatro, canto, poesia mai come in questa vicenda si incarnano una nell’altra. “Canto di Passione” è la visione portata dalle cantrici e dai cantori tradizionali sugli ultimi momenti della vita di Gesù. Un racconto che si srotola tra le parole e le incantazioni, lungo un percorso in cui i testi si rincorrono e si sorpassano in un dinamismo che è a un passo dal silenzio. Lo incontra e subito lo perde.

Nei testi dei canti è possibile guardare, attraverso il proprio sgomento, lo sgomento di Gesù uomo, individuato nell’urlo sulla croce di fronte alla morte. Solo di fronte alla morte. Solo nella sua condizione umana e carnale con la propria responsabilità e tragica consapevolezza.
I canti viventi vengono dal Salento, dalla Puglia, dalla Sicilia, dal Lazio dalla Toscana e dalla Corsica.

“Canto di Passione” è un omaggio alle tante contadine, contadini o semplicemente donne uomini che fino a oggi hanno ricordato, trasmesso, custodito, espresso, urlato, pianto e riso il cantare.

 

 

FORMAZIONE

Enza Pagliara: voce, tamburo

Dario Muci: voce, chitarra

Antongiulio Galeandro: fisarmonica

 

ACCESSO AL CONCERTO
L’accesso avverrà nel rispetto assoluto delle norme anti covid (aggiornate al 1aprile)
Ingresso gratuito fino ad esaurimento posti. Apertura porte ore 20.00

 

Contatti:

naunacm@gmail.com

3298483493

 

Sito:

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Social:

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“Nauna Cantieri Musicali” è una etichetta indipendente che rievoca l’antica denominazione dell’attuale Santa Maria al Bagno, la bellissima località sullo Ionio, in provincia di Lecce; è nata all’interno dell’omonima associazione culturale con il fine di pubblicare sia documenti etnomusicali e vocali raccolti nell’area salentina, sia opere di riproposta, più complesse, che coniugano la meticolosa cura dei repertori con un progetto artistico originale. Le anime e le voci di questo programma sono Dario Muci ed Enza Pagliara, ricercatori e musicisti ampiamente noti nel panorama della musica popolare, decisi a cercare una nuova direzione in cui orientare il frutto delle indagini sul campo e delle esperienze maturate nella loro attività.

 

Nauna produce nel 2018 “Marea” di Enza Pagliara e Dario Muci, e “Canti narrativi a Nardò” delle Sorelle Gaballo. Nel 2020 pubblica “Suddissimo – Omaggio a M. Salvatore e A. Doriani” e realizza una ricerca sul campo a Otranto, dando vita al Coro Popolare di Terra d’Otranto. Nel 2021 è impegnata alla realizzazione del disco “A te sarò per sempre” di Miro Durante e Pubblica sulle piattaforme digitali i primi due volumi dedicati alla Barberia, la musica delle sale da barba nel Salento. Coo-produce con ZeroNoveNove lo spettacolo in streaming di Enza Pagliara dal titolo Simpatichina e con Moscara Associati e Nostos Produzioni progettano un “viaggio, un documentario e un libro fotografico” dal titolo Sulla via Francigena il cammino degli Asini Dotti.

 

Penisola salentina romana

di Nazareno Valente

Ogni moneta ha facce antitetiche, ciascuna tuttavia legata in maniera inscindibile all’altra ed utile nell’insieme a caratterizzarne il valore. Così anche la rete, tanto ricca di notizie da saper informare su qualsiasi questione si voglia, è duplice e contrapposta, avendo anch’essa il rovescio di questa sua medaglia. Per una naturale questione di copyright, sul web girano infatti per lo più testi ed articoli datati che presentano una preziosa visione di come si siano evolute le conoscenze di uno specifico settore ma che rischiano, se letti senza considerare che moltissima acqua è passata sotto i ponti, di prendere per buoni concetti ed ipotesi ormai vecchi e superati. E ciò risulta particolarmente vero per le antichità, dove i lavori recenti e specialistici consultabili in rete sono quasi del tutto assenti ed abbondano, invece, quelli dei secoli scorsi che, se assorbiti senza spirito critico, rischiano di far aderire a teorie a cui gli studiosi non credono più da tempo.

 

Le teorie obsolete rivitalizzate da Wikipedia

Un significativo riscontro di come si possa essere portatori di posizioni ormai demodé, si ha leggendo alcune schede sull’antichità di Wikipedia nelle quali, ad esempio, è riportato che il Salento faceva parte della Magna Grecia, come si riteneva un paio, ed anche più, di secoli fa, oppure non ci si è neppure aggiornati sul fatto che a Brindisi, conquistata dai Romani,  fu dedotta una colonia latina.

Questo modo antiquato di valutare le cose, si aggiunge a certe inveterate abitudini culturali che fanno fatica a non avere una visione del mondo se non alla talebana. Ovverosia a vederlo o tutto bianco o tutto nero, senza la neppure più lontana parvenza di sfumature di grigio, oppure ripartito tra cattivi, sino all’ultima nascosta piuma, e buoni, in maniera tale da fare persino concorrenza ai santi. Non per niente, qualsiasi cosa facessero i Romani e, soprattutto, i Greci era considerata giusta e sacrosanta; ed ogni loro pur impalpabile vezzo rientrava nel disegno più generale tracciato dall’inviolabile progresso. Sicché, per indicare chi o ciò che era diverso dall’essere greco, s’adoperavano termini negativi, ed ancora adesso si parla di lingue anelleniche, di ambiti anellenici, di popolazioni anelleniche, dove quindi quel che è indigeno è caratterizzato dal fatto di non essere greco.

Sarà per questo spontaneo innamoramento per i popoli alla moda che molti preferirebbero tuttora essere gli epigoni dell’ultimo dei Mohicani, e quindi posizionarsi tra i collaborazionisti — in pratica sentirsi dire che il Salento era Greco trovandosi in Magna Grecia — piuttosto che gli eredi del cattivo Magua il quale, invece, lottò per salvaguardare le proprie radici, come agli effetti pratici fecero i nostri antichi concittadini brindisini ed i Salentini tutti che si opposero con parziale e sostanziale successo alla colonizzazione greca, difendendo la propria identità culturale. Quello stesso successo che, invece, non arrise quando toccò ai Romani di venire a pretendere le nostre terre.

Allo stesso modo, internet e certa parte della cronachistica delle nostre parti trasudano amore per la colonizzazione greca e, di conseguenza, per l’arrivo dell’aquila romana, sicché, se qualcuno volesse informarsi ad esempio sulla cittadinanza romana, scoprirebbe che essa è quasi sempre qualificata per “prestigiosa” o con altra espressione enfatica che rinvia immancabilmente agli stereotipi imposti dal periodo fascista, dove la romanità faceva tendenza. Tanto per ricollegarsi alle teorie, valide nei secoli scorsi, che la rete fa recuperare e, complice la nostra passività nell’analisi, fa credere ancora attuali e degne d’un qualche credito.

 

Non sempre la cittadinanza romana fu ritenuta “prestigiosa”

Se invece di dipendere solo da Wikipedia, si volesse talvolta dare un’occhiatina pure alle opere degli autori antichi, magari qualche dubbio sul prestigio incondizionato posseduto in antichità dalla cittadinanza romana potrebbe sorgere. Ad esempio Livio che, pur essendo un grande estimatore del mondo latino, riferisce un episodio alquanto curioso accaduto nel corso della seconda guerra punica (218-202 a.C.). Annibale sta prendendo il sopravvento, sobillando le città Italiche,  e Roma è in grossa difficoltà, quando  all’assedio di Casilinum (216 a.C.) i Prenestini si rendono protagonisti d’un valoroso gesto di fedeltà alla causa romana, arrendendosi ai Cartaginesi solo dopo aver combattuto sino allo stremo delle forze. Il senato romano per ricompensarli decreta doppio stipendio («Praenestinis militibus senatus Romanus duplex stipendium… decrevit»1) e offre loro la cittadinanza romano per le virtù dimostrate («civitate cum donarentur ob virtutem»2); i Prenestini accettano il denaro, rifiutando però compatti l’altra gratificazione: alla cittadinanza romana preferiscono la propria che, infatti, non ci pensano nemmeno di modificare («non mutaverunt»3). Ed i Prenestini non furono certo gli unici a mostrare poco interesse per un simile dono, tant’è che, a detta di Diodoro Siculo, un Cretese fece anche di peggio. Non solo respinse l’offerta fattagli della cittadinanza romana ma, per sovrappiù,  la derise dichiarando in maniera perentoria che i Cretesi consideravano la cittadinanza romana una solenne baggianata, cui essi preferivano di gran lunga qualcosa di più utile («Πολιτεία, φησί, παρὰ Κρησὶν εὐφημούμενός ἐστι λῆρος. τοξεύομεν γὰρ ἡμεῖς ἐπὶ τὸ κέρδος»4).

Va a questo punto ricordato che i Cretesi erano famosi per la dubbia moralità e per l’attaccamento al soldo, come per altro non si può negare che l’essere Romani comportasse indubbi benefici che rendevano una simile condizione giuridica a volte appetibile. Ma non sempre. E certo non era proprio così, quando l’Urbe intraprese la sua politica espansionistica.

 

Come Roma strutturava le comunità vinte

Inizialmente Roma era solita incorporare i territori dei popoli vinti qualificandoli giuridicamente come ager pubblicus (agro pubblico), vale a dire come suolo appartenente allo Stato da destinare a vari scopi ma che non poteva divenire di proprietà privata, salvo espressa disposizione legislativa. Successivamente adoperò strumenti giuridici che non obbedivano a schemi rigidi ma valutati, caso per caso, in maniera pragmatica secondo gli interessi del momento.

Riguardo al territorio italico che si andava acquisendo, si seguirono fondamentalmente tre vie: l’incorporamento nello Stato romano, dopo aver privato le comunità preesistenti dell’autonomia politica (municipia); l’insediamento di comunità cittadine con la fondazione di una nuova città (coloniae); la stipula di accordi (foedera) che rendevano le comunità preesistenti alleate dell’Urbe entrando esse a far parte d’una specie di stato federativo.

Quest’ultimo era il sistema maggiormente impiegato nel periodo in cui la Calabria — così i nostri antichi corregionali chiamavano la terra da noi denominata  Salento — fu conquistata (266 a.C.) e che fu appunto adoperato per tutte le città salentine le quali infatti stipularono con Roma un accordo (foedus). L’unica eccezione riguardò Brindisi per la quale fu scelta la deduzione di una colonia di diritto latino.

 

Ciascuno dei sistemi indicati aveva vantaggi e svantaggi, inoltre, all’interno dello schema generale, ogni comunità poteva vedersi accordati minori o maggiori benefici. Tutto dipendeva da come si era comportato il popolo conquistato nei confronti dei Romani. In linea di principio, più ci si era opposti alla conquista e maggiori erano gli oneri imposti alla comunità; viceversa chi aveva accettato senza reagire il potere romano, riusciva a spuntare condizioni migliori.

Così, ad esempio, se organizzati in municipia, che dava luogo alla perdita dell’autonomia ma alla concessione della cittadinanza romana, nel primo caso questa la si otteneva svuotata degli effetti politici in quanto senza titolo a votare e ad aspirare alle cariche pubbliche (sine suffragio et iure honorem); nel secondo la si conseguiva a pieno titolo, al pari di un qualsiasi abitante dell’Urbe (cives optimo iure). E certamente la prima, quindi quella priva dei diritti politici, sarebbe stata la formula adottata nei confronti dei nostri antichi corregionali, qualora fossero stati inquadrati nei municipia, per il semplice fatto che non si erano sottomessi senza combattere. D’altra parte anche se avessero ottenuto la cittadinanza a pieno titolo, avrebbero avuto grande difficoltà ad esercitare i diritti politici, visto che si votava a Roma ed un viaggio di andata e ritorno richiedeva quasi un mese per essere completato, e che sarebbero dovuti comunque andare a Roma in occasione dei censimenti predisposti con scadenza quinquennale. Per cui essere organizzati in municipia5, con una cittadinanza limitata in ogni caso nei suoi principali contenuti, avrebbe voluto dire farsi carico dei soli svantaggi derivanti da una simile organizzazione. In pratica, a nessun nostro corregionale sarebbe venuto in mente di diventare allora cittadino romano, per il semplice motivo che un tale stato giuridico avrebbe comportato solo oneri e scarsi benefici pratici. In conclusione il foedus era con ogni probabilità una soluzione di gran lunga migliore.

Ma, come già detto, c’erano diversi tipi di foedera. Gli storici dell’antichità, in genere di parte romana,  qualificano unicamente quelli vantaggiosi con i termini di aequa, come l’accordo stipulato con Napoli; aequissima, quello riguardante Camerino e, aequissimum et prope singulari, cioè a dire particolarmente favorevole di cui aveva fruito Eraclea. Tuttavia, nella loro stragrande maggioranza, tali accordi non erano poi tanto “equi” e salvaguardavano prevalentemente gli interessi romani. Per quanto le fonti narrative non li caratterizzano, ci hanno pensato gli studiosi a parlare di  foedera iniqua, con cui per lo più Roma imponeva un limite alla sovranità delle città conquistate i cui cittadini divenivano così alleati (socii o foederati) dell’Urbe, in condizione però subordinata.

Il foedus nondimeno consentiva alle comunità di conservare la propria cittadinanza, le proprie leggi ed i propri ordinamenti, oltre ad una estesa autonomia di carattere amministrativo-finanziario, essendo loro lasciata l’autorità di battere moneta. Rinunciavano però — e questa era la parte iniqua — a svolgere una propria politica estera (ius belli ac pacis) rimettendosi così del tutto alle decisioni prese in merito dai Romani (servare maiestatem populi Romani). In pratica si acquisivano gli amici dell’Urbe, insieme ai loro nemici e non se ne potevano avere di propri. Nel caso dell’insorgere d’un conflitto, che solo Roma poteva avviare, c’era poi l’obbligo di fornire un contingente di truppe prefissato che operava, in posizione subalterna, nei reparti ausiliari dell’esercito romano.

Erano questi gli accordi più usuali che s’imponevano ai socii, e a queste clausole si conformarono, con le inevitabili varianti del caso quelli firmati dalle città salentine6.

Come già ricordato, l’unica che non si federò con Roma fu Brindisi, dove fu dedotta una colonia di diritto latino. Ed era questa la formula giuridica probabilmente più vantaggiosa a quell’epoca. La città ottenne questa posizione di privilegio, grazie al suo porto ed alla sua collocazione strategica, ma pure per questioni che non è qui il caso d’indagare.

Le colonie, la cui funzione prevalente era di carattere militare, ma pure un modo per diffondere la romanità, erano di due tipi: quelle romane (coloniae civium romanorum), dove chi partecipava conservava la cittadinanza romana, e quelle di diritto latino (coloniae latinae), dove i Romani che vi partecipavano dovevano espressamente richiedere di diventare Latini e registrarvi il proprio nome («qui cives Romani in colonias Latinas proficiscebantur fieri non poterant Latini, nisi erant auctores facti nomenque dederant»7), perdendo così la cittadinanza romana.

Le colonie romane erano dedotte con lo scopo principale di creare dei presidi sulle coste prossime al territorio romano; quelle latine per controllare i punti di maggiore rilevanza strategica in zone da poco conquistate e magari ancora non del tutto pacificate. Le diversità si riflettevano nei rispettivi assetti: i coloni romani, facendo parte d’un presidio cittadino, non potevano allontanarsi dalla colonia, se non per periodi limitati, non erano soggetti alla leva, non potevano emettere moneta ed avevano un’organizzazione istituzionale che si rifaceva a quella dell’Urbe; i coloni latini avevano, al pari dei socii Italici, l’obbligo di fornire un contingente militare quando Roma lo richiedeva, secondo l’elenco dei togati (formula togatorum8, vale a dire degli uomini in età per compiere il servizio militare) e di non stipulare accordi con altre città. Le colonie latine avevano, però, la particolarità di beneficiare di un’ampia autonomia interna che consentiva loro anche l’attività giurisdizionale, oltre all’adozione  d’un proprio statuto, di propri organi ed alla possibilità di battere moneta. Il diritto latino consentiva inoltre di contrarre iustae nuptiae con i cittadini romani (ius connubii, il che garantiva alla prole la fruizione dei diritti civili) e di commerciare con essi (ius commercii, per cui erano titolati a ricorrere al pretore, per tutelare i propri atti negoziali); probabilmente di acquisire la cittadinanza romana previo trasferimento a Roma (ius migrandi) ma con l’obbligo di lasciare nella città d’origine un figlio per non depauperare la colonia; di votare, se ci si trovava in quel momento a Roma, con la tribù che veniva di volta in volta sorteggiata («sitellaque lata est ut sortirentur ubi Latini suffragium ferrent»9). Non consentiva invece, almeno in quel periodo, lo ius honorum, vale a dire la possibilità di concorrere per le magistrature romane. Al pari delle città federate, anche le colonie non potevano svolgere atti di politica estera e avevano l’obbligo di  assistere Roma in qualsiasi attività militare questa intendesse avviare, fornendo, come già riportato, il contingente di truppe richiesto.

Con tutti gli indubbi problemi iniziali che la deduzione a colonia latina comportava sia per i Romani, costretti a rinunciare alla cittadinanza romana in quanto si acquisiva quella latina, sia per i locali, a causa della preliminare ristrutturazione della città che comportava una ridefinizione delle proprietà, essa rappresentava in ogni caso la soluzioni con le migliori prospettive future. Prospettive che Brindisi sfruttò appieno divenendo, proprio grazie alla configurazione giuridica allora adottata, dapprima uno dei più importanti centri della Repubblica romana e poi una delle maggiori metropoli nel periodo imperiale.

Sarà in aggiunta che i Romani non si fidavano troppo dei Tarantini ma il porto di Brindisi soppiantò del tutto quello di Taranto nelle funzioni militari e commerciali, divenendo di fatto il tramite privilegiato per l’Oriente. Taranto seppe però conservare la reputazione di città culturale e divenne un centro residenziale ambito dalle classi intellettuali agiate che vi costruirono case e ville signorili.

In definitiva a Brindisi andò di lusso e non andò male neppure alle altre città salentine: in fondo Roma si atteggiava come il buon pastore che tosa le sue pecore con riguardo, sapendo che, se le scorticasse, sarebbe il primo a perderci. Per questo motivo, ove possibile, i Romani sceglievano il tipo di organizzazione più congeniale agli interessi propri ma anche a quelli della comunità assoggettata.

 

A lungo andare gli alleati divennero sempre più dei sudditi

Questa organizzazione rispettosa delle comunità conquistate andò comunque di lì a poco in crisi e, di conseguenza, le cose incominciarono a cambiare in peggio, soprattutto a causa di una circostanza del tutto straordinaria che si concretizzò una cinquantina di anni dopo, quando Annibale invase l’Italia nell’autunno del 218 a.C.

L’arrivo e gli iniziali successi del Cartaginese riaccesero le aspirazioni di indipendenza di quasi tutte le ex colonie greche e di molti popoli italici i quali, convinti che i Romani stessero ormai per soccombere, defezionarono schierandosi con i Punici. Tra i defezionisti Livio elenca i Campani, gli Atellani, i Calatini, gli Irpini, parte degli Apuli, tutti i Sanniti tranne i Pentri, i Bruzii, i Lucani e, oltre a questi, gli Uzentini e pressoché tutti i Greci della costa, tra i quali i Tarantini («Defecere autem ad Poenos hi populi: Atellani, Calatini, Hirpini, Apulorum pars, Samnites praeter Pentros, Bruttii omnes, Lucani, praeter hos Uzentini, et Graecorum omnis ferme ora, Tarentini…»10). La ribellione di Ugento è però molto incerta, essendo la sua inclusione nella lista dei rivoltosi quasi certamente dovuta ad un errore da parte d’un amanuense che ha sostituito gli Uzentini ai molto più probabili Surrentini, i quali, non a caso, sono indicati in altri manoscritti. Comunque sia, subito dopo, a Taranto s’accodarono altri centri salentini che, però, Livio non specifica indicandoli con disprezzo città insignificanti («Sallentinorum ignobiles urbes»11), senza lasciar capire se il tono usato fosse per minimizzare l’accaduto oppure per rimarcare il loro infedele comportamento.

È invece certo che Brindisi rimase fedele a Roma e si oppose con forza ad Annibale, tanto da essere espressamente citata tra le diciotto colonie il cui aiuto consentì di far restare saldo il dominio romano e che, per questo, ricevettero il plauso ed i ringraziamenti in Senato e presso il popolo («Harum coloniarum subsidio tum imperium populi Romani stetit, iisque gratiae in senatu et apud populum actae»12).

Altra cosa certa è che l’Urbe, passata la buriana, e ripreso il controllo della situazione, si vendicò del torto subito e usò la mano pesante nei riguardi degli alleati che avevano violato i patti, imponendo clausole ancor più restrittive nei foedera stipulati. In particolare Taranto, pur riuscendo ancora una volta a limitare i danni, si vide costretta a cedere parte del suo territorio. Qui, a nord della città, in una zona strategica dell’antica periferia greca che dava diretto accesso al porto del Mar Piccolo, Roma fondò nel 123 a.C., con plebiscito proposto da Caio Gracco, Neptunia, una colonia di diritto romano con l’intento di attuare un controllo più diffuso sulla cittadina ionica.

Allo stesso tempo il possesso della cittadinanza romana incominciò a far maturare benefici economici e fiscali ai suoi possessori, discriminando sempre più gli alleati. E tale disparità di trattamento risaltava con grande evidenza in un’attività, come quella bellica, in cui i Romani e gli alleati operavano fianco a fianco. Pur partecipando attivamente alle azioni militari ed a tutti gli altri obblighi, gli alleati non godevano degli stessi vantaggi goduti dai commilitoni romani, proprio perché non fruivano della medesima cittadinanza. La disuguaglianza s’era andata accentuando già dal 167 a.C. quando, grazie al bottino ottenuto con la terza guerra macedonica, il tributum per mantenere l’esercito non fu più richiesto13 e, pertanto, i cittadini romani iniziarono a godere dell’immunità finanziaria14 mentre i socii e le colonie di diritto latino continuarono a dover sostenere le spese per l’arruolamento delle truppe che fornivano a Roma.

E le sperequazioni non erano solo di carattere monetario riguardando anche altri aspetti. Gli alleati erano ad esempio confinati nei reparti ausiliari, assoggettati a norme capestro, correndo anche il rischio d’essere condannati a morte dal console romano per un qualsiasi atto di insubordinazione, mentre, in analoghe situazioni, il legionario non poteva essere neppure sfiorato dalla frusta. Eppure il loro apporto andava aumentando: alla meta del II secolo a.C. i loro contingenti, uniti alle truppe fornite dalle colonie latine, erano in quantità pari a quello delle legioni romane; verso la fine dello stesso secolo erano addirittura corrispondenti al doppio. Ciononostante, sebbene il peso delle azioni belliche fosse sempre più addossato sugli alleati, questi si vedevano preclusa ogni possibilità di fare carriera nei ranghi dell’esercito romano e di avere al termine della ferma l’assegnazione di terre, come qualsiasi altro veterano romano.

La situazione s’inasprì ulteriormente con l’avvio, alla fine del II secolo a.C., della riforma dell’esercito che aveva come punto qualificante quello di far accedere alla carriera militare i capite censi (i nullatenenti). Una vera e propria rivoluzione in quanto, per la prima volta, le classi più umili si vedevano aperta la via all’arruolamento nell’esercito romano e, quindi, alla possibilità di partecipare al soldo ed ai vitalizi militari. Era questa un’opportunità unica di avanzamento sociale ed economico che, sino ad allora, era stata di esclusivo appannaggio della media borghesia. Tuttavia ne poterono beneficiare solo i cittadini romani, mentre gli Italici si videro preclusa anche questa occasione di sviluppo.

Di fatto, più passava il tempo e più gli alleati italici venivano trattati da sudditi, e questo alla lunga esacerbò gli animi creando una situazione esplosiva.

 

La guerra sociale

A dare fuoco alla miccia, fu un ulteriore episodio compiuto a danno degli alleati: Druso, il tribuno della plebe che aveva proposto di estendere la cittadinanza romana a tutta l’Italia15ad dandam civitatem Italiae»16), venne trovato ucciso il giorno stesso in cui il provvedimento doveva essere votato, proprio per impedire che l’iter legislativo giungesse a compimento. In precedenza anche il console M. Fulvio Flacco (125 a.C.) e poco dopo Gaio Sempronio Gracco avevano proposto invano l’estensione della cittadinanza romana alle città italiche federate ed alle colonie latine. Ma pure in quelle circostanze l’oligarchia romana s’era messa di traverso ostentando le maniere forti.

A questo punto molte delle città federate si resero conto di non avere altra scelta se non quella di prendere le armi e di muovere guerra a Roma.

In pratica, la cittadinanza romana, inizialmente con poche attrattive e quasi vissuta dagli Italici come un limite alla propria autonomia, divenne talmente ambita da spingere all’uso dei mezzi più estremi pur di ottenerla. Iniziò così nel 91 a.C. la sanguinosa rivolta, passata alla storia con il nome di “guerra sociale” perché, ad esservi coinvolti furono principalmente gli italici federati con Roma, i cosiddetti socii di Roma. I municipi che godevano già della cittadinanza romana — e che tra l’altro non avevano un proprio esercito — non avevano infatti  nessun interesse a prendervi parte. E allo stesso modo le colonie latine, con l’eccezione di Venusia, non aderirono alla rivolta e preferirono stare dalla parte dell’Urbe, il che testimonia che il regime giuridico fruito andava loro più che bene. Anche perché — va ricordato — i notabili delle colonie latine erano già stati per certi versi accontentati con la concessione dello ius adipiscendae civitatis Romanae per magistratum che consentiva di acquisire la cittadinanza romana a chi aveva ricoperto una magistratura locale17 e che, quindi, accordava loro questo beneficio per altra via.

Brindisi si schierò pertanto con Roma, e questo fu forse uno dei motivi che consiglio le altre  comunità salentine a fare altrettanto. Fa parte infatti delle fantasie «l’ultima grande ribellione guidata da Taranto nell’80 a.C.»18 di cui ci dà menzione Wikipedia in una delle sue schede più creative. Neppure Taranto osò infatti ribellarsi. Né poteva essere diversamente, considerato che di fatto aveva in casa un presidio romano, la già citata colonia romana Neptunia, pronto ad intervenire senza tante sottigliezze al minimo accenno di sollevazione.

La guerra sociale fu la prima occasione in cui trovò spazio il concetto di “Italia”, sia pur solamente inteso come comunità dei suoi abitanti. Infatti i rivoltosi, sebbene di etnie diverse, si autoidentificarono in questo nome e adottarono come proprio simbolo la figura del vitello/toro associato al nome dell’Italia. E questo emblema fu vissuto in funzione antiromana, come emerge con chiarezza nelle loro emissioni monetali in cui il toro assale e sconfigge la lupa, raffigurazione di Roma.

 

Dopo un anno in cui i risultati sul campo erano stati poco più che mediocri, mentre i dissapori interni, tra chi era favorevole a fare delle concessioni ai rivoltosi e chi considerava tale posizione un modo come un altro per sobillare ancor più gli Italici, aumentavano, comportando una pericolosa instabilità poi sfociata nella guerra civile, i Romani decisero che era meglio venire a più miti consigli. Approvarono pertanto la lex Iulia de civitate latinis (et sociis) danda (90 a.C.) con cui si concedeva la cittadinanza romana, non solo ai Latini ed agli alleati che non avevano preso le armi, ma anche a chi le avesse deposte entro un prefissato termine di tempo.

Questo dissuase le popolazioni incerte dall’entrare in lotta e creò dissensi tra gli stessi insorti.

Usando al tempo stesso carota (altri provvedimenti simili alla lex Iulia) e bastone (la spietata determinazione di Silla) si venne a capo della situazione e, di lì a breve, si riuscì a domare la sollevazione e tutte le popolazioni dell’Italia a sud della regione gallica cisalpina finirono per acquisire la cittadinanza romana.

Brindisi e le altre collettività salentine, che s’erano mantenute fedeli a Roma,  si videro pertanto assegnare la cittadinanza romana già nel 90 a. C. Questo avvenne certo a livello formale, mentre l’effettivo conferimento ebbe luogo solo qualche anno dopo (probabilmente nell’83 a.C.) in quanto, anche ai tempi dei romani, non si era del tutto liberi dalle pratiche burocratiche. Occorreva infatti censire i nuovi cittadini e ascriverli alle tribù esistenti, e questo portava via tempo.

Oltre ad integrare i nuovi cittadini nel corpo civile romano, la concessione della cittadinanza comportava anche il dover riorganizzare le città federate e le colonie latine in municipi, in quanto divenivano territorio romano. Bisognava quindi stabilire quali comunità avevano titolo ad essere elevate al rango municipale e quali a farvi parte in ruolo subordinato. Aspetto questo non certo banale — di cui si parlerà nel prosieguo soffermandosi sulle decisioni prese per le città salentine — perché i nuovi municipi avrebbero fruito di fondi per meglio garantire la loro urbanizzazione quando le altre località rischiavano, come di fatto per lo più avvenne, di essere confinate a restare zone tipicamente rurali. In questa trasformazione, c’era infine da decidere la caratterizzazione istituzionale dei nuovi municipi: magistrature, senati, assemblee cittadine e ripartizione delle relative competenze.

Proprio nell’espletamento di questi adempimenti di così varia natura, l’Urbe cercò di annacquare in una qual certa misura le concessioni fatte e di trarre comunque vantaggio da questa nuova situazione.

 

Eppure non tutti furono contenti di diventare romani

Tutti aspetti importanti, quelli appena enunciati, che per il momento però si tralasceranno per soffermarsi su una avvenimento, per certi versi curioso, a cui in genere non si dà peso e che invece merita d’essere riportato, non fosse altro per avere un quadro più realistico delle diverse posizioni assunte in merito dalle comunità coinvolte.

Come visto, la cittadinanza romana fu accordata a tutti: sia a chi aveva combattuto per ottenerla, sia a chi non l’aveva di fatto neppure richiesta. Questa circostanza viene sempre valutata nel senso che Roma, dopo aver concesso questo alto privilegio a chi aveva avviato la rivolta, non poteva non riconoscerlo anche a chi s’era mantenuto fedele, dando così per scontato che tutte le comunità avessero preferito questo nuovo stato giuridico a quello precedentemente goduto.

In effetti così non fu: alcune città, che non avevano partecipato alla rivolta, avrebbero preferito piuttosto continuare a mantenersi autonome che divenire cittadini romani inquadrati in un municipium. Naturalmente di questo coro dissenziente fecero parte le cittadine che fruivano di foedera o di statuti particolarmente vantaggiosi, tra le quali non è detto che non fosse pure compresa Brindisi.

Spulciando bene le fonti narrative antiche, si scopre infatti che le lamentele ci furono, ed anche accese. Ce ne parla Cicerone facendoci sapere che a riguardo ci fu ampia disputa a Eraclea e a Napoli, perché la gran parte della popolazione preferiva alla cittadinanza romana la libertà garantita dal trattato in precedenza stipulato («In quo magna contentio Heracliensium et Neapolitanorum fuit, cum magna pars in iis civitatibus foederis sui libertatem civitati anteferret»19). Come questa maggioranza sia poi diventata minoranza, visto che alla fine le due città si adeguarono, non è dato di sapere, sebbene sia facile immaginare che Roma abbia attuato qualche fattiva opera di convincimento, soprattutto tra le classi più umili, poco sensibili ai benefici politici concessi dall’autonomia e molto più convinti da quelli pratici conseguibili con la cittadinanza romana. D’altra parte, Cicerone ci parla incidentalmente della questione delle due città, proprio perché rappresentavano i casi più eclatanti, il che fa ragionevolmente presupporre che non furono quelle le sole comunità che espressero dissenso. E, come già riportato, magari anche Brindisi fu tra queste. Le fonti offrono appunto qualche spunto che indurrebbero a credere che la città si conformò alla soluzione imposta da Roma, ma probabilmente non tanto di buon grado.

Primo indizio. In un famoso passo, Cicerone ci racconta che nel 57 a.C., cioè a dire a distanza di quasi trent’anni dalla costituzione del municipium, i Brindisini festeggiavano ancora con grande calore il giorno natale della colonia latina20. Un evidente segno questo di grande nostalgia per il passato coloniale.

Altro indizio. Silla — che non era molto ben disponibile a concedere la cittadinanza romana alle città federate ed alle colonie latine — è nell’ 83 a.C. di ritorno dall’Oriente. Si vocifera che voglia rimettere in discussione i diritti politici già concessi dalla lex Iulia, per cui molte comunità non vogliono aprirgli le porte oppure lo accolgono a muso duro. Eppure sbarca a Brindisi in tutta tranquillità. E non solo, riceve un’accoglienza talmente entusiasta  che, in cambio, si sente in obbligo di gratificare la città dall’esenzione delle tasse («Δεξαμένων δ’ αὐτὸν ἀμαχεὶ τῶν Βρεντεσίων, τοῖσδε μὲν ὕστερον ἔδωκεν ἀτέλειανviene»21).

Un atteggiamento in apparenza strano in chi, aspirando alla cittadinanza, avrebbe dovuto parteggiare per la fazione opposto o, quantomeno, mostrare meno entusiasmo per Silla, ma che rientra nella normalità delle cose, se si pensa che la classe dirigente brindisina aveva tutto da perdere e nulla da guadagnare dal cambiamento istituzionale. I magistrati locali avevano già ottenuto la cittadinanza romana in forza dello ius adipiscendae civitatis per magistratum e le novità toglievano loro buona parte del potere organizzativo, oltre a vedersi sottratta la possibilità — questione questa non certo di poco conto — di battere moneta, in quanto competenza preclusa ad un municipium.

Ultimo indizio. Ci si è sempre chiesti come mai i Brindisini, che pure erano sempre stati fedeli alleati dell’Urbe, furono gli unici tra i salentini ad essere iscritti nella tribù Maecia, che era allora un modo evidente per isolarli, quasi avessero commesso una qualche colpa. Quale fosse la loro mancanza lo si può forse ricavare dal fatto che nella stessa tribù fu inserita Napoli, vale a dire proprio una delle città che più s’erano opposte ad accettare lo statuto municipale. Il che fa sospettare che pure Brindisi avesse manifestato, più o meno vivacemente, le medesime perplessità, e che, per questo, fosse stata anch’essa in un qual certo modo punita.

Comunque siano andate le cose, c’è motivo per ritenere che un qualche rimpianto per il passato ebbe forse modo di  palesarsi e, al tempo stesso, non fu certo facile per i Brindisini metabolizzare la perdita dell’autonomia che, per quanto formale, rappresentava tuttavia un tratto distintivo della vita cittadina.

In ogni caso, certo è che in quel lontano 83 a.C. la gloriosa colonia di diritto latino di Brindisi chiuse per sempre i battenti.

E, qualunque cosa ne possano pensare gli estimatori della “pregevole” cittadinanza romana, non fu certo un giorno da segnare, come avrebbe detto Catullo, con una piccola pietra più bianca delle altre.

 

I passaggi burocratici per divenire municipium

Come anticipato, Brindisi, Taranto e le altre comunità della Calabria divennero in linea teorica territorio romano nel 90 a. C., tuttavia per la concreta fruizione della cittadinanza romana la lex Iulia prevedeva, oltre alla clausola di non essere in guerra con Roma, quella del fundus fieri. Questa formula, per quanto letteralmente indecifrabile, considerato che la sua traduzione letterale, “farsi fondo”, risulta del tutto incomprensibile, non pone dubbi interpretativi sul perché fosse stata inserita nella norma. Roma si vedeva costretta a concedere ai rivoltosi la cittadinanza romana e, naturalmente, era forzata a farlo anche con le altre città che le erano rimaste fedeli. Tuttavia, da un punto di vista formale, le autorità romane non volevano che fosse considerata come un obbligo cui loro sottostavano, quanto piuttosto una graziosa elargizione da loro fatta alle comunità italiche. In aggiunta, da  un punto di vista sostanziale, tale concessione non poteva essere fatta lasciando in vita i precedenti statuti in quanto, in taluni casi, essi consentivano un’autonomia che rischiava di confliggere con il nuovo tipo di rapporto che si stava venendo ad instaurare. Era evidente che la cittadinanza poteva essere concessa solo se le comunità avessero recepito, preliminarmente ed in toto, il diritto romano rinunciando così al diritto locale. In definitiva, in cambio della cittadinanza, le comunità dovevano preliminarmente aderire alla totalità delle norme municipali e, più in generale, a quelle del diritto romano («iura populi romani»), rinunciando così alla formale autonomia che i trattati precedenti avevano conferito loro. Ed è proprio in tale fase che certamente Napoli ed Eraclea — e forse Brindisi e qualche altra città — tentarono di mantenere i loro antichi privilegi, senza però, come visto, riuscirci.

Dopo l’accettazione del fundus fieri, c’erano poi un paio di passaggi burocratici da superare: il censimento e l’assegnazione ad una delle tribù romane.

Non è dato di sapere quando questi adempimenti siano stati fatti  perché, quasi insieme alla guerra sociale, era scoppiata la guerra civile che vedeva coinvolti Silla da una parte e Mario – e poi Cinna – dall’altra, ed in questo periodo turbolento le fazioni in lotta si alternavano al potere, facendo e disfacendo le cose in così rapida successione da rendere difficile una puntuale datazione dei singoli avvenimenti. C’era infatti un’importante questione da dirimere in via preliminare, vale a dire il peso politico da dare a questi nuovi cittadini. La parte elitaria degli optimates (ottimati, testualmente i migliori) sostenitrice di Silla, non voleva che l’alto numero dei nuovi cittadini facesse prendere loro il sopravvento nelle decisioni politiche; la fazione populares (popolari, in quanto difensori delle istanze del popolo), capeggiata da Mario e Cinna, intendeva invece mettere tutti i cittadini, vecchi e nuovi, sullo stesso piano.

Per comprendere meglio il motivo del contendere, ci si deve soffermare, sia pure semplificando al massimo, sulle sedi e sulle modalità di espressione del potere popolare previste dalla legislazione romana.

I cittadini romani contribuivano alla gestione dello Stato svolgendo funzioni legislative, elettorali e giurisdizionali nelle assemblee (comitia e concilia) le principali delle quali erano, nel periodo trattato, i comitia centuriata (comizi centuriati), i comitia tributa (comizi tributi) ed i concilia plebis (concili della plebe). Nei comizi tributi e nelle assemblee della plebe il popolo era ripartito per tribù, termine questo che non va inteso in senso moderno, come gruppo etnico che costituisce un organismo sociale ben determinato, ma in senso storico che, riguardo alle antichità romane, caratterizzava nello specifico la suddivisione amministrativa e territoriale dello stato romano. Nell’ambito dell’organizzazione amministrativa dell’Urbe, le tribù rappresentavano le circoscrizioni territoriali entro cui venivano ripartiti i cittadini romani per effettuare i censimenti, le leve militari e fissare il relativo tributo22. In seguito, quando con la professionalizzazione dell’esercito le leve non furono più fatte ed il tributo non più richiesto, le tribù finirono per identificarsi con i distretti elettorali per l’esercizio dei diritti politici. Ed era proprio per motivi collegati all’espressione del voto che ogni cittadino romano era allora assegnato ad una tribù.

C’è da aggiungere inoltre che per gli esiti delle votazioni delle assemblee popolari non si teneva conto dei voti espressi dai singoli cittadini ma di quelli espressi dalle tribù, ciascuna considerata nel suo complesso. Infatti le unità votanti non erano i cittadini ma le tribù, sicché si votava per tribù ed il voto della tribù era quello espresso dalla maggioranza dei suoi componenti. In definitiva, dal momento che le tribù previste erano allora 35, bastava che 18 di esse si esprimessero in senso favorevole perché un provvedimento fosse approvato.

Gli Ottimati, in considerazione del numero abbondantemente superiore dei nuovi cittadini rispetto ai veteres cives (vecchi cittadini), temevano che essi avrebbero potuto imporre il proprio volere all’interno delle singole tribù, condizionando a loro favore le votazioni. Per questo, per contenere il loro peso politico li fecero inizialmente distribuire in otto (o, al massimo, dieci23) tribù, per altro soprannumerarie e destinate a votare dopo le altre trentacinque tribù affinché il loro voto risultasse meno influente24. Tale decisione, che creò più d’un malumore, fu però poi modificata dai Popolari che, per garantire uguali diritti a tutti, riuscirono a far approvare che i nuovi cittadini fossero ripartiti in tutte le trentacinque tribù già esistenti. E fu questa la decisione definitiva, adottata presumibilmente non prima dell’83 a.C.

 

I criteri di scelta dei municipia

C’era inoltre un altro problema gestionale di non poco conto da risolvere, vale a dire quali città meritassero d’essere elevare al rango di municipio e quali no. Le comunità da municipalizzare erano infatti diversamente organizzate essendoci, nel vasto territorio degli ex-alleati, insediamenti di differente natura. C’erano zone dove si trovavano stanziamenti aventi già una configurazione da città-stato (ad esempio le aree etrusche e quelle delle ex-colonie greche), in cui la scelta era in pratica obbligata, ed altre (le aree italiche tra le quali quelle della penisola salentina) che avevano rari centri con uno sviluppo urbano equiparabile ad una città e che, pertanto, non potevano per lo più contare su una struttura politico-amministrativa autonoma, tanto da essere considerati delle borgate (vici) o delle semplici compagini rurali (pagi), tra i quali la scelta non era per niente pacifica. Nel primo caso, si trovavano infatti già presenti le strutture fondamentali per ospitare il costituendo municipium; nel secondo, invece occorreva scegliere quali centri dovessero divenire municipio — e, nel contempo, prevedere gli interventi necessari per adattarli alle nuove esigenze — e quali dovessero essere relegati ad un ruolo secondario, inglobati nei costituendi municipi magari come zone rurali che ne avrebbero irrimediabilmente condizionato lo sviluppo futuro. In quest’ultima condizione si trovavano, come già anticipato, le zone italiche e, tra queste, a parte Brindisi e Taranto, le comunità della penisola salentina.

Non esiste documentazione da cui desumere quali siano stati i reali criteri adottati per fare una simile scelta, sebbene si possa  ipotizzare che le località furono valutate in base al livello di urbanizzazione già in atto, all’importanza da tempo acquisita e, come avveniva di solito in queste circostanze, ai comportamenti tenuti in passato nei confronti di Roma.

Non è d’altra parte questo il solo punto oscuro. Restano infatti dibattuti altri aspetti giuridici, tra i quali quello di maggior rilievo riguarda le modalità con cui la riorganizzazione dei territori fu compiuta, in particolare se si cercò di normalizzare i nuovi municipi, imponendo dall’alto un modello statutario, oppure no. In altre parole, se il processo di municipalizzazione avvenne riproducendo, sia pure in scala ridotta, il sistema costituzionale operante nell’Urbe o se avvenne, come accaduto nei periodi precedenti la guerra sociale, lasciando alle singole comunità margini di scelta. Qualunque sia stata la decisione assunta in merito, certo è che, verificando gli effettivi esiti della municipalizzazione, si ha un quadro quasi uniformemente diffuso riguardo alle magistrature di maggior peso e alla composizione dei senati e delle assemblee dei nuovi municipi. Una uniformità che si otterrebbe ben difficilmente per spontanea adesione, e che fa quindi presupporre l’esistenza e la realizzazione d’un piano ben preciso ideato in sede centrale. D’altra parte il fatto stesso della presenza della clausola del fundus fieri, la quale come visto prevedeva la formale accettazione del diritto romano, farebbe propendere per l’adozione di statuti, in un certo qual modo, standardizzati.

Comunque sia andata, vediamo cosa presumibilmente fu deciso per le comunità salentine, cioè a dire quali furono i possibili centri elevati al rango di municipium, le tribù cui essi furono assegnati e quali gli assetti istituzionali assunti.

 

I municipi romani istituiti nella penisola salentina

Nel nord della Calabria, divennero di certo municipi le città di Brindisi, Oria e Taranto, mentre non ottennero tale rango località di pur antica tradizione in quanto decaduti, quali Manduria, Mesagne, Muro Tenente e Valesio. Manduria fece certo parte, insieme a Li Castelli, del municipio di Oria; Mesagne, insieme a Muro Maurizio e Valesio, di quello di Brindisi; dubbia la destinazione di Muro Tenente, che molti ipotizzano aggregata a Brindisi mentre io vedrei piuttosto associata ad Oria. Nel Centro, la scelta cadde su Rudiae e Lecce. Nel Sud, con ogni probabilità, su Nardò, Otranto, Gallipoli, Alezio, Ugento e Vereto.

La ricostruzione da me compiuta si basa sulla consistenza ipotizzabile in base alle ricognizioni archeologiche e all’importanza degli insediamenti desumibile dagli scritti dei geografi e naturalisti dell’antichità, oltre che alla loro collocazione rispetto alla rete viaria del tempo. Se certamente su Brindisi e Taranto non c’è discussione, lo stesso dovrebbe essere per Oria e Rudiae (sia per la consistenza, sia per la posizione), per Nardò e Ugento (in questi casi soprattutto per la consistenza), per Lecce, Alezio e Vereto (in prevalenza per la collocazione). Qualche dubbio ci sarebbe per Gallipoli e Otranto, però posizionate in punti troppo strategici perché i Romani non ne abbiano voluto favorire la crescita prevedendo l’istituzione d’un municipium, magari in un momento immediatamente successivo.

Per quanto riguarda le tribù di assegnazione, è possibile formulare ipotesi certe solo su Brindisi (tribù Maecia), Taranto (Claudia), Rudiae (Fabia), Lecce (Camilia), Gallipoli (Fabia) e Vereto (Fabia). Forse anche Alezio fu aggregata alla tribù Fabia, mentre per Oria, Nardò, Otranto e Ugento non esiste il più lontano indizio di quale possa essere stata la tribù di destinazione. A tali conclusioni portano soprattutto le fonti epigrafiche.

 

Gli organi dei municipia salentini

Passando all’organizzazione statutaria, occorre ricordare che la tradizione repubblicana osteggiava l’uomo solo al comando, sicché l’unico organo monocratico previsto dall’ordinamento romano era il dictator (dittatore), per altro magistratura straordinaria, utilizzata quindi eccezionalmente e per periodi limitati nei soli momenti di grave pericolo. Per il resto la costituzione romana si affidava in maniera esclusiva agli organi collegiali. Per lo stesso motivo i municipi romani non avevano un corrispettivo del nostro sindaco ma un istituto collegiale responsabile della gestione amministrativa della città. Nei municipi salentini il collegio dei massimi magistrati cittadini fu composto da quattro membri (quattuorviri)25, ripartiti in due coppie: i due quattuorviri iure dicundo ed i due quattuorviri aedilicia potestate. La prima coppia aveva un ruolo prioritario, assimilabile a quello svolto a Roma dai consoli.

A questi due magistrati — chiamati per semplicità giusdicenti, perché esercitavano tra le altre funzioni la giurisdizione civile e penale — spettava anche l’eponimia in ambito cittadino, presiedere e convocare il consiglio comunale e le assemblee popolari, sovrintendere alle responsabilità di culto e ad amministrare le finanze comunali. Nell’ambito delle loro prerogative, godevano di un’ampia autonomia organizzativa, però rispondevano personalmente di eventuali problemi di carattere economico e dovevano risarcire il municipio per qualsiasi dissesto finanziario conseguente ad una loro decisioni. Per questo, all’assunzione dell’incarico dovevano versare una cifra consistente, denominata summa honoraria, utile a coprire ammanchi di vario genere. Di conseguenza potevano aspirare ad un simile incarico solo i cittadini particolarmente danarosi.

Anche la seconda coppia, quella dei due quattuorviri aedilicia potestate, doveva essere finanziariamente ben attrezzata. La locuzione aedilicia potestate racchiudeva infatti funzioni riguardanti il mantenimento dell’agibilità delle strade, degli edifici pubblici e dei templi ma pure l’approvvigionamento della città e il garantire una vita pubblica regolata tramite il corpo di polizia urbana. Nello svolgimento di tale incarico non si potevano accampare scuse di bilancio: se una strada era dissestata, bisognava aggiustarla, magari in parte o in toto a proprie spese, e non limitarsi, come avviene ora, a mettere un cartello avvisando di fare attenzione perché la strada è danneggiata.

Dai magistrati si pretendeva la diligentia, vale a dire l’essere scrupolosi nell’adempimento dell’incarico ed un atteggiamento solerte e sincero (sine dolo malo) non fingendo quindi una cosa per poi farne un’altra. Pulizia d’animo che dovevano manifestare sin dal momento in cui proponevano il proprio nome nelle riunioni (contiones) delle assemblee (comitia) popolari, vestiti con una toga sbiancata in modo da essere candida, circostanza questa che diede origine al termine “candidato”.

Da un punto di vista politico, il ruolo dei due quattuorviri iure dicundo era quello più prestigioso e costituiva di fatto l’apice delle cariche magistratuali previste dal cursus honorum (letteralmente, corso degli onori, nel senso di sequenza delle cariche pubbliche) municipale. Ed erano infatti loro a ricoprire, a scadenza quinquennale, il ruolo di quinquennales, cioè a dire di censori, che aveva un valore davvero speciale in antichità, in quanto conferiva il compito di stabilire il “censo” di ciascun cittadino, fissandone così la relativa posizione sociale, ma pure di valutare la loro condotta morale. Una bocciatura da parte dei censori incideva di fatto sul bene allora più tenuto in considerazione, il buon nome, e conduceva inevitabilmente all’emarginazione sociale e politica. La nota censoria, con cui i censori riprendevano un cittadino, era una vera e propria sanzione politica comminata a chi s’era macchiato di comportamenti indegni, che comportava  l’espulsione dal decurionato, dall’ordine equestre e, per il semplice cittadino, dalla tribù.

I quattuorviri duravano in carica un anno ed erano eletti dal populus, composto dai cives  (cittadini di pieno diritto del municipio) e dagli incolae (per lo più forestieri che avevano ottenuto di risiedere nel territorio municipale), ripartiti in distretti politico-amministrativi chiamati curie.

Come gli attuali comuni, anche i municipi salentini prevedevano un organo collegiale di base, assimilabile al nostro consiglio comunale, con funzioni normative, finanziarie e di controllo. A quel tempo un simile ente era denominato ordo decurionum, sicché i consiglieri comunali erano chiamati decuriones o, meno spesso, curiales, perché le loro riunioni avvenivano nelle curie.

Le regole per diventare decuriones erano per certi versi molto più rigide rispetto a quelle attuali per diventare consigliere comunale. L’ufficio era vitalizio e la composizione era decisa dai censori che ogni cinque anni stabilivano, nella cosiddetta lectio senatus (letteralmente, scelta del senato), inserimenti, subentri e decadenze, in base a criteri che tenevano conto del censo, dell’età, della residenza, della onorabilità e della stima goduta dai designabili. Per ambire alla carica di decurione, bisognava infatti godere: dei diritti politici, di un reddito annuale di almeno 100.000 sesterzi (all’incirca 400.000 € attuali) e d’una età non inferiore ai trent’anni. In aggiunta occorreva: essere domiciliati nella città da almeno cinque anni; essersi comportati sempre in maniera inappuntabile e, infine, di non aver mai esercitato mestieri infamanti (in pratica, non aver mai fatto l’attore, il banditore, il tenutario di case di tolleranza, l’impresario di pompe funebri ed il gladiatore). Erano questi i requisiti ritenuti essenziali per accedere e svolgere nel migliore dei modi gli honores, termine con cui venivano appunto caratterizzate le massime magistrature statali, in quanto tali incarichi davano l’onore di adempiere un officium (un obbligo) e non utili monetari o di altra natura. Pertanto, al pari dei quattuorviri, la carica di decurione non comportava l’accredito di assegni mensili o vitalizi ma, al contrario, il dover spesso far fronte di tasca propria a spese di utilità pubblica, fossero esse correnti oppure straordinarie.

Se qualcuno a questo punto avesse modo di chiedere loro chi glielo faceva fare, si sentirebbe rispondere con una semplice parola: existimatio, come dire per la stima ed il credito che tali compiti, svolti nel migliore dei modi, consentivano di ottenere presso i concittadini.

Fare politica ad un certo livello era in definitiva un punto d’onore e, al tempo stesso, motivo di prestigio e di riconoscimento.

 

Note

1 Livio (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Dalla fondazione di Roma, XXIII 20, 2.

2 Ibidem, XXIII 20, 2.

3 Ibidem, XXIII 20, 2.

4 Diiodoro siculo (I secolo a.C.),  Biblioteca Storica, XXXVII 18.

5 Il municipium era in origine una città privata dell’autonomia politica e soggetta ad oneri, come si evince dal termine stesso che riflette la condizione di dover sopportare (capere) obblighi (munera), e rappresentava il sistema organizzativo con cui Roma annetteva un territorio conquistato.

6 Le colonie greche avevano con ogni probabilità maggiore capacità contrattuale delle comunità italiche, sicché riuscivano a strappare condizioni  in genere più vantaggiose. Così almeno avvenne per Taranto rispetto a tutte le altre città salentine, fatta eccezione di Brindisi, dove venne dedotta una colonia.

7 Cicerone (II secolo a.C. – I secolo a.C.),  De domo sua, 77.

8 Nella lex agraria epigrafica del 111 a.C. figura l’antica locuzione «socii nominisve latini, quibus milites ex formula togatorum inperare solent» (gli alleati ossia il nome latino, ai quali [i Romani] comandano di fornire i soldati sulla base della formula dei togati).

9 Livio, Cit., XXV 3, 16.

10 Ibidem, XXII 61, 11-12.

11 Ibidem, XXV 1, 1.

12 Ibidem., XXVII 10, 7-9.

13 Cicerone, De Officiis, II 22, 76. «Paulus tantum in aerarium pecuniae invexit, ut unius imperatoris praeda finem attulerit tributorum» (Emilio Paolo riempì così tanto l’erario di denaro che il bottino d’un solo generale fu sufficiente a porre fine alle tasse).

14 I cittadini romani erano inoltre esentati da qualsiasi imposta fondiaria sui possessi in Italia.

15 In quel periodo s’intendeva per Italia la parte di penisola a sud della regione gallica cisalpina.

16 Velleio patercolo (I secolo a.C.– I secolo d.C.), Historiae Romanae, II 14, 1.

17 Asconio (… – II secolo d.C.), In Pisonem, A.C. CLARK, 1907, p. 3. Incerta la datazione del provvedimento che viene comunque fissata per gli ultimi decenni del II secolo a.C.

18 Per consultare la scheda,  https://it.wikipedia.org/wiki/Salento#Storia (consultata il 23.03.2022).

19 Cicerone, Pro Balbo, VIII 21.

20 Cicerone, Lettere ad Attico, IV 1, 4.

21 Appiano (I secolo d.C. – II secolo d.C.), Le guerre civili, I 9, 79.

22 Non a caso, il termine tributum derivava appunto da tribus.

23 Velleio patercolo, Cit., II 20, 2, parla di otto tribù; appiano, Cit., I 49, di dieci.

24 C’è da rammentare che le tribù non votavano in contemporanea ma in sequenza, sicché c’era il rischio che quelle scelte a votare per prime potessero con il loro voto influenzare le altre. Per evitare ché le fazioni  utilizzassero  l’ordine con cui le tribù votavano per condizionare a proprio favore il voto, da un certo momento in poi si ricorse al sorteggio. S’aggiunge che le votazioni venivano dichiarate concluse quando diciotto tribù s’erano espresse allo stesso modo, essendosi ottenuta la maggioranza prevista.

25 Qualche decennio dopo, a metà circa del I secolo a.C., Taranto adottò, in luogo del quattuorvirato, il duovirato, come testimoniato dall’epigrafe bronzea riportante alcune parti dello statuto tarantino (lex municipii Tarentini).

Libri| La sacrestia di S. Giovanni Battista in Parabita: Il simbolismo nei dipinti

 

 

Il volume di recente pubblicazione: La sacrestia di S. Giovanni Battista in Parabita: Il simbolismo nei dipinti di Annunziata Piccinno[1], che si avvale della presentazione del parroco della stessa chiesa, don Santino Bove Balestra, offre una lettura archetipico-simbolica e storico-letteraria dei dipinti settecenteschi che decorano la volta della sacrestia della chiesa parrocchiale dedicata a San Giovanni Battista, collocata nel cuore della città di Parabita.

Il tema trattato costituisce una sorta di guida-base, per un ulteriore approfondimento, che seguirà parallelamente all’opera di restauro conservativo dell’edificio sacro, alla quale anche i preziosi e suggestivi dipinti saranno, a breve, sottoposti.

Il prezioso sussidio è utile a interpretare la simbologia della decorazione pittorica della piccola sacrestia: un’aula di forma rettangolare alla quale si accede dalla porta posta a nord, entrando dalla chiesa. La volta, le lunette e le vele di questo locale sono arricchite da dipinti in stile baroccheggiante. La volta a padiglione a schifo lunettata mette in evidenza il dipinto raffigurante lo stemma di mon. Orazio Fortunato, collocato al centro e contenuto in una cornice rettangolare. Tutto intorno vi sono elementi vegetali, floreali e putti che l’autrice suddivide in 8 gruppi distinti.

Al di sotto della volta in piccole vele sono raffigurati dei putti accanto ad animali ed elementi vegetali. In otto lunette sono effigiate otto marine salentine, delle quali una rimane ignota, caratterizzata solo da una torre costiera.

Ammirare le decorazioni della volta della sacrestia parabitana è emozionate, in quanto tutto quello che passa sotto lo sguardo dell’osservatore suscita molteplici interrogativi. Siamo al centro di una volta in stile barocco veramente singolare, in cui putti in varie pose si susseguono mostrando vari simboli sotto forma di animali, frutta, fiori e ortaggi, tanto da far sussultare e interrogare lo spettatore sul loro effettivo significato. Sono elementi posti lì casualmente oppure essi sono emblema di un qualcosa di “altro” che, ormai lontano nel tempo, oggi riusciamo difficilmente a decifrare?
L’autrice, attraverso lo studio di testi antichi, ne analizza le molteplici simbologie. Appare evidente che il frescante abbia voluto omaggiare il vescovo del tempo: mons. Orazio Fortunato, cui si rifanno anche le otto marine, inserite nelle lunette.

Solo un’attenta lettura del testo permette di valorizzare questi dipinti, per la maggior parte degli studiosi e degli stessi salentini ancora sconosciuti.

 

 

[1] Annunziata Piccinno nata ad Aradeo (LE), laurea in Lettere Moderne (1999)- Università di Lecce; Laurea Triennale e Magistrale in Scienze Religiose, presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Lecce. È autrice di: Gli Altari del ‘600-‘700 a Nardò, in Nardò NostraStudi in memoria di don Salvatore Leonardo, Congedo, 2000; Tra etnologia e folclore in Carmine diario di un emigrante a c. di A. Piccinno, Manduria, 2013; Cuore mente attesa speranza. La Parola di Dio negli scritti biblico pastorali di don Giuseppe Sacino (2018) e Viaggio nell’antica diocesi di Nardò: Gli altari dal XVII al XVIII secolo (2021).

 

Il gesuita salentino Francesco Antonio Camassa esperto di arte militare

 

DE RE MILITARI NELLA SPAGNA DI FILIPPO IV: IL GESUITA SALENTINO FRANCESCO ANTONIO CAMASSA

 

di Francesco Frisullo-Paolo Vincenti

ABSTRACT. In the essay, the figure of Francesco Antonio Camassa, a Jesuit from Salento, military engineer and teacher is treated. Born in Lecce in 1588, personal adviser and confessor of the Marquis of Leganès, Governor of Milan, at the height of a brilliant career as a teacher within the Company of Jesus, he was called to Spain to the court of King Philip IV, of whom he became military adviser. Through an accurate bibliographic research, the life and works of Father Camassa, who died in Spain in 1642, are reconstructed.

 

RIASSUNTO. Nel saggio, viene trattata la figura di Francesco Antonio Camassa, gesuita salentino, ingegnere militare e insegnante. Nato a Lecce nel 1588, consigliere personale e confessore del Marchese di Leganès, Governatore di Milano, all’apice di una brillante carriera come docente all’interno della Compagnia di Gesù, viene chiamato in Spagna alla corte del Re Filippo IV, del quale diviene consigliere militare. Attraverso una accurata ricerca bibliografica si ricostruiscono la vita e le opere di Padre Camassa, che muore in Spagna nel 1642.

Filippo IV di Spagna

 

Nel 1633 viene pubblicata a Madrid la Tabla Vniversal para ordenar en cualquiera forma Esquadrones, por el Padre Francisco Antonio Camassa de la Compañia de Iesus, Cathedratico de la Mathematica militar en los Estudios Reales del Colegio Imperial de Madrid, Con licencia en Madrid, por Andrés de Parra. Si tratta di una dissertazione con disegni e calcoli matematici e disegni geometrici circa la disposizione degli squadroni degli eserciti.

Il suo autore è un gesuita originario di Lecce, Francesco Antonio Camassa, ingegnere militare e insegnante, ma soprattutto spirito attivo, marziale, intraprendente. Tre, le tappe fondamentali della vita e della carriera di Camassa: Lecce, Napoli, Madrid. Ma ogni gesuita in quei tempi era cittadino del mondo, specie chi si recava in missione in Oriente o nelle Americhe, lo spirito di avventura e il desiderio di evangelizzare erano consentanei alla natura dei frati.

Camassa è un illustre predecessore di importanti autori che tratteranno di polemologia, fra i quali, non ultimo, il nostro Giuseppe Palmieri, autore delle Riflessioni critiche sull’arte della guerra (1756-1761)[1], opera giustamente famosa che, al pari di quella del Camassa, si occupa di tattica militare. Salvatore Capodieci, in un recente saggio sulla figura del Palmieri, prima di illustrare dettagliatamente l’opera dello studioso martignanese, fa una doverosa distinzione in questo genere di trattatistica fra opere di strategia ed opere di tattica, adducendo ad esempio due illustri riferimenti, forse i più famosi in quest’ambito, ovvero il tedesco Karl Von Clausewitz (1780-1831) e l’italiano Piero Pieri (1893-1979)[2]. L’autore che Capodieci omette, nella sua disamina delle opere degli scrittori militari dall’antichità all’Età Moderna, è proprio Padre Camassa. Non ci sorprende, essendo il gesuita misconosciuto nel Salento. Eppure a lui, Lecce, la sua città, ha intitolato una via.

Di lui scrive Romano Gatto: “Nato a Lecce nel 1588, entrò a far parte della Compagnia nel 1606. Assolse all’intero corso di studi a Napoli. Prima delle matematiche insegnò 2 anni lettere umane, 2 anni filosofia, 2 anni teologia e 2 casi di coscienza. Morì a Saragoza il 30 luglio 1646”[3]. Nel suo libro, Gatto si occupa di tutti gli insegnanti succedutisi alla cattedra di matematica del Collegio dei Gesuiti di Napoli, soffermandosi su alcune figure particolarmente importanti come Hieronimo Hurtado, Georg Feder, Francesco Sangro, Vincenzo Figliucci, Cristoforo Clavio, e poi Giovanni Giacomo Staserio, Scipione Sgambati, ecc. Sebbene l’insegnamento di Camassa durò solo un anno, dal 1631 al 1632, a lui Gatto dedica una scheda nella parte finale del libro, in cui vengono passati in rassegna, in ordine cronologico, tutti i professori di matematica del Collegium Neapolitanum, dal 1589 al 1680[4]. Dalla scheda apprendiamo che Camassa arrivò a Napoli nel 1607 e studiò retorica, logica, fisica, metafisica e teologia. Nel 1620-21 fu inviato come predicatore a Bovino, successivamente ad Atri[5], dove insegnò filosofia dal 1621 al 1624, teologia dal 1624 al 1625, filosofia e casi di coscienza dal 1625 al 1627, e quindi tornò a Napoli destinato alla Casa delle Probazioni. Questa era l’istituzione in cui si completava la formazione dei gesuiti, che iniziava con la “prima probazione”, vale a dire l’ingresso e l’ambientazione, che duravano una dozzina di giorni, e la “seconda probazione”, ovvero il Noviziato, che durava due anni, fasi caratterizzate dalla intensa preghiera e dal severo studio. La “terza probazione” consisteva negli esercizi spirituali, prescritti da Sant’Ignazio di Loyola e dall’uscita dei frati nella società civile, nella quale essi si mettevano a disposizione di enti caritatevoli e dei più bisognosi, unendo il lavoro alla preghiera e allo studio, comunque imprescindibili. Con la “quarta probazione” i frati erano chiamati al quarto voto, oltre a quelli di povertà, castità e ubbidienza già pronunciati, ossia il voto di obbedienza al Papa, con il quale si sottomettevano interamente alla volontà del Sommo Pontefice. Questo quarto voto, come sappiamo specifico della Compagnia di Gesù, completava il cammino spirituale del perfetto gesuita[6].

Camassa divenne consigliere personale e confessore del Marchese di Leganès, Governatore di Milano, che in quel tempo era dominata dagli Spagnoli. Il Marchese di Leganès, Diego Mexía Felipez de Guzmán y Dávila (1580-1655), già Presidente delle Fiandre, si era distinto su vari campi di battaglia guadagnandosi fama e la stima dell’Imperatore della Spagna Filippo IV, che gli aveva affidato nel 1635 la guida del Ducato di Milano. Grande esperto di cose militari, uomo di cultura e mecenate, cugino del potentissimo Primo Ministro, Duca di Olivares, fu coinvolto nella Guerra dei Trent’anni. Collezionista di oggetti d’arte e uomo raffinatissimo, di lui esiste un ritratto, opera di Van Dick. Alla sua corte, a Milano, era circondato da svariati ingegneri militari: fra questi Francesco Antonio Camassa, che era anche il più fidato collaboratore, e che lo seguì nelle imprese belliche della battaglia di Nördlingen, nel1634, e dell’assedio del Piemonte dal 1637. Ma facciamo un passo indietro, tornando a Napoli.

Come detto, nel 1631 a Padre Camassa fu assegnata la cattedra di matematica presso il Collegio Napoletano; succedeva a Giovan Battista Trotta e Orazio Giannini[7].

Tenne la cattedra solo per un anno poiché, segnalato dal Viceré alla corte di Spagna, venne chiamato in quella nazione dalla Compagnia di Gesù su espresso invito del Re Filippo IV. Doveva essere già notevole, dunque, la fama che si era guadagnato a Napoli se gli venne riservata una simile attenzione.

Gatto riporta la lettera inviata dal Generale dell’Ordine Muzio Vitelleschi al Provinciale napoletano il 3 giugno 1632: “Quando V.R. riceverà questa e le sarà accennato dal Viceré che il P.Francesco Antonio Camassa vada in Spagna, come la Maestà Re comanda, V.R. lo manderà obedendo prontissimamente come siamo obbligati con tutta la Compagnia sopra quello che si può spiegare stante i beneficij innumerevoli della maestà sua[8]. Nel 1634, giunse a Madrid, dove entrò agli Estudios Reales de Santo Isidro, che era stato il Collegio di San Isidro dei Gesuiti, trasformato in una vera e propria università nel 1629 per volere del Re Filippo IV e del Primo Ministro Duca di Olivares, nonostante la ferma opposizione di Salamanca, sede della più gloriosa e antica Università di Spagna, che veniva così a perdere il suo primato.

Gli Estudios Reales attirarono una grande quantità di studenti, i rampolli della nobiltà madrilena, e divennero ben presto la scuola di formazione della classe dirigente spagnola. Ciò era dovuto al prestigio degli insegnanti che vi erano chiamati, fra i quali certamente Padre Juan Eusebio Nierenberg, esperto naturalista, ma anche occultista ed esperto di arti magiche[9], i celebri matematici Claude Richard, Padre Isasi e Jean Charles de La Faille, quest’ultimo precettore del Principe Don Juan e ritratto anche da Van Dyck[10], e lo stesso Camassa.

Nel 1634 dunque il Nostro si trasferisce nella nazione iberica e inizia il suo magistero a Madrid. Della sua attività di insegnante in Spagna, scrive Astrain: “Por algunos annos el P.Camassa, italiano, explicò una catedra de ingegneria, sobre todo en suas aplicationes militares[11].

Nel 1637 è a Milano e al seguito delle truppe del Marchese di Leganès[12] nelle operazioni belliche nel Piemonte. Occorre però inquadrare questa battaglia nell’ambito della Guerra dei Trent’anni (1618-1648)[13].

Una guerra, iniziata nella Germania, dominata dagli Asburgo d’Austria, che era una confederazione di stati essenzialmente già divisi dal punto di vista religioso tra luteranesimo e cattolicesimo, allorché si diffuse nel Palatinato Renano il calvinismo, anche ad opera del Principe elettore Federico V. Questo determinò la ferma opposizione sia dei luterani che dei cattolici, in particolare dei Gesuiti, intenzionati a difendere strenuamente le posizioni cattoliche contro l’attacco protestante. Essendo la collocazione geografica del Palatinato Renano molto strategica, situato come era al centro dell’Europa, fra i Paesi Bassi spagnoli e la Francia, questo scatenò gli interessi delle due principali potenze, ovvero della Francia, calvinista, e dell’Impero asburgico, cattolico. Il conflitto prese l’avvio dalla Boemia, con la cosiddetta “defenestrazione di Praga” del maggio 1618, nella prima fase, detta boemo-palatina, e poi si propagò in tutta Europa, coinvolgendo la Francia, la Danimarca, la Svezia. Impossibile in questa sede ripercorrere dettagliatamente le fasi della guerra che mise a ferro e fuoco l’Europa centrale; a noi basti interessarci di una parte di questa guerra, la fase che appunto coinvolse il Piemonte e la Savoia. Il Piemonte era stato annesso alla Savoia del Duca Emanuele Filiberto, in seguito ai tratti di pace di Cateau Cambrésis del 1559. Con la morte di Vittorio Amedeo I, nell’ottobre del 1637, essendo suo figlio maggiore Francesco Giacinto ancora troppo piccolo, venne assunta la reggenza dalla madre, Maria Cristina di Borbone, sorella del re di Francia Luigi XIII. Ella doveva difendersi dalle mire dei fratelli Tommaso e Maurizio di Savoia, legittimi aspiranti al trono, che vennero esiliati fuori dal Piemonte. Con la morte del piccolissimo Francesco Giacinto, la successione al trono passò al fratellino Carlo Emanuele, di appena quattro anni, e a questo punto la reggenza di Maria Cristina appariva messa a rischio. Il Piemonte infatti era del tutto diviso fra i “madamisti”, sostenitori di Maria Cristina, schierati con i Francesi, ed i “principisti”, fedeli ai fratelli Savoia, ossia il principe Tommaso e il cardinal Maurizio, che appoggiavano gli Spagnoli. Nel 1638, Tommaso di Savoia-Carignano si recò a Madrid e prese accordi per l’invasione del Piemonte che, gravitando nell’orbita della Francia, costituiva in effetti una seria minaccia per la Spagna stessa. Così, il Governatore di Milano, il Marchese di Leganès, attaccò la Savoia iniziando il piano di invasione, con la mira di sottomettere anche il Piemonte unendolo alla Lombardia, per creare un vasto stato unitario spagnolo. Dopo avere occupato Breme, poi Vercelli, quindi Palestro, all’inizio del 1639 le truppe lombardo-spagnole entrarono nel Piemonte facendosi strada fino a Torino. Goffredo Casalis, parlando dell’assedio di Vercelli, cita il Camassa, e scrive: “Il P. Camassa, gesuita, che ebbe, durante l’assedio, la carica di primo ingegnere, scelse gli assalimenti, e tracciò una circonvallazione di dieci miglia d’estensione. Gli spagnuoli lavorarono con molto ardore, ed in pochi giorni perfezionarono la circonvallazione; essi aprirono la trincea su tre diversi punti, e portaronsi a trecento passi dalla spianata in un molino, che la guarnigione cercò invano di difendere.[14]. Secondo i piani di battaglia, nell’accordo fra la Spagna ed i due eredi Savoia, il territorio conquistato sarebbe stato diviso in tre parti uguali. L’occupazione spagnola di Breme, città dalla pianta pentagonale fortificata, era importante in quanto la sua posizione strategica per attaccare anche Novara e Pavia, in mano ai Francesi. Caddero le città di Chieri, Moncalieri, Ivrea, Verrua, e infine Chivasso. In seguito, sotto l’attacco concentrico delle truppe guidate da Tommaso di Savoia, quelle del Duca di Leganès, e gli altri battaglioni guidati da don Martín di Aragona e don Juan de Garay, capitolarono le città di Villanova d’Asti, Asti, Pontestura, Moncalvo e Trino.

Alla fine di aprile 1639 iniziò l’assedio di Torino, dove erano di stanza i Francesi. Il Cardinale Richelieu offrì al Principe Tommaso una tregua, cercando un accordo, ma questa fu rifiutata dal Savoia che rimase fedele agli Spagnoli. “Le munizioni da vitto e da guerra mancavano agli assediati, e già ne’primi giorni fu d’uopo di regolarne la distribuzione con molta parsimonia, ed il padre Camassa, gesuita che durante l’assedio ebbe la carica di primo ingegnere, scelse gli assalimenti e tracciò una circonvallazione di dieci miglia di estensione”, scrive Gaudenzio Claretta[15].

L’assedio di Torino fu lungo e difficile, i Francesi erano un avversario duro da battere. Ad agosto, Tommaso di Savoia prese la città e Maria Cristina dovette arrendersi; ma i Francesi tornarono alla carica e ad ottobre si riaprirono le ostilità. Questi, guidati da Enrico di Lorena-Harcourt, inflissero una pesante sconfitta ai Lombardo-Spagnoli a Chieri. “Il tentativo di occupare il Piemonte”, scrive Annalisa Dameri, “riuscito anche se solo per pochi anni, da parte del marchese di Leganés, governatore dello stato di Milano, è documentato oltre che da una serie di lettere inviate a Filippo IV, al conte duca di Olivares e ad altri ufficiali, da un atlante senza firma, ora conservato a Madrid.

Le venti tavole illustrano rilievi e progetti per le cinte urbane delle cittadine occupate da Leganés e dal principe Tommaso nella loro avanzata verso Torino. In alcuni casi i lavori, svolti in pochi mesi, per potenziare ciò che è stato facilmente conquistato, trasformano indelebilmente i perimetri urbani. Al servizio di Leganés vi è sicuramente Prestino ed è ormai dimostrato che il governatore si avvalga, inoltre, della consulenza del padre gesuita Francisco Antonio Camassa, suo confessore e professore di arte fortificatoria al Collegio Imperiale di Madrid”[16].

Nella primavera del 1640, Tommaso di Savoia, sceso nuovamente in campo, venne sconfitto ancora una volta dalle truppe francesi a Casale Monferrato. A questo punto, il Principe decise di giocare il tutto per tutto, attaccando Torino per strapparla ai Francesi che ancora la difendevano strenuamente. Vistosi alle strette, tentò una resa con la speranza di raggiungere un accordo con Enrico di Lorena Harcourt, ma ogni trattativa questa volta fu rifiutata dai Francesi fin quando le truppe lombardo-spagnole vennero del tutto sbaragliate. Il Principe Tommaso, per non soccombere, si ritirò ad Ivrea. Al fine di ottenere delle condizioni più favorevoli iniziò a trattare segretamente con il Cardinale Richelieu, ma i tentativi fallirono quando il Principe, nella primavera del 1641, rinnovò il suo accordo con la Spagna, il che spinse la Francia a scendere nuovamente in campo. Tutte le città piemontesi vennero riprese e al Savoia non restò che scendere a compromessi con l’odiata Cristina di Francia, con la quale stipulò una alleanza che certo lo vedeva sfavorito, perché prima di tutto doveva riconoscere come legittimo erede al trono Carlo Emanuele, e inoltre, con i trattati ufficiali che seguirono (1642), si vide riconosciute solo le piazzeforti di Biella e di Ivrea. Le fortificazioni di tutte queste città coinvolte nella guerra vennero ricostruite sulla base di progetti spagnoli. E questo ci riporta al Camassa.

Il rapporto di Camassa col Leganès, come già visto, è precedente alla invasione del Piemonte e risale alla battaglia di Nordlingen, in Baviera, del 1634[17]. Sul fronte di guerra delle Fiandre prima, e della Germania poi, l’esercito spagnolo era guidato dall’indomito Don Diego Mesya y Guzman. In Germania, al suo seguito erano l’Infante Cardinal Fernando, l’umanista Francesco de Roales, che ne era stato il tutore, per volere del padre Filippo III, Francesco Camassa e Guillen Lombardo, quest’ultimo a capo di un contingente di truppe irlandesi. Questo è quanto riferisce Fabio Troncarelli nel libro La spada e la croce[18], in cui traccia un profilo dell’avventuriero di origini irlandesi William Lamport che era stato allievo di Camassa agli Estudios Reales di Madrid[19].

Il Camassa fornì una preziosa consulenza in questa guerra ai fini della sua vittoriosa risoluzione. In particolare, nella battaglia di Nordlingen, presa d’assalto dalle truppe imperiali il 5 settembre 1634, l’esercito guidato dall’Infante Cardinal rischiava di essere sbaragliato dalle truppe protestanti guidate da Bernardo di Sassonia e rinforzate dalla partecipazione svedese, cioè da uno dei più forti eserciti europei dell’epoca, che aveva sconfitto anche il grande condottiero Wallenstein. Fu proprio grazie alle indicazioni tattiche di Camassa che il Cardinal Fernando poté vincere la guerra, come scrive Fabio Troncarelli[20]. “A chi spetta”, si chiede Troncarelli, “la manovra che risolse brillantemente la battaglia?” Questa non poteva essere merito del Cardinal Fernando, del tutto inesperto di guerra, nè tanto meno dell’Imperatore Ferdinando, se è vero che le truppe asburgiche avevano assediato invano per alcune settimane Nordlingen. Non poteva essere, se non in minima parte, merito del Duca di Lorena, un francese al servizio della Spagna. Il merito, secondo Troncarelli, doveva essere di un ingegnere esperto di tattiche militari, nel contempo fornito di una solida cultura umanistica che gli ricordasse le mirabili imprese degli antichi romani. Questo personaggio non poteva che essere il “Dottor Sottile Camassa”. Solo un astuto gesuita ed il suo allievo Lombardo avrebbero potuto concepire una simile vittoria[21]. “A me pare evidente che solo un personaggio come lo scaltro Camassa, il docente di Re militari, che spiegava con passione Polibio e Vegezio il mattino presto, era in grado di inventare su due piedi la vittoria di Nordlingen. Di ciò abbiamo, del resto, una riprova nelle fonti, che attribuiscono al gesuita un ruolo decisivo nella fortificazione della collina di Albuch. Tali fortificazioni avevano lo scopo di bloccare gli attacchi nemici, mentre la cavalleria aggirava le loro posizioni. Solo un gesuita italiano, forgiato dall’acerrima competizione col diabolico Machiavelli, tanto entusiasta della cavalleria romana, avrebbe osato in quel frangente domandare agli antichi la ragione delle loro azioni…”[22]. E. Charveriat, che lo chiama Camaja, scrive: “le Père Camaja, à élever et à garnir d’artillerie trois retranchements, en forme de demi-lunes, ouverts au nord, et fermés au midi, du côté de l’ennemi, par un mur de trois pieds de haut. Les Bavarois étaient environ sis mille; les Impériaux, douze Mille; les Espagnols, quinze mille; en tout trente-trois mille hommes, dont vingt mille d’infanterie et treize mille de cavalerie: huit mille hommes ennron de plus que les Suédois. L’armée impériale faisait face au midi; l’armée suédoise faisait face au nord.[23].

Camassa riscosse un successo così grande con i suoi consigli militari che una volta tornato in Spagna nel 1635 tenne a Madrid una applaudita conferenza sulle tattiche militari e sulle fortificazioni, alla quale partecipò anche il Re Filippo IV nascosto dietro una grata, a detta di Troncarelli[24], il quale cita anche una preziosa fonte per conoscere meglio la figura di Camassa, ossia una lettera di Bernardo Monanni del 30 giugno 1635 conservata a Firenze[25].

Oltre ad impartire lezioni private de re militari a Filippo IV, fu probabilmente, come riportano alcune fonti, anche precettore dell’erede al trono Baltasar Carlos[26].

La Dameri parla di una relazione tecnica di Giovanni Battista Vertova in viaggio da Malta in Italia. “In visita in Piemonte, dopo Torino (ricevuto a corte da Cristina di Francia), Pinerolo, Felizzano, Vertova nel novembre 1638 è in Alessandria per un incontro tra i massimi esperti di fortificazioni al servizio della Spagna al fine di discutere del nuovo impianto fortificatorio di Malta. Ad Alessandria si riuniscono gli alti comandi spagnoli tra cui Leganés, Camassa, don Francisco de Melos, don Alvaro de Melos, il conte Ferrante Bolognini, don Martin d’Aragona e Juan (Giovanni) de Garay: Camassa ha modo di esprimere un parere tecnico (De Lucca, 2001) «Hebbi con alcuni Ingegneri, et anco con il Padre Gammasa Jesuita, molti discorsi di queste nostre fortificazioni e ne porto meca le memorie in scritto»”[27].

Anche Fernando Rodrìguez De La Flor si sofferma sul Camassa come esperto di tattica militare, citando la sua opera Tabla universal: “La geometría, en un sentido más general, determina toda la polemología, tal y como J. de Beausobre: «La ciencia de la guerra es esencialmente geométrica… La disposición de un batallón y de un escuadrón sobre un frente entero y determinada altura es sólo el resultado de una geometría profunda todavía ignorada» (Commentaires sur les défenses des places, II, París, 1757, p. 307. Cito por M. Foucault, Vigilar y castigar, Madrid, 1982, p. 168). El fragmento citado puede ponerse en relación con toda una serie de obras que ofrecen sistematizaciones de orden geométrico en las disposiciones de las formaciones militares, en lo que se denominaba el «arte de escuadronear», como es el caso del libro de Francisco Antonio Camassa, Tabla universal para ordenar en qualquiera forma Esquadrones. En un sentido, en última instancia también geométrico, Paul Virilio ha estudiado los fenómenos bélicos, y en concreto el de la ubicación de defensas a lo largo de un territorio, como producto de lo que el analista define como ‘perspectiva’, cf. Logistique de la Perception. París,1984”[28].

Nell’opera Cristiano desagravio y retractaciones de Don Guillén Lombardo. Manuscrito novohispano del siglo XVII, a cura di Gonzalo Lizardo, sono riportate diverse lettere di Guillén Lombardo che citano il Camassa[29].

Così come, sempre con riferimento al leggendario Guillén Lombardo, nell’articolo Zorro’ of Wexford?,Gerry Ronan cita ampiamente il Camassa nella biografia del Lamport[30].

Un’altra fonte lo dice anche al seguito di Carlo IV, Duca di Lorena, nella campagna militare di Germania e Francia[31].

Conosciamo svariate lettere di Padre Camassa. All’interno del Memorial Histórico Espanol; Colección de Documentos, Opúsculos y Antigüeda des Madrid, Academia Real de la Historia, Volume XIX, Madrid,1865, si trova la collezione Cartas de algunos pp. de la Compañía de Jesus: sobre los sucesos entre los anos de 1634 y 1648: in quest’opera, troviamo al Tomo VII, una lettera di Camassa alle pp.281-2;  nello stesso Tomo VII, alla p. 493 è riportato l’indice dell’intera collezione:

“Camassa (P. Francisco Antonio), de la C. de J. ; confesor del marqués de Leganés. I 33, 35, 101, 440, 483, 268, 519; sus cartas de Italia, II 28, 91 ; de Valencia , IV 353. V 19. VI 196, 206, 288, 297, 308, 314, 331, 339, 355, 370 (M. Agosto, 1646). VII 329, 345, 360, 361.”

Si tratta di una serie di lettere in cui Camassa riferisce essenzialmente sull’andamento del conflitto bellico.

Padre Camassa è citato da Astrain[32] e da Victor Navarro Brotons[33], il quale, nel paragrafo in cui si occupa del Collegio dei Gesuiti di Madrid, fondato nel 1560 (Los Reales Estudios Del Colegio Imperial De Madrid), scrive: “Junto a della Faille y Richard, [ si riferisce a Jean Charles della Faille e a Claude Richard, primi insegnanti di matematica ] en las primeras décadas de funcionamiento de los Reales Estudios del Colegio Imperial residieron y enseñaron en esta institución, el polaco Alexius Silvius Polonus (1593-ca.l653), el escocés Hugo Sempilius, y el italiano Francisco Antonio Camassa(1588-l646). También enseñó matemáticas y arte militar el jesuita Vasco Francisco Isasi”. E in nota, specifica: “Camassa era de Lecce. Véase Carlos Sommervogel, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, 11 vols., Bruselas, 1890-1900, vol. II, col. 175 y Simón, op.cit. (nota 3), I, p.545[34].

Anche il Diaz si occupa di lui[35], come pure il Sommervogel, già citato da Navarro Brotons, che però lo considera spagnolo[36]. Ampiamente ne tratta il De Lucca[37].

Annalisa Dameri, ricercatrice del Politecnico di Torino, nel saggio già menzionato si occupa del rapporto fra Leganès e Camassa[38] e riporta anche notizie della morte, sebbene in maniera molto nebulosa come per tutta la bibliografia da lei citata. “Il necrologio scritto per la morte di Camassa (ACGRoma, AH, PT, m. 45, necrologia 1557- 1670, c. 206, 4 agosto 1646) ribadisce la vicinanza e la collaborazione con Leganés: il 30 luglio 1646, nella città di Saragozza muore all’età di 57 anni, dopo quarant’anni all’interno della Compagnia di Gesù, colpito da una «calentura maliciosa »”[39].

Nell’opera Il Ciro Politico, Filippo Maria Bonini lo indica come “matematico ed astrologo”[40].

A volte il suo nome viene spagnolizzato in Gamassa, come in  Le voyage du Prince don Fernande Infant d’Espagne, di Diego de Aedo y Gallart[41]. Da citare anche la voce che gli viene dedicata nel Diccionario histórico de la Compañía de Jesús biográfico-temático[42]. Su di lui anche un tesi di laurea nel 2010[43].

Un’ampia scheda gli dedica José Almirante[44], il quale parla di un coinvolgimento del Nostro nella fortificazione delle mura di Sabbioneta e di Saragozza.

Infine, abbiamo scoperto che un’altra opera gli viene attribuita da Giovanni Cinelli Calvoli[45], e cioè: Le stravaganze d’Amor divino:Orazione nella nascita di Cristo composta dal Rev. e Dottor Teologo Francesco Antonio Camassa,1672. Un’opera di teologia, dunque, che mette in risalto la sua figura di pensatore sebbene la data del 1672 non coincida con la data della sua morte nel1642. Probabile sia stata stampata postuma.

Delle brevi considerazioni a conclusione di questo saggio. Può apparire singolare ai nostri occhi la figura di Francesco Antonio, per il suo ruolo di ingegnere militare. Non così doveva essere ai tempi in cui egli visse. Quello della trattatistica militare era un genere letterario fiorente specie nella Spagna del Cinquecento[46], ma non solo: infinita la bibliografia, come abbiamo già visto nel corso della trattazione. Né doveva rappresentare una novità l’appartenenza di Camassa ad un ordine religioso. Anzi, egli si collocava in un percorso già segnato fin dalla nascita della stessa Compagnia di Gesù, affine, per organizzazione e concezione, alla più rigida disciplina del mondo militare, come spiega bene Gianclaudio Civale[47]. Era stato il gesuita Edmond Auger ad aprire la strada, incitando il sovrano di Francia Carlo IX a prendere le armi contro gli ugonotti in quella fase delle guerre di religione che nella seconda metà del Cinquecento insanguinarono la Francia. Nella sua opera[48], Auger spronava con inusitata violenza il sovrano a massacrare senza pietà i nemici della fede, nella convinzione che solo la guerra poteva portare il castigo meritato dagli ugonotti. Era una convinzione condivisa da tutti gesuiti, quella della guerra come giusto flagello di Dio, e della necessità di sterminare eretici ed infedeli per il trionfo della religione cattolica, Ad majorem gloriam Dei, secondo il loro stesso motto. In questo clima, nascevano anche manuali del perfetto soldato cristiano, in cui erano impartite rigide istruzioni ai combattenti per la fede, esemplare l’opera Soldato christiano di Antonio Possevino[49]. Non risulta dunque stridente, almeno ad un primo approccio, l’azione di Camassa con la sua vocazione religiosa. È certo che lo iato fra la spada e la fede fosse saldato dalla causa superiore.

Indagare poi i conflitti di coscienza che alcuni padri potevano patire nel loro impegno militare è materia che ci porterebbe molto lontano dalla tesi di questo contributo.

A noi basti aver diradato le nebbie che avvolgevano la figura di Francisco Antonio Camassa e aver fatto conoscere alla comunità degli studiosi salentini un figlio illustre di questa terra.

 

BIBLIOGRAFIA SU FRANCESCO ANTONIO CAMASSA

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Il Ciro Politico dell’Abbate Filippo Maria Bonini Consultore, e Assistente del Sant’Officio in tutto lo Stato della Repubblica di Genova diviso in due parti all’Altezza Sereniss: e Reverendiss: del Signor Principe Leopoldo Cardinal De Medici. Venetia, 1668 Per Nicolò Pezzana, p.50.

Biblioteca volante di  Gio. Cinelli Calvoli  continuata dal Dottor Dionigi Andrea Sancassani Edizone seconda, in miglior forma ridotta , e di varie aggiunte, ed osservazioni arricchita Tomo secondo Dedicato al reverendissimo Padre Don Alessandro Rossi, Venezia, Giambattista Albrizzi Q.Girolamo,1735, p.34.

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Alle origini dell’Università dell’Aquila: cultura, università, collegi gesuitici all’inizio dell’età moderna in Italia Meridionale : atti del convegno internazionale di studi promosso dalla Compagnia di Gesù e dall’Università dell’Aquila nel IV centenario dell’istituzione dell’Aquilanum Collegium (1596), L’Aquila, 8-11 novembre 1995, a cura di Filippo Iappelli, Ulderico Parente, Istitutum Historicum Societatis Iesu, Roma 2000, p.95.

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Idem, voce Collegio Imperial de Madrid, in J. Martìnez Veròn Arquitectos en Aragòn Diccionario Històrico Volumen II Cabal-Kuhnel, Istituciòn “Fernando El Càtolico”, Saragozza, 2001, p.1931.

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Dameri A., Progettare le difese: il marchese di Leganés e il padre gesuita Francesco Antonio Camassa, esperto di arte militare, in Defensive Architecture of the Mediterranean. XV to XVIII centuries, Vol I, a cura di Pablo Rodríguez-Navarro, Editorial Universitat Politècnica de València, 2015, pp.29-36.

 Dameri A., La difesa di un confine. Le città tra Piemonte e Lombardia nella prima metà del XVII secolo, in El dibujante ingeniero al servicio de la monarquía hispánica. siglos XVI-XVIII, a cura di Alicia Cámara Muñoz, Fundación Juanelo Turriano, 2016, pp.284-285.

Novotny D. D., Sebastian Izquierdo on Universals:A Way Beyond Realism and Nominalism?,in “American Catholic Philosophical Quarterly”, Vol. 91, n.2, Hilton Minneapolis, 2017, p. 230;

 Cristiano desagravio y retractaciones de Don Guillén Lombardo [manuscrito de 1651] [Archivo General de la Nación], Edición, prólogo, epílogo y notas: Gonzalo Lizardo, Universidad Autónoma de Zacatecas «Francisco García Salinas», 2017, passim.

 

Note

[1]G. Palmieri, Riflessioni Critiche sull’Arte della Guerra, Napoli, 1761, ristampa a cura di Mario Proto, Manduria, Lacaita, 1995.

[2] S. Capodieci, Arte della guerra e innovazioni agricole in Giuseppe Palmieri, in Aa.Vv.,Carlo di Borbone e la “stretta via del riformismo” in Puglia. Atti dell’Incontro di Studio Bari, Brindisi e Lecce, 14-15 e 18 dicembre 2017, a cura di Pasquale Corsi, Società Storia Patria per la Puglia, Bari, 2019, pp. 105-133. Nell’ambito dell’epistemologia, fondamentale è l’opera di V. Ilari, Tra bibliografia ed epistemologia militare. Introduzione allo studio degli scrittori militari italiani dell’età moderna, in «Rivista di Studi Militari», n.1, 2012, pp. 141-170, in cui l’autore “ricostruisce la genesi della prima bibliografia militare italiana, pubblicata a Torino nel 1854 da Mariano d’Ayala (1808-1877), un ufficiale del Genio Napoletano esiliato per ragioni politiche. Questa bibliografia, che include più di 10.000 libri e manoscritti scritti o tradotti in Latino o in Italiano fin dal XV secolo, era basata in parte su precedenti bibliografie generali o di fortificazione (soprattutto quella pubblicata nel 1810 da Luigi Marini), e in parte sulla biblioteca militare raccolta dal Conte Cesare Saluzzo di Monesiglio (ora ‘Fondo Saluzzo’ della Biblioteca Reale di Torino). Lo studio inquadra il lavoro di d’Ayala nella storia della bibliografia militare europea, dal Syntagma de studio militari pubblicato a Roma nel 1637 da Gabriel Naudé, fino alla Bibliografia generale delle bibliografie militari pubblicata nel 1857 dal ben noto bibliotecario Julius Petzholdt (1812-1891)”. Ivi, p.141. Un libro molto interessante sul ruolo dei gesuiti nelle fortificazioni e in generale nelle opere di ingegneria militare, è quello di D. De Lucca, Jesuits and Fortifications: The Contribution of the Jesuits to Military Architecture in the Baroque Age, Brill, Leiden, 2012, nel quale l’autore oltre a passare in rassegna le varie figure di gesuiti presenti accanto a potenti, ai condottieri e ai loro eserciti, che si sono variamente occupati di opere de re militari, e ad illustrare come queste opere venissero fatte rientrare nell’ambito delle discipline matematiche, si sofferma sulla delicatezza del ruolo dei frati ingegneri, nonché sulle loro crisi di coscienza, sui dissidi interiori  e sui dissensi da parte dello stesso ordine gesuita, poiché il loro ruolo era ritenuto incompatibile con la vocazione di un religioso. Si veda: M. Vesco, Ingegneri militari nella Sicilia degli Asburgo: formazione, competenze e carriera di una figura professionale tra Cinque e Seicento, in Aa.Vv., Defensive Architecture of the Mediterranean. XV to XVIII centuries, Vol I, a cura di Pablo Rodríguez-Navarro, Editorial Universitat Politècnica de València, 2015, pp. 223-230. Inoltre: P.Rodríguez-Navarro, Modern age fortifications of the Mediterranean coast Bibliographic guide, Editorial Universitat Politècnica de València, 2015.

[3] R. Gatto, Tra scienza e immaginazione. Le matematiche presso il collegio gesuitico napoletano (1552-1670 ca), Firenze, Olschki,1994, p. 185.

[4] Ivi, pp. 269-270.

[5] Aa.Vv., Alle origini dell’Università dell’Aquila: cultura, università, collegi gesuitici all’inizio dell’età moderna in Italia Meridionale : atti del convegno internazionale di studi promosso dalla Compagnia di Gesù e dall’Università dell’Aquila nel IV centenario dell’istituzione dell’Aquilanum Collegium (1596), L’Aquila, 8-11 novembre 1995, a cura di Filippo Iappelli, Ulderico Parente, Istitutum Historicum Societatis Iesu, Roma, 2000, p. 95.

[6] Per i riferimenti specifici all’ordine dei Gesuiti, si veda: Glossario Gesuitico Guida all’intelligenza dei documenti, a cura di W. Gramatowski S.I., ARSI, Roma,1992, ad vocem.

[7] Il suo nome compare anche fra i “Lettori di matematica” del Collegio di Napoli elencati in un manoscritto di Vincenzo Carafa, databile intorno al 1625, conservato nella BNR (ms Ges.1629) a c.194, che dice: “Lettori di Matematica: Gio. Giac. D’Alessandro, Gio.Giac. Staserio, Gio.Batta Trotta, Gio.Batta Zupo, Francesco Antonio Camassa, Scipione Sgambati, Horatio Giannino, Gio.Batta Galeota”, riportato da R. Gatto, op.cit., pp. 78-79. Si veda anche A. Udias, Profesores de matematicas en los Colegios de la Compania de Espana, 1620-1767, in «Archivum Historicum Societatis Iesu» vol. XXIX, fasc. 157 gennaio-giugno 2010, pp. 3-27, che cita Camassa a p. 25.

[8] Arsi, Neap. 17, c.46v, in R. Gatto, op.cit., p. 185.

[9] Juan Eusebio Nierenberg (1595-1658), autore del libro Curiosa filosofia y tesoro de maravillas, Madrid, Imprimeria del Reymo, 1634, che è solo una delle opere della sua sterminata produzione, che comprende anche le biografie di Sant’Ignazio di Loyola e di San Francesco Borgia. Nell’opera De la hermosura de Dios y su amabilidad por las infinitas perfecciones del Ser divino (1641), coniuga la filosofia platonica con la dottrina cristiana della grazia.

[10] Su Jan Charles della Faille, professore di matematica al Collegio Imperiale di Madrid, si veda la Voce Jean-Charles della Faille 1597-1652, curata da O. Van De Vyver, in Diccionario histórico de la Compañía de Jesús (4 volúmenes) biográfico-temático, a cura di Charles E.O’Neill e Joaquín María Domínguez, Universidad Pontificia Comillas, Madrid, Insititutum Historicum S.I. Roma, 2001, p.2935 (del pdf). Inoltre, O. Van De Vyver S. I., Lettres de J.Ch. Della Faille S. I., Cosmographe du Roi a Madrid, a M. F. Van Langren, cosmographe du Roi a Bruxelles, 1634-1645, in «Archivum Hisoricum Societatis Iesu», XLVI, 1977, pp.73 ss. Vi si riporta una corrispondenza fra l’astronomo e matematico fiammingo Michel Florent van Langren (Langrenius) e della Faille, nella quale è citato più volte Camassa.

[11] A. Astrain, Historia de la Compañia de Jesús en la Asistencia de España, Madrid, Razón y Fe, 1916, Tomo V, p.168, riportato anche da Gatto, op.cit., p. 185. Inoltre A. Udias, op.cit., p. 25.

[12] Sul Leganès, fra gli altri: F. Arroyo Martín, El marqués de Leganés. Apuntes biográficos, in «Espacio, Tiempo y Forma», Serie IV, H. Moderna, t. 15, 2002, pp. 145-185.

[13] Si può fare riferimento a: J. Huxtable Elliot, La Spagna imperiale:1469-1716, Bologna, Il Mulino,1982; Idem, Il miraggio dell’impero.Olivares e la Spagna: dall’apogeo al declino Tradotto da Paola Moretti, introduzione di Giuseppe Galasso, 2 Volumi, Roma, Salerno Editrice, 1991. Con particolare riferimento alla partecipazione dei gesuiti alla guerra dei trent’anni, si veda: R. Bireley, The Jesuits and Thirty Years war: Kings, Courts, and Confessors, Cambridge, University Press, 2009, specificamente al capitolo 6, pp.167-203; J.B. Sánchez, La Compañía de Jesús y la defensa de la monarquía Hispánica, in «Hispania Sacra», LX, 2008, pp. 181-229. Inoltre, La decadenza della Spagna e la Guerra dei Trent’Anni 1610-1648, a cura di J.P.Cooper, Cambridge University Press, Garzanti, 1971.

[14] G. Casalis, Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale degli stati di S. M il Re di Sardegna, Volume XXV G.Maspero, Torino, 1853, p.404.

[15] G. Claretta, Storia della reggenza di Cristina di Francia duchessa di Savoia con annotazioni e documenti inediti, Parte Prima, Stabilimento Civelli Torino,1868, p. 307.

[16] A. Dameri, La difesa di un confine. Le città tra Piemonte e Lombardia nella prima metà del XVII secolo, in Aa.Vv., El dibujante ingeniero al servicio de la monarquía hispánica. siglos XVI-XVIII, a cura di Alicia Cámara Muñoz, Fundación Juanelo Turriano, 2016, pp.284-285.

[17]Sulla guerra di Nordlingen, si veda R. Bireley, The Jesuits and Thirty Years war: Kings, Courts, and Confessors, Cambridge, University Press, 2009, pp.139 e 159.

[18] F. Troncarelli, La spada e la croce, Roma, Salerno Editrice, 1999.

[19] L’irlandese William Lamport spagnolizzò il proprio nome in Guillén Lombardo de Guzmàn, in onore di Gaspar de Guzman, Conte di Olivares. Egli combattè per conto della Spagna nelle Fiandre, accanto al Cardinal Infante Fernando, nella battaglia di Nordlingen, poi a Bruxelles e successivamente ancora in Spagna, dove partecipò nel 1638 alla battaglia di Fuentarabia a capo di un reparto di truppe irlandesi. Nel 1640, il Conte di Olivares lo inviò in Messico a tutelare gli interessi della Corona dai rapaci amministratori spagnoli. Autore di opere in prosa e in versi, accusato di praticare la magia e l’astrologia, fu un personaggio molto controverso. In Messico, dove poté toccare con mano le angherie e le violenze perpetrate dai conquistatori a danno degli Indios, finì al centro di una vasta rete di interessi contrapposti e quindi nelle maglie dell’Inquisizione, che lo tenne in carcere per ben 17 anni fra stenti e torture di ogni genere. Alla fine, venne bruciato sul rogo, nel 1659. Alla figura di Lombardo si è ispirato Vicente Riva Palacio per creare il personaggio di Zorro, diventato ben presto una leggenda, protagonista di una fortunata serie di romanzi, film e telefilm. Si veda anche G. Ronan, The Irish Zorro,The extraordinary adventures of William Lamport (1615-1659), London, Brandon, 2004.

[20] F. Troncarelli, op.cit., p. 167.

[21] Ivi, p.169. Oltre a quella di Camassa, su William Lamport, notevole fu l’influenza che ebbe Juan Eusebio Nierenberg, in quanto esperto di arti magiche: Ivi, p.163.

[22] Ivi, p.170.

[23] E. Charveriat, Histoire de la guerre de trente ans:1618-1648 Periode suedoise et periode francaise:1630-1648 tomo II , E. Plon Parigi, 1878, p.291.

[24] F. Troncarelli, op.cit., p.359. L’autore però dice Camassa nato intorno al 1584, entrato nella Compagnia di Gesù a Napoli nel 1607 e morto nell’agosto del 1646: Ivi, p.357.

[25] Archivio di Stato Mediceo, filza 4960, citata da J. H. Elliot, The Revolt of the Catalans. A study of the Decline of Spain (1598-1640), Cambridge, Univ. Press, 1963, p.582: Ibidem. 

[26]A. Dameri, Progettare le difese: il marchese di Leganés e il padre gesuita Francesco Antonio Camassa, esperto di arte militare, in Aa.Vv., Defensive Architecture of the Mediterranean. XV to XVIII centuries, Vol I, a cura di Pablo Rodríguez-Navarro, Editorial Universitat Politècnica de València, 2015, p.30.

[27] Ivi, p.35.

[28] F. R. De La Flor, La frontera de castilla el fuerte de la concepción y la arquitectura militar del Barroco y la llustración, Diputación de Salamanca, 2003, nota 68, pp.219-220. Sull’argomento si veda anche: A. E. López, Guerra y cultura en la Época Moderna. La tratadística militar hispánica de los siglos XVI y XVII. Autores, libros y lectores, Madrid, Ministerio de Defensa, 2001, p.618. E ancora: J. Patricio Sáiz, El peluquero de la Reina Comunicazione Cambio tecnológico y transferencia de tecnología en España durante los siglos XIX y XX , en el marco del Plan Nacional de Investigación Científica, Desarrollo e Innovación Tecnológica 2004-2007, Ministerio de Educación y Ciencia, Dirección General de Investigación, referencia SEJ2004-03542/ECON, p.14; A. E. López, La edad de oro de la tratadística militar española, in «Don Quijote Revista de Historia militar», I n s t i t u t o d e H i s t o r i a y C u l t u r a m i l i t a r Año LI Núm. Extraordinario Imprenta Ministerio de Defensa Madrid, 2007, pp.101-127, che cita Camassa a p.126.

[29]Cristiano desagravio y retractaciones de Don Guillén Lombardo [manuscrito de 1651] [Archivo General de la Nación], Edición, prólogo, epílogo y notas: Gonzalo Lizardo, Universidad Autónoma de Zacatecas «Francisco García Salinas», 2017, passim.

[30] G. Ronan, Zorro’ of Wexford?,in «The Past The Organ of the Uí Cinsealaigh Historical Society», n. 22, 2000, pp.3-50.

[31] F. Des Robert, in Campagnes de Charles IV duc de Lorraine et de Bar, en Allemagne, en Lorraine et en Franche-Comté, 1634-1638, d’après des documents inédits tirés des archives du Ministère des affaires étrangères, Parigi, 1883, a p.36 dice: “Ce fut le P. Camaja, jésuite, qui dirigea les travaux de défense.

[32] A. Astrain, Historia de la Compañia de Jesús en la Asistencia de España, Madrid, Razón y Fe, 1916, Tomo V, p. 168.

[33] V. Navarro Brotons,  Los Jesuítas y la renovación científica en La España del siglo XVII, in  «Studia Histórica Moderna», Ediciones Universidad de Salamanca, Vol. 14,1996, pp.15-44.

[34]Ivi, p.20. Dello stesso autore, Tradition and Scientific Change in Early Modern Spain: The Role of the Jesuits, in Aa.Vv., Jesuit Science and the Republic of Letters, a cura di Mordechai Feingold, Cambridge, Mass: London : MIT, 2003, p.334. Idem, El Colegio Imperial de Madrid, in Aa.Vv., Momentos y lugares de a ciencia española, siglos XVI-XX, a cura di Antonio Lafuente e Juan Pimentel, Madrid, 2012, on-line: http://hdl.handle.net/10261/63686 pp.51 e 54.

[35] J.S.Díaz, Historia del Colegio Imperial de Madrid: Casa y Colegio de la Compañia de Jesus (1560-1602) Colegio Imperial (1603-1625) Los Reales Estudios (1625-1767), Consejo Superior de Investigaciones Científicas, Instituto de Estudios Madrileños, Madrid,1952, p.545.

[36] Bibliothèque de la Compagnie de Jésus Premiere Partie: Bibliographie, par les pères Augustin et Aloys de Backer; Seconde partie: Histoire, par le pere Auguste Carayon   Nouvelle Èdition  par Carlos Sommervoegel,S.J.,publieè par la Province de Belgique, Bibliographie Tome II Boulanger-Desideri, Bruxelles Oscar Schepens –  Paris Alphonse Picard, 1891, p.575 (ma dell’opera vi sono altre edizioni, come quella del 1898 e quella del 1960).

[37]D. De Lucca, Jesuits and Fortifications: The Contribution of the Jesuits to Military Architecture in the Baroque Age, Brill, Leiden, 2012, Nota 182 a p.143 e pp.141, 143, 144, 145, 210, 220, 230, 231, 260, 309, 329, con informazioni  generali sulla vita e  sull’operato accademico e militare  di Camassa .

[38]A. Dameri, Progettare le difese: il marchese di Leganés e il padre gesuita Francesco Antonio Camassa, esperto di arte militare, in Aa.Vv., Defensive Architecture of the Mediterranean. XV to XVIII centuries, Vol I, a cura di Pablo Rodríguez-Navarro, Editorial Universitat Politècnica de València, 2015, pp.29-36.

[39]Ivi, p.31.

[40] Il Ciro Politico dell’Abbate Filippo Maria Bonini Consultore, e Assistente del Sant’Officio in tutto lo Stato della Repubblica di Genova diviso in due parti all’Altezza Sereniss: e Reverendiss: del Signor Principe  Leopoldo Cardinal De Medici. Venetia, 1668 Per Nicolò Pezzana, p.50.

[41] Le voyage du Prince don Fernande Infant d’Espagne, Cardinal: depuis le douziéme d’Avril de l’an 1632, qu’il partit de Madrit pour Barcelone avec le Roy Philippe IV son frere, julques au jour de fon entreè en la ville de Bruxelles le quatrième du mois de Novembre de l’an 1634 Tradyict de l’Espagnol de Don Diego de Aedo y Gallart…. En Anverse  Jean Crobbaert, 1635, p.126: “Pere Gamassa”. Si vedano inoltre: J. B. Sánchez, La Compañía De Jesús y la defensa de la monarquía hispánica,  in  «Hispania Sacra», LX 121, enero-junio 2008, pp.181-229; F. Arroyo Martìn, El marquès de Leganés. Apuntes biogràficos, in «Espacio, Tiempo y Forma» Serie IV, H.Moderna, t.15,Uned, Madrid, 2002, pp.145-185: Camassa è citato a p.154; Voce Francisco Antonio Camassa, in J. Martìnez Veròn, Arquitectos en Aragòn Diccionario Històrico Volumen II Cabal-Kuhnel, Istituciòn “Fernando El Càtolico”, Saragozza, 2001, p.101.

[42] J. Escalera, Voce Francisco Antonio Camassa, in Diccionario histórico de la Compañía de Jesús (4 volúmenes) biográfico-temático, a cura di Charles E.O’Neill e Joaquín María Domínguez, Universidad Pontificia Comillas, Madrid, Insititutum Historicum S.I. Roma, 2001, p.1356 (del pdf); e anche Idem, alla voce Collegio Imperial de Madrid, Ivi, p.1931, e alla voce Ensenanza Militar, Ivi, p.2752.

[43] El Marquès De Leganès y las artes. Tesis Doctoral di Josè Juan Perez Preciado (Relatore Alfonso E.Pèrez Sànches) Universidad Complutense de Madrid, Facultad de Geografìa e Historia, 2010, passim.

[44] Bibliografía militar de España / por el Excmo. señor José Almirante Madrid: Imp. y Fundición de Manuel Tello, 1876, pp.108-109.

[45] Biblioteca volante di  Gio. Cinelli Calvoli  continuata dal Dottor Dionigi Andrea Sancassani Edizone seconda, in miglior forma ridotta , e di varie aggiunte, ed osservazioni arricchita Tomo secondo Dedicato al reverendissimo Padre Don Alessandro Rossi, Venezia, Giambattista Albrizzi Q.Girolamo, 1735, p.34.

[46] Si vedano A. Espino Lopez, Guerra y Cultura en la Epoca Moderna. La tratadistica militar hispanica en los siglos VXI y XVII. Autores, libros y lectores, Madrid, Ministerio de Defensa, 2001, ed anche F.Gonzalez De Leon, Doctors of the Military Discipline, in Idem, The Road to Rocroi. Class, Culture and Command in the Spanish Army of Flanders, 1567-1659, Leiden, Brill, 2009.

[47] G.Civale, Guerrieri di Cristo Inquisitori, gesuiti e soldati alla battaglia di Lepanto, Milano,Edizioni Unicopli, 2009, p.35.

[48] E. Auger, Le pédagogue d’arms, pour instruire un prince chrétien à bien entreprende et heureusement achever une bonne guerre, pour estre victorieux de tous les ennemis de son Estat et de l’Eglise catholique, Paris, Sebastien Nivelle, 1568.

[49] Soldato christiano con l’instruttione de’ Capi dell’Essercito Catolico composto dal R.P.Antonio Possevino della Compagnia di Giesu, Macerata, Sebastiano Martellini, 1588. Sull’argomento, si veda Vincenzo Lavenia, Tra Cristo e Marte. Disciplina e catechesi del soldato cristiano in età moderna, in Aa.Vv., Dai cantieri della storia liber amicorum per Paolo Prodi, a cura di Giuseppe Olmi e GianPaolo Brizzi, Bologna, Clueb, 2007, pp.37-54.

Libri| La Sho’ah. Il giorno della memoria

AA.VV., “LA SHO’AH. IL GIORNO DELLA MEMORIA”, A CURA DI MAURIZIO NOCERA, S.L. 2019, PP.52.

 

di Paolo Vincenti

Un agile libriccino dal titolo impegnativo: La Sho’ah. Il giorno della memoria, a cura di Maurizio Nocera (gennaio 2019), ci riporta ad una tematica sempre attuale e intimamente avvertita.

La celebrazione del 27 gennaio, in Italia più che altrove, ha costantemente ricevuto grande risonanza, attraverso scuole, enti, associazioni, che si sono fatti promotori di attivazione delle pratiche del ricordo. In Puglia, principale sponsor della Giornata della memoria è stata la rete laterziana dei Presìdi del libro che attraverso le scuole di ogni ordine e grado sparse sul territorio regionale, spesso in collaborazione con le più sensibili associazioni locali, attiva ogni anno svariate celebrazioni, che non si esauriscono in quel solo importante giorno ma abbracciano interamente il mese di gennaio e sconfinano in quello di febbraio, a volte con significative estensioni per tutto l’anno scolastico. Il libro in parola, realizzato con il sostegno del Comitato promotore dell’Unesco di Lecce, si apre con una significativa citazione di Jean Paul Sartre, tratta dall’opera L’antisemitismo.

Maurizio Nocera, noto e prolifico studioso salentino, scrittore, poeta ed alacre operatore culturale, ha voluto pubblicare questo libro, dalla copertina patinata e dalla elegante veste grafica, senza scopo commerciale, con la meritoria intenzione di distribuirlo gratuitamente agli studenti degli Istituti Superiori di secondo grado, destinatari privilegiati, come si diceva sopra, delle iniziative legate alla Sho’ah, un termine ebraico, tratto dalla Bibbia (Isaia 47, 11) che significa “distruzione”, passato ad indicare per estensione l’eccidio degli Ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale (abitualmente ma non del tutto propriamente definito “Olocausto”).

Nel libro viene ospitato un intervento del 1997 di Avram Goldstein Goren (1905-2005), magnate della finanza ebreo romeno e filantropo, vissuto fra la Palestina e l’Italia, testimone della Shoah, che usa parole semplici eppure emblematiche, togliendole dalle sue memorie di deportato pubblicate in due libri di grande successo. Segue poi un poemetto in versi liberi di Maurizio Nocera, dal titolo “Il demonio della morte ad Auschwitz”, di recente composizione.

Nel suo intervento Maurizio Nocera, anche segretario della sezione leccese dell’Anpi (Associazione nazionale partigiani italiani), ricorda come nella campagna di odio antisemita, la Shoah fu la punta più estrema della programmatica opera di sterminio del popolo ebreo voluta dalla mente criminale di Adolf Hitler. Cionondimeno, grandi furono le responsabilità del regime fascista italiano che seguì il dittatore tedesco nella sua dissennata politica, che sfociò nel progetto di pulizia etnica con l’Olocausto.

La più grande vergogna della politica fascista viene individuata da Nocera nelle leggi razziali promulgate nel 1938 e successivamente nella creazione anche in Italia dei campi di concentramento sul modello dei lager tedeschi. Di questi, il più tristemente noto è quello di Auschwitz-Birkenau, a nord di Cracovia, Polonia, dove vennero uccisi milioni di Ebrei, insieme a Rom e Sinti, e liberato dall’Armata Rossa il 27 gennaio del 1945. Questo giorno successivamente è diventato la Giornata della Memoria, istituito in Italia con una legge del 2000, recepita poi anche dall’Onu, che ha dichiarato il 27 gennaio Giornata mondiale della Memoria.

Questo impegno è stato promosso principalmente dall’Unesco, ovvero l’Organizzazione delle Nazioni Unite per la Scienza, l’Educazione e la Cultura, nata nel 1946 dalla volontà dei Ministri della Cultura dei Paesi alleati. Su questa organizzazione mondiale e sul suo impegno per la cooperazione e la pace nel mondo, si sofferma Pompeo Maritati nel suo intervento all’interno del libro. Lo stesso Maritati, presidente del club Unesco di Lecce, individua le cause di una immane tragedia come l’Olocausto, non solo nella precisa volontà del regime nazista, ma anche nella acquiescenza dei popoli europei, nella loro indifferenza di fronte ad una simile aberrazione. Ciò perché il regime totalitario aveva in qualche modo svuotato la coscienza della gente, fino ad annullare ogni capacità critica, non solo nel popolo minuto, nella massa degli illetterati, ma addirittura negli intellettuali, molti dei quali avallarono incredibilmente le deportazioni di massa e poi il genocidio. L’indifferenza, sostiene Maritati, seguendo le parole di Liliana Segre, fu mortale almeno quanto i lager e le camere a gas. Maritati sottolinea poi come, dopo la fine della guerra, nonostante il famoso processo di Norimberga, molti criminali nazisti la abbiano fatto franca, con la complicità dei governi nazionali, primo fra tutti il governo tedesco, che imbastì dei processi farsa, garantendo la sostanziale immunità dei colpevoli. Ciò che grida vendetta agli occhi del mondo, secondo Maritati, è proprio questa assenza della giustizia di fronte al genocidio degli ebrei e a chi lo operò. Ecco che il giorno della memoria serve allora non solo per ricordare quanto accadde e per commemorare le vittime del nazifascismo, ma anche per stimolare la riflessione e il pensiero critico delle nuove generazioni di fronte agli emergenti totalitarismi e alle persecuzioni che in forme diverse si perpetuano in svariate parti del mondo, a danno di indifese minoranze.

La seconda sezione del libro, “Voci nel vento”, è dedicata ai dipinti di Massimo Marangio, artista salentino che dipinge con la tecnica del bitume su tela. L’autore rappresenta l’inferno del lager nazista attraverso l’esposizione espressionista dei protagonisti di quell’orrore, le vittime della persecuzione, o più che altro, si potrebbe dire, dei loro corpi. Corpi nudi, emaciati, volti scarniti e magri, esili figure pallide che si muovono come fantasmi sul teatro di una tragedia infinita. Persone ed animali, esponenti di un’umanità dolente, deprivata, protagonisti anonimi popolano questi quadri, dalle rese cromatiche forti, e le immagini ci arrivano inquietanti, stranianti. I contorni sono sfumati, ci lasciano percepire solo una massa indistinta di condannati, morti viventi, a volte sotto lo sguardo vitreo dell’ufficiale nazista la cui macabra figura si staglia sulla turba dei senza volto. Massimo Marangio, che insegna presso il Liceo Artistico Ciardo- Pellegrino di Lecce, ha esposto nelle maggiori fiere nazionali ed è originario di San Pietro Vernotico, il paese di Domenico Modugno, al quale ha anche dedicato una mostra nel 2018, “Dipinti pensati su Domenico Modugno e Pierpaolo Pasolini”, curata proprio da Maurizio Nocera. La ricerca storica è alla base delle sue pitture, come si può evincere dai titoli delle varie personali (basti citare, fra le altre: “Balconi a Oriente”, “Testimoni del tempo” “I luoghi della Taranta”, “Arie crepuscolari”). Marangio è un pittore impegnato che non esita a scegliere tematiche di carattere sociale nelle sue opere. Emblematica è questa, presente nel libro, sebbene priva di didascalie e di qualsiasi commento; forse, nell’intenzione dei proponenti, per lasciare che siano le immagini a parlare da sé. Il messaggio arriva forte e chiaro. Ed assolutamente consigliabile è la lettura del libro.

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