Libri| Ossi di parole in “Malesciana” di Giacomo Giancane

 

di Renato De Capua

“E fu un sogno inatteso vedere

le cinque punte di una rondine

tramutarsi in una stella”

(G. Giancane, Il Pompelmo, da Malesciana)

 

“Malesciana”[1] è il titolo del primo album poetico di Giacomo Giancane, giovane autore salentino che nella sua poesia esprime un’attenta osservazione del territorio: le bellezze naturali, i costumi e le atmosfere del Salento, divengono lo spunto per una riflessione di ampio respiro sull’esistenza e sulle istanze dell’umano.

Il libro, in un crescendo emozionale, è una confessione d’amore, un atto di fede verso la propria terra che, sin dalla dedica posta in limine alla raccolta, viene definita “amata terra a sud del sud”.

Il dato geografico è importante per muovere i primi passi all’interno degli orizzonti poetici di questa silloge: siamo nel Salento, nei paesi e nella terra più a sud della penisola italiana; chi li abita può riconoscersi facilmente nelle descrizioni e ritrovarsi tra quelle vie scandite dalla pulsazione di una “vita che ribolle in quelle ore” (v.6 “Le spighe) e si dipana e poi s’infrange “sulla falce della luce” (v. 11).

L’idea di fondo della concezione del tempo che emerge dalle poesie, può essere esemplificata attraverso l’arco della vita di un frutto; il poeta per indicarne lo sviluppo non usa il verbo “crescere”, ma “maturare”, poiché l’idea della maturazione va più facilmente incontro allo scacco dell’esistenza[2]. Un frutto deve essere colto nel giusto tempo, proprio come le opportunità della vita, altrimenti si spezza, recide il legame con la pianta da cui è stato generato, cade e si perde tra le zolle sottostanti.

Il tempo è quindi percepito come effimero, mutevole, sfuggente come la “brevità dei fiori”, altra immagine[3] che si presta a una descrizione fugace di quello che è il fluire degli eventi attorno a noi. Se da un lato i fiori adornano col loro sguardo la nostra vista, dall’altro ci ricordano che tutto è cangiante e transitorio; intenso sì, ma pur sempre breve nell’estensione.

Si leggano i vv. 6-8 di “Simulacri” (pag. 12), nel prosieguo della nostra trattazione.

“Abito ogni cosa che rimane

Un giardino conchiuso nella ruggine,

un paese sgominato dalla polvere.”

 

Il nostro viaggio è partito da un dato geografico e dall’estremo sud, ma questi versi ci inducono a trascenderlo e disancorarci da uno spazio determinato, perché il poeta e la poesia abitano ogni cosa che rimane; il canto si eleva, diviene memoria, un simulacro; oltrepassa le barriere e s’insinua tra molteplici scenari.

La poesia attraversa i luoghi, è parte costituente di essi e non a caso proprio la parola “paese” trova dimora numerose volte nel corso dell’opera. Innanzitutto fa da sfondo a ogni suggestione catturata e tradotta in parola: è speranza e attesa (“tornerò nel mio paese” pag. 9 v.1); è la personificazione di un Padre che attende il ritorno del proprio figlio (“Padre mio paese mio” v. 1 pag. 20); è intimo raccoglimento (“il sole è tardo/sul paese che prega” vv.1-3 pag. 23); è lentezza schiacciante e rarefatta (nel lento paese/ dove presto guastano/i gelsi vv. 3-5 pag. 53).

È una realtà complessa, da narrare con “parole striminzite”, intrise dall’arsura del sole, ma estremamente precise e veritiere.

La scelta delle parole, infatti, non è mai approssimativa, ma designa un aspetto particolare; rende tangibile il silenzio del meriggio in cui un cane riposa raggomitolato su se stesso (l’autore usa il termine “letargo” per rendere l’idea[4]); evoca mediante ardite analogie l’avverarsi del possibile o, perlomeno, di ciò che la mente costruisce e rappresenta, come si legge ai vv. 3-5 di “Lecce, Via Beccherie Vecchie”:

“nell’ora stellata di geranio

S’odono le rondini

Leggere il Corano”.

 

Immaginiamo un borgo antico in estate e sul far della sera, quando i gerani emanano il profumo alacre dalle loro foglie misto a quello dei fiori. Le rondini in stormo passano e creano forme nel cielo, e l’immaginazione rende a parole il loro canto.

Un altro aspetto determinante è la condizione del poeta espressa in “Malesciana”. Egli è la voce del suo paesaggio; mediante l’uso di un’efficace metafora animale e iconografica, il poeta viene paragonato a un geco guardingo e solitario nel suo angolo e a un geroglifico, simbolo accattivante di un tempo remoto ma criptico e talvolta non immediatamente decodificabile[5].

In questa raffigurazione della figura del poeta, ritornano echi della letteratura; si pensi a Baudelaire e all’Albatro de “I fiori del male” che ci ricorda i limiti che l’uomo può imporre all’arbitrio della parola poetica: anche se si hanno grandi ali, se queste sono avvinte e derise da una fune, non si può spiccare il volo. Ricordiamo anche Aldo Palazzeschi che in una sua nota lirica, “Chi sono?”, prova a definire la figura stessa del poeta, partendo da se stesso e concludendo di essere il saltimbanco della sua stessa anima.

Su questa linea di pensiero, ma con un tocco di leggero ottimismo si ritrova in “Testamento” di Giancane l’idea di un poeta che riesce a esorcizzare se stesso, proiettandosi nel tempo “ tra i posteri/ a nutrire con la torba dei versi/ la sete dei frutteti futuri” (vv.10-12).

Tra il bilico dell’incertezza e del limite, è sicuro che ogni tempo ha bisogno del suo racconto, delle sue voci, dei suoi poeti.

Non si possono raccogliere buoni frutti, senza che qualcuno si prenda cura degli alberi che li producono; così è per gli uomini che senza la letteratura stenterebbero a trovare le parole e si sentirebbero ancor più soli.

Il titolo dell’opera di per sé incuriosisce. La parola “malesciana” è in dialetto salentino ed è composta a sua volta da due sostantivi tra loro accostati, “male” (usato come prefisso conferente un’accezione negativa al termine) e “sciana” (parola che significa “umore, disposizione”; ma anche “stato dell’anima”).

Una traduzione letterale del termine con “cattivo umore/ stato turbato dell’anima”, sarebbe un azzardo un po’ goffo, perché “malesciana” in poesia si carica di significati ulteriori.

È un concetto accostabile al male di vivere montaliano che lotta e prova a esprimere la propria insofferenza in un mondo che bada troppo alle apparenze; è lo spleen malinconico di Baudelaire che vuole imprimere un cambiamento alla realtà, ma non sempre ci riesce e ne rimane devastato.

Quindi la “malesciana” di Giancane è una preghiera e un auspicio, che si dissimula nella pienezza di un sole “che muore sulla biada del mare” (v. 5 “La malesciana” pag. 8).

La lingua che il poeta sceglie di adoperare è media e talvolta settoriale; parla del quotidiano, ma gli conferisce una declinazione precisa nelle consapevolezze delle proprie modalità espressive.

C’è un’attenzione al fonosimbolismo delle parole, che nel suono padroneggiano il verso. Ad esempio il vento dà voce e movimento alle mandorle, “facendole vibrare come chitarre”.

Alcuni termini dialettali vengono poi armoniosamente accostati a quelli italiani, quasi da renderne difficile la distinzione.

Ad esempio in “Le spighe” si trova l’espressione perifrastica “vado scerrando”, che risulta indefinita ma dinamica e progressiva. Il termine “scerrare” significa dimenticare e in questo caso la progressione della dimenticanza, è restituita dall’idea di volersi lasciare tutto alle spalle per sentirsi più leggeri e perdersi e confondersi nella luce.

Un altro dialettismo presente nella stessa lirica è il termine “friculare”, coniugato all’infinito, modo dell’estensione e della distensione dell’azione. Esso significa sfregare, strofinare, ma anche “darsi da fare”, “occuparsi di più cose”.

L’immagine delle spighe che tra loro “friculano” rende ambedue le accezioni del termine: il suono dello sfregamento reciproco, l’idea di una vegetazione che cresce “e s’affretta, e s’adopra/ di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba”, forse avrebbe detto Leopardi[6].

Il viaggio all’interno di un’opera letteraria conduce sempre a molteplici conclusioni, a strade che mai si chiudono e sempre sorgono nuove e sconfinate. Ognuno, leggendo quest’opera, troverà la propria voce o le parole per esprimerla, perché il senso dello scrivere è quello di tessere legami tra gli uomini.

È un invito al viaggio, a tornare “in questa malaugurata piana”, a scoprirla con occhi nuovi senza timore.

Chi decide di restare fermo a guardare e ha paura di meravigliarsi, potrebbe rimanere immobile “come aprili incastrati/ in una muraglia d’inverni”[7]. Leggere questa raccolta può condurci a sud del sud o ovunque vorremmo essere.

 

 

Giacomo Giancane nasce e vive nel Salento e inizia a dedicarsi alle lettere sin da giovanissimo. Fervido lettore dei “maledetti” francesi, degli ermetici italiani e degli avanguardisti russi, esordisce con “Malesciana”, album di liriche nel quale l’autore esplora esperienze di luce e ombra in una penisola salentina che diviene ideale, patria lirica e interiore di vita e desiderio.

Oltre a quella per la letteratura, coltiva un’ardente passione per la musica. Vuole diventare uno scrittore ed è attualmente al lavoro sul suo primo romanzo.

 

Note

[1] G. Giancane, Malesciana (poesie), edizioni esperidi, Lecce, 2021.  Le citazioni, dove non diversamente specificato, fanno riferimento a questa edizione.

[2] Si fa riferimento al v. 1 de “Il tempo quaggiù”.

[3] “la brevità dei fiori” è l’immagine conclusiva presente in “La basilica barocca” a pag. 29.

[4] Si legga “Persiane” vv.7-8 pag. 95.

[5] Si legga “Le giuggiole” vv. 1-3 pag.102.

[6] Leopardi G., Il sabato del villaggio, da Canti, vv. 36-37, contenuto in Canti, Operette morali, Pensieri pag. 101,  De Agostini, Novara, 1961.

[7] La similitudine è ripresa dai vv. 8-9 di “Io non lo so”, pag. 33.

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