La Brentesìa: dopo l’arrivo dei colonizzatori (II)

di Nazareno Valente       

Come già sappiamo, i Calabri scacciati da Taranto dai Parteni trovarono rifugio a Brindisi25; mentre nulla s’è detto dei nostri concittadini che si trovavano a sud-ovest di Taranto e che, a prima vista, non sembrerebbero aver lasciato traccia alcuna. Di certo dovettero cedere il passo agli Achei, che precedettero l’arrivo dei Parteni, stabilendosi nel tempo su entrambe le coste dell’attuale Calabria.

In linea teorica si può presupporre che, al pari di quanto fecero altri indigeni depredati dai colonizzatori, molti di loro si spostarono nell’entroterra cercando di riorganizzarsi. La gran parte, però, non volle lasciare del tutto libero il campo agli invasori e, sfruttando le politiche distensive e di coesistenza attuate dai coloni di Sibari nei riguardi dei nativi, riuscì a ritagliarsi un proprio spazio presumibilmente nella Siritide, mantenendo nel contempo un certo legame con la madrepatria. La loro presenza in quella zona la si può intravedere nel concreto nell’alleanza che Brindisi stipulò con i Turini e, soprattutto in un brano molto controverso di Strabone.

Prima di vedere quale, è utile però chiarire il significato che il geografo pontico assegnava agli etnici ed ai coronimi utilizzati. Dagli scritti emerge con chiarezza che per Strabone, Iapigia e Calabria erano di fatto sinonimi tra loro. Quindi, a differenza di tanti altri autori, per lui la Iapigia non era una più vasta regione che conteneva la Calabria, ma s’identificava con essa.  Per quanto riguarda gli etnici, invece, si nota che quando egli parlava degli Iapigi intendeva indistintamente gli abitanti (Calabri e Salentini) della Calabria. Quando la questione riguardava espressamente i Salentini, il geografo usava però lo specifico etnico Salentinoi (Σαλεντῖνοi), mentre, se erano coinvolti i soli Calabri, non si serviva del termine epicorio Kalabroì (Καλαβροὶ), che infatti non usa mai, ma di quello di matrice greca, vale a dire Messapi. Per cui, per Strabone unicamente i Calabri erano propriamente Messapi, mentre i Salentini non lo erano.

 

Ebbene mentre Strabone tratta della decadenza cui era soggetta Taranto, costretta per difendersi dai suoi nemici a ricorrere frequentemente a comandanti forestieri (ξενικοῖς26), Strabone inserisce un’informazione fuori contesto che ha tolto il sonno a parecchi specialisti. Appena finito di narrare i fatti avvenuti attorno al 330 a.C., in cui Alessandro il Molosso, venuto in soccorso di Taranto, era stato destinato all’insuccesso proprio a causa dell’ingratitudine dei Tarantini, introduce infatti all’improvviso un argomento del tutto diverso, affermando : «Essi [i Tarantini] si scontrarono  con i Messapi per il possesso di Eraclea, fruendo dell’aiuto del re dei Dauni e di quello dei Peucezi» («Πρὸς δὲ Μεσσαπίους ἐπολέμησαν περὶ Ἡρακλείας, ἔχοντες συνεργοὺς τόν τε τῶν Δαυνίων καὶ τὸν τῶν Πευκετίων βασιλέα»27).

Senza andare dietro ai diversi dubbi che tormentano gli storici, ci si soffermerà solo su quelli di possibile interesse.

La principale questione controversa è di carattere cronologico, cioè a dire non si è in grado di datare in maniera condivisa questa contesa accesasi tra Tarantini e Messapi per il possesso di Eraclea. Se la si pone al tempo di Alessandro il Molosso, vale a dire tra il 334 ed il 330 a.C., i Messapi (o per dire meglio, i Calabri) sembrano del tutto fuori posto come competitori, dal momento che, come già riferito, con il condottiero epirota avevano stipulato un trattato di pace. Era piuttosto con i Lucani che in quegli anni i Tarantini avevano frequenti attriti, avendo appunto loro strappato Eraclea, proprio grazie all’aiuto di Alessandro il Molosso.

Se invece lo scontro si riferisce ad una data precedente, allora non può che riguardare la fondazione di Eraclea, e quindi un secolo e più prima (444 o 443 a.C.), quando il conflitto sorse tra Taranto e Thurii. Nel tal caso, il coinvolgimento dei Messapi potrebbe essere pensato come di supporto ai Turini con i quali erano, come detto, alleati. Però questa ipotesi solleva un dubbio del tutto spontaneo. Constatato che erano i Turini i maggiori interessati alla questione, non si capisce come mai Strabone non li citasse neppure, mettendo invece in rilievo la partecipazione dei Messapi che, data la lontananza dei loro insediamenti con il teatro dello scontro, non potevano certo essere la forza più consistente in contrasto con i Tarantini.

Come questa, ogni altra possibile collocazione temporale avanzata ha finito per sollevare a sua volta problemi irrisolvibili, sicché i più hanno dovuto amaramente concludere che la notizia data da Strabone non sia del tutto corretta e che di conseguenza necessiti d’essere in parte emendata. Fatto sta che neppure sulle correzioni da apportare si è riusciti a trovare un accordo condiviso, anche perché a sparigliare le carte ed a creare il maggiore imbarazzo è proprio la presenza dei Messapi in una zona non di loro pertinenza. Quello che in definitiva risulta inspiegabile è perché mai i Messapi si fossero lasciati coinvolgere in un conflitto che si svolgeva in un territorio così lontano dal proprio.

Tutto potrebbe risultare più comprensibile se, in linea con l’ipotesi fatta, si accettasse che i Calabri di Brindisi si trovavano in quella zona perché vi dimoravano e che queste azioni belliche rientravano in un più ampio contesto di difesa degli ultimi lembi di terra rimasti in loro possesso, così come facevano in maniera indistinta tutti gli altri italici della zona. In questa ottica, l’episodio narrato da Strabone farebbe pertanto parte dei tentativi compiuti dai Brindisini di frenare l’avanzata tarantina verso Metaponto e  la Siritide e di conservare il territorio in cui erano stati relegati.

Se così è, potremmo ipotizzare che le enclave del passato dominio, o della Brentesìa per usare il vocabolo di Eustazio, si collocavano tra Thurii e Taranto, e questa supposizione, oltre a spiegare i motivi della contesa con i Tarantini per Eraclea, valorizzerebbe pure l’alleanza che i Brindisini avevano stipulato con Thurii che, allo stesso modo, aveva tutto l’interesse che Taranto non estendesse i suoi confini nella Siritide.

Come si può notare l’ipotesi che i Calabri di Brindisi possano essersi insediati ben oltre i confini del Salento prende sempre più corpo, e troverà ancor più avallo dall’esame di un episodio che rese i Calabri ed i Salentini tristemente noti ai colonizzatori greci.

L’aspetto strano è che, in questo caso, gli studiosi sono tutti d’accordo sull’interpretazione da dare alla vicenda, solo che non si sono preoccupati di valutare alcuni aspetti di contorno niente affatto banali.

Si è già avuto modo di narrare l’avvenimento in un’altra occasione dandogli il dovuto rilievo, in quanto, a detta di Erodoto, rappresentava la più grande strage di Greci («φόνος Ἑλληνικὸς μέγιστος») tra tutte quelle di cui si aveva al suo tempo conoscenza28. Lo si riassume di seguito per analizzare i punti di maggiore interesse per il tema trattato.

Racconta Diodoro che tra il 473 ed il 472 a.C. scoppiò in Italia una contesa tra i Tarantini e gli Iapigi, «venuti ad urto per contrasti sorti su zone ai loro confini» («περὶ γὰρ ὁμόρου χώρας ἀμφισβητούντων πρὸς ἀλλήλους»); contrasti che divennero scontri sempre più aspri, sino a sfociare in un aperto conflitto29.

Ora, dal momento che la disputa riguardava zone di confine, è naturale presumere che gli Iapigi maggiormente coinvolti in questo caso fossero i Calabri di Brindisi, il cui territorio confinava appunto con quello dei Tarantini. Ebbene, costretti dall’aggressività dei Parteni, i Brindisini reagirono con tale decisione che in breve tempo, coadiuvati dai Salentini, dai Pedicli e da altri popoli confinanti, approntarono un grande esercito composto da più di 20.000 uomini30 a cui Taranto si preparò ad opporsi alleandosi con i Reggini. La battaglia campale che ne seguì fu violenta e determinò molte vittime in entrambi i campi ma, alla fine, vide prevalere i Brindisini ed i suoi alleati. A questo punto, Diodoro così prosegue: «nella fuga gli sconfitti si separarono in due contingenti, dei quali il primo si ritirò a Taranto e l’altro fuggì verso Reggio. In maniera analoga si divisero anche gli Iapigi: quelli che inseguirono i Tarantini, essendo breve la distanza, fecero grande strage dei nemici; gli altri che s’erano posti all’inseguimento dei Reggini dimostrarono un tale ardore da far pensare che volessero piombare insieme ai fuggitivi a Reggio  per impadronirsi della città» («Τῶν δὲ ἡττηθέντων εἰς δύο μέρη σχισθέντων κατὰ τὴν φυγήν, καὶ τῶν μὲν εἰς Τάραντα τὴν ἀναχώρησιν ποιουμένων, τῶν δὲ εἰς τὸ Ῥήγιον φευγόντων, παραπλησίως τούτοις καὶ οἱ Ἰάπυγες ἐμερίσθησαν. Οἱ μὲν οὖν τοὺς Ταραντίνους διώξαντες ὀλίγου διαστήματος ὄντος πολλοὺς τῶν ἐναντίων ἀνεῖλον, οἱ δὲ τοὺς Ῥηγίνους διώκοντες ἐπὶ τοσοῦτον ἐφιλοτιμήθησαν ὥστε συνεισπεσεῖν τοῖς φεύγουσιν εἰς τὸ Ῥήγιον καὶ τῆς πόλεως κυριεῦσαι»31).

Alla fine Erodoto fa la conta dei morti32: tremila reggini ed ancor più i Tarantini, il cui numero fu talmente alto da non poter neppure essere calcolato.

La cosa qui più interessante da sottolineare è tuttavia un’altra: il racconto di Diodoro offre informazioni di dettaglio di notevole rilievo, meritevoli di un’attenta valutazione non fosse altro per comprendere dove questa battaglia, tanto famosa ma ugualmente rimasta senza nome, abbia potuto avere svolgimento. Va infatti sottolineato che le fonti non sono per nulla esplicite su dove questo epico scontro sia avvenuto, anche se la questione non ha turbato più di tanto gli specialisti, sicuri che la località in questione, seppure sconosciuta, non poteva che trovarsi tra Taranto e Brindisi, apparendo del tutto scontato che quella era l’unica zona di confine tra le due città.

Invece, proprio il resoconto dello storico siciliano, indica in maniera evidente che il terreno dello scontro non possa essere stato quello.

Lo si comprende  in maniera evidente da due aspetti.

Il primo riguarda il coinvolgimento dei Reggini. Sia pure in maniera vaga, il fatto che i Reggini si siano lasciati coinvolgere nella contesa dai Tarantini può già far pensare che le dispute di frontiera non riguardassero solo i confini ad est di Taranto, ma anche di quelli ad ovest ed a sud-ovest della città ionica. Vale a dire una zona che i Reggini avevano tutto l’interesse fosse controllata da una città alleata piuttosto che da una comunità nemica. Il secondo, ben più preciso, è che al momento della disfatta i Tarantini ed i Reggini si separarono, dandosi alla fuga per vie diverse.

Ebbene,tenuto presente che nelle battaglie oplitiche, come quella che si racconta, chi soccombeva aveva tutto l’interesse a mantenere i ranghi più compatti possibile, perché in caso contrario finiva per essere alla mercé di chi aveva preso il sopravvento, non si capisce come mai i Reggini ed i Tarantini si separarono, adottando la peggiore strategia possibile che risultava in realtà un vera e propria scelta suicida. Infatti, se la battaglia è avvenuta come comunemente si crede ad est di Taranto, non c’era motivo che i due contingenti si separassero, essendo l’unica via di fuga possibile proprio quella che avrebbe consentito loro di trovare riparo a Taranto, da dove i Reggini erano in aggiunta costretti a transitare, se volevano poi ritornare a Reggio. Tra le altre cose, in tal caso, non si capisce neppure come abbiano potuto i Brindisini inseguire i Reggini sino a Reggio, visto che per farlo avrebbero dovuto compiere un’impresa impossibile, vale a dire prima conquistare Taranto che si frapponeva al loro inseguimento.

 

Ora, salvo che Diodoro non si sia inventato ogni cosa, la risposta obbligata che si può dare è che lo scontro non avvenne ad est di Taranto ma dalla parte opposta a sud-ovest della città ionica, con ogni probabilità in una località tra Metaponto e Sibari. Questo diverso scenario renderebbe infatti plausibile perché mai i Reggini decisero di separarsi, preferendo fuggire verso la propria città, piuttosto che dirigersi verso Taranto che pure, come detto, si trovava più vicina. Di fatto i due gruppi si separarono perché, per raggiungere ciascuno di loro la propria città, dovevano necessariamente fuggire in direzioni opposte. E furono di conseguenza inseguiti dai Calabri di Brindisi sin sotto le mura delle loro città.

Altra inevitabile conclusione è che nel primo trentennio del V secolo a.C., quando si svolse questo epico scontro, i Brindisini erano ancora stanziati a sud-ovest di Taranto in una non meglio identificata zona della Siritide. In caso contrario, non sarebbero stati in grado di affrontare una battaglia campale di quella portata in luoghi così lontani dai propri insediamenti, privi come sarebbero stati dei necessari rifornimenti.

In conclusione, il racconto dettagliato di Diodoro sull’epilogo della mischia che portò alla più grande strage di Greci rende evidente che la Calabria, la quale ai tempi di Strabone coincideva più o meno con l’attuale Salento, in precedenza, prima dell’arrivo dei coloni greci, si estendeva a nord sino a quasi il fiume Ofanto ed a sud-ovest sino a Crotone. L’arrivo degli Achei ridimensionò questi confini facendoli arretrare sul versante ionico poco a sud di Eraclea; quello dei Parteni privò i possedimenti di Brindisi dapprima del territorio tarantino e  successivamente della Siritide. In questo contesto la fondazione di Eraclea, invano contesa ai Tarantini,  come testimoniato da Strabone, rappresenta l’epilogo della presenza brindisina al di fuori del Salento. Si può quindi datare al 434-433 a.C. la fine del dominio dei calabri di Brindisi nelle zone delle attuali Lucania e Calabria.

 

La fine del dominio brindisino in Siritide

Impossibile avere certezze su come si sviluppò la successiva storia delle popolazioni brindisine rimaste separate dalla madrepatria, non essendo rimasta nelle fonti narrative nessuna loro traccia.

Possono però farsi delle ipotesi.

Con ogni probabilità, dopo la perdita di Eraclea, furono relegati nelle zone più interne e più impervie, dove i coloni greci non riuscivano ad imporre la loro egemonia. Poi si raggrupparono con altre genti scacciate dai Greci oppure, in situazione magari di sudditanza con altre popolazioni indigene, attesero l’arrivo di tempi migliori.

Nel frattempo anche il mondo della Magna Grecia incominciava la sua parabola discendente e le genti italiche, in particolare i Lucani, comparsi sulla scena nel V secolo a.C., passarono all’inizio del secolo successivo al contrattacco. La loro predisposizione alle doti guerresche, esercitate ed educate con rigore simile a quello spartano sin dalla più tenera età, li rendeva particolarmente temibili ed idonei ad esercitare una forte egemonia sulle popolazioni italiche della zona.

Qualche decennio dopo si affacciò sul palcoscenico della storia un altro popolo agguerrito, di cui non si aveva mai avuto prima menzione, i Brettii, la cui genesi fornirà spunti utili per comprendere cosa ne fu dei Brindisini rimasti nel territorio magnogreco.

Tutte queste apparizioni, troppo improvvise per poter essere davvero tali, sono spiegabili solo alla luce di complesse dinamiche di trasformazione sociale e territoriale avvenute tra le popolazioni italiche lì dimoranti. In pratica i Lucani ed i Brettii possono considerarsi le nuove compagini che si sostituivano alle precedenti, dopo averle integrate e modificate sia a livello sociale, sia a livello di dislocazione territoriale. La stessa genesi dei Brettii — quella dei Lucani esula dagli interessi di questo intervento — fornisce l’esempio concreto delle trasformazioni in atto in un mondo sconvolto dalla colonizzazione greca. Per quanto le fonti narrative antiche ci forniscano notizie discordanti in merito, c’è un aspetto che le accomuna nell’indicare che i Brettii facevano inizialmente parte di una società, definibile Lucana, in quanto i Lucani vi esercitavano un evidente predominio.

Se da un punto di vista storiografico i Lucani sono documentati presenti nell’attuale Calabria dal V secolo a.C., quando accolgono i pitagorici scacciati dai Crotoniati, i Brettii lo sono solo dal decennio 360/350 a.C. A detta di Diodoro, che nella sua “Biblioteca” raccoglieva notizie provenienti da più fonti, durante il consolato di M. Popilio Lena e C. Manlio Imperioso (359 a.C.)  «si raccolse in Lucania una moltitudine di gente mista, venuta da ogni dove, la maggior parte servi fuggitivi. Questi all’inizio vissero come predoni, e per l’abitudine a dimorare all’aperto e alle incursioni acquisirono esperienza e pratica nelle attività militari. Perciò, essendo risultati superiori in battaglia ai propri vicini, divennero molto potenti. Dapprima assediarono e misero a sacco la città di Terina, poi, conquistate Ipponio, Thurii e molte altre città, costituirono un assetto politico comune (κοινὴν πολιτείαν). Furono chiamati Brettioi perché erano per lo più schiavi. Infatti gli schiavi fuggitivi erano appunto chiamati Brettioi nella lingua delle genti del luogo»33.

Più stringata, ma anche più circostanziata, la versione fornita da Strabone il quale riferisce che i Brettii avevano ricevuto il nome dai Lucani che così chiamavano i ribelli (ἀποστάται); dapprima erano stati dediti alla pastorizia al servizio dei Lucani e successivamente s’erano resi liberi «quando Dione fece guerra a Dionisio sollevando tutti contro tutti [357-356 a.C.]»34. Il geografo indica poi che la loro metropoli era Cosentia (Cosenza) ed occupavano l’estrema penisola dell’attuale Calabria a sud dell’istmo tra Skylletion ed il golfo di Hipponion (all’incirca dalla costa poco a sud da Catanzaro a Vibo Valentia)35.

In epoca più tarda è da porsi la tradizione che si deve a Pompeo Trogo nell’epitome fatta da Giustino che, dopo aver messo in rilievo il loro coraggio, la loro ricchezza e l’aggressività che li aveva resi particolarmente temibili agli occhi dei popoli vicini, narra la loro origine causata da una banda di cinquanta giovani lucani i quali, ripudiato il rigorose regime militare di stampo spartano con cui erano educati, s’erano uniti per compiere saccheggi a danno dei propri vicini36. Dati i successi, la banda aveva visto gonfiare le proprie fila da una moltitudine di gente diversa finendo per divenire il terrore dell’intera regione, sinché Dionisio, il tiranno di Siracusa, sollecitato dai propri alleati, non aveva tentato di porvi rimedio inviando seicento mercenari africani37. Pure i mercenari però risultarono sconfitti e la loro cittadella conquistata dai rivoltosi, grazie all’aiuto di una donna chiamata Bruzia, dalla quale assunsero il nome di Bruttii. Proprio la cittadella strappata ai mercenari fu il loro primo insediamento ufficiale, divenuto presto asilo di tutti i pastori che vivevano nelle vicinanze38.

Oltre a sottolineare la loro originaria sudditanza dai Lucani, i resoconti mettono in evidenza come il loro peso militare e politico, emerso alla metà del IV secolo a.C., fosse comunque l’esito finale d’un processo iniziato molto tempo prima. Altro aspetto rilevante per i nostri scopi, è anche il rilievo dato all’eterogeneità dei Brettii, alla cui composizione contribuirono popoli diversi. In altre parole i Brettii si formarono a seguito di complesse dinamiche di trasformazione, tra le altre cose proprio nel mentre sparivano dalla scena storica popoli come gli Enotri, gli Ausoni, i Choni ed i rimasugli dei Calabri di Brindisi lì trapiantati.

Per cui non pare troppo azzardato ipotizzare che i Brettii avessero accolto tra le proprie fila la maggior parte di coloro che volevano rivalersi dei soprusi subiti a seguito delle successive ondate di colonizzazione.

C’è una vecchia teoria della illiricità etnica dei Brettii, presupposta dal presunto nome illirico da loro assunto e  da altre convergenze toponomastiche39, che non intendo certo riscoprire se non per evidenziare alcune analogie tra questo popolo e quello dei Brindisini spodestati dagli Achei e dai Tarantini. Il richiamo a tale ormai superata ipotesi è fatto perché l’interpretazione dell’etnico, Βρέττιοι (Brettioi), suggerisce accostamenti degni di nota con Brindisi.

Stefano Bizantino40 parla infatti di un’isola nell’Adriatico, «Βρεττία νῆσος» (l’isola Brettia), a cui i Greci davano un’altra denominazione, l’isola dei cervi («Ἐλαφοῦσσα»), e ribadisce che anche il nome di Brindisi («Βρεντέσιον πόλις») era dovuto alla somiglianza del suo porto con una testa di cervo («βρέντιον γὰρ παρὰ Μεσσαπίοις ἡ τῆς ἐλάφου κεφαλή»), aggiungendo un altro significativo accostamento: il termine Brindisi derivava da Brento, figlio di Eracle, al pari dei Brettii che discendevano da Bretto, anch’egli figlio di Eracle.

Un altro possibile collegamento tra Brindisi ed i Brettii è riscontrabile inoltre in Dionisio d’Alessandria il quale in un breve accenno dei Lucani e dei Brettii41 chiama questi ultimi Βρέντιοι (Brentioi), invece di Βρέττιοι (Brettioi), facendo intendere che l’etnico derivava da βρέντιον (Brention), vale a dire dallo stesso termine usato dai nostri antichi concittadini per indicare la testa di un cervo e da cui, come più volte riportato, originava il nome, Βρεντέσιον (Brentesion), dato dai Greci alla nostra città.

Ora questa preferenza data da Dionisio d’Alessandria alla forma Βρέντιοι, rispetto a Βρέττιοι di origine lucana, non pare del tutto casuale e sembra in aggiunta riferirsi ad una fonte ben più antica. Pertanto sembrerebbe avvalorare ancor più l’ipotesi che i termini Brentioi (Brettii) e Brentesion (Brindisi) abbiano avuto un’origine comune derivando entrambi da brention.

Se tutto ciò è naturalmente poco per sostenere una parentela etnica tra Brettii e Brindisini, è tuttavia non banale se considerata in un’altra ottica.

Si pensi, ad esempio ad altre possibili analogie.

Come i Brettii, la società Calabra della penisola salentina aveva una forte componente dedita alla pastorizia ed un etnico a cui la propaganda denigratoria tarantina assegnava simili connotazioni negative, accostandolo allo stesso modo agli schiavi. Tutti aspetti questi marginali, se la questione viene trattata da un punto di vista etnico, ma interessanti se valutati nel senso di tradizioni comuni.

Tradizioni che si può pensare i Brettii acquisirono nel corso del tempo, avendo accolto tra le proprie file i Brindisini, così come avevano fatto, a memoria di Diodoro e Giustino, con popolazioni di altra etnia. In definitiva non sembra tanto avventato supporre che una significativa componente della società Brettia fosse costituita dai Brindisini prima insediati tra Metaponto e Crotone.

Ed infatti in un passo, anch’esso del tutto trascurato dagli storici, ma del pari chiaro nella sua formulazione, Polibio, nell’elencare i popoli che abitano la costa ionica nel tratto che va da Taranto a Reggio, afferma che, oltre ai Lucani ed ai Brettii ci sono «tuttora dei Calabri» («ἔτι δὲ Καλαβροὶ»)42. Come dire che ancora all’epoca di Polibio, vale a dire nel II secolo a.C., c’erano ancora Brindisini che vivevano nei loro antichi possedimenti della Brentesìa. E la cosa viene comunicata in modo talmente spontaneo e senza darvi enfasi, da lasciar intendere che  fosse del tutto naturale che in quegli anni ci fossero Calabri stanziati lontano dai loro usuali insediamenti.

In definitiva,era una notizia così scontata per un lettore dell’epoca che non c’era neppure bisogno di darle rilievo.

Questa è anche l’ultima traccia lasciata dai Calabri di Brindisi che avevano dovuto subire l’avanzata e la supremazia  dei coloni Greci nel territorio tra Metaponto ed il Bruzio.

La fine dell’organizzazione politica dei Brettii fu repentina al pari della sua costituzione. Già al suo tempo, Strabone poteva affermare che dei Brettii «non sopravvive più nessuna organizzazione politica comune oppure usi comuni, e sono completamente scomparsi lingua, modo di armarsi, di abbigliarsi e ogni altra cosa di questo genere: in definitiva, considerati sia singolarmente, sia nel loro assieme, i loro insediamenti sono del tutto privi di ogni rilevanza»43.

Con i Brettii sparirono anche i Calabri di Brindisi della cui esistenza sarebbe il caso di prendere finalmente consapevolezza, viste le consistenti tracce da loro lasciate sin nel Bruzio.

(2 – fine)

 

Note

25 Giustino, Epitome delle storie filippiche di Pompeo Trogo, III 4, 11-12.

26 Strabone, Geografia, VI 3, 4.

27 Ibidem.

28 Erodoto, Storie, VII 170.

29  Diodoro siculo, Biblioteca storica, XI 52, 1-2.

30 Ibidem, XI 52, 3.

31 Ibidem, XI 52, 4.

32 Erodoto, Storie, VII 170.

33 Diodoro siculo, Biblioteca storica, XVI 15, 1-2.

34 Strabone, Geografia, VI 1, 4.

35 Ibidem, VI 1, 4-5.

36 Giustino, Epitome delle storie filippiche di Pompeo Trogo, XXXIII 1, 3/10.

37 Ibidem, XXXIII 1, 10-11.

38 Ibidem, XXXIII 1, 12.

39 H. Rix, Bruttii, Brundisium und das illyrische Wort für ‘Hirsch’, in Beiträge zur Namenforschung, vol. 5 (1954), pp. 115/129.

40 Stefano Bizantino, Ethnica, voci Brentesion, Brettia e Brettos.

41 Dionisio d’Alessandria (I secolo d.C. – II secolo d.C.), Descriptio orbis, v. 362.

42 Polibio, Storie, X, fr. 1.

43 Strabone, Geografia, VI 1, 2.

 

Per la prima parte:

La Brentesìa: dopo l’arrivo dei colonizzatori (II) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

I porti di Brindisi e Taranto in due mappe del XVII secolo

di Armando Polito

Ad integrazione delle due mappe riportate tempo fa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/24/gallipoli-e-taranto-in-due-mappe-del-xvii-secolo/) ne segnalo altre due facenti parte di una collezione custodita nella Biblioteca Nazionale di Francia (collocazone: Bibliothèque nationale de France, département Cartes et plans, GE DD-2987 (5656). Lo faccio a beneficio di chi volesse fare un esame comparativo anche sul piano grafico, tenendo presente che, quando , come nella cartografia, dev’essere rappresentato fedelmente lo stesso soggetto, tutto si gioca sui dettagli. Poi ci sono gli scopiazzamenti spudorati, che coinvolgono pure nomi di cartografi ed editori famosi del passato (solo di quello?…), ma questo è un altro discorso.

Brindisi arcaica: i miti di fondazione e le origini ateniesi

Brindisi arcaica: i miti di fondazione e le origini ateniesi*

 

di Nazareno Valente

 

Per i Greci non tutti i barbari erano valutati alla stessa stregua, nel senso che c’era, tra coloro che parlavano un idioma diverso dal loro, chi si distingueva potendo contare su antiche origini in un qualche modo riferibili a quelle greche. È il caso, ad esempio, degli Etruschi e dei popoli che risiedevano in Calabria che, ricordiamo, era la denominazione geografica data dai nostri antichi conterranei alla penisola Salentina — più comunemente chiamata Messapia, in onore del coronimo prescelto dagli “invasori”venuti dalla Grecia e che a quel tempo era abitata dai Calabri (residenti nell’Alto Salento e nella costa adriatica sino ad Otranto) e dai Sallentini (nel Basso Salento e in parte della costiera ionica).

Per Erodoto, i Calabri ed i  Sallentini erano ritenuti discendenti dei Cretesi che, sorpresi da una tempesta, erano stati scagliati sulla costa salentina dove, non avendo più le navi per tornare in patria, avevano deciso di rimanere1. Con qualche variante, lo stesso mito era riportato da Conone2, e le stesse origini cretesi venivano assegnate agli abitanti del Salento da Strabone3, da Ateneo4 e da Solino5, Varrone6 e Verrio7 prevedevano, oltre ai Cretesi, il concorso di gente proveniente dall’Illirico e dalla Locride ed infine Plutarco8 aggiungeva ai Cretesi il solo apporto degli Ateniesi. In controtendenza con queste tesi il solo Nicandro di Colofone, il quale assegnava agli indigeni un’origine illirica. Raccontava appunto che Licaone, giunto sulle coste adriatiche con un esercito in gran parte formato da Illiri guidati da Messapio, aveva scacciato chi vi risiedeva e assegnato agli Illiri la regione della Messapia9.

Occorre in aggiunta premettere che le coste del Basso Adriatico erano rimaste estranee all’attività colonizzatrice dei Greci, non già perché questi non ci avessero provato, quanto piuttosto per il fatto che non erano riusciti a prevalere. I Calabri ed i Sallentini s’erano sempre saputi far rispettare ma ciò nonostante avevano dovuto subire l’influsso del mondo greco con cui avevano instaurato un rapporto prevalentemente di carattere commerciale. La via settentrionale, com’era chiamata la rotta che portava i Greci nel Mediterraneo occidentale, toccava pure i centri costieri dell’allora Calabria e, soprattutto, Otranto e Brindisi. Ed era forse da queste frequentazioni che trovavano alimento le leggende di fondazione via via confezionate. Far passare che un certo luogo aveva antiche origini assimilabili alle proprie, era in effetti un modo come un altro per i naviganti di metterci il cappello sopra e di potersi così servire di approdi più affidabili e sicuri. E forse proprio per questo aspetto, Brindisi, allora città di gran lunga la più rinomata della zona, fruiva di un particolare privilegio nella creazione dei racconti di fondazione che utilizzavano per altro anche figure mitiche e non solo generici coloni.

Una delle più fantasiose viene desunta da Stefano Bizantino10, un grammatico di Bisanzio, che faceva derivare il nome di Brindisi («Βρεντέσιον», Brentesion), oltre che dalla classica configurazione del suo porto simile alla testa d’un cervo, da Brento, figlio di Ercole («ἀπὸ Βρέντου Ἡρακλέους»). Quello stesso Brento che incontrollate dicerie vorrebbero addirittura in competizione con il padre nella costruzione delle Colonne, posizionate sulla collina settentrionale della città. Colonne che, in aggiunta, ancora adesso sono spacciate per terminale simbolico della via Appia. Ora, sebbene nessuna fonte narrativa antica dia per esplicito che Brento sia mai stato fondatore della nostra città, lo si vocifera, e la cronachistica locale lo reputa addirittura con certezza tale, ricavandolo in maniera forse sin troppo azzardata dalla sola ricostruzione dell’etimo compiuta da Stefano Bizantino.

 

Diomede e Teseo tra i possibili fondatori di Brindisi

In quel periodo Brindisi non era un porto molto disponibile agli approdi ed ai commerci generalizzati, malgrado ciò la presenza soprattutto ionica vi era tuttavia evidente, rinvenibile per l’appunto nel patrimonio leggendario d’un lontano passato. E forse proprio questa assiduità delle popolazioni ioniche rappresenta di fatto una delle poche, se non l’unica, verità contenuta in questi miti delle origini, insieme alla propaganda di carattere politico e sociale di cui essi si facevano probabilmente strumento. Collegandosi ad età molto indietro nel tempo, i racconti prevedevano infatti il coinvolgimento di personaggi più mitici che storici, per cui per la fondazione di Brindisi gli autori antichi erano dibattuti se assegnarne il merito a Diomede o, addirittura, al leggendario Teseo. Per quanto riguarda il primo, occorre dire che il suo rapporto con Brindisi era però alquanto controverso.

Presentato come eroe civilizzatore, Diomede ricopre il ruolo di ecista in molte leggende delle città della costa adriatica sino all’estremo e misterioso Timavo, per quanto il suo culto era particolarmente vivo in Daunia. Brindisi, se fosse stata da lui effettivamente edificata, risulterebbe la città più a sud della costa occidentale e, in aggiunta, alquanto lontana dalle zone in cui l’eroe comunemente operava in queste vesti. Sebbene siano due le testimonianze che lo vogliono fondatore della nostra città, la più tarda di esse — quella di Isidoro — non è altro che un copia ed incolla succinto della versione di Trogo, pervenutaci tramite Giustino, che è quindi l’unica ad avere un certo valore documentario.

Nella sua epitome di Trogo, Giustino narra appunto che, «durante la spedizione compiuta in Italia da Alessandro il Molosso, il condottiero epirota fece per prima guerra agli Apuli. Tuttavia dopo aver saputo di quanto era avvenuto in passato alla loro capitale, decise di fare pace e di stipulare accordi con il loro re. Allora, infatti, capitale dell’Apulia era Brindisi, città fondata dagli Etoli guidati da Diomede, condottiero assai stimato e noto per la fama delle imprese compiute a Troia; costoro scacciati dagli Apuli, s’erano recati a consultare gli oracoli, ottenendo il seguente responso: il luogo che avessero chiesto in restituzione, sarebbe rimasto in loro possesso in eterno. Essi dunque tramite gli ambasciatori e dietro minaccia di guerra,  intimarono agli Apuli di restituire loro la città. Ma quando gli Apuli vennero a conoscenza dell’oracolo, massacrarono gli ambasciatori e li seppellirono nella città, che divenne così per essi  una perpetua dimora. E così, morti, possedettero a lungo la città, come previsto dal responso. Venuto a conoscenza di questa vicenda, Alessandro, in piena osservanza degli antichi fati, si astenne dalla guerra con gli Apuli» («Igitur cum in Italiam venisset, primum illi bellum cum Apulis fuit, quorum cognito urbis fato brevi post tempore pacem et amicitiam cum rege eorum fecit. Erat namque tunc temporis urbs Apulis Brundisium, quam Aetoli secuti fama rerum in Troia gestarum clarissimum et nobilissimum ducem Diomeden condiderant; sed pulsi ab Apulis consulentes oracula responsum acceperant, locum qui repetissent perpetuo possessuros. Hac igitur ex causa per legatos cum belli comminatione restitui sibi ab Apulis urbem postulaverant; sed ubi Apulis oraculum innotuit, interfectos legatos in urbe sepelierant, perpetuam ibi sedem habituros. Atque ita defuncti responso diu urbem possederunt. Quod factum cum cognovisset Alexander, antiquitatis fata veneratus bello Apulorum abstinuit»11)..

S’è riportato per intero il racconto di Giustino per consentire a chi lo desideri di analizzare in maniera del tutto autonoma il pezzo che contiene un possibile evidente errore. Brindisi era infatti al tempo in cui scrivono i due storici  una località della Calabria e non dell’Apulia che, a grandi linee, corrispondeva all’attuale Puglia centro-settentrionale. Non solo, essi la indicano capitale (urbs) dell’Apulia. Ora, salvo che Giustino non abbia travisato il pensiero di Trogo sulla collocazione e sulle funzioni di Brindisi — ma parrebbe alquanto strano trattandosi d’una città tra le più famose e rinomate del tempo — l’unica possibilità è che abbia riassunto il passo in maniera troppo sommaria. Nel senso che abbia tralasciato di riferire, forse considerandole informazioni scontate per i lettori, perché mai Brindisi fosse considerata in quel contesto facente parte dell’Apulia, nientemeno poi nelle vesti di città principale, e come mai si trovasse ad esercitare una simile egemonia. In effetti, come vedremo in uno dei prossimi interventi c’è una possibile risposta a queste apparenti incongruenze, che indurrebbe a credere che con ogni probabilità non si ha a che fare con una svista o, peggio ancora, con un banale errore ma con un’incomprensione dovuta ad un eccesso di sintesi.

Altro aspetto interessante da rimarcare è che in genere erano i barbari a fare le spese di certi sofismi, sopraffatti dall’acutezza e furbizia dei Greci, mentre questa volta sono proprio gli indigeni che mettono in campo in modo perfido l’astuzia, sfruttando a proprio vantaggio il responso degli oracoli e rendendo così vani i tentativi degli Etoli di riappropriarsi della città. In ogni caso, questo fa capire ad Alessandro il Molosso che non si sta rapportando con degli sprovveduti, e ciò lo convince a scendere a più miti consigli ed a desistere dal condurre una strategia troppo aggressiva.

Tranne Trogo ed Isidoro, che però come già riferito non fa altro che copiarlo, nessun altro considera Diomede fondatore di Brindisi, che anzi il più delle volte si trova schierata in campo avverso e viene citata come città a lui ostile.

È per esempio il caso degli “Excerpta Politiarum” di Eraclide Lembo, dove Diomede combatte al fianco dei Corciresi contro i Brindisini12, oppure delle “Metamorfosi”, dove Antonino Liberale, forse ripetendo Nicandro di Colofone, fa intervenire l’eroe greco in aiuto dei Dauni impegnati a guerreggiare con i nostri concittadini ed i Messapi tutti13. In questo secondo caso, è ricordato il mito di Diomede che, di ritorno ad Argo dalle imprese compiute a Troia, viene a sapere dell’infedeltà della moglie Egialea, cosa che lo spinge a partire per l’Etolia. Qui giunto, dopo avervi compiuto l’impresa di rimettere sul trono il nonno Oineo, nel frattempo spodestato da Agrio, decide di ripartire per Argo. Una tempesta lo spinge però sulle terre dei Dauni ai quali dà appoggio nella guerra che stanno appunto sostenendo contro i Messapi, in cambio d’una parte del territorio che sarebbe stato conquistato14. Sbaragliati i nemici, Diomede riceve la terra promessa che distribuisce ai suoi compagni di viaggio15. Sicché più che da fondatore, Diomede si comporta da conquistatore ai danni dei Messapi e, quindi, dei Brindisini.

È da sottolineare che anche in questa occasione, i Brindisini parrebbero trovarsi fuori dal loro habitat usuale, perché occupano, all’arrivo dell’eroe greco, il territorio che in epoca storica era dei Peucezi, e non dei Messapi.

A parte questo, messi insieme i vari racconti, si può evidentemente desumere che Diomede strappò ai nostri concittadini parte del loro territorio, dove ebbero modo di stanziarsi gli Etoli che l’accompagnavano nelle sue peripezie; in seguito, tuttavia, i Brindisini si riappropriarono delle zone perdute riuscendo a scacciare gli invasori.

Molto più accreditato come fondatore appare così Teseo, sia per numero di testimonianze, sia per l’approccio che egli mostra d’avere con il territorio che intende colonizzare.

Il primo a parlarne è Strabone il quale ricorda che anche Brindisi, come altre città dell’allora Calabria, fu fondata dai Cretesi, solo che per essa giravano due diverse versioni: la prima rinviava a Cretesi giunti da Cnosso con Teseo; la seconda a quelli che ritornavano dalla sfortunata spedizione condotta da Minosse in Sicilia («Βρεντέσιον δ᾽ ἐποικῆσαι μὲν λέγονται Κρῆτες οἱ μετὰ Θησέως ἐπελθόντες ἐκ Κνωσσοῦ, εἴθ᾽ οἱ ἐκ τῆς Σικελίας ἀπηρκότες μετὰ τοῦ Ἰάπυγος (λέγεται γὰρ ἀμφοτέρως)»16). In entrambi i casi, però, questi Cretesi non rimanevano a Brindisi ma finivano per abbandonarla intenzionati a dirigersi verso la Bottiea («οὐ συμμεῖναι δέ φασιν αὐτούς, ἀλλ᾽ ἀπελθεῖν εἰς τὴν Βοττιαίαν»17).

In altra parte della sua opera Strabone precisa che non tutti, ma solo alcuni (τινὰς) di essi avevano poi raggiunto a piedi la Macedonia, dopo aver fatto il giro della costa adriatica, e si erano stabiliti lì assumendo il nome di Bottiei18.

In maniera molto più poetica il fatto è narrato anche da Lucano il quale, riferendosi a Brindisi, la dice «città un tempo posseduta dai coloni Dittei che, profughi da Creta, navi cecropie trasportarono attraverso il mare, quando le vele diedero la falsa notizia che Teseo era stato vinto» («urbs est Dictaeis olim possessa colonis, / quos Creta profugos vexere per aequora puppes / Cecropiae victum mentitis Thesea velis»19). Ora i Dittei, non sono altro che i Cretesi — Ditte è infatti l’antico nome di un monte di Creta — e, con la locuzione navi cecropie, il poeta intendeva indicare navi ateniesi, essendo Cecrope il mitico primo re di Atene. In pratica Lucano inserisce la fondazione di Brindisi da parte di Teseo all’interno della leggendaria impresa da questi compiuta per sconfiggere il Minotauro e, di conseguenza, liberare Atene dal tributo dovuto a Creta.

Più esplicito in tal senso è l’anonimo Secondo Mitografo Vaticano il quale narra20 che Atene, sconfitta da Minosse, era stata costretta a consegnare ogni anno ai Cretesi sette fanciulle e sette giovani perché fossero abbandonati nel labirinto di Cnosso e servire da pasto del Minotauro. Nel quarto anno, quando la nave che doveva trasportare le vittime era già pronta nel porto, Teseo, figlio del re ateniese Egeo, decise d’imbarcarsi a sua volta per risolvere la questione. Invano il padre cercò di dissuaderlo dall’impossibile impresa; ottenne solo di poter consegnare al nocchiero un nero vessillo da mettere sull’albero più alto della nave, con l’intesa, che qualora avessero sconfitto il Minotauro, sarebbe stato sostituito da una bandiera bianca. Teseo, con l’aiuto di Arianna, riuscì nell’impresa ma nessuno si ricordò di sostituire il vessillo, sicché, al loro ritorno, Egeo, trovandosi su un altissimo scoglio, vide sventolare la bandiera nera e, credendo che Teseo fosse stato ucciso dal Minotauro, per la disperazione si precipitò nel profondo del mare. Per questo quel mare prese da lui il nome di Egeo, e Teseo, a sua volta, «navigando via dalla patria venutagli ad odio, giunse in Italia e fondò Brindisi» («Theseus vero odio loci inde navigans; ad Italiam venit, et Brundusium condidit»21).

 

L’alleanza tra Brindisi ed Atene

L’aspetto più interessante da cogliersi nella versione inaugurata da Lucano è che la fondazione di Brindisi da parte dei Cretesi rende più esplicito il collegamento della città con Atene. Per tale motivo, è da ipotizzarsi che questa leggenda di fondazione faccia parte della propaganda ateniese per avanzare un qual certo diritto di possesso del luogo o, quantomeno, una priorità nell’uso del porto brindisino. Si deve infatti considerare che, almeno sino a quando le loro attenzioni non si volsero verso la Sicilia, gli interessi prevalenti ateniesi verso l’occidente erano i più remoti siti dell’Alto Adriatico che presupponevano, per giungervi, di poter fruire della ospitalità dei pochi scali certi che la costa occidentale dell’Adriatico offriva. La propaganda serviva inoltre a dare luce alla città di Brindisi, fiera antagonista di Taranto, a sua volta colonia di Sparta acerrima rivale di Atene, e darle un alone di nobiltà.

Il che manifesta in maniera evidente l’esistenza di un’alleanza tra Brindisini ed Ateniesi, avviata già in epoca arcaica, che con ogni probabilità permetteva a questi la certezza dell’uso dell’approdo brindisino nei loro viaggi commerciali verso l’estremo nord ed a quelli di godere, quando occorreva, dell’aiuto militare nello sforzo bellico compiuto per limitare l’espansione territoriale di Taranto e delle altre città italiote ad essa ostili.

Alleanza a livello istituzionale — occorre ricordarlo — per lo più negata dagli storici che, al massimo, la connettono a casuali accordi stipulati da qualche dinasta calabro, come avvenne nel caso di Artas, facente parte di una preziosa testimonianza tramandata da Tucidide nel contesto della spedizione decisa da Atene per soccorrere la propria armata impegnata con poca fortuna nell’assedio di Siracusa.

Siamo nel 413 a.C. quando Demostene e Eurimedonte conducono la flotta di soccorso raggiungendo le Cheradi, isole dette della Iapigia, dove imbarcano sulle navi centocinquanta lanciatori di giavellotto messapi, forniti appunto dal dinasta Artas, dopo aver «rinnovato un antico patto di amicizia» («ἀνανεωσάμενοί τινα παλαιὰν φιλίαν»)22.

Il passo di Tucidide ha dato origine ad un ampio dibattito esegetico e topografico, in particolare su come debba essere inquadrata cronologicamente la palaià philia (antica amicizia) citata nel testo, e sulla possibile identificazione delle citate isole Cheradi.

Per quest’ultimo aspetto, considerato che nella penisola salentina vi sono solo due gruppi di isole che fanno al caso nostro — o quello di fronte al Mar Grande di Taranto o le Pedagne di fronte al porto di Brindisi — non ci dovrebbe essere grande imbarazzo nella scelta che sembrerebbe obbligata per il piccolo arcipelago brindisino. Le isole tarantine si trovavano infatti in una zona preclusa sia agli Ateniesi sia ai Calabri di Artas, per le ovvie ragioni che la città ionica era nemica giurata di Brindisi e parimenti ostile ad Atene, in quanto colonia spartana e in più alleata a Siracusa. Pertanto le uniche isole adoperabili per l’incontro erano le attuali Pedagne, in territorio calabro. Al contrario gli storici, in maniera forse azzardata, valutano che l’abboccamento e l’accordo tra Artas e gli Ateniesi sia avvenuto in territorio dichiaratamente nemico, tanto è vero che, proprio in base a questa loro certezza, all’arcipelago tarantino è stato attribuito poi il nome di Cheradi. Appare, però, di fatto bizzarro che Artas e gli Ateniesi, pur disponendo di altri luoghi da utilizzare per avere un vertice, abbiano deciso di farlo proprio in territorio nemico. Ne consegue che parrebbe del tutto scontato che le isole citate da Tucidide non possano che essere le Pedagne.

Tale ipotesi è tra l’altro confermata dal fatto che, in un precedente passo, lo storico dichiara espressamente che Taranto e Locri non fecero entrare gli Ateniesi nel loro abitato, né accordarono loro acqua e ormeggio23, e in definitiva impedirono anche il semplice approdo nel territorio di loro competenza. A maggior ragione, appare improbabile che potessero consentire lo scalo ai Calabri di Artas, loro tradizionali nemici.

Altra strana interpretazione viene data in merito al termine “antica” adoperato da Tucidide nell’indicare il patto di amicizia in atto tra Ateniesi e Messapi. A tale termine non viene infatti assegnato il significato che gli è più proprio, vale a dire di qualcosa di avvenuto in epoca remota, quanto piuttosto in un periodo vicino ai fatti narrati. Di conseguenza gli storici sono per lo più categorici nel negare la possibilità che i patti richiamati fossero stati stipulati in un lontano passato. Eppure le poche prove di cui si è in possesso indurrebbero a credere esattamente il contrario.

È storicamente accertato che anche nei secoli precedenti Atene aveva interessi commerciali nelle città dell’Alto Adriatico e, quindi, la necessità di trovare sicura ospitalità nelle poche strutture portuali disponibili sulle coste del versante italiano. Ed in tale ottica grande importanza rivestiva appunto la costa salentina del Basso Adriatico, dove si arrivava dopo avere affrontato il mar aperto: l’impossibilità di fruire di approdi certi in quel luogo avrebbe potuto mettere a repentaglio una navigazione, allora prevalentemente basata sul cabotaggio, e costituire un rischio talmente elevato da precludere ogni possibile viaggio in quella zona. Per cui parrebbe evidente che gli Ateniesi si siano dovuti premunire esercitando un controllo di un qualche tipo sui principali approdi calabri ed in particolare su quello di Brindisi, essendo essenziale per la buona riuscita della loro attività mercantile. Dal momento poi che Brindisi e le località calabre e salentine con essa alleate, seppure influenzate dal mondo greco, non subivano egemonie politiche di sorta, un tale controllo poteva essere attuato solo venendo ad accordi pacifici con la gente del luogo. Per evitare infine brutte sorprese, è evidente che non poteva trattarsi di accordi presi di volta in volta, oppure lasciati al caso o alla volontà di singoli dinasti, quanto piuttosto di intese attuate in maniera organica ed a livello istituzionale.

Ci sono pure riscontri concreti che valorizzano una simile ipotesi.

L’intenso commercio avviato da Atene con Adria e Spina è già di per sé un importante dato di fatto, ma anche il ritrovamento nelle coste adriatiche del Salento e nelle zone limitrofe di ceramica protocorinzia e ionica, rende manifesta la penetrazione culturale greca nella zona e, al tempo stesso, è un chiaro indice di come gli intensi commerci nell’Alto Adriatico non potevano prescindere da una assidua frequentazione dei punti più strategici del Basso Adriatico. C’è poi da rilevare che Thurii, unica colonia della Magna Grecia di ispirazione ateniese, è anche la sola tra le città italiote ad essersi alleata formalmente con Brindisi, come attestato dal caduceo conservato al Museo Nazionale di Napoli. Il fatto che nel V secolo a.C. ci fosse un unico caduceo, e quindi uno stesso araldo, del δαμόσιον Θουρίων (popolo dei Turi) e del δαμόσιον Βρενδεσίνον (popolo brindisino) testimonia di come si fossero subito istaurati buoni rapporti tra le due comunità. In maniera talmente spontanea da lasciare intuire preesistenti e operativi accordi tra Brindisini ed Ateniesi.

In definitiva, i miti di fondazione collegati alla figura di Teseo, eroe di chiara matrice ateniese, rendono evidente come Brindisi ed Atene trovarono naturale allearsi tra loro, condividendo una evidente e comune inimicizia per il mondo spartano.

I miti di fondazione che si rifanno a Diomede fanno invece presagire che forse la storia arcaica di Brindisi vada in parte riscritta. Diversamente da quello che in genere si racconta, prima della colonizzazione greca, l’egemonia esercitata dalla città non si limitava alle località a sud dell’istmo che la unisce a Taranto ed i suoi possedimenti erano, con ogni probabilità, ben più consistenti. Cosa questa che analizzeremo in futuro rivalutando alcuni frammenti narrativi cui la critica storica ha concesso in passato poco credito o scarsa importanza, oppure li ha ritenuti talmente oscuri da alterarne i contenuti, emendandoli.

 

* Tratto da N. Valente, Brindisi sconosciuta, Grenzi editore, 2023 (in vendita su Amazon https://amzn.eu/d/gmSjIxJ)

 

 

Note

1 Erodoto (V secolo a.C.), Storie, VII 170.

2 Conone (I secolo a.C. – I secolo d.C.), fr. 1. XXV, apud fozio (IX secolo d.C.), Biblioteca, 186, 25.

Strabone (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, VI 3, 5.

4 Ateneo (II o III secolo d.C.), Deipnosofisti,  XII 24 523a.

5 Solino (III secolo d.C.), Raccolta di cose memorabili, 2, 10.

6 Varrone (II secolo a.C. – I secolo a.C.), Antiquitates rerum humanarum, III fr.VI Mirsch, apud ps –probo (…), in Vergilii Bucolica, VI 31.

7 Verrio Flacco (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Sul significato delle parole, fr. apud festo (II secolo d.C. – …), Sul significato delle parole libri XX, in Dacier, vol. II, Londra,  pp. 807-808.

8 Plutarco (I secolo d,C. – II secolo d.C.), Moralia, 298-299.

9 Nicandro di Colofone (…),fr. 47 Schneider, apud antonino liberale (…),  Metamorfosi, XXXI 1/3.

10 Stefano Bizantino (VI secolo d.C. – …), Ethnica, voce Brentesion.

11 Giustino (II secolo d.C.?), Epitome delle storie filippiche di PompeoTrogo, XII 2, 5/11.

12 Eraclide lembo (II secolo a.C.), Excerpta Politiarum, 27 ed. Polito.

13 Antonino liberale, Metamorfosi, XXXVII 1/3.

14 Ibidem, XXXVII 2.

15 Ibidem, XXXVII 3. Il mito prevede anche conclusioni meno a lieto fine: in una addirittura Dauno contravviene ai patti e, dopo aver consegnato la terra concordata, se la riprende. In questa versione Diomede muore, ucciso da Dauno, ed i suoi compagni vengono trasformati in uccelli simili ai cigni, in Tzetze (XII secolo d.C.), Scholia in Lycophronis Alexandram, vv. 594/632.

16 Strabone, Geografia, VI 3, 6.

17 Ibidem.

18 Ibidem, VI 3, 2.

19 Lucano (I secolo d.C.), La guerra civile, II vv. 610/612.

20 Secondo Mitografo Vaticano (tra il IX e il XIII secolo), II 124-125.

21 Ibidem, II 125.

22 Tucidide (V secolo a.C.),  La guerra del Peloponneso, VII 33, 3-4.

23 Ibidem, VI 44, 2.

 

Penisola salentina romana

di Nazareno Valente

Ogni moneta ha facce antitetiche, ciascuna tuttavia legata in maniera inscindibile all’altra ed utile nell’insieme a caratterizzarne il valore. Così anche la rete, tanto ricca di notizie da saper informare su qualsiasi questione si voglia, è duplice e contrapposta, avendo anch’essa il rovescio di questa sua medaglia. Per una naturale questione di copyright, sul web girano infatti per lo più testi ed articoli datati che presentano una preziosa visione di come si siano evolute le conoscenze di uno specifico settore ma che rischiano, se letti senza considerare che moltissima acqua è passata sotto i ponti, di prendere per buoni concetti ed ipotesi ormai vecchi e superati. E ciò risulta particolarmente vero per le antichità, dove i lavori recenti e specialistici consultabili in rete sono quasi del tutto assenti ed abbondano, invece, quelli dei secoli scorsi che, se assorbiti senza spirito critico, rischiano di far aderire a teorie a cui gli studiosi non credono più da tempo.

 

Le teorie obsolete rivitalizzate da Wikipedia

Un significativo riscontro di come si possa essere portatori di posizioni ormai demodé, si ha leggendo alcune schede sull’antichità di Wikipedia nelle quali, ad esempio, è riportato che il Salento faceva parte della Magna Grecia, come si riteneva un paio, ed anche più, di secoli fa, oppure non ci si è neppure aggiornati sul fatto che a Brindisi, conquistata dai Romani,  fu dedotta una colonia latina.

Questo modo antiquato di valutare le cose, si aggiunge a certe inveterate abitudini culturali che fanno fatica a non avere una visione del mondo se non alla talebana. Ovverosia a vederlo o tutto bianco o tutto nero, senza la neppure più lontana parvenza di sfumature di grigio, oppure ripartito tra cattivi, sino all’ultima nascosta piuma, e buoni, in maniera tale da fare persino concorrenza ai santi. Non per niente, qualsiasi cosa facessero i Romani e, soprattutto, i Greci era considerata giusta e sacrosanta; ed ogni loro pur impalpabile vezzo rientrava nel disegno più generale tracciato dall’inviolabile progresso. Sicché, per indicare chi o ciò che era diverso dall’essere greco, s’adoperavano termini negativi, ed ancora adesso si parla di lingue anelleniche, di ambiti anellenici, di popolazioni anelleniche, dove quindi quel che è indigeno è caratterizzato dal fatto di non essere greco.

Sarà per questo spontaneo innamoramento per i popoli alla moda che molti preferirebbero tuttora essere gli epigoni dell’ultimo dei Mohicani, e quindi posizionarsi tra i collaborazionisti — in pratica sentirsi dire che il Salento era Greco trovandosi in Magna Grecia — piuttosto che gli eredi del cattivo Magua il quale, invece, lottò per salvaguardare le proprie radici, come agli effetti pratici fecero i nostri antichi concittadini brindisini ed i Salentini tutti che si opposero con parziale e sostanziale successo alla colonizzazione greca, difendendo la propria identità culturale. Quello stesso successo che, invece, non arrise quando toccò ai Romani di venire a pretendere le nostre terre.

Allo stesso modo, internet e certa parte della cronachistica delle nostre parti trasudano amore per la colonizzazione greca e, di conseguenza, per l’arrivo dell’aquila romana, sicché, se qualcuno volesse informarsi ad esempio sulla cittadinanza romana, scoprirebbe che essa è quasi sempre qualificata per “prestigiosa” o con altra espressione enfatica che rinvia immancabilmente agli stereotipi imposti dal periodo fascista, dove la romanità faceva tendenza. Tanto per ricollegarsi alle teorie, valide nei secoli scorsi, che la rete fa recuperare e, complice la nostra passività nell’analisi, fa credere ancora attuali e degne d’un qualche credito.

 

Non sempre la cittadinanza romana fu ritenuta “prestigiosa”

Se invece di dipendere solo da Wikipedia, si volesse talvolta dare un’occhiatina pure alle opere degli autori antichi, magari qualche dubbio sul prestigio incondizionato posseduto in antichità dalla cittadinanza romana potrebbe sorgere. Ad esempio Livio che, pur essendo un grande estimatore del mondo latino, riferisce un episodio alquanto curioso accaduto nel corso della seconda guerra punica (218-202 a.C.). Annibale sta prendendo il sopravvento, sobillando le città Italiche,  e Roma è in grossa difficoltà, quando  all’assedio di Casilinum (216 a.C.) i Prenestini si rendono protagonisti d’un valoroso gesto di fedeltà alla causa romana, arrendendosi ai Cartaginesi solo dopo aver combattuto sino allo stremo delle forze. Il senato romano per ricompensarli decreta doppio stipendio («Praenestinis militibus senatus Romanus duplex stipendium… decrevit»1) e offre loro la cittadinanza romano per le virtù dimostrate («civitate cum donarentur ob virtutem»2); i Prenestini accettano il denaro, rifiutando però compatti l’altra gratificazione: alla cittadinanza romana preferiscono la propria che, infatti, non ci pensano nemmeno di modificare («non mutaverunt»3). Ed i Prenestini non furono certo gli unici a mostrare poco interesse per un simile dono, tant’è che, a detta di Diodoro Siculo, un Cretese fece anche di peggio. Non solo respinse l’offerta fattagli della cittadinanza romana ma, per sovrappiù,  la derise dichiarando in maniera perentoria che i Cretesi consideravano la cittadinanza romana una solenne baggianata, cui essi preferivano di gran lunga qualcosa di più utile («Πολιτεία, φησί, παρὰ Κρησὶν εὐφημούμενός ἐστι λῆρος. τοξεύομεν γὰρ ἡμεῖς ἐπὶ τὸ κέρδος»4).

Va a questo punto ricordato che i Cretesi erano famosi per la dubbia moralità e per l’attaccamento al soldo, come per altro non si può negare che l’essere Romani comportasse indubbi benefici che rendevano una simile condizione giuridica a volte appetibile. Ma non sempre. E certo non era proprio così, quando l’Urbe intraprese la sua politica espansionistica.

 

Come Roma strutturava le comunità vinte

Inizialmente Roma era solita incorporare i territori dei popoli vinti qualificandoli giuridicamente come ager pubblicus (agro pubblico), vale a dire come suolo appartenente allo Stato da destinare a vari scopi ma che non poteva divenire di proprietà privata, salvo espressa disposizione legislativa. Successivamente adoperò strumenti giuridici che non obbedivano a schemi rigidi ma valutati, caso per caso, in maniera pragmatica secondo gli interessi del momento.

Riguardo al territorio italico che si andava acquisendo, si seguirono fondamentalmente tre vie: l’incorporamento nello Stato romano, dopo aver privato le comunità preesistenti dell’autonomia politica (municipia); l’insediamento di comunità cittadine con la fondazione di una nuova città (coloniae); la stipula di accordi (foedera) che rendevano le comunità preesistenti alleate dell’Urbe entrando esse a far parte d’una specie di stato federativo.

Quest’ultimo era il sistema maggiormente impiegato nel periodo in cui la Calabria — così i nostri antichi corregionali chiamavano la terra da noi denominata  Salento — fu conquistata (266 a.C.) e che fu appunto adoperato per tutte le città salentine le quali infatti stipularono con Roma un accordo (foedus). L’unica eccezione riguardò Brindisi per la quale fu scelta la deduzione di una colonia di diritto latino.

 

Ciascuno dei sistemi indicati aveva vantaggi e svantaggi, inoltre, all’interno dello schema generale, ogni comunità poteva vedersi accordati minori o maggiori benefici. Tutto dipendeva da come si era comportato il popolo conquistato nei confronti dei Romani. In linea di principio, più ci si era opposti alla conquista e maggiori erano gli oneri imposti alla comunità; viceversa chi aveva accettato senza reagire il potere romano, riusciva a spuntare condizioni migliori.

Così, ad esempio, se organizzati in municipia, che dava luogo alla perdita dell’autonomia ma alla concessione della cittadinanza romana, nel primo caso questa la si otteneva svuotata degli effetti politici in quanto senza titolo a votare e ad aspirare alle cariche pubbliche (sine suffragio et iure honorem); nel secondo la si conseguiva a pieno titolo, al pari di un qualsiasi abitante dell’Urbe (cives optimo iure). E certamente la prima, quindi quella priva dei diritti politici, sarebbe stata la formula adottata nei confronti dei nostri antichi corregionali, qualora fossero stati inquadrati nei municipia, per il semplice fatto che non si erano sottomessi senza combattere. D’altra parte anche se avessero ottenuto la cittadinanza a pieno titolo, avrebbero avuto grande difficoltà ad esercitare i diritti politici, visto che si votava a Roma ed un viaggio di andata e ritorno richiedeva quasi un mese per essere completato, e che sarebbero dovuti comunque andare a Roma in occasione dei censimenti predisposti con scadenza quinquennale. Per cui essere organizzati in municipia5, con una cittadinanza limitata in ogni caso nei suoi principali contenuti, avrebbe voluto dire farsi carico dei soli svantaggi derivanti da una simile organizzazione. In pratica, a nessun nostro corregionale sarebbe venuto in mente di diventare allora cittadino romano, per il semplice motivo che un tale stato giuridico avrebbe comportato solo oneri e scarsi benefici pratici. In conclusione il foedus era con ogni probabilità una soluzione di gran lunga migliore.

Ma, come già detto, c’erano diversi tipi di foedera. Gli storici dell’antichità, in genere di parte romana,  qualificano unicamente quelli vantaggiosi con i termini di aequa, come l’accordo stipulato con Napoli; aequissima, quello riguardante Camerino e, aequissimum et prope singulari, cioè a dire particolarmente favorevole di cui aveva fruito Eraclea. Tuttavia, nella loro stragrande maggioranza, tali accordi non erano poi tanto “equi” e salvaguardavano prevalentemente gli interessi romani. Per quanto le fonti narrative non li caratterizzano, ci hanno pensato gli studiosi a parlare di  foedera iniqua, con cui per lo più Roma imponeva un limite alla sovranità delle città conquistate i cui cittadini divenivano così alleati (socii o foederati) dell’Urbe, in condizione però subordinata.

Il foedus nondimeno consentiva alle comunità di conservare la propria cittadinanza, le proprie leggi ed i propri ordinamenti, oltre ad una estesa autonomia di carattere amministrativo-finanziario, essendo loro lasciata l’autorità di battere moneta. Rinunciavano però — e questa era la parte iniqua — a svolgere una propria politica estera (ius belli ac pacis) rimettendosi così del tutto alle decisioni prese in merito dai Romani (servare maiestatem populi Romani). In pratica si acquisivano gli amici dell’Urbe, insieme ai loro nemici e non se ne potevano avere di propri. Nel caso dell’insorgere d’un conflitto, che solo Roma poteva avviare, c’era poi l’obbligo di fornire un contingente di truppe prefissato che operava, in posizione subalterna, nei reparti ausiliari dell’esercito romano.

Erano questi gli accordi più usuali che s’imponevano ai socii, e a queste clausole si conformarono, con le inevitabili varianti del caso quelli firmati dalle città salentine6.

Come già ricordato, l’unica che non si federò con Roma fu Brindisi, dove fu dedotta una colonia di diritto latino. Ed era questa la formula giuridica probabilmente più vantaggiosa a quell’epoca. La città ottenne questa posizione di privilegio, grazie al suo porto ed alla sua collocazione strategica, ma pure per questioni che non è qui il caso d’indagare.

Le colonie, la cui funzione prevalente era di carattere militare, ma pure un modo per diffondere la romanità, erano di due tipi: quelle romane (coloniae civium romanorum), dove chi partecipava conservava la cittadinanza romana, e quelle di diritto latino (coloniae latinae), dove i Romani che vi partecipavano dovevano espressamente richiedere di diventare Latini e registrarvi il proprio nome («qui cives Romani in colonias Latinas proficiscebantur fieri non poterant Latini, nisi erant auctores facti nomenque dederant»7), perdendo così la cittadinanza romana.

Le colonie romane erano dedotte con lo scopo principale di creare dei presidi sulle coste prossime al territorio romano; quelle latine per controllare i punti di maggiore rilevanza strategica in zone da poco conquistate e magari ancora non del tutto pacificate. Le diversità si riflettevano nei rispettivi assetti: i coloni romani, facendo parte d’un presidio cittadino, non potevano allontanarsi dalla colonia, se non per periodi limitati, non erano soggetti alla leva, non potevano emettere moneta ed avevano un’organizzazione istituzionale che si rifaceva a quella dell’Urbe; i coloni latini avevano, al pari dei socii Italici, l’obbligo di fornire un contingente militare quando Roma lo richiedeva, secondo l’elenco dei togati (formula togatorum8, vale a dire degli uomini in età per compiere il servizio militare) e di non stipulare accordi con altre città. Le colonie latine avevano, però, la particolarità di beneficiare di un’ampia autonomia interna che consentiva loro anche l’attività giurisdizionale, oltre all’adozione  d’un proprio statuto, di propri organi ed alla possibilità di battere moneta. Il diritto latino consentiva inoltre di contrarre iustae nuptiae con i cittadini romani (ius connubii, il che garantiva alla prole la fruizione dei diritti civili) e di commerciare con essi (ius commercii, per cui erano titolati a ricorrere al pretore, per tutelare i propri atti negoziali); probabilmente di acquisire la cittadinanza romana previo trasferimento a Roma (ius migrandi) ma con l’obbligo di lasciare nella città d’origine un figlio per non depauperare la colonia; di votare, se ci si trovava in quel momento a Roma, con la tribù che veniva di volta in volta sorteggiata («sitellaque lata est ut sortirentur ubi Latini suffragium ferrent»9). Non consentiva invece, almeno in quel periodo, lo ius honorum, vale a dire la possibilità di concorrere per le magistrature romane. Al pari delle città federate, anche le colonie non potevano svolgere atti di politica estera e avevano l’obbligo di  assistere Roma in qualsiasi attività militare questa intendesse avviare, fornendo, come già riportato, il contingente di truppe richiesto.

Con tutti gli indubbi problemi iniziali che la deduzione a colonia latina comportava sia per i Romani, costretti a rinunciare alla cittadinanza romana in quanto si acquisiva quella latina, sia per i locali, a causa della preliminare ristrutturazione della città che comportava una ridefinizione delle proprietà, essa rappresentava in ogni caso la soluzioni con le migliori prospettive future. Prospettive che Brindisi sfruttò appieno divenendo, proprio grazie alla configurazione giuridica allora adottata, dapprima uno dei più importanti centri della Repubblica romana e poi una delle maggiori metropoli nel periodo imperiale.

Sarà in aggiunta che i Romani non si fidavano troppo dei Tarantini ma il porto di Brindisi soppiantò del tutto quello di Taranto nelle funzioni militari e commerciali, divenendo di fatto il tramite privilegiato per l’Oriente. Taranto seppe però conservare la reputazione di città culturale e divenne un centro residenziale ambito dalle classi intellettuali agiate che vi costruirono case e ville signorili.

In definitiva a Brindisi andò di lusso e non andò male neppure alle altre città salentine: in fondo Roma si atteggiava come il buon pastore che tosa le sue pecore con riguardo, sapendo che, se le scorticasse, sarebbe il primo a perderci. Per questo motivo, ove possibile, i Romani sceglievano il tipo di organizzazione più congeniale agli interessi propri ma anche a quelli della comunità assoggettata.

 

A lungo andare gli alleati divennero sempre più dei sudditi

Questa organizzazione rispettosa delle comunità conquistate andò comunque di lì a poco in crisi e, di conseguenza, le cose incominciarono a cambiare in peggio, soprattutto a causa di una circostanza del tutto straordinaria che si concretizzò una cinquantina di anni dopo, quando Annibale invase l’Italia nell’autunno del 218 a.C.

L’arrivo e gli iniziali successi del Cartaginese riaccesero le aspirazioni di indipendenza di quasi tutte le ex colonie greche e di molti popoli italici i quali, convinti che i Romani stessero ormai per soccombere, defezionarono schierandosi con i Punici. Tra i defezionisti Livio elenca i Campani, gli Atellani, i Calatini, gli Irpini, parte degli Apuli, tutti i Sanniti tranne i Pentri, i Bruzii, i Lucani e, oltre a questi, gli Uzentini e pressoché tutti i Greci della costa, tra i quali i Tarantini («Defecere autem ad Poenos hi populi: Atellani, Calatini, Hirpini, Apulorum pars, Samnites praeter Pentros, Bruttii omnes, Lucani, praeter hos Uzentini, et Graecorum omnis ferme ora, Tarentini…»10). La ribellione di Ugento è però molto incerta, essendo la sua inclusione nella lista dei rivoltosi quasi certamente dovuta ad un errore da parte d’un amanuense che ha sostituito gli Uzentini ai molto più probabili Surrentini, i quali, non a caso, sono indicati in altri manoscritti. Comunque sia, subito dopo, a Taranto s’accodarono altri centri salentini che, però, Livio non specifica indicandoli con disprezzo città insignificanti («Sallentinorum ignobiles urbes»11), senza lasciar capire se il tono usato fosse per minimizzare l’accaduto oppure per rimarcare il loro infedele comportamento.

È invece certo che Brindisi rimase fedele a Roma e si oppose con forza ad Annibale, tanto da essere espressamente citata tra le diciotto colonie il cui aiuto consentì di far restare saldo il dominio romano e che, per questo, ricevettero il plauso ed i ringraziamenti in Senato e presso il popolo («Harum coloniarum subsidio tum imperium populi Romani stetit, iisque gratiae in senatu et apud populum actae»12).

Altra cosa certa è che l’Urbe, passata la buriana, e ripreso il controllo della situazione, si vendicò del torto subito e usò la mano pesante nei riguardi degli alleati che avevano violato i patti, imponendo clausole ancor più restrittive nei foedera stipulati. In particolare Taranto, pur riuscendo ancora una volta a limitare i danni, si vide costretta a cedere parte del suo territorio. Qui, a nord della città, in una zona strategica dell’antica periferia greca che dava diretto accesso al porto del Mar Piccolo, Roma fondò nel 123 a.C., con plebiscito proposto da Caio Gracco, Neptunia, una colonia di diritto romano con l’intento di attuare un controllo più diffuso sulla cittadina ionica.

Allo stesso tempo il possesso della cittadinanza romana incominciò a far maturare benefici economici e fiscali ai suoi possessori, discriminando sempre più gli alleati. E tale disparità di trattamento risaltava con grande evidenza in un’attività, come quella bellica, in cui i Romani e gli alleati operavano fianco a fianco. Pur partecipando attivamente alle azioni militari ed a tutti gli altri obblighi, gli alleati non godevano degli stessi vantaggi goduti dai commilitoni romani, proprio perché non fruivano della medesima cittadinanza. La disuguaglianza s’era andata accentuando già dal 167 a.C. quando, grazie al bottino ottenuto con la terza guerra macedonica, il tributum per mantenere l’esercito non fu più richiesto13 e, pertanto, i cittadini romani iniziarono a godere dell’immunità finanziaria14 mentre i socii e le colonie di diritto latino continuarono a dover sostenere le spese per l’arruolamento delle truppe che fornivano a Roma.

E le sperequazioni non erano solo di carattere monetario riguardando anche altri aspetti. Gli alleati erano ad esempio confinati nei reparti ausiliari, assoggettati a norme capestro, correndo anche il rischio d’essere condannati a morte dal console romano per un qualsiasi atto di insubordinazione, mentre, in analoghe situazioni, il legionario non poteva essere neppure sfiorato dalla frusta. Eppure il loro apporto andava aumentando: alla meta del II secolo a.C. i loro contingenti, uniti alle truppe fornite dalle colonie latine, erano in quantità pari a quello delle legioni romane; verso la fine dello stesso secolo erano addirittura corrispondenti al doppio. Ciononostante, sebbene il peso delle azioni belliche fosse sempre più addossato sugli alleati, questi si vedevano preclusa ogni possibilità di fare carriera nei ranghi dell’esercito romano e di avere al termine della ferma l’assegnazione di terre, come qualsiasi altro veterano romano.

La situazione s’inasprì ulteriormente con l’avvio, alla fine del II secolo a.C., della riforma dell’esercito che aveva come punto qualificante quello di far accedere alla carriera militare i capite censi (i nullatenenti). Una vera e propria rivoluzione in quanto, per la prima volta, le classi più umili si vedevano aperta la via all’arruolamento nell’esercito romano e, quindi, alla possibilità di partecipare al soldo ed ai vitalizi militari. Era questa un’opportunità unica di avanzamento sociale ed economico che, sino ad allora, era stata di esclusivo appannaggio della media borghesia. Tuttavia ne poterono beneficiare solo i cittadini romani, mentre gli Italici si videro preclusa anche questa occasione di sviluppo.

Di fatto, più passava il tempo e più gli alleati italici venivano trattati da sudditi, e questo alla lunga esacerbò gli animi creando una situazione esplosiva.

 

La guerra sociale

A dare fuoco alla miccia, fu un ulteriore episodio compiuto a danno degli alleati: Druso, il tribuno della plebe che aveva proposto di estendere la cittadinanza romana a tutta l’Italia15ad dandam civitatem Italiae»16), venne trovato ucciso il giorno stesso in cui il provvedimento doveva essere votato, proprio per impedire che l’iter legislativo giungesse a compimento. In precedenza anche il console M. Fulvio Flacco (125 a.C.) e poco dopo Gaio Sempronio Gracco avevano proposto invano l’estensione della cittadinanza romana alle città italiche federate ed alle colonie latine. Ma pure in quelle circostanze l’oligarchia romana s’era messa di traverso ostentando le maniere forti.

A questo punto molte delle città federate si resero conto di non avere altra scelta se non quella di prendere le armi e di muovere guerra a Roma.

In pratica, la cittadinanza romana, inizialmente con poche attrattive e quasi vissuta dagli Italici come un limite alla propria autonomia, divenne talmente ambita da spingere all’uso dei mezzi più estremi pur di ottenerla. Iniziò così nel 91 a.C. la sanguinosa rivolta, passata alla storia con il nome di “guerra sociale” perché, ad esservi coinvolti furono principalmente gli italici federati con Roma, i cosiddetti socii di Roma. I municipi che godevano già della cittadinanza romana — e che tra l’altro non avevano un proprio esercito — non avevano infatti  nessun interesse a prendervi parte. E allo stesso modo le colonie latine, con l’eccezione di Venusia, non aderirono alla rivolta e preferirono stare dalla parte dell’Urbe, il che testimonia che il regime giuridico fruito andava loro più che bene. Anche perché — va ricordato — i notabili delle colonie latine erano già stati per certi versi accontentati con la concessione dello ius adipiscendae civitatis Romanae per magistratum che consentiva di acquisire la cittadinanza romana a chi aveva ricoperto una magistratura locale17 e che, quindi, accordava loro questo beneficio per altra via.

Brindisi si schierò pertanto con Roma, e questo fu forse uno dei motivi che consiglio le altre  comunità salentine a fare altrettanto. Fa parte infatti delle fantasie «l’ultima grande ribellione guidata da Taranto nell’80 a.C.»18 di cui ci dà menzione Wikipedia in una delle sue schede più creative. Neppure Taranto osò infatti ribellarsi. Né poteva essere diversamente, considerato che di fatto aveva in casa un presidio romano, la già citata colonia romana Neptunia, pronto ad intervenire senza tante sottigliezze al minimo accenno di sollevazione.

La guerra sociale fu la prima occasione in cui trovò spazio il concetto di “Italia”, sia pur solamente inteso come comunità dei suoi abitanti. Infatti i rivoltosi, sebbene di etnie diverse, si autoidentificarono in questo nome e adottarono come proprio simbolo la figura del vitello/toro associato al nome dell’Italia. E questo emblema fu vissuto in funzione antiromana, come emerge con chiarezza nelle loro emissioni monetali in cui il toro assale e sconfigge la lupa, raffigurazione di Roma.

 

Dopo un anno in cui i risultati sul campo erano stati poco più che mediocri, mentre i dissapori interni, tra chi era favorevole a fare delle concessioni ai rivoltosi e chi considerava tale posizione un modo come un altro per sobillare ancor più gli Italici, aumentavano, comportando una pericolosa instabilità poi sfociata nella guerra civile, i Romani decisero che era meglio venire a più miti consigli. Approvarono pertanto la lex Iulia de civitate latinis (et sociis) danda (90 a.C.) con cui si concedeva la cittadinanza romana, non solo ai Latini ed agli alleati che non avevano preso le armi, ma anche a chi le avesse deposte entro un prefissato termine di tempo.

Questo dissuase le popolazioni incerte dall’entrare in lotta e creò dissensi tra gli stessi insorti.

Usando al tempo stesso carota (altri provvedimenti simili alla lex Iulia) e bastone (la spietata determinazione di Silla) si venne a capo della situazione e, di lì a breve, si riuscì a domare la sollevazione e tutte le popolazioni dell’Italia a sud della regione gallica cisalpina finirono per acquisire la cittadinanza romana.

Brindisi e le altre collettività salentine, che s’erano mantenute fedeli a Roma,  si videro pertanto assegnare la cittadinanza romana già nel 90 a. C. Questo avvenne certo a livello formale, mentre l’effettivo conferimento ebbe luogo solo qualche anno dopo (probabilmente nell’83 a.C.) in quanto, anche ai tempi dei romani, non si era del tutto liberi dalle pratiche burocratiche. Occorreva infatti censire i nuovi cittadini e ascriverli alle tribù esistenti, e questo portava via tempo.

Oltre ad integrare i nuovi cittadini nel corpo civile romano, la concessione della cittadinanza comportava anche il dover riorganizzare le città federate e le colonie latine in municipi, in quanto divenivano territorio romano. Bisognava quindi stabilire quali comunità avevano titolo ad essere elevate al rango municipale e quali a farvi parte in ruolo subordinato. Aspetto questo non certo banale — di cui si parlerà nel prosieguo soffermandosi sulle decisioni prese per le città salentine — perché i nuovi municipi avrebbero fruito di fondi per meglio garantire la loro urbanizzazione quando le altre località rischiavano, come di fatto per lo più avvenne, di essere confinate a restare zone tipicamente rurali. In questa trasformazione, c’era infine da decidere la caratterizzazione istituzionale dei nuovi municipi: magistrature, senati, assemblee cittadine e ripartizione delle relative competenze.

Proprio nell’espletamento di questi adempimenti di così varia natura, l’Urbe cercò di annacquare in una qual certa misura le concessioni fatte e di trarre comunque vantaggio da questa nuova situazione.

 

Eppure non tutti furono contenti di diventare romani

Tutti aspetti importanti, quelli appena enunciati, che per il momento però si tralasceranno per soffermarsi su una avvenimento, per certi versi curioso, a cui in genere non si dà peso e che invece merita d’essere riportato, non fosse altro per avere un quadro più realistico delle diverse posizioni assunte in merito dalle comunità coinvolte.

Come visto, la cittadinanza romana fu accordata a tutti: sia a chi aveva combattuto per ottenerla, sia a chi non l’aveva di fatto neppure richiesta. Questa circostanza viene sempre valutata nel senso che Roma, dopo aver concesso questo alto privilegio a chi aveva avviato la rivolta, non poteva non riconoscerlo anche a chi s’era mantenuto fedele, dando così per scontato che tutte le comunità avessero preferito questo nuovo stato giuridico a quello precedentemente goduto.

In effetti così non fu: alcune città, che non avevano partecipato alla rivolta, avrebbero preferito piuttosto continuare a mantenersi autonome che divenire cittadini romani inquadrati in un municipium. Naturalmente di questo coro dissenziente fecero parte le cittadine che fruivano di foedera o di statuti particolarmente vantaggiosi, tra le quali non è detto che non fosse pure compresa Brindisi.

Spulciando bene le fonti narrative antiche, si scopre infatti che le lamentele ci furono, ed anche accese. Ce ne parla Cicerone facendoci sapere che a riguardo ci fu ampia disputa a Eraclea e a Napoli, perché la gran parte della popolazione preferiva alla cittadinanza romana la libertà garantita dal trattato in precedenza stipulato («In quo magna contentio Heracliensium et Neapolitanorum fuit, cum magna pars in iis civitatibus foederis sui libertatem civitati anteferret»19). Come questa maggioranza sia poi diventata minoranza, visto che alla fine le due città si adeguarono, non è dato di sapere, sebbene sia facile immaginare che Roma abbia attuato qualche fattiva opera di convincimento, soprattutto tra le classi più umili, poco sensibili ai benefici politici concessi dall’autonomia e molto più convinti da quelli pratici conseguibili con la cittadinanza romana. D’altra parte, Cicerone ci parla incidentalmente della questione delle due città, proprio perché rappresentavano i casi più eclatanti, il che fa ragionevolmente presupporre che non furono quelle le sole comunità che espressero dissenso. E, come già riportato, magari anche Brindisi fu tra queste. Le fonti offrono appunto qualche spunto che indurrebbero a credere che la città si conformò alla soluzione imposta da Roma, ma probabilmente non tanto di buon grado.

Primo indizio. In un famoso passo, Cicerone ci racconta che nel 57 a.C., cioè a dire a distanza di quasi trent’anni dalla costituzione del municipium, i Brindisini festeggiavano ancora con grande calore il giorno natale della colonia latina20. Un evidente segno questo di grande nostalgia per il passato coloniale.

Altro indizio. Silla — che non era molto ben disponibile a concedere la cittadinanza romana alle città federate ed alle colonie latine — è nell’ 83 a.C. di ritorno dall’Oriente. Si vocifera che voglia rimettere in discussione i diritti politici già concessi dalla lex Iulia, per cui molte comunità non vogliono aprirgli le porte oppure lo accolgono a muso duro. Eppure sbarca a Brindisi in tutta tranquillità. E non solo, riceve un’accoglienza talmente entusiasta  che, in cambio, si sente in obbligo di gratificare la città dall’esenzione delle tasse («Δεξαμένων δ’ αὐτὸν ἀμαχεὶ τῶν Βρεντεσίων, τοῖσδε μὲν ὕστερον ἔδωκεν ἀτέλειανviene»21).

Un atteggiamento in apparenza strano in chi, aspirando alla cittadinanza, avrebbe dovuto parteggiare per la fazione opposto o, quantomeno, mostrare meno entusiasmo per Silla, ma che rientra nella normalità delle cose, se si pensa che la classe dirigente brindisina aveva tutto da perdere e nulla da guadagnare dal cambiamento istituzionale. I magistrati locali avevano già ottenuto la cittadinanza romana in forza dello ius adipiscendae civitatis per magistratum e le novità toglievano loro buona parte del potere organizzativo, oltre a vedersi sottratta la possibilità — questione questa non certo di poco conto — di battere moneta, in quanto competenza preclusa ad un municipium.

Ultimo indizio. Ci si è sempre chiesti come mai i Brindisini, che pure erano sempre stati fedeli alleati dell’Urbe, furono gli unici tra i salentini ad essere iscritti nella tribù Maecia, che era allora un modo evidente per isolarli, quasi avessero commesso una qualche colpa. Quale fosse la loro mancanza lo si può forse ricavare dal fatto che nella stessa tribù fu inserita Napoli, vale a dire proprio una delle città che più s’erano opposte ad accettare lo statuto municipale. Il che fa sospettare che pure Brindisi avesse manifestato, più o meno vivacemente, le medesime perplessità, e che, per questo, fosse stata anch’essa in un qual certo modo punita.

Comunque siano andate le cose, c’è motivo per ritenere che un qualche rimpianto per il passato ebbe forse modo di  palesarsi e, al tempo stesso, non fu certo facile per i Brindisini metabolizzare la perdita dell’autonomia che, per quanto formale, rappresentava tuttavia un tratto distintivo della vita cittadina.

In ogni caso, certo è che in quel lontano 83 a.C. la gloriosa colonia di diritto latino di Brindisi chiuse per sempre i battenti.

E, qualunque cosa ne possano pensare gli estimatori della “pregevole” cittadinanza romana, non fu certo un giorno da segnare, come avrebbe detto Catullo, con una piccola pietra più bianca delle altre.

 

I passaggi burocratici per divenire municipium

Come anticipato, Brindisi, Taranto e le altre comunità della Calabria divennero in linea teorica territorio romano nel 90 a. C., tuttavia per la concreta fruizione della cittadinanza romana la lex Iulia prevedeva, oltre alla clausola di non essere in guerra con Roma, quella del fundus fieri. Questa formula, per quanto letteralmente indecifrabile, considerato che la sua traduzione letterale, “farsi fondo”, risulta del tutto incomprensibile, non pone dubbi interpretativi sul perché fosse stata inserita nella norma. Roma si vedeva costretta a concedere ai rivoltosi la cittadinanza romana e, naturalmente, era forzata a farlo anche con le altre città che le erano rimaste fedeli. Tuttavia, da un punto di vista formale, le autorità romane non volevano che fosse considerata come un obbligo cui loro sottostavano, quanto piuttosto una graziosa elargizione da loro fatta alle comunità italiche. In aggiunta, da  un punto di vista sostanziale, tale concessione non poteva essere fatta lasciando in vita i precedenti statuti in quanto, in taluni casi, essi consentivano un’autonomia che rischiava di confliggere con il nuovo tipo di rapporto che si stava venendo ad instaurare. Era evidente che la cittadinanza poteva essere concessa solo se le comunità avessero recepito, preliminarmente ed in toto, il diritto romano rinunciando così al diritto locale. In definitiva, in cambio della cittadinanza, le comunità dovevano preliminarmente aderire alla totalità delle norme municipali e, più in generale, a quelle del diritto romano («iura populi romani»), rinunciando così alla formale autonomia che i trattati precedenti avevano conferito loro. Ed è proprio in tale fase che certamente Napoli ed Eraclea — e forse Brindisi e qualche altra città — tentarono di mantenere i loro antichi privilegi, senza però, come visto, riuscirci.

Dopo l’accettazione del fundus fieri, c’erano poi un paio di passaggi burocratici da superare: il censimento e l’assegnazione ad una delle tribù romane.

Non è dato di sapere quando questi adempimenti siano stati fatti  perché, quasi insieme alla guerra sociale, era scoppiata la guerra civile che vedeva coinvolti Silla da una parte e Mario – e poi Cinna – dall’altra, ed in questo periodo turbolento le fazioni in lotta si alternavano al potere, facendo e disfacendo le cose in così rapida successione da rendere difficile una puntuale datazione dei singoli avvenimenti. C’era infatti un’importante questione da dirimere in via preliminare, vale a dire il peso politico da dare a questi nuovi cittadini. La parte elitaria degli optimates (ottimati, testualmente i migliori) sostenitrice di Silla, non voleva che l’alto numero dei nuovi cittadini facesse prendere loro il sopravvento nelle decisioni politiche; la fazione populares (popolari, in quanto difensori delle istanze del popolo), capeggiata da Mario e Cinna, intendeva invece mettere tutti i cittadini, vecchi e nuovi, sullo stesso piano.

Per comprendere meglio il motivo del contendere, ci si deve soffermare, sia pure semplificando al massimo, sulle sedi e sulle modalità di espressione del potere popolare previste dalla legislazione romana.

I cittadini romani contribuivano alla gestione dello Stato svolgendo funzioni legislative, elettorali e giurisdizionali nelle assemblee (comitia e concilia) le principali delle quali erano, nel periodo trattato, i comitia centuriata (comizi centuriati), i comitia tributa (comizi tributi) ed i concilia plebis (concili della plebe). Nei comizi tributi e nelle assemblee della plebe il popolo era ripartito per tribù, termine questo che non va inteso in senso moderno, come gruppo etnico che costituisce un organismo sociale ben determinato, ma in senso storico che, riguardo alle antichità romane, caratterizzava nello specifico la suddivisione amministrativa e territoriale dello stato romano. Nell’ambito dell’organizzazione amministrativa dell’Urbe, le tribù rappresentavano le circoscrizioni territoriali entro cui venivano ripartiti i cittadini romani per effettuare i censimenti, le leve militari e fissare il relativo tributo22. In seguito, quando con la professionalizzazione dell’esercito le leve non furono più fatte ed il tributo non più richiesto, le tribù finirono per identificarsi con i distretti elettorali per l’esercizio dei diritti politici. Ed era proprio per motivi collegati all’espressione del voto che ogni cittadino romano era allora assegnato ad una tribù.

C’è da aggiungere inoltre che per gli esiti delle votazioni delle assemblee popolari non si teneva conto dei voti espressi dai singoli cittadini ma di quelli espressi dalle tribù, ciascuna considerata nel suo complesso. Infatti le unità votanti non erano i cittadini ma le tribù, sicché si votava per tribù ed il voto della tribù era quello espresso dalla maggioranza dei suoi componenti. In definitiva, dal momento che le tribù previste erano allora 35, bastava che 18 di esse si esprimessero in senso favorevole perché un provvedimento fosse approvato.

Gli Ottimati, in considerazione del numero abbondantemente superiore dei nuovi cittadini rispetto ai veteres cives (vecchi cittadini), temevano che essi avrebbero potuto imporre il proprio volere all’interno delle singole tribù, condizionando a loro favore le votazioni. Per questo, per contenere il loro peso politico li fecero inizialmente distribuire in otto (o, al massimo, dieci23) tribù, per altro soprannumerarie e destinate a votare dopo le altre trentacinque tribù affinché il loro voto risultasse meno influente24. Tale decisione, che creò più d’un malumore, fu però poi modificata dai Popolari che, per garantire uguali diritti a tutti, riuscirono a far approvare che i nuovi cittadini fossero ripartiti in tutte le trentacinque tribù già esistenti. E fu questa la decisione definitiva, adottata presumibilmente non prima dell’83 a.C.

 

I criteri di scelta dei municipia

C’era inoltre un altro problema gestionale di non poco conto da risolvere, vale a dire quali città meritassero d’essere elevare al rango di municipio e quali no. Le comunità da municipalizzare erano infatti diversamente organizzate essendoci, nel vasto territorio degli ex-alleati, insediamenti di differente natura. C’erano zone dove si trovavano stanziamenti aventi già una configurazione da città-stato (ad esempio le aree etrusche e quelle delle ex-colonie greche), in cui la scelta era in pratica obbligata, ed altre (le aree italiche tra le quali quelle della penisola salentina) che avevano rari centri con uno sviluppo urbano equiparabile ad una città e che, pertanto, non potevano per lo più contare su una struttura politico-amministrativa autonoma, tanto da essere considerati delle borgate (vici) o delle semplici compagini rurali (pagi), tra i quali la scelta non era per niente pacifica. Nel primo caso, si trovavano infatti già presenti le strutture fondamentali per ospitare il costituendo municipium; nel secondo, invece occorreva scegliere quali centri dovessero divenire municipio — e, nel contempo, prevedere gli interventi necessari per adattarli alle nuove esigenze — e quali dovessero essere relegati ad un ruolo secondario, inglobati nei costituendi municipi magari come zone rurali che ne avrebbero irrimediabilmente condizionato lo sviluppo futuro. In quest’ultima condizione si trovavano, come già anticipato, le zone italiche e, tra queste, a parte Brindisi e Taranto, le comunità della penisola salentina.

Non esiste documentazione da cui desumere quali siano stati i reali criteri adottati per fare una simile scelta, sebbene si possa  ipotizzare che le località furono valutate in base al livello di urbanizzazione già in atto, all’importanza da tempo acquisita e, come avveniva di solito in queste circostanze, ai comportamenti tenuti in passato nei confronti di Roma.

Non è d’altra parte questo il solo punto oscuro. Restano infatti dibattuti altri aspetti giuridici, tra i quali quello di maggior rilievo riguarda le modalità con cui la riorganizzazione dei territori fu compiuta, in particolare se si cercò di normalizzare i nuovi municipi, imponendo dall’alto un modello statutario, oppure no. In altre parole, se il processo di municipalizzazione avvenne riproducendo, sia pure in scala ridotta, il sistema costituzionale operante nell’Urbe o se avvenne, come accaduto nei periodi precedenti la guerra sociale, lasciando alle singole comunità margini di scelta. Qualunque sia stata la decisione assunta in merito, certo è che, verificando gli effettivi esiti della municipalizzazione, si ha un quadro quasi uniformemente diffuso riguardo alle magistrature di maggior peso e alla composizione dei senati e delle assemblee dei nuovi municipi. Una uniformità che si otterrebbe ben difficilmente per spontanea adesione, e che fa quindi presupporre l’esistenza e la realizzazione d’un piano ben preciso ideato in sede centrale. D’altra parte il fatto stesso della presenza della clausola del fundus fieri, la quale come visto prevedeva la formale accettazione del diritto romano, farebbe propendere per l’adozione di statuti, in un certo qual modo, standardizzati.

Comunque sia andata, vediamo cosa presumibilmente fu deciso per le comunità salentine, cioè a dire quali furono i possibili centri elevati al rango di municipium, le tribù cui essi furono assegnati e quali gli assetti istituzionali assunti.

 

I municipi romani istituiti nella penisola salentina

Nel nord della Calabria, divennero di certo municipi le città di Brindisi, Oria e Taranto, mentre non ottennero tale rango località di pur antica tradizione in quanto decaduti, quali Manduria, Mesagne, Muro Tenente e Valesio. Manduria fece certo parte, insieme a Li Castelli, del municipio di Oria; Mesagne, insieme a Muro Maurizio e Valesio, di quello di Brindisi; dubbia la destinazione di Muro Tenente, che molti ipotizzano aggregata a Brindisi mentre io vedrei piuttosto associata ad Oria. Nel Centro, la scelta cadde su Rudiae e Lecce. Nel Sud, con ogni probabilità, su Nardò, Otranto, Gallipoli, Alezio, Ugento e Vereto.

La ricostruzione da me compiuta si basa sulla consistenza ipotizzabile in base alle ricognizioni archeologiche e all’importanza degli insediamenti desumibile dagli scritti dei geografi e naturalisti dell’antichità, oltre che alla loro collocazione rispetto alla rete viaria del tempo. Se certamente su Brindisi e Taranto non c’è discussione, lo stesso dovrebbe essere per Oria e Rudiae (sia per la consistenza, sia per la posizione), per Nardò e Ugento (in questi casi soprattutto per la consistenza), per Lecce, Alezio e Vereto (in prevalenza per la collocazione). Qualche dubbio ci sarebbe per Gallipoli e Otranto, però posizionate in punti troppo strategici perché i Romani non ne abbiano voluto favorire la crescita prevedendo l’istituzione d’un municipium, magari in un momento immediatamente successivo.

Per quanto riguarda le tribù di assegnazione, è possibile formulare ipotesi certe solo su Brindisi (tribù Maecia), Taranto (Claudia), Rudiae (Fabia), Lecce (Camilia), Gallipoli (Fabia) e Vereto (Fabia). Forse anche Alezio fu aggregata alla tribù Fabia, mentre per Oria, Nardò, Otranto e Ugento non esiste il più lontano indizio di quale possa essere stata la tribù di destinazione. A tali conclusioni portano soprattutto le fonti epigrafiche.

 

Gli organi dei municipia salentini

Passando all’organizzazione statutaria, occorre ricordare che la tradizione repubblicana osteggiava l’uomo solo al comando, sicché l’unico organo monocratico previsto dall’ordinamento romano era il dictator (dittatore), per altro magistratura straordinaria, utilizzata quindi eccezionalmente e per periodi limitati nei soli momenti di grave pericolo. Per il resto la costituzione romana si affidava in maniera esclusiva agli organi collegiali. Per lo stesso motivo i municipi romani non avevano un corrispettivo del nostro sindaco ma un istituto collegiale responsabile della gestione amministrativa della città. Nei municipi salentini il collegio dei massimi magistrati cittadini fu composto da quattro membri (quattuorviri)25, ripartiti in due coppie: i due quattuorviri iure dicundo ed i due quattuorviri aedilicia potestate. La prima coppia aveva un ruolo prioritario, assimilabile a quello svolto a Roma dai consoli.

A questi due magistrati — chiamati per semplicità giusdicenti, perché esercitavano tra le altre funzioni la giurisdizione civile e penale — spettava anche l’eponimia in ambito cittadino, presiedere e convocare il consiglio comunale e le assemblee popolari, sovrintendere alle responsabilità di culto e ad amministrare le finanze comunali. Nell’ambito delle loro prerogative, godevano di un’ampia autonomia organizzativa, però rispondevano personalmente di eventuali problemi di carattere economico e dovevano risarcire il municipio per qualsiasi dissesto finanziario conseguente ad una loro decisioni. Per questo, all’assunzione dell’incarico dovevano versare una cifra consistente, denominata summa honoraria, utile a coprire ammanchi di vario genere. Di conseguenza potevano aspirare ad un simile incarico solo i cittadini particolarmente danarosi.

Anche la seconda coppia, quella dei due quattuorviri aedilicia potestate, doveva essere finanziariamente ben attrezzata. La locuzione aedilicia potestate racchiudeva infatti funzioni riguardanti il mantenimento dell’agibilità delle strade, degli edifici pubblici e dei templi ma pure l’approvvigionamento della città e il garantire una vita pubblica regolata tramite il corpo di polizia urbana. Nello svolgimento di tale incarico non si potevano accampare scuse di bilancio: se una strada era dissestata, bisognava aggiustarla, magari in parte o in toto a proprie spese, e non limitarsi, come avviene ora, a mettere un cartello avvisando di fare attenzione perché la strada è danneggiata.

Dai magistrati si pretendeva la diligentia, vale a dire l’essere scrupolosi nell’adempimento dell’incarico ed un atteggiamento solerte e sincero (sine dolo malo) non fingendo quindi una cosa per poi farne un’altra. Pulizia d’animo che dovevano manifestare sin dal momento in cui proponevano il proprio nome nelle riunioni (contiones) delle assemblee (comitia) popolari, vestiti con una toga sbiancata in modo da essere candida, circostanza questa che diede origine al termine “candidato”.

Da un punto di vista politico, il ruolo dei due quattuorviri iure dicundo era quello più prestigioso e costituiva di fatto l’apice delle cariche magistratuali previste dal cursus honorum (letteralmente, corso degli onori, nel senso di sequenza delle cariche pubbliche) municipale. Ed erano infatti loro a ricoprire, a scadenza quinquennale, il ruolo di quinquennales, cioè a dire di censori, che aveva un valore davvero speciale in antichità, in quanto conferiva il compito di stabilire il “censo” di ciascun cittadino, fissandone così la relativa posizione sociale, ma pure di valutare la loro condotta morale. Una bocciatura da parte dei censori incideva di fatto sul bene allora più tenuto in considerazione, il buon nome, e conduceva inevitabilmente all’emarginazione sociale e politica. La nota censoria, con cui i censori riprendevano un cittadino, era una vera e propria sanzione politica comminata a chi s’era macchiato di comportamenti indegni, che comportava  l’espulsione dal decurionato, dall’ordine equestre e, per il semplice cittadino, dalla tribù.

I quattuorviri duravano in carica un anno ed erano eletti dal populus, composto dai cives  (cittadini di pieno diritto del municipio) e dagli incolae (per lo più forestieri che avevano ottenuto di risiedere nel territorio municipale), ripartiti in distretti politico-amministrativi chiamati curie.

Come gli attuali comuni, anche i municipi salentini prevedevano un organo collegiale di base, assimilabile al nostro consiglio comunale, con funzioni normative, finanziarie e di controllo. A quel tempo un simile ente era denominato ordo decurionum, sicché i consiglieri comunali erano chiamati decuriones o, meno spesso, curiales, perché le loro riunioni avvenivano nelle curie.

Le regole per diventare decuriones erano per certi versi molto più rigide rispetto a quelle attuali per diventare consigliere comunale. L’ufficio era vitalizio e la composizione era decisa dai censori che ogni cinque anni stabilivano, nella cosiddetta lectio senatus (letteralmente, scelta del senato), inserimenti, subentri e decadenze, in base a criteri che tenevano conto del censo, dell’età, della residenza, della onorabilità e della stima goduta dai designabili. Per ambire alla carica di decurione, bisognava infatti godere: dei diritti politici, di un reddito annuale di almeno 100.000 sesterzi (all’incirca 400.000 € attuali) e d’una età non inferiore ai trent’anni. In aggiunta occorreva: essere domiciliati nella città da almeno cinque anni; essersi comportati sempre in maniera inappuntabile e, infine, di non aver mai esercitato mestieri infamanti (in pratica, non aver mai fatto l’attore, il banditore, il tenutario di case di tolleranza, l’impresario di pompe funebri ed il gladiatore). Erano questi i requisiti ritenuti essenziali per accedere e svolgere nel migliore dei modi gli honores, termine con cui venivano appunto caratterizzate le massime magistrature statali, in quanto tali incarichi davano l’onore di adempiere un officium (un obbligo) e non utili monetari o di altra natura. Pertanto, al pari dei quattuorviri, la carica di decurione non comportava l’accredito di assegni mensili o vitalizi ma, al contrario, il dover spesso far fronte di tasca propria a spese di utilità pubblica, fossero esse correnti oppure straordinarie.

Se qualcuno a questo punto avesse modo di chiedere loro chi glielo faceva fare, si sentirebbe rispondere con una semplice parola: existimatio, come dire per la stima ed il credito che tali compiti, svolti nel migliore dei modi, consentivano di ottenere presso i concittadini.

Fare politica ad un certo livello era in definitiva un punto d’onore e, al tempo stesso, motivo di prestigio e di riconoscimento.

 

Note

1 Livio (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Dalla fondazione di Roma, XXIII 20, 2.

2 Ibidem, XXIII 20, 2.

3 Ibidem, XXIII 20, 2.

4 Diiodoro siculo (I secolo a.C.),  Biblioteca Storica, XXXVII 18.

5 Il municipium era in origine una città privata dell’autonomia politica e soggetta ad oneri, come si evince dal termine stesso che riflette la condizione di dover sopportare (capere) obblighi (munera), e rappresentava il sistema organizzativo con cui Roma annetteva un territorio conquistato.

6 Le colonie greche avevano con ogni probabilità maggiore capacità contrattuale delle comunità italiche, sicché riuscivano a strappare condizioni  in genere più vantaggiose. Così almeno avvenne per Taranto rispetto a tutte le altre città salentine, fatta eccezione di Brindisi, dove venne dedotta una colonia.

7 Cicerone (II secolo a.C. – I secolo a.C.),  De domo sua, 77.

8 Nella lex agraria epigrafica del 111 a.C. figura l’antica locuzione «socii nominisve latini, quibus milites ex formula togatorum inperare solent» (gli alleati ossia il nome latino, ai quali [i Romani] comandano di fornire i soldati sulla base della formula dei togati).

9 Livio, Cit., XXV 3, 16.

10 Ibidem, XXII 61, 11-12.

11 Ibidem, XXV 1, 1.

12 Ibidem., XXVII 10, 7-9.

13 Cicerone, De Officiis, II 22, 76. «Paulus tantum in aerarium pecuniae invexit, ut unius imperatoris praeda finem attulerit tributorum» (Emilio Paolo riempì così tanto l’erario di denaro che il bottino d’un solo generale fu sufficiente a porre fine alle tasse).

14 I cittadini romani erano inoltre esentati da qualsiasi imposta fondiaria sui possessi in Italia.

15 In quel periodo s’intendeva per Italia la parte di penisola a sud della regione gallica cisalpina.

16 Velleio patercolo (I secolo a.C.– I secolo d.C.), Historiae Romanae, II 14, 1.

17 Asconio (… – II secolo d.C.), In Pisonem, A.C. CLARK, 1907, p. 3. Incerta la datazione del provvedimento che viene comunque fissata per gli ultimi decenni del II secolo a.C.

18 Per consultare la scheda,  https://it.wikipedia.org/wiki/Salento#Storia (consultata il 23.03.2022).

19 Cicerone, Pro Balbo, VIII 21.

20 Cicerone, Lettere ad Attico, IV 1, 4.

21 Appiano (I secolo d.C. – II secolo d.C.), Le guerre civili, I 9, 79.

22 Non a caso, il termine tributum derivava appunto da tribus.

23 Velleio patercolo, Cit., II 20, 2, parla di otto tribù; appiano, Cit., I 49, di dieci.

24 C’è da rammentare che le tribù non votavano in contemporanea ma in sequenza, sicché c’era il rischio che quelle scelte a votare per prime potessero con il loro voto influenzare le altre. Per evitare ché le fazioni  utilizzassero  l’ordine con cui le tribù votavano per condizionare a proprio favore il voto, da un certo momento in poi si ricorse al sorteggio. S’aggiunge che le votazioni venivano dichiarate concluse quando diciotto tribù s’erano espresse allo stesso modo, essendosi ottenuta la maggioranza prevista.

25 Qualche decennio dopo, a metà circa del I secolo a.C., Taranto adottò, in luogo del quattuorvirato, il duovirato, come testimoniato dall’epigrafe bronzea riportante alcune parti dello statuto tarantino (lex municipii Tarentini).

Taranto ed Ebalo: un mito sempre vivo

di Armando Polito

Su Ebalo e derivati non mi pare il caso di ripetere quanto ho avuto occasione di scrivere in https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/01/08/taranto-piazza-ebalia-le-origini-di-un-toponimo/.

Rischierei, da parte di chi a suo tempo mi lesse, l’accusa di autoriciclaggio o, se preferite, di autocopia-incolla, oppure di avanzata arteriosclerosi …

A chi, invece, sente questo nome per la prima volta e non vuole precludersi la possibilità di comprendere più agevolmente quanto dirò, faccia una visita preliminare al link appena segnalato.

E allora? Qui integrerò aggiungendo i riferimenti testuali ad un autore lì citato con scarne notizie e presentando ex novo un altro più vicino a noi.

Tommaso Niccolò d’Aquino (1665-1721) nel 1706 entrò nell’Arcadiaed assunse lo pseudonimo di Ebalio Siruntino2. Fu sindaco di Taranto, subentrando al padre, nel 1705-1706. In vita non pubblicò nulla. Il suo Deliciae Tarentinae, il cui autografo risulta disperso, fu pubblicato per i tipi della Stamperia Raimondiana a Napoli nel 1771 da Cataldantonio Artenisio Carducci (1733-1775), che lo corredò di traduzione in endecasillabi del testo latino in esametri e di commento.

Ne riporto fedelmente i versi che ci interessano, con la mia traduzione perché quella del Carducci raramente coincide con l’estensione del verso originale:

LIBRO I

1 Oebaliae canimus silvas, bimarisque Tarenti (Cantiamo le selve di Ebalia e di Taranto dai due mari)

82 magna per Oebalios volant examina campos (grandi sciami volano per i campi ebalii)

137 explicat, Oebaliae qua surgunt moenibus arces (elargisce, per dove le rocche di Ebalia sorgono con le loro mura)

151 Oebalii exultant, et amabilis ora Phalanti (esultano gli Ebalii e l’amabile contrada di Falanto)

166 Oebaliam iuxta, nec longo dissita tractu (Presso Ebalia, né lontana per lungo tratto)

232 Oebalias parit, unda tamen sua munera nutrit ([il clima caldo] genera le ebalie [qualità], l’onda tuttavia nutre i suoi doni)

237 Perpetuus micat Oebaliae thesaurus aquarum (In Ebalia brilla il perpetuo tesoro delle acque)

244 Oebaliam propter felicibus ora fluentis (presso Ebalia una contrada dalle copiose acque)

298 Alluit Oebaliam longi molimine tractus (Bagna Ebalia un corso d’acqua dal lungo tratto con argine)

326 Oebaliam ingreditur, secum arcubus ipsa triumphans [l’acqua entra in Ebalia, trionfando essa stessa con getti arcuati)

335 civibus Oebaliis: agitant sub nocte choreas (per i cittadini ebalii: di notte intrecciano le danze)

372 appulit Oebalios fines spartana iuventus (la gioventù spartana

437 Oebalii plaudunt, tolluntque ad sidera nomen (Gli Ebalii applaudono ed elevano il nome alle stelle)

456 Instant adversi Oebalii, ferroque coruscant (Gli Ebalii oppongono resistenza e brillano nell’armatura)

493 nutriit Oebaliae divino nectare alumnos (nutrì gli allievi col divino nettare di Ebalia)

544 Oebalii: fors astra, novo seu Cinthia ([del mare] di Ebalo: per caso gli astri o la luna col nuovo)

LIBRO II

4 sit pecori: Oebalio quanta experientia nautae (ci sia per il gregge di Nereo; quanta esperienza per il marinaio ebalio)

35 Oebalius certo piscator tempore jactat (il pescatore Ebalio in tempo opportuno getta)

72 Oebalio illuxit quondam medicata veneno (trattata col veleno ebalio un tempo superò)

263 Oebaliae servant, riguo data munera coelo (custodiscono [le conchiglie] di Ebalia, doni concessi dal cielo ricco di piogge)

269 vir fuit Oebaliae quo non praestantior alter (ci fu un uomo di Ebalia del quale un altro non fu più forte)

459 Oebalio vel quae nascantur in aequore conchae (di Ebalia o le conchiglie che nascono in mare)

473 O decor Oebaliae, si quid mea carmina possunt (O decoro di Ebalia, se i miei canti possono qualcosa)

611 Oebaliam pacis regat inviolabile foedus (un inviolabile patto regga la pace ebalia)

LIBRO III

23 te vocat Oebaliae lucus, te nota Galaesi (te chiama il bosco di Ebalia, te le note del Galeso)

51 Oebalii, generose, soli tu numine vindex (tu, o generoso, vendicatore con la tua potenza del suolo ebalio)

82 quae Oebalios fines oris accedat Hyberis (che dalle coste iberiche approdi ai confini ebalii)

468 panditur Oebaliis, frondentibus undique ramis (si apre agli ebalii, mentre da ogni parte verdeggiano i rami)

LIBRO IV

12 Oebaliae assurgunt tibi prata nitentia gazis (sorgono per te i prati ebalii splendenti di ricchezze)

24 Oebalios per agros, Coelum ditavit amicum (per le campagne ebalie arricchì il clima favorevole)

35 laudibus Oebaliae certent. Rhodos aurea neve (potrebbero gareggiare con le lodi di Ebalia. né Rodi con l’aurea neve)

65 Italicus sic Oebalios ad sidera lucos (così Italicoquesti boschi alle stelle)

72 visitur Oebalium variabile floribus arvum (vien vista la campagna ebalia ricca di fiori)

111 Oebalias inter silvas celebrabitur Hymen (tra le selve ebalie sarà celebrato l’imeneo)

158 Oebaliae nunc silva, et nostri placet aura recessus (piace ora la selva di Ebalia e il clima del nostro erifugio)

168 jugiter Oebaliis spes prodiga nata secundo (subito la prodiga speranza nata agli ebalii col favorevole)

273 Oebalii vernare horti, vernare recessus (rinverdire i giardini ebalii, rinverdire i rifugi)

313 dulce solum Oebaliae, et foecunda fruge superbit (dolce il suolo d’Ebalia e sarà orgoglioso dell’abbondante messe)

359 caesa gravi, queis Oebaliae praecepta ministrans (intagliati nel duro i precetti con i quali insegnando  ad Ebalia)

393 Hannibal Oebalius tollit victricia signa (l’ebalio Annibale solleva le insegne vittoriose)

419 Oebaliam reperet, praeeritque potentibus armis (entrerà in Ebalia e dominerà con le potenti armi)

423 attulit Oebaliae, et victricia cornua miscens (

431 Oebaliae plaudent arces, collesque supini (applaudiranno le rocche di Ebalia e gli inclinati colli)

448 Hoc reget Oebaliam, gaudens sua sceptra, caputque (questo reggerà Ebalia godendo il suo scettro e la testa)

464 Hoc genus Oebaliae praeerit, vix Regis habenas (questa stirpe reggerà Ebalia, a stento le redini del re)

503 haesit et Oebalio nimium dilecta Phalanto (restò unita e troppo amata dall’ebalio Falanto)

507 gloria, et Oebalii cecidit laus pristina fastus (la gloria e cadde la primitiva lode del fato ebalio)

515 Haec super Oebaliis ludens ad barbita plectro (queste cose sugli ebalii dilettandomi col plettro alla cetra)

Nel 1964 il tarantino Carlo D’Alessio rinveniva a Roma tra alcuni manoscritti arcadici Galesus piscator, Benacus pastor, ecloga del D’Aquino che venne pubblicata a cura di Ettore Paratore per i tipi di Laicata a Manduria nel 1969 con traduzione in prosa dell’originale latino in esametri (uno incompleto, in gergo tecnico tibicen=puntello: il v. 18). Procedo come sopra:

106 curabo, Oebaliumque Galesum hic Arcades inter (mi prenderò cura, e qui tra gli Arcadi che l’ebalio Galeso)

116 muricis Oebalii Clamydes, haec munera tandem ([mantelli tinti col colore] della conchiglia ebalia, questi doni finalmente) 

Giuseppe Dell’Antoglietta, discendente di Francesco Maria3, nel 1846 ristampava presso l’editore Pansini a Bari con le sue aggiunte l’opera di Scipione Ammirato Della famiglia Dell’Antoglietta di Taranto,  uscita per i tipi di Marescotti a Firenze nel 1597, col nuovo titolo Storia della famiglia dell’Antoglietta scritta da Scipione Ammirato stampata in Firenze appresso Giorgio Marescotti nell’anno 1597 con licenza dei superiori arricchita ed ornata di varie altre antichissime notizie storiche.

Giuseppe pensò bene di chiudere la pubblicazione con un componimentoin onore dell’avo già pubblicato nel 1717 da Carlo Maria Lizzani detto l’Accademico Ritirato5. Ai vv. 83-84: la Signoria donò di Fragagnano/nell’Ebalia maremma6.

 

Alessandro Criscuolo7, Ebali ed Ebaliche, Vecchi, Trani, 1887.

La voce di cui mi sto occupando non compare all’interno del volume, ma la sua presenza nel titolo al maschile ed al femminile è allusiva ai personaggi protagonisti delle undici storie raccontate ed al loro rapporto con Taranto. E sotto questo punto di vista spicca Lalla tarantata, che occupa le pp. 127-142.

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1 Giovanni Mario Crescimbeni, L’Arcadia, Antonio de’ Rossi, Roma, 1711, p.  367.

2 Per Siruntino vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/23/gli-arcadi-di-terra-dotranto-3-x-tommaso-niccolo-daquino-di-taranto-1665-1721/

3 Per quest’ultimo vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/15/gli-arcadi-di-terra-dotranto-2-x-francesco-maria-dellantoglietta-di-taranto/

4 Il titolo è Composizione epiditticha d’un illustre Ingegno, ovvero dell’Accademico Ritirato riguardante l’istoria della famiglia Dell’Antoglietta dirizzata al quindicesimo Signore, e Marchese di Fragagnano D. Francesco Maria Dell’Antoglietta stampata in Napoli presso Domenico Roselli l’anno 1717 col dovuto permesso.

5 Soprannome che aveva nell’Accademia degli Infuriati di Napoli. Pubblicò Manipolo di primizie dell’ingegno, Tommasini, Venezia, 1714, dove è inserito in lode dell’Antoglietta un sonetto.

6 Nel significato etimologico (la voce è dal latino maritima) di zona marittima.

7 (1850-1938), principe del foro, brillante conferenziere e letterato tarantino. Riporto le principali pubblicazionibed alcuni frontespizi:

Intorno a due artisti tarantini, S. Latronico & figlio, Taranto, 1874

Discorso intorno alla vita di Cataldo Sebastio, Tipografia Paisiello di S. Parodi, Taranto, 1880

Efesina: ricordi della Magna Grecia, Latronico, Taranto, 1881

Discorso letto il dì 5 giugno 1881 premiandosi gli alunni del Comune, Latronico, Taranto, 1881

Per Giuseppe Garibaldi celebrandosi la civile commemorazione dalle tre società: Operaia, de’ Muratori e de’ Figli del mare, In Taranto, il dì 11 giugno 1882, Latronico, Taranto, 1882

Difesa di Giuseppe e Vito Modesto Greco, Francesco Buttai e Domenico Scudieri accusati di grassazione, Latronico, Taranto, 1883

Discorso letto nel giorno della festa nazionale 7 giugno 1885 : premiandosi gli alunni del Liceo, delle scuole Tecniche ed Elementari del Comune di Taranto, Vecchi, Giovinazzo, 1885

Ebali ed Ebaliche, Vecchi, Trani, 1887

Ricordi di Nicola Mignona, Latronico, Taranto, 1888

Per Camillo Callari (appellato) contro G. N. De Crisci: valore di contro-dichiarazione fatta per privata scrittura contro il terzo, Latronico, Taranto, 1888

Nei testamenti la condizione di farsi prete deve aversi per non apposta? (Art. 849, C. C.) : causa Ricci contro Ricci, Latronico, Taranto, 1891

Della corruzione di persona minore dei sedici anni mediante atti di libidine che infettino malattia venerea : interpretazione degli articoli 335, 336, 351 Codice Penale, Tipografia del Commercio, Taranto, 1892

Alligazione per il sig. Augusto Pegazzano tenente di vascello querelato per rapimento, Tipografia del Commercio, Taranto, 1895

Cronaca giudiziaria tarantina, Latronico, Taranto, 1895

Bugie e pregiudizi, Mazzolino, Taranto, 1896

Il giorno augurale del nuovo Palazzo degli Uffizi in Taranto 28 giugno 1896, Martucci, Taranto, 1896

Taranto ai suoi illustri cittadini D. Acclavio e G. De Cesare, Vecchi, Trani, 1907

Giureconsulti politici e libertà italiche, Spagnolo & Guernieri, Taranto, 1910

Le Alpi: orazione pronunziata in Taranto al Teatro Orfeo il 2 marzo 1916, Società tipografica Leonardo Da Vinci, Città di Castello, 1916

Discorso del gr. uff. avv. Alessandro Criscuolo nel Foro tarantino per Luigi Perrone, L’ora nuova, Taranto, 1924

Per l’inaugurazione della biblioteca Ugo Granafei, Società tipografica Leonardo da Vinci, Città di Castello, 1926

Medaglioni tarantini della storia e della leggenda, Pappacena, Taranto, 1926 (a p. 20 è trascritta la lapide in onore di Tommaso Niccolò d’Aquino collocata dal Comune di Taranto nell’aprile 1921 nella via a lui dedicata)

Discorso ai giovani, Il popolo ionico, 1927

I funerali di G. B. Vico in L’almanacco dell’avvocato 1934, La Toga, Napoli, 1934

Epigrafi, Lodeserto, Taranto, 1921 e Pappacena,Taranto, 1937

Nella ricorrenza del suo giubileo professionale : discorso pronunziato nel Palazzo di Giustizia di Taranto il 3 maggio 1925, Biblioteca dell’ Eloquenza, Roma, 1938

Taranto, piazza Ebalia: le origini di un toponimo

di Armando Polito

La frenesia della vita moderna e la curiosità riservata ad interessi certamente più frivoli consentono quotidianamente solo di fagocitare senza nemmeno un accenno di gusto e tantomeno di digestione una caterva di dati, tra i quali spiccano i nomi delle vie e delle piazze, imprescindibili per giungere a destinazione utilizzando i moderni navigatori installati sulla nostra auto. Pure il pedone, però, sia pur nel corso di una tranquilla passeggiata, difficilmente riserverà più di un fugace sguardo al nome impresso su una tabella viaria in una forma grafica, pergiunta, talora discutibile, come ho già ho avuto modo di dire per Taranto in https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/07/06/archita-da-taranto/.

A proposito del toponimo di oggi premetto di ignorare la data in cui tale denominazione fu data alla piazza, ma confido nell’aiuto di qualche studioso di storia locale per la doverosa integrazione, anche se può sembrare paradossale che l’individuazione di quest’ultimo dettaglio sia rimasta disattesa, mentre estremamente chiaro è, come vedremo, il percorso che a suo tempo sottese tale designazione.

Di seguito riporto, senza tergiversare, in ordine cronologico, tutte le fonti a disposizione  (testo originale e, di mio, traduzione ed eventuali note) prima di operare tra loro la scrematura fino ad individuare quella che più attendibilmente ispirò il nostro toponimo.

1 LICOFRONE (III secolo a. C.), Alessandra, 1123-1125:  Ἐμὸς δ´ ἀκοίτης, δμωίδος νύμφης ἄναξ,/ Ζεὺς Σπαρτιάταις αἱμύλοις κληθήσεται,/τιμὰς μεγίστας Οἰβάλου τέκνοις λαχών (Il mio sposo, padrone di servile ninfa, sarà chiamato Zeus dagli accorti Spartani ricevendo grandissimi onori dai figli di Ebalo).

2) VIRGILIO (I secolo a. C.)

a) Georgiche, IV, 125-128: Namque sub Oebaliae memini me turribus arcis,/qua niger umectat flaventia culta Galaesus,/Corycium vidisse senem, cui pauca relicti/iugera ruris erant, nec fertilis illa iuvencis/nec pecori opportuna seges nec commoda Baccho (E infatti ricordo di aver visto sotto le torri della rocca ebalia, dove il tenebroso Galeso bagna bionde coltivazioni, un vecchio di Corico che possedeva pochi iugeri di terreno abbandonato e quel suolo non era fertile per i giovenchi né adatto al gregge né favorevole a Bacco).

b) Eneide, VII, 733-741: Nec tu carminibus nostris indictus abibis,/Oebale, quem generasse Telon Sebetide Nympha,/fertur, Teleboum Capras cum regno teneret/iam senior; patriis sed non et filius arvis/contentus late iam tum ditione tenebat/Serrastes populos, et quae rigat aequora Sarnus,/quique Rufras Batulumque tenent atque arva Celemnae/et quos maliferae despectant moeniae Abellae (Né tu, Ebalo, passerai non ricordato dal mio canto, tu che si dice abbia generato Telone dalla ninfa Sebetide mentre reggeva già vecchio Capri con il regno dei Teleboi, ma pure il figlio non contento dei campi paterni già allora teneva sotto il suo potere i popoli serrasti e i campi di Celenna e le genti che sono di fronte alle mura di Avella produttrice di mele

3) OVIDIO (I secolo a. C.)

a) Remedium amoris, 458-459 : Et Parin Oenone summo tenuise ad annos/si non Oebalia pellice laesa foret (Ed Enone avrebbe tenuto per sé Paride fino agli ultimi anni, se non fosse stata offesa dall’adultera ebalia)

b) Fasti, I, 260: Protinus Oebalii rettulit arma Titi (Subito riferì della guerra dell’ebalio Tito)  

4) VALERIO FLACCO (I secolo), Argonautiche, I, 422-123:  … et Oebalium Pagaseia puppis alumnum/spectet … ( … e la poppa di Pagaso1 osservi il discendente di Ebalo2…).    

5) PUBLIO PAPINIO STAZIO (I secolo), Achilleide I, 20: Solverat Oebalio classem de littore pastor (il pastore aveva fatto salpare la flotta dalla costa ebalia). 

6) PAUSANIA (II secolo)

Periegesi della Grecia

a) 3, 1, 3: Ἀποθανόντος δὲ Ἀμύκλα ἐς Ἄργαλον τὸν πρεσβύτατον τῶν Ἀμύκλα παίδων καὶ ὕστερον ἐς Κυνόρταν Ἀργάλου τελευτήσαντος ἀφίκετο ἡ ἀρχή. Κυνόρτα δὲ ἐγένετο Οἴβαλος. οὗτος Γοργοφόνην τε τὴν Περσέως γυναῖκα ἔσχεν ἐξ Ἄργους καὶ παῖδα ἔσχε Τυνδάρεων, ᾧ περὶ τῆς βασιλείας Ἱπποκόων ἠμφισβήτει καὶ κατὰ πρεσβείαν ἔχειν ἠξίου τὴν ἀρχήν (Morto Amicle il regno passò ad Argalo il più vecchio dei suoi figli e poi, morto Argalo, a Cinorta. Da Cinorta fu generato Ebalo; questi ebbe come moglie Gorgofone figlia di Perseo nativa di Argo e come figlio Tindareo, con il quale Ippocoonteentrò in contrasto e riteneva di diritto sal potere per anzianità).

b) 4, 14, 6: Πυθομένοις δὲ ἐν κοινῷ μὲν οὐδέν σφισιν ἐξεγένετο ἀνευρεῖν σοφόν, Οἴβαλος δὲ τὰ μὲν ἄλλα οὐ τῶν ἐπιφανῶν, γνώμην δὲ ὡς ἐδήλωσεν ἀγαθός … (Per essi che avevano deliberato in comune non ci fu possibilità di trovare un espediente, ma Ebalo, tra l’altro uomo non tra i più noti, ma sagace, come mostrò …). 

7) CLAUDIANO (IV-V secolo), Panegorici. XVII, 158: Famosum Oebalii luxum pressere Tarenti: (Oppressero il famoso lusso dell’ebalia Taranto).

Le fonti appena riportate ci tramandano le seguenti forme:  

Οἰβάλου (1) genitivo di Οἴβαλος, nome proprio di persona, la stessa di 6a.

Oebaliae (2a). teoricamente potrebbe essere genitivo di Oebalia, nome proprio senza altre attestazioni oppure sempre genitivo femminile singolare, ma dell’aggettivo Oebalius/a/um. Nel primo caso Virgilio ci farebbe intendere che nelle vicinanze di Taranto (inequivocabilmente ce lo indica il Galeso citato negli stessi versi) esisteva una città di nome Ebalia e, quindi, Oebaliae arcis andrebbe tradotto con della rocca di Ebalia; nel secondo, invece, con della rocca ebalia, cioè rocca di Ebalo, il mitico re citato da Pausania in 5a. Queso brano, come indicato, fa parte del terzo libro dedicato alla Laconia, la cui capitale, com’è noto, era Sparta. Rocca ebalia, perciò, mi pare possa essere interpretato come perifrasi per Taranto, che, com’è arcinoto, fu fondata da coloni provenienti da Sparta, per cui rocca ebalia vale non come città fondata da Ebalo ma da suoi discendenti, cioè, genericamente, città di fondazione spartana.     

Oebale (2b) vocativo di Oebalus, nome proprio maschile,  ma appare personaggio diverso dall’Ebalo che ho ricordato a proposito del brano precedente: anzitutto Virgilio lo colloca nell’elenco dei condottieri raccolti da Turno per combattere contro Enea e i Troiani nonostante il parere contrario del re Latino e in secindo luogo la sua sfera di influenza e di azione non esula fino a quel momento dall’ambito campano.

Oebalia (3a), ablativo femminile singolare di Oebalia. Qui (a differenza di 1a) può essere solo aggettivo. L’adultera Ebalia è Elena, per la quale Paride tradì la ninfa Enone. Qui, dunque, ebalia è sinonimo di spartana.  

Oebalii (3b e 7).genitivo maschile singolare dell’aggettivo Oebalius/a/um. Nel primo brano Tito Tazio, re dei Sabini, che fece guerra ai Romani dopo il famoso ratto, qui è chiamato ebalio, cioè spartano, per i legami che secondo  Dionigi di Alicarnasso3 (I secolo a. C.) e Plutarco4 (I secolo d. C.) univano Sabini e Spartani. Nel secondo brano Oebalii è attributo di Tarentum.

Oebalium (4) accusativo maschile singolare dell’aggettivo Oebalius/a/um.

Oebalia (5) ablativo femminile singolare dell’aggettivo Oebalis/a/um. Come in 2a è sinonimo di spartana, qui, però con riferimento geografico e non a persona.

Οἴβαλος (6a e 6b) nominativo singolare, nome proprio di persona. Non si tratta, tuttavia di un unico personaggio, essendo quello del primo brano (presente anche al genitivo Οἰβάλου in 1)  re di Sparta, quello del secondo uomo dichiaratamente poco in vista. E che si tratti di persone diverse è confermato dal fatto che uil primo è nominato nel terzo libro (che è dedicato alla Laconia), il seconso nel quarto (che è dedicato alla Messenia).

A conclusione di questa dettagliata disamina, per il nostro toponimo risultano illuminanti i casi in cui Ebalo è nome proprio ed ebalio/ebalia aggettivo, entrambi deputati all’evocazione di Sparta. Per completezza va detto che in epoca molto probabilmente anteriore alla nascita del toponimo (ne approfitto per ricordare agli amici tarantini la preghiera iniziale …) la stessa scelta venne adottata da un illustre figlio di Taranto, cioè Tommaso Niccolò d’Aquino5 (1665-1721). Fu socio dell’Arcadia6, la famosa accademia romana fondata nel 1690, i cui soci, com’è noto, si chiamavano pastori ed assumevano uno pseudonimo formato da due elementi evocanti il mito, il secondo per lo più con connotazione geografica. Così Tommaso assunse quello di  Ebalio Siruntino e, se per Ebalio non c’è neppure bisogno di far riferimento a quanto finora detto7, è Siruntino che mi pone un problema di non poco conto. Premetto che Il numero degli Arcadi col tempo aumentava e i nomi dei luoghi da scegliere o attribuire diventavano sempre meno; così il nostro Ebalio rimase senza campagna fino al 1711, quando Vincenzo Leonio da Spoleto (pseudonimo arcade Uranio Tegeo), incaricato di ridistribuire i nuovi “lotti” all’Arcadia, aggiornò il catalogo così scrivendo: Ebalio Siruntino, dalle campagne presso la terra di Sirunte in Acaia: d. Tommaso d’Aquino Tarentino. Fino ad ora non son riuscito a reperire in alcuna fonte antica il ricordo di questa fantomatica Sirunte, tanto meno in alcuno scritto posteriore al Leonio. So che la storia si fa con le fonti, ma anche, sia pure provvisoriamente, con le ipotesi di lavoro, che per definizione inizialmente potrebbero avere poca o nulla scientificità, proprio come quella che sto per formulare, non casualmente sotto forma di domanda: con la Sirunte d’Acaia del Leonio potrebbe avere qualcosa in comune la masseria Sirunte in località Battifarano, nel comune di Chiaromonte, in provincia di Potenza, in Basilicata?

 

Dopo aver gettato il sasso di quest’altro toponimo, nascondo definitivamente la mano facendo notare che a Tommaso8 Taranto ha dedicato una via e sarebbe interessante anche qui individuare la relativa data, anche perché la distanza da piazza Ebalia potrebbe far supporre che le due scelte furono indipendenti, e forse pure inconsapevolmente. Mi piace far notare, infine, che Tommaso, nella scelta di uno pseudonimo che evocasse l’origine spartana di Taranto, bruciò sul tempo gli altri arcadi tarantini, cioè Francesco Maria Dell’Antoglietta9 (1674-1718) e Giovan Battista Gagliardo10 (1758-1823), nonché i “provinciali” Gaetano Romano Maffei11 di Grottaglie (1697-1751) e Oronzio Arnò12 (XVII-XVIII secolo) e Tommaso Maria Ferrari13 (1647-1716) , entrambi di Manduria.

_____________

1 Per metonimia è la nave Argo con la quale Giasone e gli Argonauti salparono dal porto di  Pagase per raggiungere la Colchide alla conquista del vello d’oro.

2 Perifrasi per indicare Polluce. Ebalo fu padre di Tindaro, a sua volta padre d Leda, che fu la madre dei gemelli  Castore e Polluce..

3 Antichità romane, II, 49, 1-5: Ζηνόδοτος δ᾽ὁ Τροιζήνιος συγγραφεὺς Ὀμβρικοὺς ἔθνος αὐθιγενὲς ἱστορεῖ τὸ μὲν πρῶτον οἰκῆσαι περὶ τὴν καλουμένην Ῥεατίνην: ἐκεῖθεν δὲ ὑπὸ Πελασγῶν ἐξελασθέντας εἰς ταύτην ἀφικέσθαι τὴν γῆν ἔνθα νῦν οἰκοῦσι καὶ μεταβαλόντας ἅμα τῷ τόπῳ τοὔνομα Σαβίνους ἐξ Ὀμβρικῶν προσαγορευθῆναι … Ἐκ δὲ τῆς Ῥεατίνης ἀποικίας ἀποστείλαντας ἄλλας τε πόλεις κτίσαι πολλάς, ἐν αἷς οἰκεῖν ἀτειχίστοις, καὶ δὴ καὶ τὰς προσαγορευομένας Κύρεις: χώραν δὲ κατασχεῖν τῆς μὲν Ἀδριανῆς θαλάττης ἀπέχουσαν ἀμφὶ τοὺς ὀγδοήκοντα καὶ διακοσίους σταδίους, τῆς δὲ Τυρρηνικῆς τετταράκοντα πρὸς διακοσίοις: μῆκος δὲ αὐτῆς εἶναί φησιν ὀλίγῳμεῖον σταδίων χιλίων. Ἒστι δέ τις καὶ ἄλλος ὑπὲρ τῶν Σαβίνων ἐν ἱστορίαις ἐπιχωρίοις λεγόμενος λόγος, ὡς Λακεδαιμονίων ἐποικησάντων αὐτοῖς καθ᾽ὃν χρόνον ἐπιτροπεύων Εὔνομον τὸν ἀδελφιδοῦν Λυκοῦργος ἔθετο τῇ Σπάρτῃ τοὺς νόμους. ἀχθομένους γάρ τινας τῇ σκληρότητι τῆς νομοθεσίας καὶ διαστάντας ἀπὸ τῶν ἑτέρων οἴχεσθαι τὸ παράπαν ἐκ τῆς πόλεως: ἔπειτα διὰ πελάγους πολλοῦ φερομένους εὔξασθαι τοῖς θεοῖς ῾πόθον γάρ τινα ὑπελθεῖν αὐτοὺς ὁποιασδήποτε γῆσ᾽ εἰς ἣν ἂν ἔλθωσι πρώτην, ἐν ταύτῃ κατοικήσειν (Lo storico Zenodoto di  Trezene racconta che gli Umbri, popolo indigeno, abitarono dapprima la terra chiamata reatina, poi, cacciati dai Pelasgi, si spostarono nella terra dove ora abitano e, dopo aver cambiato insieme con il luogo il nome, passarono a Sabini da Umbri … Dalla terra reatina fondarono molte altre città nelle quali prive di mura vivevano e anche quella chiamata Curi; occuparono la regione che si trova a circa duecentoottanta stadi dal mare adriatico e duecentoquaranta dal tirreno. Dice che la loro lunghezza  era poco meno  di mille stadi. Intorno ai Sabini c’è anche un altro racconto nelle storie paesane, che abitavano con loro degli spartani dal tempo in cui Licurgo tutore di Enomo, suo nipote, dava a Sparta le leggi e alcuni spinti dalla durezza della legislazione e staccandosi dai compagni si allontanarono completamente dalla città, poi a lungo portatisi per mare chiesero agli dei di stabilirsi nella prima terra in cui fossero approdati).         

4 Vite parallele, vita di Romolo, 16: Oἱ δὲ Σαβῖνοι πολλοὶ μὲν ἦσαν καὶ πολεμικοί, κώμας δ᾽ ᾤκουν ἀτειχίστους, ὡς προσῆκον αὐτοῖς μέγα φρονεῖν καὶ μὴ φοβεῖσθαι, Λακεδαιμονίων ἀποίκοις οὖσιν (I Sabini erano parecchi e bellicosi, abitavano villaggi privi di mura, come conveniva ad essi, che erano coloni spartani,    essere molto coraggiosi e non aver paura).

5 Fu autore di Deliciae Tarentinae. L’autografo risulta disperso ma l’opera era stata pubblicata per i tipi della Stamperia Raimondiana a Napoli nel 1771 da Cataldantonio Artenisio Carducci, che la corredò di traduzione e commento. Nel 1964 il tarantino Carlo D’Alessio rinveniva a Roma tra alcuni manoscritti arcadici Galesus piscaTor Benacus pastor, ecloga del D’Aquino che venne pubblicata a cura di Ettore Paratore per i tipi di Laicata a Manduria nel 1969.

6 Ma anche dell’Accademia dei Pigri di Bari e degli Spioni di Lecce. Da non confondere con il contemporaneo e quasi omonimo Tommaso D’Aquino di Napoli, principe di Feruleto, poi di Castiglione e grande di Spagna pure lui socio dell’Arcadia con lo pseudonimo di Melinto Leuttronio.

7 Non è casuale, a tal proposito, l’incipit delle Deliciae Tarentinae del nostro: Oebaliae canimus Sylvas, bimarisque Tarenti/ moenia … (Cantiamo le selve di Ebalia e le mura di Taranto dai due mari …) e conviene pure ricordare la ricorrenza del toponomo nell’ecloga  Galesus piscator Benacus pastor:  vv. 102-105:   Hunc veniens cernes canimus si Principe digna;/quin etiam Arcadiis tua nomina scribere fastis/curabo, Oebaliumque Galesum hic Arcades inter/ad numeros cecinisse Nemus, silvaeque sonabunt (Venendo qui vedrai se cantiamo cose degne di un principe; anzi curerò di scrivere il tuo nome nei fasti dell’Arcadia e l’ebalio Galeso e il bosco e le selve echeggerzanno che l’ebalio Galeso ha cantatato qui fra gli Arcadi); vv. 111-114: Iamque aetas properat, saxisque evellere ab imis/arbora conabor, sunt mollis vellera lanae,/sunt mihi margaritae teretes, tinctaeque veneno/murices Oebalii clamides, haec munera tandem/Arcades haec habeant … (Ormai il tempo incalza, tenterò di strappare altri coralli dalle profondd rocce, ho perle rotonde e mantelli tinti dal succo della conchiglia ebalia …). La prima ricorrenza (Oebaliae) è genitivo di Oebalia, nome proprio, per cui il d’Aquino sembra rifarsi al primo brano virgiliano (2a) e considerare l’Oebaliae lì presente come complemento di denominazione, quasi fosse esistita una città chiamata Ebalia. Nella seconda ricorrenza, invece, Oebalii è genitivo maschile singolare dell’aggettivo Oebalius/a/um.

8 Ma lo stesso è avvenuto per gli altri arcadi tarantini:

9 Pseudonimo arcade: Sorasto Trisio.

10 Pseudonimo arcade: Igraldo Catinese.

11 Pseudonimo arcade: Onesso Boloneio.

12 Pseudonimo arcade: Odelio Afrodiseo; compare tra i deputati dell’Accademia a decretare la scelta del ritratto e dell’epigrafe per il defunto Giovanni Maria Lancisi di Roma (pseudonimo arcade Ersilio Macariano) nell’adunanza del 1 luglio 1720 (Le vite degli Arcadi illustri, a cura di Giovanni Mario Crescimbeni, parte IV, Antonio De Roaai, Roma, 1727, p. 220.

13 Pseudonimo arcade: Filarete Nuntino.

La Terra d’Otranto in immagini ultracentenarie (7/7): Taranto e Castellaneta

di Armando Polito

Taranto, via Garibaldi dal Mar piccolo
Taranto, città vecchia
Taranto, piazza Fontana
Taranto, arsenale marittimo

 

Immagine tratta ed adattata da Google Maps
Immagine tratta ed adattata da Google Maps
Taranto, arsenale militare marittimo: il bacino Principe di Napoli
Taranto Città nuova
Il ponte girevole per il passaggio dei bastimenti
Immagine tratta da https://www.laringhiera.net/taranto-apertura-straordinaria-del-ponte-girevole-6/
Castellaneta, ponte in ferro

 

Fu inaugurato nel 1868; per le vicende successive (il secondo rifacimento fu in muratura, l’ultimo in cemento armato) segnalo http://www.marklinfan.com/f/topic.asp?TOPIC_ID=3067.  Nell’immagine che segue, tratta da da  https://c1.staticflickr.com/3/2794/4281099737_85e6b80413_b.jpg, il ponte attuale (3° rifacimento) in cemento armato, progettato negli anni ’90, entrato in esercizio nel 2000. Doppio binario. il secondo era in muratura.

 

Per la prima parte (Ostuni e Carovigno): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/19/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-1-7-ostuni-e-carovigno/

Per la seconda parte (Brindisi): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/29/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-2-7-brindisi/?fbclid=IwAR0OADPSzNE2COdAuvd_k6liuSvLMxLbU7zjSXNyYaMay5s1-D7EXH-bMF8

Per la terza parte (Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/03/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-3-7-lecce/

Per la quarta parte (S. Maria di Leuca e Otranto): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/09/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-4-7-s-maria-di-leuca-e-otranto/

Per la quinta parte (Maglie, Gallipoli, Galatina, Soleto, Copertino e Leverano): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/18/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-5-7maglie-gallipoli-galatina-soleto-copertino-e-leverano/

Per la sesta parte (Oria e Francavilla Fontana): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/26/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-6-7-oria-e-francavilla-fontana/

 

Taranto e la guerra greco-gotica: narrazioni, strategie e questioni

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Domenico Salamino, Taranto e la guerra greco-gotica: narrazioni, strategie e questioni

 in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 35-83.

  1. Giustiniano.Belisario. Massimiano

ITALIANO

Città di antica tradizione, di grande importanza strategica e sede episcopale, durante la guerra gotica Taranto subirà molte importanti trasformazioni urbanistiche ad opera del generale Giovanni. A documentarle è Procopio di Cesarea, fondamentale e unica fonte contemporanea agli avvenimenti. In questo contributo si tenta una sua rilettura ampliando l’osservazione al confronto con la scienza militare di età giustinianea e alla luce dell’archeologia. L’obiettivo di questo studio è quello di costruire un approccio interdisciplinare utile all’emersione delle molte questioni suscitate dalle diverse fonti.

 

ENGLISH

A city of ancient tradition, of great strategic importance and episcopal office, during the Gothic War Taranto will undergo many important urban transformations by General Giovanni. Procopio is the only and fundamental source of this event. This contribution attempts to re-read it by expanding observation to military strategy and urban archeology. Study proposes an interdisciplinary approach, useful for analyzing the various historical issues.

il delfino e la mezzaluna 6_7

Taranto, com’era circa 500 anni fa

di Armando Polito

Chi trova un amico, recita il proverbio, trova un tesoro; io qualche giorno fa ho trovato una mappa che è un tesoro, anche se non è una mappa del tesoro. Il lettore che non abbia deciso di abbandonarmi comprenderà alla fine  le motivazioni dell’uso di questo gioco di parole che lì per lì può sembrare insulso, uno di quelli, tanto per intenderci, sfruttati a mo’ di slogan da un politico che in questo campo può fare a gara con chiunque e il cui nome è già una gare …nzia o, fate voi, una ga … renzi … a.

L’ho trovata, la mappa, sul sito della Biblioteca Universitaria Estense di Modena, da cui l’ho riprodotta (http://bibliotecaestense.beniculturali.it/info/img/geo/i-mo-beu-c.g.a.6.a.pdf). Lì compare come datata al XV-XVI secolo ma, sulla scorta del commento che farò alla didascalia n. 3, credo senz’ombra di dubbio che la datazione debba essere collocata non prima del XVI.

Consiglio al lettore che volesse analizzarla di persona e controllare le osservazioni che farò di scaricarla dal link appena indicato; per gli altri più pigri di natura oppure solo nell’acquisizione delle competenze elementari per poter sfruttare gli strumenti, quelli informatici nel nostro caso, che la tecnologia ci mette quasi giornalmente a disposizione, volta per volta, prima di trascrivere e commentare il testo delle didascalie (nell’immagine di testa le ho numerate; purtroppo alcune di loro sono monche a causa della rifilatura dei margine superiore, inferiore e sinistro del supporto) ne proporrò, ingrandito, il dettaglio relativo, in qualche caso ruotandolo pure  opportunamente per renderne più agevole la lettura.

Anticipatamente esprimo la solita gratitudine a chi vorrà correggere col suo commento i tutt’altro che improbabili errori e proporre una o più  integrazioni. La mappa dovrebbe essere stata studiata da Giuseppe Carlo  Speziale in Storia militare di Taranto negli ultimi cinque secoli, Giuseppe Laterza & figli, Bari, 1930 e successivamente da Franco Porsia e Mario Scionti in Taranto, Laterza,  Roma, 1989.  Sarò grato a chiunque, avendo la possibilità di leggerlo, vorrà renderci partecipi di quanto vi troverà, fosse solo con esclusivo riferimento alla lettura delle didascalie1.

1

MARE PICOLO (oggi Mar Piccolo)

_______________________

2

Larghezaa del mare piccolo miglia quatro b in am[piezac (?)]/nel qual puonod stare sicurissime infinite  galeree []/perchef gira 13 miglia, nel qual mare Ha[nnibale g]/condusse le barche sopra li carri, passando [per la (?)]/citah come etiami  fece el gran Capitano, g[onzalo (?)]/obsediando l il Figliolo  di re Fedrigo m

a larghezza

b quattro

c ho preferito la probabile lettura integrativa ampieza e non ampiezza per coerenza col precedente largheza.

d possono

e galee

f perché

g nel 212 a. C. Annibale, facendo leva sul malcontento dei Tarantini per la dominazione romana, entrò in città ed annientò il presidio romano, secoNdo quanto estesamente riportato da Polibio (II secolo a. C.) nel libro VIII delle sue Storie.

h città

i anche

l assediando

m  Fedrigo è Federico I (re di Napoli dal 1452 al 1504), il suo Figliolo Ferdinando duca di Calabria e il gran Capitano Gonzalo Fernández de Córdoba. La didascalia fa cenno all’occupazione del Regno di Napoli nel 1501 da parte delle truppe alleate di Luigi XII re di Francia e di Ferdinando il cattolico re di Spagna. In quell’occasione Ferdinando si trovava a Taranto, che fu assediata dalle forze spagnole al comando di Gonzalo Fernandez. Questa didascalia è importante per la datazione della carta, che non può essere anteriore al 1501; anzi il fece ci suggerisce che da quell’evento era passato almeno più di un decennio.

____________________

3

Questo fosso fu tagliato dal duca di Calabria alaa venuta de’ Turchi ad O[tranto]/et fece la citab in Isola turando el mare per la fossa (?) quale […]/per l’intrata di una galea col paramento disteso et ha 19 pa[lmi]/di alteza di aqua et hà la currente del ? et rifi[]/per strumento a molti molini ? li duy ponti di legno/sono ne le mani del Castillanoc di modo che nullo homod puoe entrare et uscire de la terra, senza volunta f de’ pr[edetti (?)]

a alla

b città

c castellano

d nessun uomo

e può

f volontà

_______________________

4

Porto delaa/cita b optimoc   

a della

b città

c ottimo

_____________________

5

Ponte di legno fondato sopra pilastri/per el quale passa uno (?) aquitrino (?)

______________________

6

Ponte antiquo, ma/chiamato Torre a mare/[… di]stante da Taranto 24 miglia

________________________

7

Intrata bona

______________________

8

Capo Rondinelloa

a oggi Punta Rondinella

_____________________

9

S. Nicola

_____________________

10

Sotto questa isolaa puonob star galere c/ma puonob essere offese da lartigliaria d/delae cittadella perche f  la sumitag de lae/torre soverchiah capo rotondoi

a S. Nicola (vedi didascalia precedente)

b possono

c galee

d dall’artiglieria

e della

f perché

g sommità

h sovrasta, supera

i oggi Capo S. Vito

_____________________

11

Capo rotondoa

a oggi Capo S. Vito (vedi didascalia precedente)

____________________

12

da questa parte ea tutab spiagiac  bassa

citadellad

fonte

citadellac

questa parte de la citae ea tutab scopulosaf

a è

b tutta

c spiaggia

d cittadella

e città

f ricca di scogli

________________________

13

S. Antonio

_______________________

14

 a è

b tutta

c spiaggia

d cittadella

e città

f ricca di scogli

_______________________

15

Si vede anchoraa questa fossa antiquab dec Tarento d vechioe

a ancora

b antica

c di

d Taranto

e vecchia

_______________________

16

Porto bellissimo

_______________________

17

Distantiaa deb  unoc miglio e mezod

a distanza

b di

c un

d mezzo

__________________________

18

Ponente

_____________________

19

distantiaa fino alab terra di quatroc miglia/e questo mare ed Porto per havere bonof/? per vasellig grossi ma galere/ puonoh star per el Temporalei

a distanza

b alla

c quattro

d è

e aver

f buono

g vascelli

h possono

i tempesta

__________________________

20

ramontana

__________________________

21

Levante

__________________________

22

 


locoa  per fare la fortezab 

a luogo

b fortezza

La didascalia qui ha una valenza premonitoria perché, con  quella che oggi con termine tecnico si direbbe destinazione d’uso, precorre la costruzione del Forte de Laclos voluta da Napoleone Bonaparte verso la fine del XVIII secolo. Vedi sull’argomento anche il recente post https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/04/19/taranto-pierre-ambroise-francois-choderlos-de-laclos-damnatio-memoriae-riuscita-solo-meta/.

 

 

 

Taranto e Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos: una damnatio memoriae riuscita solo a metà

di Armando Polito

Sul fenomeno tutto umano cui la locuzione latina del titolo dà il nome ho avuto molteplici occasioni di esprimere la mia opinione e questa volta non segnalerò nemmeno un post al riguardo perché essa emergerà, mi auguro senza equivoci, dalla lettura di questo.

Oltre alla locuzione latina nel titolo spicca anche un onomastico chiaramente francese e non è difficile capire che è lui al centro della storia, di una storia risalente a poco più di due secoli fa. Ogni evento storico ha, come in un film, un protagonista, dei comprimari, un’ambientazione, chiedo scusa, volevo dire una location …

Siamo a Taranto nel 1803 e muore nel convento di S. Francesco d’Assisi per dissenteria e malaria  il generale d’artiglieria Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos, al quale Napoleone in persona aveva affidato la conduzione della fortezza fatta erigere sull’isola di S. Paolo alla fine del XVIII secoloe  che ancora oggi reca il suo nome. Al suo interno viera stato sepolto avendo rifiutato i conforti religiosi. Molto probabilmente il generale quand’era in vita non avrebbe potuto immaginare posto migliore per i suoi resti, come un pilota automobilistico forse sognerebbe non tanto di morire in gara, cioé sul campo di battaglia, quanto di essere sepolto sigillato nell’abitacolo del bolide compagno più o meno affidabile di tante avventure …

Pierre-Ambroise-François Choderlos in un disegno attribuito a Maurice Quentin de La Tour (1704-1788), custodito nel Museo Nazionale dei castelli di Versailles e di Trianon
Pierre-Ambroise-François Choderlos in un disegno attribuito a Maurice Quentin de La Tour (1704-1788), custodito nel Museo Nazionale dei castelli di Versailles e di Trianon

 

Comunque stiano le cose attinenti alla sfera della morte, ammesso per assurdo che qualche forma di coscienza sopravviva, la immaginata soddisfazione del generale durò poco, perché alla caduta di Napoleone nel 1815 i tarantini per odio contro i francesi distrussero la sua tomba e non è difficile immaginare che i suoi resti, mai più ritrovati, siano stati gettati in mare.

Non sono riuscito a reperire rappresentazioni della fortezza risalenti a quell’epoca, ma posso fornire una documentazione del prima e del dopo.

Le immagini che seguono  riguardano un dettaglio di una mappa di Taranto conservata nella Biblioteca Universitaria Estense a Modena e datata al XV-XVI secolo. Io credo, invece, sulla scorta di osservazioni interne che farò quando a breve la presenterò integralmente su questo blog, che non possa essere anteriore al XVI secolo. Attraverso un progressivo ingrandimento giungo alla lettura della didascalia che mostra l’antica vocazione del sito per quanto riguarda quella che oggi si chiama destinazione d’uso.

Nell’immagine successiva (tratta da http://www.bebmuseo.it/app/webroot/wp/wp-content/uploads/2015/05/isole_cheradi.jpg) la vista aerea dello stato attuale del sito.

 

La storia rigurgita di episodi in cui l’odio, più o meno comprensibile, si manifesta con la distruzione dei simboli di un potere (una statua, uno stemma, un intero fabbricato, etc.) o con la profanazione e successiva distruzione dei resti del nemico di turno. Tutto ciò per me è comprensibile ma non giustificabile, perché la progressiva ignoranza del passato, avanzante grazie pure alla distruzione delle sue memorie e all’affievolimento fino all’estinzione della loro valenza monitoria, non può che propiziare il ripetersi proprio di quegli eventi che si è pensato di rimuovere per sempre dalla coscienza mediante la semplice cancellazione di oggetti. E così cadiamo sempre nell’eterna contraddizione tra il dire e il fare, tra il concreto e l’astratto, facendo prevalere l’uno o l’altro seguendo l’impulso emotivo del momento.

Qualche volta, tuttavia, la damnatio memoriae (anche quella, come nel nostro caso, spicciola, in un certo senso popolare, cioé non programmata dalle istituzioni) si ritorce contro coloro che l’hanno attuata. Nel nostro caso non dipende da una riabilitazione politica del personaggio, ma dal suo spessore. Pierre-Ambroise-François, infatti, non fu solo un militare, fu un artista, appartenne, cioé, a quella privilegiata categoria in grado di mettere tutti d’accordo con i suoi più validi rappresentanti.  Il suo romanzo epistolare Les liaisons dangereuses (Le relazioni pericolose), uscito ad Amsterdam (manca il nome dell’editore) in due volumi, il primo (diviso in quattro parti) nel 1782, il secondo nel 1787, è considerato, e da tempo, come uno dei classici della letteratura non solo francese ma mondiale.

La arta 2 del manoscritto autografo, custodito nella Biblioteca Nazionale di Francia (dipartimento manoscritti francesi,n. 12845), con l'incipit del romanzo
La carta 2 del manoscritto autografo, custodito nella Biblioteca Nazionale di Francia (dipartimento manoscritti francesi, n. 12845), con l’incipit del romanzo

 

I frontespizi del primo e del secondo volume della prima edizione
I frontespizi del primo e del secondo volume della prima edizione

 

Al lettore non sarà sfuggita la presenza nei frontespizi dei puntini di sospensione (direi di vigliaccheria, e dopo spiegherò perché) che accompagnano il nome dell’autore C[hoderlos] de L[aclos] e risparmiano M. (abbreviazione di Monsieur=Signor), innocuo per la sua scontata genericità e la preposizione de, il cui valore compromettente è relativo, direi nullo …

Il fatto è che, al tempo in cui uscì, il romanzo venne considerato altamente immorale e fautore di corruzione e nello stesso tempo, per così dire, diffamatorio, anche se in realtà esso  offriva uno spaccato della classe nobiliare del XVIII secolo, insomma, costituiva più una denunzia che, a seconda dei punti di vista,  un’istigazione al peccato o una calunniosa offesa. L’ipocrisia della morale (quella formale …) di ogni tempo ispirò il poco coraggioso (specialmente per un generale …) espediente dei puntini, mentre nell’avvertimento iniziale l’editore (totalmente anonimo, lui …) si affanna più volte a sottolineare il carattere, a parer suo, fittizio delle lettere …

Bisognerà  attendere il 1869 per incontrare un’edizione senza le mutande messe al nome dell’autore, anche se potrebbe sussistere una finalità mimetizzante in Delaclos per De Laclos.

Il tempo è il migliore giustiziere e, come s’è detto, l’opera è da tempo considerata un classico.

Si definisce classico, si sa, qualsiasi prodotto che riesca a valicare i confini del suo tempo, in esso riconoscibilissimi, e sia destinato ad una perenne attualità; insomma una sorta di prodigio, come può essere tutto ciò che è del suo tempo e insieme di ogni tempo. E il romanzo del nostro non si sottrae a questa regola, tant’è che, al di là di un numero spaventoso di edizioni, è stato oggetto di numerosissimi adattamenti teatrali e di altrettanto numerose  trasposizioni cinematografiche, a partire da quella del 1959 che ebbe come regista Roger Vadim e come interpreti principali  Gerard Philipe, Jeanne Moreau ed Annette Stroyberg;  i miei coetanei alle prese con le prime tempeste ormonali la ricorderanno certamente, ma solo attraverso la locandina, essendo il film stravietato …

 

Nel chiudere ritengo opportuno correggere il damnatio memoriae riuscita solo a metà del titolo con damnatio memoriae totalmente fallita. Il gesto dei profanatori è già stato dimenticato, forse, dalla storia, è qualcosa di morto, il nome del dannato, al contrario,è estremamente vivo e come tutto ciò che riguarda lo spirito, destinato a durare più di un oggetto, sia esso un sepolcro (quello del generale nel nostro caso) o, come mostrano le immagini di chiusura tratte da http://www.geheugenvannederland.nl/en, un poster sul tema, il primo del 1887, il secondo del 1990

Taranto, Falanto, la Pizia, e i pidocchi

di Armando Polito

Nella prima immagine la Mappa di Soleto (V secolo a. C.?1), in cui con l’ellisse tratteggiata in rosso ho evidenziato il nome della città: ΤΑΡΑΣ ( leggi Taras); nella seconda Falanto in una moneta tarantina del III secolo a. C; nella terza una moneta di Crotone, della fine del V secolo a. C., con al centro il tripode sul quale assisa la Pizia a Delfi pronunciava le profezie, mentre a sinistra Apollo armato di arco scaglia una freccia contro Pitone a destra; nell’ultima un pediculus humanus capitis (pidocchio umano del capo). La serie delle quattro immagini vuole essere la sintesi di quanto segue.

C’era una volta (a quantificarlo temporalmente bisogna risalire almeno all’VIII secolo a. C.) a Delfi una sacerdotessa di nome Pizia che nel santuario di Apollo svolgeva le funzioni di portavoce del Dio. Non era certo all’altezza delle moderne indovine che sono in grado di captare certi segnali, per esempio quelli che proverrebbero da tutte le carte, meno quelle igieniche, notoriamente  connesse con quella funzione fisiologica al cui espletamento le invio ogni volta che le vedo comparire in tv, insieme con chi dovrebbe intervenire per impedire il proliferare, da una parte, della furbizia, e dall’altra, della stupidità; alla captazione dei segnali segue la fase della loro interpretazione da ammannire allo speranzoso quanto stupido cliente. La Pizia, poveretta, fungeva solo da megafono per la voce del dio; spettava poi all’interprete diradare la nebbia che avvolgeva le profezie, espresse in versi di così difficile comprensione immediata che i poeti ermetici al confronto fanno tenerezza, e passibili di tante diverse interpretazioni che, in questo caso al contrario, le profezie impallidirebbero di vergogna di fronte ad un testo scritto dal legislatore dei nostri tempi.

Pare, comunque, che, tanto più una realtà è misteriosa, tanto più essa attrae; infatti il santuario di Delfi godeva di prestigio assoluto e da ogni parte del mondo allora conosciuto, proprio come oggi con gli studi (?) degli indovini, vi ricorreva il capo di stato come il semplice cittadino, il ricco e il povero (quest’ultimo l’ho citato perché anche lui in teoria aveva ed ha bisogno del conforto della religione, ma non sono sicuro  che potesse fruire dei suoi servigi, allora come ora, gratuitamente …).

C’era sempre in quel tempo a Sparta un uomo di nome Falanto costretto a pagare (allora era quasi la regola; potrebbe essere un’idea per i nostri giorni …) gli errori (o presunti tali …) del padre. Quest’ultimo, infatti, non aveva partecipato alla spedizione messenica e, perciò, venne dichiarato ilota (in parole povere schiavo) e suo figlio, Falanto appunto, subì il destino di tutti quelli nati da simili padri, cioè perse i pieni diritti di cittadinanza ed assunse la qualifica di partenio, che alla lettera significa figlio di vergine, una locuzione che di lì ad otto secoli avrebbe definito quello che io considero, uomo, il più grande rivoluzionario della storia della nostra specie, ma che allora per il povero Falanto e per quelli come lui era una sorta di eufemismo per figlio illegittimo, anzi politicamente non corretto ….

I parteni, però, non si rassegnarono a quella condanna e organizzarono un complotto contro l’assemblea del popolo, per così dire, normale. Purtroppo il tentativo fallì, furono messi sotto custodia ed il loro capo, Falanto, appunto, fu inviato a Delfi per consultare l’oracolo sulla fondazione di una nuova colonia, che, all’epoca era il modo meno cruento di liberarsi di chi dava fastidio e, per l’interessato, l’unico modo per avere la speranza di una vita dignitosa o, comunque, migliore. Insomma, dal momento che tra i parteni c’erano certamente persone molto intelligenti, essi anticipavano, ancora una volta, ma, come vedremo, in senso inverso, i nostri due fenomeni dell’emigrazione prima e della fuga dei cervelli dopo.

Falanto, dunque, è a Delfi e il responso della Pizia è, più o meno. il seguente: – Fonderai la nuova colonia quando vedrai la pioggia cadere dal cielo sereno -. Una volta tanto sembra che la Pizia sia stata chiara, tanto chiara che a Falanto non pare il caso di scomodare l’interprete, giacché è evidente che le sue parole somigliano alla figura retorica dell’ἀδὐνατον (=cosa impossibile), della quale hanno fatto man bassa i poeti d’amore di ogni epoca mettendo in campo improbabili (oggi non più tanto …) fenomeni in espressioni come l’acqua del mare si sarà prosciugata prima che scemi il mio amore per te, oppure vedrai gli asini volare prima che io mi allontani da te; oggi, invece, il politico direbbe rinuncerei prima al potere che a te e il cittadino, standardizzato da uno stato complice capace solo di vuoti proclami e non di fatti concreti (come, per esempio, l’eliminazione di fatture e scontrini teorici (perché emessi saltuariamente) con quella parallela   della moneta cartacea e l’introduzione di quella elettronica), rinuncerò a te solo contestualmente (notare il linguaggio, con tutto il rispetto, da commercialista) all’abbandono del mio status di evasore fiscale.

Falanto, insomma, che non è stupido, pensa che la Pizia lo abbia preso per il culo. Non può, d’altra parte, rinunziare al suo ruolo di capo e parte alla volta dell’Italia con gli altri parteni ed approda un po’ lontano, ma non tanto (vivo a Nardò), dalle nostre parti. Passa il tempo ma ogni volta che ingaggia uno scontro con le popolazioni locali le busca sonoramente. Sente vacillare il suo prestigio di capo e ben presto entra in profonda depressione. Fortunatamente ha una moglie di nome Etra (in greco significa, guarda caso, cielo sereno) che non lo abbandona a se stesso, pare per amore. Il povero Falanto, però, nelle condizioni in cui si trova, oppure per incomprensioni pregresse che avevano logorato il loro rapporto spingendolo a pensare che il nome della moglie fosse per lui una presa per il culo ben precedente a quella della profezia della Pizia, comincia a trascurarsi anche fisicamente, non si lava né taglia barba, baffi e capelli, non mangia più, si sta lasciando lentamente morire. Nei capelli i pidocchi hanno fissato, loro sì, una popolosissima colonia. Etra ogni tanto guarda sconsolata il làgunos (bottiglia) gigante di shampoo che aveva regalato al suo uomo quando questi sembrava più un atletico eroe che una larva imbozzolata. La sua composizione sarebbe stata poi scopiazzata dal produttore dello shampoo che a distanza di quasi due millenni sarebbe stato il preferito da Federica Pellegrini e che, magari, avrebbe pure contribuito a farle vincere qualche medaglia, visto che siamo in tema, pure olimpica. Una donna innamorata le escogita tutte pur di salvare e stimolare il suo uomo. Dopo aver invano tentato più volte di fargli trangugiare almeno un càntaros (tazza) di vino in sostituzione di quello che ormai è diventato per lui l’unico alimento quotidiano, cioè un chiùlix (bicchiere) di acqua attinta dall’idria (ampio vaso a tre manici usato per conservare l’acqua, ma anche per votare nelle assemblee; un segno premonitore della nostra condizione di quest’ultimo periodo? …), lo convince a posare il capo sulle sue tornite (quest’aggettivo consolatoriamente compenserà i problemi salariali di milioni di metalmeccanici …) ginocchia. Nessuna intenzione erotica, almeno in prima battuta. Infatti comincia a spulciare la testa di Falanto e, nel contempo, pensando forse che lui non si lascerà nemmeno sfiorare dal richiamo erotico delle sue tornite ginocchia, si abbandona ad un pianto dirotto: per ogni pidocchio catturato mezzo litro di lacrime. Dicono che il pianto è liberatorio, ma in questo caso lo fu prima per Falanto che per Etra, che avrà pure avuto delle ginocchia tornite ma soprattutto un apparato lacrimale di assoluto rispetto. L’eroe, infatti, comprende in un attimo che il cielo sereno e la pioggia cui alludeva l’oracolo erano, rispettivamente, il nome della moglie e le sue lacrime. Non sappiamo se per precauzione lasciò che la moglie finisse di spulciarlo e, quel che importava, continuasse a piangere. Sappiamo solo che Falanto, magari con ancora parecchi pidocchi tra i capelli, quella notte stessa conquistò Taranto.

E, concludendo senza malizia,

al fine di ristabilir giustizia,

dico che talora la sporcizia

tramutare puotesi in delizia,

conforme al responso della Pizia.

Si può ben dire, così, che Taranto deve moltissimo ai pidocchi e, se avessi sparato questo titolo, avrei dovuto sorbirmi gli strali di parecchi, non necessariamente tarantini. Sono consapevole di restare esposto, comunque ad attacchi di ogni tipo, ad accuse come la mistificazione storica e l’invenzione di favolette. Prima, però, di scatenare l’attacco, leggete quel che segue …

Strabone (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Geographia, VI, 3, 2, riporta copsì la testimonianza di Antioco di Siracusa (V secolo a. C.):

Περὶ δὲ τῆς κτίσεως Ἀντίοχος λέγων φησὶν ὅτι τοῦ Μεσσηνιακοῦ πολέμου γενηθέντος οἱ μὴ μετασχόντες Λακεδαιμονίων τῆς στρατείας ἐκρίθησαν δοῦλοι καὶ ὠνομάσθησαν Εἵλωτες, ὅσοις δὲ κατὰ τὴν στρατείαν παῖδες ἐγένοντο, Παρθενίας ἐκάλουν καὶ ἀτίμους ἔκριναν. Οἱ δ᾽ οὐκ ἀνασχόμενοι (πολλοὶ δ᾽ ἦσαν) ἐπεβούλευσαν τοῖς τοῦ δήμου. Αἰσθόμενοι δ᾽ ὑπέπεμψάν τινας, οἳ προσποιήσει φιλίας ἔμελλον ἐξαγγέλλειν τὸν τρόπον τῆς ἐπιβουλῆς. Τούτων δ᾽ ἦν καὶ Φάλανθος, ὅσπερ ἐδόκει προστάτης ὑπάρχειν αὐτῶν, οὐκ ἠρέσκετο δ᾽ ἁπλῶς τοῖς περὶ τῆς βουλῆς ὀνομασθεῖσι. Συνέκειτο μὲν δὴ τοῖς Ὑακινθίοις ἐν τῷ Ἀμυκλαίῳ συντελουμένου τοῦ ἀγῶνος, ἡνίκ᾽ ἂν τὴν κυνῆν περίθηται ὁ Φάλανθος, ποιεῖσθαι τὴν ἐπίθεσιν· γνώριμοι δ᾽ ἦσαν ἀπὸ τῆς κόμης οἱ τοῦ δήμου. Ἐξαγγειλάντων δὲ λάθρᾳ τὰ συγκείμενα τῶν περὶ Φάλανθον καὶ τοῦ ἀγῶνος ἐνεστῶτος, προελθὼν ὁ κῆρυξ εἶπε μὴ περιθέσθαι κυνῆν Φάλανθον. Οἱ δ᾽ αἰσθόμενοι ὡς μεμηνύκασι τὴν ἐπιβουλὴν οἱ μὲν διεδίδρασκον οἱ δὲ ἱκέτευον. Κελεύσαντες δ᾽ αὐτοὺς θαρρεῖν φυλακῇ παρέδοσαν, τὸν δὲ Φάλανθον ἔπεμψαν εἰς θεοῦ περὶ ἀποικίας·  ὁ δ᾽ ἔχρησε· Σατύριόν τοι δῶκα Τάραντά τε πίονα δῆμον οἰκῆσαι, καὶ πῆμα Ἰαπύγεσσι γενέσθαι.  Ἧκον οὖν σὺν Φαλάνθῳ οἱ Παρθενίαι, καὶ ἐδέξαντο αὐτοὺς οἵ τε βάρβαροι καὶ οἱ Κρῆτες οἱ προκατασχόντες τὸν τόπον. Τούτους δ᾽ εἶναί φασι τοὺς μετὰ Μίνω πλεύσαντας εἰς Σικελίαν, καὶ μετὰ τὴν ἐκείνου τελευτὴν τὴν ἐν Καμικοῖς παρὰ Κωκάλῳ συμβᾶσαν ἀπάραντας ἐκ Σικελίας κατὰ δὲ τὸν ἀνάπλουν δεῦρο παρωσθέντας, ὧν τινὰς ὕστερον πεζῇ περιελθόντας τὸν Ἀδρίαν μέχρι Μακεδονίας Βοττιαίους προσαγορευθῆναι. Ἰάπυγας δὲ λεχθῆναι πάντας φασὶ μέχρι τῆς Δαυνίας ἀπὸ  Ἰάπυγος, ὃν ἐκ Κρήσσης γυναικὸς Δαιδάλῳ γενέσθαι φασὶ καὶ ἡγήσασθαι τῶν Κρητῶν.Τάραντα δ᾽ ὠνόμασαν ἀπὸ ἥρωός τινος τὴν πόλιν.

(Parlando della fondazione [di Taranto] Antioco dice che, finita la guerra messenica, quelli degli Spartani che non avevano partecipato alla spedizione vennero dichiarati schiavi e furono chiamati  Iloti. Ai figli nati da loro durante la spedizione fu dato il nome di Parteni e li dichiararono privi dei diritti civili. Essi, però, erano numerosi,  non sopportandolo, complottarono contro i rappresentanti del popolo.  Questi essendosene accorti mandarono come spie alcuni che con la finzione di amicizia intendevano  carpire notizie sulle modalità del complotto. Tra questi c’era anche Falanto che sembrava essere il loro capo ma non era gradito del tutti a tutti quelli nominati circa la congiura. Si escogitò che mentre si celebravano i giochi per la festa di Giacinto nel tempio di Amicle non appena Falanto si fosse messo in testa il cappello si sarebbe scatenato l’assalto:  quelli del popolo infatti erano riconoscibili dalla capigliatura. Essendo stato quest’ordine rivelato di nascosto dai compagni di Falanto, mentre si celebravano i giochi, un araldo fattosi avanti disse che Falanto non doveva mettersi in testa il cappello.  Accortisi che la congiura era stata scoperta, alcuni fuggivano,  altri  chiedevano pietà. Avendo ordinato di farsi coraggio li misero sotto custodia e mandarono Falanto al tempio del Dio per consultarlo sulla colonia. Il dio profetizzò:  – Ti dono Satyrion e di abitare il ricco paese di Taranto  e di diventare la rovina per gli Iapigi -. I Parteni dunque andarono con Falanto e li accolsero i barbari ed i Cretesi che avevano occupato prima il luogo. Dicono che costoro erano quelli che avevano navigato con Minosse verso la Sicilia e che dopo la sua morte a Camico presso Cocalo se n’erano andati dalla Sicilia e nel viaggio di ritorno erano stati sbattuti qui: alcuni di loro poi dopo aver fatto a piedi avevano fatto il giro dell’Adriatico fino in Macedonia erano stati chiamati Bottiei. Dicono che tutti quelli fino alla Daunia sono chiamati Iapigi da Iapige che Dedalo aveva avuto da una donna cretese e che aveva guidato i Cretesi. Chiamarono la città Yatanto dal nome di un eroe.  

Pausania (II secolo d. C.), Ἑλλάδος περιήγησις, X, 10, 6-8: Τάραντα δὲ ἀπῴκισαν μὲν Λακεδαιμόνιοι, οἰκιστὴς δὲ ἐγένετο Σπαρτιάτης Φάλανθος. Στελλομένῳ δὲ ἐς ἀποικίαν τῷ Φαλάνθῳ λόγιον ἦλθεν ἐκ Δελφῶν· ὑετοῦ αὐτὸν αἰσθόμενον ὑπὸ αἴθρᾳ, τηνικαῦτα καὶ χώραν κτήσεσθαι καὶ πόλιν. Τὸ μὲν δὴ παραυτίκα οὔτε ἰδίᾳ τὸ μάντευμα ἐπισκεψάμενος οὔτε πρὸς τῶν ἐξηγητῶν τινα ἀνακοινώσας κατέσχε ταῖς ναυσὶν ἐς Ἰταλίαν· ὡς δέ οἱ νικῶντι τοὺς βαρβάρους οὐκ ἐγίνετο οὔτε τινὰ ἑλεῖν τῶν πόλεων οὔτε ἐπικρατῆσαι χώρας, ἐς ἀνάμνησιν ἀφικνεῖτο τοῦ χρησμοῦ, καὶ ἀδύνατα ἐνόμιζέν οἱ τὸν θεὸν χρῆσαι· μὴ γὰρ ἄν ποτε ἐν καθαρῷ καὶ αἰθρίῳ τῷ ἀέρι ὑσθῆναι. Καὶ αὐτὸν ἡ γυνὴ ἀθύμως ἔχοντα —ἠκολουθήκει γὰρ οἴκοθεν—τά τε ἄλλα ἐφιλοφρονεῖτο καὶ ἐς τὰ γόνατα ἐσθεμένη τὰ αὑτῆς τοῦ ἀνδρὸς τὴν κεφαλὴν ἐξέλεγε τοὺς φθεῖρας· καί πως ὑπὸ εὐνοίας δακρῦσαι παρίσταται τῇ γυναικὶ ὁρώσῃ τοῦ ἀνδρὸς ἐς οὐδὲν προχωροῦντα τὰ πράγματα. Προέχει δὲ ἀφειδέστερον τῶν δακρύων καὶ—ἔβρεχε γὰρ τοῦ Φαλάνθου τὴν κεφαλήν—συνίησί τε τῆς μαντείας—ὄνομα γὰρ δὴ ἦν Αἴθρα τῇ γυναικί—καὶ οὕτω τῇ ἐπιούσῃ νυκτὶ Τάραντα τῶν βαρβάρων εἷλε μεγίστην καὶ εὐδαιμονεστάτην τῶν ἐπὶ θαλάσσῃ πόλεων. Τάραντα δὲ τὸν ἥρω Ποσειδῶνός φασι καὶ ἐπιχωρίας νύμφης παῖδα εἶναι, ἀπὸ δὲ τοῦ ἥρωος τεθῆναι τὰ ὀνόματα τῇ πόλει τε καὶ τῷ ποταμῷ· καλεῖται γὰρ δὴ Τάρας κατὰ τὰ αὐτὰ τῇ πόλει καὶ ὁ ποταμός (Gli Spartani fondarono Taranto, l’ecista fu lo spartiata Falanto. A Falanto che si preparava a fondare una colonia giunse da Delfi il responso che avrebbe conquistato un territorio e una città quando avesse visto cadere la pioggia dal cielo sereno. Egli, non avendo preso in considerazione il responso né avendone reso partecipe qualcuno degli interpreti, approdò in Italia; poiché non gli capitava di vincere i barbari né di conquistare città alcuna né d’impossessarsi di un territorio, si ricordò del responso e credette che il dio avesse profetizzato l’impossibil e che non poteva piovere col cielo puro e limpido. La moglie, infatti l’aveva seguito dalla patria, confortava lui avvilito e tra l’altro dopo aver fatto appoggiare la testa del marito sulle sue ginocchia, cercava i pidocchi. In qualche modo per amore accadde alla donna di piangere vedendo che lo stato del marito non migliorava per nulla. Prosegue senza risparmio di lacrime – e infatti ne bagnava la testa di Falanto – e Falanto  comprende la profezia – sua moglie, infatti si chiamava Etra – e così sopraggiunta la notte prese Taranto, la più grande e prospera delle città dei barbari in riva al mare. Dicono che l’eroe Taras sia figlio di Poseidone e di una ninfa del luogo, che dall’eroe venne il nome alla città e al fiume: infatti anche il fiume si chiama come la città).

Ora che l’asticella della mia credibilità si è innalzata, siccome mi piace non prendere troppo sul serio qualcosa o qualcuno (a partire dalle mie cose e da me stesso) azzardo l’ipotesi che lo scorpione del quale ho detto ampiamente in  un precedente post (https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/01/25/taranto-suo-stemma/) non sia altro, fatta la tara dei gigli, che la trasformazione iconografica nobilitata di uno dei pidocchi di Falanto. E per non attirarmi gli strali degli animalisti, ma soprattutto perché la sua Notte è passata da tempo, lascio in pace la simpatica tarantola …

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1 Il punto interrogativo è dovuto al fatto che permangono dubbi sull’autenticità del graffito, anche se il supporto (un frammento di ceramica a vernice nera) è in linea con la cronologia indicata.

Taranto in una tavola del 1545

di Armando Polito

Probabilmente è la più antica veduta a stampa di Taranto. La tavola è a corredo di In descriptionem  Graeciae Sophiani praefatio, opera  di Nicola Gerbelio uscita per i tipi di Oporino a Basilea nel 1545 (la data si ricava dal colophon che di seguito riproduco dopo il frontespizio).

 

Nicola Gerbelio (Nicolaus Gerbelius il nome latinizzato), umanista tedesco, fece parte di un circuito di famosi uomini di cultura, fra cui Martin Lutero, del quale fu amico, il collaboratore di Lutero  Filipe Melâncton, nonché  Erasmo da Rotterdam, con cui fu in corrispondenza. Fu curatore di parecchie edizioni  di autori antichi latini e greci. Fa eccezione quella da cui è tratta la tavola di Taranto, perché quella che il Gerbelio chiama prefazione è in realtà un’analisi, quasi un commento di Totius Graecia descriptio, una mappa disegnata  da Nicola Sofiano, umanista, grammatico e cartografo greco poco più giovane di lui, e pubblicata più volte a partire dal 1540 (di seguito nell’edizione del 1552 da http://www.europeana.eu/portal/it/record/9200365/BibliographicResource_2000081566928.html?q=totius+graeciae+descriptio).

23bis

 

È tempo, però, di tornare alla nostra mappa di Taranto, giusto per dire che in documenti del genere è chimerico pensare ad una rappresentazione fedele dei luoghi così come all’epoca apparivano, per cui, ai miei occhi la tavola appare un ibrido immaginario tra una città magno-greca ed una cinquecentesca.

Per chi volesse affermare il contrario, faccio seguire, al fine di agevolare l’eventuale analisi comparativa, le due mappe della città inserite tra le pagine 160 e 181 del secondo volume de Il regno di Napoli in prospettiva, opera postuma di Giovanni Battista Pacichelli (1634-1695), Perrino, Napoli, 1703. Non credo che in poco più di un secolo (in passato lo stravolgimento dei luoghi, fatta eccezione per qualche invasione vandalica, non aveva il ritmo forsennato assunto oggi) i cambiamenti siano stati così imponenti. Ad ogni buon conto: ogni pertinente riflessione sarà ben accetta.


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1 Sulla presunta Rudie tarantina vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/08/la-toponomastica-della-provincia-di-taranto-in-una-carta-del-1589/

2 In Tolomeo (II secolo d. C.), Geographia, III, 1, 64 è registrata Βαῦστα (leggi Bàusta) che il Cluverio (1580-1622) lesse Βαοῦτα  (leggi Baùta), da cui *Bavota (forse proprio per suggestione del Bavota che compare nella nostra carta), ripreso dal Rohlfs per il quale Parabita potrebbe derivare da πέρα Βάβοτα (leggi pera Bàbota)=oltre Bavota. Tale identificazione, però contrasta con le coordinate geografiche che Tolomeo dà per Βαῦστα, che oggi si tende ad identificare con Vaste.

Taranto e il suo stemma

di Armando Polito

L’immagine, tratta da https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=44380,  è quella dell’attuale stemma (d’azzurro, al delfino nuotante e cavalcato da un Dio marino nudo sostenente nel braccio sinistro un panneggio svolazzante e con la destra scagliante il tridente, al capo cucito di rosso centrato, caricato della conchiglia d’oro, posta fra la leggenda “Taras”) adottato con decreto del 20 dicembre 1935.

E prima?

Anche gli stemmi cittadini, come tutti i simboli umani, hanno seguito una linea evolutiva fino a giungere in epoca relativamente recente alla loro ufficializzazione, atto che di per sé non esclude futuri cambiamenti, totali o parziali.

Qui opererò un tentativo di viaggio a ritroso nel tempo, tra le mille insidie che la natura stessa delle fonti utilizzate spesso nasconde.

Comincerò con la Guida di Taranto di Andrea Martini uscita per i tipi di Salvatore Mazzolino a Taranto nel 1910.

Il frontespizio reca uno stemma che non può che essere quello della città. Lo ingrandisco per consentirne una lettura più agevole.

Rispetto all’immagine precedente, mentre il delfino ha conservato la stessa posizione, il dio marino ne ha assunta una frontale, è seduto sull’animale, non in groppa, e al braccio sinistro non mostra il panneggio svolazzante ma uno scudo su cui è raffigurato uno scorpione.

Ecco ora come lo stemma si presenta in Gustavo Strafforello, La Patria. Geografia dell’Italia. Provincie di Bari, Foggia, Lecce, Potenza, Unione Tipografico-editrice, Torimo, 1899, p. 289.

 

Il personaggio principale è a cavalcioni del delfino e presenta il busto quasi in posizione frontale.

Appena leggibile, purtroppo, per via della pessima qualità dell’incisione della relativa tavola a corredo di Giovanni Battista Pacichelli (1634-1695), Il regno di Napoli in prospettiva, Perruinio, Napoli, 1703, volume II:

Dopo questi documenti di natura sostanzialmente grafica, passo ad un altro di carattere testuale, cioè alle Deliciae Tarentinae, opera di Tommaso Niccolò d’Aquino (1665-1721) pubblicata postuma da Cataldantonio Atenisio Carducci (sua è la traduzione in ottava rima  dell’originale latino in esametri) per i tipi della Stamperia Raimondiana a Napoli nel 1771 (di seguito il frontespizio).

Da quest’opera riproduco il brano originale che ci riguarda (libro I, vv. 392-395 e libro IV, vv. 336-340 . Ho preferito porre a fronte la mia traduzione letterale e non quella poetica del Carducci, essendo già da accogliere con beneficio d’inventario, dettaglio per dettaglio,  tutto ciò che riguarda un tema trattato da un poeta e correndo più pericoli di stravolgimenti interpretativi la traduzione poetica rispetto a quella letterale.


Subito innalzarono un tempio al dio del mare: egli ha ai piedi un delfino ed ergendosi nuovo arbitro dell’alto mare col crudele tridente con il quale ne scuote il profondo, guarda dall’alto i figli di Forco e i mostri squamosi. 

Ma molte statue ornavano la fonte degli Dei. In cima adagiato un giovane occupa la parte più alta della struttura portando uno scudo in cui un grande scorpione scolpito risplende e tende le voraci chele, già da tempo simbolo illustre della stirpe di Falanto.

Passo ora all’Istoria Tarentina di Ambrogio Merodio (1590 circa-1684). L’opera è rimasta manoscritta fino al 1998, quando fu pubblicata da Cosimo Damiano Fonseca per i tipi di Mandese a Taranto. Io tuttavia, non essendo riuscito a reperire la pubblicazione, riporto il brano che ci interessa (carta 21r) dalla copia manoscritta del 1732 custodita presso la Biblioteca Arcivescovile “Annibale De Leo” di Brindisi (ms. D/16).


La grafia è chiarissima ma, ad ogni buon conto trascrivo il pezzo:

Si vede anco nelle monete Tarantine impresso lo scorpione, ed alcuni anno detto, che fusse impresa di Pirro, ed altri delli Cartaginesi in tempo d’Annibale, ma à me pare che in quello volessero i Tarantini esprimere il modo, con il quale squadravano il loro esercito, mentre li dua corna sinistri  formavano le due teste dello scorpione, e poi alla retroguardia allungando le squadre formavano la coda, acciò si potesse rivolgere all’uno, ed all’altro corno secondo richiedeva il bisogno.  

Sullo scorpione come stemma di Pirro o di Annibale l’indicazione delle fonti, come si legge, è estremamente vaga; inconsistente mi appare pure il riferimento alle monete, perché, a quanto ne so, nessuna moneta tarantina mostra al retto o al verso uno scorpione e tutte, dico tutte, possono iconograficamente entrare in uno di questi gruppi (le singole immagini sono tratte da http://www.wildwinds.com/coins/).

Seconda  metà del IV secolo a. C.;  nel dritto uomo a cavallo brandisce con la destra una lancia reggendone due altre e lo scudo. Nel verso Taras a cavallo di un delfino regge con la sinistra il tridente e con la destra un càntaros; sotto un delfino.

Prima metà del III secolo a. C.; nel dritto: giovane a cavallo posa una corona sulla testa dell’animale; in basso un giovane nudo rimuove una pietra dallo zoccolo del cavallo. Nel verso: Taras a cavallo del delfino tende con la destra una coppa e regge col braccio sinistro uno scudo, che non mostra alcun ornamento.

Prima metà del III secolo a. C.; nel dritto: cavaliere nudo a cavallo. Nel rovescio Taras a cavallo del delfino regge con la destra una Nike e con la sinistra una cornucopia. A destra un fulmine.

 

Prima metà del III secolo s. C; nel dritto un guerriero nudo con una lancia ed un grande scudo, mentre la destra posa sul fianco del cavallo. Nel verso: Taras seduto sul delfino regge con la destra il tridente e col braccio sinistro regge uno scudo senza ornamenti.

Non vorrei che il Merodio avesse preso … un granchio per uno scorpione. Il granchio, infatti è presente in numerose monete. Di seguito uno dei numerosi esemplari di Agrigento del V secolo a. C. ed uno, potrebbe essere stato proprio quest’ultimo a trarlo in inganno, di Terina del IV-III secolo a. C.

 

 

I due passi prima riportati da Delle delizie etc .. sembrano essere la trascrizione poetica di alcuni dettagli iconografici del frontespizio del De antiquitate et varia Tarentinorum fortuna, opera di Giovanni Giovene uscita per i tipi di Orazio Salviano a Napoli nel 1589.

Ingrandisco ed analizzo i dettagli che ci interessano, costituiti dalle tre immagini in basso e riporto le fonti cui esse si ispirano. Qualche testo è particolarmente lungo perché mi è sembrato opportuno non estrapolare lo strettamente necessario ogni volta che il contesto offriva anche qualche altra notizia interessante o, quanto meno, curiosa.

Un uomo nudo in posizione laterale in groppa ad un delfino brandisce con la mano sinistra il tridente e regge col braccio destro uno scudo, il cui ornamento, data la posizione, non è visibile. In basso si legge TARAS N(EPTUNI) F(ILIUS)=Taras figlio di Nettuno. Fonti:

Pausania (II secolo d. C.), Ἑλλάδος περιήγησις, X, 13, 10): βασιλεὺς Ἰαπύγων Ὦπις ἥκων τοῖς Πευκετίοις σύμμαχος. Οὗτος μὲν δὴ εἴκασται τεθνεῶτι ἐν τῇ μάχῃ, οἱ δὲ αὐτῷ κειμένῳ ἐφεστηκότες ὁ ἥρως Τάρας ἐστὶ καὶ Φάλανθος ὁ ἐκ Λακεδαίμονος, καὶ οὐ πόρρω τοῦ Φαλάνθου δελφίς· πρὶν γὰρ δὴ ἐς Ἰταλίαν ἀφικέσθαι, καὶ ναυαγίᾳ τε ἐν τῷ πελάγει τῷ Κρισαίῳ τὸν Φάλανθον χρήσασθαι καὶ ὑπὸ δελφῖνος ἐκκομισθῆναί φασιν ἐς τὴν γῆν (Il re degli Iapigi Opis che era venuto come alleato con gli Iapigi. Questi è raffigurato morto in battaglia, su di lui che giace si ergono l’eroe Taras e Falanto da Sparta e non lontano da Falanto un delfino: dicono infatti che Falanto prima che giungesse in Italia sarebbe incorso in un naufragio nel mare di Criseo e che sarebbe stato portato a terra da un delfino).

Servio (IV-V secolo d. C.), Commentarii in Vergilii Aeneidos, III, 531: HERCULEI SI EST VERA FAMA TARENTI … Partheniatae, accepto duce Falanto, octavo ab Hercule, profecti sunt delatique sunt ad breve oppidum Calabriae, quod Taras, Neptuni filius, fabricaverat. Id auxerunt et prisco nomine appellaverunt Tarentum. Bene ergo nunc Herculei Tarenti, quia Taras condiderat, auxerat Phalantus (DELL’ERCULEA TARANTO SE È VERA FAMA … I parteniati, accolto come comandante Falanto, ottavo discendente da Ercole, partirono e arrivarono ad una piccola città della Calabria che aveva eretto Taras, figlio di Nettuno. La ingrandirono e la chiamarono con antico nome Taranto).

Isidoro di Siviglia (VI-VII secolo d. C.), Etymologiae, 1, 62: Taras Neptuni filius fuit, a quo Tarentum civitas et condita et appellata fuit (Taras fu un figlio di Nettuno, dal quale la città di Taranto fu fondata e prese il nome).

Un uomo barbuto, disteso per terra si appoggia col braccio sinistro su un’anfora la cui acqua defluendo alimenta due ruscelli. In alto si legge TARAS FL(UMEN)=Il fiume Taras. Fonti:

Diodoro Siculo (I secolo a. C.), Bibliotheca historica, VIII, fr. 21: Οἱ δὲ ἐπευνακταὶ θεωροὺς πέμψαντες εἰς Δελφοὺς ἐπηρώτων, εἰ δίδωσιν αὐτοῖς τὴν Σικυωνίαν. Ἡ δ’ ἔφηʹ

καλόν τοι τὸ μεταξὺ Κορίνθου καὶ Σικυῶνος·

ἀλλ’ οὐκ οἰκήσεις οὐδ’ εἰ παγχάλκεος εἴης.

Σατύριον φράζου σὺ Τάραντός τ’ ἀγλαὸν ὕδωρ

καὶ λιμένα σκαιὸν καὶ ὅπου τράγος ἁλμυρὸν οἶδμα

ἀμφαγαπᾷ τέγγων ἄκρον πολιοῖο γενείου·

ἔνθα Τάραντα ποιοῦ ἐπὶ Σατυρίου βεβαῶτα.

Ἀκούσαντες δὲ ἠγνόουν· ἡ δὲ φανερώτερον ἔφη,

Σατύριόν τοι ἔδωκα Τάραντά τε πίονα δῆμον

οἰκῆσαι καὶ πήματ’ Ἰαπύγεσσι γενέσθαι.

(Gli epeunatti[i] dopo aver mandato ambasciatori a Delfi chiedevano se (il dio) avrebbe concesso loro la terra di Sicione. Essa (la Pizia) rispose: – Bella è la terra tra Corinto e Sicione, ma non l’abiteresti neppure se fossi tutto coperto di bronzo. Tu cerca Satyrion e l’acqua lucente del Taras e il porto che sta a sinistra dove il capro beve avidamente l’acqua salata bagnando la punta della grigia barba; lì costruisci Taranto salda sopra Satyrion -. Pur avendo sentito, non capivano; essa allora parlò più chiaramente: – Ti dono Satyrion e di abitare il ricco paese di Taranto e di diventare sventura per gli Iapigi -).

Dionigi di Alicarnasso (I secolo a. C.), Ῥωμαική ἀρχαιολογία, XIX, 1, 3: Στάσεως δὲ γενομένης ἡττηθέντες οἱ παρθενίαι ἀναχωροῦσιν ἑκόντες ἐκ τῆς πόλεως καὶ πέμψαντες εἰς Δελφοὺς χρησμὸν ἔλαβον πλεῖν εἰς Ἰταλίαν, ἐξευρόντας δὲ χωρίον τῆς Ἰαπυγίας Σατύριον καὶ ποταμὸν Τάραντα, ἔνθ᾽ ἂν ἴδωσι τράγον τῇ θαλάττῃ τέγγοντα τὸ γένειον, ἐκεῖ τοὺς βίους ἱδρύσασθαι. Πλεύσαντες δὲ τόν τε ποταμὸν ἐξεῦρον καὶ κατά τινος ἐρινεοῦ πλησίον τῆς θαλάττης πεφυκότος ἄμπελον ἐθεάσαντο κατακεχυμένην, ἐξ ἧς τῶν ἐπιτράγων τις καθειμένος ἥπτετο τῆς θαλάττης. Τοῦτον ὑπολαβόντες εἶναι τὸν τράγον, ὃν προεῖπεν αὐτοῖς ὁ θεὸς ὄψεσθαι τέγγοντα τὸ γένειον τῇ θαλάττῃ, αὐτοῦ μένοντες ἐπολέμουν Ἰάπυγας, καὶ ἱδρύονται τὴν ἐπώνυμον τοῦ ποταμοῦ Τάραντος πόλιν.

(Avvenuta una sedizione [a Sparta], i Parteni sconfitti si ritirano uscendo dalla città e, avendo inviato loro rappresentanti) a Delfi, ebbero il responso di navigare verso l’Italia e, dopo aver trovato la località della Iapigia Satyrion e il fiume Taras, di stabilire la loro sede laddove avessero visto un capro che bagnava la barba nel mare. Dopo aver navigato trovarono il fiume e videro una vite abbarbicata ad un fico selvatico cresciuto vicino al mare, dalla quale uno dei viticci piegato toccava il mare. Avendo capito che era questo il capro che il dio aveva detto loro che avrebberp visto mentre bagnava la barba nel mare, fermatisi lì, mossero guerra agli Iapigi e fondarono la città il cui nome deriva da quello del fiume Taras).

Pausania (II secolo d. C.), Ἑλλάδος περιήγησις, X, 10, 6-8: Τάραντα δὲ ἀπῴκισαν μὲν Λακεδαιμόνιοι, οἰκιστὴς δὲ ἐγένετο Σπαρτιάτης Φάλανθος. Στελλομένῳ δὲ ἐς ἀποικίαν τῷ Φαλάνθῳ λόγιον ἦλθεν ἐκ Δελφῶν· ὑετοῦ αὐτὸν αἰσθόμενον ὑπὸ αἴθρᾳ, τηνικαῦτα καὶ χώραν κτήσεσθαι καὶ πόλιν. Τὸ μὲν δὴ παραυτίκα οὔτε ἰδίᾳ τὸ μάντευμα ἐπισκεψάμενος οὔτε πρὸς τῶν ἐξηγητῶν τινα ἀνακοινώσας κατέσχε ταῖς ναυσὶν ἐς Ἰταλίαν· ὡς δέ οἱ νικῶντι τοὺς βαρβάρους οὐκ ἐγίνετο οὔτε τινὰ ἑλεῖν τῶν πόλεων οὔτε ἐπικρατῆσαι χώρας, ἐς ἀνάμνησιν ἀφικνεῖτο τοῦ χρησμοῦ, καὶ ἀδύνατα ἐνόμιζέν οἱ τὸν θεὸν χρῆσαι· μὴ γὰρ ἄν ποτε ἐν καθαρῷ καὶ αἰθρίῳ τῷ ἀέρι ὑσθῆναι. Καὶ αὐτὸν ἡ γυνὴ ἀθύμως ἔχοντα —ἠκολουθήκει γὰρ οἴκοθεν—τά τε ἄλλα ἐφιλοφρονεῖτο καὶ ἐς τὰ γόνατα ἐσθεμένη τὰ αὑτῆς τοῦ ἀνδρὸς τὴν κεφαλὴν ἐξέλεγε τοὺς φθεῖρας· καί πως ὑπὸ εὐνοίας δακρῦσαι παρίσταται τῇ γυναικὶ ὁρώσῃ τοῦ ἀνδρὸς ἐς οὐδὲν προχωροῦντα τὰ πράγματα. Προέχει δὲ ἀφειδέστερον τῶν δακρύων καὶ—ἔβρεχε γὰρ τοῦ Φαλάνθου τὴν κεφαλήν—συνίησί τε τῆς μαντείας—ὄνομα γὰρ δὴ ἦν Αἴθρα τῇ γυναικί—καὶ οὕτω τῇ ἐπιούσῃ νυκτὶ Τάραντα τῶν βαρβάρων εἷλε μεγίστην καὶ εὐδαιμονεστάτην τῶν ἐπὶ θαλάσσῃ πόλεων. Τάραντα δὲ τὸν ἥρω Ποσειδῶνός φασι καὶ ἐπιχωρίας νύμφης παῖδα εἶναι, ἀπὸ δὲ τοῦ ἥρωος τεθῆναι τὰ ὀνόματα τῇ πόλει τε καὶ τῷ ποταμῷ· καλεῖται γὰρ δὴ Τάρας κατὰ τὰ αὐτὰ τῇ πόλει καὶ ὁ ποταμός.

(Gli Spartani fondarono Taranto, l’ecista fu lo spartiata Falanto. A Falanto che si preparava a fondare una colonia giunse da Delfi il responso che avrebbe conquistato un territorio e una città quando avesse visto cadere la pioggia dal cielo sereno. Egli, non avendo preso in considerazione subito il responso né avendone reso partecipe qualcuno degli interpreti, approdò in Italia; poiché non gli capitava di vincere i barbari né di conquistare città alcuna né d’impossessarsi di un territorio, si ricordò del responso e credette che il dio avesse profetizzato l’impossibile perché non poteva piovere col cielo puro e limpido. La moglie, infatti l’aveva seguito dalla patria, confortava lui avvilito e tra l’altro dopo aver fatto appoggiare la testa del marito sulle sue ginocchia, cercava i pidocchi. In qualche modo per amore accadde alla donna di piangere vedendo che lo stato del marito non migliorava per nulla. Prosegue senza risparmio di lacrime – e infatti ne bagnava la testa di Falanto – e Falanto  comprende la profezia – sua moglie, infatti si chiamava Etra[ii] – e così sopraggiunta la notte prese Taranto, la più grande e prospera delle città dei barbari in riva al mare. Dicono che l’eroe Taras sia figlio di Poseidone e di una ninfa del luogo, che dall’eroe venne il nome alla città e al fiume: infatti anche il fiume si chiama come la città).

 

Si potrebbe dire scudo nello scudo: nell’araldico risulta inserito quello dello lo scorpione presente nell’immagine tratta dalla Guida del Martini e per il quale il Merodio aveva ricordato opinioni che mettevano in campo ora Pirro, ora Annibale. Da notare che lo scorpione reca sul dorso tre gigli, Non credo sia avventato cogliere il riferimento agli Angioini ed in particolare a Filippo I, che fu principe di Taranto e despota d’Epiro. Questa seconda carica potrebbe spiegare la messa in campo di Pirro, mentre quella di Annibale potrebbe essere la deformazione della testimonianza data da Tito Livio (Ab Urbe Condita, XXIXI, 7, 6):  Progressus ad murum scorpione icto qui proximus eum forte steterat, territus inde tam periculoso casu receptui canere cum iussisset, castra procul ab ictu teli communit ([Annibale] accostatosi al muro [di Locri],essendo stato morso da uno scorpione uno che gli si trovava vicino, atterrito da un incidente tanto pericoloso, dopo aver ordinato di suonare la ritirata fortificò il campo fuori dalla portata di una lancia). Lo scorpione gigliato potrebbe essere, perciò, il risultato finale di una superfetazione di deformazione di memorie storiche.

Il 24 febbraio 1927, con decreto firmato da Vittorio Emanuele III e Benito Mussolini, lo scorpione fu adottato ufficialmente come simbolo della provincia di Taranto (immagine tratta da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/d/d4/Provincia_di_Taranto-Stemma.png.

 

lo stemma della città dovette giocoforza assumere altre fattezze. E quali potevano essere se non quelle del giovane sul delfino immortalato (ora con il tridente e il càntaros, ora con lo scudo e il càntaros, ora con la cornucopia e la Nike, ora con lo scudo e il tridente, ora a cavalcioni sul cetaceo, ora seduto), come abbiamo visto, sulle antiche monete?

Conclusione: dopo lo “scippo”, anche se da parte della sua stessa provincia, di quello che sembra essere il suo più antico simbolo, la città ricorse ad una memoria ancora più antica, utilizzando con qualche variante (il pannello svolazzante e la conchiglia d’oro) le fonti numismatiche. Ma, prima dell’ufficializzazione, l’operazione risulta già realizzata nello stemma presente nella guida del Martini.  Un’ultima osservazione: lo scorpione appare nello stemma di Roccaforzata (immagine tratta da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/8/86/Roccaforzata-Stemma.png) , che è un comune in provincia di Taranto.

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[i] Così erano chiamati a Sparta gli ex schiavi che avevano acquisito alcuni diritti di cittadinanza.

[ii] Traduco così l’originale Αἴθρα che come nome comune in greco significa cielo sereno.

 

Taranto, che facciamo: rimuoviamo quella ringhiera?

di Armando Polito

(immagine tratta da https://www.facebook.com/160644517282600/photos/a.574743302539384.145448.160644517282600/575052732508441/?type=3&theater)

Il fenomeno della damnatio memoriae (per chi non conosce il latino, alla lettera: condanna della memoria) è antico e, secondo me, rappresenta un esempio tra i più significativi dell’intolleranza, dell’ignoranza  e della stupidità umane.

Intolleranza perché non è corretto pretendere di avere il diritto di cancellare con la distruzione fisica una memoria che non corrisponde al nostro sentire e intorno alla quale sarebbe meglio, a mio avviso, discutere, analizzando il messaggio scaturente da un manufatto, sia esso un’epigrafe celebrativa che una fabbrica piccola o grande. Ignoranza perché solo un ignorante può credere di avere il diritto autolesionistico di privare le generazioni successive, lo si voglia capire o no,  di un pezzo di storia, che non vive solo di pagine scritte ma, direi soprattutto, di elementi concreti, fisici. Stupidità perché, per quanto si possa essere ignoranti, solo un imbecille può perorare simili operazioni.

Così ogni tanto qualcuno a corto di argomenti ma in cerca di pubblicità prevalentemente politica avanza la demenziale proposta di eliminare tutto ciò che richiama alla memoria e all’intelligenza, perché certi crimini non si ripetano, il regime fascista (ma, sia ben chiaro, il discorso per me vale per qualsiasi potere, qualsiasi colore esso abbia) . Certe volte la geniale proposta non viene nemmeno partorita, anche perché il potere da sempre vede prevalentemente le cose eclatanti (quelle che, secondo lui, tutti capiscono, tanto per intenderci …) ma non si accorge di ciò che è più discreto e, in fondo, più suggestivo per le sue fini allusioni piuttosto che per le sue rozze affermazioni sbattute in faccia, magari senza neppure un minimo di senso estetico.

Come molti sapranno, il lungomare a Taranto venne inaugurato l’11 agosto 1931. Bellissima realizzazione e bellissima anche la ringhiera di Corso due mari prospiciente il Castello Aragonese, dove al centro di ogni sezione si ripete la composizione della foto di testa (in quella che segue, tratta ed adattata da Google Maps, la freccia indica il primo dettaglio della serie).

Chissà quanti, passandoci innumerevoli volte, avranno colto quel dettaglio (come ha fatto l’autore della foto inserita nel profilo di  Facebook prima riportato) e quanti si saranno posto il problema del suo simbolismo. A beneficio di tutti (eccetto coloro che lo sapevano da tempo o l’hanno appreso da poco), me compreso, anche perché ignoravo l’esistenza del manufatto, ho pensato di stilare queste poche note, ripetendo, passo passo il cammino fatto prima di giungere alla loro stesura.

Il dettaglio mi ha immediatamente riportato alla memoria la marca tipografica di Aldo Manuzio (1449/1452-1515) adottata successivamente, tal quale, dal figlio Paolo.

L’elemento in comune, l’ancora, vede attorto sul suo fusto il delfino, quella di Taranto una gomena; nella prima rappresentazione, dunque, un oggetto ed un essere animato (per chi volesse sapere di più sul delfino  e sui suoi rapporti con la Terra d’Otranto: https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/11/il-delfino-e-la-mezzaluna-prima-parte/), nella seconda due oggetti.

Mentre nella marca di Manuzio gli ingredienti marinareschi finiscono qui, un altro si aggiunge nel dettaglio di Taranto: un pentacolo (una stella a cinque punte inscritta in un cerchio). La stella a cinque punte è un simbolo esoterico antichissimo, già noto a Sumeri ed Egizi. Una stella a cinque punte è pure la cosiddetta (perché, in realtà, la stella, astronomicamente, non esiste) stella di Venere,  giacché l’omonimo pianeta chiude la sua orbita  in otto anni compiendo un percorso che ricalca il contorno di una stella a cinque punte. Una stella bianca a cinque punte, la Stella d’Italia, popolarmente detta Stellone, sovrasta lo scudo dei Savoia nello stemma del Regno d’Italia dal 1870 al 1890 e, adottato ininterrottamente nel periodo successivo,  continua ad essere il simbolo dell’Italia repubblicana.

(immagini tratte da https://it.wikipedia.org/wiki/Stella_d%27Italia)

L’immagine allegorica dell’Italia più antica che io conosca è in un sesterzio (ma anche in un denario dello stesso anno) di Antonino Pio (138-161) recante al dritto la testa laureata dell’imperatore volta a destra con legenda  ANTONINUS AUG(USTUS) PI US P(ATER)P(ATRIAE) TR(IBUNICIA) P(OTESTATECO(N)S(UL) III (Antonino Augusto Pio,  padre della patria, con potere di tribuno console per la terza volta1), al verso l’Italia turrita, seduta su un globo, che regge la cornucopia con la destra e lo scettro con la sinistra, con legenda S(ENATUS) C(ONSULTU)2 e nell’esergo ITALIA.

(immagine tratta da http://www.wildwinds.com/coins/)

Tornando alla stella, appare curioso il fatto che  essa, associata all’Italia turrita,  presenta non cinque ma sei punte in  Cesare Ripa, Iconologia, Fary, Roma, 1603, p. 247.

Gli ingredienti indiscutibilmente marinareschi dell’ornamento tarantino si fermano qui , ma come tralasciare la vaga (mancano le impugnature) evocazione della ruota di un timone suggerita dalla coppia stella/cerchio? La sola stella, poi, fa prima andare il pensiero alla rosa dei venti o stella dei venti (anche se quest’ultima ha quattro punte nella forma più semplice, otto in quella più completa) e poi lo fa tornare alla stella di Venere ed alla leggenda inventata da Stesicoro (probabilmente VII-VI secolo a. C.) e lasciataci in un frammento della sua Presa di Troia in un papiro di recente ritrovamento, secondo la quale proprio Venere avrebbe guidato con l’astro che porta il suo nome il figlio Enea nel suo viaggio da Troia verso l’Italia. La stessa Venere non era  nata dalla spuma del mare? E, infine, è casuale il fatto che la coppia ancora/cerchio ricalchi, soltanto togliendo all’ancora la parte superiore del fusto, il simbolo di Venere che già presente nell’antichità greca e romana, continua ai nostri giorni  nel simbolo del sesso femminile?

C’è un sistema infallibile per impedire di porsi domande di questo tipo  e precludere per sempre una risposta, sia pur dubitativa: basta rispondere con un idiota e criminale sì alla domanda che nel titolo ho posto al popolo che è sovrano (o no?). Il fatto che l’attuale amministrazione è di sinistra (o no?) è assolutamente casuale e non è detto a priori che tra i militanti o simpatizzanti, come tra gli elettori,  di un qualsiasi partito ci siano solo imbecilli

Attenzione, però: dopo la rimozione è doveroso, in omaggio all’altrui ed alla propria acclarata idiozia, recuperare quel lucchetto liberandolo dall’intrusione di quella oscena gomena stupratrice e dargli onorevole sepoltura, volevo dire  sistemazione …

 

Ahi, ahi, in che grossolana contraddizione sono incappato! Prima esalto Venere dea dell’amore con i suoi annessi e connessi e poi me la prendo (che vigliacco!) con un inerme mocciano lucchetto …

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1 Era stato console la prima volta nel 120 ed in quell’occasione aveva rifiutato il titolo di Pater patriae (padre della patria), per accettarlo, invece, con il secondo consolato nel  139, col terzo nel 140 e col quarto nel 145. La moneta, dunque risale al 140.

2 SENATUS CONSULTU=(emesso) per decisione del senato.

 

Fra chiacchiere e sanguinaccio, I dolci tipici del Carnevale tarantino

chiacchiere carnevale

 

di Angelo Diofano

Carnevale è nel pieno dei festeggiamenti, anche se, in verità, non è che sia rimasta tanta voglia di “pazziare”. Una festa più per i bambini, occasione per sfoggiare un bel costumino nei veglioni loro dedicati oppure nei vicini corsi mascherati di Massafra o Putignano. Con il rimpianto, per i più grandi, rivolto ai grandi appuntamenti che un tempo, ormai lontano, si tenevano nei saloni de “La Sem” (il popolare Gran Caffè di via D’Aquino angolo via Giovinazzi, dove ora malinconicamente agisce una banca), al Circolo Ufficiali o al “Gambero”.

Resistono nella tradizione i dolci tipici di questo periodo. Fra questi non si può non citare il sanguinaccio, nella cui preparazione la pasticceria “Principe”, al Borgo, sfoggiava (e lo fa ancora) il meglio di sé. Che ghiottoneria quella bella crema densa, dolcissima, talvolta impreziosita da canditi, venduta in bicchierini di plastica. Un tempo il cioccolato, ingrediente base del dolce, veniva mescolato a sangue di maiale fresco di macellazione, che conferiva un inconfondibile gusto acidulo e che rendeva particolare la specialità. Ora se ne fa a meno, a causa di provvedimenti in materia di igiene emanati negli anni Novanta. Peccato, infatti non risulta che in passato quell’ingrediente abbia fatto male a qualcuno. E del sanguinaccio tipico, così, è rimasto soltanto il nome.

Un po’ in disuso i confetti ricci, che nelle feste in maschera venivano distribuiti a manciate fra i bambini. Continuano ad andare bene le chiacchiere, in altre regioni dette cenci, straccetti, frappe o frappe. Si tratta di dolci molto friabili, a base di impasto di farina, con i bordi frastagliati. La cottura avviene tradizionalmente mediante frittura; alcuni le preferiscono al forno: saranno più leggere ma non è la stessa cosa. Ah, si dimenticava la spruzzatina con lo zucchero vanigliato, ma senza esagerare onde evitare imbiancature alle “mise”. In ogni caso il danno è lieve: un colpo di mano e tutto si rimette a posto.

C’è, ancora, chi si misura con la preparazione del calzone alla tarantina, nel cui ripieno il gusto del ragù s’incontro con quello dolce della ricotta. Una prelibatezza che, in versione maxi (e anche midi, se vogliamo), basta per un intero pranzo. E poi, fra un ballo e l’altro, per concludere il cenone di martedì grasso, come dice Claudio De Cuia nella poesia “L’ùlteme spijùle de carnevale”: …”p’u dolce, a scelta vostre/ cumbijtte ricce cu bbabbà e amarètte/ e cu nò sia culostre,/ ‘nu bicchierine ràse d’anesètte”,/ miènze cafèje e ‘nguarche bucchenotte/ cu tire ‘nnande ‘nzigne a menzanotte,/ ca ‘a Senza-Nase fra ‘nu pare d’ore/ da o’ Cambanòne me sòne ‘a Foròre”.

L’indomani, Mercoledì delle Ceneri, inizierà la Quaresima, con tutte le sue privazioni. E la carne dovrà essere sostituita dalla verdura, come d’altronde dice un popolare proverbio tarantino “Carnevale mije cu le dogghie, osce maccarrùne e crèje fogghie”.

Il Salento in ventiquattro immagini di Abraham Louis Rodolphe Ducros (6/6): TARANTO

di Armando Polito

op de ruïnes van het Fort Sarazin bij Tarente (Vista sulle rovine del Forte Saraceno)

Nieuwe vestingsgracht van de vestingwerken in Tarente (Nuovo fossato  della vecchia fortezza a Taranto)

Gezicht op aquaduct en de stad Tarente (Vista sull’acquedotto nella città di Taranto)

 

Per la prima parte (BRINDISI): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/30/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-16-brindisi/

Per la seconda parte (GALLIPOLI): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/12/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-26-gallipoli/

Per la terza parte (LECCE): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/23/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-36-lecce/

Per la quarta parte (MANDURIA): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/07/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-46-manduria/

Per la quinta parte (NARDÒ): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/11/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-56-nardo/

 

22 novembre. Santa Cecilia e le pèttule a Taranto

 

Piccoli e semplici gesti… grandi  e genuini ricordi… ed è festa!

Le pèttuli, il sapore della mia terra

 

di Daniela Lucaselli

Il 22 novembre ricorre, nell’anno liturgico, una delle feste più popolari della tradizione, santa Cecilia. Per Taranto e i tarantini è un giorno speciale in quanto questa ricorrenza segna l’inizio dell’Avvento, l’alba dei festeggiamenti natalizi, in netto anticipo rispetto a tutti gli altri paesi in cui si respira aria di festa solo dall’Immacolata o da Santa Lucia.

Il perpetuarsi di antiche usanze rende vivo il legame col passato e, nel caso specifico,  le festività natalizie si arricchiscono di un profondo significato, che supera le barriere dello sfrenato consumismo di una società che sembra non credere più negli antichi valori.

Una magica atmosfera avvolge, in una suggestiva sinergia musicale, le tradizioni sia religiose che pagane. Non è ancora l’alba quando, per le strada di Taranto, si ode, da tempi ormai remoti, la Pastorale natalizia. Ed è così che nasce questa tradizione. Le bande musicali locali, in particolare il Complesso Bandistico Lemma, città di Taranto, svegliano gli abitanti dei quartieri della città,  diffondendo, nella nebbia mattutina, la soave melodia, per onorare Santa Cecilia, protettrice dei musicisti. I primi ad alzarsi sono i bambini che, incuriositi, corrono vicino ai vetri della finestra che affaccia sulla strada e, con la mano, frettolosamente, puliscono i vetri appannati. Dinanzi ai loro occhi, i musicanti infreddoliti, orgogliosi protagonisti di questo momento, augurano un buon Natale. Si vanno a rinfilare sotto le coperte, al dolce tepore del letto, chiudono gli occhi e continuano ad ascoltare, in un indimenticabile dormiveglia, le note della banda. Rimangono in attesa del momento in cui sentiranno l’odore di olio fritto…

Secondo la tradizione, infatti,  le mamme preparano, al passaggio dei suonatori, le pettole. Le famose “pastorali” sono state composte da maestri musicisti tarantini, come Carlo Carducci, Domenico Colucci, Giovanni Ippolito, Giacomo Lacerenza, , che si sono  ispirati ad antiche tradizioni, che affondano le loro radici nelle melodie suonate dai pastori d’Abruzzo che, durante la transumanza, scendevano nella nostra terra, con il loro gregge.

Muniti di zampogne, ciaramelle e cornamuse  percorrevano i vicoli della città, regalando le loro dolci melodie in cambio di cibo. I tarantini donavano ai pastori delle frittelle di pasta di pane, un prodotto povero e  semplice, ma,

I castelli di Terra d’Otranto tra il 1584 e il 1610 in una relazione manoscritta del 1611: TARANTO (1/6)

di Armando Polito

Amicizia significa pure disponibilità a mettere al servizio le proprie conoscenze, anche casuali, quando sappiamo che esse possono rivestire un’importanza particolare agli occhi di qualcuno di nostra conoscenza. Debbo, perciò, qui ringraziare l’amico campano Aniello Langella che qualche giorno fa mi ha segnalato un link, sicuro che l’esplorazione dopo la navigazione e l’approdo mi sarebbe stata senz’altro gradita ma molto probabilmente pure gradevole. Così è stato, ma sarebbe stato un peccato, intraprendere un nuovo viaggio e lasciar annegare nell’oceano dell’egoismo qualcosa di interessante senza renderne partecipi gli altri. Eccomi così a parlare di un documento manoscritto (è il n. 1933) della prima metà del XVII secolo conservato nella Biblioteca Nazionale di Spagna e interamente leggibile al link http://bdh-rd.bne.es/viewer.vm?id=0000044505&page=1.

Los Castillos del Reyno de Napoles Manuscrito

Si tratta di una relazione sui castelli del Regno di Napoli redatta da un anonimo nel 1612. Particolarmente interessante il fatto che essa in pratica è basata sul confronto tra due precedenti resoconti, rispettivamente del 1584 e del 1611, come si evince da ciò che si legge in 1r.

Avendomi vostra Eccellenza ordinato che gli faccia relazione dei castelli del regno e di questo si potrebbe loro dare avvertimento per servizio di Sua Maestà, per cui ho visto quella che fece Juan Vasquez de Acuña capitano generale di artiglieria in questo regno, per ordine del signor Duca di Ossuna nell’anno 1584, che con permesso di Vostra Eccellenza mi ha dato, tratta dall’originale che si conserva nella reale cancelleria, il segretario D. Andres de Salazar, e che inviò a Vostra Eccellenza l’anno scorso 1610, la Scrivania di razione1 presenta la seguente.

Ora riprodurrò  le carte relative, nell’ordine, ai castelli di Taranto, Gallipoli, Otranto, Lecce, alla Torre di San Cataldo e, infine, al castello di Brindisi; li ho corredati, volta per volta, della mia traduzione (qualche voce dello spagnolo di allora, se non è obsoleta, si differenzia in qualche dettaglio fonetico da quella attualmente in uso; sarei grato a chiunque, conoscendo bene lo spagnolo, anche di oggi, mi segnalasse qualche, tutt’altro che improbabile, errore) e di qualche nota esplicativa (almeno spero …).

TARANTO

c.17r

c. 17 v (riproduco solo la parte scritta)

Chiudo questa prima parte (la successiva riguarderà Gallipoli) con una tavola di Taranto (della quale già mi sono occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/03/31/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-1314-taranto/) tratta dal secondo volume dell’opera di Giovan Battista Pacichelli (1634-1695)  Il regno di Napoli in prospettiva pubblicato postumo (nel 1703) per i tipi di Perrino a Napoli. Nonostante tutti i limiti di fedeltà rappresentativa che simili mappe mostrano e nonostante la sua cronologia, non è da escludersi che l’aspetto della città nel range temporale delle due relazioni (1584-1610) fosse molto simile a quello che qui appare.

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/18/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-gallipoli-26/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/30/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-otranto-36/

Per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/05/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-lecce-46/

Per la quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/16/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-torre-di-san-cataldo-56/

Per la sesta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/25/i-castelli-di-terra-dotranto-tra-il-1584-e-il-1610-in-una-relazione-manoscritta-del-1611-brindisi-66/

__________

1 Organo amministrativo del regno di Napoli, incaricato di tenere i conti e di provvedere ai pagamenti per conto dello Stato.

2 Colubrina: dal provenzale colubrina, a sua volta diminutivo del latino còluber=serpente, per la forma analoga. Bocca da fuoco ad avancarica entrata in uso nella seconda metà del sec. XVI. Impiegata sia in mare sia in terra, la colubrina è caratterizzata da una lunghezza notevole rispetto al calibro e conseguentemente da una gittata molto superiore agli altri tipi di cannoni . Il tipo più comune pesava 18 q., aveva un calibro di 14 cm e una lunghezza di 4,5 m, sparava palle da 32 libbre a una distanza variabile tra i 400 e i 2500 m. Pezzi analoghi erano le mezze colubrine, più leggere, e le doppie colubrine, più pesanti e usate come artiglieria d’assedio e da fortezza.

3 sagre (o sacre, come subito dopo nella pagina che segue): pezzo d’artiglieria corrispondente ad un quarto di colubrina e che tirava palle variabili da 8 a 20 libbre.

4 Traduco così esmeril che è dal francese antico esmeril che alla lettera significava sparviero; era un pezzo di artiglieria di importanza secondaria,  un po’ più grande del falconetto ( nella foto) che era  pezzo di artiglieria simile al falcone ma di calibro più piccolo).

 

Altro che agenda digitale!

di Armando Polito

Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto,/chi ha dato, ha dato, ha dato…/scurdámmoce ‘o ppassato,/simmo ‘e Napule paisá! recita il ritornello della celebre tarantella di Fiorelli-Valente. Sono passati esattamente 70 anni da quando la canzone venne composta,  ben 167 dalla composizione dell’Inno di Mameli, inno che potrebbe essere più realisticamente surrogato dalla canzonetta napoletana dopo aver sostituto il Napule dell’ultimo verso (che poi corrisponde al titolo) con Italia. La sostituzione, però, non è agevole né corretta metricamente parlando ed è come se perfino la tanto malandata Napoli si rifiutasse di indossare le vesti di questa sgangherata penisola.

Così l’invito di lasciare da parte il passato e pensare al futuro suona beffardo e quasi una celebrazione musicale del noto principio gattopardesco, soprattutto alla luce di quel chi ha avuto, ha avuto, ha avuto,/chi ha dato, ha dato, ha dato, che per una sorta di maledizione sembra voler continuare ad estendere il passato prossimo nel presente e nel futuro.

E il futuro evoca ciò che già in altre nazioni, che abbiamo ancora l’incosciente spudoratezza di definire meno evolute di noi, è stato realizzato da tempo: la famigerata agenda digitale, nesso con cui la politica si sciacqua giornalmente la bocca sputando ovvie banalità che la maggior parte di noi, purtroppo, si precipita a bere, deprivata com’è pure della capacità di provare quel sentimento nobilissimo che si chiama schifo.

Si prospetta ancora una volta una valanga di parole, una montagna di progetti, uno sperpero di pubblico denaro (per la stesura di quei progetti e poi per la loro, si fa per dire, realizzazione) nella ripetizione di un copione giudicato fallimentare dagli stessi interessati, come chiunque può rendersi conto leggendo (arrivare fino in fondo e non spaccare il monitor costituisce un bonus pari alla metà di punti necessari per andare dritti dritti in Paradiso …) quanto è riportato al link http://documenti.camera.it/leg17/dossier/Testi/TR0146.htm.

Non mi meraviglierei, perciò, se si ripetesse quanto successo in passato, quando parecchi settori della pubblica amministrazione erano stati informatizzati con attrezzature avveniristiche costate almeno il doppio rispetto al prezzo di mercato ma col risultato brillante di non servire praticamente a nulla perché non in grado di dialogare tra loro per motivi legati all’hardware o al software (esilarante per quest’ultimo l’adozione di sistemi operativi diversi e incompatibili tra loro).

Più di una volta ho stigmatizzato in questo stesso sito  la nostra scandalosa arretratezza relativamente alla digitalizzazione e all’immissione in rete, per una fruizione totalmente gratuita, del nostro sterminato patrimonio culturale. Nel frattempo, mentre gli altri sono felicemente in azione già da decenni, non è successo nulla e debbo riconoscere di essere un povero ingenuo quando, pur avendo insegnato latino e greco, dimentico che agenda (gerundivo neutro plurale diventato, poi in italiano femminile singolare) in latino significa cose da fare e che acta, invece, significa cose fatte. Allora, fino a quando si parlerà di agenda e non di acta (o, con assimilazione, atta, neologismo che non brevetterò …) digitale, che cosa pretendo? Non conta niente, poi, che in JobsAct il secondo componente deriva dal latino actum, singolare del precedente acta? Siamo, perciò, sulla buona strada e la smettano pure i gufi e disfattisti di parlare, con riferimento a quello attuale, di governo degli annunci; cosa dire, allora, del precedente governo del fare (non del da fare …) per il quale l’agenda digitale era una delle priorità? Almeno questo è sincero, come sincero, rispetto all’esito finale, è stato chi ha progettato il MOSE in cui, come ho avuto occasione di dire (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/11/il-ponte-tra-otranto-e-apollonia-con-uno-sguardo-al-presente-e-purtroppo-anche-al-futuro/), S sta per sperimentale; con questi precedenti, per lui devastanti, solo un pessimista incorreggibile può sospettare che, in ossequio a questa nefasta (sempre secondo lui) sincerità, pure la banda larga diventerà un allargamento della banda dei soliti disonesti e, più o meno, noti.

Ora dovrei dire – Passiamo a cose più serie! -, come se queste non lo fossero …

Dopo aver ringraziato per analoghi lavori precedenti il sito della Biblioteca Nazionale di Francia, oggi intendo farlo con quello della Biblioteca Nazionale di Spagna e rendere partecipe il lettore che ne ha interesse di una vera e propria chicca, il Theatrum civitatum nec non admirandorum Neapolis et Siciliae regnorum pubblicato ad Amsterdam da Jean Blaeu, famoso cartografo olandese, nel 1663. L’opera è visibile e scaricabile in alta definizione al link http://bdh-rd.bne.es/viewer.vm?id=0000001517. Il file integrale in pdf è molto pesante (ben 518 MB) e per avviare l’operazione basta cliccare sul simbolo del dischetto in alto a sinistra e poi farsi con gli amici un giretto per tutti i bar della città o del paese.

Chi non ha amici o del bar odia pure la parola ma  dispone di un secondo pc può visionare, cliccando sulla relativa miniatura, la pagina (sempre in pdf) che desidera e poi salvarla. Quando la riaprirà con Acrobat reader potrà continuare ad avvalersi dello zoom e studiarne così agevolmente ogni dettaglio.

Riporto di seguito il frontespizio e le pagine relative alle mappe (tralascio per motivi di spazio il testo in latino che le accompagna; se a qualcuno interessa me lo faccia sapere e provvederò subito all’integrazione)  di Brindisi, Gallipoli e Nardò, gli unici centri di Terra d’Otranto che hanno avuto l’onore di trovare ospitalità nell’opera, a testimonianza dell’importanza che essi avevano all’epoca.  Cliccando sul link che compare in calce ad ogni mappa (qui per ovvi motivi in bassa definizione) il lettore accederà direttamente alla pagina nella definizione originale.

 

                                                                                     Brindisi

(il TARENTO della carta è un errore, per cui vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/09/brindisi-e-il-suo-porto-cornuto/)

Gallipoli

Nardò

 

Buongiorno Taranto al Bif&st

 Buongiorno Taranto_ph Pisanelli

 

domenica 6 • lunedì 7 aprile 2014

c/o Multicinema Galleria

Bari

 Prima proiezione ufficiale di “Buongiorno Taranto” al Bif&st – Bari international Film Festival. Il documentario di Paolo Pisanelli sarà proiettato domenica 6 aprile, ore 19, alla presenza dell’autore e in replica lunedì 7 alle 22.30 presso il Multicinema Galleria di Corso Italia a Bari.

 

Sarà il Bif&st – Bari International Film Festival ad accogliere la prima proiezione ufficiale di Buongiorno Taranto in concorso nella sezione documentari domenica 6 aprile alle ore 19, alla presenza del regista, e in replica il lunedì 7 aprile alle ore 22.30 presso il Multicinema Galleria di Corso Italia a Bari. Il film di Paolo Pisanelli, prodotto dalla cooperativa Big Sur, associazione OfficinaVisioni, con il sostegno di Apulia Film Commission, è stato realizzato anche grazie a una campagna di crowdfunding su Produzioni dal Basso, che è possibile sostenere il progetto sino a lunedì 14 aprile.

Realizzato insieme agli abitanti della città più avvelenata d’Europa e a numerose associazioni culturali e ambientaliste,  il film documentario fa parte di un progetto di narrazioni sociali innovativo, forse il primo realizzato in Italia a partire da un videoblog, sostenuto anche dalla partecipazione di Michele Riondino, attore e cantante, figlio di un operaio dell’impianto siderurgico tarantino e tra i promotori del grande concerto del Primo Maggio che anche quest’anno si svolgerà nel Parco Archeologico delle Mura Greche, uno spazio recuperato dall’abbandono grazie all’opera del Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti.

Buongiorno Taranto racconta tensioni e passioni di una città immersa in una nuvola di smog, una città intossicata ad un livello insostenibile. Aria, terra e acqua sono avvelenati dall’inquinamento industriale, all’ombra del più grande stabilimento siderurgico d’Europa, costruito in mezzo alle case e inaugurato quasi cinquant’anni fa. Le rabbie e i sogni degli abitanti sono raccontati dalla cronaca di una radio web nomade e coinvolgente, un cine-occhio digitale che scandisce il ritmo del film e insegue gli eventi che accadono ai confini della realtà, tra rumori alienanti, odori irrespirabili e improvvise rivelazioni delle bellezze del territorio.

Buongiorno Taranto è un progetto per costruire una narrazione fatta di immagini, suoni e parole della città dei due mari, un viaggio sur-reale ritmato da esplosioni di bellezza sommersa e ipnotici tramonti sul lungomare.

Buongiorno Taranto_ph Pisanelli_2

Biglietto: 1 euro fino ad esaurimento posti.

Per informazioni: http://www.bifest.it/

http://www.buongiornotaranto.it

Contatti per la stampa: Ufficio stampa regionale Valeria Raho

ufficiostampa.damagegood@gmail.com

(+39) 340.6212127

 

 Buongiorno Taranto_Riondino_

Note di regia

Raccontare le storie di questa città bellissima e disperata è una sfida che non riguarda solo il mio percorso cinematografico, ma il tentativo di attivare una comunicazione più profonda attraverso un  videoblog e una radioweb che sono luoghi di narrazione e di confronto sociale aperti alla città come spazi da abitare. Qui siamo costretti a  metterci in scena perché quella di Taranto è una storia che riguarda tutti: è lo specchio del degrado di un’Italia in crisi esistenziale che dopo aver puntato sul processo di industrializzazione di un Mezzogiorno prevalentemente rurale, ora si trova incagliata nei conflitti aperti tra industria e ambiente, tra identità e alienazione, tra salute e lavoro. Taranto oggi è chiamata a scegliere quale strada seguire, superando quel “Ce m n futt a me!” (che me ne importa a me?) che ha accompagnato il processo di degrado della città e dell’Italia tutta. Per contribuire alla rinascita di questo territorio ai confini della realtà è necessario conoscere la sua storia e considerarsi tutti tarantini.

Buongiorno Taranto è un saluto a una città che si risveglia dal torpore di un’allucinazione collettiva in cui è caduta nella ricerca di un benessere illusorio. È un sole che si fa spazio tra le nuvole di fumo per esorcizzare la paura e sfidare l’immobilismo, l’indifferenza e la rassegnazione.

 

Paolo Pisanelli, filmaker.

Laureato in Architettura e diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia (Corso di Fotografia diretto da Giuseppe Rotunno). Dopo aver lavorato come fotoreporter e fotografo di scena, dal 1996 si dedica alla regia di film-documentari. Ha ricevuto  premi e riconoscimenti in festival nazionali ed internazionali. Nel 1998 è tra i soci fondatori di Big Sur, società di produzioni cinematografiche & laboratorio di comunicazione. Svolge dal 1995 attività didattica e di formazione audiovisiva. Collabora con  la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Teramo, con il Centro Sperimentale di Cinematografia (sedi di Palermo e L’Aquila) e con la Scuola d’arte cinematografica Gian Maria Volontè di Roma. E’ ideatore e conduttore di RadioUèb, la radio in pillole, presso il Centro Diurno di via Montesanto a Roma,  E’ direttore artistico di Cinema del reale, festa di autori e opere audiovisive che si svolge ogni anno nel Salento (Puglia).

 

Filmografia principale:

Nella prospettiva della chiusura lampo (1997); Io calcoli infiniti (1998); Il magnifico sette(1998); n (1999); Where we go (2000); Roma A.D 999 (2000); Roma A.D 000 (2001); Don Vitaliano (2002); Tunza Tunza – Italian djs electronic productions (2002); Enrico Berlinguer – conversazioni in Campania (2004);Il sibilo lungo della taranta (2006); Il teatro e il professore (2007); Un inverno di guerra (2009); Ju Tarramutu (2010); Il terremoto delle donne (cine-teatro 2011); Aquilane (cine-teatro 2013);  Buongiorno Taranto (2014).

La Terra d’Otranto ieri e oggi (13/14): TARANTO

di Armando Polito

Il toponimo

La forma più antica è greca: Τάρας (leggi Taras), genitivo Τάραντος  (leggi Tàrantos). La sua più antica attestazione (evidenziata con l’ellisse rossa nell’immagine, mia, sottostante) si troverebbe, se questa fosse autentica, cioè veramente risalente al VI secolo a. C., nella Mappa di Soleto.

 

La più antica attestazione letteraria è in Erodoto, Antioco e Tucidide (V secolo a. C.) . La forma latina più antica attestata, Tarentum,  risale ad Ennio (III-II secolo a. C.)1. La notizia più antica sulla fondazione della città si ha in Diodoro Siculo (I Secolo a. C.): Gli epeunatti2 avendo mandato ambasciatori a Delfi chiesero se il dio [Apollo]  avrebbe dato loro il territorio di Sicione.  La pizia rispose: “Bella è la terra tra Corinto e Sicione ma non l’abiteresti nemmeno se fossi tutto di bronzo. Cerca Saturo e l’acqua lucente del Taras e il porto che sta a sinistra e dove il montone respira con voluttà la salsedine del mare bagnando la punta della (sua) barba grigia. Lì costruisci taranto , salda su Saturo.  Avendo sentito non capirono; la Pizia allora disse più chiaramente: “Ti concedo  Saturo e di abitare la ricca terra di Taranto e di diventare un flagello per gli Iapigi”.3

Ecco, invece, la versione di Pausania (II secolo d. C.) : I cavalli di bronzo e le donne prigioniere sono [dono] dei Tarantini  [provenienti] dalle spoglie dei Messapi, barbari confinanti col territorio dei Taarantini, opera dell’argivo Argelada. Gli Spartani fondarono Taranto e l’ecista fu lo spartiata Falanto. A Falanto che si preparava alla fondazione giunse da Delfi un oracolo: quando avesse visto la pioggia [cadere] dal cielo sereno, allora avrebbe conquistato una regione e una città. Non avendo dato  importanza lì per lì all’oracolo non avendolo comunicato a nessuno degli interpreti, approdò con le navi in Italia. Poiché, pur vincendo i barbari, non gli riusciva né di prendere una delle città né  a impadronirsi di un territorio, si ricordò dell’oracolo e pensava che il dio gli avesse vaticinato cose impossibili: infatti mai era piovuto sotto un cielo puro e sereno. E sua moglie, lo aveva accompagnato da casa, fra l’altro trattava con gentilezza lui che era avvilito e avendo posto sulle ginocchia sue ginocchia la testa del marito gli cercava i pidocchi; e per amore capitò alla donna di versare lacrime vedendo che la situazione del marito non progrediva per nulla. Versò lacrime senza risparmio (bagnò infatti la testa di Falanto e si ricordò dell’oracolo (Cielo sereno era, infatti, il nome della donna) e così e così [Falanto] la notte successiva strappò ai barbari Taranto, la più grande e prospera delle città sul mare. Dicono che l’eroe Taras fosse figlio di Poseidone e di una ninfa indigena, e che dall’eroe sia stato posto  il nome alla città e pure al fiume; infatti in base a questo pure il fiume è chiamato Taras dalla città. Dicono che l’eroe Taras fosse figlio di Poseidone e di una ninfa indigena e che dall’eroe fosse stato messo il nome alla città e pure al fiume; infatti anche il fiume, come la città, si chiama Taras.   4

La memoria di Pausania è confermata dalle numerose monete con leggenda TAPAΣ (leggi Taras); in basso due esemplari, il primo del IV, il secondo del III secolo a. C.,  in cui l’eroe è rappresentato col tridente nella sinistra  e seduto sul dorso di un delfino.

Immagini tratte , rispettivamente,  da http://www.wildwinds.com/coins/greece/calabria/taras/Fischer_649.jpg http://www.wildwinds.com/coins/greece/calabria/taras/BMC_214.jpg
Immagini tratte , rispettivamente, da http://www.wildwinds.com/coins/greece/calabria/taras/Fischer_649.jpg http://www.wildwinds.com/coins/greece/calabria/taras/BMC_214.jpg

 

Insomma, Taranto trarrebbe il nome dal suo primo fondatore, l’eroe Taras.

Pacichelli (A), pagg. 160-162

 

Pacichelli (B, anni 1684 e 1687)

Entrando nel Golfo di Taranto, si può considerar la pesca delle ostrighe, le quali si salano e spacciano in parti lontane, di altre specie stimatissime (che fan correre il proverbio doversi qui da ciascuno passar il tempo di quadragesima), particolarmente di quelle che, fra alcuni palo gettato il picciol seme di quella sorte di legno, vi nascon’in copia a guisa delle piante e chiamansi cozza, estraendosi dopo sei mesi nel suo picciol mare al porto, ed è grossa come mandorla coperta. Si affittan però quei pali da‟ cittadini nel mare Picciolo di più di 30 miglia di giro col suo riflusso.

Fu Taranto patria di soggetti accreditati in primo luogo nella filosofia e più alte specolazioni, città molto vasta e forte, in penisola, chiusa in tre lati del mare. Oggi è ristretta, col castello però nel suo continente, di buon’architettura, stimato sicuro, che vi fondò il Re Ferdinando I di Aragona, e la cittadella antica, presidiata da gli spagnuoli nella parte opposta a quello, a fronte della quale, sovra gli archi del ponte lungo più di 80 passi, entra in città l’acqua di Martina, Ducato de’ Caraccioli. Ubbidisce Taranto al Cattolico: era principato de’ primogeniti di questo reame, ed ha luogo nella provincia, che chiaman di Terra d’Otranto, venedo considerata per lo suo Arcivescovado mitra antichissima e culto nella madrice al corpo del Santo Vescovo Cataldo. Ha diversi chiostri, seminario, monte di pietà, comode fabriche, fameglie nobili e cavalieri d’abito di prova più rigorosa. I suoi fuochi vengono ascritti nuovamente a 1807 e nella diocesi, che ha buoni benefici e badie, otto castelli di albanesi riverenti alla Santa Sede, osservano il rito greco e, pochi passi vicino, il picciol tempio sotterraneo tien tradizione che l‟apostolo San Pietro vi facesse il primo suo sbarco, avanti di portarsi a Roma. Del più si legga Giovanni Giovene, De Antiquit. et varia Tarentinor. fortuna. Non è già favoloso l’effetto delle morsicature del picciol’animale in questa città e contorno, chiamato tarantella, simile ad mosca grossa, verde e rossa di sopra, che punge insensibilmente la state, obligando a ballare al sole, in quell’aria, del violino o altro istromento, ad udir le trombe, veder gli specchi, le fettuccie, o altri oggetti allegri, fin che viva lo stesso animaletto, sì come io stesso ne ho veduto più volte i segni in altrui, che si chiamano gli attarantati, benché non se lo persuada Giovanni Teutonico nell‟opera De’ più Rari Costumi de’ Popoli, mentre ne cerca le cagioni, e le difende il padre Atanasio Kircherio nel suo trattato Della Calamità. Investigando in qualche memoria recondita dell’antichità, osservai un bel marmo bianco, scoverto gli anni addietro nelle fondamenta della cappella nuova di San Cataldo, nel tempio arcivescovale, con le seguenti parole:

L. JUNIO. L. F. GAL.

MODERATO

COLUMELLAE

TRIB. MIL. LEG. VI. FERRATAE.

 

Può esser che questo Lucio Giugno fosse un de’ Pretori, ben voluto in Taranto, al quale si erigesse da’ cittadini sì nobil memoria. E il medesimo stimo di Sesto Licinio, padre di Marco Licinio Console, che ne’ tempi di Augusto si raccordava in Orosio 6, 17, leggendos’in un marmo della chiesa di Muriveteri:

D.M.S.

SEXT. LICIN. P. R.

 

Cicerone, Pro Archia, scrive che fiorissero allora in Taranto gli studi delle buone Lettere, non mancando premi a’ virtuosi; per lo ché Aulo Licinio, poeta di grido, venne aggregato alla cittadinanza tarentina e onorato con molti donativi. In un marmo di color piombino, a fronte del tempio di Santa Maria di Costantinopoli, fuor delle mura della città, si scorge scolpito:

C. JULIO. D. LUCRETIUS

JUSTUS. FILIUS.

È incerto chi fosse questo Caio Giulio, trovandosi nelle antiche memorie molti di questi nomi, tutti però di uomini chiari, nel Consolato, nella Pretura, Dettatura, o in altre cospicue Dignità. Sotto la confession della Chiesa Madre, in una base di colonna si legge:

D.M.S.

A. TITINI. A.F. CLA.

JUNIORIS

 

E nel medesimo luogo, in un’altra base:

D.M.S.

A. TITINI. FRUCTI.

Che fossero nobilissimi i Titini in Roma lo afferman gli scrittori delle cose romane, e di questa Tito Livio al X accenna un maestro de’ cavalieri. Veggasi Fulvio Orsino De Famil. Roman., con le note di Carlo Patin., il Gandorpio et altri. Della medesima, della Memmia e della Calpurnia, riferendo pur delle inscrizzioni, fa menzione bastante il Giovane, il Grutero nella sua opera celebre e Aldo Manuzio nell’Orthograph., che porta anche delle monete di argento. È indizio chiaro ch’elle fossero trapiantate da Roma in Taranto. Serbo presso di me varie monete di metallo, che coniava Taranto ne’ tempi ne’ quali possedea Signoria sovrana, scoverte nell’anno corrente, scavandosi alcune pietre fondamentali de’ vecchi edifici; et altre ho udito che se ne scuoprano alla giornata. Qualche altra notizia può vedersi nella Descrittione, origine e successi della Provincia di Otranto, descritta da Geronimo Marciano, raccolta da Alfonso Montefuscoli di Cupertino nel 1656, in due volumi in foglio non ancora publicati.

Su l’aurora, per folta nebbia, in dodeci miglia mi condussi a Taranto, osservando fuori per lungo tratto gli archi dell’aquedotto, il bel teatro che forma quella non vasta città, metropoli già della Calabria, Puglia e Lucania, cui scriss’elogio Floro al capitolo 8 del I, ne ricordan Giustiniano al 3, Strabone al 6 e al 3, così Virgilio Hinc sinus Herculei (si vera est Fama) Tarenti. Due son le isole nel mar grande, abitate da’ conigli, sotto il titolo de’ Santi Apostoli Pietro et Andrea, e l’altare ove celebrò il primo, restando fuori fra’ Carmelitani e dentro ne’ Celestini le vaste colonne del tempio di Diana. Vennero a vedermi tutti i Padri della Compagnia, e non più che due, il Provincial de gli Agostiniani con altri, e mi feron concerto i musici forastieri. Mi tolse benignamente da’ Conventuali Monsignor il Vicario Generale Ferrari, conferendo al solito meco di materie di Lettere nel palazzo, ove anche Monsignore l’Arcivescovo Pignatelli mi trattenne in lungo discorso e fé assegnar quarto, con darmi visita e invito alla prossima festa, che con pompa e comedie facea disporre per San Cataldo, la lingua del quale, incorrotta dopo mille anni, tornai ad adorare.

 

Pacichelli, mappe. Per Taranto sono due (1 e 2), la prima con didascalia numerica, non trascura dettagli periferici  che sono assenti,  invece, nella seconda con didascalia alfabetica, più attenta al territorio intra moenia. Le trasformazioni antropiche del territorio succedutesi  dai tempi del Pacichelli mi hanno reso più difficoltosa la consueta operazione di identificazione e comparazione col presente; per questo confido nell’aiuto del lettore per le opportune correzioni e/o integrazioni.

mappa 1
mappa 1
mappa 2
mappa 2
immagine tratta ed adattata da Google Maps
immagine tratta ed adattata da Google Maps
Cattedrale (mappa1/mappa2/ http://it.wikipedia.org/wiki/File:Cattedrale_San_Cataldo_a_Taranto.jpg)
Cattedrale (mappa1/mappa2/ http://it.wikipedia.org/wiki/File:Cattedrale_San_Cataldo_a_Taranto.jpg)
Castello (mappa1/mappa2/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Castello_Aragonese_Taranto.jpg)
Castello (mappa1/mappa2/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Castello_Aragonese_Taranto.jpg)
Cappuccini (mappa1/mappa2/http://www.relaishisto.it/it/posizione/convento-dei-battendieri-066.html)
Cappuccini (mappa1/mappa2/http://www.relaishisto.it/it/posizione/convento-dei-battendieri-066.html)
Porta di Napoli/I  Cittadella col suo cavaliere (mappa1/mappa2/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Ponte_Porta_Napoli_Taranto_1935.jpg)
Porta di Napoli/I Cittadella col suo cavaliere (mappa1/mappa2/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Ponte_Porta_Napoli_Taranto_1935.jpg)
Piazza/Fontana (mappa1/mappa2/http://europaconcorsi.com/albo/50-Ordine-degli-Architetti-Pianificatori-Paesaggisti-e-Conservatori-della-provincia-di-Taranto/projects/192101-Mario-Carobbi-Piazza-Fontana-/print)
Piazza/Fontana (mappa1/mappa2/http://europaconcorsi.com/albo/50-Ordine-degli-Architetti-Pianificatori-Paesaggisti-e-Conservatori-della-provincia-di-Taranto/projects/192101-Mario-Carobbi-Piazza-Fontana-/print)

 

San Domenico (mappa 1/http://it.wikipedia.org/wiki/File:San_Domenico_Taranto.jpg)
San Domenico (mappa 1/http://it.wikipedia.org/wiki/File:San_Domenico_Taranto.jpg)
Santa Theresa/Ospedale militare (mappa 1/immagine tratta ed adattata da Google Maps)
Santa Theresa/Ospedale militare (mappa 1/immagine tratta ed adattata da Google Maps)

 

stemma (mappa 1/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Taranto-Stemma.png)
stemma (mappa 1/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Taranto-Stemma.png)

 

(CONTINUA)

Prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/19/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-114-presentazione/

Seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/23/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-214-alessano/

 

Terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/05/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-314-brindisi/

 

Quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/09/la-terra-dotranto-ieri-414-carpignano/

 

Quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/14/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-514-castellaneta/

 

Sesta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/20/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-614-castro/

 

Settima partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/05/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-714-laterza/

 

Ottava parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/17/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-814-lecce/

 

Nona parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/21/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-914-mottola/

 

Decima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/26/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-1014-oria/

 

Undicesima partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/03/04/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-1114-ostuni/

 

Dodicesima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/03/14/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-1214-otranto/

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1 È contenuto in un frammento degli Hedyphagetica tramandatoci da Apuleio (II secolo d. C.), Apologia, 39: Q. Ennius hedyphagetica versibus scripsit. Innumerabilia genera piscium enumerat quae scilicet curiose cognorat. Paucos versus memini; eos dicam: “Brundisii sargus Bonus est, hunc magnus si erit sume. Apriculum piscem scito primum esse Tarenti” (Quinto Ennio scrisse in versi Ghiottonerie. Enumera innumerevoli specie di pesci che certamente aveva conosciuto da esperto. Ricordo pochi versi, li dirò: “Il sarago di Brindisi è buono, prendilo se è grosso. Sappi che il pesce-cinghiale di Taranto è il primo”).

2 Ex schiavi che, in seguito alle nozze con vedove libere, avevano acquisito il diritto di cittadinanza.

3 Bibliotheca historica, VIII, fr. 21: Οἱ ἐπευνακταὶ θεωροὺς πέμψαντες εἰς Δελφοὺς ἐπηρώτων, εἰ δίδωσιν αὐτοῖς τὴν Σικυνωνίαν. Ἡ δ’ἔφη· Καλὸν τοι τὸ μεταξὺ Κορίνθου καὶ Σικυῶνος·/ἀλλ’οὐκ οἰκήσεις οὐδ’εἰ παγχάλκεος εἴης./Σατύριον φράζου σὺ Τάραντος τ’ἀγλαὸν ὕδωρ/καὶ λιμένα σκαιόν καὶ ὅπου τράγος ἁλμυρὸν οἶδμα/ἀμαγαπᾷ τέγγων ἄκρον πολιοῖο γενέιου·/ἔνθα Τάραντα ποιοῦ ἐπὶ Σατυρίου βεβαῶτα./ Ἀκούσανες δὲ ἐγνόουν· ἡ δὲ φανερώτερον ἔφη· Σατύριόν τοι ἔδωκα Τάραντά τε πίονα δῆμον/οἰκῆσαι καὶ πήματ’Ἰαπύγεσσι γενέσθαι.

4 Graeciae descriptio, X, 10, 6-8: Ταραντίνων δὲ οἱ ἵπποι οἱ χαλκοῖ καὶ αἰχμάλωτοι γυναῖκες ἀπὸ Μεσσαπίων εἰσίν, ὁμόρων τῇ Ταραντίνων βαρβάρων, Ἀγελάδα δὲ ἔργα τοῦ Ἀργείου. Τάραντα δὲ ἀπῴκισαν μὲν Λακεδαιμόνιοι, οἰκιστὴς δὲ ἐγένετο Σπαρτιάτης Φάλανθος. στελλομένῳ δὲ ἐς ἀποικίαν τῷ Φαλάνθῳ λόγιον ἦλθεν ἐκ Δελφῶν· ὑετοῦ αὐτὸν αἰσθόμενον ὑπὸ αἴθρᾳ, τηνικαῦτα καὶ χώραν κτήσεσθαι καὶ πόλιν. Τὸ μὲν δὴ παραυτίκα οὔτε ἰδίᾳ τὸ μάντευμα ἐπισκεψάμενος οὔτε πρὸς τῶν ἐξηγητῶν τινα ἀνακοινώσας κατέσχε ταῖς ναυσὶν ἐς Ἰταλίαν· ὡς δέ οἱ νικῶντι τοὺς βαρβάρους οὐκ ἐγίνετο οὔτε τινὰ ἑλεῖν τῶν πόλεων οὔτε ἐπικρατῆσαι χώρας, ἐς ἀνάμνησιν ἀφικνεῖτο τοῦ χρησμοῦ, καὶ ἀδύνατα ἐνόμιζέν οἱ τὸν θεὸν χρῆσαι· μὴ γὰρ ἄν ποτε ἐν καθαρῷ καὶ αἰθρίῳ τῷ ἀέρι ὑσθῆναι. Καὶ αὐτὸν ἡ γυνὴ ἀθύμως ἔχοντα —ἠκολουθήκει γὰρ οἴκοθεν—τά τε ἄλλα ἐφιλοφρονεῖτο καὶ ἐς τὰ γόνατα ἐσθεμένη τὰ αὑτῆς τοῦ ἀνδρὸς τὴν κεφαλὴν ἐξέλεγε τοὺς φθεῖρας· καί πως ὑπὸ εὐνοίας δακρῦσαι παρίσταται τῇ γυναικὶ ὁρώσῃ τοῦ ἀνδρὸς ἐς οὐδὲν προχωροῦντα τὰ πράγματα. Προέχει δὲ ἀφειδέστερον τῶν δακρύων καὶ—ἔβρεχε γὰρ τοῦ Φαλάνθου τὴν κεφαλήν—συνίησί τε τῆς μαντείας—ὄνομα γὰρ δὴ ἦν Αἴθρα τῇ γυναικί—καὶ οὕτω τῇ ἐπιούσῃ νυκτὶ Τάραντα τῶν βαρβάρων εἷλε μεγίστην καὶ εὐδαιμονεστάτην τῶν ἐπὶ θαλάσσῃ πόλεων. Τάραντα δὲ τὸν ἥρω Ποσειδῶνός φασι καὶ ἐπιχωρίας νύμφης παῖδα εἶναι, ἀπὸ δὲ τοῦ ἥρωος τεθῆναι τὰ ὀνόματα τῇ πόλει τε καὶ τῷ ποταμῷ· καλεῖται γὰρ δὴ Τάρας κατὰ τὰ αὐτὰ τῇ πόλει καὶ ὁ ποταμός.

 

 

 

 

 

 

 

 

La toponomastica della provincia di Taranto in una carta del 1589

di Armando Polito

 

Dopo le province di Lecce e di Brindisi1 è la volta di quella di Taranto ad essere analizzata toponomasticamente in base ai dati forniti dalla stessa carta utilizzata per le indagini precedenti. I tre contributi resteranno visibili per un mese, passato il quale saranno incorporati in uno solo che accoglierà le integrazioni e correzioni che ho già messo da parte, nonché quelle che nel frattempo il benevolo lettore avrà voluto comunicare.

 

Il lettore perdoni la mia debolezza, ma, essendo io nato a Manduria, mi piace dedicarle un po’ più di tempo. Nella mappa si legge un Casalnovo che nella prima stesura di questo ho erroneamente considerato corrispondente a Casalnuovo, nome che Manduria assunse quando venne rifondata nell’XI secolo dopo la distruzione da parte dei Saraceni. Così continuò a chiamarsi fino al 1789, quando per volere di Ferdinando I di Borbone riassunse l’antico nome, del quale riporterò le fonti dopo aver ringraziato Mimmo Ariano, il cui commento inserito nel lavoro relativo alla provincia di Brindisi è stato, sotto questo punto di vista, prezioso perché mi ha fatto notare che, quanto a coordinate geografiche, Casal è più compatibile con Manduria di Casalnovo, che probabilmente è da identificarsi con Torre S. Susanna, in provincia di Brindisi).

Ed ecco le memorie antiche del toponimo:

Tito Livio (I secolo a. C.- I secolo d. C.), Ab urbe condita, XXVII, 15, 4: Q. Fabius consul oppidum in Sallentinis Manduriam vi cepit; ibi ad tria milia hominum capta et ceterae praedae aliquantum. Inde Tarentum profectus in ipsis faucibus portus posuit castra (Il console Quinto Fabio prese con la forza la città di Manduria nei [popoli] salentini; ivi furono catturati circa tremila uomini e fatta altrettanta altra preda. Poi,  partito per Taranto pose l’accampamento proprio all’imboccatura del porto).

Plinio (I secolo d. C.), Naturalis historia, II, 103: In Sallentino iuxta oppidum Manduriam lacum ad margines plenus neque exhaustis aquis minuitur neque infusis augetur (Nel [territorio] salentino presso la città di Manduria [dicono che c’è] un lago pieno fino all’orlo e non si abbassa quando le acque vengono attinte né s’innalza quando vengono versate). Sul Fonte pliniano: https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/07/17/il-caldo-lacqua-e-il-motore-di-ricerca-terza-ed-ultima-era-ora-parte/

Tabula Peutingeriana (IV secolo d. C.),VII,2: Manduris.

 

Stefano Bizantino (V-VI secolo d. C.), Ἐθνικά (leggi Ethnikà, lemma Μανδύριον (leggi Mandiùrion): Μανδύριον πόλις Ἰαπυγίας. Ὁ πολίτης Μανδυρῖνος ὡς Λεοντῖνος (Manduria città della Iapigia. Il cittadino [è detto] mandurino come leontino [da Leontini].

Anonimo Ravennate (VII secolo d. C.), Cosmographia, V, 1: Et si amat lector vel auditor et volunt subtilius scire totas civitates circa litora totius maris magni positas … minutius designemus… Ignatiae, Speluncas, Brindice, Baletium, Lupias, Idrontum, Minervium, Veretum, Baletium, Neretum, Manduris, Tarentum … (E se chi legge o ascolta vuole anche conoscere più precisamente tutte le città poste intorno alle coste di tutto il grande mare … le indicheremo più dettagliatamente … Egnazia, Spelunca, Brindisi, Valesio, Lecce, Otranto, Castro (?), Vereto, Alezio, Nardò, Manduria, Taranto …)

Guidone (XII secolo d. C.), Geographia, 72: Valentium, Lubias ubi nunc est Calipolis, Amandrinum, Saturum, Mesochorus, Tarentum, Metapontus … (Alezio, Lubias dove oggi è Gallipoli, Manduria, Saturo, Mesocoro, Taranto, Metaponto …

L’esistenza di saline a Taranto è attestata in Plinio (I secolo d. C.), Naturalis historia, XXXI, 27: Siccatur in lacu Tarentino aestivis solibus, totumque stagnum in salem abit, modicum alioqui, altitudine genua non excedens, item in Sicilia in lacu qui Cocanicus vocatur et alio iuxta Gelam. Horum extremitates tantum inarescunt sicut in Phrygia, Cappadocia, Aspendi, ubi largius coquitur et usque ad medium. Aliud etiam in eo mirabile quod tantundem nocte subvenit quantum die auferas ([Il sale] viene seccato nel lago tarantino dal sole d’estate e tutto lo stagno si trasforma in sale, peraltro in modica quantità non superando in altezza le ginocchia; parimenti in Sicilia nel lago che è chiamato Cocanico ed in un altro nei pressi di Gela. Le loro superfici seccano come in Frigia, Cappadocia, Aspendo, dove il calore del sole è notevole e penetra nel mezzo. Altra cosa portentosa in questo sale è che di notte se ne riforma tanto quanto ne hai tolto durante il giorno).

XXXI, 29: Marinorum maxume laudatur Cyprius a Salamine, at e stagnis Tarentinus ac Phrygius, qui tattaeus vocatur. Hi duo oculis utiles …Salsissimus sal qui siccissimus, suavissimus omnium Tarentinus atque candidissimus, sed de cetero fragilis qui maxime candidus …  ad medicinae usus antiqui Tarentinum maxime laudabant … (Tra i sali marini viene apprezzato massimamente il ciprio da Salamina ma dai bacini stagnanti il tarantino e il frigio, che si chiama tetteo. Questi due sono utili per gli occhi … È salatissimo il sale che è il più secco, gradevolissimo fra tutti e bianchissimo il tarantino, ma del resto friabile quello che è bianchissimo … gli antichi raccomandavano per uso medicinale soprattutto il tarantino …).

E oggi? Altro che sale medicamentoso! Per saperne di più: http://www.siderlandia.it/?p=2213

Immutati: GROTTAGLIE, SAN VITO (frazione di Taranto), TARANTO.

Non identificati: BAVANIA, LEORTAIA, LEPURANO (per posizione, non può essere LEPORANO; probabilmente, al pari del successivo PURZANO, si tratta di un errore), MORVIGGIO, ORTAIA, PURZANO (per posizione non può essere PULSANO), RUDIA, USANO (SAVA?), P. S. ANDREA (in altre carte S. ANDREA è il nome della più piccola di due isole antistanti il porto; l’altra è indicata con il nome di S. PELAGIA).

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/24/la-toponomastica-della-provincia-di-lecce-in-una-mappa-del-1589-grazie-francia/#comment-7092

https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/03/la-toponomastica-della-provincia-di-brindisi-in-una-mappa-del-1589/

Taranto. Il cappellone di san Cataldo, capolavoro dell’arte barocca

di Angelo Diofano

Noti critici d’arte, tra cui Vittorio Sgarbi, sono concordi nel definire così il cappellone di san Cataldo, vero trionfo del barocco, situato a lato dell’altare principale del duomo di Taranto. È un vero trionfo di affreschi e di marmi policromi, con colori e immagini che s’inseguono e si fondono in un turbinio di emozioni.

Molti interrogativi permangono sulle tappe più importanti della sua storia. I primi passi per la realizzazione dell’opera furono mossi nel 1151 con l’arcivescovo Giraldo I che ordinò la costruzione, (nell’area dell’attuale vestibolo) di una cappella quale dignitosa sepoltura al corpo del Patrono. Nel 1598 mons. Vignati ne ideò la trasformazione, sollecitando l’autorizzazione di Clemente VIII e trasferendovi il sepolcro marmoreo rinvenuto ai tempi del Drogone.

Nel 1658 con l’arcivescovo Tommaso Caracciolo Rossi il cappellone iniziò ad avere il suo assetto definitivo così come siamo abituati a vederlo oggi. I lavori furono proseguiti nel 1665 dall’arcivescovo Tommaso de Sarria, con il contributo generoso di tutta la comunità. L’ultimo tocco, nel 1759 con l’arcivescovo Francesco Saverio Mastrilli che fece realizzare l’artistico cancello di ottone.

Alla cappella vera e propria, di forma ellittica, si accede dal vestibolo quadrangolare, in un ambiente reso suggestivo da giochi di marmi verdi e gialli che si alternano alle belle volute bianche ad intarsio delle quattro porticine.

Le statue di san Giovanni Gualberto a destra e di san Giuseppe a sinistra sono opera dello scultore napoletano Giuseppe Sammartino. L’organo, collocato al piano superiore, è del 1790, opera di Michele Corrado, in sostituzione di quello più antico, realizzato dal leccese Francesco Giovannelli, distrutto in un incendio.

Nel cappellone attirano l’attenzione i coloratissimi marmi intarsiati alle pareti, fatti porre dall’arcivescovo Lelio Brancaccio nel 1576, probabilmente ricavati dalle rovine degli edifici classici, sparse in gran quantità nel sottosuolo. Lo sguardo poi si perde in alto, verso l’affresco della cupola, dove il vescovo irlandese è ritratto nella gloria dei santi. Neppure dopo l’ennesima visita è possibile abituarsi a tanta bellezza.

L’opera fu commissionata nel 1713 dall’arcivescovo Giovanni Battista Stella all’artista napoletano Paolo De Matteis, allievo di Luca Giordano, per un compenso di 4.500 ducati. Ne La gloria di san Cataldo (così s’intitola l’opera) il vescovo irlandese appare inginocchiato di fronte a Maria Santissima che lo invita ad accostarsi al trono di Dio; la scena è sovrastata dalla Santissima Trinità attorniata dagli angeli mentre in basso appare la folla dei santi, soprattutto francescani e domenicani, appoggiati su nuvole rocciose nell’atto di scalare la montagna dell’Empireo.

I sette affreschi del tamburo ritraggono, invece, gli episodi più importanti vita di san Cataldo. A partire da sinistra: la resurrezione di un operaio addetto ai lavori di scavo delle fondazioni di un tempio alla Vergine, finito sotto le macerie; il ritorno alla vita di un bambino in braccio alla madre; il cieco guarito all’atto del Battesimo; San Cataldo mentre prega sul sepolcro di Gerusalemme e che riceve l’ordine di recarsi a Taranto; il ritorno della voce a una pastorella muta mentre indica all’illustre pellegrino la strada per la città ionica; la liberazione di una fanciulla indemoniata mentre è in preghiera davanti alle spoglie mortali del santo. L’affresco di fronte all’altare mostra infine san Cataldo mentre predica al popolo tarantino.

Di pregevole fattura anche le dieci statue di marmo, collocate nel in apposite nicchie, di epoche e autori differenti. Da destra a partire dall’ingresso, raffigurano nell’ordine: san Marco, santa Teresa d’Avila, san Francesco d’Assisi, san Francesco di Paola, san Sebastiano, sant’Irene, san Domenico e san Filippo Neri. Ai due lati dell’immagine del Patrono appaiono i simulacri di san Pietro e di san Giovanni. Secondo una suggestiva ipotesi, ancora tutta da avvalorare, pare che questi ultimi due fossero di antica fattura greca (naturalmente in seguito adattati alla fede cristiana) e che rappresentassero rispettivamente Esculapio ed Ercole.

Visibile attraverso una grata marmorea e finestrelle laterali, la tomba del Santo è posta all’interno dell’altare marmoreo. Quest’ultimo fu realizzato nel 1676 da Giovanni Lombardelli, artista di Massa Carrara, impreziosito da madreperle e lapislazzuli. Alzato su tre gradini, ha struttura lineare caratterizzata da un decorativismo dei marmi ora finissimo nei ricami dei gradini del postergale e del paliotto, ora nervoso nelle ornamentazioni scultoree dei putti capialtare.

Le decorazioni marmoree, tutte policrome, hanno temi diversi; sui due pilastrini laterali vi sono gli stemmi, dai vivissimi colori arricchiti da inserti di madreperla, del capitolo e della città di Taranto, committenti dell’opera.

Sul ciborio lo stemma con le tre pignatte del vescovo Francesco Pignatelli, a testimonianza del suo intervento all’abbellimento della cappella avvenuto nel 1703.

Sovrastante l’altare, ecco la nicchia ove è posto l’argenteo simulacro di san Cataldo, il quarto nella storia di Taranto. Di una prima statua di san Cataldo si iniziò a parlare nel 1346 quando l’arcivescovo Ruggiero Capitignano-Taurisano, accogliendo le richieste della popolazione, volle realizzarla con l’argento del sarcofago, ove nel 1151 il suo successore, Giraldo I, volle riporre il corpo del Santo. Il prezioso metallo fu però insufficiente per un simulacro completo, tanto da costringere a ripiegare su un mezzo busto.

Per il completamento della statua si attese il 1465, anno in cui la città fu liberata dal flagello della peste. Il merito fu attribuito all’intercessione di san Cataldo, tanto che l’intera popolazione a gran voce chiese il completamento del simulacro. Il sindaco Troilo Protontino indisse perciò una sottoscrizione che ebbe l’effetto auspicato, con l’allungamento del mezzobusto. La statua fu rifatta ad altezza d’uomo (sette palmi) a spese della civica università con l’esazione del catasto e con il personale contributo dell’allora sindaco Troilo Protontino. Pareri contrastanti, nel tempo, accompagnarono l’esistenza di quella statua. La popolazione vi era affezionata in quanto realizzata con l’argento ricavato dal sarcofago che aveva toccato il corpo del Patrono. Inoltre il volto del Santo era di grande espressione, tanto che i devoti lo credettero finito per mano angelica. Altri però ritenevano l’opera dalle forme troppo rigide e stilizzate, in quanto proveniente da un mezzobusto. Senza contare che le ripetute riparazioni e le aggiunte in breve lo ridussero in condizioni davvero pietose.

Fu così che nel 1891 l’arcivescovo mons. Pietro Alfonso Jorio commissionò la nuova statua d’argento all’artista Vincenzo Catello dell’istituto Casanova di Napoli. L’artista completò il lavoro in appena sei mesi. Furono impiegati oltre 43 kg di argento, di cui 37 provenienti dalla vecchia immagine. La statua era smontabile per facilitare le operazioni di pulitura e lucidatura. Il simulacro giunse il 7 maggio del 1892 alla stazione ferroviaria di Taranto da dove, dopo la solenne benedizione, fu portato in grande processione fino alla cattedrale. L’opera piacque per la perfezione della lavorazione e l’espressione del viso.

Così descrivono le cronache dell’epoca: “L’argenteo simulacro di san Cataldo misura due metri in altezza: il patrono è in atto di camminare, con la destra benedicendo la città che gli è fedele, mentre con la sinistra stringe il pastorale… Indovinatissimi la posa e l’atteggiamento… Assai bello il panneggiamento della pianeta della stola, il merletto del piviale, il camice che sembra cesellato”. Gli occhi, poi, neri e lucenti da sembrar veri; questo grazie alla devozione di una nobildonna tarantina che in periodo più recente donò alla cattedrale due artistici e preziosi spilloni a testa nera (forse di onice) e con al centro una piccolissima pietra preziosa da far pensare a una pupilla. Un’opera, insomma, vanto dell’intera comunità ma destinata a durare non per molto.

Nella notte fra il primo e il 2 dicembre del 1983, mentre imperversava il maltempo, la statua fu rubata assieme a molti altri reperti (candelieri, calici, reliquiari ecc.). Qualche anno dopo, grazie alla soffiata di un recluso tarantino, gli autori del furto (quattro napoletani specializzati in furti nelle chiese) furono arrestati e condannati, ma della statua non fu possibile recuperare nulla in quanto fusa e ridotta in lingotti. Un’impresa davvero poco fruttuosa e per giunta finita male per i malfattori ma ancor più per la comunità, privata di uno dei suoi simboli più importanti.

L’attesa per una nuova statua, la terza della storia, non durò a lungo. Il 14 gennaio ’84 l’arcivescovo Guglielmo Motolese incaricò un apposito comitato presieduto dal priore del Carmine, Cosimo Solito, di provvedere in merito.

Fu contattato l’artista grottagliese Orazio Del Monaco, che approntò in breve il bozzetto in argilla. Valutate alcune proposte, si decise di realizzare il nuovo San Cataldo in ottone e di rivestirlo in argento (tranne testa, mani e braccia che furono interamente di quel metallo prezioso) donato dagli orafi tarantini (in tutto ben 35 kg). Finalmente l’opera fu completata. Il volto era quello felice del pastore che finalmente torna dal suo gregge dopo l’esilio. Molti però non furono d’accordo con quella scelta perché avrebbero preferito la copia conforme a quella derubata. Portata in un furgone a Palazzo del Governo, l’8 settembre del 1984 alla rotonda del lungomare la nuova statua fu ugualmente accolta da una gran folla festante; nella stessa sera si svolse quella processione a mare che non poté aver luogo nel maggio precedente. Ma tanti non si riuscivano a rassegnare, ostinandosi a fantasticare sul san Cataldo di Catello esposto nella residenza di qualche emiro amante delle opere d’arte e chissà un giorno da recuperare: tanto era anche il sogno dell’allora parroco della cattedrale mons. Michele Grottoli.

Ben presto si dovette fare i conti con l’eccessivo peso del manufatto. Le operazioni concernenti lo spostamento dalla nicchia in preparazione ai solenni festeggiamenti di maggio destavano parecchie preoccupazioni per l’incolumità sia degli addetti sia dei preziosi marmi dell’altare. Inoltre ci voleva la gru per le complicate e laboriose operazioni di imbarco e di sbarco sulla motonave per il giro dei due mari. Così dopo vent’anni dall’arrivo dell’opera di Del Monaco si cominciò a pensare a una nuova statua.

L’arcivescovo mons. Benigno Luigi Papa accolse la proposta dell’arcidiacono mons. Nicola Di Comite che, agli inizi del 2001, dette il via all’operazione “Una goccia d’argento per la nuova statua di San Cataldo”, per la raccolta del prezioso metallo. I tarantini aderirono generosamente all’iniziativa, donando medagliette, catenine ed oggetti fra i più disparati. La realizzazione del simulacro fu affidata all’artista Virgilio Mortet, del laboratorio di Oriolo Romano (Viterbo).

Sue opere si trovano nei Musei Vaticani e in chiese, conventi e gallerie d’arte; per la cattedrale di Osimo eseguì un artistico sarcofago per custodire le reliquie di san Giuseppe da Copertino e una sua croce pettorale di ottima fattura fu donata a Giovanni Paolo II. A Mortet fu posta solo una condizione: che le sembianze della statua fossero, finalmente, quanto più possibile simili a quelle dell’opera di Catello. L’iniziativa ebbe buon fine. Così il 4 maggio del 2003 il nuovo san Cataldo (fuso in un unico pezzo) fu pronto e arrivò via mare alla banchina del castello aragonese. Tanta gente, affacciata su corso Due Mari, partecipò alla cerimonia. Ancor più massiccia fu l’affluenza di popolo alle successive processioni a mare e a terra, porgendo così il più caloroso benvenuto alla nuova effige del santo Patrono.

Una grande manifestazione di fede che continua a mantenersi inalterata ogni anno nei tradizionali festeggiamenti di maggio.

Giuseppe Manzo (1849-1942) e la cartapesta leccese (quinta e ultima parte)

Biglietto da visita del maestro Giuseppe manzo con l’insegna reale concessagli dal re Umberto I
Biglietto da visita del maestro Giuseppe manzo con l’insegna reale concessagli dal re Umberto I

 

di Cristina Manzo

Le statue dei misteri di Taranto

Nell’ottobre del 1900 il consiglio di amministrazione della confraternita del Carmine di Taranto decise di sostituire tre statue della processione dei misteri[1],ormai deteriorate, con tre  nuove raffiguranti gli stessi momenti della passione di Cristo: la Colonna, l’Ecce Homo e la cosiddetta Cascata.

La scelta per l’esecuzione di quei lavori cadde su uno dei più noti artisti cartapestai dell’epoca, già più volte premiato in Italia e all’estero, Giuseppe Manzo, che consegnò personalmente quelle tre statue nei primi mesi del 1901. Il maestro aveva cercato inutilmente di sottrarsi a quell’impegno (viaggiare sino a Taranto per la consegna):

 

“Ill.mo signore – aveva scritto il 15 febbraio 1901 al priore della confraternita – essendo che le statue dei misteri sono per finirsi, e per la fine del mese o forse prima saranno pronte, vi scrivo la presente per sapere se i splendori per le stesse li dovrò far fare io o ve ne occuperete voi stesso. Di più, trovandomi affollato di lavoro vi domanderei se fosse possibile di risparmiarmi la venuta e se al contrario potesse venire qualcuno della commissione per consegnarle, altrimenti sospenderò io e verrò. In attesa di leggervi al riguardo con stima vi saluto.”

 

Manifesto pubblicitario del reale laboratorio di Giuseppe Manzo
Manifesto pubblicitario del reale laboratorio di Giuseppe Manzo

Ma nonostante la richiesta, nessuno si era fatto vivo, sicché imballatele a dovere, il maestro fece trasportare le statue alla stazione di Lecce e da qui, dopo averle fatte caricare su un vagone merci, partì alla volta di Taranto[2]

Per la realizzazione di quelle tre statue il cartapestaio aveva chiesto un compenso complessivo di 650 lire, e  quando il priore e quelli che erano con lui, al momento della consegna ammirarono i capolavori, non si pentirono per un attimo della scelta compiuta. Correvano felici da una all’altra osservando con gioia tutti i bellissimi particolari, che confermavano il capolavoro che il professore aveva compiuto. Qualche giorno dopo, esattamente il 19 marzo 1901, nel redigere il rendiconto degli introiti e delle spese riportate per l’acquisto delle nuove statue, l’allora segretario del Carmine, Luigi De Gennaro, avrebbe infatti testualmente annotato: “Per le nuove statue dei sacri misteri. Costo e spese di trasporto al Prof. Giuseppe Manzo di lecce, giusta sua quietanza, lire 700.”[3]  Leggendo il libro di Caputo, inoltre veniamo a conoscenza di due curiosi aneddoti su questi lavori, che riguarderebbero il Cristo alla colonna. Durante la sua realizzazione in laboratorio, infatti, il Manzo si accorse dell’errore che era stato fatto dai committenti, pretendendo che il Cristo durante la flagellazione dovesse avere la corona di spine in testa, mentre in realtà, questa riguardava una fase successiva, e poiché  era molto preciso sui suoi manufatti, la cosa rappresentava un grosso problema, ma quando anche nella riconferma della commissione del 2 novembre 1900, furono ripetute quelle condizioni, egli decise di rassegnarsi.

La confraternita, sempre per la realizzazione di questa statua, aveva fornito al Manzo un’immagine per altro riuscita piuttosto male e in bianco e nero che illustrava l’originale colonna di santa Prassede a Roma, quella a cui  Gesù, fu legato, nel cortile della fortezza Antonia, il Pretorio di Pilato in Gerusalemme, per la flagellazione.

 

Il Cristo alla colonna di Giuseppe Manzo
Taranto, Cristo alla colonna Giuseppe Manzo, 1901

Non potendo individuare in alcun modo il colore, il Manzo abbondò con il verde, mentre la colonna originale è di marmo diaspro, proveniente da una roccia calcarea che assume colorazioni che vanno dal bianco al bruno. Nella colonna Gesù ha le mani legate dietro la schiena. Una cordicella gli tiene uniti i polsi, che a un primo sguardo non sembrano legati alla colonna, il Cristo dà l’impressione di essere solo poggiato ad  essa, ma così non è. Una colonna bassa che assomigliasse a quella originale così come l’avevano voluta quelli della confraternita, dava non pochi problemi, su come poter legare le mani alla stessa, ed era impensabile che anche all’epoca della flagellazione Cristo non fosse stato legato.

 

“Ecco allora che il Manzo s’inventò letteralmente l’anello di ferro al centro della parte superiore della colonna e attraverso quell’anello fece passare a più giri la cordicella che stringeva i polsi di Gesù. Dico s’inventò, perché il cartapestaio leccese non poteva aver visto su  una figura degli inizi del secolo un anello che nella colonna che si conserva a S. Prassede non è visibile neppure oggi. Ma fece bene il maestro, forse fu l’intuito a guidarlo. Certo non gli mancava la fantasia[…] Due piccoli capolavori impreziosiscono questa statua: quelle mani legate dietro la schiena che sembrano quasi parlare e il merlettino che orna il perizoma di Gesù. Due capolavori firmati Giuseppe Manzo.”[4]

Nella seconda statua realizzata, quella dell’Ecce Homo, ancora una volta il maestro, in maniera impareggiabile, esprime tutta la sua abilità nel catturare la storia e l’emotività del personaggio. Abbiamo un Gesù che, dopo la sofferenza della flagellazione, sa che sta andando incontro alla sua fine, non si aspetta più niente dalla crudeltà degli uomini, non guarda la folla, non guarda Pilato, cammina ad occhi bassi verso il suo destino, i capelli sono intrisi di sangue, che da una spalla, in tante pieghe sapientemente ondulate dal Manzo, cola in rivoli.. Nelle mani legate stringe una canna, lo scettro che gli hanno regalato i soldati. Non gli interessa ciò che accade intorno a lui.

 

Taranto, Ecce Homo, Giuseppe Manzo 1901
Taranto, Ecce Homo, Giuseppe Manzo 1901

 

Ma fu nella Cascata che il maestro raggiunse il massimo della sua arte. Qui non solo era chiamato a modellare un Gesù steso per terra e schiacciato dal peso che portava addosso, ma doveva anche fare i conti con quella tunica, creando ora le pieghe della spalla sulla quale poggiava la croce, ora quelle della spalla libera, poi ancora le pieghe delle lunghe maniche, e infine quelle che scendevano lungo il corpo di Gesù, tenendo presente che la cordicella che stringeva la vita del Cristo, accresceva le arricciature che diventavano piccole, grandi, fluenti…

Il Manzo seppe raggiungere magnificamente lo scopo, ma dovette anche far ricorso alla sua ben nota pazienza, facendo e rifacendo chissà quante volte quelle pieghe e usando continuamente i ferri arroventati per focheggiare, segnare, correggere e perfezionare ondulazioni e arricciature. Gli occhi di Gesù, nella cascata, ricordano molto da vicino quelli della Colonna. Sembrano due sguardi identici, tanto che separando e isolando  gli occhi dal resto dei due volti, si ha difficoltà  a identificare a quale statua essi appartengano. Anche qui, gli occhi sono rivolti a sinistra verso l’alto e sembrano quasi voler esprimere un’invocazione di pietà da parte di Gesù nei confronti dei soldati. Tornano evidenti i segni del dolore fisico, e della fatica già presenti nella Colonna; ma si ha anche l’impressione che nella cascata l’artista abbia voluto mettere sul volto di Gesù più uno sguardo di giustificazione che di pietà. Giustificazione per quella caduta accidentale, avvenuta contro la volontà del Cristo, per aver causato un grattacapo al centurione. Gesù alzando la testa sembra voler chiedere perdono, come a dire che la sua caduta era dovuta alle sue precarie condizioni fisiche, non voleva rallentare, il suo cammino verso la crocifissione.

 

“La statua insomma doveva anche parlare., ed egli in questo senso era un innovatore. Non realizzava soltanto delle figure, ma cercava, nei volti dei suoi Gesù e dei santi, anche la parola, la comunicazione. Chi osservava, non doveva soltanto vedere, ma anche ascoltare, capire sino in fondo il soggetto rappresentato. Con il Manzo possiamo dire che la cartapesta leccese voltò pagina.”[5]

 

Taranto, La Cascata, Giuseppe Manzo 1901
Taranto, La Cascata, Giuseppe Manzo 1901

 

Taranto, Particolare degli occhi del Cristo alla Colonna, Giuseppe Manzo 1901
Taranto, Particolare degli occhi del Cristo alla Colonna, Giuseppe Manzo 1901

 

Oggi, la cartapesta leccese non è più quella di ieri. C’è ancora qualche bottega che resiste qua e là, ma quella lavorazione, scrupolosa, paziente, emotiva, che apparteneva ai cartapestai di una volta non esiste più. Tranne pochissime eccezioni, laddove qualcuno ha appreso la tecnica dal padre o dal nonno, da qualche maestro di una volta, l’arte dell’unicità ha ceduto il passo all’industrializzazione, i santi si fabbricano in serie, con le forme e paiono tutti uguali, senza un’espressione propria che li identifichi, senza un’anima che possa trasmetterci emozioni. Alcuni tra i giovani si sentono protagonisti di una fondamentale operazione di recupero e parlano di una nuova forma di ispirazione, quasi inconscia, dalle loro botteghe nel centro storico della città. Cercano una chiarificazione del proprio ruolo artigianale, dove la cartapesta non rappresenta un inutile revival, ma nemmeno la rottura con la tradizione, ci ricordano che le botteghe artigiane[6],

 

“possono ancora costituire la linfa per la rinascita di un centro storico tra i più belli di tutto il sud, dove i laboratori anche all’esterno, mantengono il rispetto della linea architettonica del vecchio borgo, l’anima della città, la sua filosofia di vita”.[7]

 

Ma c’è anche a Lecce, in Puglia, in Italia, nel mondo, tutto un patrimonio della cartapesta da salvaguardare e da valorizzare. Si tratta di autentici capolavori che hanno segnato un’epoca e dei quali si potrebbe tentare una non impossibile, anche se difficile catalogazione generale.[8]

 

Lecce, centro storico. Il palazzo a due piani, che si affaccia sul monumentale teatro greco, fu l’abitazione di Giuseppe Manzo, a due passi dal suo reale laboratorio, oggi proprietà del nipote Dino Manzo
Lecce, centro storico. Il palazzo a due piani, che si affaccia sul monumentale teatro greco, fu l’abitazione di Giuseppe Manzo, a due passi dal suo reale laboratorio
Lecce, centro storico, la via dell’abitazione che fu di Giuseppe Manzo
Lecce, centro storico, la via dell’abitazione che fu di Giuseppe Manzo

La nostra città, fiera dei suoi artisti e della sua storia, ha inaugurato nel  dicembre 2009, il Museo della Cartapesta.[9] Esso  rispecchia la storia di un’arte che si intreccia con la storia della città, fin dal diciottesimo secolo. La statuaria in cartapesta, nel solco dell’influenza partenopea, è un tratto distintivo della cultura salentina. Nelle diverse sale al pianterreno del Castello di Carlo V, si ripercorrono le tappe di un’arte, a torto, considerata minore.

Come affermava G. Klimt: “Chiamiamo artisti non solamente i creatori, ma anche coloro che godono dell’arte, che sono cioè capaci di rivivere e valutare con i propri sensi ricettivi le creazioni artistiche”.

 

 

Bibliografia

Bambi E., Quando la cartapesta si trasforma in arte, in “Tempo” 20 agosto 1982Da «L’Ordine» – Settimanale Cattolico Salentino, 10 gennaio 1942

Barletta R., Appunti e immagini su cartapesta, terracotta, tessitura a telaio, Fasano, 1981

Bazzarini A., Dizionario enciclopedico delle scienze, lettere ed arti, Francesco Andreola, Venezia 1830-1837

Caputo N., Quei tre fratelli di nome Gesù – le statue di Giuseppe Manzo nella processione dei misteri di Taranto, Scorpione editrice s.r.l., Martina Franca 1991

Castromediano S., L’arte della cartapesta in Lecce, in “corriere meridionale”, IV, n 17, Lecce, 1893

De Marco M., Catalogo delle opere sacre in cartapesta conservate presso la chiesa e il convento dei padri passionisti , in “ I Passionisti a Novoli. 1887-1997”, Manduria, 1987

De Marco M., La cartapesta leccese, Edizioni del Grifo, 1997

I PP. PP. A Novoli 1887-1987, (Lecce) 1894

L’ultima cartapesta, divagazioni su Lecce settecentesca ed una poesia di Vittorio Bodini. Quaderni della banca del Salento, n. 1, a cura di Franco Galli, 1975

Marti P.,  La modellatura in carta, Tip. Ed. Salentina, Lecce 1894. (opuscolo)

Natale, storia, racconti, tradizioni. Paoline,  2005

Lazzari G., in Anxa, anno X, n. 56, maggio-giugno 2012 , Associazione culturale Onlus, Gallipoli (Le)

Ragusa C., Guida alla cartapesta leccese. La storia, i protagonisti, la tecnica, il restauro. A cura di Mario Cazzato, congedo editore,1993

Ròiss (Franco Rossi) Cartapesta e cartapestai, Maestà di Urbisaglia, Macerata 1983

Rossi E., Bruceremo i santi di carta, in “ La tribuna del Salento ” anno 2, Lecce, 1960

Sabato A. (a cura di) Costumi, cartoline, cartapesta, Lecce, 1993

Solombrino O., Serrano Microstorie Ricordi sentimenti a cura di S. Solombrino, Congedo, Galatina 2005

Tragni B., Artigiani di Puglia(con un saggio di A, Contenti) Adda editore, Bari, 1986Rossi E.,Un’arte senza domani vive la sua agonia: la statuaria leccese, in “ La tribuna del Salento” anno I,Lecce, 1959

Valegentina L., La cartapesta leccese e i suoi cultori, in « Il Lavoro Nazionale », Anno I, n. 2-3, Bari, 1915

Valgentina L., Muse, De Agostini, Novara 1965, vol. III

Wikipedia, l’enciclopedia libera

 

Sitografia

Francesco Castromediano, www.antoniogarrisiopere.it

Gli artisti della cartapesta leccese nella pubblicistica salentina www.culturaservizi.it

Il Cristo morto, www.brindisiweb.it

Museo della cartapesta, www.quisalento.it

Santa Trinità, www.sstrinita.manduria.org

Settimana Santa di Taranto, it.wikipedia.org/wiki/Settimana_Santa_di_Taranto


[1] I riti della Settimana Santa di Taranto sono un evento che si svolge nella città a partire dalla Domenica delle Palme, e risalgono all’epoca della dominazione spagnola nell’Italia meridionale. Furono introdotti a Taranto dal patrizio tarantino Don Diego Calò, il quale nel 1603, fece costruire a Napoli le statue del Gesù Morto e dell’Addolorata. Nel 1765 il patrizio tarantino Francesco Antonio Calò, erede e custode della tradizione della processione dei Misteri del Venerdì Santo, donò alla Confraternita del Carmine le due statue che componevano la suddetta processione, attribuendole l’onore e l’onere di organizzare e perpetrare quella tradizione cominciata circa un secolo prima. Nel corso del tempo a queste due statue donate se ne aggiunsero altre sei, per arrivare a un totale di otto statue.( Tre di queste sono quelle rifatte dal Manzo nel 1901. In occasione del centenario della sua realizzazione e consegna, nel 2001, durante la processione dei misteri, fu assegnata una targa in ricordo del grande maestro cartapestaio, al nipote Dino.) Questa processione esce alle cinque del pomeriggio del giovedì Santo dalla chiesa del Carmine, e si conclude alle cinque del venerdì, rientrando nella stessa chiesa, portando le statue che simboleggiano la passione di Gesù. I confratelli sono vestiti con l’abito tradizionale dei Perdoni e procedono a ritmo lentissimo accompagnati dalle marce funebri. La processione è composta dalla Troccola, strumento che apre la processione, il Gonfalone ovvero la bandiera della confraternita, la Croce dei misteri, il Cristo all’Orto, la Colonna, l’Ecce Homo, la Cascata, il Crocifisso, la Sacra Sindone, il Gesù Morto, l’Addolorata (appena essa esce sulla piazza, verso le otto di sera, si chiude il portone del Carmine). È accompagnata da tre bande che suonano marce funebri, ed effettua durante il percorso una sosta nella chiesa di San Francesco da Paola. Vi erano inoltre tre coppie di poste sistemate davanti alle statue, divenute quattro a partire dal 2012 e sette Mazze che hanno il compito di mantenere ordinata la processione e di sostituire i confratelli in caso di necessità. Fonte: it.wikipedia.org/wiki/Settimana_Santa_di_Taranto

[2] Nicola Caputo, Quei tre fratelli di nome Gesù – le statue di Giuseppe Manzo nella processione dei misteri di Taranto, Scorpione editrice s.r.l., Martina Franca 1991, p. 9

[3] Archivio confr. del Carmine, Taranto, fascicolo corr. con G. Manzo, rendiconto 1901, in Nicola Caputo, Quei tre fratelli di nome Gesù – le statue di Giuseppe Manzo nella processione dei misteri di Taranto, Scorpione editrice s.r.l., Martina Franca 1991, p.27

[4] Nicola Caputo, Quei tre fratelli di nome Gesù – le statue di Giuseppe Manzo nella processione dei misteri di Taranto, Scorpione editrice s.r.l., Martina Franca 1991, pp. 39, 41, 51, 53, 107, 110

[5] Idem, p. 120

[6] Bianca Tragni, Artigiani di Puglia (con un saggio di A, Contenti) Adda editore, Bari, 1986, p. 321

[7] Da una intervista di E. Bambi, Quando la cartapesta si trasforma in arte, in “Tempo” 20 agosto 1982, p. 2

[8] Nicola Caputo, Quei tre fratelli di nome Gesù – le statue di Giuseppe Manzo nella processione dei misteri di Taranto, Scorpione editrice s.r.l., Martina Franca 1991, p. 142

[9] Caterina Ragusa, è la  direttrice del Museo, e Tina De Leo, è la  responsabile Eventi del Castello Carlo V. Ci sono sette sale al primo piano, tre al piano terra, tra cui il laboratorio di restauro della cartapesta. Complessivamente la struttura raccoglie 80 opere, tutte d’ispirazione cristiana, realizzate da grandi maestri cartapestai leccesi intorno al 1700. www.quisalento.it

 

Per la prima parte: 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/09/giuseppe-manzo-1849-1942-e-la-cartapesta-leccese-prima-parte/

Per la seconda parte:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/12/giuseppe-manzo-1849-1942-e-la-cartapesta-leccese-seconda-parte/

Per la terza parte:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/15/giuseppe-manzo-terza-parte/

Per la quarta parte:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/18/giuseppe-manzo/

 

Un’ inedita veduta settecentesca di Taranto in un dipinto di Paolo De Falco

Assunzzione di Maria-Paolo De Falco-336x195

di Nicola Fasano

La Casa professa dei Gesuiti a Grottaglie custodisce numerosi dipinti di eccezionale pregio. Alcuni di essi, come lo Sposalizio mistico di Santa Caterina di Andrea Vaccaro, sono un prezioso dono di Ferdinando II di Borbone che visitò i luoghi in cui era nato e cresciuto San Francesco De Geronimo. Altre tele provengono, invece, dal santuario della Madonna della Salute, chiesa per lungo tempo retta dall’ordine. Tra queste, oltre ai dipinti del celebre Paolo De Matteis, bisogna soffermarsi su una tela poco studiata, firmata da un allievo del pittore Francesco Solimena: Paolo De Falco.

Il quadro di grande formato (236 x 195), collocato in un corridoio della dimora gesuitica, raffigura L’Assunzione di Maria. Il tema iconografico è incentrato sul rapimento in cielo di Maria, in anima e corpo, tre giorni dopo la morte. Il termine (dal latino “adsumere”) indica che fu portata in cielo dagli Angeli, come mostra la tela.

L’Assunzione non trova basi nelle Sacre Scritture, ma soltanto negli scritti apocrifi del III-IV secolo e, nella tradizione della Chiesa cattolica. Solo nel 1950, l’Assunzione venne proclamata articolo di fede da Papa Pio XII. Il nostro dipinto riprende l’iconografia controriformistica, che avrà il suo apice in epoca barocca, con alcune varianti significative che andremo a descrivere. Nella parte superiore della composizione Maria, con il braccio destro sul petto e lo sguardo rivolto in alto, assume l’atteggiamento estatico di devota fiducia nella volontà divina. Intorno, paffuti angioletti sospingono senza alcuno sforzo i nembi sui quali si erge la Madonna, mentre un altro angelo solitario si appresta a coronarla con una ghirlanda di rose.

La composizione, smorzata da tinte basse, si accende con gli incarnati dei putti, il fluente mantello  azzurro della Vergine che contrasta con la veste rosacea, e gli svolazzanti panneggi degli angeli. Le figure sono risaltate da delicate trame chiaroscurali che lambiscono i volti e torniscono plasticamente i corpi. L’Assunta con il gruppo di angeli è stata replicata scolasticamente in un dipinto di fine XVIII sec. raffigurante l’Immacolata e Santi, custodito nella Matrice di Montemesola. Quest’ultima tela, commissionata probabilmente dai Saraceno, feudatari di Montemesola, si accomuna al nostro dipinto, per una interessante veduta del paese.

Infatti nel dipinto grottagliese, al posto del sarcofago aperto, dal quale la Vergine viene rapita per essere portata in cielo, si dispiega la vista di una città e sull’estrema destra un picco roccioso in primo piano, consente al pittore di apporre la propria firma : P. De Falco P. (..ingebat).

firma del pittore

Paolo De Falco nativo di Napoli nel 1674, secondo il biografo degli artisti napoletani Bernardo De Dominici, fu “degnissimo sacerdote”. Il pittore, infatti, fu un chierico che aveva seguito studi di logica presso i Gesuiti,  per poi dedicarsi all’arte pittorica presso la prestigiosa scuola di Francesco Solimena. Un pittore diligente che si distingueva in termini celebrativi e puristici, come si evince dal nostro quadro, al quale era difficile chiedere temi di carattere laico e profano. La sua produzione artistica, secondo il Prof. Pavone, si concentrò nei centri periferici tra i quali Taranto, dove il De Dominici registra una “Sant’Irene, che il pittore mandò nella città di Taranto”, che il  Pavone giustamente riconosce nella nostra tela. Lo studioso attesta l’opera intorno ai primi anni ‘30 del Settecento, “in quel processo di ridefinizione in chiaro delle forme” che fa dell’opera una composizione devota e “pulita” in linea con i dettami dei Gesuiti, committenti dell’opera.

Pavone, inoltre, riconosce nel pittore la nettezza delle forme, la pacatezza nei gesti e nei volti che aderiscono al clima arcadico del Solimena dei primi del Settecento, mettendo in relazione l’Assunta tarantina con il San Martino e la Madonna di Cerreto.

Sul dipinto interviene anche il Prof. Galante, che nel volume “Questioni Artistiche Pugliesi”, nell’introdurre la figura di Giovan Battista Lama, accenna fugacemente al nostro dipinto, il quale, insieme a quelli del Lama e del De Matteis, costituivano il patrimonio pittorico della chiesa di Monteoliveto, poi Madonna della Salute.  Sia Galante, sia Pavone, non accennano minimamente al paesaggio in basso a sinistra, e solo nella scheda di catalogazione del quadro per i volumi di Iconografia Sacra a Taranto, dopo avere fornito i dati essenziali dell’opera, chi redige la scheda, si sofferma brevemente sulla veduta.

altra veduta

Analizzando il paesaggio, emergono novità che possono essere molto interessanti. La tela molto rovinata nella parte inferiore, mostra una città che sembra essere Taranto, e quale migliore occasione se non quella di farla proteggere dall’Assunta, patrona di Taranto, a cui è dedicata la Cattedrale, insieme a San Cataldo?

A conferma di questa tesi, concorrono una serie di fattori che andremo a descrivere.

particolare

La città presenta una veduta dal Mar Piccolo inquadrata nel tradizionale N-W (nord-ovest),  similare alla descrizione calligrafica del pittore Coccorante nella pala di Mastroleo in San Domenico. Facilmente riconoscibile all’estremità  destra, il ponte del fosso dalle quattro arcate e il castello aragonese con le sue torri. Nella parte centrale si distingue a fatica l’abitato costituito da  casupole con tetti spioventi, alcune chiese con campanili svettanti, tra le quali il Duomo con il tiburio circolare e il campanile romanico visto su due lati. Nell’estremità destra si scorgono la cittadella fortificata, la torre di Raimondello Orsini e il ponte di Porta Napoli con cinque arcate, invece delle sette tradizionali.

particolare della veduta con la torre di Raimondello
particolare della veduta con la torre di Raimondello

Non mancano le relative fortificazioni sul Mar Piccolo, con la cinta muraria e il torrione. Naturalmente il pittore, anche con qualche incongruenza, dà una visione idealizzata della città, con i ponti di accesso, le chiese, le torri, le cose essenziali che caratterizzano l’abitato settecentesco. Non meno significativa è la presenza dei due vessilli sulle torri, che con un po’ di immaginazione si può pensare recassero lo stemma degli Asburgo, attestando il dipinto agli anni precedenti al 1734.

Purtroppo, la fotografia e il pessimo stato di conservazione del dipinto non rendono giustizia alla veduta, che prosegue sulla destra per interrompersi con la roccia sulla quale il pittore appone la propria firma.

La scoperta di questa veduta inedita di Taranto è di per sè interessante, ma ancora più importante sarebbe la datazione, che, stando a quanto riportato dal  Pavone, si  attesterebbe intorno ai primi anni ‘30 del Settecento, precedente quindi alle più celebri vedute del Coccorante: quella in San Domenico a Taranto e quella conservata nel Museo San Martino a Napoli, realizzate intorno al 1738-40.

veduta estesa

Da dove avrà preso spunto il nostro pittore? Da qualche dipinto precedente? Dalle celebri vedute del Pacichelli che circolavano nel Regno di Napoli? Non è dato sapere. La veduta, ignorata dagli studi, non è stata censita nella mostra sulle vedute relative a Taranto e al suo golfo del 1973, tantomeno nella mostra tenuta al castello aragonese di Taranto sul finire del 1992. L’unica esposizione alla quale il dipinto ha partecipato è stata quella del 1937, in occasione della Prima Mostra Ionica di Arte Sacra, nel cui catalogo il dipinto si fa apprezzare per il buon sapore decorativo.

Visto che la Madonna della Salute è chiusa da tempo, non rimane che fare una passeggiata a Grottaglie, andare al “Monticello”, dai Gesuiti, e gustarsi questa inedita veduta di Taranto, oltre ai dipinti di Paolo De Matteis, che un tempo decoravano la chiesa di largo Monteoliveto.

I “coccioli” tarantini ossia le murici

murici

di Massimo Vaglio

 

Con il termine di còccioli, cuzzìuli o cuècciuli tarantini nel Salento si appellano genericamente le murìci d’entrambe le due specie più comuni, ossia le murici propriamente dette (Murex trunculus) e le murici spinose (Murex brandaris). Tutte e due le specie ma, in particolare le prime, sono ampiamente presenti nei mari pugliesi, su quasi tutti i tipi di fondale sino ai 100 metri di profondità, ma è il Golfo di Taranto a mantenere da millenni il primato di questa produzione.

Questi molluschi che appartengono alla classe dei Gasteropodi hanno alle spalle una storia illustre e  millenaria. Da esse infatti veniva ricavata la preziosissima porpora di cui già si parla nella Bibbia e nelle opere di Omero e sulla cui fabbricazione ampie testimoniante hanno lasciato Plinio, Aristotele, Plutarco, Teofrasto ed altri. Questa serviva a colorare, tra i vari filati, anche la cosiddetta “lanapenna” ricavata dal bisso della Pinna nobilis.

Il “laticlavio”, ossia la toga indossata dai senatori romani, era orlata dall’alto in basso da una fascia di porpora. Indossavano toghe orlate di porpora anche i notabili anziani, ed i sacerdoti, mentre toghe interamente di porpora, erano indossate, sul carro di trionfo, dai generali vittoriosi nelle grandi parate ufficiali.

Taranto era, a quanto pervenutoci, una delle maggiori produttrici di porpora e su questa industria trasse molta della sua fortuna. Tanto è stata notevole questa produzione che ancora nella seconda metà del XVIII secolo, il conte Carlo Ulisse De Salis Marschlins, viaggiatore svizzero, testimonia la presenza a Taranto di una strana collina :- ….Sempre in queste vicinanze, di là dal convento Alcanterino, esiste una collina, chiamata Monte Testaceo, consistente nella massima parte di avanzi di bivalvi e di mùrici. Si vuole che la celebre tinta purpurea di Taranto fosse stata anticamente preparata in questo punto, e che la piccola cisterna quadrata lì presso esistente, fosse usata per la preparazione del prezioso liquido.- 

 Con la scoperta della cocciniglia (kermes) prima ed infine dell’anilina, l’uso della porpora decadde, ma si incrementò l’utilizzo gastronomico delle murici che, perduta la preziosità e decaduto la sorta di monopolio a cui erano state sino ad allora assoggettate, tornarono ad essere solo un cibo gustoso ed alla portata di tutti.

Le murici, non sono oggetto di allevamento, anche se spesso vengono raccolte e mantenute dagli allevatori di mitili nelle zone in loro concessione, per poi ripescarle e porle in vendita nei periodi dell’anno più propizi.

Ancora oggi, in Puglia sopravvivono delle particolari forme di pesca specifica alle murici; una di queste viene compiuta con l’ausilio di delle sorta di trappole dette “coppi”, che vengono innescati con esche costituite da scarti di carne o pesce.

Sopravvive, però, anche una forma di pesca ancora più particolare, praticata con l’ausilio dei cosiddetti miervuli o miruli che sarebbero i coriacei ammassi di uova di questi molluschi. Questi ammassi tondeggianti, che sono costituiti da tante cellette e che ricordano i favi delle api, vengono formati dalle murici nel mese di giugno e accresciuti man mano dalle stesse che vi si portano sopra per deporre le proprie capsule ovigere.

Ognuno, per così dire, di questi “nidi”, possiede una potentissima forza attrattiva, tanto da riuscire ad attirare tutte le murici presenti nel raggio di svariate centinaia di metri.

Questa pesca, viene praticata in detto periodo ispezionando con l’ausilio dello specchio i fondali marini tradizionalmente interessati dalla presenza dei miervuli, che una volta individuati vengono recuperati, vengono raccolte le murici che vi si trovano attaccate, e con un apposito attrezzo vengono rastrellate anche quelle che si trovano nelle immediate vicinanze.

Ad ognuno di essi infine viene fissata una cordicella con un segnale galleggiante facilmente individuabile. Così segnalati i miervuli vengono in seguito visitati quotidianamente recuperando tutte le murici ad essi aderenti.

In una stagione una barca riesce a pescare anche alcune decine di quintali di murici.

Le murici vengono gustate prevalentemente lesse, ma anche crude, da chi non disdegna il loro gusto “piccantino”. In alcune località rivierasche pugliesi vengono utilizzate anche per preparare delle gustose spaghettate.

 

Cuècciuli tarantini a ‘nsalata

Murici a insalata

Sciacquate per bene le murici sotto l’acqua corrente onde eliminare eventuali spiacevoli residui di sabbia e metteteli a lessare coperti d’acqua, facendoli bollire per qualche minuto. Lasciateli raffreddare nella loro acqua di cottura, quindi utilizzando un robusto ago estraete i molluschi dalle conchiglie, privateli dell’opercolo, poneteli in un piatto da portata e conditeli con olio extravergine d’oliva, pepe, limone e prezzemolo tritato. Costituiscono un delizioso antipasto.

Spaghetti al sugo di “coccioli”

Ingr. : 2 kg. di murici, 500 grammi di spaghetti, 300 grammi di pomodori pelati triturati, olio extravergine d’oliva, 2-3 spicchi d’aglio, prezzemolo, pepe nero macinato.

Risciacquate per bene le murici, lessatele per qualche minuto, quindi estraete i molluschi dalle conchiglie adoperando un robusto ago e privateli dell’opercolo. In una padella fate riscaldare dell’ottimo olio con due tre spicchi d’aglio e prima che questi imbiondiscano unite i pomodori triturati, una presina di pepe nero macinato al momento ed un po’ di prezzemolo tritato. Riportate ad ebollizione ed unite le murici precedentemente pulite. Lasciate cuocere sino a che l’olio si comincerà a “slegare” dal sugo. Condite quindi, gli spaghetti cotti al dente e serviteli cosparsi con prezzemolo tritato e pepe. Una variante consiste nell’impiegare le murici crude; dopo averle cavate dalle conchiglie schiacciando i gusci con l’ausilio di un martellino, ne deriva però un sughetto dal sapore un po’ troppo marcato, non a tutti gradito ed inoltre nel pulire le murici crude si incorre nell’inconveniente di colorarsi le unghia di una resistentissima colorazione purpurea.

Monteparano (Taranto). Tavolate e fucarazzi per la festa di San Giuseppe

di Floriano Cartanì

Da tempo immemorabile il 19 marzo costituisce per Monteparano, in provincia di Taranto, un appuntamento da non mancare, per godersi i tradizionali festeggiamenti che si svolgono in onore di San Giuseppe e che culminano nei tipici “altarini” e “tavolate”, oltre i classici “fucarazzi”.

Ma a Monteparano c’è molto di più. La ricorrenza, infatti, nei contenuti essenziali, è riuscita a mantenere ancora intatta sino ai nostri giorni le passate usanze di questo antico casale albanese le quali, a loro volta, rappresentano con molta probabilità un vero e proprio crogiolo delle culture paleo-cristiane (il cenacolo, le tavolate) e di  vecchi riti pagani (festeggiare col fuoco l’arrivo della primavera).

Tutto questo, insomma, rende testimonianza ad un momento locale impregnato di devozione ma anche di tradizione, che esprimono meglio di ogni parola il senso di appartenenza alla realtà monteparanese.

L’arrivo della festa di San Giuseppe mette in moto tutta una serie di preparativi che coinvolgono l’intero paese. Quest’anno c’è da dire che l’aria è sembrata ancora più elettrizzata delle altre volte. Chi è passato in questi giorni per le stradine del paese, si è certamente imbattuto in un via vai di donne, intente a preparare gli ingredienti delle tavole devozionali. La cosiddetta “massa”, i “virmicieddi” e le immancabili “carteddate”, tutte pietanze che vengono preparate con appositi riti e lasciate poi stese ad essiccare su “cannizzi”, “tavulieri” e “spunlatore” nei giorni che precedono la festa. Gli uomini, invece, dal canto loro, sono impegnati a preparare la struttura degli altarini (una specie di scalinata rivestita di lenzuola o teli di finissima fattura).

Con l’avvento dei tempi moderni, poche famiglie di devoti avevano in tutti questi anni con umiltà e sacrificio, “mantenuto” questa fascinosa

Così iniziava la Quaresima a Taranto

Così iniziava la Quaresima a Taranto
A mezzanotte i rintocchi de “a foròre”

 Mercoledì delle ceneri

di Angelo Diofano

Ultimo giorno di Carnevale, delle cui feste a Taranto non esiste quasi più nulla. Neanche i più anziani hanno memoria di quanto accadeva il martedì grasso in Città vecchia. Un grande e variopinto corteo di maschere (racconta Claudio De Cuia) percorreva l’antica Via Maggiore; in testa prendeva posto “U tate”, un fantoccio rappresentante il Carnevale, disteso su un carretto tirato a mano. Dietro, prendevano posto uomini travestiti da donne che gridavano in modo assai comico il loro dolore, in un frastuono di fischietti, trombette e tamburelli che non è facile da immaginare. All’arrivo in Piazza Fontana aveva inizio “‘a petrescìne”, una guerra di confetti, che venivano lanciati tra gruppi contrapposti con una furia incredibile, come una grandinata fitta e incessante. I ragazzini tra la folla scalmanata si gettavano per terra a raccogliere i confetti, in una sorta di gara tra chi ne prendeva di più. Nel frattempo “U Tate” veniva dato alle fiamme, a significare la fine del periodo di baldoria.

In molte case si svolgevano le cosiddette “feste a componenti”, dove ognuno contribuiva come meglio poteva, per non gravare eccessivamente sul padrone di casa, portando ogni genere di prelibatezza per la delizia dei partecipanti. Un grammofono (più raramente un’orchestrina formata da una chitarra, un tamburello e una fisarmonica)) diffondeva musiche allegre che davano il ritmo ad indiavolate quadriglie E si danzava, fra scherzi e lazzi, a perdifiato, ammirando le migliori mascherine e nel frattempo mai perdendo di vista il ragazzo (o la ragazza) con si sperava di legarsi per tutta la vita.

A mezzanotte le baldoria aveva termine. Dalla cattedrale si faceva sentire il campanone dell’allora campanile normanno (poi abbattuto e sostituito da quello attuale, detto “del sovrintendente”, alquanto anonimo). Batteva i lugubri rintocchi “d’a forore”. Si entrava ufficialmente in Quaresima. Dal portone dell’arcivescovado usciva l’arcivescovo con tutto il Capitolo Metropolitano. Lentamente i sacerdoti si disponevano al centro della piazzetta, attorno alla catasta delle palme dell’anno passato, allestita da tutto il vicinato. Mentre le fiamme si levavano al cielo, l’arcivescovo benediceva il falò e recitava preghiera, alle quali il popolo rispondeva devotamente. Terminato il rito, di breve durata, la gente si accalcava per godere del tepore di quelle vampe. Quindi le donne raccoglievano in alcuni bicchierini la cenere benedetta che l’indomani sarebbe stata distribuita ai parroci per il consueto rito d’inizio Quaresima. “Ricordati, polvere sei e polvere ritornerai”, dicevano i preti mentre con una manciata di cenere ingrigivano appena i capelli dei fedeli. Uno stimolo a meditare sulla caducità della vita e delle sue effimere soddisfazioni.

Taranto. Una segnalazione nella chiesa di Sant’Agostino



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di Nicola Fasano

Nella riscoperta di tesori artistici a Taranto possiamo sicuramente annoverare la statua lignea policroma settecentesca di San Nicola da Tolentino, conservata nella cappella eponima, la prima a sinistra entrando nella chiesa di Sant’Agostino. La stessa cappella venne fatta erigere dalla confraternita dedicata al Santo, che molto probabilmente commissionò anche la statua; purtroppo non si hanno notizie archivistiche sul simulacro ligneo in quanto un incendio nel XVIII secolo ha distrutto i preziosi documenti. L’eremita agostiniano (1246 ca.- 1305) canonizzato nel 1446 è riconoscibile per il saio nero dell’ordine agostiniano e per la stella al centro del petto, che alluderebbe all’astro che apparì al momento della sua nascita.

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Il Santo è colto nel momento estatico tipico della retorica barocca, lo sguardo rivolto al cielo, la bocca socchiusa, le braccia aperte, gesti caratterizzanti un dialogo privilegiato con il trascendente. La qualità sostenuta della statua lignea, data dall’estrema raffinatezza nell’intaglio, fa pensare senza ombra di dubbio all’ambito napoletano e, più in particolare, alla cerchia di Giacomo Colombo, uno dei maggiori artefici della scultura lignea del settecento meridionale.

La sinuosità della forma e la resa naturalistica degli incarnati controbilanciano la stesura un po’ bloccata e accademica del modello, vivacizzato dalle fluenti pieghe delle vesti che cadono perpendicolari e lasciano intravedere un accenno di movimento della gamba destra rispetto a quella sinistra di appoggio.

Sciogliere l’attribuzione in favore del maestro è quanto meno rischioso, vista la serialità di opere realizzate dalla fiorente bottega, per venire incontro ad una committenza sempre più numerosa ed esigente. Tuttavia, azzardando un’ipotesi, la nostra statua richiama la mano di Francesco Picano, collaboratore di Giacomo Colombo, nel trattamento del panneggio che viene semplificato rispetto ai modelli del più quotato maestro, come già sottolineato dalla Gaeta, una delle maggiori esperte su Colombo; sono inoltre palesi i rimandi del santo agostiniano con il San Francesco di Paola nella chiesa di Santa Lucia a Serino.

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Il mio breve contributo vuole essere da stimolo alla riscoperta e allo studio della statuaria lignea, visto che rispetto ad altri territori baciati da studi specifici e da indagini scientifiche, i simulacri lignei tarantini, importantissimi dal punto di vista religioso e antropologico (basti pensare alle statue napoletane dell’Immacolata in San Michele e a quelle del Cristo Morto e dell’Addolorata del Carmine) , hanno avuto solo la degna attenzione del compianto Nicola Caputo e di qualche altro storico locale.

22 novembre. Santa Cecilia e le pèttule a Taranto

 

Piccoli e semplici gesti… grandi  e genuini ricordi… ed è festa!

Le pèttuli, il sapore della mia terra

 

di Daniela Lucaselli

Il 22 novembre ricorre, nell’anno liturgico, una delle feste più popolari della tradizione, santa Cecilia. Per Taranto e i tarantini è un giorno speciale in quanto questa ricorrenza segna l’inizio dell’Avvento, l’alba dei festeggiamenti natalizi, in netto anticipo rispetto a tutti gli altri paesi in cui si respira aria di festa solo dall’Immacolata o da Santa Lucia.

Il perpetuarsi di antiche usanze rende vivo il legame col passato e, nel caso specifico,  le festività natalizie si arricchiscono di un profondo significato, che supera le barriere dello sfrenato consumismo di una società che sembra non credere più negli antichi valori.

Una magica atmosfera avvolge, in una suggestiva sinergia musicale, le tradizioni sia religiose che pagane. Non è ancora l’alba quando, per le strada di Taranto, si ode, da tempi ormai remoti, la Pastorale natalizia. Ed è così che nasce questa tradizione. Le bande musicali locali, in particolare il Complesso Bandistico Lemma, città di Taranto, svegliano gli abitanti dei quartieri della città,  diffondendo, nella nebbia mattutina, la soave melodia, per onorare Santa Cecilia, protettrice dei musicisti. I primi ad alzarsi sono i bambini che, incuriositi, corrono vicino ai vetri della finestra che affaccia sulla strada e, con la mano, frettolosamente, puliscono i vetri appannati. Dinanzi ai loro occhi, i musicanti infreddoliti, orgogliosi protagonisti di questo momento, augurano un buon Natale. Si vanno a rinfilare sotto le coperte, al dolce tepore del letto, chiudono gli occhi e continuano ad ascoltare, in un indimenticabile dormiveglia, le note della banda. Rimangono in attesa del momento in cui sentiranno l’odore di olio fritto…

Secondo la tradizione, infatti,  le mamme preparano, al passaggio dei suonatori, le pettole. Le famose “pastorali” sono state composte da maestri musicisti tarantini, come Carlo Carducci, Domenico Colucci, Giovanni Ippolito, Giacomo Lacerenza, , che si sono  ispirati ad antiche tradizioni, che affondano le loro radici nelle melodie suonate dai pastori d’Abruzzo che, durante la transumanza, scendevano nella nostra terra, con il loro gregge.

Muniti di zampogne, ciaramelle e cornamuse  percorrevano i vicoli della città, regalando le loro dolci melodie in cambio di cibo. I tarantini donavano ai pastori delle frittelle di pasta di pane, un prodotto povero e  semplice, ma,

Attribuita al Regolia una tela conservata nel Municipio di Taranto

di Nicola Fasano*

Taranto: città delle industrie, città dell’inquinamento, delle brutture, però anche città dei tesori nascosti che non trovano una piena fruibilità. E’ il caso di un dipinto seicentesco di notevole formato conservato negli uffici di Palazzo di Città raffigurante San Francesco che soccorre gli ammalati.

La tela faceva parte del sontuoso arredo di palazzo D’Ayala-Valva (già Marrese), e abbelliva il soffitto a cassettoni del salotto di rappresentanza. Con l’espropriazione del palazzo a favore del comune nel 1981, tutti i beni conservati nel palazzo sono diventati di proprietà comunale.

Il professor Galante dell’Università di Lecce, analizzando la suddetta tela, aveva attribuito l’opera al pittore napoletano Pacecco De Rosa; successivamente lo studioso Leone De Castris riconduceva il dipinto (giustamente, secondo il parere di chi scrive) al palermitano di formazione napoletana Michele Regolia autore di numerose tele nel vicereame. Educato presso la scuola tardo-manierista di Belisario Corenzio, l’autore del dipinto tarantino non è esente da influenze emiliane alla Domenichino.

Regolia si apre alle nuove istanze del naturalismo caravaggesco imperante a Napoli, nei due personaggi maschili in primo piano torniti da vigorosi effetti chiaroscurali.

All’estrema sinistra della composizione è raffigurato un personaggio in abiti nobiliari che volge lo sguardo allo spettatore, molto probabilmente il committente del dipinto, devoto di San Francesco; sulla destra una madre con il figlio cieco in braccio implora al Santo la grazia.

Il maestro palermitano era un autore caro ai francescani perché rispondente a determinati precetti, quali la devozione e la pacatezza nelle figure, la dottrinalità nelle immagini secondo i dettami rigorosi della controriforma. Caratteristica dell’artista siciliano è, inoltre, la raffigurazione di angeli dalle

Girolamo Cenatiempo nella chiesa del SS. Crocifisso di Taranto

 

di Nicola Fasano

Nella valorizzazione del patrimonio storico artistico di Taranto non si può trascurare l’importante contributo del pittore napoletano Girolamo Cenatiempo, artista allievo di Luca Giordano, che nel capoluogo ionico realizzò due tele di grande formato raffiguranti: il Martirio di San Bartolomeo e la Visione dei SS. Gregorio e Benedetto Abate. Tralasciando la prima opera, la cui firma mette fuori discussione dubbi attributivi, la seconda non autografa, in un primo momento era stata attribuita allo stesso Cenatiempo da parte dello storico francescano Padre Benigno Perrone (cfr. P.B.P.Perrone  in  I conventi della serafica Riforma di San Niccolò in Puglia, 1590-1835, Galatina 1981 p. 62) e uccessivamente ricondotta da Galante a Paolo De Matteis (cfr. L.Galante, Per la fortuna della pittura napoletana Puglia in  Ricerche sul Sei-Settecento in Puglia III, Fasano 1989 p.240), grande interprete della pittura tardo-barocca a Taranto.

Sarebbe forse il caso, invece, di soffermarsi e concentrare l’attenzione, come propone questo breve scritto, anche sugli elementi che potrebbero confermare come giusta l’intuizione del francescano, che per primo ricostruisce le vicende dei due dipinti.

Entrambi provenienti dalla demolita chiesa francescana di Sant’Antonio di Padova, vennero donati al municipio insieme ad altre suppellettili (tra cui lo splendido crocifisso ligneo del XVI sec.), per poi essere trasferiti nella chiesa del SS. Crocifisso intorno al 1875, edificio che custodisce le due tele in cornici marmoree mistilinee esposte nei bracci del transetto. Il Cenatiempo (documentato tra il 1705 e il 1742) godette di buon prestigio presso i Domenicani e i Francescani, lavorando in Abruzzo, Lucania e nelle Puglie, prevalentemente in quella che anticamente era la Terradi Bari e la Capitanata.

A spostare l’attribuzione in favore del pittore napoletano concorrono una serie di fattori stilistici, quali i volti dei personaggi raffigurati, in particolare i puttini di marca schiettamente “cenatiempana”, che si possono confrontare con gli altri presenti nel Martirio di S. Bartolomeo e in quelli nella tela della Maddalena penitente in San Lorenzo a San Severo.

La grazia pacata e addolcita del De Matteis risulta invece più rigida e meno sciolta nei dipinti del nostro pittore, il quale nell’angelo che regge la tiara papale fa un chiaro rimando al suo maestro: Luca Giordano.

La tela raffigura sulla sinistra San Gregorio Magno in abito sacerdotale, colto nel tipico atteggiamento estatico della retorica barocca, mentre ammira la colomba dello Spirito Santo; sulla destra San Benedetto in abito nero da abate, con il libro delle regole e il pastorale, indica il cielo con l’indice della mano. In basso due angeli, di cui uno su un rocchio di colonna “pagana”, tributano l’omaggio alla chiesa terrena e trionfante, reggendo la tiara e la mitra; in alto si staglia la colomba dello Spirito Santo fra due schiere di cherubini disposti a ventaglio.

La composizione pecca nell’eccessiva specularità dei due Santi che rispondono a precisi dettami di carattere retorico e didascalico ed il risultato è la messa in scena attraverso la bloccata espressività di gesti e atteggiamenti sapientemente calibrati. A tal proposito si veda la tela di Cenatiempo conservata in Santa Maria degli Angeli ad Avigliano, raffigurante la Vergine col Bambino e i Santi Filippo Neri, Michele Arcangelo, Gregorio e Carlo Borromeo.

Il dipinto, oltre ad una evidente matrice giordanesca, richiama il timbro del De Matteis nel pulviscolo dorato della zona superiore, che risalta i volti rapiti dei due Santi e i preziosi tessuti che accendono la tavolozza. Questa contingenza stilistica con il più quotato Paolo ci permette di azzardare una datazione intorno al secondo decennio del Settecento, periodo in cui il De Matteis arricchiva le chiese di Taranto con le sue preziose opere e dal quale il minore Cenatiempo avrà preso spunto per alcune soluzioni cromatiche.

Non mancano inoltre rimandi ad un altro “giordanesco” quale Giovan Battista Lama, nelle due figure principali. Ad arricchire la composizione si schiude tra le figure un paesaggio boscoso con chiesa, che evidenzia l’attenzione del pittore nell’indagine del dato naturalistico, caratteristica riscontrabile nella tela sorella del SS. Crocifisso e in numerose altre opere del pittore.

Taranto. Il cappellone di san Cataldo, capolavoro dell’arte barocca

di Angelo Diofano

Noti critici d’arte, tra cui Vittorio Sgarbi, sono concordi nel definire così il cappellone di san Cataldo, vero trionfo del barocco, situato a lato dell’altare principale del duomo di Taranto. È un vero trionfo di affreschi e di marmi policromi, con colori e immagini che s’inseguono e si fondono in un turbinio di emozioni.

Molti interrogativi permangono sulle tappe più importanti della sua storia. I primi passi per la realizzazione dell’opera furono mossi nel 1151 con l’arcivescovo Giraldo I che ordinò la costruzione, (nell’area dell’attuale vestibolo) di una cappella quale dignitosa sepoltura al corpo del Patrono. Nel 1598 mons. Vignati ne ideò la trasformazione, sollecitando l’autorizzazione di Clemente VIII e trasferendovi il sepolcro marmoreo rinvenuto ai tempi del Drogone.

Nel 1658 con l’arcivescovo Tommaso Caracciolo Rossi il cappellone iniziò ad avere il suo assetto definitivo così come siamo abituati a vederlo oggi. I lavori furono proseguiti nel 1665 dall’arcivescovo Tommaso de Sarria, con il contributo generoso di tutta la comunità. L’ultimo tocco, nel 1759 con l’arcivescovo Francesco Saverio Mastrilli che fece realizzare l’artistico cancello di ottone.

Alla cappella vera e propria, di forma ellittica, si accede dal vestibolo quadrangolare, in un ambiente reso suggestivo da giochi di marmi verdi e gialli che si alternano alle belle volute bianche ad intarsio delle quattro porticine.

Le statue di san Giovanni Gualberto a destra e di san Giuseppe a sinistra sono opera dello scultore napoletano Giuseppe Sammartino. L’organo, collocato al piano superiore, è del 1790, opera di Michele Corrado, in sostituzione di quello più antico, realizzato dal leccese Francesco Giovannelli, distrutto in un incendio.

Nel cappellone attirano l’attenzione i coloratissimi marmi intarsiati alle pareti, fatti porre dall’arcivescovo Lelio Brancaccio nel 1576, probabilmente ricavati dalle rovine degli edifici classici, sparse in gran quantità nel sottosuolo. Lo sguardo poi si perde in alto, verso l’affresco della cupola, dove il vescovo irlandese è ritratto nella gloria dei santi. Neppure dopo l’ennesima visita è possibile abituarsi a tanta bellezza.

L’opera fu commissionata nel 1713 dall’arcivescovo Giovanni Battista Stella all’artista napoletano Paolo De Matteis, allievo di Luca Giordano, per un compenso di 4.500 ducati. Ne La gloria di san Cataldo (così s’intitola l’opera) il vescovo irlandese appare inginocchiato di fronte a Maria Santissima che lo invita ad accostarsi al trono di Dio; la scena è sovrastata dalla Santissima Trinità attorniata dagli angeli mentre in basso appare la folla dei santi, soprattutto francescani e domenicani, appoggiati su nuvole rocciose nell’atto di scalare la montagna dell’Empireo.

I sette affreschi del tamburo ritraggono, invece, gli episodi più importanti vita di san Cataldo. A partire da sinistra: la resurrezione di un operaio addetto ai lavori di scavo delle fondazioni di un tempio alla Vergine, finito sotto le macerie; il ritorno alla vita di un bambino in braccio alla madre; il cieco guarito all’atto del Battesimo; San Cataldo mentre prega sul sepolcro di Gerusalemme e che riceve l’ordine di recarsi a Taranto; il ritorno della voce a una pastorella muta mentre indica all’illustre pellegrino la strada per la città ionica; la liberazione di una fanciulla indemoniata mentre è in preghiera davanti alle spoglie mortali del santo. L’affresco di fronte all’altare mostra infine san Cataldo mentre predica al popolo tarantino.

Di pregevole fattura anche le dieci statue di marmo, collocate nel in apposite nicchie, di epoche e autori differenti. Da destra a partire dall’ingresso, raffigurano nell’ordine: san Marco, santa Teresa d’Avila, san Francesco d’Assisi, san Francesco di Paola, san Sebastiano, sant’Irene, san Domenico e san Filippo Neri. Ai due lati dell’immagine del Patrono appaiono i simulacri di san Pietro e di san Giovanni. Secondo una suggestiva ipotesi, ancora tutta da avvalorare, pare che questi ultimi due fossero di antica fattura greca (naturalmente in seguito adattati alla fede cristiana) e che rappresentassero rispettivamente Esculapio ed Ercole.

Visibile attraverso una grata marmorea e finestrelle laterali, la tomba del Santo è posta all’interno dell’altare marmoreo. Quest’ultimo fu realizzato nel 1676 da Giovanni Lombardelli, artista di Massa Carrara, impreziosito da madreperle e lapislazzuli. Alzato su tre gradini, ha struttura lineare caratterizzata da un decorativismo dei marmi ora finissimo nei ricami dei gradini del postergale e del paliotto, ora nervoso nelle ornamentazioni scultoree dei putti capialtare.

Le decorazioni marmoree, tutte policrome, hanno temi diversi; sui due pilastrini laterali vi sono gli stemmi, dai vivissimi colori arricchiti da inserti di madreperla, del capitolo e della città di Taranto, committenti dell’opera.

Sul ciborio lo stemma con le tre pignatte del vescovo Francesco Pignatelli, a testimonianza del suo intervento all’abbellimento della cappella avvenuto nel 1703.

Sovrastante l’altare, ecco la nicchia ove è posto l’argenteo simulacro di san Cataldo, il quarto nella storia di Taranto. Di una prima statua di san Cataldo si iniziò a parlare nel 1346 quando l’arcivescovo Ruggiero Capitignano-Taurisano, accogliendo le richieste della popolazione, volle realizzarla con l’argento del sarcofago, ove nel 1151 il suo successore, Giraldo I, volle riporre il corpo del Santo. Il prezioso metallo fu però insufficiente per un simulacro completo, tanto da costringere a ripiegare su un mezzo busto.

Per il completamento della statua si attese il 1465, anno in cui la città fu liberata dal flagello della peste. Il merito fu attribuito all’intercessione di san Cataldo, tanto che l’intera popolazione a gran voce chiese il completamento del simulacro. Il sindaco Troilo Protontino indisse perciò una sottoscrizione che ebbe l’effetto auspicato, con l’allungamento del mezzobusto. La statua fu rifatta ad altezza d’uomo (sette palmi) a spese della civica università con l’esazione del catasto e con il personale contributo dell’allora sindaco Troilo Protontino. Pareri contrastanti, nel tempo, accompagnarono l’esistenza di quella statua. La popolazione vi era affezionata in quanto realizzata con l’argento ricavato dal sarcofago che aveva toccato il corpo del Patrono. Inoltre il volto del Santo era di grande espressione, tanto che i devoti lo credettero finito per mano angelica. Altri però ritenevano l’opera dalle forme troppo rigide e stilizzate, in quanto proveniente da un mezzobusto. Senza contare che le ripetute riparazioni e le aggiunte in breve lo ridussero in condizioni davvero pietose.

Fu così che nel 1891 l’arcivescovo mons. Pietro Alfonso Jorio commissionò la nuova statua d’argento all’artista Vincenzo Catello dell’istituto Casanova di Napoli. L’artista completò il lavoro in appena sei mesi. Furono impiegati oltre 43 kg di argento, di cui 37 provenienti dalla vecchia immagine. La statua era smontabile per facilitare le operazioni di pulitura e lucidatura. Il simulacro giunse il 7 maggio del 1892 alla stazione ferroviaria di Taranto da dove, dopo la solenne benedizione, fu portato in grande processione fino alla cattedrale. L’opera piacque per la perfezione della lavorazione e l’espressione del viso.

Così descrivono le cronache dell’epoca: “L’argenteo simulacro di san Cataldo misura due metri in altezza: il patrono è in atto di camminare, con la destra benedicendo la città che gli è fedele, mentre con la sinistra stringe il pastorale… Indovinatissimi la posa e l’atteggiamento… Assai bello il panneggiamento della pianeta della stola, il merletto del piviale, il camice che sembra cesellato”. Gli occhi, poi, neri e lucenti da sembrar veri; questo grazie alla devozione di una nobildonna tarantina che in periodo più recente donò alla cattedrale due artistici e preziosi spilloni a testa nera (forse di onice) e con al centro una piccolissima pietra preziosa da far pensare a una pupilla. Un’opera, insomma, vanto dell’intera comunità ma destinata a durare non per molto.

Nella notte fra il primo e il 2 dicembre del 1983, mentre imperversava il maltempo, la statua fu rubata assieme a molti altri reperti (candelieri, calici, reliquiari ecc.). Qualche anno dopo, grazie alla soffiata di un recluso tarantino, gli autori del furto (quattro napoletani specializzati in furti nelle chiese) furono arrestati e condannati, ma della statua non fu possibile recuperare nulla in quanto fusa e ridotta in lingotti. Un’impresa davvero poco fruttuosa e per giunta finita male per i malfattori ma ancor più per la comunità, privata di uno dei suoi simboli più importanti.

L’attesa per una nuova statua, la terza della storia, non durò a lungo. Il 14 gennaio ’84 l’arcivescovo Guglielmo Motolese incaricò un apposito comitato presieduto dal priore del Carmine, Cosimo Solito, di provvedere in merito.

Fu contattato l’artista grottagliese Orazio Del Monaco, che approntò in breve il bozzetto in argilla. Valutate alcune proposte, si decise di realizzare il nuovo San Cataldo in ottone e di rivestirlo in argento (tranne testa, mani e braccia che furono interamente di quel metallo prezioso) donato dagli orafi tarantini (in tutto ben 35 kg). Finalmente l’opera fu completata. Il volto era quello felice del pastore che finalmente torna dal suo gregge dopo l’esilio. Molti però non furono d’accordo con quella scelta perché avrebbero preferito la copia conforme a quella derubata. Portata in un furgone a Palazzo del Governo, l’8 settembre del 1984 alla rotonda del lungomare la nuova statua fu ugualmente accolta da una gran folla festante; nella stessa sera si svolse quella processione a mare che non poté aver luogo nel maggio precedente. Ma tanti non si riuscivano a rassegnare, ostinandosi a fantasticare sul san Cataldo di Catello esposto nella residenza di qualche emiro amante delle opere d’arte e chissà un giorno da recuperare: tanto era anche il sogno dell’allora parroco della cattedrale mons. Michele Grottoli.

Ben presto si dovette fare i conti con l’eccessivo peso del manufatto. Le operazioni concernenti lo spostamento dalla nicchia in preparazione ai solenni festeggiamenti di maggio destavano parecchie preoccupazioni per l’incolumità sia degli addetti sia dei preziosi marmi dell’altare. Inoltre ci voleva la gru per le complicate e laboriose operazioni di imbarco e di sbarco sulla motonave per il giro dei due mari. Così dopo vent’anni dall’arrivo dell’opera di Del Monaco si cominciò a pensare a una nuova statua.

L’arcivescovo mons. Benigno Luigi Papa accolse la proposta dell’arcidiacono mons. Nicola Di Comite che, agli inizi del 2001, dette il via all’operazione “Una goccia d’argento per la nuova statua di San Cataldo”, per la raccolta del prezioso metallo. I tarantini aderirono generosamente all’iniziativa, donando medagliette, catenine ed oggetti fra i più disparati. La realizzazione del simulacro fu affidata all’artista Virgilio Mortet, del laboratorio di Oriolo Romano (Viterbo).

Sue opere si trovano nei Musei Vaticani e in chiese, conventi e gallerie d’arte; per la cattedrale di Osimo eseguì un artistico sarcofago per custodire le reliquie di san Giuseppe da Copertino e una sua croce pettorale di ottima fattura fu donata a Giovanni Paolo II. A Mortet fu posta solo una condizione: che le sembianze della statua fossero, finalmente, quanto più possibile simili a quelle dell’opera di Catello. L’iniziativa ebbe buon fine. Così il 4 maggio del 2003 il nuovo san Cataldo (fuso in un unico pezzo) fu pronto e arrivò via mare alla banchina del castello aragonese. Tanta gente, affacciata su corso Due Mari, partecipò alla cerimonia. Ancor più massiccia fu l’affluenza di popolo alle successive processioni a mare e a terra, porgendo così il più caloroso benvenuto alla nuova effige del santo Patrono.

Una grande manifestazione di fede che continua a mantenersi inalterata ogni anno nei tradizionali festeggiamenti di maggio.

Taranto: oltre l’acciaio

Taranto, Castello Aragonese (ph F. Lacarbonara)

di Francesco Lacarbonara

Al di là di alcuni aspetti a tutti noti (la mitilicoltura, la più importante base navale militare d’Italia, le abitudini gastronomiche dei suoi abitanti, il mare, ecc.) probabilmente è l’insediamento industriale (l’ILVA, il cementificio, le raffinerie, e quant’altro) a caratterizzare più di ogni altro la città di Taranto, tanto da creare nell’immaginario collettivo un’inevitabile equazione:

Taranto+siderurgico+inquinamento=meglio-che-ce-ne-scappiamo-subito(e chi resta si arrangi…).

Il problema è  che a restare è la stragrande maggioranza della popolazione, che da decenni subisce (non senza una responsabile dose di passiva rassegnazione) scelte di politica industriale e di gestione del territorio, sulle quali comunque non è stata chiamata ad esprimere un’opinione o a proporre un’alternativa.

Il dissesto economico del Comune (il più grande della storia repubblicana italiana) forse è servito a smuovere un po’ le coscienze intorpidite da decenni di malgoverno (non dimentichiamoci però che siamo noi cittadini a scegliere da chi farci amministrare) e qualcosa sembra che negli ultimi tempi si stia muovendo.

Ma la mia riflessione va oltre le manifestazioni di piazza e le legittime proteste, riguarda la nostra stessa mentalità e il come ci rapportiamo in primis con la nostra città: e se iniziassimo noi a pensare a precise e mirate proposte di valorizzazione dell’enorme patrimonio culturale che la città bimare sa offrire, partendo da quanto di più bello essa possiede? Penso al MARTA (i famosi Ori di Taranto saranno esposti in Cina, ma quanti tarantini frequentano regolarmente il museo o accompagnano amici ospiti a visitarlo?), al Castello Aragonese, che grazie alla Marina Militare è uno dei monumenti storici più visitati in Puglia, alle decine di chiese nascoste nel centro storico e sconosciute anche alla maggior parte dei tarantini, e via dicendo.

Ma soprattutto penso all’immagine che diamo di noi stessi e di Taranto agli altri: si è mai sentito un barese parlar male di Bari o un leccese di Lecce? Eppure non mi sembra che Bari e Lecce (città per me stupende e che amo tantissimo) siano il massimo della vivibilità e dell’organizzazione urbanistica. Il fatto è che essi amano le loro città e si prodigano per migliorarle e offrire a chi le visiti il meglio di quanto possiedono.

Forse dovremmo mettere da parte inutili campanilismi e prendere esempio da loro. Dalla rassegnazione si esce solo rimboccandosi le maniche senza lasciarsi prendere dai luoghi comuni; il compito della ricostruzione non può che iniziare dai tarantini stessi e dalla nascita di un nuovo rapporto con la propria città, da una sua nuova visione che sappia cogliere, oltre agli aspetti negativi, tutte le positività e potenzialità di sviluppo che possiede, e che sono tante, senza nulla togliere agli spaghetti con le cozze e alla passeggiata in via d’Aquino.

Le ostriche tarantine

di Massimo Vaglio

Tra i molluschi marini, autentici gioielli della gastronomia, ce n’è uno che spicca in modo particolare, naturalmente, si parla dell’ostrica, un mollusco nobile universalmente apprezzato e con un ineguagliabile record di qualificate referenze storiche e letterarie. Nei tempi antichi la troviamo descritta, magnificata ed esaltata già da Omero, Virgilio, Petronio e molti altri padri della letteratura, ma ha incontrato, senza soluzione di continuità, in ogni epoca illustri estimatori, prodighi di rime, tra questi, Goethe, Voltaire e persino il cupo Giacomo Leopardi, che ebbe a dedicarle dei gratificanti versi. Plinio, cento anni prima di Cristo, le dedica ampie trattazioni e fa una puntuale descrizione del sistema di allevamento messo a punto da Sergio Orata, indicato dallo stesso come un ricco ed avaro cavaliere romano che doveva la sua grande fortuna proprio alle ostriche. Questi, infatti, aveva messo a punto, un innovativo sistema di allevamento su pali con il quale riuscì ad ottenere ostriche più grasse, turgide e dolci, suscitando così, una vera e propria mania fra i suoi contemporanei più ricchi, e a renderle di moda, praticamente indispensabili, nei convivi eccellenti. Lo stesso Giulio Cesare preferiva le ostriche a qualsiasi altro cibo e sulla sua mensa se ne consumavano quantitativi industriali. La richiesta, ad un certo punto divenne tanto ingente, che si dovettero esplorare nuovi areali di rifornimento, si scoprì così che le ostriche di Brindisi, non meno famose e prelibate di quelle della Gran Bretagna, trovavano un ambiente ideale nel Lago di Lucrino, ove, dopo una breve stabulazione, acquisivano particolare dolcezza, sapidità e grassezza. Allo stesso scopo erano adibiti anche i Laghi di Fusaro e Miseno.

Per quanto riguarda Taranto, nonostante non tutti concordino, l’ostricoltura si

La Maddalena in gloria del Lanfranco in San Pasquale a Taranto

 

di Nicola Fasano

La sacrestia della chiesa San Pasquale di Baylon di Taranto conserva numerosi dipinti di autori importanti quali Cesare e Francesco Fracanzano, Leonardo Antonio Olivieri e una tela attribuita a Luca Giordano. Con questo mio articolo voglio fare luce su un dipinto di alta qualità, sfuggito alla critica, raffigurante la “Maddalena in gloria”, ascrivibile ad uno dei più importanti artisti del Seicento, Giovanni Lanfranco.

Il pittore, esponente di primo piano della pittura seicentesca e della decorazione barocca, fu allievo di Agostino e Annibale Caracci e si ricorda come autore di importanti cicli pittorici nelle chiese di Roma e Napoli, oltre ai molti quadri conservati nei musei più importanti del mondo tra i quali il Louvre.

Tornando alla tela tarantina, la Maddalena è raffigurata mentre sale

Taranto saluta i marinai d’Italia: Il Monumento al Marinaio

ph Daniela Lucaselli

di Daniela Lucaselli

Il Monumento al Marinaio si impone all’attenzione di chi dal Borgo antico di Taranto giunge, attraversando il Ponte girevole, sul corso Due Mari, nel Borgo nuovo della città. L’opera fu realizzata in bronzo dallo scultore Vittorio Di Cobertaldo nel 1974, per volontà dell’Ammiraglio Angelo Iachino, comandante della flotta di stanza a Taranto durante la seconda guerra mondiale, che volle far dono della scultura alla città in ricordo dei marinai caduti durante il  conflitto mondiale e nella atroce e sanguinosa “Notte di Taranto”, dell’11 novembre 1940 quando la flotta ancorata nella rada del Mar Piccolo venne bombardata dagli aerosiluranti inglesi.

L’opera protesa maestosamente verso il cielo per circa sette metri poggia su un piedistallo sul quale è posta una iscrizione:

 AI MARINAI  DELLE  FORZE  NAVALI  ITALIANE  L’AMM. D’ARMATA  A. IACHINO 

II GUERRA  MONDIALE  1940-43.

ph Daniela Lucaselli

La scultura, che  cattura in modo suggestivo lo sguardo di chi ammira l’impetuosità e l’irruenza dei flutti del mar Grande, è dedicata ai marinai della Marina Militare Italiana e raffigura due marinai che, con la mano destra,  tengono il  berretto levato in alto e “salutano” il passaggio delle navi e piccole imbarcazioni che costantemente solcano le acque del canale navigabile che collega il Mar Grande con il Mar Piccolo.

Il portamento dei due militari, con garbo ed elegante maestosità, manifesta uno spiccato spirito di accoglienza  verso tutti coloro che vengono dal mare, coloro che portano nella nostra terra le loro tradizione, la loro cultura. L’apertura all’altro, la reciproca ricchezza e crescita della gente comune e di una intera città è un  prezioso dono.  Ma non solo. Il periodo di accoglienza, l’ospitalità nella nostra terra, la condivisione di scorci di vita quotidiana, l’addestramento in Marina e Aereonautica Militare è seguito da un malinconico saluto di chi è ormai parte di noi,  pronto a portare con sé e in

Taranto. Breve storia del quarto polo siderurgico

 

di Alessio Palumbo

 

In questi giorni, la sentenza di chiusura di alcuni reparti dell’Ilva di Taranto e le proteste scaturitene, ha catalizzato l’attenzione di media, esperti e semplici lettori. Si è dipanato così un dibattito vasto e composito che, di volta in volta, anche su questo blog, ha posto il focus su alcuni problemi specifici: dall’inquinamento alle politiche del lavoro, dall’indotto ai danni apportati alla qualità della vita dei tarantini, etc. etc. Un rapido viaggio nella storia del centro siderurgico tarantino forse permetterà di avere una visione più vasta e completa dei problemi, dei retroscena, delle speranze e delle delusioni che per decenni si sono abbinati a questo “drago d’acciaio”.

Nel secondo dopoguerra, lo sviluppo in Italia della siderurgia pubblica si è legato, fondamentalmente, alla figura di Oscar Sinigaglia. È infatti alla sua mentalità fordista che si deve la nascita e la crescita di un’industria pubblica dell’acciaio basata sulla riduzione della dipendenza dal rottame, sulle grandi dimensioni degli stabilimenti e sulla produzione di lotti standardizzati[1]. Molteplici ragioni

Attribuita al Regolia una tela conservata nel Municipio di Taranto

 

 
di Nicola Fasano*

Taranto: città delle industrie, città dell’inquinamento, delle brutture, però anche città dei tesori nascosti che non trovano una piena fruibilità. E’ il caso di un dipinto seicentesco di notevole formato conservato negli uffici di Palazzo di Città raffigurante San Francesco che soccorre gli ammalati.

La tela faceva parte del sontuoso arredo di palazzo D’Ayala-Valva (già Marrese), e abbelliva il soffitto a cassettoni del salotto di rappresentanza. Con l’espropriazione del palazzo a favore del comune nel 1981, tutti i beni conservati nel palazzo sono diventati di proprietà comunale.

Il professor Galante dell’Università di Lecce, analizzando la suddetta tela, aveva attribuito l’opera al pittore napoletano Pacecco De Rosa; successivamente lo studioso Leone De Castris riconduceva il dipinto (giustamente, secondo il parere di chi scrive) al palermitano di formazione napoletana Michele Regolia autore di numerose tele nel vicereame. Educato presso la scuola tardo-manierista di Belisario Corenzio, l’autore del dipinto tarantino non è esente da influenze emiliane alla Domenichino.

Regolia si apre alle nuove istanze del naturalismo caravaggesco imperante a Napoli, nei due personaggi maschili in primo piano torniti da vigorosi effetti chiaroscurali.

All’estrema sinistra della composizione è raffigurato un personaggio in abiti nobiliari che volge lo sguardo allo spettatore, molto probabilmente il committente del dipinto, devoto di San Francesco; sulla destra una madre con il figlio cieco in braccio implora al Santo la grazia.

Il maestro palermitano era un autore caro ai francescani perché rispondente a determinati precetti, quali la devozione e la pacatezza nelle figure, la dottrinalità nelle immagini secondo i dettami rigorosi della controriforma. Caratteristica dell’artista siciliano è, inoltre, la raffigurazione di angeli dalle ampie ali che irrompono dall’alto o sospesi a mezz’aria.

Una Taranto che può quindi inserire il Regolia ad altre figure di spicco della cultura artistica napoletana del 6-700 quali i fratelli Fracanzano, Luca Giordano, Giaquinto e lo scultore Sanmartino.

Questo gioiello pittorico è stato fortunatamente sottratto all’incuria e al vandalismo che ha purtroppo svalorizzato il prestigioso palazzo di via Paisiello. Il restauro, curato dalla Soprintendenza, ha pulito la tela da pesanti ridipinture e ha portato alla luce gli squillanti colori delle vesti e l’atmosferico paesaggio collinare che si schiude tra le figure.

Un dipinto difficilmente fruibile, che andrebbe valorizzato maggiormente, con l’esposizione in qualche mostra, anche per capire i gusti di una committenza sopraffina quale era quella dei D’Ayala-Valva, i quali secondo lo studioso Farella, avrebbero acquisito la tela dal convento di San Francesco per collocarla nell’ottocentesco palazzo.

Un doveroso ringraziamento va alla dottoressa Danese e all’assessore Davide Nistri per la disponibilità dimostrata e per avere permesso le riprese fotografiche.

 

* Tutor diocesano dei beni culturali (Diocesi di Oria)

 

Pubblicato su CORRIERE DEL GIORNO Mercoledì 9 marzo 2011

Taranto. La cripta del Redentore

   

di Daniela Lucaselli

Un’emergenza archeologica: la cripta del Redentore, la più antica sede del culto cristiano di Taranto, situata nel Borgo Nuovo, dopo circa trent’anni in stato di abbandono,  è stata aperta alla cittadinanza nel mese di dicembre 2010, grazie all’impegno di associazioni cittadine, storici ed archeologi.

L’antico monumento post-classico, ubicato in Via Terni, è una pregevole testimonianza delle origini cristiane, un  prezioso documento e bene del patrimonio storico artistico della  città bimare.

La piccola chiesa ipogea necessita di un consistente ed urgente intervento di consolidamento e restauro, per rinsaldare la ormai compromessa staticità. La volta è purtroppo sfondata e invasa da tubature di servizio.

Fonti letterarie del IV secolo attestano che Taranto, città portuale, fu proprio in questo periodo aperta ad ogni innovazione in campo religioso e il Cristianesimo trovò il terreno fertile per affermarsi. La cripta in esame rappresenta a proposito un primo esemplare monumentale.

Originariamente la cripta ipogeica era  una tomba a camera di età  classica, situata esattamente dove prima sorgeva la grande necropoli della Taranto greco-

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