Il porto di Brindisi: una storia sconosciuta (seconda parte)

di Nazareno Valente

 

  1. La polemica su cosa fare del porto interno di Brindisi

 

Inizialmente, oberato dai debiti contratti per riconquistare il regno, Ferdinando IV, divenuto poi Ferdinando I con la costituzione nel 1816 del regno delle Due Sicilie, non era certo nelle condizioni economiche per poter varare nuove iniziative per i porti. La situazione si aggravò anche a causa della carestia del 1817 e delle incertezze politiche che fecero seguito ai moti del 1820-21. Solo al tempo di Francesco I ci fu la possibilità di avviare quantomeno l’attività progettuale che interessò però altri porti pugliesi, quelli di Bari e di Gallipoli. Brindisi ripiombò così nelle tragiche condizioni del periodo antecedente i lavori di Pigonati, quando solo le barchette riuscivano a fatica a superare il canale e l’aria insalubre mieteva vittime a decine. Per lenire le difficoltà del momento, fu mandato nel 1828 l’ingegnere Lorenzo Turco con l’incarico di progettare un intervento di spurgo generale del bacino. Come ebbe però poi a lamentarsi Francesco Antonio Monticelli, nella “Terza memoria in difesa della città e del porto di Brindisi”, l’operazione fu fatta parzialmente tant’è che nel 1833, a cinque anni dall’inizio, erano stati spesi solo 5.600 ducati dei 13.000 promessi. Ciò nonostante si era potuto scavare in parte il canale — che il Monticelli, forse riprendendo una consuetudine popolare, chiamava ormai canale Pigonati — portandolo ad una profondità di 10-12 palmi (tra 2,65 e 3,15 metri circa) «onde vi passano i legni di 100 a 120 tonnellate; e prima non dava passaggio che a piccole barche». Il finanziamento infatti era stato con ogni probabilità bloccato su consiglio di Giuliano de Fazio, ispettore generale del Corpo di Ponti e Strade, il quale riteneva che l’aria malsana fosse una componente ineliminabile e congenita della città e che era quindi inutile compiervi lavori di ogni tipo. A sostegno di questa sua strana tesi riportava brani di Cesare e di Cicerone che s’erano soffermati brevemente a parlare del clima brindisino. In effetti, de Fazio era tanto innamorato delle proprie idee — o forse era solo malafede — da forzare quello che i due illustri personaggi dell’antica Roma avevano nella realtà riferito in merito. Per questo, si dichiarava in definitiva apertamente contrario a sprecare del denaro per risanare il porto di Brindisi in quanto, qualsiasi lavoro fosse stato compiuto, non avrebbe comunque potuto risolvere i problemi cronici della città. In questa mistificazione dei fatti, volta a mandare avanti il suo progetto su Gallipoli e ad affossare quello alternativo su Brindisi, l’ispettore generale trovava buon gioco sia all’interno della deputazione provinciale, che come lui riteneva più conveniente appoggiare la posizione del porto di Gallipoli che gestiva un fiorente traffico dell’olio, sia all’interno del Corpo di Ponti e Strade il cui direttore, Carlo Afan de Rivera, condivideva nella sostanza le sue idee. Certo Afan de Rivera era meno categorico, tuttavia riteneva che per il bene di Brindisi era meglio spostare tutte le principali attività portuali nel porto esterno, rendendo disponibile il porto interno alla navigazione di piccolo cabotaggio.

Contro questa soluzione si schierarono i Brindisini Giovanni Monticelli, sostenuto dallo zio Teodoro Monticelli insigne vulcanologo, Benedetto Marzolla e, con particolare verve, il barone Francesco Antonio Monticelli, appoggiati in ciò da liberi studiosi e, per certi versi, dagli ingegneri del Genio militare che si opponevano in linea di principio alle idee innovative di de Fazio ritenendole a giusta ragione poco sicure. Occorre ricordare che il progetto su Brindisi fu il classico compromesso ideato su due piedi da Afan de Rivera tra la posizione estrema di chi voleva che Brindisi fosse abbandonata — si narra che i suoi residenti avrebbero dovuto trasferirsi a Mesagne, anche se non ho trovato alcun documento ufficiale che avvalori una simile ipotesi — e quella dei Brindisini che volevano rimanere a Brindisi e vedere riaperti i seni interni alla navigazione di tutti i tipi di bastimenti. Per cui, da un punto di vista teorico, soprattutto Francesco Antonio Monticelli ne mise facilmente a nudo tutte le pecche. Ciò nonostante l’ascendente di cui godevano i due dirigenti del Corpo di Ponti e Strade e la posizione contraria a Brindisi assunta dalla deputazione provinciale sembrava rendere la partita quasi dagli esiti scontati. Quando la disputa diventò particolarmente accesa e le parti in campo si scambiavano reciproche accuse ed offese, rasentando lo scontro fisico, fortuna volle che l’astro del de Fazio si eclissasse dall’oggi al domani. Aveva infatti voluto fare di testa sua nella sistemazione della Riviera di Chiaia, contravvenendo a precise disposizioni del sovrano che, venutolo a sapere, lo destituì sui due piedi da ogni incarico. S’aggiunse che incominciava a girare il progetto dell’apertura del canale di Suez, che avrebbe posto il porto di Brindisi in una posizione di privilegio nei commerci con l’Oriente. Questi eventi fecero forse pendere la bilancia a favore dei nostri concittadini e la Consulta generale «riconobbe — a detta di Ascoli — fondato e giusto l’allarme dei Brindisini». Poco dopo, il 10 novembre 1834, con rescritto reale, Ferdinando II nominava una commissione incaricata di recarsi a Brindisi, di valutare la situazione e di redigere un progetto definitivo «il più utile sotto il triplice aspetto politico, militare e commerciale».

Occorre a questo punto ricordare che, dopo il ritorno dei Borbone, l’onere delle spese riguardanti le principali opere pubbliche non erano più a carico del tesoro statale ma delle casse provinciali e del comune interessato. La decisione di Ferdinando II sollevò pertanto vibrate proteste, non solo da parte di Afan de Rivera e dei principali dirigenti del Corpo di Ponti e Strade, ma pure della deputazione provinciale che, invece, avrebbe voluto avviare i lavori per il porto di Gallipoli la cui richiesta era stata avanzata sin dal 1831. Per questo, Ferdinando II stesso nell’aprile del 1835 si recò a Brindisi per convincere l’intendente e i dirigenti provinciali e locali dell’importanza dell’operazione che avrebbe avuto favorevoli riscontri commerciali per tutta la provincia. A quanto racconta Ascoli i Brindisini «lo accolsero trionfalmente» e «con la città addobbata a festa»; non è, invece, dato di conoscere quale fu l’atteggiamento dei dirigenti provinciali che, però, con ogni probabilità cercarono in tutti i modi di bloccare l’iniziativa. Non a caso, la commissione presentò il progetto al re il 15 marzo 1836 ma il Consiglio di Stato l’approvò solo dopo ben sei anni nel luglio del 1842 ed il re con decreto reale del 27 agosto 1842.

 

  1. Il grande progetto fallito nel nulla

 

Il progetto conteneva un programma ben articolato che interveniva su tutti gli aspetti nevralgici del porto di Brindisi: orientamento del canale e sua profondità, da portare a 32 palmi (8,50 metri); eliminazione dell’isola Angioina dandole, insieme al canale Angioino, una profondità di 18 palmi; escavazione dei Seni di Ponente e di Levante, in cui avrebbero dovuto trovare posto rispettivamente il porto militare e quello commerciale, bonifica di Ponte Grande e di Ponte Piccolo e dei luoghi paludosi; costruzione di una scogliera per garantire dalle frane la parte più esposta della costa Guacina e di tre fari nel porto. Un progetto quindi imponente, come la spesa prevista di 336.000 ducati a totale carico della Provincia di Terra d’Otranto e del Comune di Brindisi, così ripartita: porto 287.000 ducati; bonifiche 31.000 ducati; spese varie 18.000 ducati.

Per quanto riguarda l’orientamento del canale, Ascoli ci fa sapere che la commissione prevedeva «un angolo di  11° 15’ verso nord con quello di Pigonati» e quindi in direzione “quarto di greco verso levante”, come dire con un angolo verso nord di circa 51°, considerato che quello scavato da Pigonati, diretto verso greco-levante, formava con ogni probabilità un angolo con il nord di circa 62°.

I lavori ebbero effettivo inizio nel dicembre del 1842 sotto la direzione di Albino Mayo, tenente colonnello del Corpo del Genio. Sebbene non lo si sottolinei mai, fu questa la peggiore esperienza tra tutti i tentativi fatti di restaurare il porto brindisino: i lavori andarono avanti a rilento, le spese lievitarono in maniera esponenziale e non si approdò praticamente a nulla. Uno dei limito più ricorrente fu che si iniziassero tanti diversi lavori senza però portarli mai a termine. Avvenne così anche per i primi due impegni a cui Mayo si dedicò, vale a dire scavare il canale dandogli maggiore profondità ed un diverso orientamento e procedere all’abbassamento dell’isola Angioina che creava difficoltà al deflusso delle acque ed al transito delle imbarcazioni.

L’isola fu fatta sparire dalla vista dei Brindisini ma, lasciata non si sa bene perché a pelo d’acqua, creò la secca Angioina che dava problemi di navigazione all’ingresso del porto interno ancora nel 1867, quando fu finalmente distrutta. Contestualmente si iniziò a scavare il canale dandogli una diversa direzione. Su quest’ultimo aspetto non sapremmo nulla, se non fosse per la testimonianza di Domenico Cervati, capitano del Corpo del Genio Idraulico, che cita l’evento nel suo “Per la stabile ristaurazione del porto di Brindisi” del 1843, in quanto convinto che per superare il problema dell’insabbiamento bisognasse intervenire sulla forma del canale e non sulla sua direzione. Per questo, per evidenziarne l’inutilità, riferiva sul nuovo orientamento dato al canale da Mayo che differiva da quello adottato da Pigonati di 9° verso nord. Come dire che formava un angolo di circa 53° gradi con il nord e che quindi era indirizzato all’incirca verso greco, direzione che a detta dei presunti consigli dei marini e dei pescatori brindisini richiamati dall’Ascoli, avrebbe dovuto proteggere il canale, oltre che dalle traversie, anche dall’insabbiamento. A cose fatte, si appurò invece che, variato l’orientamento, il canale continuava ugualmente ad insabbiarsi. Né più, né meno, di prima.

Quindi divenne un fatto accertato che l’interrimento della foce non aveva nulla a che fare con l’orientamento scelto da Pigonati nel tracciare il canale. Da quel che Cervati lascia intendere,  mentre lui scrive — siamo con ogni probabilità agli inizi del 1843, nel momento stesso in cui Mayo variava l’orientamento del canale — si era ormai tutti convinti che le cause dell’interrimento andavano ricercate altrove.

In senso generale, il progetto diretto da Albino Mayo era talmente imponente che c’erano tutte le condizioni per credere che il porto di Brindisi sarebbe stato restituito ai suoi antichi splendori. L’euforia però si tramutò presto in delusione, quando ci si accorse che i lavori venivano fatti in maniera disordinata, aprendo tanti fronti e senza arrivare a concludere mai niente. Insoddisfazione del tutto scontata, se si pensa che in quel “grande” progetto i Brindisini avevano riposto le loro migliori speranze per un futuro meno problematico e impegnato parte dei loro risparmi, autotassandosi per raccogliere i 2.000 ducati all’anno necessari per finanziarlo. E senza contare che i negozianti della città si erano sottoposti ad una sovraimposta «di carlini due a soma sulla estrazione degli olii» raccogliendo nel corso degli anni «una somma di circa 130 mila ducati».  Lo scontento divenne acredine quando con il passare del tempo fu evidente che, sebbene fosse stata costituita la “Deputazione speciale del porto e della bonifica di Brindisi”, incaricata di vigilare sull’esecuzione dell’opera, i lavori erano del tutto fuori controllo. Una, o più mani anonime, mandarono così alle stampe un pamphlet dal titolo chilometrico, “Sulle opere del porto di Brindisi eseguite sotto la direzione del tenente colonnello Albino Mayo”, in cui si accusava senza mezzi termini il direttore dei lavori e gran parte di coloro che erano impegnati nell’opera di fare la cresta, ed anche di peggio.

Lasciando da parte le accuse dei Brindisini, vediamo cosa raccontava la documentazione dell’epoca. Almeno sino al 1847, le fonti ufficiali si mantengono sul generico e negli Annali civili del regno delle Due Sicilie di quegli anni non ci si dilunga più di tanto sulle opere fatte a Brindisi. In quello del 1844 si riporta che le opere «procedono innanzi senza interruzione» preannunciando con troppo ottimismo che la città a breve «potrà riacquistare maggiore importanza e maggior lustro di quella che godeva per lo passato». Anche nel 1845 ci si mantiene sul vago, ma sempre improntato alla visione rosea, e si riferisce che le opere sono «condotte con alacrità, essendosi adoprati nel medesimo tempo a nettarlo tre cavafanghi a vapore e due sandali, oltre un quarto battello a vapore addetto a trasportare le sabbie raccolte fuori le Petagne». L’alacrità è tale che, pur essendosi a metà anno, sono già stati spesi le tre rate annuali della provincia (complessivi 128.000 ducati) e le tre annualità  del finanziamento del comune di Brindisi (in totale 6.000 ducati), tanto che la Deputazione speciale del porto di Brindisi suggeriva, in attesa delle successive rate e per mantenere la stessa celerità, di chiedere addirittura un prestito alla «cassa di sconto». Sempre sulla stessa linea il commento del 1846 in cui si annota che «ferve l’opera», in maniera talmente ardente che, nei primi quattro mesi di quell’anno, sono già stati spesi circa 20.000 ducati e complessivamente nei tre anni 160.000 ducati. Forse, essendosi esauriti gli aggettivi per indicare la velocità con cui le opere avanzavano, nessuna menzione è fatta nel 1847, quando la pubblicazione degli “Annali” viene sospesa insieme ai lavori a causa dei moti del 1848.

Di là dell’enfasi — con ogni probabilità era lo stesso Mayo a redigere questi brevi e generici sunti — in tutto questo tempo non si ha riscontro di nessun lavoro completato, sebbene risulti a consuntivo che, a fine 1847, siano stati già spesi 300.000 ducati dei 336.000 concessi. Il caso a questo punto vuole che Mayo muoia all’improvviso nel maggio del 1848 e che il sottintendente del distretto di Brindisi, Benedetto Stragazzi, sia incaricato, con ogni probabilità su richiesta della direzione subentrante, preoccupata di dover essere chiamata a rispondere delle malefatte sin lì compiute, di verificare lo stato dei lavori. A Stragazzi basta poco per constatare la gravità della situazione e di riferire nel 1849 all’intendente le innumerevoli irregolarità di vario genere commesse. Contestualmente il sottintendente trasmette copia dell’anzidetta relazione a Napoli accompagnandola da una nota in cui si comprende che, subito dopo la morte di Mayo, era stato mandato a Brindisi con il compito specifico di esaminare l’andamento dei lavori. Per questo manifesta senza nessuna titubanza il suo giudizio: «L’opera della bonifica di questo porto è grandiosa e forma la gloria del nostro sovrano che tante generose cure vi ha prodigato; ma, schiettamente posso assicurarvi, ch’è stata malamente eseguita, e perciò han tradito la sua augusta fiducia. Credetemi, me ne piange il cuore nel vedere tanto denaro e tempo malamente barattato con poco risultato, e ciò per poco accorgimento degli agenti a cui è stata affidata». Nel proseguo della lettera il sottintendente consigliava la formazione di una commissione incaricata di valutare se proseguire con il progetto in atto e, in ogni caso, lasciava trasparire che non intendeva seguire più la questione, perché aveva preso una piega difficilmente modificabile. Non a caso, un anno dopo, come richiesto, Stragazzi fu nominato sottintendente a Gerace e, poco prima di lui, fu trasferito anche l’ingegnere Vincenzo Fergola che era subentrato nella direzione dei lavori a Mayo.

Nel frattempo le spese calcolate ad agosto del 1848 erano pari a 415.056 ducati, quindi già superiori al finanziamento inizialmente previsto e, molto benignamente, anche le fonti ufficiali lamentavano che non era stato completato nemmeno un terzo dei lavori programmati. Di finito «il solo fuoco di porto sul Forte di mare», quindi un faro, acceso il 20 gennaio 1844, neppure basato sulle più recenti tecniche ma sull’antico sistema dei riverberi a lume fisso, la cui installazione rese necessario l’acquisto di due lampade di supporto per renderlo maggiormente visibile e del rinnovo del cupolino, spese queste ultime non preventivate e che comportarono una spesa aggiuntiva di 1.297 ducati. Per il resto erano stati iniziati, senza portarli a termine i seguenti lavori: scavo dei rami interni, solo parzialmente e senza aver raggiunto in nessuna zona la profondità fissata; riduzione ad imbuto con modifica dell’orientamento del canale di comunicazione, senza però aver raggiunto la profondità fissata e senza aver ottenuto nessun risultato per evitare che s’insabbiasse; abbassamento solo a pelo d’acqua dell’isola Angioina; edificazione parziale della scogliera a protezione della costa Guacina; bonifica di alcune paludi dei due rami del porto interno e di una piccolissima parte di Fiume Piccolo; edificazione di parte della banchina del porto interno. In più si annotava che molte delle opere non erano state neppure fatte nel migliore dei modi.

Vista la situazione, il suggerimento del sottintendente non poteva che essere accolto e nello stesso 1849 fu nominata una commissione la quale valutò che, per completare il progetto condotto sino ad allora in maniera deficitaria, sarebbero stati necessari altri 820.000 ducati. Considerato l’elevato importo, la commissione proponeva in alternativa di completare solo i lavori che consentivano di non rendere del tutto inutile quanto già fatto, conseguendo nel contempo risultati sufficientemente apprezzabili. Proponeva pertanto di scavare: il canale sino a raggiungere i 32 palmi di profondità previsti nel progetto; la secca creata dall’isola Angioina sino ad una profondità di 8 palmi;  il seno di Levante sino ad una profondità di 6 palmi. Di proseguire poi nella bonifica dei due seni interni e di Fiume Piccolo e nella edificazione di alcune banchine e della scogliera a protezione della costa Guacina. In questo modo si sarebbe potuto rendere navigabile il canale a tutti i tipi di bastimenti, riunendo il porto mercantile a quello militare nel seno di Ponente, ed ottenere migliori condizioni ambientali a seguito della bonifica delle valli e dei seni interni. In questo modo la spesa si riduceva a 222.000 ducati.

La proposta alternativa della commissione fu accolta con una novità riguardante le quote a carico dei fondi della deputazione provinciale e del comune, le quali risultarono pari rispettivamente a 15.000 e a 1.200 ducati annui, mentre il completamento annuale di 15.280 ducati gravava ora sulla Tesoreria generale. In pratica l’insuccesso del tenente colonnello Mayo aveva posto le autorità provinciali in una posizione sempre più critica riguardo al progetto, mentre permaneva l’interesse del governo che, pur di proseguire la restaurazione del porto di Brindisi, aveva deciso straordinariamente di farsi carico di parte della spesa, sempre nella certezza di sfruttare le possibilità commerciali derivanti in futuro dall’apertura del canale di Suez. Tuttavia per un certo tempo, furono fatti solo interventi di routine, in attesa che la direzione generale di Ponti e Strade redigesse i progetti esecutivi. Concluso questo iter ci si accorse che la spesa in realtà era di gran lunga superiore a quella preventivata dalla commissione e che necessitavano invece 396.519 ducati. In seguito, la spesa lievitò ancor più, sia perché a quelle cifre gli appalti  andarono deserti, sia per altri non precisati motivi, sino a superare il mezzo milione di ducati. Per l’approvazione dei progetti definitivi ci vollero pertanto ulteriori passaggi — tre ministeriali e quattro rescritti tra il 1854 ed 1857 — così solo al 17 gennaio 1856 furono ripresi «i nuovi e grandiosi lavori… con molta pompa», come sottolineavano con ironia le stesse fonti ufficiali, con l’obiettivo di bonificare del tutto «l’aere di Brindisi, spurgato il minor seno orientale, e ridotto per ora l’altro di ponente a porto militare e mercantile».

Nel frattempo però anche l’interesse del sovrano s’era affievolito. Parallelamente alla restaurazione del porto era infatti andato avanti il progetto per la strada ferrata che avrebbe dovuto unire Napoli a Brindisi, per accelerare il trasporto delle merci del regno sino al terminale di comunicazione con l’Oriente. Ed in tal senso c’era già stato nel 1852 un accordo di massima con i Rothschild per la linea ferroviaria Napoli-Brindisi, che saltò proprio al momento della stipula per un diverbio sul miglio da adottarsi nel contratto: i Rothschild ritenevano si parlasse del miglio inglese, mentre il ministro dei Borbone si riferiva a quello napoletano. In seguito, la concessione della costruzione e dell’esercizio della stessa linea ferroviaria fu accordata a Melisurgo ma, dopo l’inaugurazione dei lavori del marzo del 1856, il progetto abortì malamente. Nella visione dei Borbone le ferrovie dovevano unire la capitale Napoli alle altre città del regno e non entrare in un sistema “aperto” al mondo, come desiderato dai maggiori investitori che, quindi, non sottoscrissero le azioni emesse da Melisurgo per la ferrovia delle Puglie, che rimase di conseguenza a corto di finanziamenti e dovette interrompere i lavori. Il blocco della costruzione della linea ferroviaria rese inutile una celere restaurazione del porto Brindisino che, quindi, dal 1857 rimase in una specie di limbo.

Sicché nel 1858, per quanto il barone Carlo Sozi Carafa, intendente della provincia di Terra d’Otranto, magnificasse gli effetti delle opere compiute per il porto di Brindisi, l’aspetto sostanziale era, come lui stesso riconosceva, che «i legni di grossa portata» non potevano tuttora entrare nel porto interno perché poco profondo «e dovendo rimanersi nello esterno, soggiacciono a molti disaggî, e dispendî pei caricamenti e scaricamenti». Quindi, ancora a quella data, il porto interno era usato solo per il piccolo cabotaggio e le navi mercantili dovevano ormeggiare ed essere caricati tuttora nel porto esterno. Sino alla caduta della dinastia Borbone, la situazione non si modificò più, rimanendo di fatto congelata. Lo testimonia un prezioso documento in cui il ministro dei Lavori pubblici del regno, Raffaele Carrascosa, evidenzia come i ritardi nell’esecuzione delle opere nei porti fossero diretta conseguenza del meccanismo di ripartizione di spesa adottato: «Imperocché facendoseli il Comune a sue spese, gli è facile ispirarsi a’ soli consigli del proprio vantaggio, e non a quelli dell’universale». In definitiva il ministro, nel sottolineare che la gestione decentrata dei lavori, affidata  a deputazioni speciali sotto la superiore vigilanza degli intendenti e delle deputazioni provinciali, soggiaceva a forme di pressione locale che potevano ritardare «il libero e spedito corso delle opere medesime», ne chiedeva la centralizzazione. Negli esempi dei ritardi e dei disservizi che un simile sistema comportava, il ministro elencava anche il caso del porto di Brindisi le cui opere, bloccate da tempo, solo «ora appunto cominciano ad eseguirsi», lasciando così trasparire che si era ancora in alto mare.

Naturalmente, si fosse potuta sentire la campana delle intendenze e delle deputazioni provinciali, si sarebbero ascoltate lamentele di segno opposto, che avrebbero attribuito l’impossibilità di raggiungere gli obiettivi ai lacci e laccioli imposti dall’apparato centrale. In definita, i soliti palleggiamenti che bisogna sorbirsi anche ai nostri giorni, che lasciano però trasparire che, chiunque avesse più o meno responsabilità dell’accaduto, erano le norme amministrative con cui venivano gestite le opere a condizionare in maniera prevalente i risultati, in aggiunta ad un difficile rapporto tra apparato centrale e periferico,

Comunque stessero davvero le cose, siamo ormai nel 1859 inoltrato e, chi di competenza, non ritenne neppure fosse il caso di inoltrare la relazione del ministro al sovrano, la cui attenzione non poteva essere distolta dagli avvenimenti, ben più pressanti ed importanti, ormai all’orizzonte.

Ed è questo, in epoca borbonica, l’ultimo importante appunto ufficiale sul porto di Brindisi che, oltre a chiarire che permanevano le ormai croniche disfunzioni, fornisce anche una possibile chiave di lettura  per comprendere i motivi degli innumerevoli fallimenti collezionati dai vari tentativi compiuti in quasi un secolo: non erano mancati i buoni progetti o le idee, era l’esecuzione che difettava sia per le lungaggini burocratiche, sia per gli interessi di parte che condizionavano ogni aspetto della questione. In effetti, la deputazione provinciale di Terra d’Otranto non era mai stata molto convinta della necessità della restaurazione del porto brindisino e più volta aveva espresso la sua preferenza per il porto di Gallipoli. Come al solito, interessavano più i vantaggi conseguibili a breve di quelli ottenibili nel lungo periodo: usando una frase trita si preferiva un uovo oggi piuttosto che una gallina in futuro. In definitiva, il fervore delle proposte non aveva mai trovato riscontro nelle esecuzioni. Naufragò così anche l’ultimo tentativo della dinastia Borbone di dare nuova vita al porto brindisino. Di tutto l’imponente progetto si riuscì a completare solo le torri dove ospitare i fari di Punta Penne e delle Pedagne, ed il faro di Forte a Mare. Un bilancio davvero mortificante per diciotto anni di lavori costati in aggiunta un patrimonio che, oltre a lasciare il canale con un fondale per lo più inferiore a quelli scavati da Pigonati e Pollio, non aveva nemmeno risolto i problemi principali, tra i quali quello, sempre più impellente, dell’interrimento. Pertanto, perché il canale non s’insabbiasse del tutto venivano fatte pulizie periodiche con cavafanghi a vapore, ciò malgrado il porto interno era interdetto alla navigazione. Sicché, ancora nel 1861, le imbarcazioni ormeggiavano nel porto esterno perché il canale ed i fondali limitrofi erano talmente interriti da «non permettere il passaggio che di piccole barche». Una commissione parlamentare istituita in quegli anni, riferiva in aggiunta che sempre nel 1861 il canale aveva una profondità dai 3 ai 4 metri, però decrescenti verso la foce, pertanto il canale lasciato in eredità dall’amministrazione borbonica aveva un fondale inferiore a quello scavato da Pigonati. Tenuto conto che, nei quasi novant’anni intercorsi tra il primo e l’ultimo progetti dei Borbone, la stazza dei navigli era decisamente aumentata, si può ricavare che Pigonati aveva fatto decisamente meglio. E con una spesa  di più di dieci volte inferiore.

 

  1. Una storia raccontata in maniera diversa.

 

Malgrado l’intendente provinciale di Terra d’Otranto ed il ministro dei Lavori pubblici del regno di Napoli dichiaravano che l’ultimo progetto condotto dalla loro amministrazione non aveva restituito al porto interno di Brindisi neppure una accettabile funzionalità, visto che i problemi dell’interrimento della foce permanevano, ci sono narrazioni che rappresentano uno scenario del tutto differente.

Ad esempio Giacomo Carito, parlando dei lavori avviati inizialmente sotto la direzione di Albino Mayo e proseguiti fino alle soglie dell’unità d’Italia, afferma che «di fatto i Savoia  troveranno il porto di Brindisi già completamente restaurato ed abile ad ospitare grandi navi di linea». Peccato che lo storico non avvalori in nessun modo questa sua  affermazione che contrasta anche con la documentazione di parte borbonica che, pur avendone tutto l’interesse, fornisce un quadro molto meno roseo delle condizioni dello scalo brindisino nel momento del passaggio da un regno all’altro. In effetti anche in un altro intervento lo stesso storico  aveva dato per scontato che le attività portuali si fossero da tempo normalizzate  affermando che «i grandi piroscafi del Lloyd austriaco entrano in porto già negli anni Quaranta dell’Ottocento con i lavori di Albino Mayo, diretti da Albino Mayo,… già nel 46-47 i piroscafi del Lloyd, che erano grandi unità navali, riescono ad entrare nel porto interno». Quindi, secondo Carito, che anche in questa occasione non supporta la notizia data con nessun riferimento documentale, già dal 1846 o dal 1847, grazie ai lavori di Albino Mayo, il porto interno era accessibile. Eppure il sottintendente del distretto di Brindisi, Benedetto Stragazzi,  nel 1849 raccontava tutt’altra realtà al sovrano e, così, gli stessi rapporti della commissione di nomina regia oppure quello dell’ingegnere Giordano del 1853 presentavano uno scenario del tutto opposto, senza contare le già richiamate relazioni dell’intendente di Terra d’Otranto del 1858 e del ministro dei Lavori pubblici del 1859.

Vero, come narra Carito, che le navi del Lloyd austriaco erano grandi unità navali e che in quegli anni era stato istituito un servizio che, partendo da Trieste, transitava da Brindisi un paio di volte al mese, prima di raggiungere le città del Mediterraneo orientale. La documentazione disponibile, però, non consente in nessun modo di ipotizzare che tali navi gettassero l’ancora nel porto interno, anzi, all’opposto, chiarisce che, come tutti gli altri bastimenti, erano obbligate ad ancorare in quello esterno — per la precisione nella zona dell’attuale porto medio — visto il limitato fondale del canale di comunicazione e la secca angioina che non permetteva l’ingresso se non ai soli piccoli natanti. D’altra parte questa circostanza è avvalorata dalle testimonianze dei viaggiatori. Ad esempio, Wilhelm Vischer, un docente svizzero di lingua e letteratura greca, di passaggio da Brindisi il 16 marzo 1853 con un vapore del Lloyd austriaco, annota: «Alle cinque della sera ci ancorammo vicino Brindisi», quindi non a Brindisi ma “vicino” Brindisi. Poi, dopo aver decantato l’antica Brundusium, precisa: «Il porto interno, spazioso e ben protetto, è infatti ora insabbiato (ist versandet) e accessibile soltanto ad alcune piccole imbarcazioni. Quelle più grandi devono rimanere in quello esterno, più esposto al vento, sul cui lato nord si trova una fortezza con il faro e il telegrafo». Per quanto riguarda l’affermazione di Carito più di carattere generale che i Savoia avevano trovato «il porto di Brindisi già completamente restaurato ed abile ad ospitare grandi navi di linea», oltre ai documenti ufficiali in precedenza già riportati, serve anche dare un’occhiata ad una testimonianza locale.

Nel 1861 un gruppo di “Cittadini di Brindisi”, in risposta alla circolare del consigliere del dicastero dei Lavori Pubblici che invitava le autorità, ed anche i privati cittadini, «a dar notizie delle opere pubbliche fatte o a farsi nelle provincie», richiede proprio che siano una volta per tutte completati i lavori sul porto di Brindisi. I Brindisini, con ogni probabilità negozianti ed imprenditori, in quanto approfondisco spesso gli aspetti finanziari delle questioni trattate, lamentano infatti come il porto di Brindisi sia ben lontano dall’essere «completamente restaurato», come giudicato da  Carito. Anzi c’è ancora tanto da fare:  «è una di quelle opere cominciate sin dal 1842, e che sin ora non sapremmo dire se a metà o anche a terza parte condotta». Per quanto poi riguarda gli aspetti specifici, il documento indugia sui vari problemi ancora rimasti irrisolti, in particolare il porto interno che «è quello in cui son da praticare i restauri in massima parte progettati» e, soprattutto il canale «scopo vitale di quell’impresa» in cui l’intervento è miseramente fallito in quanto non si è «risoluto il gran problema di non farne più interrire il canale». Dal momento che questo ormai «sembra problema troppo arduo e di difficile soluzione», i cittadini chiedevano quantomeno che «finalmente si stabilisca rigorosamente l’annuo mantenimento, e propriamente lo sfangamento di quel “piccolo” deposito di materiali trasportati, che annualmente si forma nel canale, e che si accumula di anno in anno in guisa da chiudere nuovamente l’entrata». Quindi non solo non si era risolto il problema dell’interrimento — che i Brindisini non ardivano neanche più a sperare che fosse risolto — ma non era stata neppure fatta una normale manutenzione. Per cui, salvo che i Brindisini dell’epoca non siano stati degli autolesionisti visionari che chiedevano d’intervenire lì dove non ce n’era nessun bisogno, occorre convenire che, al momento dell’annessione del regno di Napoli, il porto di Brindisi era tutto fuorché l’essere «già completamente restaurato ed abile ad ospitare grandi navi di linea».

In conclusione, a differenza di quanto affermato da Carito, quando i Savoia si sostituirono ai Borbone, il porto brindisino era ancora in balia dei soliti difetti e non risultava neppure lontanamente attrezzato per affrontare la competizione che l’apertura del canale di Suez avrebbe innescato. Difetti, in aggiunta, dai più ritenuti ormai cronici e impossibili da risolvere. Certo il canale non era una palude quasi solidificata d’una volta, e almeno le barchette lo attraversavano in agilità. Nemmeno l’aria era quella mefitica dell’epoca di metà XVIII secolo, o del primo trentennio del secolo successivo, ma non era ancora a livelli sufficientemente buoni, e chi poteva si teneva lontano da Brindisi.

Come fece anche l’ingegnere che risolse alfine il problema dell’interrimento del canale, il quale pose come condizione per accettare la destinazione brindisina, di non dovervi risiedere. Preoccupato di mettere a repentaglio la salute dei suoi familiari e la propria, preferì piuttosto stare a Lecce e destinarsi ogni santo giorno alla vita del pendolare.

Cosa  disagevole pure ai giorni nostri.

Figuriamoci con le ferrovie appena nate di centocinquanta e più anni fa.

                                                             (2 – continua)

 

Riferimenti bibliografici

 

  1. La polemica su cosa fare del porto interno di Brindisi

F.A. MONTICELLI, “Terza memoria della città e de’ porti di Brindisi, Gabinetto bibliografico e tipografico”, Napoli 1833.

  1. ASCOLI, op. cit.
  2. Il grande progetto fallito nel nulla
  3. ASCOLI, op. cit.
  4. CERVATI,“Per la stabile ristaurazione del porto di Brindisi”, Tipografia del Filiatre-Sebezio, Napoli 1843.

Alcuni cittadini di Brindisi, “Opere nel porto di Brindisi”, Brindisi 1861.

ANONIMO, “Sulle opere del porto di Brindisi eseguite sotto la direzione del tenente colonnello Albino Mayo”, Brindisi s.d.

Annali civili del regno delle Due Sicilie, volume XXXV, Real ministero di stato degli affari interni, Napoli 1844.

Annali civili del regno delle Due Sicilie, volume XXXVIII, Real ministero di stato degli affari interni, Napoli 1845.

Annali civili del regno delle Due Sicilie, volume XLI, Real ministero di stato degli affari interni, Napoli 1846.

L. GIORDANO, “Intorno alla struttura di un nuovo porto in Bari: memoria premessa al progetto di arte”, Tipografia Cannone, Bari 1853.

A cura di R. JURLARO, “Cronaca dei sindaci di Brindisi (vol. II, 1787 – 1860)”, Edizioni Amici della “A. de Leo”, Brindisi 2001.

Annali civili del regno delle Due Sicilie, volume LX, Real ministero di stato degli affari interni, Napoli 1857.

C. SOZI CARAFA, “Discorso per inaugurare le sessioni del consiglio provinciale nel dì 1° maggio 1852”, Lecce 1852.

Ministero e Real Segreteria di Stato de’ Lavori Pubblici,  “Relazione sullo stato dei porti e dei fari del regno di Napoli”, in a cura di G. SIMONCINI, “Sopra i porti di mare (Regno di Napoli)”, volume II, L.S. Olschki,  Firenze 1994.

F. MERCURIO, “Le ferrovie e il Mezzogiorno: i vincoli ‘morali’ e le gerarchie territoriali (1839-1905)”, In “Meridiana”, n. 19, Nobiltà, gennaio 1994.

C. SOZI CARAFA, “Discorso per inaugurare le sessioni del consiglio provinciale nel dì 6 maggio 1858”, Lecce 1858.

A cura di R. SALVESTRINI, “Lo zibaldone di casa Mati”, Montaione.net.

Camera dei Deputati, “Relazione della commissione relativa alla ristorazione del porto di Brindisi”, sessione 1861-62.

 

8. Una storia raccontata in maniera diversa.

G. CARITO, “Gli interventi sul porto: pillole di storia”, History Digital Library https://www.youtube.com/watch?v=r9-vy1ZvTRQ

Brindisi, s.d.

W. VISCHER, “Erinnerungen und Eindrücke aus Griechenland”, Schweighauser, Basel 1857.

A cura di R. JURLARO, op. cit.

Alcuni cittadini di Brindisi, op. cit.

 

Per la prima parte clicca qui:

Il porto di Brindisi: una storia sconosciuta (prima parte) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

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