Aldo de Bernart. In memoria

                            

di Paolo Vincenti

In questi dieci anni di assenza del maestro Aldo de Bernart, una serie di manifestazioni e poi scritti e celebrazioni hanno contribuito a serbarne vivo il ricordo. Immediatamente dopo la morte, nel numero di marzo 2013 della rivista «Presenza Taurisanese», il direttore Gigi Montonato dalle pagine del Brogliaccio Salentino dedica a de Bernart un breve ricordo, scrivendo di lui: “un autentico signore, nel senso più tradizionale ed ampio del termine”[1].

Non poteva mancare un omaggio della rivista «NuovAlba» con la quale de Bernart ha avuto un lunghissimo e proficuo rapporto di collaborazione. Nel numero del marzo 2013 della rivista parabitana, un bell’editoriale, a firma di Serena Laterza, ricorda Il nobiluomo dal cuore grande[2], e un articolo di Ortensio Seclì, Non è più con noi, traccia anche un excursus bibliografico con tutti gli scritti di de Bernart apparsi su «NuovAlba», dal primo numero del 2001 fino all’ultimo del dicembre 2012[3]. Su un numero di aprile 2013 della rivista a diffusione locale «Piazza Salento», compare un ricordo di de Bernart a firma di Aldo D’antico, il quale scrive: “Se ne è andato un altro. Un altro di quelli che non solo hanno dedicato la propria vita alla produzione culturale, ma hanno avuto ruoli definitivi nello sviluppo delle conoscenze storiche di questa terra. Aldo de Bernart, scomparso lo scorso marzo a 88 anni, ha attraversato tutto lo scorso secolo con uno spettro ampio di impegno, approfondimento, produzione…”[4].

Sulla rivista «Il Galatino» di Galatina, del 26 aprile 2013, è riportato uno scritto di Paolo Vincenti dal titolo Aldo de Bernart, storico e poeta raffinato[5]. Sabato 18 maggio 2013, nell’Aula Magna del Liceo Classico “Francesca Capece” di Maglie, viene presentato il numero XXIII della miscellanea della Società di Storia Patria per la Puglia, sezione Basso Salento, «Note di Storia e Cultura Salentina». Nel libro, dedicato alla memoria del socio de Bernart, è presente il saggio di Paolo Vincenti, Aldo de Bernart, il buon maestro della rinascenza salentina[6], già pubblicato da Vincenti col titolo La figura e le opere di Aldo de Bernart (con Bibliografia) in Di Parabita e di Parabitani del 2008[7].

A Ruffano, la sua città adottiva, non si poteva mancare di ricordare il maestro. Infatti, in occasione dei festeggiamenti civili e religiosi in onore del patrono Sant’Antonio da Padova, sabato 8 giugno, nella Chiesa Parrocchiale “B. M.Vergine”, su impulso del parroco Don Nino Santoro, si tiene un convegno su “La Chiesa Natività di B.M.V. – a 300 anni dalla sua riedificazione”, con una “Memoria del prof. Aldo de Bernart”, a cura di Alessandro Laporta e Giovanni Giangreco. Inoltre, martedi 11 giugno 2013, organizzata dalla Biblioteca Comunale di Ruffano e con il patrocinio del Comune, si tiene una serata dedicata a “Pietro Marti. La figura di un intellettuale poliedrico”, per celebrare un personaggio di spicco del passato ruffanese, ovvero lo storico, giornalista e operatore culturale Pietro Marti, in occasione del 150° della nascita e dell’80° della morte.

Dopo gli interventi dell’allora Sindaco Carlo Russo e di Orlando D’urso, Alessandro Laporta ed Ermanno Inguscio, Paolo Vincenti legge un intervento di Aldo de Bernart tratto da una delle sue ultime plaquette: Cenni sulla figura di Pietro Marti da Ruffano, perché del Marti de Bernart era stato il primo biografo. E il ricordo di de Bernart fa da leit motiv fra i vari interventi della serata[8].  Sul numero 63 della rivista gallipolina «Anxa News» (maggio-giugno 2013) è riportato un bellissimo scritto di Alessandro Laporta, Ritratto di Aldo de Bernart[9].

Ancora, nel numero del luglio 2013 della rivista «NuovAlba», un altro scritto di Paolo Vincenti, Aldo de Bernart. In memoria. Vincenti, che apre il pezzo con una citazione dal libro Cuore di Edmondo De Amicis (“Pronuncia sempre con riverenza questo nome – maestro – che dopo quello di padre, è il più nobile, il più dolce nome che possa dare un uomo a un altro uomo”), scrive: “Ancora qualcuno, degli amici più giovani o a lui più lontani, mi chiede incredulo: -ma è vero, il professore de Bernart è scomparso?-. È passato qualche mese dalla dipartita di Aldo de Bernart ma il vuoto che ha lasciato in chi, come me, lo ha conosciuto, frequentato, amato, è incolmabile…Gli amici e tutti i collaboratori si sono stretti attorno alla sua famiglia, la figlia Ida ed il figlio Mario, e la comunità salentina di studi umanistici è rimasta orfana di così alto nobile esempio.

Noblesse oblige, mi veniva da dire spesso, pensando al caro Aldo, ma nel suo caso questa non era una formula vuota o di circostanza, bensì manifesto di vita di chi aveva fatto dell’eleganza e dell’aristocrazia dei modi il proprio tratto distintivo”[10].

Nell’ambito dell’annuale rassegna “Identità Salentina” organizzata dall’associazione Italia Nostra sezione Sud Salento, che si tiene dal 27 settembre al 6 ottobre 2013 a Parabita, in Piazzetta degli Uffici, nel corso della serata inaugurale viene ricordato Aldo de Bernart con interventi di Alessandro Laporta, Mario Cazzato e Gigi Montonato, presenti i figli dello scomparso. Della serata dà notizia il periodico «Presenza Taurisanese» nel numero di novembre 2013. Ancora, su «Presenza Taurisanese» del marzo 2014 compare un toccante articolo di Vittorio Zacchino (“Non omnis moriar”. Ricordo di Aldo de Bernart ad un anno dalla scomparsa), il quale scrive: “Fino quasi all’ultimo, Aldo ci ha riservato le sue nitide ed accattivanti plaquettes, i suoi profili di uomini illustri, nobili, patrioti, artisti, letterati, Pirro Castriota, Francesco Valentini, Raffaele Viva, Saverio Lillo, Antonio Bortone, Pietro Marti… Al povero Aldo, al di là della mestizia rievocativa, il grazie infinito per averci insegnato ad alleggerire la narrazione storica, a renderla accessibile ad ogni fascia di lettori, con l’ausilio di qualche verso, di un aneddoto, di un sorriso”[11].

Il 2 giugno 2014, è da segnalare una serata a Palazzo Ferrari di Parabita, “Ricordando Aldo de Bernart”, organizzata dal centro di cultura Il Laboratorio-Archivio Storico Parabitano, con Aldo D’Antico e gli interventi di Alessandro Laporta, Paolo Vincenti e dell’allora Sindaco Alfredo Cacciapaglia.

Nel 2015 l’operazione più importante ed il più compiuto omaggio al maestro de Bernart prende corpo editoriale grazie all’impegno della famiglia e della Società Storia Patria per la Puglia sezione di Lecce: un corposo volume, più di 550 pagine, intitolato Luoghi della cultura e cultura dei luoghi, uno dei titoli più belli dell’intera collana “I quaderni de L’Idomeneo” nella quale è ospitato. I curatori sono Francesco De Paola e Giuseppe Caramuscio[12]. In copertina uno scorcio della terra di Ruffano in una elaborazione grafica di Donato Minonni. Dopo la Prefazione di Mario Spedicato, nella prima parte del libro, L’uomo e l’intellettuale, si fa un focus sulla figura e sulle opere di de Bernart, con un profilo bio-bibliografico del maestro, curato da Paolo Vincenti, e poi vari contributi che lumeggiano la sua multiforme attività culturale che spaziava dal campo dell’arte a quello della critica letteraria, da quello più prettamente storiografico a quello musicale, fino all’aspetto religioso del culto dei santi e dell’arte sacra.

La storia moderna è l’oggetto privilegiato dell’indagine di de Bernart, dal Cinquecento fino all’Ottocento, con rari sconfinamenti nel Novecento, sempre con riconosciuta competenza e un’acribia che ne facevano un erudito nel senso più pieno del termine. Dunque, le testimonianze di affetto per l’amico, il collega, lo studioso, il concittadino, nelle parole di Gigi Montonato, Gigino Bardoscia, Mario Cazzato, Giulio Cazzella, Gianpaolo Cionini, Stefano Ciurlia, Gino De Vitis, Enzo Fasano, Mario Marti, Maria Rosaria Palumbo, Gemma Preite, Mario Stefanò, Vincenzo Vetruccio. Un numero elevatissimo di testimonianze perviene in occasione del libro. “Nella cittadina natia di Pietro Marti e Antonio Bortone, che il direttore ha scelto quale sua residenza elettiva”, scrive Mario Spedicato nella Prefazione, “per buona parte della sua vicenda esistenziale, egli ha saputo riunire un gruppo di appassionati con i quali è rimasto in contatto fino agli ultimi giorni di vita, mostrandosi sempre disponibile all’ascolto, interessato a quel mondo esterno che non poteva più frequentare direttamente e prodigo di consigli a chi gliene faceva richiesta”[13].

Nella seconda sezione, L’eredità della ricerca, compaiono contributi che seguono da vicino l’area degli interessi del commemorato, con saggi di Maria Antonietta Bondanese, Ermanno Inguscio, Andrè Jacob, Alessandro Laporta, Antonio Romano, Ortensio Seclì, Vincenzo Vetruccio, Vittorio Zacchino. La sezione terza, Arte, storia, cultura del Mezzogiorno, è incentrata invece sulla storia del territorio, secondo la linea della prestigiosa associazione culturale che patrocina la pubblicazione, quindi con una maggiore curvatura scientifica nei saggi di P. Giovan Battista Mancarella, Pietro De Leo, Angelo D’Ambrosio, Maria Antonia Nocco, Maria Antonietta Epifani, Roberto Orlando, Sergio Fracasso, Arcangelo Salinaro, Stefano Zammit, Giacomo Filippo Cerfeda, Alberto Tanturri, Giancarlo Vallone, Antonio Brigante, Francesca Cannella, Carlo Crudo, Oronzina Greco[14]. Il libro viene presentato a Ruffano, presso il Teatro di via Paisiello (Istituto Comprensivo Statale), sabato 20 giugno 2015, davanti a un pubblico numeroso ed interessato. Dopo i saluti del Sindaco Carlo Russo e della Dirigente Scolastica Madrilena Papalato, gli interventi di Vincenzo Vetruccio, Alessandro Laporta, Gigi Montonato, Hervé A. Cavallera.

Le Conclusioni sono di Mario Spedicato. La presentazione si ripete a Parabita, presso il Teatro Comunale “Carducci”, il 29 febbraio 2016. Coordinati da Flora Della Rocca, dell’Associazione “Progetto Parabita”, che organizza l’incontro, dopo i saluti del Sindaco Alfredo Cacciapaglia e dell’Assessore Sonia Cataldo, intervengono Alessandro Laporta, Vittorio Zacchino, Aldo D’Antico e Ortensio Seclì. Mario Spedicato conclude i lavori.

E veniamo al 2020 e al volume Humaniora. Scritti in memoria di Mons. Quintino Gianfreda, a cura di Alessandro Laporta. Nel contributo pubblicato all’interno di questo libro, Alessandro Laporta si occupa di un’opera poco nota di de Bernart, per quanto censita nella più volte citata Bibliografia degli scritti del maestro. Si tratta di L’epopea otrantina del 1480, una importante pagina di storia locale, che de Bernart pubblicò nei “Quaderni dell’Archivio Storico della Direzione Didattica di Taurisano”, nel 1968[15]. Questa “chicca” si rivela una ghiotta occasione per Laporta di rispolverare uno scritto “minore”, cioè poco conosciuto dell’illustre parente, ma anche di dare allo stesso la migliore destinazione possibile, ovvero quella di un libro dedicato a Mons. Quintino Gianfreda che dell’epopea d Otranto degli ottocento beati martiri ha fatto l’oggetto privilegiato dei suoi studi[16]. Sempre nel 2020 si tiene la prima edizione del premio letterario intitolato a de Bernart, organizzato dall’Associazione Culturale “Diciottesimomeridiano” di Ruffano, con il patrocinio del Comune di Ruffano e del Comune di Parabita e con una Commissione esaminatrice di tutto rispetto, composta da Carlo Alberto Augeri, Alessandro Laporta e Daniele Sannipoli. Le premiazioni, per i settori narrativa, poesia e saggistica, avvengono il 28 dicembre 2020, in teleconferenza a causa della pandemia da covid[17]. Il nome di de Bernart continua a circolare fra gli addetti ai lavori e resta vivo nella mente e nel cuore di chi lo ha frequentato; le iniziative messe in campo in quest’anno 2023, in occasione del decennale della scomparsa, sono a confermarlo. “Nessuno muore per sempre”, e rinverdire il ricordo allevia l’assenza.

 

     [1] G. Montonato, Aldo de Bernart. Scomparso a 88 anni. Un signore della cultura, storico e poeta raffinato, in «Presenza Taurisanese», Taurisano, n. 254, marzo 2013, p. 5.

     [2] S. Laterza, Il nobiluomo dal cuore grande Omaggio all’amico-maestro, in «Nuovalba», Parabita, a. XIII, n.1, marzo 2013, p.1.

     [3]O. Seclì, Non è più con noi, Ivi, p. 2.

     [4] A. D’Antico, Ricordo di Aldo de Bernart, in «Piazza Salento», Alezio, 4-7 aprile 2013, p. 4.

     [5] P. Vincenti, Aldo de Bernart, storico e poeta raffinato, in «Il Galatino», Galatina, 26 aprile 2013, p. 3.

     [6] Idem, Aldo de Bernart, il buon maestro della rinascenza salentina, in «Note di Storia e Cultura Salentina. Miscellanea di studi “Mons Grazio Gianfreda”», Società di Storia Patria per la Puglia, sezione Basso Salento, Lecce, Edizioni Grifo, 2013, pp. 9-14.

     [7] Idem, La figura e le opere di Aldo de Bernart- per il suo 82esimo compleanno, in Idem, Di Parabita e di Parabitani, Parabita, Il Laboratorio Editore, 2008, p. 124-138.

     [8] A. de Bernart, Cenni sulla figura di Pietro Marti da Ruffano, Memorabilia n.35, Ruffano, Tipografia Inguscio e De Vitis, agosto 2012.

     [9] A. Laporta, Ritratto di Aldo de Bernart, in «Anxa News», Gallipoli, n.63, maggio-giugno 2013, pp. 6-9.

     [10] P. Vincenti, Aldo de Bernart. In memoria, in «NuovAlba», Parabita, a. XIII, n.2, luglio 2013, pp. 11-12.

     [11] V. Zacchino, “Non omnis moriar”. Ricordo di Aldo de Bernart ad un anno dalla scomparsa, in «Presenza Taurisanese», Taurisano, n.262, marzo 2014, p.10.

     [12]  Aa. Vv., Luoghi della cultura e cultura dei luoghi. In memoria di Aldo de Bernart, a cura di Francesco De Paola e Giuseppe Caramuscio, Società Storia Patria Puglia sezione di Lecce, “I quaderni de L’Idomeneo”, Lecce, Grifo, 2015.

     [13] M. Spedicato, Prefazione, in Luoghi della cultura, cit., pp. 7-8.

     [14] Una puntuale recensione del libro a cura di M. A. Bondanese, in «Il Nostro Giornale», Supersano, n. 83, dicembre 2015, pp. 14.15.

     [15] A. de Bernart, L’epopea otrantina del 1480, in “Quaderni dell’Archivio Storico della Direzione Didattica di Taurisano”, n.1, Taurisano, 1968.

     [16] A. Laporta, Aldo de Bernart. L’epopea otrantina in una plaquette di 50 anni fa, in Humaniora. Scritti in memoria di Mons. Quintino Gianfreda, a cura di Alessandro Laporta, Lecce, Edizioni Grifo, 2020, pp. 85-91.

     [17] M. Zezza, Nel segno di Aldo de Bernart. Un Premio per ricordare il valore della cultura, in «Il Nostro Giornale» Supersano, luglio 2021, pp. 62-63.

 

Pubblicato in Tra Scuola, Ricerca e Memoria. Aldo de Bernart dieci anni dopo (2013-2023), a cura di Mario Spedicato e Paolo Vincenti, Società Storia Patria puglia-Lecce, Castiglione, Giorgiani Editore, 2023

Maestri di scuola a Ruffano fra Ottocento e Novecento

di Paolo Vincenti

 

Come la vicina Taurisano[1], anche Ruffano vanta una serie di maestri elementari fra Ottocento e Novecento, esponenti di quella classe intellettuale che certo faticava a trarre fuori dall’analfabetismo la popolazione, assillata in quel torno di tempo da problematiche più urgenti come la miseria, la mancanza di lavoro e l’alta mortalità per malattia. In questa sede, non ci soffermeremo sul loro ruolo di insegnanti e sulle problematiche connesse all’esercizio della professione,[2] ma piuttosto sulla loro produzione letteraria, nei due secoli presi in esame.

Il primo maestro di cui ci occupiamo è Alfonso Mellusi (1826-1907), biografato da Aldo de Bernart nel bel saggio Un maestro di scuola nella Ruffano ottocentesca –Alfonso Mellusi-[3].  Originario di Ginosa ma proveniente da Alessano, aveva studiato presso il Seminario di Ugento e poi aveva perfezionato la formazione presso il Convento dei Cappuccini di Ruffano. Divenuto sacerdote, fu il primo maestro di scuola a vita (oggi si direbbe insegnante di ruolo) non solo a Ruffano ma nel Salento. “Sacerdote filosofo”, lo definisce de Bernart, “direttore di un corso per la formazione di maestri elementari”,[4] autore nel 1868 di un Catechismo religioso comparato con la storia sacra[5] che de Bernart pubblica in versione integrale nel succitato volume. Si tratta di un’opera sulla didattica dell’insegnamento della religione cattolica, che diede al maestro Mellusi grande prestigio e notorietà, tanto che nel 1900 il Re Umberto I lo nominò Cavaliere della Corona d’Italia.

Ma Ruffano negli stessi anni si dimostrava all’avanguardia anche sotto l’aspetto della parità di genere e dell’emancipazione femminile. Occorre ricordare almeno due nomi di maestre donne a cavallo fra Ottocento e Novecento: Marina Marzo e Angiola Guindani.[6]

Altro maestro di cui ci occupiamo è Carmelo Arnisi (1859-1909).  Oltre ad essere ricordato da Ermanno Inguscionella sua opera La civica amministrazione di Ruffano-Profilo storico[7], è stato al centro di una pubblicazione del 2003, a cura della Pro Loco di Ruffano: Carmelo Arnisi – Un maestro poeta dell’Ottocento, un pregevole volume con tre saggi, di Aldo de Bernart, Ermanno Inguscio e Luigi Scorrano, sulla vita e le opere del poeta ruffanese, fino ad allora quasi sconosciuto, nonostante a lui sia a Ruffano intitolata una strada[8].

Nel libro, pubblicato con il patrocinio dell’Amministrazione Comunale di Ruffano, Cosimo Conallo, nell’Introduzione, sottolineava come fosse ormai tempo di riscoprire la figura di questo poeta ruffanese, intorno al quale non era mai stato fatto uno studio organico. Nel primo saggio, L’Arnisi e il suo tempo, Aldo de Bernart fa uno spaccato della società, della politica, dell’arte scultorea, pittorica ed architettonica del tempo in cui visse l’Arnisi, e parla delle sue fonti di ispirazione, delle sue frequentazioni con i maggiori protagonisti della cultura salentina dell’epoca, fra i quali il grande Cosimo De Giorgi, con cui egli era in corrispondenza, ed anche con gli esponenti della nobiltà locale, come le famiglie ruffanesi Castriota-Scanderbeg, Pizzolante -Leuzzi, Villani- Licci. <<Ispirandosi alla poesia di Luigi Marti […] che aveva cantato la “Verde Apulia”, l’Arnisi cantò la “Verde Ruffano”, in particolare S.Maria della Serra dove soleva recarsi, pellegrino di fede e d’amore…>>.[9] Il secondo saggio, Carmelo Arnisi (1859-1909) L’uomo il poeta, a cura di Ermanno Inguscio, ripercorre le tappe fondamentali della vita del poeta, la cui salute fu minata fin dalla giovane età da una persistente forma di tosse convulsa; l’infanzia serena trascorsa a Ruffano, presso la casa di Vigna La Corte prima e Casa Quarta, in Via Pisanelli, dopo, il suo lavoro di maestro elementare, l’amore per la cultura, la collaborazione con alcuni giornali dell’epoca, come “Il Corriere meridionale”, diretto da Nicola Bernardini, e la “Cronaca letteraria”, diretta da Giuseppe Petraglione; gli inverni a Ruffano e le estati trascorse a Leuca, ospite nelle ville delle famiglie Daniele, Castriota, Fuortes. Sempre ben disposto nei confronti degli amici, fra i quali il segretario comunale Donato Marti, era invece tagliente e fortemente sarcastico nei confronti degli usurai, che egli definì “vampiri sociali”, degli operatori di banca, “illustri parassiti”, e degli ipocriti. Morì, nel luglio del 1909, spossato da una forma grave di polmonite, a soli 49 anni. Alla sua morte, il giornalista e scrittore Pietro Marti traccia un elogio funebre sul giornale “La Democrazia”.[10] Nel terzo saggio, Sui versi di Carmelo Arnisi, Luigi Scorrano fa una attenta analisi dell’opera “Versi”, unica inedita dell’Arnisi, e dei manoscritti lasciati dal poeta e non pubblicati. Viene fuori il ritratto di un autore che si può ascrivere al filone della poesia sentimentale dell’Ottocento, influenzato da Leopardi, D’Annunzio, Pascoli, Carducci, dei quali trascrive molte poesie. La produzione dell’Arnisi è caratterizzata da toni intimistici, i temi sono gioie familiari, amore deluso, spesso tristezza e ripiegamento su se stesso; è costante, nelle sue liriche, la presenza della morte. Nell’opera non data alle stampe, che il curatore chiama “Versi 2”, per distinguerla da quella a stampa, indicata come “Versi 1”, compaiono altri motivi e fonti di ispirazione, come la natura, l’amor di patria, l’attenzione al sociale, gli scherzi nei confronti degli amici, la filiale devozione per la terra natale, Ruffano. Anche se non vi è una vera e propria connotazione locale nell’opera dell’Arnisi, che voleva evitare la dimensione municipalistica di una caratterizzazione estremamente tipicizzata, emerge comunque la salentinità del poeta e il suo attaccamento al borgo natìo. È stato il maestro Vincenzo Vetruccio il primo a riscoprire Carmelo Arnisi dal momento che, come giustamente rivendica in una sua pubblicazione autoprodotta[11], fu lui che ritrovò il manoscritto dell’Arnisi, Versi, inedito, lo fotocopiò e ne donò una copia al prof. Cosimo Conallo, all’epoca Presidente della Pro Loco, il quale si fece poi promotore della pubblicazione, affidandone l’incarico agli studiosi de Bernart, Inguscio e Scorrano. Nel quadernetto, Vetruccio riporta molte interessanti notizie biografiche e foto sull’Arnisi e sulla Ruffano del tempo in cui visse l’insegnante.

Ed eccoci a Pietro Marti (1863- 1933), il nome più altisonante fra gli intellettuali a cui Ruffano abbia dato i natali.[12]

Dalle svariate fonti in nostro possesso sappiamo che Pietro Marti nasce in una poverissima famiglia ruffanese, ma riesce tuttavia a studiare, tra mille sacrifici, ed a diplomarsi maestro elementare, attività che svolge a Ruffano, nei primi anni. Marti non aveva un carattere facile. Ben presto, i suoi rapporti con l’amministrazione comunale di Ruffano si fecero tesi ed egli, dopo ricorsi e sentenze del Consiglio di Stato, fu mandato ad insegnare a Comacchio. In realtà i motivi del suo esonero furono le arbitrarie assenze dal posto di lavoro. Oltre alle lettere, la sua grande passione è l’arte e l’amore per la sua terra, che lo studioso manifesta in vari modi, nella sua sfaccettata e multiforme attività. Spirito libero, brillante e poliedrico, si dà al giornalismo, fondando e dirigendo molte testate, fra le quali “La Voce del Salento”, “Arte e Storia”, “La Democrazia”, ecc. Il nome di Marti è anche legato alla nascita ed alla diffusione del Futurismo pugliese.  Nel febbraio del 1909, infatti, veniva pubblicato sul prestigioso giornale francese “Le Figarò” il Manifesto del Futurismo, la corrente letteraria fondata da Filippo Tommaso Marinetti. Sulla “Democrazia”, settimanale fondato e diretto da Pietro Marti, il 13 marzo 1909, vale a dire a meno di un mese di distanza dall’apparizione del manifesto Le futurisme sul “Figaro”, veniva pubblicato il “Manifesto politico dei Futuristi”. Ancora, dopo un periodo di parziale oblio del futurismo leccese, nel 1930, a smuovere le acque fu “La Voce del Salento”, nuovo settimanale fondato e diretto da Marti, con un articolo, a firma di Modoni, fortemente critico nei confronti dell’arte futurista. Questo articolo innescò l’effetto contrario rispetto a quello desiderato dal suo autore; vi fu infatti una levata di scudi, da parte degli esponenti del futurismo, in difesa del movimento. Lo stesso Marti, con lo pseudonimo di Ellenio, pur chiamandosi fuori dalla rissa che si era scatenata, esprimeva forti perplessità sulla concezione futurista dell’arte. E tuttavia, da intellettuale aperto e illuminato, pur non in sintonia con le idee dei giovani futuristi, accettava di pubblicare qualsiasi intervento. Si ritrovò così a dare spazio ad un gruppo di giovani artisti leccesi, che si chiamerà “Futurblocco”, capeggiato dall’allora poco più che adolescente Vittorio Bodini, nipote dello stesso Marti, il quale ricorderà sempre il nonno in pagine di grande affetto. Molti i meriti di Marti nell’arte. Da vero talent scout, fece conoscere al grande pubblico i giovani artisti salentini, con l’allestimento di Biennali d’arte a Lecce. Fu Regio Ispettore ai Monumenti della Provincia di Lecce, dal 1923 al 1929, e Direttore della Biblioteca provinciale “Nicola Bernardini” fino alla morte. Oltre ad una biografia di Antonio Bortone, in cui Marti dimostra la propria ammirazione per lo scultore ruffanese,[13] scrisse diverse opere di carattere storico, artistico e letterario. Fra queste, una la dedica proprio al filosofo taurisanese Giulio Cesare Vanini. Al martire di Tolosa, Marti si sentiva molto vicino per indole e temperamento e ne sposava idealmente la causa. Il libro è Giulio Cesare Vanini del 1907.[14] Marti, nel suo elogio del filosofo, definito il “precursore del trasformismo scientifico”, seguendo le parole di Bodini[15], passa in rassegna tutti gli studiosi che avevano severamente contestato il Vanini e quelli che invece lo avevano difeso. Si sofferma lungamente sulle vicende biografiche di Vanini, sulle numerose tappe del suo lungo peregrinare e soprattutto sulle sue opere, approfondendo il pensiero del filosofo, che inquadra nel contesto storico in cui visse e operò. Porta illustri esempi di filosofi del Cinquecento, Seicento, Settecento, per esaltare l’eroismo di Vanini, e tuttavia non si sottrae a quella visione che erroneamente lo considerava un martire della repressione cristiana se non un Giordano Bruno minore. Da citare anche l’opera Nelle terre di Antonio Galateo, [16]che faceva riferimento al grande autore del De situ Iapigiae, l’erudito del Cinquecento Antonio De Ferraris, di Galatone.

In tutto, si conservano circa 40 opere di Marti presso la Biblioteca provinciale di Lecce, che gli costarono molti anni di paziente ricerca, agevolata sicuramente dal suo incarico di Direttore della Biblioteca provinciale, nella quale egli profuse grandissimo impegno e amore per la nobile cultura di cui si sentiva paladino. Per questo, esaminò un numero impressionante di documenti e svolse ricerche sul campo per tutto il corso della sua carriera. Pietro Marti muore il 18 luglio 1933; a lui a Ruffano, è anche intitolata una via.   

 

Note

[1] Si rinvia a Francesco De Paola, Stefano Ciurlia, L’istruzione elementare nella Taurisano del Novecento: esperienza, memoria, immagini, in Aa. Vv., Humanitas et Civitas. Studi in memoria di Luigi Crudo, a cura di Giuseppe Caramuscio e Francesco De Paola, Società di Storia Patria-Sezione di Lecce, “Quaderni de l’Idomeneo”, Galatina, Edipan, 2010, pp.123-184.

[2] Si veda Aldo de Bernart, Il maestro di scuola nel Salento Borbonico, Tipografia di Matino, 1965.

[3] Aldo de Bernart, Un maestro di scuola nella Ruffano ottocentesca –Alfonso Mellusi, Galatina, Congedo, 1990.

[4] Aldo de Bernart, Carmelo Arnisi e il suo tempo, in Aldo de Bernart, Ermanno Inguscio e Luigi Scorrano, Carmelo Arnisi Un maestro poeta dell’Ottocento, Galatina, Congedo, 2003, p17.

[5] Alfonso Mellusi, Catechismo religioso comparato con la storia sacra, Lecce, Tip. Gaetano Campanella, 1868.

[6] Aldo de Bernart, Un maestro di scuola nella Ruffano ottocentesca –Alfonso Mellusi cit., p.10.

[7] Ermanno Inguscio, La civica amministrazione di Ruffano-Profilo storico, Galatina, Congedo,1999, pp.176-179 ed anche Idem, Amici e mecenati in alcune liriche del poeta Carmelo Arnisi (1859-1909), in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria sezione Maglie, n. XII, Lecce, Argo, 2000, pp.193-203.

[8] Aldo de Bernart, Ermanno Inguscio e Luigi Scorrano, Carmelo Arnisi – Un maestro poeta dell’Ottocento, Galatina, Congedo, 2003.

[9] Aldo de Bernart, Carmelo Arnisi e il suo tempo, in op.cit., p.19.

[10] Pietro Marti, Lutto nell’arte, in “La Democrazia”, n.27, Lecce, 11 luglio 1909, riportato da Ermanno Inguscio nel suo saggio Carmelo Arnisi (1859-1909) L’uomo il poeta, in Carmelo Arnisi – Un maestro poeta dell’Ottocento cit., p.38, nel quale riporta anche il necrologio dell’Arnisi scritto sul “Corriere Meridionale” dell’8 luglio 1909: Ivi, p.29.

[11] Vincenzo Vetruccio, Carmelo Arnisi (Maestro-poeta/ 1859-1909), s.d..

[12] Sulla figura dell’erudito Pietro Marti (1863-1933), storico, giornalista, conferenziere, illustre concittadino di Ruffano, esiste una cospicua bibliografia. Tra gli altri:

Carlo Villani, Scrittori ed artisti pugliesi antichi, moderni e contemporanei, Trani, Vallecchi, 1904, p.578 (nuova edizione Napoli, Morano, 1920, pp-137-138);  Domenico Giusto, Dizionario bio-bibliografico degli scrittori pugliesi (dalla Rivoluzione Francese alla rivoluzione fascista), Bari, Società Editrice Tipografica, 1929, pp.187-188;  Aldo de Bernart, Nel I centenario della nascita di Pietro Marti, in “La Zagaglia”, Lecce, n. 21, 1964, pp.63-64;  Pasquale Sorrenti, Repertorio bibliografico degli scrittori pugliesi contemporanei, Bari, Savarese, 1976, pp.375-376; Ermanno Inguscio, La civica amministrazione di Ruffano (1861-1999). Profilo storico, Galatina, Congedo, 1999, pp.174-175; Paolo Vincenti, Pietro Marti da Ruffano, in “NuovAlba”, dicembre 2005, Parabita, 2005, pp-17-18; Aldo de Bernart, In margine alla figura di Pietro Marti,  in “NuovAlba”, aprile 2006, Parabita, 2006, p.15;  Ermanno Inguscio, Vanini nel pensiero di Pietro Marti, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia sezione di Maglie, n. XX, Lecce, Argo, 2009, pp.137-148;Idem, Pietro Marti direttore di giornali, in “Terra di Leuca. Rivista bimensile d’informazione, storia, cultura e politica”, Tricase, Iride Edizioni, a. VII, n. 39, 2010, p. 6; Idem, L’attività giornalistica di Pietro Marti, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia sezione di Maglie, n. XXI, Lecce, Argo, 2010-2011, pp.227-234; Idem, Il giornalista Pietro Marti, in “Terra di Leuca. Rivista bimensile d’informazione, storia, cultura e politica”, Tricase, Iride Edizioni, a.VIII, n.40, 2011, p.7; Idem, Liborio Romano e le ragioni del Sud nel periodo postunitario. Il contributo di Pietro Marti sul patriota salentino, in “Risorgimento e Mezzogiorno. Rassegna di studi storici”, n.43-44, dicembre 2011, Bari, Levante, 2011, pp.147-161; Idem, Pietro Marti e la cultura salentina. Apologia di Liborio Romano, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia sezione di Maglie, n. XXII, Lecce, Grifo,2012, pp.164-185; Aldo de Bernart, Cenni sulla figura di Pietro Marti da Ruffano, Memorabilia n.35, Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis,2012; Ermanno Inguscio, Pietro Marti, il giornalista, il conferenziere, il polemista, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia sezione di Maglie, n. XXIII, Lecce, Argo, 2013, pp.40-58; Idem, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013.

[13] Pietro Marti, Antonio Bortone e la sua opera, Lecce, 1931.

[14] Pietro Marti, Giulio Cesare Vanini, Lecce, Editrice Leccese, 1907; su quest’opera si sofferma Ermanno Inguscio in Vanini nel pensiero di Pietro Marti, contenuto nel suo libro Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013, pp.123-134.

[15] Vittorio Bodini, In memoria di Pietro Marti. La vita e l’opera, in “La Voce del Salento”, n,11, Lecce, 18 maggio 1933, p.1.

[16] Pietro Marti, Nelle terre di Antonio Galateo, Lecce, 1930.

La rava e la fava

di Paolo Vincenti

La fava -nome tecnico vicia faba – è una pianta leguminosa che dà ottimi frutti, ovvero legumi, molto apprezzati specie alle nostre latitudini. Non tutte le varietà di vicia faba sono alimentari, cioè quella che noi mangiamo è la variante major Harz., con semi grossi, 1000 semi di peso superiore a 1000 grammi, il baccello è lungo 15-25 cm ed è pendulo e di forma appiattita e contiene 5-10 semi[1].

 

Ma perché ci occupiamo di fave? Varie sarebbero le motivazioni dell’articolo. La causa potrebbe essere l’ozio creativo, e sarebbe facile in questo caso rispondere, per via di quelle divagazioni erudite che spesso portano chi scrive a sprecare il tempo in bubbole. Potrebbe essere quella della notizia inedita, l’aneddoto curioso, la “chicca” che non si vede l’ora di divulgare ai pochi e barbogi amici che condividono la stessa amena occupazione pedantesca. A volte, dopo essere stati impegnati nella scrittura di un saggio scientifico con grande dispendio di energie nella ricerca archivistica e bibliografica, ci si vuole alleggerire e per contrasto si passa a dispensare bagatelle di cultura varia, innocenti divertissement, aria fritta insomma, quando la Musa iocosa, per dirla con Ovidio, rivuole la propria parte. E del resto è facile passare da un argomento all’altro per chi si ritrova preda del demone dell’eclettismo: nihil medium est, diceva Orazio nelle Saturae, a qualcuno “manca sempre la misura”, “tutto tutto niente niente”, direbbe Cetto La Qualunque-Antonio Albanese.

La semina delle fave si effettua in autunno o all’inizio dell’inverno, e poi la raccolta si ha in primavera. Nella civiltà contadina del passato le fave costituivano un alimento pregiato e ancora oggi questo legume compare spessissimo sulla tavola dei salentini, cucinato in vari modi, come le fave nette o come il gustosissimo purè preparato con le cicorie e un po’ di olio e divenuto un must per i ristoranti tipici salentini. E già sentiamo il suo inconfondibile profumino suppurare l’ambiente soverchiando quello – che i non addetti ai lavori potrebbero definire nauseabondo – della polvere e della carta rosicchiata dalle tarme. L’ambiente è infatti lo studio nel quale ci troviamo intenti a ponzare questo scritto. Chi ha superato gli “anta” inevitabilmente ritorna con la memoria alle assolate estati di tanti anni fa quando, da ragazzi, si stazionava (alcuni ci vivevano) molto più a lungo nelle campagne e quindi a contatto con quei prodotti che la nostra terra dà in abbondanza. Fra questi, appunto le fave, che noi raccoglievamo direttamente dalla pianta e mangiavamo anche in mezzo all’orto, se la fame era tanta.

Per i salentini la fava è l’ongulu, strano nome per un prodotto così semplice ed elementare. Ne parla Armando Polito in un “gustoso” articolo apparso in rete in cui afferma che «il Rohlfs[2] in forma dubitativa (sarà per via dell’accento?) propone il greco goggýlos=rotondo, riprendendo una precedente ipotesi del Ribezzo[3]. Irene Maria Malecore propone, sempre in forma dubitativa, il latino novùnculus=novellino[4]. Se sul piano fonetico le tre ipotesi mi appaiono plausibili,  è su quello semantico che manifestano qualche debolezza perché l’idea della rotondità è ben più spinta in altri frutti e ho altrettanta difficoltà a capire come mai proprio il nostro baccello sia diventato il simbolo del prodotto novello, anche se la specificazione nell’espressione fae ti ùnguli potrebbe far pensare proprio alla contrapposizione alle fave secche.[…] Parto dalla banale osservazione che il baccello della fava ricorda un artiglio o, pensando ad alcune eccentricità del nostro tempo, l’unghia esibita da alcune donne che evidentemente si sarebbero sentite naturalmente realizzate se fossero nate tigri. Unghia in latino è ùngula, di genere femminile, ma in Plauto (III-II secolo a. C.) è attestato anche un maschile ùngulus (in altri codici unguìculus) col significato di unghia del piede[5]. Pure in Plinio (I secolo d. C.) compare un ùngulus col significato di anello ma con agganci etimologici, anche se piuttosto confusi, al dito […][6]. In Isidoro di Siviglia si legge: “Tra i tipi di anello ci sono l’ungulo, il samotracio, il Tinio. L’ungulo è fornito di gemma ed è chiamato con questo nome perché, come l’unghia aderisce alla carne così la gemma dell’anello all’oro”[7]. Quest’ultimo autore, dunque, rappresenta col suo anello l’anello di congiunzione (potevo rinunciare a questo gioco di parole?…) tra ùngula e ùngulum; ma basta questo per convalidare la mia ipotesi nata dalla semplice osservazione? Non credo, anche perché, sempre riferendomi all’aspetto e restando, grosso modo, nell’ambito della stessa immagine, mi viene in mente che ùngulu potrebbe essere da un latino *ùnculus, diminutivo del classico uncus=uncino (ritorna puntuale, come si vede, l’immagine dell’unghia, dell’artiglio). Questa proposta bypasserebbe le imprecisioni del Ribezzo, il dubbio del Rohlfs e le perplessità nascenti dall’ipotesi della Malecore»[8].

Ma, come suggerisce il titolo, la ragione dell’articolo è quella di raccontare “la rava e la fava”, un modo di dire, più diffuso nel nord Italia, che sta ad indicare una ricerca dei dettagli, ossia della maggiore completezza possibile da parte di chi parla o vuol spiegare qualcosa. Insomma, quella pedanteria, di cui abbiamo detto sopra, che contraddistingue il saputone, il “tuttosalle”, come lo definiva Giovanni Papini, ossia colui che conciona ininterrottamente sui più svariati argomenti e pretende di saperla sempre più lunga di noi e spiegarci tutto[9]. “La rava e la fava”, canta anche Enzo Jannacci (ma in realtà è Paolo Rossi) nella sua canzone I soliti accordi.

 

Se poi volessimo spiegare l’origine di questo modo di dire, il discorso si fa più complicato. Il Dizionario Hoepli on line dice: «Si può supporre derivi dall’immagine di una pianticella descritta in ogni sua parte, dalla radice al frutto; da qui l’idea di partire dalle cose più importanti per arrivare alle minuzie, senza trascurare nemmeno le piccolezze. Per arrivare alla rima con fava si sarebbe trasformata in rava la voce dialettale “rama”, che in molte località sta per “rami”, quindi frasche e fogliame»[10]. Sappiamo che la ravagliatura è una particolare lavorazione del terreno ovvero un’“aratura più profonda dell’ordinario, eseguita con aratri speciali (ravagliatori) che approfondiscono il solco già aperto precedentemente e riportano alla superficie una nuova fetta di terra”[11]. Così sappiamo anche che il termine “ravanare”, che per assonanza è vicinissimo, significa “negli usi colloquiali, rovistare, rimestare creando disordine; usato anche in senso figurato”[12]. “Nel gergo giovanile andare in cerca di partner”, spiega il Dizionario Devoto-Oli[13]. La Treccani la dice “Voce settentrionale di etimologia incerta. Già attestata nel 1924”[14].

In rete, troviamo una citazione dal libro del grande linguista Gianluigi Beccaria, Il mare in un imbuto Dove va la lingua italiana (Torino, Einaudi, 2010): «raccontare la rava e la fava (all’origine l’espressione era un richiamo tipico dei fruttivendoli ambulanti di una volta, che insieme a frutta, verdura, vendevano anche «rape e fave»), vale a dire ‘raccontare di tutto, ogni cosa nei dettagli’, ‘una storia senza fine’. Una volta pronunciato rava, la fava nasce come una eco del significante che precede, e l’insieme del sintagma nel complesso sembrerebbe voler abbracciare, racchiudere specularmente una totalità, voler raccontare appunto ‘di tutto’»[15].

Una supposizione è che “da ravanare che si riferisce ad un metodo complesso di preparazione del terreno per alcune colture, quindi il detto la rava e la fava indica un discorso che parte da una base complessa e si sviluppa addentrandosi minuziosamente nei particolari”[16]. Insomma dalla rava alla fava il passo è lungo, almeno quanto quello dall’Italia settentrionale dove la voce è più attestata, all’Italia meridionale, in cui la fava, specie se unita al formaggio, scaccia tutti i cattivi pensieri, comprese le dotte disquisizioni di illustri dialettologi.

E alla fava sono attribuite l’etimologia del nome Puglia da alcuni commentatori dell’opera di Benjamin di Tudela, un viaggiatore ebreo spagnolo del XII secolo che nelle lunghissime peregrinazioni toccò anche la Puglia e Terra d’Otranto[17]. Secondo Tudela il nome Puglia deriverebbe da Pul, un nome biblico che compare in Isaia (66, 19), come mitica terra in cui un giorno Dio avrebbe inviato i suoi messaggeri. Tudela si rifaceva all’opera ebraica Sefer Yosefon in cui personaggi e nomi biblici vengono trasferiti nella storia di Roma, d’Italia e di altre regioni d’Europa[18]. Tuttavia alcuni commentatori di Tudela, come Benito Arias Montano e Costantino l’Empereur lessero pol, fava, facendo derivare il nome Puglia dall’abbondanza delle fave che caratterizzerebbe questa regione[19]. Ed ecco infine la notizia sfiziosa, con cui si vorrebbe dar la baia al lettore provveduto che se è arrivato fin qui lo ha fatto non per interesse colto ma solo per il gusto malsano di stroncare poi l’articolo appena ne avrà l’occasione.

 

Note

[1] Notizie tratte dalla rete.

[2] Gerard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini, Galatina, Congedo editore, 1976, Vol. II, p.787, in Armando Polito, L’ùngulu, ovvero il baccello della fava verdeL’ùngulu, ovvero il baccello della fava verde – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

[3] Francesco Ribezzo, in «Rivista indo-greco-italica di filologia, lingua, antichità», Napoli, v. 14, 1930, p. 108. Scrive Polito:“il salentino ùngulu=baccello di fava accenna per lo meno a un in conchula…si tratterà dunque, tutt’al più, di greco kogchyle, influenzato per il k in g velare dopo n da greco gòggylos”: Ibidem.

[4] Irene Maria Malecore, Proverbi francavillesi, Firenze, Olschki, 1974, p. 87. “Novùnculus in latino non è attestato, per cui sarebbe stato opportuno far precedere tale voce ricostruita da un asterisco. Oltretutto il passaggio ad ùngulu avrebbe comportato una prima aferesi (vùnculu) e poi la lenizione di v- (che, tuttvia, rimane in alcune varianti: vùnguluvùgnulu)”. Ibidem.

[5] Plauto, Epidichus, v. 623, in Ibidem.

[6] Plinio, Naturalis historia, XXXIII, 4: Ibidem.

[7] Isidoro di Siviglia, Etymologiae, XIX, 32, 5: Ibidem.

[8] Armando Polito, L’ùngulu, ovvero il baccello della fava verde, cit. Anche nel Dizionario dei dialetti del Capo di Leuca è riportato òngulu per “baccello verde della fava”: Gino Meuli, I Dialetti del Capo di Leuca, Galatina, Grafiche Panico, II Edizione, 2006, p. 191.

[9] Paolo Vincenti, Il saputone, in Idem, Italieni, Nardò, Besa Editore, 2017, pp. 185-186.

[10] Origine di: “La rava e la fava”, https://italian.stackexchange.com/questions/8704/origine-di-la-rava-e-la-fava

[11] Treccani on line, https://www.treccani.it/vocabolario/ricerca/ravagliatura/

[12] Treccani on line, https://www.treccani.it/vocabolario/ravanare_%28Neologismi%29/

[13] Devoto Oli Vocabolario della lingua italiana, a cura di Luca Serianni e Maurizio Trifone, Milano, Mondadori, 2015, p.2296.

[14] Treccani on line, cit.

[15] Origine di: “La rava e la fava” https://italian.stackexchange.com/questions/8704/origine-di-la-rava-e-la-fava

[16] Ibidem.

[17] L’opera di Benjamin di Tudela (1130-1173), Sefer ha-Masa’ot, ovvero Il libro dei viaggi, è considerata la prima relazione di viaggio di un europeo in Asia, dunque precedente a quella di Marco Polo, per questo molto importante per gli studiosi. Una delle versioni più recenti dell’opera di Tudela, che ha avuto una enorme fortuna critica nei secoli, è: Binyamin da Tudela, Itinerario (Sefer massa‘ot), a cura di Giulio Busi, Firenze, Giuntina, 2018.

[18] Cesare Colafemmina, L’itinerario pugliese di Beniamino da Tudela, in «Archivio Storico Pugliese», 28, 1975, p. 84. Lo stesso Colafemmina però in nota precisa: “Da notare che la lezione Pul del testo ebraico di Isaia viene dai critici corretta in Put sulla scorta di alcuni mss greci e della Vetus Latina. Put indicava una regione molto probabilmente situata sulla costa africana del Mar Rosso. Pul era anche il secondo nome di Tiglat Pileser III, re di Assiria (745-727 a. C. Cf. 2 Re 15, 19, 1 Cron 5, 26)”. Ivi, p. 84, nota 10.

[19] Ivi, p.84, nota 11.

 

Gino Pisanò poeta: la raccolta di versi Clematides

 

di Renato De Capua

 

Gino Pisanò (1947-2013), importante figura di riferimento negli ambiti della filologia, della critica letteraria, della storia culturale, è insieme a tante altre grandi figure autorevoli, esponente di un Umanesimo meridiano, che dal Salento, estrema terra del Sud, furono in grado di irraggiare il proprio pensiero grazie alle ferventi attività didattiche, culturali ed editoriali; e furono grandemente studiosi e critici attenti, che non sempre la marginalità del territorio periferico di cui erano espressione, ne ha ben premiate le ottime qualità sul piano nazionale della storia della letteraria[1].

Oggi più che mai queste figure meritano la nostra attenzione. Senza di esse non si sarebbe formata quella coscienza collettiva del territorio, che l’uomo non dovrebbe mai trascurare, ma anzi conoscere, valorizzare, tramandare, facendo giungere a un prossimo domani ciò che è racchiuso nei gesti e nelle parole di uno ieri talvolta remoto, in altri casi non così troppo aggrovigliato tra le pieghe del tempo.

Fortunatamente e in maniera doverosa, allo studioso di origini casaranesi, sono stati dedicati, come omaggio, numerosi studi e pubblicazioni, nonché alcune manifestazioni di pubblico ricordo.

La finalità di questo scritto è di gettare la luce su un aspetto meno noto della figura di Gino Pisanò, uomo di fondamentale raffronto nell’ambito delle Humanae litterae contemporanee, critico e saggista dalla vasta produzione bibliografica. Come ben annota Paolo Vincenti in suo articolo[2], cui rimando per un esaustivo ricordo dell’intellettuale:

“Pisanò era anche poeta. Clematides[3], la sua esordiale raccolta poetica, è anche una delle sue prime opere e [rappresenta] un unicum nella sua carriera […]”.

Ed è proprio su questa silloge poetica che vogliamo soffermare la nostra attenzione, poiché essa fornisce la preziosa possibilità di cogliere quell’humanitas profonda di un intellettuale sì riservato, ma esplicitamente amante dei propri lavoro e territorio, dei libri da egli stesso pubblicati. L’opera è attraversata da un senso di calda tenerezza che certamente ha connotato il suo agire e il suo sentire.

 

La raccolta di versi Clematides, con una nota introduttiva di Aldo de Bernart[4], viene pubblicata dalla casa editrice Congedo di Galatina nel 1984, e presenta la dedica ai figli Attilio ed Enrico da parte dell’autore.

La nota introduttiva si apre con la spiegazione del titolo: le Clematides[5], cioè le vitalbe, sono piante che di frequente possono incontrarsi nei boschi, data la loro natura spontanea. Secondo de Bernart, Pisanò aveva potuto osservarle nel Bosco Belvedere[6], durante alcune sue passeggiate. Osservando poi il loro comportamento, esse sono rampicanti, capaci di superare i venti metri in altezza e di sviluppare forti fusti legnosi e ramificati che avviluppano gli alberi. Esse tendono alla luce e questa loro peculiare caratteristica botanica, suggerì senza dubbio a de Bernart l’espediente per tessere una meravigliosa similitudine, che spiega la visione della poesia da parte di Pisanò:

“Come le Clematides, nella sua poesia [Pisanò] cerca il sole, l’azzurro mare, la bellezza, in una sintesi di antico e di nuovo, tesa al recupero di forme classiche, limpide e perfette, con spunti originali, spesso autobiografici […]”[7], che vanno a porsi in una relazione tensiva e continuativa con il tempo vissuto dall’autore nella dimensione del ricordo, quello appartenente al momento della stesura delle liriche e quello che oggi a noi si rivela.

Più avanti, nella stessa nota introduttiva, de Bernard dirà ancora:

“Pisanò […] radica le sue liriche nella memoria, come la vitalba i suoi fiori nel bosco. A lui basta, perciò, raccogliere vitalbe andando per boschi, così come si accontenta di scrivere liriche andando a ritroso nel tempo per contemplare la bellezza classica del passato che fa da sfondo, a volte angoscioso al vissuto, quasi sempre doloroso, del poeta. […]”[8]

A questa concezione di sotteso pessimismo, evidenziata giustamente dal curatore della nota, si aggiunge una fascinazione per l’antico che si può cogliere all’interno dei componimenti: il poeta  desidera fare in modo che le memorie antiche dei luoghi vivano ancora per narrare storie, miti, leggende, potendo così infrangere la barriera del tempo.

Le liriche, infatti, sono intrise di un profondo amore per la propria terra e il poeta paragona la sua vita al mare[9] che, mediante l’andirivieni delle sue onde, scandito dal vasto e “altisonante” dispiegarsi delle ali dei grandi volatili che s’infrangono sulla sua spuma, è riuscito a donare “il ciottolo e la conchiglia” a nuova luce.

Il mare, tra le tante immagini che riesce a suscitare e che sospingono lo spirito creativo dell’uomo, spesso lo si associa ai principi di casualità e di imprevedibilità accidentale della vita di ognuno, concezioni anch’esse fortemente sostenute da Pisanò, come vedremo tra poco. In questo caso, oltre a tale interpretazione, potremmo leggere nell’immagine del mare che restituisce i suoi oggetti alla terra, quella dello studioso impegnato nel valorizzare momenti e figure di un tempo che attendevano rinnovato interesse; e ancora questa analogia è indicativa del sentire la poesia come ricerca, a partire dal proprio mondo interiore, con un verticalismo ascendente e proteso verso un’esteriorità che attende di poter nuovamente prendere la parola.

Dopo la pregevole nota introduttiva di de Bernart e poco prima di entrare nel vivo della raccolta, il lettore è invitato a soffermarsi sulla lettura di un frammento[10] della tradizione lirica greca.

Pisanò, infatti, cita in esergo alla sua silloge il poeta lirico greco, Simonide di Ceo, vissuto tra il VI e il V sec. a.C.:

 

“Tu che sei uomo non dire mai

ciò che sarà domani,

né se vedi un altro felice

per quanto tempo lo sarà.”

 

Il componimento simonideo, collocato precisamente in tale punto dell’opera, ci fornisce una prima chiave di lettura, o meglio, una prima luce interpretativa che lo stesso autore diffonde sulle proprie liriche.

Il messaggio, quasi un discreto monito pronunciato a bassa voce, si concentra su un errore spesso commesso dall’uomo: scambiare l’oggi con un postulato, con un dato leggibile aprioristicamente. Come può farlo, in bilico com’è nell’attesa del domani? Così la felicità individuale e quella dell’altro divengono effigi transitorie, indecifrabili e in mano all’arbitrio dell’azione disgregatrice del tempo.

Seguendo tali coordinate, leggiamo la poesia in endecasillabi Segno del tempo[11] di Pisanò, che si disvela in aperta connessione con il frammento di Simonide, scelto dall’autore per inoltrarci nel proprio orizzonte poetico:

 

Al ficodindia abbarbicato al muro

d’arcane latomie l’ulivo greco

contorto nello spasimo somiglia.

Segno del tempo, immobile ed uguale,

che a rompere la terra ci consuma,

fingendosi diverso nell’attesa.

 

Tutto il tessuto testuale della lirica si concentra su immagini paesaggistiche tipicamente meridionali, che possono con certezza essere ricondotte a quelle del paesaggio salentino.

Due piante, profondamente diverse nella loro conformazione botanica, il ficodindia e l’ulivo, vengono qui accomunate da un medesimo destino ineffabile e universale.

Il ficodindia è spesso posto in una posizione di sacrificata marginalità, adiacente a quei tradizionali muretti a secco, formati da pietre d’arcane latomie; l’ulivo, definito greco per la derivazione, l’ampio impiego simbolico di questa pianta nella storia letteraria della civiltà ellenica e la sacralità da essa tributatagli, si presenta contorto, come se fosse dolorante e in preda a uno spasimo lancinante. Ne consegue che le due piante, seppur profondamente diverse nell’estetica e nella biologia, appaiono di sembianza simile per il disporsi irregolare dei loro rami.

Questa disarmonia nella forma diviene allora il pretesto per chiamare l’uomo nel campo aperto del confronto ed evidenziare che anch’egli, al pari di ogni ente naturale e pur nella propria diversità, appare simile al ficodindia e all’ulivo dinanzi al segno del tempo, forza disgregante di eventi e di certezze, che vede nell’attesa la facoltà di creare incrinature e increspature nel mare della vita.

Ecco come, partendo da due immagini determinate ma diverse, coesistenti però in uno stesso tipo di paesaggio, Pisanò giunge a formulare un principio di universale valenza, che racconta e racchiude l’uomo e le sue istanze.

Sempre immerso nell’inappagabile sete dell’attesa, egli dimostra i segni della sua finitudine e i limiti della propria terrestrità.

Se già quanto esposto lascia intravedere la bellezza della silloge, non esaurisce il campo visivo-tematico esplorato dall’autore in Clematides.

Infatti, come accennato, è fortemente presente una focalizzazione sui luoghi e sulle strutture che li abitano (si pensi ai componimenti Presso una torre costiera del XVI secolo, al Frammento n.1), nonché un’attenzione ai riferimenti letterari paradigmatici di alcune suggestioni del gusto dell’autore (Sopra un verso di Quasimodo), all’omaggio alla melanconica incisività dei generi letterari del frammento e dell’epitaffio (Frammenti n. 2 e 3, Epitaffio in morte di A. Rampi), al gusto classico per la traduzione (si pensi ad Aurea mediocritas dal greco di Archiloco e al distico elegiaco latino dell’epistola dedicata da Pisanò al gesuita P. Antonio Chetry[12]).

Nell’indice, inoltre, accanto ai titoli di ciascun componimento, c’è l’indicazione della struttura metrica adoperata (rispettivamente: endecasillabi, verso libero, strofa saffica, novenari, esametro, distico elegiaco), dato che evidenzia non soltanto la sapiente conoscenza di Pisanò dei metri della tradizione letteraria antica, moderna e contemporanea, ma anche le consapevoli destrezza e leggiadria nell’impiegarli. Tutto ciò impreziosisce la concezione della poesia, che, Per Pisanò, è espressione di un misurato e tacito approssimarsi alla parola, l’eco di una memoria che vuol rivivere, proprio come quel mare, narrato dall’autore, profondamente lungisonante e conducente chi vi alberga a nuova luce.

 

Note

[1] Per approfondire la questione circa la marginalizzazione della letteratura del sud, si suggerisce la lettura del recente saggio di Simone Giorgino, che affronta ampiamente il problema:

S. Giorgino, Carta poetica del sud poesia italiana contemporanea e spazio meridiano, Musicaos editore, Neviano 2022.

Si propone un brevissimo estratto dal testo già indicativo della reiterata affermazione della questione: “La letteratura del Sud appare non come parte integrante e imprenscindibile di un percorso di studio, serio e omogeneo sulla letteratura nazionale […]. La discriminazione della letteratura del Sud […] [è] conseguenza di un diffuso atteggiamento, iniziato fin dai tempi del Risorgimento.” (Giorgino, op. cit. pagg. 9-10).

[2] Vincenti P., In ricordo di Gino Pisanò, filologo, critico letterario, storico della cultura, Fondazione Terra d’Otranto, 2022. L’articolo è consultabile online all’indirizzo https://www.fondazioneterradotranto.it/2022/12/28/in-ricordo-di-gino-pisano-filologo-critico-letterario-storico-della-cultura/.

E ancora, per un ritratto di Pisanò, si veda l’intervento dello storico dell’arte Paolo Agostino Vetrugno dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose Metropolitane di Lecce, relazione tenutasi nell’ambito del seminario del 17 marzo 2023, nella Sala Teatro dell’ex convitto Palmieri a Lecce, nel decimo anniversario della scomparsa di Gino Pisanò. L’iniziativa è avvenuta, con la promozione da parte della Società di Storia Patria di Lecce. Il testo della relazione è consultabile al seguente link https://www.spazioapertosalento.it/news/gino-pisano-ed-il-libro-come-bene-culturale/ .

[3] Pisanò G., Clematides raccolta di versi, Congedo editore, Galatina, 1984.

[4] Aldo de Bernart (1925-2013), studioso salentino e importante punto riferimento per molti intellettuali. Particolarmente sensibile alla valorizzazione dell’aspetto culturale del patrimonio salentino. Per un profilo biografico e umano si consiglia la lettura del seguenti contributo di Paolo Vincenti, sempre fruibile in rete:

Vincenti P., Aldo de Bernart in memoria, Fondazione Terra d’Otranto, 2023. (https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/07/14/aldo-de-bernart-in-memoria/)

[5] Clematis (Clematides nella forma plurale), è una specie di piante appartenente alla famiglia delle Ranunculaceae. L’etimologia deriva dalla radice greca klema – “viticcio” o anche “pianta volubile” o “legno flessibile”. La nomenclatura scientifica del genere si deve a Carl von Linné (1707-1778), biologo e scrittore svedese, ritenuto pietra miliare della moderna classificazione scientifica degli organismi, in particolare per l’opera Species Plantarum del 1753.  In italiano il termine viene tradotto con il lemma “vitalba”;la specie si presenta molto diffusa in Italia e in Europa. Il fusto è perlopiù erbaceo o legnoso, con inclinazione rampicante. I fiori, di varie tonalità, presentano diverse vivaci gradazioni (verde-giallognolo, rosso, viola o bianco).

[6] Oggi quest’area è nota con il toponimo di Paduli e si trova tra Scorrano e Miggiano (LE); in passato si chiamava Bosco di Belvedere, una foresta risalente al periodo post-glaciale, con un’estensione di circa settemila ettari e una superficie di trentadue km. Area ricca di ecosistemi (per la coesistenza del bosco, della palude, dello stagno e della macchia mediterranea), i primi documenti storici che ne certificano l’esistenza risalgono al 1476, quando il bosco era annoverato nell’inventario del feudo di Supersano, ad opera dei principi Gallone di Tricase, che ne detennero la proprietà per quasi trecento anni. Nel 1851, però, il patrimonio boschivo venne suddiviso tra i vari comuni e ciò sancì la distruzione del sistema preesistente della foresta, per dar luogo alla cultura dell’olivo, destinata a divenire nucleo portante dell’economia locale. Nel 1877 Cosimo De Giorgi annotava: “Non è senza il massimo dolore ch’io osservo di anno in anno cadere atterrate al suolo quelle querce maestose che hanno sfidato per tanti secoli le ingiurie del tempo, dell’atmosfera, degli uomini e degli animali. La falce e la mannaia livellatrice del boscaiolo segnano intanto, inesorabili su questa via di distruzione […].” Oggi l’associazione per la tutela dell’ambiente “manu manu riforesta!” si occupa di ricreare la biodiversità preesistente nella zona, contrastando il fenomeno della desertificazione, in luogo dei tanti ulivi devastati dalla Xylella. Si segnala, inoltre, il sito dell’associazione https://www.manumanuriforesta.org/.

[7] Pisanò, op. cit. pag. 7.

[8] Pisanò, op. cit. pag. 8.

[9] Il riferimento è alla lirica Sopra a un verso di Quasimodo, presente nell’op. cit., pag. 15.

[10] Pisanò menziona buona parte integrante del frammento PMG 521 di Simonide (D.L. Page, Poetae Melici Graeci, Oxford 1962), del quale può risultare interessante ripercorrere l’antefatto e il contenuto. Cicerone, nel De Oratore (II, 351-360), narra l’aneddoto secondo cui il poeta di Ceo, invitato a cena a casa di Scopas, signore di Crannone (antica città della Tessaglia), avrebbe iniziato a cantare un elogio in suo onore, essendogli stato dallo stesso commissionato. Simonide, però, diede più ampio spazio alla celebrazione del mito di Castore e Polluce, piuttosto che allo stesso Scopas. Allora quest’ultimo, profondamente irritato, affermò che avrebbe dimezzato la paga al poeta, dovendo egli stesso chiedere la restante parte ai Dioscuri. Così si tramanda che, poco tempo dopo, Simonide fu chiamato da due giovani misteriosi a uscire dalla sala. Uscito fuori, il soffitto della casa crollò, travolgendo Scopas e gli altri convitati. Simonide ebbe salva la vita, grazie alla chiamata dei due giovani misteriosi, nei quali il poeta di Ceo riconobbe i Dioscuri. La parte mancante del frammento, e non citata da Pisanò, continuava a soffermarsi sulla labilità del tempo; paragonato al volo effimero dell’ala di una mosca, esso muta imprevedibile la direzione del suo volo.

[11] Pisanò, op. cit. pag. 14.

[12] È una nota esegetica al componimento che conclude Clematides, a fornirci alcuni cenni su questo nome. Rileggendo la nota a pag. 22: “P. ANTONIO CHETRY S. J., umanista, filologo, storico, autore di numerose pubblicazioni, ha composto un’operetta singolare breve e bizzarra; Il gioco del calcio in latino, cui fa cenno G. Pisanò nella breve epistola.”.

Aldo de Bernart. In memoria

di Paolo Vincenti

Pronuncia sempre con riverenza questo nome – maestro – che dopo quello di padre, è il più nobile, il più dolce nome che possa dare un uomo a un altro uomo.

(Edmondo De AmicisCuore, 1886)

 

Ancora qualcuno, degli amici più giovani o a lui più  lontani, mi chiede incredulo: “ma è vero, il professore de Bernart è scomparso?”.  E’ passato un decennio dalla dipartita di Aldo de Bernart ma il vuoto che ha lasciato in chi, come me, lo ha conosciuto, frequentato, amato, è incolmabile.

Il 1 marzo 2013 il maestro de Bernart è passato nel mondo dei più, seguendo di circa un anno, la sua compagna di vita, donna Maria Pia Castriota Scanderbeg. Gli amici e tutti collaboratori si sono stretti attorno alla sua famiglia, la figlia Aida ed il figlio Mario, e la comunità salentina di studi umanistici è rimasta orfana  di così alto nobile esempio. Noblesse oblige, mi veniva da dire spesso, pensando al caro Aldo, ma nel suo caso questa non era una formula vuota o di circostanza, ma manifesto di vita di chi aveva fatto dell’eleganza e dell’aristocrazia dei modi il proprio tratto distintivo.

Quando se ne va un personaggio del calibro di de Bernart, capita spesso di fare solenni encomi pubblici,  caricando di retorica i propri interventi, facendosi prendere, pure in buona fede, dall’enfasi che trasporta anche chi, in genere, mantiene uno stile severo e sorvegliato. L’aggettivo più usato negli interventi fatti nelle immediatezze della scomparsa è stato: maestro.  E quale miglior aggettivo può riassumere la missione di una vita, l’alto magistero che de Bernart ha portato in tutti i consessi, negli studi, nei convegni, ed anche negli incontri informali nei quali si trovava?

Egli si è guadagnato sul campo la stima e finanche la riverenza  perché, oltre a sapere molto per avere tanto studiato, fino all’ultimo continuava ad imparare. E credo che sia proprio questo a trasformare un  insegnante elementare in guida spirituale ed esempio da seguire, ovvero  un “maestro” in un “Maestro” .

A pochi mesi dalla sua comparsa già diverse iniziative si sono svolte nel nome di Aldo de Bernart. Nel numero di marzo 2013 della rivista “Presenza Taurisanese”, il direttore Gigi Montonato dalle pagine del Brogliaccio Salentino ha dedicato a de Bernart un breve ricordo, scrivendo di lui: “un autentico signore, nel senso più tradizionale ed ampio del termine”.  Non poteva mancare un omaggio dalla rivista “NuovAlba” con la quale de Bernart ha avuto un lunghissimo e proficuo rapporto di collaborazione. Nel numero del marzo 2013 della rivista parabitana, un bell’editoriale, a firma di Serena Laterza, ricorda “Il nobiluomo dal cuore grande”,  e un articolo di Ortensio Seclì,  “Non è più con noi”, traccia anche un excursus bibliografico con tutti gli scritti di de Bernart apparsi su NuovAlba, dal primo numero del 2001 fino all’ultimo del dicembre 2012. Sul numero  del 4-7 aprile 2013 della rivista a diffusione locale “Piazza Salento”, compare un ricordo di de Bernart a firma di Aldo D’antico, il quale scrive: “ Se ne è andato un altro. Un altro di quelli che non solo hanno dedicato la propria vita alla produzione culturale, ma hanno avuto ruoli definitivi nello sviluppo delle conoscenze storiche di questa terra. Aldo de Bernart, scomparso lo scorso marzo a 88 anni, ha attraversato tutto lo scorso secolo con uno spettro ampio di impegno, approfondimento, produzione..” Sulla rivista “Il Galatino” di Galatina, del 26 aprile 2013, è riportato uno scritto di Paolo Vincenti dal titolo “Aldo de Bernart, storico e poeta raffinato”.

Sabato 18 maggio 2013, nell’Aula Magna del Liceo Classico “Francesca Capece” di Maglie, è stato ufficialmente presentato  il numero  XXIII della miscellanea della Società di Storia Patria per la Puglia, sezione Basso Salento, “Note di Storia e Cultura Salentina” (Edizioni Grifo 2013). Nel libro, dedicato alla memoria del socio de Bernart, centrale è il saggio di Paolo Vincenti “La figura e le opere di Aldo de Bernart (con Bibliografia)”, già pubblicato da Vincenti  in “Di Parabita e di Parabitani” (Il Laboratorio Editore 2008).

A Ruffano, la sua città adottiva, non si poteva mancare di ricordare il maestro. E infatti, in occasione dei festeggiamenti civili e religiosi in onore  del patrono Sant’Antonio da Padova, sabato 8 giugno, nella Chiesa Parrocchiale “B.M.Vergine”, su impulso del parroco Don Nino Santoro, si è tenuto un convegno su “La Chiesa Natività di B.M.V. – a 300 anni dalla sua riedificazione”, con una “Memoria del prof. Aldo de Bernart”, da parte di Alessandro Laporta e Giovanni Giangreco. Inoltre, martedi 11 giugno 2013, organizzata dalla Biblioteca Comunale di Ruffano, si è tenuta una serata dedicata a “Pietro Marti. La figura di un intellettuale poliedrico”, per celebrare un personaggio di spicco del passato ruffanese, ovvero il testé citato Marti, storico, giornalista e operatore culturale, in occasione del 150° della nascita e dell’80° della morte. Dopo gli interventi del Sindaco Carlo Russo e del prof. Orlando D’urso, in rappresentanza della Società di Storia Patria sezione Basso Salento , gli interventi di Alessandro Laporta, direttore della Biblioteca Provinciale di Lecce e di Ermanno Inguscio, principale conoscitore della figura del Marti (al quale ha dedicato un libro monografico).

Paolo Vincenti ha letto un intervento di Aldo de Bernart tratto dalla sua recente plaquette “Cenni sulla figura di Pietro Marti da Ruffano”, perché del Marti  de Bernart è stato il primo biografo. E il ricordo di de Bernart ha fatto da leit motiv fra i vari interventi della serata.  Infine, sul numero 63 della rivista gallipolina “Anxa News” ( maggio-giugno 2013) è riportato un bellissimo scritto di Alessandro Laporta, “Ritratto di Aldo de Bernart”.  Queste le prime intraprese,  ma credo siano ancora tante le iniziative  in cantiere nei prossimi mesi per ricordare il maestro gentiluomo.

 

L’arte di Antonio Massari, uno “straniero” sulla terra

Casa di Riposo Aresi di Brignano – Tempera su tela, 200 x 150, 1998

 

 

di Paolo Vincenti

Il documento più importante sull’arte di Antonio Massari è probabilmente il libro Massari, pubblicato per le Edizioni D’Ars, Milano, nel 2010.  La mole imponente del libro e il prezzo elevato ne fanno una rarità, un oggetto da collezione, e infatti esiguo è il numero di copie stampate dalla Tipolitografia Gamba (di Verdello-Bergamo) su prospetto grafico dell’architetto Monia Gamba.

Un progetto ambizioso, voluto da un artista di fama internazionale, leccese di origine e lombardo di adozione, Antonio Massari appunto, anche per celebrare la propria famiglia, dal padre Michele, noto e apprezzato pittore ed eclettico artista, alla madre Antonietta Milella, fino alla sorella Anna Maria, artista anch’ella.

Il libro infatti  – un pregiato manufatto che è stimolante maneggiare, con un’opera di Massari del 1975, Onde, sulla prima di copertina, e sulla quarta una foto del 1973 che ritrae lo stesso Massari con Pierre Restany e Oscar Signorini – , reca come sottotitolo  Sull’acqua… e sulla terra, e ci offe un focus sulla figura, la vita e le opere di Antonio Massari, attraverso gli interventi critici, di quanti lo hanno conosciuto e apprezzato, disposti in ordine sparso nella prima sezione, e numerosissime foto, nella seconda sezione.

Dopo una Presentazione di Antonio Cassiano, all’epoca Direttore del Museo Sigismondo Castromediano di Lecce, compare il primo di una serie di interventi sulla pittura di Massari da parte di Pierre Restany, il quale coniò per lui la definizione più nota, cioè “il meccanico delle acque”, con riferimento a quegli arditi esperimenti delle carte assorbenti che pure rappresentano soltanto una fase, per quanto celebrata, della sua intensa carriera. Un creativo infatti compie un cammino di continua evoluzione e si spinge verso sempre nuove realizzazioni, coltiva poco il ricordo delle gesta passate ma è invece proiettato per indole verso il futuro; appena terminata un’opera, ne progetta un’altra, e lascia ai critici e ai biografi, ai galleristi e ai mercanti d’arte il compito di analizzare, raccogliere, selezionare, compendiare, valutare, catalogare. Nel caso specifico di Antonio Massari questo assunto è ancor più vero, essendo egli perennemente in transizione, mai la sua arte adagiata sui risultati raggiunti o atrofizzata in un assolutismo che escluderebbe ogni novità. Nel libro, troviamo un testo critico poetico di Grazia Chiesa, un altro di Rina Durante, e numerosi interventi di Massimo Jevolella, il quale definisce Massari “operaio di sogni”, parafrasando Quasimodo sui poeti. Per Massari, il quadro nasce da un’esigenza forte, insopprimibile, che ha ben poco di programmato e di teoretico ma che affida molto, quasi tutto, al caso.

Lorenzo Madaro scrive delle note sulle opere più recenti di Antonio Massari, poi un intervento di Mario Marti, diversi scritti dello stesso Massari, come il bellissimo “Stelle-acqua-stelle”, poi di Ercole Pignatelli, di Giovanni Rizzo, di Lino Paolo Suppressa, di Antonio Verri e di Maurizio Nocera, vero deus ex machina di questa operazione editoriale.

Interessante, da un punto di vista bibliografico, alla fine del libro, la Nota autobiografica e l’elenco cronologico di tutte le realizzazioni del pittore, dalle Microonde alle Carte geometriche, dalle Carte di Giotto alle Carte del Cinema, da Entropia alle Acque rampicanti. Massari ha esposto per personali e collettive in moltissime città italiane e all’estero.

Fra i protagonisti dell’avanguardia artistica salentina degli anni Settanta, avendo aderito, insieme a F.Gelli, I.Laudisa, T.Carpentieri, A.Marrocco e V.Balsebre, al Movimento di Arte Genetica fondato da Francesco Saverio Dodaro, nella prima parte della sua carriera, ha praticato le tortuose strade dello sperimentalismo, con le famose Carte assorbenti.  Ma, come spiega Maurizio Nocera in una poetica nota, “esaurite tutte le possibilità delle carte assorbenti (mille anni in avanti), può prendere tre diverse vie: insistere e diventare il falsario di se stesso, farla finita con tutto, o ritornare alla pittura figurativa (cento anni indietro)”. Massari ha scelto quest’ ultima strada. La prima carta assorbente, come spiega lo stesso autore, era nata nel 1963 a Clusone, sulle Alpi di Bergamo, seminando gocce di inchiostro direttamente sull’acqua, dopo l’esperienza dei Frammenti, delle Onde e delle Macchie;  e da allora “per trentacinque anni ho dimenticato di togliere la polvere”, scrive, ed ha continuato con la sua ricerca che ha portato alle Carte elettriche, con le sfere di polistirolo espanso;  poi ai Frattili o Carte di Mozart, con gli schermi di carta velina, alle Carte di Turandot, con gli schermi di spago o di nastro, alle Carte di San Pietro, all’ Omero di Raffaello, alle Carte di Aloysia Carmela, alle Pulsar, con gli schermi di borotalco, alle Carte Genetiche, ai Capelli di Milvia, con capelli umani, ai Percorsi spaziali, ecc..  Si trattava di “poemi sperimentali”, come li ha definiti Ercole Pignatelli, che costituivano “la silente rivoluzione di Massari”.

E dopo questo lungo periodo di pittura “transurrealista”, come la definisce Giovanni Rizzo (facendo riferimento alla poesia di Tristan Tzara, anticamera del surrealismo, insieme al realismo magico e alla pittura metafisica), dopo una lunga e stimolante fase affidata ad una casualità dirompente, che portò alle “opere figurative involontarie”, Massari passa alla pittura figurativa e in essa riemergono i ricordi di una vita intensamente vissuta. In queste composizioni pittoriche, diciamo tradizionali, c’è spazio per la propria infanzia e adolescenza trascorsa a Lecce, per i volti degli amici perduti, dei suoi famigliari. Infine, l’ultimo periodo della sua carriera è caratterizzato dai Collages, composti su piccoli cartoni, che rappresentano come i pezzi di un puzzle, che è la vita. “Il resto è silenzio”, con le parole dello stesso artista, che si autodefinisce “ la persona sbagliata al posto sbagliato, sempre”.

Artista di fama internazionale, dicevamo, ma dal carattere fortemente schivo, Massari non è solo pittore, ma anche scrittore. Pensiamo ai libri Les buvards se chès, con Prefazione di Pierre Restany (Parigi 1980), Edoardo(Edizioni D’Ars, 1998), sulla figura dell’amico Edoardo De Candia,  Io sono straniero sulla terra(Edizioni D’Ars ,1999), 29 giugno 2000 , scritto insieme a Grazia Chiesa, Maurizio Nocera, Mario Marti e Pierre Restany (2000).

In quest’ultimo libro, l’esperienza umana di Massari si intreccia con quella di un altro Antonio, ovvero de Sant Exupèry, autore del Piccolo Principe, opera molto amata da Massari.  Nel 2001 inoltre, il racconto C’era una volta Palazzo Costa, vincitore del premio “Perbacco” assegnato dall’editore Manni. Meravigliose le foto che danno gran valore a questo libro e che testimoniano più e meglio delle parole la parabola umana e artistica di un creativo sempre attento e curioso. Testimoniano anche quella temperie culturale che alcuni anni fa interessò il Salento, e, in scatti tolti alla realtà di tante sere di amicale convivialità, troviamo, insieme a Massari, personaggi come Maurizio Nocera, Ada Donno, Edoardo De Candia, Antonio Verri, Fernando De Filippi, Ercole Pignatelli, Anna Maria Massari, Grazia Chiesa, Rina Durante, Vittore Fiore, Aldo D’Antico, Franca Capoti, Massimo Melillo, Sergio Vuskovic Rojo, Silvio Nocera, Salvatore Luperto, e tanti altri.

Foto in bianco e nero della prima giovinezza di Massari, trascorsa nella sua amata Lecce, nella casa di Contrada Rapesta, Sant’Oronzo fuori le mura, con la sorella Anna Maria, Grazia Chiesa, Rita Guido, Gigi Giannotti, e poi foto delle sue opere, tante, dei Frammenti, delle Onde, delle Macchie, foto prese da varie esposizioni e del pubblico che vi ha partecipato, molte dallo Studio D’Ars di Milano con il grande amico Oscar Signorini, delle copertine dei suoi libri e dei manifesti pubblicitari delle sue mostre, della sua casa studio di Milano, foto con Pietro Martino e Ilderosa Laudisa, Mimmo Caramia, Caterina Ragusa, Marisa Romano, Lino De Matteis, Luigino Sergio, a casa di amici come Luigi Chiriatti e Marisa Palermo, foto dei suoi dipinti, ecc.

Per concludere con le parole di Maurizio Nocera, “il cammino di Massari è tortuoso, di sofferenza, sì, ma occorre andare oltre le porte del nulla, sui piccoli mondi appesi alle stelle per uscire dal vuoto(spinto), e cercare, e trovare il sorriso di una cometa”.

 

Sull’artista v. anche

Inchiostri galleggianti nella meccanica dei fluidi: intervista ad Antonio Massari – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

L’itinerario pittorico del salentino Cosimo Sponziello

 

di Paolo Vincenti

Un ricordo non superficiale merita l’artista salentino ma milanese di adozione Cosimo Sponziello.  Nato a Tuglie nel 1915 da padre salentino e madre lombarda, dopo essersi dedicato per un certo periodo all’attività di fotografo in quel di Gallipoli, nel 1941 si trasferisce a Milano dove segue la sua vera vocazione, cioè la pittura, frequentando la Scuola degli Artefici ed entrando subito nel vivo e attivissimo mondo della pittura lombarda. Tornato nel Salento nel 1943, consegue da privatista il diploma di licenza della Scuola D’Arte “G.Pellegrino” di Lecce. Suoi maestri furono Gino Moro, a Milano, e Vincenzo Ciardo, nel Salento. Dalla pittura del Ciardo, Sponziello è fortemente influenzato nella prima parte della sua carriera, distaccandosene poi, man mano che conquistava una propria cifra stilistica e personale.

Dei rapporti di Sponziello col maestro Ciardo si è occupato Luigi Scorrano nel suo Cosimo Sponziello salentino a Milano, del 1988.[1] Dei rapporti fra Sponziello ed i principali animatori di quell’importante stagione culturale fra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, ci ha dato testimonianza Antonio Lucio Giannone nel suo saggio L’itinerario pittorico di Cosimo Sponziello. La strada del timo e del pettirosso (il cui titolo è mutuato da una celebre opera dell’artista) del settembre 1992.[2]

Oltre che con Ciardo, Giannone fa luce su rapporti del pittore con Paolo Lino Suppressa, testimoniati da un proficuo scambio di lettere fra i due, e con Vittorio Bodini che, nel 1950, tracciando un panorama delle arti e delle lettere pugliesi, lo cita come uno dei migliori paesaggisti pugliesi: “Due paesaggisti delicati ha la provincia, verso il Capo di Leuca: sono Cosimo Sponziello, un discepolo di Ciardo, con un suo esile filo di poesia, e Luigi Gabrieli”[3].

E con queste parole di Vittorio Bodini, nel 2006 , l’associazione culturale “Incontri”  apriva il  quadernetto dal titolo  Cosimo Sponziello. L’uomo, l’artista,  a cura di Luigi Scorrano, con il quale volle ricordare il fotografo e pittore tugliese.[4]

Ma procediamo con ordine. Sponzielo si impone facilmente all’attenzione nazionale,  grazie alle mostre che tiene in tutta Italia, come quella di Legnano, nella Galleria “La Cornice” (1974), quella di Milano, nella “Galleria Borromeo” (1976), e poi a Tuglie, nell’Aula Consiliare (1983), ancora a Milano, nella Galleria Carini con la mostra “Il mio Salento”(1987), a Tuglie, nel 1996, nella Biblioteca Comunale, con la mostra su “Cosimo Sponziello fotografo”, organizzata dal Gruppo Incontri, nella quale vengono esposte “le più belle immagini della terra natale dell’artista, i paesi, gli alberi, i volti, le testimonianze della vita e della cultura del Salento”;[5] nel 1998, nella Biblioteca del Comune di Sannicola, con la mostra “Cosimo Sponziello. I sogni della luce”, nel 1999, ancora nella Biblioteca Comunale di Tuglie, con la mostra “Omaggio al pittore Cosimo Sponziello”, a cura del Gruppo Incontri.

Molti i premi da lui vinti, come il Premio “Comune di Castellone” (1960), il I° Premio “Valli Bergamasche” (Milano 1962), la medaglia d’oro “Colori della Lunigiana” (Sarzana 1964), la medaglia d’oro del Comune di Milano alla mostra “Il nostro Po” (1969), ecc.  Ancora sotto l’influsso di Ciardo, Sponziello realizza opere come Calda luce al tramonto in estate, Salento, campagna in autunno, Dalla mia finestra, in marzo, Luce d’inverno, in cui c’è una forte, intensa e calda policromia e mai personaggi in carne ed ossa.

Sponziello lascia che sia il paesaggio a parlare della sua terra e del suo popolo, come in Salento: profili e memoria o in Un pomeriggio d’autunno. “Sponziello tende a scoprire in ciò che vede e dipinge l’essenziale sia nel senso formale che in quello poetico”, scrive Vincenzo Ciardo.[6] “Da lodare Cosimo Sponziello per la sua pittura tenuta sul colore e disegnante col colore”, scrive Mario Portalupi.[7]

E Raffaele De Grada: “Io vedo i paesaggi e le nature morte di Sponziello come un nostalgico ripensamento della stagione felice del postimpressionismo, un’idea del passato, quando le spiagge erano libere, dilatate in profonde lontananze, inserita in una dolce ma rassegnata coscienza del presente, sempre ispirato dalle sue fonti primarie del Salento”.[8] “Ha sempre cercato solo liricità interiore. E ciò ha sempre conferito nobiltà alla sua opera”, scrive Antonio Imperiale.[9] Ma di lui scrivono anche  Lino Paolo Suppressa,[10] Toti Carpentieri,[11] Piero Antonio Toma.[12]

Nel 1945, Sponziello si trasferisce a San Simone, frazione di Sannicola, e qui resterà fino a giugno del 1953. Poi parte a Monza per insegnare disegno al Liceo Artistico di quella città e successivamente alla “Scuola Libera del Nudo” dell’Accademia di Brera.

Ma lasciamo che a parlare sia lo stesso pittore: «Mi è stato chiesto: la pittura è stata di aiuto al fotografo e la fotografia al pittore? Certamente sì. Alla base delle due attività c’è la luce. Per la pittura e la fotografia è sempre la luce che “rivela”, modella, contrasta, attenua, modula la linea di un paesaggio, quella di un volto femminile che si affaccia seducente…. ».

E continua: « ho iniziato con la fotografia che avevo 16 anni – ritoccatore da Stefanelli a Gallipoli… a 19 anni volontario in aviazione… fino al ’40. Ritorno a casa; ma mi interessa Milano: e nel ‘41-‘42 e parte del ’43 frequento la Scuola degli Artefici dell’Accademia di Belle Arti di Brera. Scuola serale; di giorno fotografo. Dal ’43 in poi pittore e fotografo… a Brera mi sono maestri Gino Moro e Umberto Lilloni. Conosco Arturo Tosi e i “Chiaristi” lombardi. … La guerra mi costringe a ritornare al “paese natio”.

Qui il felicissimo incontro con Vincenzo Ciardo mi porta alla scoperta del “mio Salento”. Che cosa sia stata la pittura per la fotografia e la fotografia per la pittura proprio non so dirlo. Però posso affermare che tra le due attività, sempre amate, il confine con il “filo spinato” non è mai esistito ».[13]

Come detto, nell’ultima parte della sua vita, ritorna nel Salento, a San Simone, dove muore il 7 marzo 2005. Salento settembrino, La piazza è come una madre, sono i titoli di alcune sue opere, di un postimpressionismo che convince. Il silenzio dei suoi paesaggi si fa intenso, vibrante, è un silenzio carico di significati, di aspettative, e sul paesaggio spesso scarno, brullo, incombono sempre dei cieli immensi: a volte nebulosi, dai quali si apre uno squarcio di luce, a volte invece luminosissimi, con qualche nuvoletta minacciosa. I suoi paesaggi, comunque, che si ripetono apparentemente uguali ma presentano invece infinite minime variazioni, sono intrisi di grande emozione, come tutta la critica specializzata ha sottolineato. “Il continuo e sapiente smaterializzarsi del segno-colore fa memoria, luce, atmosfera dell’oggetto-paesaggio-persona raffigurati. L’artista vince la materia. Questa non oppone più resistenza alla sua volontà creativa. I colori sono quelli dell’anima. Occorrono anni e anni di accurata ricerca, ma più ancora di folgoranti intuizioni compositivo-espressive per farli vibrare sulla tela così come sono sedimentati nell’anima”, scrive molto opportunamente Franco Ventura.[14]

Nel 2006, l’associazione culturale “Incontri” volle  dedicare al fotografo e pittore tugliese una serata commemorativa a cura di Luigi Scorrano, Antonio Lucio Giannone e Massimo Melica, pubblicando il già citato quadernetto. “ Cosimo Sponziello: un ritratto cordiale dell’uomo e dell’artista. La sua voce. La voce dei suoi Maestri. Quella degli amici. Delicatezza e forza d’una pittura nata nel Salento, maturata nel fervore culturale del secondo dopoguerra. Una pittura ancora da scoprire. O da rileggere. Per farne storia”[15]: così si legge nella quarta di copertina dell’opuscoletto, che riporta il giudizio dei critici che hanno scritto sullo Sponziello, e anche, nell’ultima parte, il ricordo dello Sponziello da parte dei suoi allievi, soprattutto pittori milanesi.

Un’altra mostra, “Sogni di luce”, sulla figura e le opere di Cosimo Sponziello, si è tenuta a Lecce, presso l’associazione culturale Arca, in via Palmieri, nel maggio 2007, curata da Maurizio Russo. Oltre alle mostre e ai cataloghi citati, l’auspicio è che anche questo piccolo contributo serva a far scoprire o riscoprire l’opera di un artista che merita certo tutta la nostra attenzione e il grato riconoscimento.

 

Note

[1] Luigi Scorrano, Cosimo Sponziello, salentino a Milano, in “Nuovi Orientamenti Oggi”, XIX, n.106-111, 1988, pp. 45-62.

[2] Antonio Lucio Giannone, La strada del timo e del pettirosso – L’itinerario pittorico di CosimoSponziello, in “Sudpuglia”, XVIII, n.3, settembre 1992, pp.127-138.

[3] Vittorio Bodini, Lettera pugliese, in Panorama dell’arte italiana, a cura di M.Valsecchi e U.Apollonio, Torino, Lattes, 1951, p.170.

[4] Cosimo Sponziello. L’uomo, l’artista,  a cura di Luigi Scorrano, Gruppo Incontri, Tuglie, Tip.5emme, 2006, p.5.

[5] Luigi Scorrano, Cosimo Sponziello fotografo, Catalogo della mostra, Manduria, Barbieri Editore, 1996.

[6] Vincenzo Ciardo, Presentazione della “Mostra personale del pittore Cosimo Sponziello”, Circolo Cittadino Lecce, 6-21 marzo 1947.

[7] Mario Portalupi, Rassegna delle Mostre d’arte. Premio La Spezia a tema libero, in “La Notte”, 26 luglio 1954.

[8] Raffaele De Grada, Presentazione nel catalogo della mostra “Il mio Salento”, Galleria Carini, Milano, 5-24 febbraio 1987.

[9] Antonio Imperiale, Un allievo degno del maestro, in “La Tribuna del Salento”, 9 novembre 1972.

[10] Lino Paolo Suppressa, Mostre d’arte. Il pittore Cosimo Sponziello al Circolo Cittadino, in “Libera Voce”, 14 marzo 1947.

[11] Toti Carpentieri, Il grigio e la luce, in “Quotidiano”, 20.8.1983

[12] Piero Antonio Toma , Il passo della calandra, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane,  1993, pp.267-268.

[13]Cosimo Sponziello. L’uomo, l’artista,  a cura di Luigi Scorrano, Gruppo Incontri, Tuglie, Tip.5emme, 2006, p.13.

[14] Franco Ventura Presentazione della Mostra “I sogni della luce”, Sannicola, 3-18 ottobre 1998, in Cosimo Sponziello. I sogni della luce, Sannicola, Tip. F.lli Piccione, 1998, p.6.

 

[15] Cosimo Sponziello. L’uomo, l’artista,  a cura di Luigi Scorrano, Gruppo Incontri, Tuglie, Tip.5emme, 2006.

Un letterato salentino da riscoprire. Raffaele Marti

di Paolo Vincenti

Fratello del più noto Pietro Marti, fu scienziato e letterato di non poco momento. Raffaele Marti nacque a Ruffano nel 1859 da Elena Manno e Pietro. Suoi fratelli accertati: Luigi Antonio, nato nel 1855, Francesco Antonio, nato nel 1856, Maria Domenica Addolorata, nel 1858, Pietro Efrem (che morì dopo 3 mesi) nel 1861, Pietro Luigi, nel 1863[1]. Tuttavia, sappiamo da alcuni fogli autobiografici di Pietro Marti, ritrovati in una biblioteca privata, che erano quindici i fratelli, di cui Pietro, l’ultimo[2]. Fra questi, anche Giuseppe, al quale il poeta Luigi Marti dedica la sua opera, Un eco dal Villaggio (Alla memoria di mio fratello Giuseppe morto giovanissimo vissuto a bastanza per conoscere e patire”), ma su di lui, fino ad ora, alcun riscontro.

La notorietà di Raffaele, probabilmente, fu offuscata da quella di Pietro Marti.[3] Nella prima parte della sua vita, il suo percorso si intreccia strettamente con quello del più illustre fratello, per formazione e per le prime esperienze lavorative. Ma è giunto il momento che anche Raffaele raccolga la messe che i suoi indiscutibili meriti hanno prodotto.

Come i fratelli Pietro e Luigi, anch’egli frequentò il corso primario inferiore e quello superiore, a costo di grandi sacrifici per la madre, per altro vedova. Come i fratelli, fu maestro elementare a Ruffano, e poi a Lecce, dove fondò, insieme a loro, nel 1884, un istituto secondario di istruzione privato, che era uno dei due ginnasi privati leccesi insieme a quello del Padre Argento.[4] Come Pietro, si trasferì a Comacchio, dove insegnò per alcuni anni.

Raffaele, insigne scienziato, doveva godere della stima della comunità scientifica dell’epoca se il grande Cosimo De Giorgi scrive anche una Presentazione della sua opera Golfi di Taranto, Napoli e Valli di Comacchio, definendolo “un benemerito della scienza e della nostra provincia”.[5]Il prof Marti, il matematico insigne, che per tanti anni ha illustrato la scuola, s’appalesa oggi uno scienziato di alto valore”, scrive di lui Don Pasquale Micelli, recensendo l’opera Le coste del Salento su “L’Ordine” (Lecce, 9 maggio 1924), e continua “Il recente lavoro è un insieme armonico di tutto ciò che forma una solida cultura moderna; la Geologia, la Fisica, la Litologia, l’Idrografia, la Flora, la Fauna, la Mineralogia, la Storia, la Preistoria, la Politica, la Letteratura, l’Arte, l’Agraria, la Pesca, ecc. sono trattate con pennellate da maestro”[6].

Nel 1894, pubblica L’acqua conferenza letta nella sala del consiglio comunale di Norcia e Operazioni del calcolo e loro analogia.[7]  Nel 1896, pubblica Golfi di Taranto, Napoli e Valli di Comacchio (loro produzione alimentare),[8]con Presentazione di Cosimo De Giorgi, in cui si occupa della fauna marina nei due golfi tarantino e napoletano e nelle valli di Comacchio: uno studio approfondito sulle specie ittiche che vivono nei tre mari Ionio Adriatico e Tirreno. Inoltre pubblica Elementi di Algebra.[9] Nel 1907, pubblica Dalla P. della Campanella al C. Licosa [10]e, nello stesso anno, Foglie sparse[11]. Nel 1913, dà alle stampe Gli acari o piaghe sociali. Dramma in quattro atti e cinque quadri.[12]Quest’opera viene premiata dalla Reale Accademia Filodrammatica di Palermo nel 1910 e dal Teatro Italiano di Roma il 31 luglio 1911, come opera edificante e di elevata valenza sociale[13].

Lunga fu la collaborazione di Raffaele come pubblicista nelle riviste fondate o dirette dal fratello, l’infaticabile promoter Pietro Marti. Pietro, infatti, diresse, fra gli altri, i periodici “L’Indipendente”, nel 1891, “Il Salotto” di Taranto, nel 1896, “L’avvenire”, di Taranto, nel 1897, e sempre nella città ionica collaborò a “Il lavoro” e “La palestra”; inoltre a Lecce fondò e diresse “La democrazia”, dal 1893 al 1896, poi divenuto “Il corriere salentino”, dal 1902 al 1920, “Fede”, dal 1923 al 1926, “La voce del Salento”, dal 1926 al 1933, per citare solo i più importanti. In particolare, su “La voce del Salento”, Raffaele collaborò con articoli di carattere storico e archeologico e recensioni di libri.[14]

Se con Pietro condivideva l’amore per il patrimonio artistico della nostra terra d’Otranto e la necessità di una sua strenua difesa (Pietro fu anche Regio Ispettore ai Monumenti della Provincia di Lecce, dal 1923 al 1929, nonché Direttore della Biblioteca Provinciale “Bernardini”), quindi un interesse di carattere più erudito, con l’altro fratello, Luigi, (1855-1911), condivideva l’amore per la poesia e le belle lettere.[15]  Ma, come detto, gli interessi culturali in casa Marti coinvolgevano tutti i fratelli maschi. Infatti, anche Antonio (1856- 1926) fu un letterato.[16]

Raffaele scrive anche diverse commedie, a conferma della poliedricità e della varietà dei suoi interessi, come: Un’ora prima di scuola. Commedia in un atto; Patriottismo. Commedia in un atto; Il ciabattino di Sorrento. Dramma in tre atti; Gli orfani del vecchio impiegato. Queste composizioni, a quel che ci risulta, restano manoscritte e non trovano sbocco editoriale. Non sappiamo neppure se esse siano state rappresentate in teatro ma è certo che vengono fatte circolare in versione manoscritta, se ricevono alcuni premi e menzioni d’onore, come si rende noto nell’opera Le coste del Salento, che riserva una pagina alle “Opere di stampa del Prof. Raffaele Marti”, ossia una sintetica sua bibliografia degli scritti. Ed è appunto del 1924 Le coste del Salento Viaggio illustrativo, per i tipi della Tipografia Conte di Lecce:[17] un excursus storico- letterario fra le coste della penisola salentina, condito anche dalle tante leggende che avvolgono queste contrade. Nella sua nota iniziale, Marti si rivolge “Ai giovani”, invitandoli a trarre profitto da questo suo lavoro di “Geografia fisica, della Fisica terrestre, della Mineralogia, della Geologia, della Paleontologia, della Fauna, dell’Ittiofauna e della Malacologia, della Flora terrestre e marina”. Un programma certo ambizioso, forse troppo, che si propone anche di parlare delle torri, dei castelli, dei villaggi e della varia architettura salentina sparsa fra i due mari Ionio e Adriatico. Occorre però rapportare questo pur vasto programma alle conoscenze del tempo, che erano certo più scarse, per cui certe ricerche apparivano quasi pionieristiche, ed inoltre occorre tener conto dell’intraprendenza con cui taluni eruditi dagli interessi universali quale Marti si aprivano alla conoscenza.  Il libro dimostra di essere molto apprezzato dalla critica. Se ne occupano tutti i giornali locali, da “La Provincia di Lecce” a “Il Nuovo Salento”, da “La Gazzetta di Puglia” a “La Freccia”, periodico di Palermo. “In una sintesi mirabile”, scrive Pasquale Micelli  su “L’Ordine” (Lecce, 9 maggio 1924), “egli ha saputo raccogliere, in poco più di 100 pagine, quanto riguarda la penisola salentina, nella varietà delle coste bagnate dall’Adriatico e dallo Ionio, l’origine, la storia e l’antico splendore delle città sparse su di esse o nell’immediato hinterland, i costumi dei popoli, che la abitano, lo sviluppo intellettuale e commerciale, la natura e la fertilità del terreno […] In tutto il libro si trova mirabilmente concentrato quanto moltissimi scrittori hanno diluito in vari poderosi volumi”[18].“Il libro ci fa tornare alla memoria i magnifici prodotti della letteratura storica e scientifica francese, che tende a popolarizzare l’arte ed il pensiero”, scrive un articolista (probabilmente Pietro Marti) su “Fede” (Lecce, 20 giugno 1924)[19].“Mai mi era capitato di leggere un libro in cui fossero fermate tutte le espressioni del Salento”, sostiene Pietro Camassa sul periodico brindisino “Indipendente” (ottobre 1924), “Vi si parla di mitologia, di preistoria, di letteratura, d’arte, di storia militare, civile, politica, di pesca, di caccia, di industria…”[20].  Gli scrive anche il famoso archeologo Luigi Viola, in una lettera che Marti inserisce nel libro L’estremo Salento, insieme ai giudizi critici di cui stiamo riferendo.[21] Nel 1925 è la volta di Lecce e i suoi dintorni.[22] Anche questo libro è accolto molto bene dalla critica di settore. Ne scrive “L’Indipendente” di Brindisi (11 luglio 1925) come di un libro molto riuscito e interessante, giudizio condiviso da Nicola Bernardini su “La Provincia di Lecce” del 24 maggio 1925[23]. E sul “Corriere Meridionale” (Lecce, 20 agosto 1925), afferma Francesco D’Elia: “il presente volume del Prof. Marti ha un carattere popolare, in quanto le principali notizie storiche dei luoghi, esposte in forma spicciola, sono fuse insieme con numerose indicazioni delle varie forme di attività cittadina, culturale, artistica, industriale, che crediamo utilissime perché ci dimostrano il progresso raggiunto nella civiltà dei nostri luoghi, e quel migliore avvenire che attendono di raggiungere”[24]. Anche in questo libro Marti dà cenni di Geografia, idrografia, si occupa di storia e di arte dei principali centri dell’hinterland leccese, come Surbo, San Cataldo, Acaia, Strudà, Pisignano, San Cesario, Monteroni, Novoli, Campi, Trepuzzi, oltre naturalmente al capoluogo di provincia.

Nel 1931 esce L’estremo Salento,[25]  con Prefazione di Amilcare Foscarini, il quale afferma che “se i precedenti libri di questo benemerito ed instancabile autore sono riusciti dilettevoli e istruttivi per la generalità dei lettori, quest’ultimo li supera per un maggiore interesse, poiché tratta di una contrada incantevole, lussureggiante, ricca di memorie, di terreni fertilissimi e di prodotti commerciali, cinta da ridenti marine, da stazioni balneari e termo-minerali di eccezionale importanza, poco apprezzata perché poco conosciuta”[26]. Come recita il titolo, l’opera si occupa dell’estrema propaggine del Salento, il Capo di Leuca, ovvero il Promontorio Iapigio, che divide l’Adriatico dallo Ionio. Parte dalla preistoria, citando le fonti greche e latine e passando in rassegna tutte le più svariate e oggi abusate ipotesi sulle origini del nostro popolo.

Si occupa della storia antica del Salento, della storia medievale e moderna, delle famiglie gentilizie e dei grandi personaggi del passato, secondo uno schema paludato che se oggi è superato, ai tempi di Marti era ancora in auge e anzi era l’unico metodo storiografico in uso. Si può dunque apprezzare lo sforzo profuso dal Nostro, in questa notevole attività pubblicistica e nel suo impegno nella scoperta e parimenti nella valorizzazione dell’enorme portato culturale di cui è depositaria la terra salentina.

Pur essendo uno scienziato, di robusta formazione positivista, Marti fu amato dalla Musa e seppe coltivare generi letterari così diversi con immutata partecipazione.  Ulteriori approfondimenti potranno rendere più nitida una figura così interessante.

Raffaele Marti morì a Lecce il 5.2.1945, all’età di 86 anni.

 

Note

[1] Devo queste e le successive notizie anagrafiche all’amico studioso Vincenzo Vetruccio, il quale ha condensato le sue ricerche sulla famiglia Marti in un “Discorso Su Pietro Marti pronunciato il 19 febbraio 2015 presso la scuola primaria Saverio Lillo” Inedito.

[2] Si tratta di opera inedita, lasciata incompleta e segnalata da Alfredo Calabrese, Le memorie di Pietro Marti, in “Lu lampiune” n.1 Lecce, Grifo, 1992, pp.27-34.

[3] Sulla figura dell’erudito Pietro Marti (1863-1933), storico, giornalista, conferenziere, illustre concittadino di Ruffano, esiste una cospicua bibliografia. Tra gli altri:

Carlo Villani, Scrittori ed artisti pugliesi antichi, moderni e contemporanei, Trani, Vallecchi, 1904, p.578 (nuova edizione Napoli, Morano, 1920, pp-137-138);  Domenico Giusto, Dizionario bio-bibliografico degli scrittori pugliesi (dalla Rivoluzione Francese alla rivoluzione fascista), Bari, Società Editrice Tipografica, 1929, pp.187-188;  Aldo de Bernart, Nel I centenario della nascita di Pietro Marti, in “La Zagaglia”, Lecce, n. 21, 1964, pp.63-64;  Pasquale Sorrenti, Repertorio bibliografico degli scrittori pugliesi contemporanei, Bari, Savarese, 1976, pp.375-376; Ermanno Inguscio, La civica amministrazione di Ruffano (1861-1999). Profilo storico,  Galatina, Congedo Ed., 1999, pp.174-175; Paolo Vincenti, Pietro Marti da Ruffano, in “NuovAlba”, dicembre 2005, Parabita, 2005, pp-17-18; Aldo de Bernart, In margine alla figura di Pietro Marti,  in “NuovAlba”, aprile 2006, Parabita, 2006, p.15;  Ermanno Inguscio, Vanini nel pensiero di Pietro Marti, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie,  n. XX, Lecce, Argo, 2009, pp.137-148;Idem, Pietro Marti direttore di giornali, in “Terra di Leuca. Rivista bimensile d’informazione, storia, cultura e politica”, Tricase, Iride Edizioni, a. VII, n. 39, 2010, p. 6; Idem, L’attività giornalistica di Pietro Marti,  in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie,  n. XXI, Lecce, Argo, 2010-2011, pp.227-234;Idem, Il giornalista Pietro Marti, in “Terra di Leuca. Rivista bimensile d’informazione, storia, cultura e politica”,Tricase, Iride Edizioni, a.VIII, n.40, 2011, p.7;Idem, Liborio Romano e le ragioni del Sud nel periodo postunitario. Il contributo di Pietro Marti sul patriota salentino, in “Risorgimento e Mezzogiorno. Rassegna di studi storici”, n.43-44, dicembre 2011, Bari, Levante Ed., pp.147-161; Idem, Pietro Marti e la cultura salentina. Apologia di Liborio Romano, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie, n. XXII, Lecce, Grifo,2012, pp.164-185;Aldo de Bernart, Cenni sulla figura di Pietro Marti da Ruffano, Memorabilia 35, Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis,2012; Ermanno Inguscio, Pietro Marti, il giornalista, il conferenziere, il polemista, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie, n. XXIII, Lecce, Argo, 2013, pp.40-58; Idem, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013.

 

[4] Ermanno Inguscio, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013, p.34.

[5] “…imitate questo vostro compagno di studio, che ha scritto il suo libro raccogliendone gli elementi dalla natura vivente e reale […] Fate, fate, fate voi come ha fatto lui, e vi renderete benemeriti, non solo alla scienza, col contributo che darete, ma anche alla nostra provincia” (Cosimo De Giorgi, Prefazione, in Raffaele Marti, Golfi di Taranto, Napoli e Valli di Comacchio (loro produzione alimentare), Lecce, Tip. Lazzaretti, 1896, p.6.)

[6] Giudizi sopra alcune opere del Marti, in Raffaele Marti, L’estremo Salento, Lecce, Stabil. Tipografico F.Scorrano e co., 1931, pp.8-9.

[7] Raffaele Marti, L’acqua conferenza letta nella sala del consiglio comunale di Norcia e Operazioni del calcolo e loro analogia , Lecce,  Tip. Cooperativa, 1894.

[8] Idem, Golfi di Taranto, Napoli e Valli di Comacchio (loro produzione alimentare), Lecce, Tip. Lazzaretti, 1896.

[9] Idem, Elementi di Algebra, Taranto, Tip. Latronico, 1896.

[10] Idem, Dalla P. della Campanella al C. Licosa, Taranto, Tip. Spagnolo, 1907.

[11] Idem, Foglie sparse, Taranto,  Tip. Spagnolo, 1907.

[12] Idem, Gli acari o piaghe sociali. Dramma in quattro atti e cinque quadri, Lecce, Tip. Conte, 1913.

[13] Ermanno Inguscio, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013, p.195.

[14] , Ermanno Inguscio, Letteratura arte e storia nel periodico “La voce del Salento”, in Idem, Pietro Marti (1863-1933), op.cit.., pp.149-160.

[15] Luigi, sposato a Pallanza, in provincia di Novara, anch’egli firma de “La voce del Salento”, fu apprezzatissimo poeta e scrittore.  Fra le sue opere, per citare solo qualche titolo: Un eco dal villaggio, Lecce, Stab. Tip. Scipione Ammirato, 1880; Manfredi nella Storia e nella Commedia dell’Alighieri, Lecce, Tipografia Salentina, 1887; Liriche, Lecce, Tipografia Garibaldi, 1889; La verde Apulia, Lecce, Tipografia Salentina, 1889; Napoleone e la Francia nella mente di Foscolo, Pallanza, Tipografia Verzellini, 1891; Un secolo di patriottismo, Pallanza, Tipografia Verzellini, 1891; Il Salento, Taranto, Editore Mazzolino, 1896; Dalle valli alle vette, Milano, La Poligrafica, 1898; ecc. Luigi morì improvvisamente a Salerno nel 1911, all’età di 56 anni.

[16] Fra le opere di Antonio Marti, basti citare: il volume di poesie Povere foglie, Lecce Tip. Editrice Sociale- Carlino, Marti e Cibaria, 1891, e Scritti vari – Novelle e Viaggi, Intra, Tipografia Bertolotti Paolo e Francesco,1893

[17] Raffaele Marti, Le coste del Salento Viaggio illustrativo, Lecce, Tip. Vincenzo Conte, 1924.

[18] Giudizi sopra alcune opere del Marti, in Raffaele Marti, L’estremo Salento, Lecce, Stabil. Tipografico F.Scorrano e co., 1931, p.8.

[19] Ivi, p.10.

[20] Ivi, p.12.

[21] Ivi, p.11.

[22] Idem, Lecce e suoi dintorni. Borgo Piave, S. Cataldo, Acaia, Merine, S. Donato, S. Cesario ecc., Lecce Tip. Gius. Guido, 1925.

[23] Giudizi sopra alcune opere del Marti, in op.cit., p.14.

[24] Ivi, p.13.

[25] Idem, L’estremo Salento, Lecce, Stabil. Tipografico F.Scorrano e co., 1931.

[26] Amilcare Foscarini, Prefazione, in op.cit., p.3.

Dal Carnevale alla Pasqua. I riti della Settimana Santa a Gallipoli

di Paolo Vincenti

 

Il lungo periodo che va dal Carnevale alla Pasqua nella città di Gallipoli è caratterizzato da una ininterrotta serie di riti in cui più che altrove il sacro si mischia col profano, in una straordinaria sintesi che dimostra quanto sia stato operante nel passato il fenomeno che gli studiosi chiamano sincretismo.

Non si può parlare delle manifestazioni di culto a Gallipoli senza fare un raffronto fra il passato ed il presente perché la modernità ha trasformato molto, in certi casi tutto, di quel complesso di rituali e tradizioni che costituiscono il patrimonio demo etno antropologico della terra salentina.  Una volta, il tempo di Carnevale a Gallipoli iniziava esattamente il 17 gennaio, festa di Sant’Antonio Abate, detto “Sant’Antoni de lu focu”, quando si accendevano tantissime “focareddhe” e si bruciavano per la città enormi cataste di gramaglie d’ulivo, dando così l’avvio alla festa con canti e balli per le strade ed i vicoli[1]. Era il suono della pizzica pizzica ad allietare i festivi ritrovi mentre il fuoco scoppiettava alzando nel cielo le sue scintille. Una tradizione, questa, che affonda le radici in un passato pagano quando la funzione apotropaica del fuoco veniva esaltata dai riti di purificazione.  Il periodo di festa dunque iniziava significativamente con un battesimo di fuoco, nell’evento di Sant’Antonio Abate – al quale il rito, una volta cristianizzato, fu dedicato -, e terminava con un funerale, quello di Teodoro, la maschera popolare del carnevale gallipolino, la cui morte segnava l’avvio del periodo di mestizia consona alla Quaresima.

Teodoro, il protagonista del carnevale gallipolino d’antan, viene chiamato confidenzialmente “lu Titoru”. Come riferisce lo studioso Elio Pindinelli, la leggenda vuole che il giovane soldato, trattenuto lontano dalla sua terra, desiderasse ardentemente tornare in patria almeno per il Carnevale, nel periodo, cioè, in cui tutti potevano godere dell’abbondanza del cibo e divertirsi, prima dell’avvento della Quaresima. Anche la madre di Teodoro, la “Caremma”, in pena per il figlio, pregava perché Dio potesse concedere qualche giorno di proroga del Carnevale, e le sue suppliche furono ascoltate. Si allungò così la festa di due giorni (detti “li giurni de la vecchia”) e Teodoro poté arrivare a Gallipoli in tempo per i festeggiamenti. Era un martedì e Teodoro, per recuperare il tempo perduto, si diede a gozzovigliare partecipando della crapula insieme ai suoi compaesani e mangiando quintali di salsicce e polpette di maiale, tanto da rimanerne strozzato. Così, la festa si trasformava in funerale perché con Teodoro moriva anche il Carnevale, nella disperazione della madre e fra le urla di dolore delle vicine e comari[2].

La bara di Teodoro veniva portata in processione per le strade della città: un carro, allestito coi paramenti funebri, trasportava un pupo di paglia che raffigurava lu Titoru, fra i pianti delle prefiche (le “chiangimorti”) e i frizzi e lazzi del popolo; infatti, essendo il cadavere di Teodoro abbigliato elegantemente, con frac e cilindro, questo suscitava l’ironia dei suoi amici e compagni di bevute, straniti nel vedere un pezzente acconciato in siffatto modo. Così le imprecazioni e le battute di spirito dei partecipanti al funerale andavano avanti fino a mezzanotte quando il suono delle campane segnava la fine della crapula, cioè del divertimento matto e volgare. La rappresentazione teatralizzata della morte del Carnevale ha origini antichissime, che risalgono almeno al Medioevo, come dimostrano gli studiosi di tradizioni popolari. Nel Medioevo venivano allestite delle sceneggiate in cui era fatto morire il Re Carnevale, il quale rappresentava il sovrano di un immaginario Paese della Cuccagna, dove tutti potevano bere e mangiare a sazietà. “Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza.” Chi non conosce questi versi della ballata di Lorenzo De’ Medici, Il trionfo di Bacco a Arianna? È uno di quei canti carnascialeschi che, nel Quattrocento, a Firenze, durante il Carnevale venivano cantati dalle allegre maschere in coro su dei carri sontuosamente addobbati.  È il canto della gioventù lieta e fuggitiva, un invito alla gioia e alla festa, portata dal Carnevale. Molti studiosi hanno visto una continuità fra questa festa e gli antichi “Saturnali”, che si celebravano a Roma in dicembre.  I Saturnali (descritti da Macrobio nella sua opera Saturnalia) erano dei giorni, nel cuore dell’inverno, dedicati al dio Saturno e si tenevano grandi festeggiamenti, durante i quali i romani si travestivano ed accadeva che i nobili indossassero le misere vesti degli schiavi ed i poveri indossassero gli abiti dei nobili con una confusione di ruoli che è tipica della festa, ossia del tempo straordinario. Ma avventurarci nelle svariate ipotesi sull’origine del Carnevale e sulla stessa etimologia del nome ci porterebbe lontano dal tema del presente contributo. In Puglia, il Carnevale più antico è quello di Putignano, ed anche il più lungo perché i festeggiamenti cominciano il 26 dicembre, con la cosiddetta “Festa delle Propaggini”, in concomitanza con la ricorrenza di Santo Stefano, patrono della cittadina. Nel Salento, quello di Gallipoli, oltre ad essere uno dei più antichi, è certamente il più spettacolare. In passato, per le strade del borgo antico, le maschere, a gruppi, scorrazzavano per le strade invase dalla gente, fra gli applausi, i coriandoli, i confetti e l’euforia generale. Con l’inizio del Novecento, il Carnevale gallipolino si spostò nella città nuova, ma sempre “lu carru te lu Titoru” rimaneva protagonista assoluto delle sfilate. Cominciava, in quel periodo, la tradizione dei carri allegorici, sull’esempio degli altri e più rinomati Carnevali nazionali. Fu dopo la seconda guerra mondiale che questa tradizione prese piede a Gallipoli, ed ogni anno di più si allestivano enormi carri colorati, realizzati dalle sapienti mani degli artigiani locali[3].

Finiva di impazzare il carnevale nella città vecchia per spostarsi su Corso Roma, nelle nuove forme codificate dagli operatori culturali e la modernità prendeva il sopravvento sulla tradizione. Gli imprenditori gallipolini capirono di potere sfruttare meglio dal punto di vista turistico l’attrazione del Carnevale e da allora questo ha avuto un tale successo da non temere rivali nella provincia di Lecce, con una massiccia affluenza di visitatori da ogni dove. Certo, lamenta lo storico Cosimo Perrone, si è perso lo spirito originario della festa, quello che animava, almeno fino agli anni Settanta, il popolo gallipolino nel periodo carnascialesco. Purtroppo la tradizione si perde anche perché scompaiono coloro che ne erano i depositari, i vecchi maestri cartapestai gallipolini, che ormai non sono più. Quando rintoccava il campanone di San Francesco d’Assisi, spiega Perrone, tutti si mettevano in ginocchio e manifestavano la propria compunzione; cominciava così, dal Mercoledì delle Ceneri, la penitenza, che si protraeva per quaranta lunghi giorni, ovvero i giorni della Quaresima.

Dopo il Mercoledì delle Ceneri, il giovedì della settimana successiva, si festeggia la Pentolaccia, che dà la possibilità di consumare gli ultimi strascichi del Carnevale ormai concluso. Si tratta di una grossa pentola, una pignatta, nella quale sono contenuti confetti e dolciumi di ogni tipo che i bambini devono rompere, per potere venire in possesso del prezioso contenuto. Ma questa tradizione un tempo era molto più sentita: gli ultimi momenti di divertimento, prima della penitenza quaresimale di preparazione alla Santa Pasqua[4]. La Quaresima, dal latino quadragesima dies, è il lungo periodo di preparazione all’Avvento del Signore e dura appunto quaranta giorni, dal Mercoledi delle ceneri al Sabato Santo, e ricorda il periodo trascorso da Gesù Cristo nel deserto ad imitazione del quale i fedeli in passato facevano penitenza attraverso il digiuno rituale e la mortificazione della carne.

In queste settimane faceva e fa tuttora la sua comparsa sui balconi delle case non solo gallipoline la maschera della “Caremma”. Questa usanza, molto diffusa in passato, si era quasi del tutto persa ma negli ultimi anni, grazie alle associazioni culturali di molti centri salentini, è stata ripresa ed oggi nei nostri paesi tanti vicoli e cortili, balconi e palazzi espongono la simpatica vecchina di pezza[5]. La Caremma o Quaremma (secondo altre versioni Coremma) è la madre del Carnevale e, con la sua bruttezza, rappresenta simbolicamente la Quaresima, il periodo dell’astinenza e del digiuno canonico. È raffigurata da un fantoccio a forma di donna, vestita di nero e in posizione seduta: in una mano ha un fuso con un filo di lana e nell’altra una arancia trafitta da sette penne di gallina. Questo strumento rappresentava, nella società contadina di un tempo, un improvvisato calendario quaresimale che, settimana dopo settimana, veniva aggiornato, strappandole una penna per volta, fino all’ultima domenica di Pasqua quando, al suono delle campane, le si dava fuoco nelle pubbliche piazze. Il colore nero dei suoi vestiti esprime il lutto per la perdita del figlio, Teodoro. La canocchia e il filo rimandano ad una tradizione antichissima. Infatti, già nella religione dei romani, una delle mitiche Parche, Cloto, filava la trama e nelle sue mani scorreva il filo della vita degli uomini. L’arancia rappresenta il frutto selvatico originario da cui si erano riprodotti i vari innesti e il suo succo amaro è segno di sofferenza. Nei tempi passati, a mezzogiorno di Sabato Santo, si sospendevano tutte le attività e si cominciava a fare un rumore enorme; in campagna, i contadini alzavano le zappe in aria e le battevano fra di loro, le campane suonavano a festa, i ragazzini ruotavano le loro “trozzule” e le madri davano due scappellotti ai propri figli. In quel momento la Caremma (detta Saracosteddha o Saracostì nella Grecìa Salentina) esauriva il proprio compito ed allora veniva tolta dal terrazzo, appesa ad un palo e, a mezzanotte, incendiata con scoppi di mortaretti. Finiva così il periodo di Quaresima ed iniziava, con la Resurrezione del Signore, il tempo della purificazione e della salvezza. Questo antichissimo rito pagano, che coincide con l’inizio della primavera, venne assimilato dal Cristianesimo nella propria cultura. L’usanza di rappresentare con fantocci vari il periodo fra Carnevale e la Pasqua è comune a tutta Europa, sia pure con modalità diverse. Aldo D’Antico fornisce una delle spiegazioni del termine “Caremma”: questo deriverebbe dal francese “Careme”, che significa Quaresima, e si deve all’invasione delle truppe francesi nel Meridione nel XVI secolo. I soldati francesi presenti nel Salento, infatti, incuriositi da quel fantoccio simile ad una strega messo sulle terrazze delle abitazioni, gli attribuirono il significato che loro davano a “persona vestita stranamente”, altra variante del termine francese careme, anche associandola al periodo pasquale. Il dialetto salentino, poi, così pieno di francesismi, ha fatto proprio questo termine, che è diventato Caremma[6].

Ma facciamo un passo indietro. I riti della Settimana Santa a Gallipoli iniziano il venerdi precedente la Domenica delle Palme, quando si festeggia la Madonna Addolorata.

A celebrare l’Addolorata è la Confraternita di Santa Maria del Monte Carmelo e della Misericordia, ma non c’è chiesa o confraternita a Gallipoli che non esponga una effige della Vergine. Questa festa ricorda i sette dolori di Maria. A mezzogiorno in punto, la statua della Vergine, pregevole opera lignea del XVIII secolo, esce dalla sua chiesa per recarsi in Cattedrale e durante il rito religioso viene suonato l’Oratorio Sacro. Fra questi, lo Stabat Mater, la cui musica fu composta dal gallipolino Giovanni Monticchio, verso la fine dell’Ottocento: sette terzine, come i sette dolori di Maria, estrapolate dalla celebre opera di Jacopone da Todi. Alternativamente vengono suonate le Frottole.

Secondo Cosimo Perrone, l’introduzione dell’Oratorio Sacro a Gallipoli risale al 1697 e fu introdotta dal maestro Fortunato Bonaventura ed eseguita per la prima volta tra il 1733 e il 1740, nella Chiesa delle Anime. “Svariati sono stati i maestri che nell’ultimo secolo l’hanno diretta. Da Angelo Schirinzi, Gino Metti, al maestro Giorgio Zullino, il quale insieme a Metti, ha composto un preludio dedicato alla Madonna, al maestro Gino Ettorre, francescano, professore nel Conservatorio di Lecce”. Negli ultimi anni “è toccato anche alla maestra Gabriella Stea e al maestro Enrico Zullino”[7]. Come Oratorio sacro sono conosciuti anche il Mater Dolorosa, opera del maestro Francesco Luigi Bianco del 1886, e Una turba di gente, dello stesso maestro Bianco su testo di Giovanni Santoro.

La Frottola è una composizione musicale di origine popolare che risale al Settecento ed è caratterizzata da un alternarsi di toni lenti e veloci e, applicata ai sacri riti, con l’accompagnamento del canto, conferisce alla celebrazione un forte pathos[8]. È tradizione, in questo giorno, che le donne recitino mille Ave Maria. La statua lignea della Madonna è vestita di nero, con veste trapuntata di ricami dorati e una corona d’argento le sormonta il capo, ricoperto da un lungo velo fino alle spalle. Sino a qualche anno fa, la statua veniva vestita dalla nobile famiglia dei Ravenna, nella cappella privata del proprio palazzo, per un antico privilegio di cui godeva la famiglia[9]. I confratelli in abito nero e con la candela a quattro luci accompagnano la processione, insieme al Vescovo, ai sacerdoti e alle autorità civili e militari. Essi inoltre, in coppie di due, portano la Croce dei Misteri, una croce molto particolare che reca in sé tutti i simboli della Passione e Morte di Cristo, come la lancia che ferì il costato, la tenaglia, il boccale pieno di fiele, l’amaro calice bevuto nell’Orto degli Ulivi, il sudario, la corona di spine, la mano che simboleggia gli schiaffi dati a Cristo dal centurione romano, la scritta INRI apposta sulla Croce, il gallo, che rimanda al tradimento di Pietro, il martello, i chiodi, la colonna della flagellazione, la scala, la canna con la spugna imbevuta di aceto, i dadi, la tunica rossa tirata a sorte dai soldati, la sacca con i trenta denari del tradimento di Giuda e la lanterna, che simboleggia il lume portato dai soldati del Sinedrio quando andarono ad arrestare Gesù nell’Orto degli Ulivi. Colpisce, nella processione, l’immagine piangente e contristata della Madonna Addolorata e spiccano la sua veste riccamente decorata, il fazzoletto e il cuore trafitto.

Durante la cerimonia, si tiene anche la Benedizione del mare in cui la Madonna, dal bastione della Bombarda, comunemente detto di San Giuseppe, di fronte al porto mercantile, benedice l’elemento più importante per una città rivierasca, il mare, preziosa fonte di reddito per moltissimi gallipolini dediti alla pesca. L’incontro fra le due Confraternite viene detto “Ssuppiju”, termine dialettale con cui si indica propriamente l’andare incontro di una Confraternita all’altra. Ciò avviene quando nella processione la Confraternita della Misericordia si incontra con quella di Santa Maria delle Neve o del Cassopo e in segno di ospitalità sosta per alcuni minuti di fronte alla Chiesa di San Francesco di Paola, sede di detta confraternita. Come si diceva, sono numerosissime le statue dell’Addolorata presenti a Gallipoli; fra le più importanti: quella dell’Oratorio di San Luigi, quella dell’Oratorio di San Giuseppe, quella dell’Oratorio del Rosario, l’Addolorata dell’Oratorio dell’Immacolata, quella dell’Oratorio di Santa Maria degli Angeli, la Vergine del Suffragio dell’Oratorio delle Anime, l’Addolorata della Cattedrale, quella dell’Oratorio di Santa Maria del Cassopo, dell’Oratorio del Ss. Crocifisso, la Desolata dell’Oratorio di Santa Maria della Purità, l’Addolorata dell’Oratorio del Carmine e un’altra lignea sempre dell’Oratorio del Carmine[10].

Il primo venerdì di Quaresima poi a Gallipoli inizia l’ostensione nella Cattedrale di Sant’Agata della Sacra Sindone, che finisce il Venerdì prima della Domenica delle Palme. Essa è una riproduzione della Sindone del Duomo di Torino, una delle poche copie esistenti al mondo, portata a Gallipoli nel Cinquecento dal Vescovo Quintero Ortis[11]. “Nell’Oratorio dell’Immacolata, tutti i venerdì di Quaresima si è soliti fare la pia pratica delle cinque piaghe del Signore. I confratelli, partendo dalla porta d’ingresso, caricati della croce o delle grosse pietre appese al collo, salmodiando e recitando le preghiere, raggiungono in ginocchio l’altare”[12].

Luigi Tricarico riporta il modo di dire, diffuso a Gallipoli, “le uci, le cruci, le parme e a Pasca pane e carne”, con cui si fa riferimento alle domeniche di Quaresima precedenti la Pasqua e caratterizzate ciascuna da una espressione di religiosità popolare, ovvero: le voci delle Anime del Purgatorio (uci) a cui è dedicata la quarta domenica di Quaresima; le croci che vengono coperte con del panno viola (cruci) la quinta domenica di Quaresima (il velo viene tolto alle croci durante la Messa sciarrata del Venerdi Santo ed esse sono restituite all’adorazione dei fedeli); la Domenica delle Palme (parme); e quindi la fine delle restrizioni e del digiuno penitenziale (pane e carne) nella Domenica di Pasqua[13].

La Domenica delle Palme si ricorda l’ingresso festante di Gesù a Nazareth, accolto da moltitudine di rametti di ulivo sventolanti al cielo. Oggi non si tiene più la sacra rievocazione storica della Passione e Morte di Gesù curata per molti anni dalla Comunità del Canneto.

I riti pasquali hanno inizio il Mercoledi delle Ceneri, che era detto in latino caput quadragesimae, ossia inizio della Quaresima, o caputi ieiunii, inizio del digiuno. Le ceneri sono quelle dell’ulivo benedetto nella Domenica delle Palme e la loro riduzione in polvere simboleggia la più estrema mortificazione dell’uomo, secondo il detto evangelico: “ricordati che sei polvere e polvere ritornerai” (dal Libro della Genesi). Il Giovedì Santo è il giorno dedicato ai Sepolcri. In realtà, in questo giorno si ricorda l’istituzione del Sacro Mistero dell’Eucarestia e durante la Messa, in Coena Domini, che si tiene la sera, viene rievocata l’Ultima Cena di Cristo con gli Apostoli. Al termine della messa, le sacre ostie sono esposte su un altare addobbato per l’occasione, in modo da poter essere adorate dai fedeli fino all’indomani pomeriggio. E’ tradizione portare sull’altare fiori e piatti di grano germogliato al buio. Questo grano, che adorna l’altare della Reposizione, è stato fatto germogliare dalla quarta o quinta domenica di Quaresima fino al Mercoledì Santo, in una stanza completamente buia ed è offerto simbolicamente a Cristo, che, chiuso nell’Urna, risorgerà come il grano alla luce. Questi piatti di grano sono ornati con nastrini colorati e immaginette sacre[14].

Come informa Luigi Tricarico, in passato, a partire da questo momento, le campane venivano legate in segno di lutto ed era vietato persino ridere, scherzare o cantare per strada come forma di rispetto per Cristo morto e di partecipazione al dolore[15]. La sera viene fatta visita ai Sepolcri, sia dai fedeli che dalle varie Confraternite cittadine. Queste sono annunciate da tromba, tamburo rullante e “trozzula” e procedono alla visita a passo lento e in orari distinti. La trozzula è un curioso arnese di legno costituito da un manico che termina con una ruota dentata e una linguetta che, sbattendo con un movimento rotatorio sui denti della ruota, fa un grosso baccano: uno strumento antichissimo, di cui si servivano già primi cristiani per chiamarsi a raccolta nei luoghi di preghiera (la “troccola” è detta a Taranto e apre la processione del Venerdi). I confratelli indossano il saio, la mozzetta e il cappuccio completamente calato sulla faccia per mantenere l’anonimato e sono chiamati per questo, Mai, una parola che probabilmente deriva dal termine mago, forse scaturita dalla paura che un tempo il loro aspetto sinistro incuteva nei bambini.

La ritualistica dei Sepolcri, i “Sabburghi” in dialetto, commemora l’inizio della Passione di Cristo nell’orto di Getsemani.  Come riferisce Cosimo Perrone, questo rito ebbe inizio a Gallipoli nella prima metà del Settecento, ad opera, probabilmente, della Confraternita di San Giovanni Battista, ora scomparsa, nella chiesetta dove oggi si venerano i Santi Cosma e Damiano.

 

A Gallipoli più che altrove infatti si è diffusa la devozione confraternale ed ogni sodalizio – sono dieci in tutto – è contraddistinto da propri colori e particolari privilegi ottenuti. Sfilano, sotto gli occhi dei fedeli e dei curiosi turisti, le Confraternite della Misericordia, di Santa Maria del Rosario, di Santa Maria della Neve, di San Giuseppe, del Ss. Sacramento e del Canneto, dell’Immacolata Concezione, della Ss. Trinità e delle Anime del Purgatorio.

Esse discendono dalle medievali corporazioni delle arti e mestieri e la loro composizione interna va dai muratori ai sarti, dai pescatori agli scaricatori di porto, o bastagi, dai fabbri ai falegnami, e via dicendo. Ognuna ha una chiesa propria e una propria divisa ma solo tre confraternite possono aggiungere al saio, alla mozzetta e al cappuccio, il cappello a larghe tese e il bordone da pellegrino: quella di Santa Maria della Neve e San Francesco da Paola, quella della Misericordia e quella della Santissima Trinità. Un tempo, era tradizione che nella giornata del Giovedi Santo si tenessero delle vere e proprie processioni ai Sepolcri da parte di alcune confraternite che portavano la statua di Cristo morto e dell’Addolorata[16].

Lasciamo la parola allo storico: «Anticamente, prima della riforma liturgica, quando cioè Cristo risorgeva il mezzogiorno di sabato, la funzione del Giovedì Santo cominciava fin dalla mattina presto. A mezzogiorno in punto, “per privilegio secolare” usciva la processione della Confraternita della SS. Trinità e Purgatorio (dei nobili) poi di Sant’Angelo (dei nobili patrizi), indi seguivano quelle del Rosario, Santa Maria del Cassopo, Sacro Cuore, San Giuseppe, San Luigi, Santi Medici. Alle 17,30, usciva la processione della Confraternita degli Angeli “lunghissima e ricca di simbolismo col gruppo statuario di Cristo morto fra gli Angeli, impugnanti gli arnesi del martirio”»[17]. Prima della riforma liturgica del 1957, “alle primissime ore del Venerdi Santo, ancora prima dell’alba, la Confraternita di S.Maria della Purità (la Confraternita te li Vastasi, cioè degli scaricatori di porto o bastagi) attraversava con la statua di Cristo morto […] e con quella della Vergine Desolata […] le strade di tutta la città…”[18]. Oggi si tiene invece la semplice visita.

Nel pomeriggio, in tutte le chiese e chiesette viene allestita la Deposizione. Il Mistero è aperto all’adorazione del pubblico a partire dalle ore 15 fino a mezzanotte, quando la Chiesa si chiude per consentire la preparazione della Processione del Venerdi Santo. Se, nella visita ai Sepolcri, succede che due coppie di confratelli diversi si incontrino, nel già citato “Ssuppiju”, il diritto di passare spetta alla Confraternita più antica.

Un tempo, quando i sensi della religiosità popolare si esprimevano in maniera più vibrante, nella società contadina del passato, così lontana dagli stimoli e dalla moderna tecnologia, la contrizione da parte del popolo si allungava in tutto il tempo della Quaresima. Davvero uomini e donne mortificavano la propria carne con digiuni e astinenza sessuale. Oggi, per i fedeli, il periodo del rigore abbraccia la sola settimana santa, con il cosiddetto “precetto pasquale”.

 

Il Venerdi Santo si celebra la “Messa sciarrata”, cioè errata, sbagliata, perché esce fuori dai canoni liturgici, quasi che il sacerdote, colpito e frastornato dal lutto, non si ricordasse più come celebrarla.  La Processione del Venerdi Santo è anche detta “Te l’Urnia” (ossia della Tomba) e viene organizzata dalla Confraternita del Crocefisso, a cui una volta appartenevano i bottai, che hanno l’abito rosso, la mozzetta celeste e una corona di spine sulla testa e che portano i Misteri della Passione di Cristo, e da quella degli Angeli, i cui appartenenti, ovvero i pescatori, indossano l’abito bianco e la mozzetta celeste e portano la statua della Madonna Addolorata. Questa processione si ferma davanti al parapetto che si affaccia sul mare, presso il Bastione di San Francesco di Paola e da qui la Vergine dà la sua benedizione ai pescatori, che ringraziano suonando le sirene delle loro imbarcazioni; poi si prosegue fino all’arrivo in Chiesa, intorno alle 24[19]. Questa processione, una delle più suggestive di Puglia insieme a quella di Taranto (coi famosi Perdùne), rappresenta il culmine delle celebrazioni pasquali gallipoline ed è largamente conosciuta in tutta Italia. Del resto, il movimento dei “flagellanti” ha origini antichissime: questo moto di devozione penitenziale iniziò a propagarsi in Italia fin dal Duecento. Oltre al Cristo morto, opera lignea del XIX secolo, sfilano molte statue in cartapesta realizzate su commissione del sodalizio organizzatore. La sacra manifestazione è ricca di fascino, grazie ai Penitenti, cioè confratelli che, per espiazione dei peccati, si autoflagellano ad imitazione di Cristo.

Essi sono anonimi e utilizzano per questo rito alcuni speciali strumenti, come la “tisciplina”, che consiste in lamine di ferro di varia grandezza con cui il penitente incappucciato e a piedi scalzi si percuote con la mano sinistra, mentre tiene nella mano destra un crocefisso; alcuni utilizzano un più semplice cilicio; un altro strumento di tortura è la “mazzara”, o zavorra, cioè due grosse pietre legate ad una corda che il penitente si appende al collo sempre come punizione corporale, e poi la “Croce”, i cui portatori sono detti Crociferi. Inoltre sul cappuccio, i penitenti portano la corona di spine. Questa è fatta con una pianta selvatica di asparago, raccolta in campagna le ultime settimane di Quaresima e viene chiamata “sparacine” o “spine te Cristu”.

Molto lunga e laboriosa è la preparazione dell’Urnia, cioè della Tomba di Cristo, che è portata in processione: poche ore prima di uscire dalla Chiesa, vengono cosparse sulla Tomba delle gocce di una essenza profumata che richiama gli odori tipici della vegetazione medio-orientale, e alcuni confratelli particolarmente devoti fanno arrivare questo profumo addirittura dalla Terra Santa[20].

Molte sono le statue del Cristo Morto e tutte bellissime: il Cristo Morto della Confraternita del Crocefisso, quello della Confraternita di Santa Maria degli Angeli, quello ligneo della Chiesa di San Francesco D’Assisi, opera dell’artista spagnolo Diego Villeros, del 1600; quello della Confraternita di Santa Maria del Monte Carmelo e della Misericordia, quello della Confraternita di Maria Ss. Della Purità, che è racchiuso in un’urna dorata; inoltre, il Cristo Morto con l’Addolorata della Confraternita di Santa Maria della Neve o del Cassopo[21]. Alcune Confraternite, come quelle del Carmine, della Purità, di San Giuseppe, e dell’Immacolata allestiscono anche il Mistero della Deposizione, comunemente chiamato Calvario, esponendo le statue dell’Addolorata e del Cristo Morto all’adorazione dei fedeli. Il più bello, che si poteva ammirare fino agli inizi degli anni Novanta del Novecento, era quello della Confraternita dell’Immacolata, opera dei fratelli pittori Nocera. Ma Calvari e Ultime Cene vengono allestiti anche nelle case dei privati per essere esposti, soprattutto a Gallipoli vecchia, durante il pellegrinaggio dei Sepolcri o durante la Processione del Venerdi Santo. Molte famiglie, infatti, posseggono proprie statue inerenti la Passione, anche a grandezza naturale, che abbelliscono con fiori, ceri e grano germogliato al buio. Alcune sono davvero spettacolari e scenografiche ed attirano l’attenzione degli incuriositi turisti. Durante la Processione della Tomba, aperta dal suono della “trozzula”, i confratelli si dispongono in tre coppie per ogni statua più un Correttore, senza cappuccio, che disciplina l’andamento della processione e tiene in mano un bastone di legno, il “bordone”, che reca scolpito in cima il simbolo della statua che accompagna. Tra i confratelli, uno ha in mano il bastoncino, un bastone più piccolo degli altri, ed è colui che riveste la più alta carica della Confraternita, dopo il Priore. Ogni confraternita espone i “Lampioni”, portati da quattro confratelli, e che sono un elemento caratteristico della Settimana Santa gallipolina: essi sostituiscono, nella processione del Venerdi Santo, il cosiddetto “Pannone”, cioè la lunga asta drappeggiata con i colori della Confraternita che apre le processioni ordinarie. La Tomba di Cristo viene portata a spalla dai “fratelli della bara”, che sono confratelli in borghese o semplici devoti. Un lungo serpentone di gente si snoda per le principali strade del paese, nel segno della tradizione, fra la commozione dei tantissimi devoti che affollano la città, in ispecie emigranti tornati a casa per le festività. “È come una ferita sempre aperta, per un po’ sembra rimarginarsi ma torna, sempre, profonda e lancinante. In questa città si compie il dolore, l’agonia, la morte del figlio di Dio che fu poi la salvezza dell’uomo… Gallipoli in questi giorni è Passione e Mistero, Gesù muore e la città si ferma”[22]. A processione terminata, ai confratelli vengono distribuite le tradizionali “pagnotte”, panini conditi con tonno e capperi[23].

Nella notte, invece, si tiene la processione della Desolata, organizzata dalla Confraternita di Santa Maria della Purità. Questa suggestiva cerimonia del Sabato Santo prende l’avvio intorno alle tre antelucane, quando la città è ancora avvolta nel buio. I confratelli della Purità o dei “Vastasi”, cioè gli scaricatori di porto, che indossano l’abito e il cappuccio bianco e la mozzetta color giallo paglierino, conducono la statua di Cristo Morto adagiato in un’urna dorata e la statua di Maria Desolata, che risale al Settecento, la quale, coperta da un manto nero, siede ai piedi della Croce. Il sacerdote, con il priviale rosso, che dirige la processione, reca in mano la reliquia della Croce. Dietro, vanno tutti i civili e i bambini e le bambine vestiti in abiti della Prima Comunione. Il procedere lento e cadenzato degli incappucciati, il loro salmodiare e il religioso silenzio che avvolge la cerimonia procurano negli astanti un senso di sospensione del tempo e dello spazio e non pochi sono coloro che rompono in pianto per la forte emozione di una simile esperienza. “Un’intera città avvolta da un silenzio così intenso e profondo da poterlo vedere. È il silenzio che ha il volto coperto da un cappuccio, come i confratelli che nella settimana santa rendono onore al Signore”[24].  In passato, le statue in questa processione erano portate in spalla da un gruppo di Ebrei stanziati a Gallipoli fin dal Cinquecento, detti in dialetto “Sciutei” (come i pesci). Essi abitavano nel quartiere Purità che perciò era detto Giudecca e con questo loro sacrificio volevano simbolicamente riparare al peccato di aver condannato a morte Gesù[25].

Quando i confratelli della Misericordia si incontrano con quelli della Purità, avviene “lu Ssuppiju” e vi è il saluto dei due correttori delle Confraternite.  “Queste due processioni” scriveva Giuseppe Albahari qualche anno fa, “che gli ospiti stanno scoprendo sempre più numerosi, hanno […] un posto speciale nel cuore dei gallipolini, soprattutto in relazione ad alcuni momenti: il passaggio nei vicoletti del centro storico che fa quasi toccare con mano ogni statua, la lunga teoria di figure che si staglia contro il cielo chiaro del primo mattino sul ponte secentesco, la benedizione che, sul bastione della Purità, conclude il rito. E per la gente, prima mesta, è già tempo di scambiarsi gli auguri per l’incombente Resurrezione”[26]. Negli ultimi anni sulla spettacolare processione dei Misteri si accendono anche le luci dei riflettori, venendo trasmessa in diretta sui network locali, come Studio 100 e Telerama, e sul web, con la diretta streaming per i salentini nel mondo. Il suono degli strumenti di rito e l’atmosfera generale di lutto in passato si stemperavano poi a mezzogiorno quando si dicevascapulane le campane”: allora le campane tornavano a suonare, si scoppiavano mortaretti e fuochi d’artificio e si dava fuoco alle caremme; nelle case si battevano le mani sui muri, sui mobili, sui tavoli e tutti potevano finalmente festeggiare la fine della penitenza e delle privazioni, ripetendo il detto “Essi tristu e fanne trasire Cristu” (“ esci anima cattiva e fai entrare Gesù Cristo”), a significare il rinnovamento che il giorno di Pasqua porta con sè[27]. Oggi questo succede a Mezzanotte quando, durante la solenne Veglia Pasquale, si toglie il lenzuolo che copriva il Cristo Risorto sugli altari, e si dà l’avvio alla Pasqua. Una trattazione a parte meritano le preghiere gallipoline del periodo quaresimale, i modi di dire del linguaggio popolare e i canti, di cui in questa sede non ci possiamo occupare[28].

Finalmente la Domenica di festa si possono gustare i tipici dolci pasquali, come “la pupa”, “lu caddhuzzu” e “lu panaru” che sono fatti di pane. Sulla tavola pasquale dei gallipolini di un tempo non potevano mancare “lu benadittu”, un piatto contenente un uovo sodo, un finocchio, un’arancia e un pane che era stato benedetto durante la Messa, e l’agnello, preparato come spezzatino (“lu spazzatu”).  Un pezzettino di pane benedetto veniva conservato in casa per scongiurare le tempeste, quando lo si buttava nel mare dall’alto delle mura invocando la fine dei marosi e la salvezza dei naviganti[29].

A queste specialità tipicamente gallipoline si aggiungono l’agnello di pasta di mandorla, detto “pecureddhu”, farcito con la crema faldacchiera o con la marmellata, che allude all’Agnus Dei, l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Spesso, è impreziosito da cioccolatini che sono posti sopra l’impasto e da bandierine, simbolo della Resurrezione e del trionfo di Cristo sulla morte. Nel periodo di Quaresima, protagonista è anche la “cuddhura”, di cui la pupa e lu caddhuzzu sono delle varianti. Dal greco kollura, ha forma circolare, come la sfera dell’ostensorio, e simboleggia, come il serpente che si morde la coda, il cerchio del tempo che si rinnova; ma il pane è anche un elemento fondamentale della Comunione cristiana e rappresenta, come sappiamo, il corpo di Cristo che si è immolato sulla Croce, come il vino ne rappresenta il sangue. Essa può essere dolce o salata e al centro di questa specie di ciambella si mette un’arancia o un finocchio. Una volta, il pane utilizzato era rigorosamente azzimo. Fra “cuddhure” e “puddhiche” non c’è molta differenza, ma mentre le cuddhure, sia dolci che salate, si realizzano solo a casa, oggi le puddhiche si possono trovare anche nei bar e spesso, invece che con pane artigianale, sono fatte con pan brioche[30]. Ancora, le uova, simbolo di fecondità, e a Gallipoli, poi, un “must” sulla tavola pasquale sono la “scapece” (la “salsa di Apicio”), cioè pesce in aceto avvolto con pane grattugiato imbevuto di zafferano, e i “mustazzoli”, così chiamati perché un tempo erano preparati con il mosto cotto, oggi realizzati con farina, mandorle tostate e sbriciolate, zucchero, olio d’oliva, cannella, bucce d’arancia, chiodi di garofano e “gileppu”, ovvero una glassa al cacao prodotta amalgamando sul fuoco zucchero acqua e cacao[31].

Il giorno di Lunedi dell’Angelo, Pasquetta, a Gallipoli detto “Pascone”, i fedeli non rinunciano alla tradizionale scampagnata con colazione al sacco, come succede in tutto il resto del Salento. Le vivande che caratterizzano la scampagnata sono la parmigiana di melanzane, le polpette, la carne fritta e panata, e spesso anche la pasta al forno avanzata dal pranzo pasquale oppure preparata apposta, le frittelle con i carciofi e le immancabili uova sode[32].

Il ciclo di morte e rinascita, la resurrezione a nuova vita, il rigoglio della natura a primavera dopo i rigori dell’inverno, rappresentano i cosiddetti riti di passaggio delle antiche civiltà contadine e pagane, collegati cristianamente al ciclo pasquale, e su di essi si sono intrattenuti gli antropologi con una ricca messe di studi ai quali in questa sede si può solo rimandare.

Le sacre celebrazioni descritte sono oggigiorno meno radicate di una volta nella devozione popolare ma rappresentano un momento fortemente simbolico nella vita di una comunità locale. “Nei nostri Misteri”, scrive Cosimo Damiano Fonseca, “c’è una dialettica profonda tra antico e moderno”[33]. I cerimoniali della Settimana Santa che raggiungono il culmine nella Processione dei Misteri rinnovano a Gallipoli e in tutto il Meridione d’Italia un atto di fede che resiste ancora negli anni Duemila venti, in tempi di relativismo e massificante potere delle comunicazioni di massa. Certo, prevale l’elemento folclorico, perché si è capito che questi cortei sono veicoli straordinari di attrazione turistica, come lamenta Raffaele Nigro, il quale tuttavia, ammette che “riemerge comunque una palpabile voglia di contrizione e, allo stesso tempo, di purificazione. È qualcosa che persiste, a dispetto di ogni fragile certezza di questo nostro Medioevo contemporaneo”[34]. La danza dei penitenti che percorrono autoflagellandosi le storte e le stradine del borgo “umilia la velocità”, come scriveva Carlo Belli nel 1959, assistendo alla processione dei Perduni di Taranto, guardando quegli uomini incappucciati simili a fantasmi dondolanti nell’oscurità: “in un muto cammino fantasmi immobili espiano i loro peccati”[35].

Questo fascino antico è forse uno di quei portati del patrimonio immateriale di un popolo bello da tramandare alle giovani generazioni.

 

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Antonio Sanfrancesco, Nel tempo lento delle processioni. Misteri e Passione in riva allo Jonio, in «Qui Salento», Lecce, Guitar Edizioni, marzo 2008, pp. 74-75.

Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 10 aprile 2009.

Marina Greco, Tunica, cappuccio e mozzetta: i Misteri del Venerdi Santo, in «Qui Salento», Lecce, Guitar Edizioni, aprile 2009, pp. 62-63.

Associazione Gallipoli Nostra, La Settimana di Passione a Gallipoli, a cura di Cosimo Perrone, quinta ristampa, Alezio, Tip. Corsano, 2011.

 

Note

     [1] Elio Pindinelli, Le focareddhe, in «Almanacco gallipolino 1995», Gallipoli, Grafiche Sud Pacella, 1995, p. 6.

     [2] Idem, Lu Titoru – La Caremma, in «Almanacco gallipolino 1995», cit., p. 10 e p. 14.

     [3] Idem, A Gallipoli un Carnevale d’altri tempi, in «Almanacco gallipolino 1996», Gallipoli, Grafiche Sud Pacella, 1996, p. 17.

     [4] Regione Puglia, Crsec Le/48- Gallipoli, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli Tra storia mito e leggenda, a cura di Cosimo Perrone, Alezio, Tip. Corsano, 2003, p. 40.

     [5] Loredana Viola, Prima di Pasqua si darà fuoco alla “Curemma”, in «Quotidiano di Puglia», 12 marzo 2006; Misteri e Caremme, così si celebrano i riti della Passione, in «Quotidiano di Puglia», 7 aprile 2006.

     [6] Centro Solidarietà Madonna della Coltura Parabita, La Caremma, a cura di Aldo D’Antico, Parabita, Il Laboratorio, 2002. Elio Pindinelli, La Caremma, in «Almanacco gallipolino 1995», cit., p. 14. La vecchietta brucia nel rogo e le feste possono cominciare, Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 7 aprile 2004. Maria Claudia Minerva, Con l’arrivo di Pasqua finisce l’astinenza: fuoco alle Caremme, in «Quotidiano di Puglia», 12 marzo 2007.

     [7] Regione Puglia, Crsec Le/48- Gallipoli, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli Tra storia mito e leggenda, a cura di Cosimo Perrone, cit., pp. 51-91.

     [8] Ibidem.

     [9] Ibidem. Si veda inoltre Luigi Tricarico, Te le “Cennereddhe”…a Pasca (riti, tradizioni e suggestioni della Quaresima gallipolina) Con la collaborazione di Cosimo Spinola, Santuario Santa Maria del Canneto, Alezio, Tip. Corsano, 2004.

     [10]Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.

     [11] Ibidem.

     [12] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim.

     [13] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.

     [14] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim. Si veda inoltre: Associazione Gallipoli Nostra, La Settimana di Passione a Gallipoli, a cura di Cosimo Perrone, quinta ristampa, Alezio, Tip. Corsano, 2011.

      [15] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.

     [16] Ibidem.

     [17] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim.

     [18] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim. Si può anche utilmente consultare: Un anno a Gallipoli (tra sacro e profano), in Comunità del Canneto, Perle di ieri, a cura di Luigi Tricarico, Alezio, Tip. Corsano, 2002, pp. 97-114.

   [19] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim.

     [20]Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.

     [21] Ibidem.

     [22] Cinzia Di Lauro, Gallipoli Passione e mistero nel borgo del mare e del vento, in «Qui Salento», Lecce, Guitar Edizioni, aprile 2005, p. 62.

     [23] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim. Si veda anche G. F. Mosco, Gallipoli – Venerdì Santo. Moviola per una processione, Ed. Ass. L’Uomo e il mare, Tuglie, Tip. 5emme, 2003, passim.

     [24] Serena Mauro, Il silenzio della Passione tra incappucciati e penitenti, in «Qui Salento», Lecce, Guitar Edizioni, aprile 2006, p. 60.

     [25] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim.

     [26] Giuseppe Albahari, Sfilano i Misteri e il mare fa da sfondo, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 10 aprile 2009.

     [27] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.  Si veda inoltre Mistici silenzi nella processione dei Misteri, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 6 aprile 2007.

     [28] Ibidem. Inoltre: Un anno a Gallipoli (tra sacro e profano), in Comunità del Canneto, Perle di ieri, a cura di Luigi Tricarico, cit.; Ettore Vernole, La passione di Gesù nelle tradizioni popolari salentine, in «Archivio per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari italiane», a. XIV, fasc. III-IV, Catania, 1939, pp. 143-155.

     [29] Elio Pindinelli, Il pranzo pasquale, in «Almanacco gallipolino 1995», cit., p. 16. Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 7 aprile 2004. Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 23 marzo 2005.

     [30] Si veda: Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 5 aprile 2007.

     [31] Elio Pindinelli, La salsa di Apicio, ovvero la scapece, in «Almanacco gallipolino 1996», cit., p. 18.

     [32] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim. Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.

     [33] Antonio Di Giacomo, I giorni della Passione. Cortei e penitenti incappucciati “Una gran voglia di Medioevo”, in «La Repubblica-Bari», 8 aprile 2004.

     [34] Ibidem

     [35] Carlo Belli, La notte dei Perdoni, ovvero la velocità umiliata, Roma, Tip. Pedanesi, 1974, p.42.

 

UNA PAGINA DI STORIA DI LECCE: LA FAMIGLIA VITERBI SALVATA DALLA SHOAH

Grazia Viterbi

 

di Francesco Frisullo – Paolo Vincenti

 

In occasione del giorno della memoria, ci è gradito ricordare una storia che unisce Lecce alla città di Assisi e alla comunità ebraica durante l’ultimo periodo delle persecuzioni naziste, prima della conclusione della Seconda Guerra Mondiale. Questo episodio rientra in quel genere che in passato veniva definito “aneddotica”, quello della storia minore, se non fosse che questi episodi vanno poi a comporre come tanti tasselli il grande mosaico della storia con la esse maiuscola. Protagonista del nostro intervento è la famiglia Viterbi, di origine ebraica, che singolarmente riuscì a salvarsi dallo sterminio proprio grazie a Lecce. La famiglia viveva ad Assisi ma poté scampare all’arresto perché attraverso una rete di appoggi locali i Viterbi si spacciarono per leccesi grazie a falsi documenti. Nelle carte contraffatte, essi erano registrati come “Vitelli”, residenti nel comune di Lecce, poiché la città all’epoca era già liberata dagli americani, ed era quindi impossibile verificare la validità dei documenti stessi, come viene riportato dal sito dello Yad Vashem:

I Viterbi furono una delle famiglie che riuscirono a vivere all’aperto a causa delle carte false preparate per loro dal Brizi. Nelle carte contraffatte risultavano iscritti come residenti nel comune di Lecce. Il falsario aveva scelto quel paese perché era già stato liberato dagli americani, impedendo così ogni possibilità di verificare la validità dei documenti. Nonostante la famiglia fosse arrivata in un luogo dove era assistita e protetta, e nonostante i documenti falsi in loro possesso, la paura di essere braccati e catturati non li ha mai abbandonati. Grazia Viterbi – o Graziella Vitelli come veniva chiamata nelle sue carte false – voleva assicurarsi che, se scoperti, passassero l’interrogatorio. Andava alla biblioteca di Assisi e prendeva appunti su Lecce per familiarizzarsi con il luogo, in modo che, nell’eventualità di incontrare per caso qualcuno di quella città, potesse parlare del luogo[1].

Approfondiamo la vicenda.

Emilio Viterbi, docente di Chimica all’Università di Padova, nell’ottobre 1943, per sfuggire alla persecuzione razziale si rifugiò ad Assisi con la sua famiglia, la moglie Margherita, le figlie Graziella e Myriam, godendo della protezione del Sacro Convento. Dal 1938 in poi le leggi razziali lo avevano spogliato di quasi tutto, privandolo anche della cattedra universitaria. Tra il ’43 e il ’44 la famiglia ha vissuto ad Assisi da clandestina ed è riuscita a sfuggire alle persecuzioni nazifasciste grazie all’aiuto della chiesa, come racconta Graziella Viterbi in un’intervista pubblicata sul sito www.sanfrancescopatronoditalia.it/[2].

I Viterbi arrivati ad Assisi trovarono nel Vescovo Nicolini un formidabile patrono della causa ebraica. Il Vescovo indicò loro una persona che gli avrebbe fornito i documenti falsi e li aiutò a trovare un appartamento in via Borgo Aretino, dove poi si sarebbero stabiliti definitivamente. Non si può non rendere merito a questo coraggioso prelato, monsignor Giuseppe Placido Nicolini, che riuscì a creare ad Assisi dall’8 settembre del 1943 al 17 giugno 1944 (giorno della liberazione da parte delle truppe alleate), una vasta rete di aiuti coinvolgendo nella sua impresa tanti protagonisti della vita sociale assisiate del tempo, tutti riconosciuti “Giusti tra le nazioni” e oggi insigniti e commemorati con i loro nomi al Museo dell’Olocausto di Gerusalemme. Quella di Graziella Viterbi è solo una delle storie di “sommersi e salvati”, come li definisce in rete Avvenire.it[3].

I salvataggi venivano compiuti nel monastero di clausura delle Sorelle Povere di Santa Chiara, di cui era badessa madre Maria Giuseppina Biviglia.

Ai rifugiati, come nel caso della Viterbi, venivano appunto forniti falsi documenti che erano stampati dalla macchina “Felix” della tipografia (vicina alla cattedrale di Santa Chiara) di Luigi Brizi che, col figlio Trento, dava nuova identità ai clandestini. Il trasporto spettava all’insospettabile campione di ciclismo, Gino Bartali, il quale nascondeva i documenti nella canna o sotto il sellino della sua bici «color ramarro» e al traguardo finale del monastero veniva accolto e rifocillato da tre suorine, Amata, Alfonsina e Candida”[4].

Come si può vedere, nella rete di aiuti compare anche il grande campione di ciclismo Bartali. Continuiamo a leggere l’interessante narrazione:

La paura iniziale, con il passare delle settimane divenne puro spirito di missione. «Si obbediva solo a un sentimento che sorgeva spontaneo di volta in volta che si presentavano dei disgraziati… La pietà avrebbe trionfato come trionfò. E trionfò per amor di Dio e del prossimo…», scrive madre Maria Giuseppina. Ma il trionfo quotidiano, a rischio della vita di tutti gli abitanti di quella casa salvifica che, non a caso, la madre badessa aveva ribattezzato “l’arca di Noè”, subì un brusco arresto il 26 febbraio del ’44. «La macchina dell’assistenza ai rifugiati funzionò senza problemi sino a quella data – scrive Barbara Garavaglia nel suo saggio “L’arca di Noè a San Quirico” – A seguito di un controllo, venne scoperto un giovane con documenti contraffatti, il quale rivelò di essere alloggiato al monastero». Si trattava del croato Paolo Josza, alias Paolo Macrì, già evaso da un campo di concentramento nella ex Jugoslavia e del tenente dell’aeronautica Antonio Podda, che in clandestinità era diventato Giorgio Cianura. Alla loro cattura seguì l’ispezione a San Quirico dei funzionari della Repubblica Sociale ai quali madre Maria Giuseppina Biviglia, pur sotto la minaccia d’arresto, oppose strenua e disperata resistenza: «Eccomi pronta; munitevi del permesso, perché son monaca di clausura e non posso abbandonarla senza autorizzazione. Per grazia di Dio non ne fu nulla…». Quell’episodio a San Quirico fu l’apice del terrore provato in quel tempo temerario in cui la presenza di cunicoli medioevali e della botola che collegava la clausura ai sotterranei e alla «grotta» era pienamente servita allo scopo: mettere in salvo tante anime ingiustamente destinate ai campi di sterminio[5].

Carta d’Identità di Graziella Vitelli

 

In rete, è presente svariato materiale sulla famiglia Viterbi fra cui un’altra intervista fatta a Graziella nel 2011 nella quale la donna ripercorre la sua esperienza durante quella drammatica vicenda[6].  Curioso il legame che si venne a creare pur da lontano con la città di Lecce e il fatto che Graziella si documentasse sulle bellezze storico artistiche della capitale del barocco meridionale prendendo degli appunti su Lecce per essere credibile in caso di interrogatorio ed affrontare così con sicurezza un paventato test di “salentinità”.

“Così Graziella studia Lecce in biblioteca su di una Guida e con i genitori riscrive la storia della famiglia, che, ogni sera, legge alla sorellina, perché le sia bene impressa per non incorrere in errore in qualche conversazione. Un allenamento quotidiano ad essere un’altra persona, con il terrore di essere sempre scoperti. Uno sdoppiamento con una capacità di controllo che neanche lontanamente riesco ad immaginare”. Così scrive Fulvia Alidori in un bellissimo articolo sulla storia di Graziella in cui riporta anche una foto degli appunti manoscritti dell’allora ragazzina ebrea e una foto della sua carta d’identità con le generalità alterate[7].

Graziella, operatrice culturale e scrittrice, è la madre del rabbino prof. Benedetto Carucci Viterbi, biblista, Preside delle scuole della comunità ebraica romana e docente alla Pontificia Università Gregoriana, e di Emanuele Carucci, affermato attore. Ma è anche la moglie dell’editore Beniamino Carucci (1922-1992), appassionato diffusore della cultura ebraica in Italia, a cui si devono preziose pubblicazioni di saggistica, narrativa e architettura[8]. Nel 2013 incontrò anche Papa Francesco.

Racconta Mirjam Viterbi Ben Horin:

Nel 1943, per salvarsi dalle persecuzioni naziste, la mia famiglia trovò rifugio ad Assisi, dove ricevette un aiuto meraviglioso da parte del vescovo Nicolini e di tutto il clero locale. Ci fornirono anche di carte d’identità false, dove risultavamo originari di Lecce. All’inizio, ancora con i documenti veri, si alloggiò per un mese in un piccolo albergo, l’Albergo del Sole, e successivamente in una casa privata; qui avevamo due camere, di cui una era la stanza da pranzo, il luogo dove praticamente si viveva gran parte della giornata. Al centro c’era un grande tavolo rettangolare, di legno scuro[9].

L’attività della rete di salvataggio è stata anche il tema di un film del 1985, Assisi Underground, diretto da Alexander Ramati con Ben Cross e James Mason nella parte del vescovo Nicolini.

Nel 2019 è scomparsa Graziella Viterbi.“Fondamentale il suo apporto alla ricostruzione delle vicende che videro per protagonista la città di Assisi al tempo delle persecuzioni antiebraiche, cui si sottrasse grazie all’aiuto della rete di assistenza clandestina che lì operò e che vide in prima linea esponenti del clero locale”: così scrive il sito Moked.it in occasione della morte, che ha avuto vasta eco non solo nella comunità ebraica. “Dopo la guerra fu instancabile animatrice nel mondo della cultura e dell’azione di assistenza nel corso delle drammatiche migrazioni ebraiche che contrassegnarono il secondo Novecento”[10].

Il 22 novembre 2022 è morta anche Mirjam.[11]

Ma se oggi sono scomparsi i protagonisti diretti di questa vicenda, non sia spenta la memoria su un episodio drammatico della storia del Novecento, che può essere tramandato e conservato dagli illustri successori della famiglia Viterbi “Vitelli”.

 

Note

[1] Monsignor Giuseppe Placido Nicolini, Father Aldo Brunacci, Father Rufino Niccacci, Luigi Brizi and his son Trento. https://www.yadvashem.org/righteous/stories/assisi.html

[2] È morta Grazia Viterbi, le condoglianze del Vescovo di Assisi.
http://www.diocesiassisi.it/e-morta-grazia-viterbi-le-condoglianze-del-vescovo-di-assisi/

[3] Suor Biviglia, la Giusta di Assisi, in Avvenire.it. https://www.avvenire.it/agora/pagine/suor-biviglia-la-giusta-di-assisi

[4] Ibidem

[5] Ibidem

[6] Assisi clandestina, Graziella Viterbi ricorda, in Terra Santa.net. https://www.terrasanta.net/2011/11/assisi-clandestina-graziella-viterbi-ricorda/

[7] Fulvia Alidori, Sacerdoti e suore di Assisi salvarono Graziella Viterbi. https://anpi.it/media/uploads/patria/2010/9/18-20…

Si veda anche “Alunni di razza ebraica”. Studenti del Liceo-Ginnasio “Tito Livio”, sotto le leggi razziali, a cura di Mariarosa Davi, Padova, 2010, con l’intervista a Graziella che parla della storia della propria famiglia, alle pp. 39-54.

[8] Su di lui si legga Fausto Parente, Beniamino Carucci: ricordo di un amico, in Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, «La Rassegna Mensile di Israel», Vol. 58, No. 1/2, Gennaio – Agosto 1992, pp. V-VII. https://www.jstor.org/stable/i40058099

[9] Assisi, la guerra e la fantasia che salva. https://www.wikiwand.com/it/Rete_clandestina_di_Assisi.  Su quella drammatica circostanza, Mirjam scrisse anche un libriccino: Mirjam Viterbi Ben Horin Gli abitanti del Castelletto Una luce nel buio della shoah, Assisi, Edizioni francescane italiane, 2020. Altre sue pubblicazioni sono: Il sogno di Giacobbe, Roma, Borla, 1988; Verso l’Uno. Una lettura ebraica della fede, Bologna, EDB, 2005; Con gli occhi di allora. Una bambina ebrea e le leggi razziali, Brescia, Morcelliana, 2008. Mirjam era sposata con Nathan Ben Horin (1921-2017), diplomatico, fine studioso e membro della commissione dei Giusti allo Yad Vashem, fattivo collaboratore nel dialogo ecumenico tra cattolici e  ebrei. Un’antologia di suoi interventi e contributi storico-teologici è stata pubblicata nel 2011 con il titolo Nuovi orizzonti tra ebrei e cristiani, a cura di Piero Stefani, Edizioni Messaggero, Padova.  https://moked.it/blog/2017/10/15/nathan-ben-horin-1921-2017/

[10] Graziella Viterbi (1926-2019).

https://moked.it/blog/2019/03/10/graziella-viterbi-1926-2019/

[11] Morta Mirjam Viterbi Ben Horin, ebrea salvata in Assisi.
 http://www.diocesiassisi.it/morta-mirjam-viterbi-ben-horin-ebrea-salvata-in-assisi/

La poesia di Carlo Stasi

di Paolo Vincenti

Carlo Stasi si laurea in Lingue e Letterature straniere, nel 1984, con una tesi in Filosofia del linguaggio su Walpole e il Castello di Otranto (che rivela la sua passione per la letteratura fantastica e dell’orrore). Lo scrittore settecentesco Horace Walpole, considerato dagli studiosi di settore l’iniziatore della letteratura gothic-noir, resta sempre negli interessi di Stasi se è vero che una delle più recenti sue fatiche letterarie è dedicata proprio allo scrittore inglese e alla cittadina adriatica dove è ambientato il romanzo: Otranto nel mondo (dal “Castello” di Walpole al “Barone” di Voltaire), uscito nel 2018 dall’ Editrice Salentina di Galatina, con una prefazione di Augusto Ponzio e una presentazione di Mario Spedicato, contiene anche la prima traduzione italiana del “Baron d’Otrante” di Voltaire.

Per il lavoro di insegnante nelle scuole superiori, Stasi ha vissuto a Roma, poi a Como e Varese, per ritornare nel 2000 nel Salento, prima al Liceo Classico Capece di Maglie e, infine, al Liceo Scientifico De Giorgi di Lecce. Oggi risiede a Lizzanello, ma è originario di Acquarica del Capo, avito borgo dell’entroterra leucano, che ha dato i natali anche ad un artista musicista, amico d’infanzia di Carlo, il cantante Franco Simone, al quale Stasi ha dedicato nel 2016 Sono nato cantando… tra due mari (radici e canto nella poetica di Franco Simone, cantautore salentino), per le edizioni de I Quaderni del Bardo.

Nel 1981, ancora studente universitario, pubblica Poesie (Gabrieli, Roma), nel 1984 La speranza (Ricerche poetiche), Schena editore, con prefazione di Giovanni Dotoli, nel 1993 Leucàsia, con presentazione di Carlo Scarcella e prefazione di Vincenzo Guarracino, giunto alla quarta edizione nel 2001 (Leucasia Editore); del 2001 è Danza dei 7 pensieri, un poemetto edito da Bollate.

“Mi piace/stare qui/ a pensarti/ pensando/ che mi pensi/ e pensare/ che ti piace/ stare lì/ a pensarmi/pensando/che ti penso/” (Mi piace).

Si intravede fin dalle prime opere poetiche da quali suggestioni letterarie Stasi sia disponibile a farsi irretire, a quali echi delle letterature straniere egli risponda, insomma la sua cifra stilistica è d’abrupto segnata. La lezione di Apollinaire e della poesia calligrammatica porta anche Stasi ad una sorta di “tipografia cubista”, come ebbe a dire Braque dell’autore di Alcools. Comunque, a Mallarmé e alle avanguardie europee novecentesche Stasi frammischia temi tipicamente salentini, alle tentazioni neoavanguardistiche, l’amore per i classici su cui si è formato, i richiami di un surrealismo giocoso e sfrenato che impatta ossimoricamente sulla realtà “pietrosa e murale” della nostra terra. Nei suoi testi il paroliberismo futurista fa i conti con le trame della storia, del paesaggio, delle leggende e della lingua salentini. Il Salento, terra madre, impasta umori sapori e saperi della sua ispirazione, fornisce l’abbrivio, dà fondamento alla sua scrittura.

“Terra del Sud/ terra del sudore/ ore ore ore/ a lavorare/ are are are/ vite intere/ ere ere ere/ o partire/ ire ire ire/” (Echi del Sud).

In questo senso, anche l’uso del dialetto diventa testimonianza di attaccamento alle proprie radici.  Leucàsia, racconti, leggende e poesie di terra, di mare e d’amore… si compagina di sentimenti accorati per la propria terra, il Salento amato e cantato da poeti come Vittorio Bodini, i cui versi, che introducono in esergo le varie sezioni del libro, ne accompagnano la lettura.

Quasi come un manifesto d’intenti, sulla copertina del libro si legge: “Luce abbagliante/E col faro la terra finisce/Ulivi pensosi/Cantano chini sul mare un/Addio di pescatori/” in cui, unendo le lettere iniziali, si ottiene la parola LEUCA e i versi, con un gioco visivo, si dispongono a formare proprio l’estrema punta del Salento, Finibusterrae.

Nella prima parte, E Leuca…sia!,  si trovano alcune leggende e racconti come Leucàsia (bellissimo personaggio femminile, per la cui felice invenzione Stasi ha ricevuto anche l’elogio di Maria Corti), Il mare sfondato, Sub finibus terrae,  La sigaretta e Il materassino.

Nella seconda parte del libro, Impronte di Mare – poemetti del mare-, si trovano diverse liriche di ambientazione o ispirazione marinaresca, come “Palpita di/Ulivi e di/Grotte/La terra rossa/Irrorata da/Antiche rugiade/” (acrostico in cui, unendo le iniziali dei versi, si ottiene la parola PUGLIA); “Lampi palpitanti/Emergono nella notte e/Un desiderio di stelle si/Costella di carezze sino/Al risveglio dell’aurora/” (combinazione linguistica per LEUCA); oppure “Muore l’onda/Ai piedi della sponda/Rinascendo alla brezza con/Eterna dolcezza/” (per MARE); o ancora “Lievi si levano/Effimere luci come/Un sogno d’amore che si/Consuma tra i flutti ed invano/Aspira all’eterno/” (sempre per LEUCA). Nella Sezione intitolata Trittico Salentino, troviamo Donne del Sud, che dice: “le donne/del sud/sospese/ in attesa/ al muro bianco/ nero/ è il loro pensiero/ nere le rughe/ delle gonne/ delle donne/ del sud/ le donne/ del sud/ distese/ in attesa/ sul letto di fianco/ rossa/ è la loro passione/ rosse le foghe/ sotto le gonne/ delle donne/ del sud”.

Molto interessanti anche la poesia visiva sul lenzuolo, in cui i versi si dispongono a formare tanti lenzuoli appesi al filo ad asciugare, e quella sulle gocce d’acqua, formata da tante gocce di versi che cadono dal cielo.

E in Ritorno: “il Salento/ è un angolo segreto/ in fondo al nostro cuore/ una penisola/ dove arriviamo/ dopo che tutti gli altri/ sono scesi/ ed il treno resta/ pieno solo di leccesi/ dagli sguardi complici/ impazienti/ di riveder/ quel sole”. Nella quarta sezione del libro, Attendendo l’onda –poemetti d’amore-, troviamo quelle Sirene e quell’Idrusa, rese immortali dalla penna di Maria Corti, mentre nell’ultima sezione del libro, in cui si sente più forte l’influenza di Bodini, richiamata dal corvagliano titolo Finibusterrae –poemetti della terra-, compare l’acrostico “Sognare è/Arte che è/Legge quaggiù dove non/Esiste che il/ Nulla fatto di/Tutto ed/Ogni cosa è sogno/”, per SALENTO.

Il verso è libero, non obbedisce a nessun “legislatore del Parnaso”, come scrisse Francis Viele-Griffin, il maestro di Breton, nessuna forma fissa può essere considerata come lo stampo necessario per una poesia, l’espressione artistica segue i più variegati percorsi, il poeta obbedisce al ritmo personale. I versi si compongono di allitterazioni, assonanze, consonanze, rime baciate e alternate, la poesia è sempre musica per Stasi (melica, infatti, la chiamavano i Greci) e la musica è una delle variazioni sul genere, potremmo dire, nella sua attività artistica (infatti ha anche scritto testi per canzoni), l’altra è la pittura.

Le sue composizioni sono tributarie di quella grande biblioteca personale che ognuno di noi porta con sé, che è stipata dei testi che abbiamo letto e amato, sicché ogni creazione poetica o narrativa potrebbe definirsi una riscrittura, meglio, un omaggio a quei referenti letterari. Dalla poesia passa alla narrativa.

Nel 2008 pubblica Leucasia e le Due Sorelle Storie e leggende del Salento, edito da Mancarella, che raccoglie racconti fantastici, a metà fra storia e leggenda. Decide quindi di pubblicare una summa della sua produzione poetica, quella della sperimentazione verbo visiva, in questo libro che abbiamo fra le mani.

Il valore iconico dei versi dà una valenza del tutto particolare alle composizioni che, dalla sperimentazione visiva, traggono nuova linfa, come se si alimentassero di ulteriori significati, nascosti ad un primo approccio. Anche nelle liriche più spensierate e leggere, il divertimento linguistico si combina con la ricerca del messaggio, crea un’atmosfera, quella nuance, che è tutta propria di Stasi. Le sue liriche si dilatano in una esplosione plurisemantica, incoraggiata dalle performance live che il “poeta saltimbanco” ama tenere.

È l’idea sinestetica, che abbina in prodigiosa diade immagine e parola, a creare quelli che l’autore chiama “parlagrammi”. Il lettore avvertito potrà così entrare nella joie de vivre di questo libro, ultimo omaggio di Stasi, che in altre occasioni abbiamo definito “George Herber iapigio”.

Libri| Le facce, romanzo di Rudy Marra

di Paolo Vincenti

Dopo “L’utente potrebbe avere il terminale spento” (Edizioni Zona 2007), “Le facce. Dal diario del dottor Frank Saltarino. Storie di ordinaria incomunicabilità” (Edizioni Zona 2015) è il secondo romanzo di Rudy Marra, originario di Galatina ma trapiantato da molti anni in Emilia Romagna, conosciuto ai più come cantautore di talento, sebbene lontano dalle scene da molti anni. Se la grande industria discografica però sembra essersi scordata di lui, d’altro canto lui sembra non soffrirne particolarmente, impegnato in tanti e diversi progetti artistici.

Il libro è un romanzo breve.  Al mondo della comunicazione Rudy Marra è molto attento, anche per studi fatti: è laureato in Sociologia all’Università di Urbino. Il dottor Frank Saltarino, come spiega l’autore nella Prefazione, è uno psichiatra italo-americano, vissuto nella prima metà del Novecento, che ha lasciato un ricco diario da cui l’editore del libro attinge per questo racconto e per altri che probabilmente ne verranno. Il libro infatti sembra precludere ad un seguito, al quale forse l’autore sta già lavorando. Il movente del libro è la confessione di un paziente del dottor Frank Saltarino, il quale, per paradosso, finisce fra quegli stessi “pazzi” che ha avuto in cura per molti anni. Cioè, termina la propria vita in un centro di igiene mentale, vittima del logoramento dovuto al diuturno esercizio della sua professione.

Il paziente di cui viene pubblicata la confessione, invece, è un pittore che dipinge facce sulle sue tele coi colori ad olio ed è ossessionato dalla corrispondenza dei dipinti con le persone ritratte, nella tormentata ricerca di una impossibile armonia fra realtà e finzione, fra vero e verosimile. Egli vorrebbe dare vita ai propri ritratti.  Inizia allora una serie di sperimentazioni, sui materiali, sui colori, sugli stessi modelli, i soggetti da ritrarre, alla febbrile ricerca del vero, nella spasmodica tensione verso il ritratto perfetto. Sullo sfondo, la New Orleans del jazz e del woodoo, di Billie Holiday e Louis Armstrong, di George Lewis e Emma Barret, con un ossessivo motivetto, St. Thomas, di Sonny Rollins, che accompagna tutta la narrazione. Fra il delta del Mississipi che attraversa il ventre della città e il Quartiere Francese dove abita il pittore, si snoda la trama del racconto, con la lunga teoria di tentativi andati a vuoto nella ricerca pittorica, frustrata dalla incipiente schizofrenia che lambisce, fino a devastarla, la fragile psiche del protagonista. Così il pittore di facce inizia ad accumulare copie di copie sempre dello stesso soggetto, ovvero Mamy, una grassa negra che è la sua donna delle pulizie, e queste copie diventano sempre più simili all’originale, apparentemente perfette, fino a quando il pittore non raggiunge il suo scopo, ossia quello di confondere l’originale con il ritratto. Tuttavia, ancora qualcosa manca: resta, seppure impercettibile, sempre una lievissima differenza, fra vero e verosimile. E questo porta il pittore alla dannazione.

Si avverte il richiamo di Goethe della “Teoria dei colori” in questo racconto, ma fonte di ispirazione può anche essere stato il noto aneddoto che si tramanda su Michelangelo, il quale di fronte alla perfezione delle forme del suo Mosè avrebbe gridato: “perché non parli?”.

Fra fumo e birra, nella follia parossistica del pittore di facce, si dipanano le pagine del racconto che rievoca le atmosfere di certa letteratura americana, quella della Beat Generation, di Kerouac, di Burroughs, vagamente anche di Bukowsky. In effetti, la scrittura è dinamica, quasi cinematografica, e il linguaggio usato, confidenziale, basso.   Che dire poi del movente che offre pretesto e contesto a Marra per scrivere questa short story, ossia la confessione di un malato di mente? A partire dall’inizio del Novecento, con le teorie di Freud, i rapporti fra letteratura e psicanalisi sono sempre stati molto stretti. Pensiamo a “La coscienza di Zeno”, di Italo Svevo, o a “La signorina Else” di  Arthur Schnitzler, connazionale di Freud e medico psichiatra come lui, autore anche di  “Doppio sogno” da cui il regista Stanley Kubrick ha tratto nel 1999 il film Eyes Wide Shut.  Lo stesso Freud ha analizzato questi rapporti nei suoi interessanti “Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, con uno studio psicanalitico sul romanzo Gradiva di Wilhelm Jensen, le annotazioni psicobiografiche su Leonardo da Vinci e la teoria sul perturbante, e poi con il saggio “Dostoevskij e il parricidio”. Tanti gli scrittori nel Novecento che hanno contratto un debito di riconoscenza con la psicanalisi, da T.S. Eliot a Stefan Zweig, da Thomas Mann a Robert Musil, da D.H. Lawrence, a Hjalmar Bergman, ma anche gli scrittori del “flusso di coscienza” come James Joyce e Virginia Woolf.  Rudy Marra si inserisce in questo fortunato filone che ultimamente anche in tv sta dando i suoi frutti, pensiamo a “Mental” trasmesso in Italia da Fox, a “Perception”, sempre su Fox , o  più recentemente a “In treatment”, serie italiana trasmessa da Sky. Proprio come ne “La coscienza di Zeno”, nel libro di Marra il protagonista del racconto espone al medico curante gli accadimenti della propria vita, li trascrive su un diario, e affastella tentativi di spiegare le cause che lo hanno portato a quella ossessione per i colori e per il ritratto perfetto, divenuta patologica.

In ricordo di Gino Pisanò, filologo, critico letterario, storico della cultura

FORSAN ET HAEC OLIM MEMINISSE IUVABIT.[1]

RICORDO DI GINO PISANO’

 

di Paolo Vincenti

La figura dell’intellettuale Gino Pisanò, filologo, critico letterario, storico della cultura, nato a Casarano il 26 giugno 1947 e morto a San Giovanni Rotondo il 18 marzo 2013, è stata ricordata in un libro edito dalla Società di Storia Patria sezione di Lecce, intitolato “Qui dove aprichi furono i miei giorni”. La luminosa humanitas di Gino Pisanò.[2]

Il volume, a cura di Fabio D’Astore e Mario Spedicato, raccoglie una serie di testimonianze da parte di amici e studiosi, oltre al profilo bio-bibliografico. Ordinario di Latino e Greco nei licei, è stato docente di Storia delle Biblioteche, presso la Facoltà di Beni Culturali dell’Università degli Studi di Lecce. Gino Pisanò aveva una cultura enciclopedica, perché insaziabile era la sua curiosità, varia la gamma degli aspetti su cui si appuntava il suo interesse erudito.

Si poteva dire esponente di quella humanitas, come intesa nel Quattrocento e nel Cinquecento, che considerava cioè le humanae litterae, il terreno di confronto, il mezzo privilegiato di comunicazione spirituale, ovverosia di una comunicazione alta, ad ampio raggio, non chiusa, elitaria, settoriale, parcellizzata, come purtroppo sta tornando ad essere oggi il sapere. Suoi riconosciuti maestri furono Oreste Macrì, Mario Marti, Donato Valli.

Pisanò era anche poeta. Clematides, la sua esordiale raccolta poetica, è anche una delle sue prime opere[3]. Sebbene questa rappresenti un unicum nella sua carriera, emergono dalla raccolta, l’amore per i classici greci e latini, la devozione filiale per la terra madre, l’interesse filologico ed erudito, il gusto della scrittura colta, lo scavo piscologico, insomma tutti i temi che hanno accompagnato la sua lunga carriera.

Fittissima, la sua attività di conferenziere. Presidente, dal 2000 al 2008, dell’Istituto di Culture Mediterranee della Provincia di Lecce, era anche membro del comitato tecnico di studio del Parco Letterario “Quinto Ennio” della Provincia di Lecce. Nell’incarico all’Istituto di Culture Mediterranee profuse moltissime energie. Da umanista, non poteva restare insensibile al grande fascino esercitato dal Mare Mediterraneo. In un’intervista, rilasciata allo scrivente per un periodico locale, nei primi anni Duemila, disse: “Il Mediterraneo, prima ancora di essere un luogo fisico, ossia una rete viaria liquida e un immenso contenitore di bio-diversità, è per me un ‘luogo mentale’: è lo spazio sociologico nel quale è nata la democrazia greca antica, nel senso che furono i viaggi dei greci, i loro incontri, le loro scoperte di nuovi popoli e costumi, i confronti fra mentalità diverse a far nascere nel dna di quel popolo l’idea della relatività della conoscenza, sottesa alla crisi di ogni certezza e di ogni assolutismo. Questo era in fondo il magistero di Socrate, questo era il senso della struttura dialettica del teatro tragico ateniese del V secolo a.C. Lontano dal Mediterraneo, sulle montagne e nei deserti, nacquero i grandi imperi e i loro poteri assoluti, donde il contrasto fra la civiltà politica panellenica e la barbarie persiana. Il Mediterraneo dunque è il simbolo della cultura occidentale: Odisseo si forma e matura sul mare diventando, da astuto, saggio. La miriade di porti del Mediterraneo può diventare simbolo di quella cultura dell’accoglienza, della tolleranza e della solidarietà che dovrebbe stare alla base del nostro essere europei, eredi di Socrate, di Cristo, di Voltaire. Il Mediterraneo è un tourbillon di razze, lingue, odori e colori diversi. Il Mediterraneo lambisce anche i paesi del Medio Oriente. È sempre il Mediterraneo che ha visto il dispiegarsi della grande civiltà arabo-islamica; oggi l’islam rischia di diventare un luogo comune come civiltà antitetica a quella occidentale o addirittura come antagonista perenne”.[4]

Parole profetiche, se si pensa che oggi non soltanto stiamo vivendo un ritornante scontro di civiltà, fra Occidente e Oriente, ma anche, in seguito agli esodi massicci di profughi dalle coste africane e mediorientali, un asperrimo dibattito interno sulle politiche migratorie fra forze della reazione, latamente xenofobe, che lavorano a piani di indifferenziato respingimento, e forze progressiste aperte di converso ad una accoglienza indiscriminata.

Ricevette numerosi premi durante la carriera. Nel 1997, il professor Osvaldo Giannì gli dedicò un profilo sulle pagine della rivista della Società di Storia Patria sezione di Maglie, con una bibliografia dei suoi scritti, seppure parziale[5].

Da Mario Marti, forse più di tutti, aveva mutuato il fondamento metodologico, di derivazione crociana, con cui si approcciava ai problemi testuali, all’esegesi critica, allo scavo erudito, all’approfondimento delle tematiche che volta per volta affrontava, in continuità con gli studi già inaugurati dallo stesso Marti, da Vallone, Mangione, Valli, Dell’Aquila, Rizzo, Giannone. E quanto ai criteri ispiratori della sua ricerca, egli stesso invocava « a loro beneficio (ma anche a testimonianza della mia attenzione per il “certo” e il “vero”) quanto Giovan Battista Lezzi scriveva a Marco Lastri nel presentargli la sua Biblioteca salentina: “Procuro di dare un’idea la più esatta dell’autore, do un giudizio, qualunque siasi, delle opere da lui scritte e perciò cerco di vederle in fonte”» .[6]

A Giovan Battista Lezzi volle intitolare la rinnovata Biblioteca Comunale di Casarano quando, nel 2005, dopo due anni di lavoro, venne riaperta al pubblico. Ben 4010 volumi, inventariati, catalogati e classificati da Pisanò. In occasione dell’inaugurazione, intervistato sul valore che una biblioteca può continuare ad avere nell’era di Internet, egli, da esperto di biblioteconomia e storia delle biblioteche, non poteva che rispondere così: “È il luogo dell’aggregazione, è lo strumento contro la dispersione scolastica, è un servizio sociale, è un istituto della democrazia. Pertanto, la biblioteca deve essere arricchita da una ludoteca per bambini, una emeroteca, una discoteca, ecc., per diventare come la Public Library del mondo anglosassone. Va sfatata la concezione della biblioteca pubblica come luogo claustrale. Internet non basta: comunica un sapere universale ma non scientificamente documentato e perciò assolve solo a un compito divulgativo. La ricerca è altra cosa: richiede approfondimento, indagini documentali (le fonti, per esempio), confronti testuali e intertestuali. Ma soprattutto lo studio in biblioteca eroga, insieme con i suoi silenzi, stimoli per una ricerca sempre in progress, dietro la quale si annida il fantasma della nostra limitatezza. E questo è il primo vero segnale che si è sulla strada giusta per conoscere prima sé stessi e poi il mondo”.[7] In occasione della sua scomparsa, scrive Gigi Montonato, in un commosso ricordo dell’amico e collega: “La sua è stata una delle pochissime voci di questi ultimi trent’anni a recuperare la dimensione greca della nostra cultura, in un incontro ideale col Galateo; a stabilire un rapporto con le nostre radici elleniche, che la crisi sugli studi classici ha lasciato inaridire. Dall’amore per la Grecia all’amore per la cultura tedesca, che più di ogni altra, con la filosofia e con la poesia, ha dato alla civiltà europea importanti segni di identità, il passo è breve. Gino era affascinato dai grandi filosofi e poeti tedeschi quanto lo era di Omero e dei lirici e tragici greci, di Euripide, di Sofocle, di Eschilo, ma anche di Aristofane. L’affetto e l’ammirazione per Francesco Politi, il germanista di Taurisano, trovava linfa costante nelle belle traduzioni dal tedesco di Rilke, di Holderlin, di Nietzsche, che Gino riprendeva nei suoi scritti e di cui si faceva interprete a sua volta”.

E conclude: “La sua scomparsa impoverisce il panorama culturale salentino e lascia in chi lo ha conosciuto un senso di vuoto e di tristezza. Consola che per quello che ha fatto Gino, come il suo Orazio avrebbe detto, non morirà del tutto!”.[8] Su alcuni intellettuali in particolare concentrò i suoi sforzi: Girolamo Cicala nel Seicento, Ignazio Falconieri, Giovan Battista Lezzi, Francesco Antonio Astore, nel Settecento, Giacomo Arditi nell’Ottocento, Macrì, Bodini, Caproni, Pagano, Comi, Pierri, Corvaglia nel Novecento. L’esegesi dei passi poetici, le curatele e le note di lettura, la traduzione delle più impenetrabili epigrafi latine, la riflessione filosofica, procedevano di pari passo con la sua opera di divulgazione. Intrinseca finalità, quella di trarre fuori di orfanezza piccoli e grandi avvenimenti, date e personaggi illustri, per iuvare mortales, come diceva il suo amato Livio, cioè sottrarre l’oggetto dei suoi studi all’oblio. “Forsan et haec olim meminisse iuvabit”, proprio come l’insegnamento di Virgilio, che aveva messo in epigrafe al suo volume su Falconieri.[9] Con abbondanza di dottrina, si soffermava sui vari aspetti, nella disamina storico critica di un autore greco o latino, oppure del Rinascimento o del Romanticismo, di un componimento poetico, di un racconto o di un romanzo, sempre inquadrando l’oggetto d’analisi nel contesto sociale in cui si colloca, con approccio multidisciplinare.

Il registro alto della scrittura è certo uno dei connotati del suo stile. Egli aveva il culto della parola ed in tutti i suoi testi usava una prosa dotta, volutamente ricercata, intrisa di echi tardo-ottocenteschi e novecenteschi, ma forgiata, come egli avrebbe detto, sull’incudine letteraria dei classici. La parola nei suoi scritti si faceva elegante, il suo lessico, impreziosito da aulicismi, disseminato di termini desueti, forestierismi, o termini presi a prestito da altri linguaggi settoriali, era diventato un marchio di fabbrica, e la sua sintassi così elaborata, traboccante, a volte involuta, ma talmente originale da far familiarizzare il lettore più provveduto, che riconosceva un suo scritto senza vedere la firma.  A volte, ingaggiava quasi un corpo a corpo con la lingua, fino ad ottenerne effetti straordinari, ricercando per lo stesso tema immagini diverse, che d’altronde rampollavano con facilità dal suo universo di conoscenze, fino a torcere la lingua in una resa polisemica con utilizzo anche di calchi semantici e morfologici.

L’ultima opera di Pisanò è un volume che raccoglie alcuni saggi pubblicati negli ultimi anni: Studi di italianistica fra Salento e Italia: sec. XV-XX.[10]

La presentazione di questo libro, nel 2013, già fissata, fu annullata a causa della sua sopravvenuta scomparsa. A proposito degli ultimi giorni di vita, scrive Marco Leone: “Nonostante che la malattia avanzasse inesorabilmente, Pisanò si propose di presentare, con mio grande compiacimento, l’edizione del Cicala: stava lavorando a questo appuntamento, già calendarizzato, con l’abituale dedizione, però poi il peggioramento delle sue condizioni di salute gli impedì di portare a termine il suo proposito. Mi telefonò per comunicarmi il suo rammarico, che era anche il mio: lo fece con la signorilità e con la eleganza che lo contraddistinguevano di consueto. Fu l’ultima volta che ebbi la possibilità di parlargli, anche perché la presentazione dell’altro suo più recente volume, Studi di italianistica fra Salento e Italia secc. XV-XX, a cui pure avrei dovuto partecipare come relatore, fu purtroppo annullata, a pochi giorni dalla data fissata, a causa della sopraggiunta morte. Si può dire così che il mio rapporto con Gino Pisanò si sia concluso come era iniziato, nel nome di un ignoto poeta latino di età barocca e nel segno di una condivisione di interessi letterari che alla fine si è trasformata col tempo, per mia fortuna, anche in una corrispondenza umana e amicale”[11].

Per famigliari, amici ed estimatori, oltre all’affetto, restano le sue opere, testimonianza di alto impegno morale e civile, dacché, per concludere con Dante, “Amore, acceso di virtù, sempre altro accese, pur che la fiamma sua paresse fore”.

Si passano ora in rassegna le iniziative degne di nota e le principali manifestazioni commemorative tenute a partire dall’anno della sua scomparsa.

Già nel maggio del 2013 a Parabita, presso Palazzo Ferrari, si tenne una cerimonia di consegna del Premio “L’Apollo d’argento” a Gino Pisanò, voluto dal centro culturale “Il Laboratorio” di Aldo D’Antico. Il premio venne consegnato dal Presidente della Provincia Antonio Gabellone alla famiglia di Pisanò e furono chiamati ad intervenire alcuni studiosi che sono stati amici del professore, come Fabio D’Astore, docente di Letteratura italiana presso la Facoltà di Beni Culturali dell’Università di Lecce, Gigi Montonato, animatore della rivista “Presenza taurisanese”, e Luigi De Luca, dell’Istituto di Culture Mediterranee, che ne fu direttore durante la Presidenza di Pisanò. Alla Biblioteca Comunale di Parabita, intitolata ad Ennio Bonea, e gestita da “Il Laboratorio”, Pisanò aveva donato i suoi libri prima della scomparsa.

Nel marzo del 2014, dunque ad un anno dalla scomparsa, nell’Aula Magna del Liceo Classico di Casarano, dove Pisanò ha insegnato per molti anni, è stato presentato il volume  Studi di Italianistica fra Salento e Italia secc. XV- XX, che egli non ha fatto in tempo a vedere realizzatoL’importante serata, presieduta dal Prof. Mario Spedicato, dell’Università del Salento, ha visto gli interventi di saluto del Sindaco di Casarano Gianni Stefano, del Presidente della Provincia di Lecce Antonio Gabellone, della Vice Preside del Liceo Classico Casarano Tonina Solidoro, del Presidente dell’Istituto Culture Mediterranee Mauro Sbocchi; quindi le relazioni del Prof. Fabio D’Astore, Presidente della Società Dante Alighieri Comitato di Casarano,  del  Prof. Marco Leone  della Facoltà di Beni Culturali dell’Università del Salento, e del Prof.  Antonio Lucio Giannone della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università del Salento. Infine, brevi interventi della Dirigente di Liceo Docet, Casarano, Lucia Saracino, e del figlio del professor Pisanò, Attilio.  Questa manifestazione è stata fra le più intense ed emozionanti, anche per il luogo in cui si è svolta, vale a dire il Liceo Classico “Dante Alighieri”, massimo tempio della cultura casaranese.[12]

Nel 2015, la Compagnia Teatrale La Busacca, guidata da Francesco Piccolo, ha portato in scena un tributo al professore, con l’opera “Gino Pisanò: l’uomo che guardava il mare”, un omaggio incentrato sulla nota passione dello studioso per il mare.

Nel marzo del 2016, a tre anni dalla morte, a Casarano è stato a lui intitolato l’Auditorium Comunale, con una cerimonia alla presenza del Sindaco Gianni Stefàno, del Presidente della Provincia Antonio Gabellone, dei docenti dell’Università del Salento Lucio Antonio GiannoneFabio D’Astore e Marco Leone, e del nuovo Presidente dell’Istituto di Culture Mediterranee Gigi De Luca. In quell’occasione è stato anche inaugurato un concorso letterario di prosa dedicato alla sua memoria, rivolto ai ragazzi maturandi delle scuole superiori casaranesi e voluto da Liceo Docet Lucia Saracino e comitato cittadino della “Società Dante Alighieri”.

Nel giugno 2017 a Porto Cesareo, a cura dell’Associazione di Promozione Sociale “MediterraneaMente”, è stato consegnato alla sua memoria l’alto riconoscimento “Virtù e conoscenza”,  un premio “assegnato a chi con l’ingegno e la sua opera meritoria ha dato lustro alla terra salentina e mediterranea”, riproduzione, dal valore simbolico, di una statuetta rappresentante il dio Thot, divinità egizia della scienza e della sapienza, risalente al VI secolo a.C., rinvenuta nel 1933 nel mare di Porto Cesareo e ora esposta nel Museo Nazionale della Magna Grecia di Taranto. Il premio è stato consegnato al figlio, Attilio Pisanò, dalla professoressa Cristina Martinelli, responsabile del Presidio del Libro di Casarano.

Nel marzo del 2018, a cinque anni dalla morte, si è tenuta una giornata di studio dal titolo “Gino Pisanò: l’uomo e lo studioso”, presso l’ex Monastero degli Olivetani, a Lecce. L’incontro, promosso dal dipartimento dei Beni Culturali dell’Università del Salento e dalla sezione leccese della Società di Storia Patria, ha visto vari e qualificati interventi, coordinati dal prof Mario Spedicato, di studiosi come Cristina Martinelli, Giuseppe Spagnolo e Luigi De Luca, e poi Alessandro Laporta, che si è soffermato sulla figura di Pisanò ricercatore e didatta di Storia delle biblioteche,  Marco Leone, che ha trattato di Pisanò come studioso del Seicento, Fabio D’Astore e Antonio Lucio Giannone, che si sono soffermati sugli studi di Pisanò sul Settecento e sul Novecento, mentre Luigi Montonato e Felicità Cordella hanno parlato di Pisanò poeta.

Nel giugno dello stesso anno, a Casarano, in occasione del suo compleanno, il comitato cittadino della Società Dante Alighieri, ha voluto dedicargli un’altra serata ricordo, dal titolo “Gino Pisanò, luminoso umanista”. Nell’aula magna della Scuola “San Giovanni Elemosiniere” di via Cavour, molti sono stati gli intervenuti, a partire da Mario Spedicato, Tonina Solidoro, Vice Preside del Liceo Classico di Casarano e  Gigi De Luca, insieme alle attrici Alessandra De Luca e Carla Guido. La serata, condotta dal giornalista Antonio Memmi, ha visto anche gli interventi musicali di Rocco Luca e Luigi Marra e dei maestri Lucia Rizzello e Luigi Bisanti. Saluti finali di Attilio Pisanò.

A Pisanò è stato anche dedicato un omaggio poetico dall’artista Peppino Martina, “A Gino Pisanò, indice del tempo e delle circostanze”, pubblicato in “Fondazione Terra D’Otranto” on line[13].

Infine, il libro segnalato in apertura di articolo.

 

Note

[1] VIRGILIO, Eneide, I, v.203.

[2] Aa. Vv., “Qui dove aprichi furono i miei giorni”. La luminosa humanitas di Gino Pisanò, a cura di FABIO D’ASTORE e MARIO SPEDICATO, Società di Storia Patria sezione di Lecce, “I Quaderni de L’Idomeneo”, Lecce, Grifo, 2019.

[3] GINO PISANÒ, Clematides, Galatina, Congedo, 1984 . La raccolta reca la prefazione di Aldo de Bernart, storico ed erudito ruffanese. Su ALDO DE BERNART, si veda: I luoghi della cultura e cultura dei luoghi, a cura di FRANCESCO DE PAOLA e GIUSEPPE CARAMUSCIO, Società Storia Patria, sezione Lecce, “I Quaderni de L’idomeneo”, n.24, Lecce, Grifo, 2015. Con Aldo de Bernart, Pisanò pubblicò anche Giovan Battista Giugni e le sue epigrafi, in “Contributi” Rivista Trimestrale Soc.di Storia Patria per la Puglia sezione di Maglie, a. 2, n. 4, Galatina, Congedo, Dicembre 1983, pp. 109-116; e poi  Aradeo dalle origini all’Unità d’Italia, in Aa.Vv.  Paesi e figure del vecchio Salento, a cura di ALDO DE BERNART, vol. III, Galatina, Congedo, 1988, pp. 18-20.

[4] PAOLO VINCENTI, La cultura va per mare, in “Città Magazine”, Lecce, 19-25 novembre 2004, pp.21-24.

[5] OSVALDO GIANNÌ, Contributi per una bibliografia di studiosi salentini dell’ultima generazione – parte prima, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria sezione di Maglie, n.9, 1997, Lecce, Argo ,1997, pp. 121-149

[6] Premessa, in GINO PISANÒ, Lettere e cultura in Puglia tra Sette e Novecento: studi e testi, Galatina, Congedo, 1994, pp.7-8.

[7] PAOLO VINCENTI, Una biblioteca nel nome di Lezzi. Finalmente, in “Il Tacco d’Italia”, Casarano, giugno 2004, pp.16-17.

[8] GIGI MONTONATO, L’umanista che conciliava la tradizione con la modernità, in “Presenza Taurisanese”, a. XXXI, n.255, Taurisano, aprile 2013, p.12.

[9] GINO PISANÒ, Ignazio Falconieri: letterato e giacobino nella rivoluzione napoletana del 1799, Manduria, Lacaita, 1996.

[10] GINO PISANÒ, Studi di italianistica fra Salento e Italia: sec. XV-XX, Società Storia Patria per la Puglia Sezione Lecce, Galatina, Panico, 2012.

[11] MARCO LEONE, Ricordando Pisanò, in “L’Idomeneo”, Soc. Storia Patria sez. Lecce,  n.21, 2016,Lecce,  Università del Salento, 2016, pp.210-211;  anche in “www.unigalatina.it › Necrologi e ricordi ›”, 21 marzo 2016.

[12] Tutti gli interventi della serata sono in: Gino Pisanò, Studi di Italianistica fra Salento e Italia (secc. XV-XX),Galatina, EdiPan, 2012.Interventi: F. D’Astore, A.L. Giannone, M. Leone, A. Gabellone, G. Stefano, M. Sbocchi, T. Solidoro, L. Saracino, A. Pisano’, in “L’Idomeneo”, Soc. Storia Patria sez. Lecce,  n.17, 2014, Università del Salento, 2014, pp.281-294.

[13] http: www.fondazioneterradotranto.it/ a-gino-pisano-indice-del-tempo-e-delle-circostanze, giugno 2018.

 

Maglie. Una statua per Francesca Capece

 

di Paolo Vincenti

Una storia affascinante, quella di Francesca Capece (1769-1848), ultima feudataria di Maglie, che si inscrive nell’alveo della beneficenza magliese, in un’età storica che ha visto fiorire, non solo nel Salento, tantissime opere pie, realizzazioni della solidarietà e della filantropia umana.

Alla Duchessa, la città di Maglie, oltre alla statua di cui ci occupiamo in questo contributo, ha dedicato una strada, una piazza, il famoso Liceo, un ente morale (oggi Fondazione Capece), una Galleria d’arte, una targa commemorativa nell’atrio del Palazzo Comunale ed un’altra nella Chiesa Madre, dove è sepolta.

Discendente di un’antica casata, quella dei Capece, originari di Napoli, baroni di Corsano, Barbarano e Maglie, era figlia di Nicola Capece Castriota-Scandeberg, Barone di Maglie (1743-1772), e Maria Vittoria Della Valle di Aversa, sorella di Nicola junior (1772-1791), che nacque dopo la morte del padre, e di Geronima (1771-1846). Con la morte in giovane età del fratellino, Nicola junior, Francesca e Geronima rimasero sole, ancora bambine, insieme alla madre e a due anziane zie, Donna Barbara e Donna Concetta. All’età di diciannove anni, Francesca sposò il Duca di Taurisano Antonio Lopez y Rojo, aggiungendo ai propri titoli quello di Duchessa, con il quale più sovente viene ricordata.

La sorella Geronima andò in sposa a Filippo Affaitati dei Marchesi di Canosa. Con la morte del fratello Nicola, erede legittimo del casato, tutto il patrimonio Capece passò alla sorella maggiore Francesca, che divenne nel 1805 unica feudataria di Maglie, cosa che creò non pochi malumori e invidie in famiglia, specie nella sorella Geronima e nel marito di lei Filippo Affaitati. Tuttavia, mentre Geronima aveva tre figli, la Baronessa Francesca non generò prole. L’amministrazione dei beni dei feudi rimase alla prozia, Donna Barbara, la quale fu una pessima amministratrice e portò i Capece quasi alla rovina.

Nel 1806, viene abolita la feudalità dal Re Giuseppe Bonaparte. Francesca Capece iniziò a pensare ai possibili destinatari delle sue ingenti ricchezze. Si delineò fin da subito nella sua mente l’idea di fare della beneficenza. Si giunse alla donazione ai Padri Gesuiti. E nacque così l’Istituto Capece, nel 1843.

La prima idea fu quella di realizzare un ospedale per i poveri. Ad un certo punto però, si aprirono le ostilità nei confronti dei religiosi. Anche lo stesso marito di Francesca, il duca Antonio, era molto diffidente nei confronti di Padre Sordi, responsabile dei Gesuiti di Maglie, il quale si era installato nel Palazzo e si comportava da padrone, atteggiamento, questo, che indisponeva non poco il Duca, e più in generale tutti i detrattori dei Gesuiti, fra i quali, in primis, il deputato Oronzio De Donno e l’avvocato Alessandro De Donno. In realtà, Padre Sordi seppe ben interpretare i desiderata della Duchessa e infatti la Capece lasciò le proprie sostanze ai membri della Compagnia di Gesù proprio con il progetto di realizzare un’opera di beneficenza che unisse insieme la religiosità e l’istruzione.

Si delineava cioè una prima bozza di quello che sarebbe poi diventato il Liceo-Convitto Capece.

I Gesuiti venero cacciati da Maglie una prima volta nel 1848 e poi ancora nel 1860, quando gli ordini religiosi furono aboliti ed i loro beni incamerati dal Fisco. E con il testamento olografo del 1848, dettato da Francesca tre giorni prima della morte, redatto dal notaio Lorenzo Garrisi di San Pietro in Galatina, la Duchessa lasciava tutti i propri averi alla Beneficenza magliese.

La Capece, a causa dei rovesciamenti che dovette subire, conosceva benissimo la povertà e l’indigenza, e il suo spirito umanitario, la formazione che aveva ricevuto, inoltre il fatto di non avere figli, la portarono ad avere un’ottima predisposizione verso il prossimo, in particolare verso i più bisognosi. La sua Opera Pia contemperava la beneficenza con l’istruzione; infatti, oltre a dare ai ragazzi i primi rudimenti del leggere e scrivere, insomma le scuole primarie, veniva fornita anche un’istruzione superiore ed inoltre si dava ad essi, specie a chi veniva da fuori Maglie, la possibilità di vivere nel Collegio. Varie furono le vicissitudini di quest’ente. Ad un certo punto, il Collegio chiuse e i suoi beni furono incamerati dal Fisco.

Nel 1863, il Governo concesse la temporanea amministrazione dell’Ente al Comune, senza però la proprietà del bene, e ciò innescò una lunghissima battaglia con il Demanio, che portò nel 1871 alla cessione definitiva con atto notarile da parte del Real Governo. Nel 1885, venne finalmente stipulato, fra il Comune e il Demanio, lo scioglimento del vincolo di inalienabilità del bene. Nacque una battaglia fra una parte dell’intellighenzia magliese, la cosiddetta borghesia umanistica, che rivendicava l’autonomia dell’ente dal Comune, e la politica, che la negava decisamente. Di questa battaglia, ancora una volta, si fecero interpreti l’avvocato Alessandro De Donno e il deputato Oronzio De Donno, i quali sostenevano che il patrimonio della Capece non potesse essere preda della cattiva amministrazione del Comune, cosa che ne avrebbe snaturato il disegno originario, e lo scontro si fece talmente acceso che degenerò in tafferugli e sommosse di piazza. Ma alla fine si arrivò alla resa dei conti e nel 1887 il Comune rinunciò al controllo dell’Istituto, che venne riconosciuto autonomo, e con Real Decreto n.2583 del 22 maggio 1887 “il Pio Istituto Capece del Comune di Maglie” venne eretto in “Corpo Morale”.

Questa fin qui descritta, in sintesi, la storia dell’Istituto Capece, e della sua fondatrice, la Duchessa Francesca, alla quale la città di Maglie volle dedicare una statua, come segno tangibile di riconoscenza nei confronti della munifica donna[1].

La statua è opera di Antonio Bortone (1844-1938), insigne scultore originario di Ruffano, ma trasferitosi a Firenze, dove raggiunse la gloria. Quell’Antonio Bortone, “mago salentino dello scalpello”, come lo definì Brizio De Santis, nel basamento della sua opera più importante e conosciuta: il Fanfulla, che gli diede fama anche a Parigi[2]. Questo monumento, oggetto pochi anni fa di un intervento di restauro, si trova in Piazza Raimondello Orsini, a Lecce.

Scrive Aldo de Bernart: “Antonio Bortone è scolpito sul plinto, che regge la famosa statua, nel testo epigrafico del prof. Brizio De Santis: Sono/ Tito da Lodi /detto il Fanfulla/ un mago di queste contrade /Antonio Bortone/ mi tramutò in bronzo/ Lecce ospitale mi volle qui/ ma qui e dovunque/ Dio e l’Italia nel cuore/ affiliamo la spada/ contro ogni prepotenza/ contro ogni viltà/ MCMXXII.

La statua raffigura il Fanfulla, uno dei tredici cavalieri della “Disfida di Barletta”, ritratto ormai avanti negli anni quando orbo di un occhio e col saio domenicano faceva penitenza nel fiorentino convento di S. Marco, mentre affila la misericordia, un acuminato spadino che all’inquieto lodigiano era servito in tante battaglie”.[3]

Ma numerosissime sono le opere del Bortone degne di menzione, fra le quali: il busto di Giuseppe Garibaldi, in marmo, che si trova presso il Castello Carlo V di Lecce;  quello di Gino Capponi, presso Santa Croce in Firenze; il monumento a Quintino Sella, a Biella; il Monumento a Sigismondo Castromediano, nella omonima piazzetta a Lecce; il monumento a Salvatore Trinchese, a Martano; il ritratto di Pietro Cavoti, presso il Convitto Colonna a Galatina; il monumento ai Martiri di Otranto; il monumento ai Caduti di Tuglie; il monumento ai Caduti di Ruffano;  il monumento ai Caduti di Calimera; il monumento al Sottotenente Benedetto Degli Atti, nel Palazzo Comunale di Guagnano; e tanti altri.[4] Il monumento alla Duchessa Capece venne realizzato nel 1896-98.

Si deve ad Alessandro De Donno, grande amico e protettore di Antonio Bortone, la proposta dell’erezione della statua, per la quale si costituì a Maglie anche un comitato cittadino. Ne parlano Teodoro Pellegrino, in Un dimenticato scultore salentino. Il Mangionello. Nel centenario della sua nascita,[5] e Antonio Erriquez, in Giuseppe Mangionello scultore pittore architetto.[6] Il Comitato cittadino, presieduto da Alessandro De Donno, decise di affidare l’incarico appunto a Bortone, il quale lo portò a compimento in maniera egregia. Dubbi sorgevano soltanto sul posizionamento della statua. Alessandro De Donno chiedeva che la statua, della quale possedeva già nel suo palazzo un bozzetto in gesso realizzato dallo stesso Bortone, fosse allocata nella centrale piazza di fronte al Municipio, mentre alcuni cittadini, fra i quali in primis Raffaello De Donno, esponente di spicco della politica magliese, ritenevano più giusto che questa fosse nell’atrio del Liceo Capece. Altri ancora chiedevano che questa fosse allocata nella piazzetta retrostante il Liceo, riservando la piazza centrale al monumento ad Oronzio De Donno, anch’esso indifferibile, nei voti dei proponenti[7].

Prevalse invece la scelta del Comitato cittadino e la statua della Capece venne sistemata di fronte al Municipio, mentre nella piazzetta che a lei è intitolata, trovò posto la statua di Oronzio De Donno, anch’essa opera del Bortone, sebbene questa anomalia toponomastica ingeneri ancora oggi non poca confusione nei visitatori. Lo scultore magliese Giuseppe Mangionello (1861-1939), pur riconoscendo l’elevata qualità dell’opera dello scultore ruffanese, al quale era legato da stima profonda e ricambiata, riteneva che la statua, date le sue ridotte dimensioni, sarebbe stata meglio posizionata nell’atrio del Liceo, mentre in quella grande piazza avrebbe avuto maggior presenza scenica la sua, mai realizzata. Infatti, occorre dire che Mangionello aveva ogni buon motivo per aspettarsi che la commissione della statua di Francesca Capece fosse assegnata a lui, non solo per chiari meriti artistici, ma soprattutto per ragioni di concittadinanza. Non mancò mai di rilevare quanto la mancata assegnazione fosse ragione di rammarico, avendo egli nel cuore i meriti e la fama della grande benefattrice, la nobildonna Francesca, per la quale, come tutti i magliesi, nutriva affetto sincero. Infatti Mangionello realizzò di sua iniziativa un progetto per il monumento, tanto fervida era in lui l’aspettativa, che però andò delusa[8].

La statua, realizzata in marmo, in stile neoclassico, raffigura la Duchessa ormai anziana ma dall’espressione serena, con un fanciullo accanto, seminudo e con il perizoma alla greca, che regge con la mano sinistra lo scudo civico di Maglie e riceve con la destra il libro della sapienza dalla Duchessa, allegoria della missione educatrice della nobildonna e del suo istituto.

Scrive Ilderosa Laudisa: “Il monumento proponeva due figure trattate in modo ben diverso. La donna, scolpita con meticolosa attenzione ad ogni particolare dell’abbigliamento e del viso, sul quale il tempo e le vicissitudini avevano lasciato evidenti tracce, è una figura reale; sembra quasi un’immagine ricavata da fotografia. Il fanciullo, in quanto figura allegorica, è seminudo, di belle fattezze e fortemente idealizzato. I simboli della Conoscenza e della Fede legano i due personaggi.  Alcuni particolari, quali le mani della Capece sulla spalla del ragazzo e la posizione di quest’ultimo, riportano alla mente una delle opere eseguite nel primo periodo fiorentino: la Carità religiosa”[9]..

A Maglie, comunque, Antonio Bortone fu molto amato, se è vero che diverse committenze gli vennero affidate: oltre alla statua in onore di Oronzio De Donno, di cui abbiamo già detto, anche il busto bronzeo del giovane Salvatore Cezzi (1912-1926), che fu voluto dalla famiglia e inaugurato nel 1831 proprio nell’atrio del Ginnasio-Liceo Capece dove il fanciullo era studente[10].  E ancora, il busto all’Avvocato Nicola De Donno, un “Gladiatore morente” ed un “Ippocrate” per il palazzo del  Senatore Vincenzo Tamborino, un busto a Achille Tamborino, i busti per Zoraide e Maria Luisa, ovvero moglie e figlia dell’On. Paolo Tamborino[11].

All’inaugurazione della statua della Capece, lo scultore Bortone non era presente, ma la stampa locale e nazionale ne diede ampio risalto. “Credo che sia il più bel monumento alla cultura di tutto il Salento”, scrive Aldo de Bernart, in un commosso ricordo che dedica sull’annuario della Società di Storia Patria magliese all’amico scomparso Nicola De Donno, che tanto ha scritto proprio sulla Duchessa e sull’Istituto Capece.[12] Sul plinto della statua, l’iscrizione “Lettere e Religione: Luce intellettual piena d’amore” (tratta dal XXX Canto del “Paradiso” di Dante) e “ego plantavi… sed Deus incrementum dedit” (versetti tratti dalla Lettera di San Paolo ai Corinzi)[13]. “Il seme”, scrive Emilio Panarese, “è quello simbolico della beneficenza, della promozione civile e culturale magliese, della donazione di tutti i beni ducali…”[14].

La statua venne inaugurata il 29 luglio 1900, con una grande cerimonia. Ma a distanza di tanti anni, essa campeggia ancora nella centrale Piazza Aldo Moro e continua a parlare ai distratti passanti di una storia antica eppure nuova.

 

Note

[1] Per una storia della Duchessa Francesca Capece e del Liceo Convitto Capece, si veda:

Salvatore Panareo, La Duchessa Francesca Capece, fondatrice degli studi in Maglie (1769-1848), Maglie, Tipografia Capece,1900, ristampato a cura dell’Amministrazione Comunale di Maglie, Erreci Edizioni, Maglie, 2000; Idem, Relazione sul 1° corso d’una scuola normale promiscua istituito in Maglie nell’anno  1914, Maglie,Tipografia Messapica, 1915; Idem,  Discorso tenuto nel I centenario della fondazione dell’Istituto Capece, Maglie, Tipografia Messapica, 1943; Idem, Il comune di Maglie dal 1801 al 1860, Maglie, Tipografia Messapica, 1948 ; Alessandro De Donno, Memorie su l’origine e le vicende del Pio Istituto Scolastico Capece di Maglie, Lecce, Editrice Salentina, 1900; Nicola De Donno, Lo Studente magliese: notizie ed indici, in “Quaderni del Liceo Capece”, II, Edizioni del Liceo Ginnasio Capece di Maglie, Galatina, 1961; Idem,  L’origine e i primi incrementi dell’Istituto Capece, in “Quaderni del Liceo Capece”, III,  Edizioni del Liceo Ginnasio Capece di Maglie,  Arti Grafiche Ragusa-Bari, 1966, in Appendice “Narrazione di Padre Sordi”; Idem, Scuola e sviluppo sociale in un comune del Salento nel sec.XIX (Maglie), in “Rassegna Pugliese”, anno V, N.1-3, gennaio-marzo 1970, p.58; Idem, con Emilio Panarese, Le strade di Maglie, Via Pietro Pellizzari, in “Tempo d’oggi”, Anno II, N.7, Maglie, 1975; Idem, Pietro Siciliani e “Lo Studente magliese”, in “Contributi”, Storia Patria per la Puglia, sezione Maglie, Anno V, N.3-4, settembre-dicembre 1986, Galatina, Congedo, 1986; Giuseppe Bonivento, Relazione generale sul Liceo Ginnasio di Maglie nel triennio scolastico 1912-1915, Tipografia Messapica, Maglie, 1915 ;                                                                                                                        Raffaele Cubaju, Francesca Capece, in “Regio Liceo Ginnasio Francesca Capece- Annuario 1923-24”, Tipografia Capece, Maglie, 1925, p.3; Emilio Panarese, L’istruzione secondaria pubblica e privata in Terra d’Otranto nel 1862-63, in “Tempo d’oggi”, Anno II, n.25, 1975; Idem, Settecento magliese. Il palazzo baronale, in “Rassegna salentina”, Anno IV, N.2, Lecce, 1979 ; Idem,  Cenni storici sullo sviluppo dell’istruzione pubblica a Maglie dall’Unità ad oggi (1861-1985), in “Contributi”, Anno V, N.1, marzo 1986, Galatina, Congedo, 1986; Idem,  Maglie. L’ambiente La Storia Il Dialetto La Cultura popolare, Galatina, Congedo Editore, 1995; Idem, Francesca Capece e il suo monumento, Argo Editore, Lecce, 2000; Cosimo Giannuzzi, La città che deve molte delle sue fortune a Francesca Capece, celebra l’inaugurazione del monumento (29 luglio 1900).  I primi cento anni della vecchia signora, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 24 luglio 2000; Cosimo Giannuzzi e Vincenzo D’aurelio, La figura di Francesca Capece e l’origine dell’istruzione pubblica a Maglie, in “ Il Regio Liceo-Ginnasio F. Capece di Maglie. Ricerche e studi”, Edizione monografica dei «Quaderni del Liceo» a cura di Vito Papa, Ed. Liceo Capece, N. X, Galatina, 2009, p.13-75. Anche in versione ebook, in www.culturasalentina.it;

Vito Papa, Il sogno della duchessa. Profilo storico di Francesca Capece e del suo ‘Stabilimento di carità cristiana’, Fondazione Capece, Galatina, Editrice Salentina, 2010 ; Idem,L’alba di un sogno. Francesca Capece, l’ ‘impareggiabile benefattrice’. Dramma storico in cinque atti con prologo, Centro Studi Capece, Galatina, Congedo Editore, 2014; Lina Leone, Francesca Capece: da “Stabilimento di carità cristiana” a “Fondazione”, in “L’Idomeneo, Miserere nobis: aspetti della pietà religiosa nel Salento moderno e contemporaneo. Atti del convegno di studi”, Società Storia Patria sezione Lecce, Università del Salento, n. 22, Lecce, 2016, pp.  9-16; Pino Refolo, Giuseppe Mangionello Scultore-pittore, Maglie, Edizioni Erreci, 2017, p.35.

 

[2] Iderosa Laudisa, L’opera di Antonio Bortone, in Aa. Vv., Antonio Bortone, Pro Loco Ruffano, Lecce, Conte Editore, 1988, pp.13-15.

[3] Aldo de Bernart, Antonio Bortone e la sua casa natale in Ruffano, Amministrazione Comunale Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis, 2004, pp.5-10. Continua de Bernart: “Modellata a Firenze nel 1877, l’opera è figlia della tensione tra i circoli artistici fiorentini e il Bortone, che si era prodotto, e bene, nel nudo, con il Gladiatore morente, ma non aveva ancora dato prova di sé nel drappeggio. Tale prova il Bortone la darà appunto con la statua del Fanfulla, inviata alla Mostra Internazionale di Parigi, dove però giungerà ammaccata in più parti. Invitato a ripararla, il Bortone non andò mai nella capitale francese, forse per il suo carattere che a volte lo rendeva spigoloso e quasi intrattabile. […] Comunque la statua fu esposta ugualmente a Parigi e vinse il terzo premio, previo il restauro praticato dal grande scultore napoletano Vincenzo Gemito, che si trovava nella capitale francese a motivo della stessa Esposizione.” (op.cit. pp.5-10) Il personaggio di Fanfulla da Lodi è tratto dal romanzo di Massimo D’Azeglio “Ettore Ferramosca, o la disfida di Barletta” del 1833 ( incentrato sulla contesa fra tredici cavalieri italiani e tredici francesi, combattuta nelle campagne pugliesi nel 1503), e poi dal successivo “Niccolò de’ Lapi ovvero i Palleschi e i Piagnoni del 1841, ambientato durante l’assedio di Firenze del 1530.

 

[4] Aa.Vv.,Antonio Bortone, Pro Loco Ruffano, Lecce, Conte Editore, 1988, passim.

[5] Teodoro Pellegrino, Un dimenticato scultore salentino. Il Mangionello. Nel centenario della sua nascita, in “Voce del sud”, 23.12.1961.

[6] Antonio Erriquez, Giuseppe Mangionello scultore pittore architetto, Galatina, Editrice Salentina, 1969.

[7] Sull’illustre patriota salentino, si veda: Emilio Panarese, Il patriota Oronzio De Donno Seniore (Maglie 1754-Napoli 1806) nella Repubblica Napoletana del 1799, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Soc. Storia Patria Maglie, a cura di Fernando Cezzi, N.X-XI, 1998-99, Lecce, Argo Editore, 1999, pp. 5-34: Nicola De Donno, Oronzio De Donno (1754-1806), ostetrico, massone, patriota partenopeo, Ivi, pp. 35-49.

[8] Pino Refolo, Giuseppe Mangionello. Scultore- Pittore, Maglie, Erreci, 2017, pp.55-61.

[9] Iderosa Laudisa, L’opera di Antonio Bortone, in Aa. Vv., Antonio Bortone, Pro Loco Ruffano, Lecce, Conte Editore, 1988, p.24.

[10] Emilio Panarese, Le iscrizioni latine di Maglie,  in ”Note di storia e cultura salentina” Società Storia Patria Maglie, N. VII, 1995, Lecce, Argo Editore, p.190.

[11] Emilio Panarese, Francesca Capece e il suo monumento, Argo Editore, Lecce, 2000, p.13

 

[12] Aldo de Bernart, La statua della Duchessa Capece nella piazza di Maglie, in “Note di Storia e Cultura salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie, N.XVI, Lecce, Argo Editore, 2004, pp.55-56.

[13] Lina Leone, Francesca Capece: da “Stabilimento di carità cristiana” a “Fondazione”, in “L’Idomeneo, Miserere nobis: aspetti della pietà religiosa nel Salento moderno e contemporaneo. Atti del convegno di studi”, Società Storia Patria sezione Lecce, Università del Salento, n. 22, Lecce, 2016, pp.  9-16. La professoressa Leone, Presidente del Centro Studi della Fondazione Capece, con i versi “Ego plantavi” ha titolato anche un numero unico della Fondazione Capece, uscito nel luglio 2013 (Lina Leone, Francesca Capece, un sogno divenuto realtà, in “Ego Plantavi”, Liceo Capece, 2013, p.3).

[14] Emilio Panarese, Le iscrizioni latine di Maglie, in ”Note di storia e cultura salentina” Società Storia Patria Maglie, VII, 1995, Lecce, Argo Editore, p.192.

Padre Angelo Stefanizzi, il Gandhi dello Sri Lanka. Una biografia spirituale

di Francesco Frisullo-Paolo Vincenti

 

Angelo Stefanizzi nasce il 2 ottobre 1919 a Matino (Lecce), secondo di cinque fratelli e due sorelle. Come il fratello Antonio, anch’egli entra nella Compagnia di Gesù, nel 1936, a Napoli. Per la precisione, compie il Noviziato e gli studi liceali a Vico Equense. Inizia gli studi filosofici in Sicilia e li completa a Gallarate, Varese, a causa degli spostamenti imposti dagli sviluppi della Seconda Guerra Mondiale. Compie gli anni del Magistero nel Collegio di Bari. Nel 1948 parte per l’India, dove l’anno successivo viene ordinato sacerdote.

Dopo aver compiuto gli studi di teologia, nel 1952, egli intraprende l’attività missionaria nel centro-sud dello Sri Lanka, prima a Yatiyantota come viceparroco, in seguito a Dehiowita, nel 1967, e poi a Maliboda, nel 1983, come parroco. Qui impara a parlare correntemente tre lingue: inglese, singalese e tamulico.

In totale ha trascorso ben 58 anni nello Sri Lanka. Si dedica all’assistenza della povera gente, in particolare dei lavoratori nelle piantagioni di the a Tamil, e all’assistenza dell’infanzia. Capisce l’importanza di dare ai bambini un’istruzione, per questo si fa promotore dell’apertura di scuole, corsi serali per minori ed adulti, reclutando moltissimi insegnanti volontari. “Sono giunto nello Sri Lanka nel 1952”, seguiamo le sue stesse parole, “e fui destinato alla parrocchia di Yatiyantota come collaboratore del parroco, P. C. Iannaccone. Inparticolare fui incaricato dell’apostolato nelle piantagioni di tè e di gomma presenti nella parrocchia, con lavoratori soprattutto Tamil di origine indiana. Oltre ai bisogni spirituali dei pochi cattolici, mi colpì la povertà di tutti e la scarsissima preparazione scolastica dei giovani e dei bambini”[1].

Per Padre Angelo arriva molto presto la chiamata missionaria. Egli si convince nel profondo che solo in terra di missione può realizzare pienamente sé stesso. In effetti, il gesuita è cittadino del mondo; nessun ordine è più cosmopolita della Compagnia di Gesù, in quanto nella sua Regola fondante è stabilito che il frate debba essere pronto a viaggiare in ogni parte del mondo, “quocumque gentium”, ubbidendo ciecamente a quanto ordinato dal suo superiore; egli non deve avere legami di sorta e deve annullare persino la propria coscienza di fronte ad un ordine che gli venga impartito dall’alto, sull’esempio dei fondatori dell’Ordine. L’apostolato di Padre Angelo fa guadagnare alla religione cristiana un numero sempre crescente di fedeli. In terra cingalese, si avvia un grande fervore soprattutto nei confronti della gioventù disoccupata. A Padre Angelo si deve la costruzione della chiesa di Maliboda e di alcuni centri di incontro e ricreativi per i cattolici indigeni.  Il territorio di Maliboda, luogo di grandi piantagioni di the, era dilaniato dallo scontro tra singalesi e tamulici, i due principali gruppi etnici presenti nello Sri Lanka, divisi linguisticamente e culturalmente, oltre che dalla religione. Frequenti scoppi di violenza mettevano a serio rischio la vita degli stessi missionari. In questo contesto, si inserisce l’opera di mediazione del Nostro, il quale tenta uno straordinario esperimento di riconciliazione, partendo proprio da quegli elementi divisivi che trasforma nel collante fra i due gruppi etnici. Padre Angelo, cioè, capisce che quello che prima divideva doveva unire. A quest’opera di mediazione viene dato ampio risalto dalla stampa e dai media locali tanto che egli si guadagna l’appellativo di “Padre Gandhi”, che lo accompagnerà per tutta la vita. Come il Mahatma, Padre Angelo è un profeta disarmato, che predica la non violenza e l’appianamento pacifico dei contrasti[2].  Mantiene i contatti con l’Italia, soprattutto grazie alla sua corrispondenza con gli organi di stampa dei Gesuiti. Riferisce della guerra che dilania il Paese sulla rivista «Societas»[3].

Padre Angelo nella sua missione in Sri Lanka

 

Nel 1972, l’isola di Ceylan o Ceylon aveva assunto l’attuale denominazione di Sri Lanka. Intanto però, nel nord-est del paese, popolato dal gruppo etnico dei Tamil, si era generato un vasto malcontento, con la nascita di un movimento autonomista che portò alla guerra civile che insanguinò il paese negli anni Ottanta e Novanta. Del resto, la complessità delle componenti etniche in cui era frammentato il Paese risultava già nota agli antichi viaggiatori europei. Lo scontro fra tamulici e singalesi giunse solo a peggiorare un quadro già critico. Come detto, lo scontro politico e civile diventava anche contrapposizione religiosa poiché il gruppo etnico dei tamulici professa in gran parte il cristianesimo, mentre il gruppo dei singalesi si riconosce nel buddismo. I frequenti bombardamenti aerei portavano migliaia di morti fra i civili e comportarono una fuga di massa da parte della popolazione che cercava scampo lontano dalle zone di guerra. I rapporti dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite in quegli anni parlarono di più di un milione di rifugiati, su una popolazione totale di 19 milioni, che trovarono asilo nei campi profughi sparsi per il Paese dove molti di essi vivono ancora oggi. Oltre alle inevitabili ripercussioni su donne e bambini, la guerriglia procurò vittime anche fra i religiosi, soprattutto della maggioranza cristiana tamulica, i quali cercavano di portare conforto ai feriti o, ancor di più, denunciavano le continue violazioni dei diritti umani. Padre Angelo, nella terribile contingenza determinata dallo scontro fra forze governative e truppe indipendentiste, più che prendere posizione politicamente, si adoperò a favore degli orfani e delle vedove di guerra. Nel 2009 è stata firmata la pace, ma la tensione corre ancora sotterranea nel popolo srilankese, se è vero che il governo non riconosce tuttora l’autonomia delle regioni tamil e continua ad intervenire manu militari, e se è vero che il giorno di Pasqua 2019 tre chiese cattoliche di Colombo sono state oggetto di un attentato con centinaia di morti[4].

Padre Angelo, dunque, cerca di mettere in contatto le due comunità etniche in guerra attraverso il dialogo attivo e chiama nelle sue scuole insegnanti di tamulico per i singalesi e lo stesso fa con gli insegnanti singalesi per i tamulici. Abbiamo già evidenziato come a lui si debbano la costruzione di case per senzatetto e l’avvio di moltissime attività di assistenza e volontariato. La sua vocazione alla riconciliazione in verità era cominciata prestissimo, fin da quando era giunto a Dehiowita alla sua prima esperienza missionaria. Già all’epoca egli, vedendo la città di Ceylon sconvolta dal sangue della guerra civile, lanciava un appello alla pace e alla ricomposizione. “Da Cylon, che fu teatro recente di rivolta e di sanguinosa repressione ci giunge l’appello accorato di un missionario P. Angelo Stefanizzi. Affronta nel suo territorio uno dei problemi più scottanti per il Terzo Mondo: come preparare al domani una gioventù fatalmente in crisi”: così scriveva, in un articolo a firma dello stesso P. Angelo Stefanizzi, la rivista «Popoli e Missioni», che riportava anche una foto del giovane Padre Angelo insieme alla madre e alla sorella che erano andate a trovarlo a Dehiowita[5].

L’aspetto più interessante della sua carriera consiste nell’ecumenismo del suo missionariato, nel senso che egli cerca un dialogo anche con le altre confessioni religiose presenti sul territorio indiano, ossia l’induismo, l’islamismo e il buddismo. “Dialogo e riconciliazione”, chiama la sua opera, e questo binomio caratterizza tutta la sua attività apostolica. «Nell’opera promozionale dello sviluppo sociale era guidato da due princìpi: “sviluppo di tutti nella solidarietà” e “sviluppo di ogni comunità utilizzando gli uomini migliori della comunità”»,

Tratto da «Popoli e Missioni», novembre 1971, pp. 5-6.

 

scrive il fratello, P. Antonio Stefanizzi[6]. Dopo lo storico incontro interreligioso tenuto ad Assisi nel 1987 fra le tre fedi monoteistiche, voluto da Giovanni Paolo II, Padre Angelo decide di aprire una Sala di meditazione comune dove si possano incontrare tutte le religioni professate nell’isola.

Nel 1985, introduce nello Sri Lanka la Società Kolping, organizzazione internazionale socio-religiosa di laici cattolici che promuove la fede e lo sviluppo, intitolata al beato tedesco Adolf Kolping[7]; essa viene inaugurata a Deraniyagala da Mons. Ambrogio De Paoli, Nunzio Apostolico della Santa Sede nello Sri Lanka, che pone la prima pietra, insieme all’Ambasciatore tedesco e ai prelati del posto[8].


Tratto da «Popoli e Missioni», aprile 1986, pp. 54-55.

 

Nel 1998 viene costituita la Sri Lanka Kolping Society con atto del Parlamento: questo è il riconoscimento ufficiale dell’associazione[9]. Padre Angelo, nel primo Congresso dei membri dello Sri Lanka, viene acclamato all’unanimità primo   presidente   nazionale[10]. Sempre nel segno del dialogo interraziale ed interreligioso, promuove la nascita di giardini di infanzia per gli orfani, di artigianato e di corsi di taglio e cucito per le ragazze disagiate.  Fitto continua il suo scambio epistolare con amici e benefattori.

Nella sua missione in Sri Lanka

 

Nel 1995 incontra il Papa Giovanni Paolo II in occasione del viaggio del Pontefice in Sri Lanka.

Per quanto attiene alla sua attività intellettuale, oltre a numerosi articoli apparsi sulla rivista «Societas», pubblica l’opuscoletto 50 anni della chiesa a Maliboda 1955-2005, sulla chiesetta di cui è stato fondatore e parroco, in tre lingue: inglese, tamulico e singalese. Il libro viene ottimamente recensito su «Societas»[11].  Nel 2000 si manifestano i primi segni del morbo di Parkinson che lo costringe sulla sedia a rotelle. L’incrudelirsi della malattia gli impedisce di continuare la pastorale.

Un bel profilo biografico gli viene dedicato dalla rivista «JIVAN-News and Views of Jesuits in India» nell’agosto 2005[12].

Su «Societas» del sett-dic.2003, appare un suo intervento su “Sri Lanka: sviluppo nella solidarietà” in cui ripercorre le tappe della sua carriera missionaria, soprattutto della ricerca dei collaboratori che lo affiancarono nella evangelizzazione, nel du-ro compito di tenere le fila di una comunità frammentata su un territorio molto vasto[13]. Ripensa ai lavori di costruzione delle varie chiesette e delle scuole per dare un’istruzione alla popolazione delle piantagioni pressoché analfabeta, ripensa soprattutto al grande affiatamento che si creava con gli altri fratelli delle religioni diverse che collaboravano con lui, non in un’ottica di competizione ma di cooperazione, ripercorre le iniziative culturali e ricreative nelle quali coinvolgeva gli indigeni, come la proiezione di film, le recite, gli incontri sportivi, e quindi il grande progetto della formazione professionale per i giovani più promettenti e desiderosi di apprendere. L’esperienza scuola-lavoro si rivelava molto formativa per generazioni di cingalesi impiegati nell’agricoltura. Tutto questo senza trascurare la formazione spirituale per i fedeli che trovavano in lui una vera guida[14]. Padre Angelo si è sempre mantenuto fedele al primo intento missionario dei fondatori dell’ordine gesuitico, in particolare all’eredità di San Francesco Saverio, il Protomartire delle Indie, nel cui esempio egli si rispecchiava, come ribadiva, ormai convalescente e degente nell’ospedale della comunità dei Gesuiti di Colombo, in una sua memoria pubblicata dalla “News letter” dei Gesuiti dello Sri Lanka[15].

All’indomani della Prima Guerra Mondiale il papa Benedetto XV sentì il bisogno di ribadire il valore esclusivamente evangelico dell’azione missionaria e condannare le strumentalizzazioni nazionalistiche e colonialistiche che non erano mancate durante gli anni della guerra, e a tal fine   emanò il 30 novembre 1919 l’enciclica Maximum Illud[16]. Un altro momento significativo fu la proclamazione dell’anno giubilare delle missioni proclamato da papa Pio XI nel 1925, insieme all’allestimento della mostra missionaria[17], che ci ha lasciato in eredità il Museo Missionario Vaticano, culmine di un progetto di riflessione e riorganizzazione dell’azione delle missioni che ebbe tra i suoi artefici Angelo Roncalli, futuro papa Giovanni XXIII, allora funzionario di Propaganda Fide[18]. Bisogna quindi attendere il Concilio Vaticano II perché la chiesa ribadisca la sua naturale vocazione missionaria. Il tema del confronto tra le chiese, le varie culture e le missioni è stato oggetto specifico del Concilio, in particolare delle costituzioni sinodali Gaudium et Spes e Ad gentes (1965) di Paolo VI. L’attuale papa, Francesco I, ha proclamato il 2019 anno giubilare delle Missioni. Iniziativa assai lodevole, da parte di un pontefice che porta il nome di due santi esponenti dei due ordini che di più hanno dato alla storia delle missioni, ovvero Francesco d’Assisi e Francesco Saverio; e non può sfuggire che uno dei suoi primi atti dopo l’insediamento sia stato l’omaggio all’icona della Salus popoli Romani, come erano soliti fare i padri gesuiti prima di intraprendere il loro viaggio verso le Indie.

Di questa nobile tradizione, Padre Angelo può essere considerato un fiero vessillifero e non pecca di agiografia chi lo definisce un campione delle missioni.

In occasione del Natale 2009, circa un mese prima di morire, ringrazia collaboratori e benefattori con le parole di Gesù: “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40). Nel gennaio 2010, «The Messenger», il settimanale cattolico dello Sri Lanka, gli dedica un ampio articolo in occasione dei suoi sessant’anni di sacerdozio. L’autore, reverendo della Diocesi di Ratnapura, spende parole di grande elogio per Padre Angelo e conclude il suo intervento così: «E’ mia convinzione che egli ripeta le parole di San Paolo ai Filippesi: “In conclusione, fratelli, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri. Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare. E il Dio della pace sarà con voi”. (Fil 4,8-9). Caro Padre Angelo: molte grazie per tutto quello che lei è, per tutto quanto lei ha fatto per la nostra gente della diocesi di Ratnapura, specialmente per i lavoratori Tamil che operano nel settore delle piantagioni. Possa lei rimanere come luce che illumina noi generazioni più giovani, affinché possiamo emulare lei e gli altri grandi missionari del passato, quali il B. Joseph Vaz, il Vescovo Regno O.S.B., il Vescovo Joy Gunawardena O.M.I. ecc. ecc..»[19].

Padre Stefanizzi ritornò a Matino in occasione del suo 50esimo di sacerdozio, nel 2000, festeggiato da tutta la comunità del suo paese, come conferma una relazione manoscritta di Don Giorgio Crusafio che riprende l’intervento pronunciato la sera del 2/5/2000 nella Chiesa del Sacro Cuore di Gesù. E grandissimi furono gli onori che ricevette nella sua patria acquisita, Ratnapura. A Yatiyanota, nel novembre di quell’anno, venne celebrata una santa messa dai Padri Ruben Perera, Vicario Generale della Diocesi di Ratnapura, e Baylon Perera, Provinciale dei Gesuiti, con l’intervento del Vescovo, Mons. Malcolm Ranjith, alla presenza di una grandissima folla di fedeli. Al Giubileo d’oro parteciparono, sebbene lontani, anche il fratello, P. Antonio Stefanizzi e la sorella, Suor Agata[20].

Padre Angelo muore nel febbraio del 2010. Il 5 febbraio 2010 l’Agenzia Ucan (Union Catholic Agency News) di Ratnapura diffonde il seguente comunicato stampa: “I poveri lavoratori delle piantagioni di tè nel sud dello Sri Lanka (cattolici, indù e musulmani) piangono la morte del missionario gesuita italiano p. Angelo Stefanizzi, che ha lavorato fra loro per 58 anni”[21]. Il suo corpo è sepolto ad Ampitiya.

In occasione della morte, moltissime sono le testimonianze e i messaggi di cordoglio. Un bellissimo ricordo gli viene dedicato dalla rivista «Il Gesù Nuovo»[22].

Riporta il sito on line AsiaNews: «K.s.s.a. Francis, direttore dell’organizzazione Foliseb Sri Lanka con base nella città di Hatton, lo ricorda come un “santo dei nostri tempi” e “una guida accurata ed eccellente” per tutti i lavoratori della terra. Egli sottolinea la particolare attenzione mostrata da p. Stefanizzi per i poveri agricoltori della provincia e il suo impegno “nel cercare di parlare con loro e aiutarli a risolvere i problemi, per questo lo chiamavamo con affetto… p. Gandhi”. Il suo segreto, come riferisce K.s.s.a. Francis, era quello di “parlare in modo fluente sia il singalese che il tamil, nonostante fosse uno straniero”; una particolare dote che gli ha permesso di “conquistare il cuore delle persone” che potevano “avvicinarlo senza incontrare barriere o ostacoli”. P. Maria Anthony, superiore provinciale dei Gesuiti nello Sri Lanka, spiega ad AsiaNews che “abbiamo perduto un missionario di lungo corso, con un cuore grande e una profonda educazione”. “Mi piaceva chiamarlo uomo per i poveri” continua il confratello, perché “era pronto a lavorare in mezzo a ogni difficoltà. Non gli interessava una vita agiata, voleva solo stare vicino ai contadini poveri”»[23].

Anche il sito on line del Daily News, Sri Lanka’s National Newspaper, riporta il suo necrologio[24].

Della sua morte, dà l’annuncio la rivista «Gentes», che scrive: “Il 3 febbraio è giunta invece la notizia dell’ascensione al cielo di un altro grande missionario gesuita, il padre Angelo Stefanizzi, defunto a Kandy (Sri Lanka) nel suo 91° anno di età e 74° di Compagnia”[25]. Anche Radio Vaticana on line dà la notizia della sua morte[26].

Su «The Messenger», del 5 ottobre 2014, gli viene dedicato un bel profilo biografico in occasione dei 95 anni della nascita[27]. Infine, giunge questo libro, voluto dall’Associazione Autori Matinesi, che si propone di mantenerne, nella comunità che gli ha dato i natali, desto il ricordo e viva la testimonianza.

 

Nota degli autori

Alcune fonti bibliografiche citate nel profilo sono incomplete poiché si trovano in fogli dattiloscritti o in fotocopia conservati e rilegati dalla famiglia Stefanizzi-Caputo o dagli amici dell’Associazione Autori Matinesi, i quali ce li hanno messi a disposizione per il presente lavoro. Tuttavia, piuttosto che fare a meno di tali preziose fonti, si è preferito utilizzarle, indicandone in nota la provenienza da Archivio personale Padre Angelo Stefanizzi.

 

Note

[1]           Angelo Stefanizzi S.I., La mia esperienza personale, 2000, documento contenuto in Archivio personale Padre Angelo Stefanizzi, per gentile concessione della famiglia Stefanizzi-Caputo.

[2]           Dialogo e riconciliazione. Tra Singalesi e Tamulici dello Sri Lanka, in «Popoli e Missioni», ottobre 1987, pp. 44-46.

[3]           Angelo Stefanizzi S. I., Nelle zone di guerriglia dello Sri Lanka, in «Societas», n.6, dicembre 1993, pp. 171-173.

[4]           Per un excursus storico sullo Sri Lanka si rinvia al capitolo Missionari gesuiti pugliesi in Estremo Oriente e storia della missione dello Sri Lanka, presente in questo stesso volume

[5]           P. Angelo Stefanizzi, Cercasi mangiaserpenti, in «Popoli e Missioni», novembre 1971, pp. 5-6.

[6]           P. Antonio Stefanizzi, Padre Angelo Stefanizzi “Un missionario non ordinario”, in Matino si racconta 3. Pagine della nostra storia, a cura dell’Associazione Autori Matinesi, Matino, Tip. San Giorgio, 2016, p.129.

[7]           http://www.kolping.org/about/ L’atto costitutivo della Società riconosce che Kolping opera al fine di “lavorare per un’amicizia etnica e religiosa tra i cittadini dello Sri Lanka; promuovere quei valori umani e religiosi che portano alla pace e all’armonia nello Sri Lanka, incoraggiando il dialogo tra le varie tradizioni religiose; intraprendere tutte le forme di servizio utili alla comunità.”

[8]           Si veda: P. Angelo Stefanizzi, Sri Lanka. I centri Kolping, in «Popoli e Missioni», aprile 1986, pp. 54-55.

[9]           Si veda: Idem, “Da Sacerdote” nei problemi dello Sri Lanka, in «Societas», n.6, nov-dic.1982, pp. 116-118, e Idem, Le vie della pace. Il “Kolping Sri Lanka”, in «Societas», n.3-4, maggio-agosto 1998, pp. 123-125, in cui l’autore fa una dettagliata descrizione delle finalità e dell’attività della associazione.

[10] Gaetano Iannaccone S.I., Solidarietà col popolo dello Sri Lanka.  Il Padre gesuita Angelo Stefanizzi eletto Presidente Nazionale della Società Kolping, in «Il Gesù Nuovo», Napoli, pp.273-274, in Archivio personale Padre Angelo Stefanizzi.

[11] P. Carlo Sorbi S.I., Sri Lanka, giubileo d’oro: cinquant’anni della chiesa di S. Anna a Maliboda, in «Societas», n.5-6, sett-dic. 2005, pp.249-252.

[12]         Articolo in traduzione italiana, in Archivio personale Padre Angelo Stefanizzi.

[13] Si veda: Angelo Stefanizzi S. I., I miei cooperatori laici, in «Societas», n.1, gennaio-febbraio 2000, pp. 51-54.

[14] P. Angelo Stefanizzi, Sri Lanka: sviluppo nella solidarietà, in «Societas», n.5-6, sett-dic.2003, pp.241-245.Questo articolo viene ripubblicato sulla rivista per cortesia del Journal of Religious Reflection, n.9, agosto 2003, pubblicato dal Satyodaya Center, Kandy, dei gesuiti dello Sri Lanka, a cura del P. Paul Kasperz S.I. e tradotto da P. Antonio Stefanizzi. Sulla drammatica situazione politica nell’isola, altri interventi: Angelo Stefanizzi, Di chi è la colpa?, in «Societas», n.6, nov-dic. 1989, pp. 169-170, e Idem, Guerriglia nello Sri Lanka,  in «Societas», n.6, nov-dic. 1993, pp.171-173.

[15] L’eredità di S. Francesco Saverio. Riflessioni di P. A. Stefanizzi dopo 62 anni di Missione, da “Newsletter” dei Gesuiti dello Sri Lanka, gennaio 2007, in Archivio personale Padre Angelo Stefanizzi.

[16] http://www.vatican.va/content/benedict-xv/it/apost_letters/documents/hf_ben-xv_apl_19191130_maximum-illud.html. Alba Rosa Leone, La politica missionaria del Vaticano tra le due guerre, in «Studi Storici», Anno 21, n.1 (Jan. – Mar., 1980), pp. 123-156.  Per una rapida analisi dei rapporti tra colonialismo e missioni: Claude Prudhomme, Missioni cristiane e colonialismo, Milano, Jaka Book, 2007.

[17] Luigi Grammatica, Contributi apologetici delle Missioni e della Esposizione Missionaria Vaticana, in «Rivista Internazionale di Scienze Sociali e Discipline Ausiliarie», Vol. 102, Fasc. 392 (Agosto 1925), pp. 285-297.

[18] Stefano Trinchese, L’Opera della propagazione della fede dalla centralizzazione a Roma nel 1921 alla Mostra missionaria del 1925, in Achille Ratti pape Pie XI. Actes du colloque de Rome (15-18 mars 1989) organisé par l’École française de Rome en collaboration avec l’Université de Lille III – Greco n° 2 du CNRS, l’Università degli studi di Milano, l’Università degli studi di Roma – «La Sapienza», la Biblioteca Ambrosiana. Rome: École Française de Rome, 1996, pp. 693-718.

[19] Fr K. D. Joseph, P. Angelo Stefanizzi S.I. – 60 anni di sacerdozio – Un missionario di raro calibro, in «The Messenger, The Catholic Weekly of Sri Lanka», 3 gennaio 2010, articolo in traduzione italiana in Archivio personale Padre Angelo Stefanizzi. Si parla di lui anche nell’articolo The Parish of Dehiowita, Ratnapura, in «The Messenger, The Catholic Weekly of Sri Lanka», 22 gennaio 2012, p.2.

[20] P. Angelo Stefanizzi S.I.: 50 anni di sacerdozio, a cura di P. Domenico Parrella S.I., in «Popoli e Missioni», febbraio 2000, pp.30-31. Inoltre, Edward Kumaragama, Il 50° di P. Angelo Stefanizzi, in «Societas», n.1-2, gennaio-aprile 2000, pp. 49-50.

[21] Archivio personale Padre Angelo Stefanizzi.

[22] Un missionario di raro calibro, coraggioso e generoso: P. Angelo Stefanizzi S.I. (2 ottobre 1919-3 febbraio 2010), in «Il Gesù Nuovo», n.3, Napoli, maggio-giugno 2010, pp.177-179.

[23] Melani Manel Perera, Kandy, fedeli cristiani e contadini piangono la scomparsa del “p. Gandhi” italiano: http://www.asianews.it/notizie-it/Kandy,-fedeli-cristiani-e-contadini-piangono-la-scomparsa-del-%E2%80%9Cp.-Gandhi%E2%80%9D-italiano-17558.html

[24] http://archives.dailynews.lk/2010/02/05/main_Obituaries.asp

[25] I padri Michele Catalano e Angelo Stefanizzi, missionari in Sri Lanka e amici della Lega Missionaria Studenti, in «Gentes mensile della Lega missionaria Studenti e del M.a.g.i.s.», n.1, gennaio-febbraio 2010, p.21. Un bel ricordo gli viene dedicato anche da Don Giorgio Crusafio, Padre Angelo Stefanizzi uomo per i poveri, in «Il Giornale degli autori matinesi», Matino, aprile 2010, p.5.

[26]    Sri Lanka: fedeli cristiani e contadini piangono la scomparsa di padre Stefanizzi, in www.archivioradiovaticana.va › storico › 2010/02/06

[27] J. Anthony, Rev. Fr. Angelo Stefanizzi, s.j.  95th Bith Anniversary, in «The Messenger, The Catholic Weekly of Sri Lanka», 5 ottobre 2014, p.10.

Il gesuita salentino Sabatino De Ursis (1575-1620), straordinaria figura di scienziato missionario in Cina

ECHI LEONARDESCHI NELLA CINA DEI MING: L’IDRAULICA OCCIDENTALE DEL MISSIONARIO SALENTINO SABATINO DE URSIS

 

di Francesco Frisullo e Paolo Vincenti

Un articolo del 1963 di Ladislao Reti, Francesco di Giorgio Martini’s Treatise on Engineering and Its Plagiarists, colpisce la nostra attenzione, perché in questo contributo l’autore adombra il fatto che fra i vari plagiari di Francesco di Giorgio ci sia lo stesso Leonardo da Vinci[1].

Reti si occupa di un’opera del grande architetto Francesco di Giorgio Martini (1439-1501), fino ad allora poco nota o comunque poco valorizzata. Si intitola Trattati, in sette libri.  “L’importante codice appartenuto a Cosimo I, contiene una versione della «seconda stesura dei Trattati di Francesco (cc.5-112), la non poco significativa traduzione del De Architectura di Vitruvio (cc.103-192) e, infine, un complesso di disegni di macchine belliche e fortificazioni militari (cc. 193-244)»”[2]. Il Trattato di Architettura di Francesco, scrive Reti, “è preservato in parecchi manoscritti originali: una prima bozza nella Biblioteca Comunale a Siena (No.S.IV.4); una versione elaborata è nella Biblioteca Nazionale di Firenze (No.II.I.141), la presente copia dedicata a Federico de Montefeltro, Duca di Urbino, è nella ex libreria del Duca di Genova (Codice Saluzziano No. 148, pergamena). C’è anche un manoscritto incompleto che una volta apparteneva a Leonardo da Vinci. Quest’ultimo è di particolare interesse perché Leonardo ha aggiunto note e schizzi ai margini; il manoscritto è ora nella libreria Laurenziana a Firenze (Codice Mediceo Laurenziano 361, precedentemente Ashb. 361 [293])”[3]. Il Trattato fu pubblicato per la prima volta nel 1841 da Carlo Promis, usando il Codice Saluzzo, sebbene con l’omissione del settimo libro, quello certamente più interessante per i suoi disegni meccanici.[4]

Questo libro omesso da Promis venne pubblicato solo nel 1917 da Girolamo Mancini.[5] “Il Codice Laurenziano fu parzialmente pubblicato dal Mancini che lo assegnò all’Alberti. Si tratta di disegni che illustrano un sistema di chiuse con bacini navigabili «da condurre navigli su per la fiumara», uno schema di acquedotto e, in alto a destra, una fontana eroniana a tempo. In testa alla colonna destra, una delle annotazioni autografe di Leonardo: «Dell’acqua nel vasca»”[6]. Reti lamenta l’assenza di Francesco di Giorgio in importanti opere di tecnologia di titolati studiosi, nonostante la sua incontrovertibile importanza. In effetti, anche quei pochi storici che lo hanno citato, non hanno comunque rilevato le coincidenze che Reti elenca. “Sebbene il Trattato sia stato scritto intorno al 1475, tra i disegni possiamo osservare molti dispositivi meccanici generalmente attribuiti a epoche successive”.

Fra questi, un gran numero di pompe e dispositivi di sollevamento dell’acqua. “La domanda sorge spontanea sul perché i manoscritti e apografi di Francesco di Giorgio, contenenti una tale ricchezza di informazioni, rimasero inosservati per così tanti secoli. E la risposta è che non lo hanno fatto: le idee importanti che descrive sono state prese in prestito, senza citarlo, dagli scrittori del sedicesimo secolo. Alcuni degli autori l’accreditarono alla trasmissione del patrimonio di Leonardo nel campo dell’ingegneria, e seguendo i suggerimenti di Duhem, Beck e Usher siamo d’accordo nel nominare gli ingegneri della scuola Italiana: Ramelli, Besson, Zonca, Veranzio, Castelli, Strada,  ecc., che hanno trovato un’ampia ispirazione negli scritti di Francesco di Giorgio”[7].

Fra questi autori che si sono ispirati a Francesco di Giorgio, in alcuni casi indirettamente, in altri copiando spudoratamente, a detta di Reti, salta alla nostra attenzione Zonca. “Vittorio Zonca (1568-1602), fu meno attento. Il suo libro ha goduto di grande popolarità e ha attraversato quattro edizioni, l’ultima nel 1656”[8]. Scrive Reti: “molti dei disegni di Zonca furono incorporati, senza citare Francesco, in un altro compendio popolare, il Theatrum Machinarum di Heinrich Zeising. Questo libro è stato ripubblicato diverse volte dalla sua prima edizione nel 1607-14 fino alla sua ultima nel 1708. Confrontando le ultime sette figure del trattato di Zonca, tutte tranne una che illustrano i dispositivi di sollevamento dell’acqua, con i corrispondenti disegni di Francesco di Giorgio, troviamo che le tavole di Zonca sono riproduzioni dirette dei disegni di Francesco”[9], e riporta i disegni a testimonianza dei prestiti. “È forse assieme a quelle dello Strada l’opera a stampa tra fine Cinquecento e inizi Seicento che maggiormente risente dell’influenza delle macchine di Francesco di Giorgio. Uscita postuma, ebbe, come attestano le ristampe (quattro nel Seicento), notevole diffusione e influenzò molti autori europei, Zeising per esempio”[10].

A p.294, Reti scrive: “La tradizione tecnologica iniziata con Francesco di Giorgio ha trovato la sua strada, e molto presto, in Estremo Oriente. Sabbatinus de Ursis (1575-1620) fu assistente del famoso missionario gesuita Matteo Ricci (1562-1610), che aprì la Cina al Cristianesimo e in seguito divenne Superiore in quella chiesa. Tra gli altri importanti contributi, de Ursis (conosciuto in Cina come Hsiung San-Pa) redasse nel 1612 un libro illustrato con il titolo Machines of the West. Qui la tecnologia Europea contemporanea è stata presentata ai tecnici cinesi.

Per il suo compendio de Ursis utilizzò inter alia i libri di Besson, Veranzio, Ramelli e Zonca. Sfortunatamente, i disegnatori cinesi, che non conoscevano la prospettiva tecnologica Occidentale, non potevano copiare correttamente i disegni della macchina […]. Nel 1726 questo libro fu incorporato nella grande Enciclopedia cinese (5020 volumi). Quando alcuni studiosi europei studiarono questa monumentale opera tra il 1865 e il 1888, essi rimasero molto impressionati dalle conoscenze tecnologiche che vi trovarono. Solo più tardi si è realizzato che le sue fonti erano Europee”.

In Appendice riportiamo il disegno di Reti che illustra con uno schema ad albero i possibili plagiari di Francesco Di Giorgio. Fra questi, oltre al caso più eclatante di Leonardo,[11]proprio il salentino de Ursis. E veniamo così alla figura di questo gesuita scienziato citato dal Reti.

Sabatino de Ursis, nato in provincia di Lecce, precisamente a Ruffano[12] nel 1575, da quanto lo stesso riferisce nella sua lettera del 25 gennaio 1605 da Macao indirizzata a Bernardino Realino,[13] partito in missione in Cina, vi giunse nel 1603, esattamente a Macao, colonia portoghese.

Fu allievo di Cristoforo Griemberger, quando operava ancora nel Collegio Romano il grande matematico Cristoforo Clavio. La sua formazione inizia a Napoli, prosegue poi a Roma e a Coimbra in Portogallo, come di prassi per i gesuiti che si imbarcavano per le Indie orientali, e termina nel Collegio San Paolo di Macao, dove egli risiede dal 1603 al 1607, quando parte per Pechino.

Astronomo, matematico, geografo, architetto, versatile scienziato, giunse nel continente asiatico in seguito all’appello che Matteo Ricci rivolgeva ai suoi superiori per avere collaboratori esperti in materie scientifiche. Col Ricci collaborò negli ultimi anni della vita e del grande maceratese scrisse una biografia utilizzata ed ampliata poi da altri autori. A Pechino, dove divenne di fatto l’erede di Matteo Ricci, acquistò fama tra i mandarini come divulgatore di matematica e di idraulica. Scoppiata la persecuzione del 1616, fu espulso il 18 marzo 1617 da Pechino e costretto a riparare prima a Canton, poi a Macao, dove morì nel 1620. Scrisse, fra le altre cose, un Saggio sulla sfera armillare, un Saggio sul quadrante geometrico L’idraulica occidentale, ma importante anche il suo contributo alla riforma del calendario cinese. Egli previde l’eclisse solare del 15 dicembre 1610 e ricalcolò le coordinate di Pechino. Per questo, nel 1611, insieme al compagno spagnolo Diego Pantoja, ricevette l’incarico dall’imperatore WanLi. In tanto fervore di attività pratiche e scientifiche, mai perdette di vista la fede cristiana e insieme con essa, l’obbiettivo primario della sua missione, ossia l’evangelizzazione della Cina.  Negli ultimi anni di vita, ricopre l’insegnamento, come risulta dal Catalogo di Macao, riportato da Schutte, di “mestre dos livros sinicos, que vejo da China”.[14]  Su Sabatino de Ursis esiste una bibliografia sterminata, sui vari aspetti del suo operato scientifico, ma manca ad oggi un volume monografico sulla sua figura.

Sabatino, memore della lezione di Matteo Ricci, ben comprese l’importanza dello scambio delle conoscenze tra Oriente e Occidente, come via privilegiata per giungere alla conversione degli intellettuali cinesi prima e del popolo dopo. Il suo fu quindi un apostolato scientifico. Fra le varie sue opere, particolare importanza riveste ai fini della nostra analisi, il testo sull’Idraulica, che si presenta come un’opera originale rispetto ai precedenti lavori di Ruggeri e Ricci.  A questo testo, egli lavorò insieme ad un importante esponente dell’intellighenzia cinese nonché uno dei primi mandarini convertiti al cristianesimo, ovvero Xu Gianqui, romanizzato in “Dotto Paolo”, del quale è in corso la causa di canonizzazione insieme a quella di Ricci. Precisamente nel 1612 Sabatino detta a Xu Guangqi (1562−1633)[15], che la trascrive in cinese, “L’idraulica Occidentale / (Trattato sulle pompe idrauliche)”  Tai xi shui fa,[16]un’opera in 6 volumi su carta di bamboo che introduce per la prima volta elementi della tecnologia idraulica occidentale in Cina[17].

Il Chinese Christian Texts Database, dell’Università Cattolica di Lovanio, principale centro per gli studi sulle missioni cinesi, riporta la scheda bibliografica del libro con i suoi numerosi autori e collaboratori e le vicende editoriali del libro stesso[18].

L’opera è conservata in ARSI Jap-Sin II, 61 e la copia della Biblioteca Nazionale di Pechino, editata dal dotto Leone – Li  Zhizao ( 1565-1630 ), porta la prefazione del  Censore  Cao Zibian (1558-1634).[19]Un’altra copia è conservata presso la Biblioteca Apostolica Vaticana[20]. La prima edizione dell’opera dunque è del 1612. Come riporta la scheda in World Digital Library relativa alla copia conservata presso la National Library of China: “Tai xi shui fa (macchinari idraulici occidentali) è il primo lavoro sulla tecnologia idraulica agricola occidentale introdotta in Cina. Raccoglie l’essenza dell’ingegneria idraulica classica europea. L’autore fu Xiong Sanba (Sabatino de Ursis, 1575–1620), un missionario gesuita italiano, che dettò i testi, che furono tradotti in cinese da Xu Guangqi (1562-1633) e curati da Li Zhizao (1565-1630). Questa copia, pubblicata per la prima volta nel 1612, ha tre prefazioni all’inizio dell’opera, scritte da quattro autori Ming, una congiuntamente da Cao Zibian e Zheng Yiwei, un’altra da Peng Weicheng. La terza prefazione è del traduttore, Xu Guangqi. È incluso anche un saggio di de Ursis, intitolato Shui fa ben lun (Trattato sull’idraulica). Il nome dell’incisore è visibile anche nell’area del centro della pagina. Il libro è illustrato”[21].

Secondo le nostre conoscenze attuali, de Ursis non poteva attingere direttamente a libri sull’idraulica occidentale, né tantomeno Ricci aveva fatto richiesta di queste pubblicazioni, e inoltre gli interessi di de Ursis erano maggiormente rivolti verso testi di astronomia[22]. Fra i prefatori, Cheng Yiwei, che nel 1632 ricoprirà il ruolo di Ministro dei riti e Cancelliere; inoltre Peng Weicheng, che ne fu anche censore e correttore[23].

Nel 1626 l’Idraulica  viene inserita – insieme a  scritti di Ricci e di  altri gesuiti – nel Tianxue chu han (  La prima raccolta di scienze celesti ), compilata da Li Zhizao e Dong Shaoxin[24]. Nel 1639 viene pubblicata postuma dai suoi allievi, Nongzheng quanshu (農政全書) ), di  Xu Guangqi, un’opera sull’agricoltura all’interno della quale viene inserito il Tianxue chu han, che occupa esattamente i capitoli 19 e 20[25]. Ancora, l’opera viene inserita nella raccolta The Siku quanshu 四庫全書 “Complete books of the Four Storehouses” (Tutti i libri delle quattro sezioni della letteratura), un’opera monumentale sulla cultura cinese pubblicata nel 1782[26].

“Nella prefazione dell’Idraulica Xu volle unire le applicazioni della scienza pratica con le speculazioni teologiche, delineando due diversi atteggiamenti dei Gesuiti. Da un lato, Matteo Ricci il quale riteneva che la scienza pratica potesse risolvere i problemi di sussistenza del popolo e di fatto sostituire il Signore nella cura dei suoi figli […] Matteo Ricci era dell’avviso che, se dal punto di vista dell’agricoltura si fosse potuto migliorare la produttività, si sarebbe data una grossa mano al benessere del popolo. Sabbatino De Ursis (1575-1620) riteneva invece che soffermarsi sulla scienza pratica avrebbe distolto l’attenzione dalla salvezza dell’anima, e dunque sarebbe stato di poco aiuto per l’evangelizzazione della Cina. Xu Gunagqi chiese a Sabbatino De Ursis di partecipare alla traduzione delle tecniche idrauliche […] Xu Guangqi provò a convincere Sabatino De Ursis nei seguenti termini: Quando l’uomo è ricco, benevolenza e giustizia nascono di conseguenza, e questo è certamente un principio comune sia in Oriente sia in Occidente […]”[27]. Le fonti cinesi ci mostrano un de Ursis un po’restio a seguire la linea di Ricci, più portato all’azione missionaria  tradizionale, sì da ritenere la traduzione delle opere della scienza occidentale un diversivo rispetto al prioritario obiettivo della conversione. Tale immagine però non coincide con quella trasmessaci da Bartoli e soprattutto contrasta con quanto lo stesso Sabatino scrive nelle sue lettere dove insistenti sono le richieste per avere libri e padri esperti di Matematica, proprio come già aveva fatto Ricci[28].

Dalle stesse fonti a stampa gesuitica coeve, ricaviamo un profilo di de Ursis uomo di scienza più che di Chiesa, eccetto per il periodo antecedente all’arrivo a Pechino, quando affianca Lazzaro Cattaneo nelle prime avventure missionarie. Dalla lettera che de Ursis da Pechino scrive a P.Antonio Mascarenhas leggiamo: “nel principio che entrai in questa missione il P.Matteo Ricci mi chiamò per questa casa di Pakino. Il suo intento fu che sapendo io alcuna cosa di matematica, mi voleva introdurre nelle cose di questa scienzia […] ma come non abbiamo libri, non si può far nulla: i libri ch’abbiamo sono la Gnomica del P.Clavio, la Sfera e il suo Astrolabio. La verità è, che, come diceva, è necessario ad esso travagliare con due mani, la destra nelle cose di Dio, e la sinistra in queste cose, perché non si può far dimanco e quel che insino ad esso s’ha fatto, tutto di questo modo […] Mi raccomando a tutti, dimandando al P.Christoforo Grembergerio alcuna cosa di matematica, bella e curiosa per questi letterati della China perché sarà de grande servitio del Signore come altre volte l’ho scritto”[29].

L’avvio delle ostilità nei confronti dei gesuiti dal 1616, attaccati anche per i contenuti scientifici da loro portati, causerà un ripensamento circa l’opportunità  di continuare  nella traduzione delle opere scientifiche europee da parte dei padri. Il  provinciale Valentim de Carvalho aveva dato indicazione perché si interrompesse ogni collaborazione con i letterati cinesi e si sospendesse l’insegnamento della matematica nel collegio di Macao[30]. Ma ciò, come evidenzia Baldini, non avvenne, anche grazie a quanto scrisse de Ursis al Generale Muzio Vitteleschi dalla sua “ prigionia” a Cantone: “Forse il suo insegnamento ( matematica )  è stato reso possibile anche da una lettera di S. De Ursis al nuovo Generale, M. Vitelleschi (Canton, 2 dicembre 1617). In questa lettera (ora in ARSI, Jap.-Sin., 17, ff. 108r–109r) scrisse che i ‘più vecchi’ sacerdoti di Pechino, convinti che la matematica e la geografia erano stati strumenti preziosi per aumentare la loro credibilità con i cinesi, avevano programmato di inviare una lettera firmata da tutti loro alla residenza di Macao, dove dovrebbe essere letta a tutti i sacerdoti nel refettorio, incoraggiandoli ‘a trabalhar nesta Missao, e usar dos mejos sobredittos da Matematica, literas morais, e cosas semillantes.’ Questa mossa pubblica, apparentemente diretta a tutta la comunità, avrebbe potuto essere un tentativo di forzare il Provinciale a cambiare idea a seguito della reazione dell’assemblea”[31]. Sicché, l’insegnamento della matematica nel collegio di Macao fu quasi imposto dalla curia generalizia romana ai superiori portoghesi. Possiamo inoltre notare che de Ursis non chiede opere di idraulica ma di matematica e astronomia.

Du Shi-ran, nella sua opera[32], afferma che la strategia di Guangqi di apertura verso la scienza e la tecnologia occidentale era incentrata su tre mosse: “tradurre, assimilare e superare”[33].

Il controllo delle acque ha rivestito un ruolo importante nella storia cinese tanto che ad esso sono legati il mito del Grande diluvio e la figura di Yu il Grande (terzo millenio a.C ) a cui è attribuita la fondazione della dinastia Xia, dalla quale  prende il via la successione dinastica cinese. Yu stabilì la divisione della Cina in nove provincie e realizzò un sistema di drenaggio idrico per la regolazione delle acque[34], tanto che Yu è noto anche come il Grande regolatore delle Acque[35].

Donatella Guida ci fa capire in che contesto nasce l’opera di Idraulica. “Un concetto senza dubbio centrale nei testi confuciani che Xu aveva interiorizzato fin dall’età di 3-4 anni, prima ancora di imparare a scrivere, è il benessere del popolo: i classici delineano doveri precisi del sovrano e dei ministri, essenzialmente volti alla prosperità della comunità tutta e alla sua educazione e alle norme morali […]”[36]. Daniela Lambertini[37] scrive: “Che sorpresa ritrovare fra  le  pagine di un trattato cinese d’idraulica seicentesco le macchine del repertorio martiniano seppure  con qualche incomprensione del loro funzionamento […] De Ursis ( 1575-1620 ), [è] allievo e successore di padre Matteo Ricci e convinto sostenitore dell’importanza di dotare i soldati  della Compagnia di Gesù di conoscenze scientifiche e tecniche. Padre De Ursis, che si trovava a Macao già nel 1603, pubblicò a Pechino un trattato di idraulica, utilizzando la fonte più consueta ai suoi tempi: le macchine di tradizione martiniana”[38]. L’agricoltura rivestiva una importante funzione sociale poiché garantendo la prosperità della collettività dava legittimazione al potere del Sovrano. “Dal punto di vista filosofico, il controllo delle acque rappresenta, d’altro canto, un dato essenziale a sostegno del cosiddetto Mandato Celeste, su cui si basava la stabilità della dinastia regnante”[39]. I discepoli cattolici e confuciani rigettarono le religioni politeiste come il Taoismo e il Buddismo, poi rifinirono meglio il pensiero confuciano “attuando la cosiddetta politica di completamento del confucianesimo e correzione del Buddismo”[40]. In quest’ottica va visto l’interesse per il Cattolicesimo, lo dice espressamente Guangqi nell’Introduzione all’Idraulica del 1612, nel senso che il cattolicesimo doveva essere complementare al confucianesimo[41].

La Cigola spiega: “Ci sono quattro prefazioni, rispettivamente scritte da: Cao Yubian, Peng Weicheng, Xu Guangqi e Zheng Yiwei. Solo la prima di tre prefazione è datata 1612. La terza prefazione sui fogli 1 di juan 1–5 indica il titolo del libro, il numero di juan e i nomi degli autori (Xiong Sanba e Xu Guangqi) e del revisore (Li Zhizao). Vi sono dieci colonne per ogni mezzo folio con venti caratteri per ogni colonna e venti nel caso delle annotazioni. Il titolo del libro è riportato al centro di ogni foglio. Il numero di juan e del folio e i titoli dei capitoli sono indicati sotto la coda di pesce. Juan 1–4 si occupa dei metodi idraulici. Juan 5 dà risposte a coloro che hanno dubbi sul sistema idraulico o volevano saperne di più sul sistema. Juan 6 è costituito da illustrazioni. Quindi il testo è stato diviso in quattro parti che descrivono l’uso di acque fluviali, acque sotterranee e fonti, acqua piovana e neve e include un’appendice che copre argomenti vari. Il capitolo quattro comprende anche una sezione sulla distillazione di vari medicinali. Altrove vengono date delle spiegazioni manuali sulla fisiologia del corpo umano, un allineamento della visione rinascimentale della circolazione del sangue, i quattro temperamenti, ecc., con le loro controparti nel mondo naturale [ …]”[42]. La studiosa precisa che: “le illustrazioni di Taixi Shuifa sono organizzate in 18 figure nel Vol. 6, le prime 13 delle quali rappresentano dispositivi di sollevamento dell’acqua come. Long wei che(龙尾 车), Yu heng che (玉衡车)e Heng sheng che恒升车). In particolare le figure da 1 a 5 rappresentano chiaramente il Long wei che che era conosciuto come ‘La vite di Archimede’ o Coclea in Europa,[43] e le figure da 6 a 9 rappresentano Heng sheng che  che è conosciuto come la macchina di Ctesibius in Occidente.

Per rintracciare la fonte delle illustrazioni in Taixi Shuifa,  sono stati ricercati alcuni libri occidentali relativi alla conoscenza della macchina e abbiamo scoperto che la Vite di Archimede e la Macchina di Ctesibius erano anche incluse nel decimo libro di ‘De Architectura’ di Vitruvio nel capitolo 6: ‘La vite dell’acqua’ e nel capitolo 7: ‘La pompa dell’acqua di Ctesbius’  con illustrazioni. […] Per provare questa tesi facciamo un confronto tra le illustrazioni del Taixi Shuifa e quelle delle edizioni di Vitruvius stampata da Frà Giocondo nel 1513 e da Cesare Cesariano nel 1521. La vite di Archimede nel Taixi Shuifa è presentata per la prima volta in proiezioni ortogonali […] con pianta e elevazione, riprendendo una parte della carta di Cesariano […]”[44].

Uno dei primi libri cinesi sulla tecnologia e l’artigianato risale alla Dinastia Zhou  770–221 a.C.), ed è il “Kao Gong Ji” o “Il libro delle diverse arti”, di autore sconosciuto, ma è nel XVI –XVII secolo che si può già parlare di un primo superamento della tecnologia occidentale, come sostiene J. Needham nella nota “Questione Needham”[45]. L’introduzione della meccanica occidentale, grazie ai gesuiti, metterà in evidenza un maggiore sviluppo della tecnologia europea e introdurrà un elemento poco esplorato nella pubblicistica cinese: il disegno tecnico, o potremmo dire il disegno industriale[46]. Le illustrazione degli antichi testi cinesi mostrano prevalentemente le macchine in fase operativa, molto meno le sezioni dei singoli componenti[47].

“A differenza di Cesariano che ha presentato il dispositivo in ambiente naturalistico in cui un fiume e la sua sponda appare, Xu ha presentato la pompa a vite in un diagramma bianco, inserendolo in uno spazio asettico e astratto, con l’aggiunta di alcune didascalie. La seconda illustrazione sulla vite di Archimede […] è fortemente ispirata all’edizione di Vitruvio di Fra Giocondo datata 1513 anche se la pompa a vite è rappresentata solo con il corpo centrale. Anche in questo caso, l’impostazione è molto più semplice di quella di Fra Giocondo. Xu infatti elimina l’orizzonte e la vegetazione di fondo, lasciando semplicemente l’essenziale, e questa è la rappresentazione del flusso che è funzionale alla pompa a vite. L’acqua, tuttavia, è disegnata in un modo essenziale senza soffermarsi sul naturalismo, evitando di rappresentare le parti sommerse del dispositivo. Molto diverso è il fiume di Fra Giocondo, caratterizzato da linee sinuose, che eccedono e sommergono con grande abilità la base del dispositivo. Qui la traduzione in forme appropriate al gusto cinese del pilastro è interessante. La macchina di Archimede viene quindi studiata in modo più dettagliato nel Taixi Shuifa, perché Xu gli dedica altre tre carte […] in cui presenta una buona conoscenza delle proiezioni ortogonali che dimostrano come questo modo di disegnare cominciò a radicarsi nella Cina del diciassettesimo secolo. La macchina di Ctesibius […] ci viene presentata nel Taixi in uno spazio completamente vuoto, in una rappresentazione che riassume e sintetizza in modo quasi estremo.

Nell’edizione di Fra Giocondo il dispositivo è molto meglio finito in termini di rappresentazione e con buona cura del chiaroscuro. Per quanto riguarda l’illustrazione della vite di Archimede, in questo caso anche la parte immersa nell’acqua viene risolta con notevole abilità. Nell’illustrazione cinese Xu si sofferma di più sia sulla parte centrale che sui due sifoni, rappresentandoli in modo che sia possibile vedere all’interno, probabilmente per illustrare come funzionano. Proprio come per La vite di Archimede, Xu dedica altre tre carte alla macchina di Ctesibius […], in cui usa in un modo maturo e sicuro delle proiezioni ortogonali. Dobbiamo tenere presente che Taixi Shuifa è un volume che riprende in particolare alcuni dei testi tecnici europei italiani. Si dice che uno di loro dovrebbe essere il testo di Ramelli Le diverse et artificiose macchine di Agostino Ramelli che è inserito con numerose illustrazioni, ma da un’analisi di alcune figure del testo cinese è chiaro che Sabatino de Ursis e Xu avevano incluso nel loro lavoro illustrazioni che riflettono molto da vicino quelle di due dei più famosi autori del Rinascimento. Altre interpretazioni possono essere date al testo di Taixi Shuifa e De Architectura, che forniscono anche alcune possibili evidenze della connessione tra questi due libri. Nel vol. 1 di Taixi Shuifa, la parte di Longweiche Ji (龙  车 记) rappresenta  dettagliatamente  le componenti della vite di Archimede. Nel libro 10 di ‘De Architectura’ di Vitruvio, il capitolo 6 ‘L’acqua Vite’ è anche la descrizione della vite di Archimede”[48].

Molto complesso risulta il processo di scrittura del Taixi Shuifa, come di tutte le opere scritte dai gesuiti missionari, che viene ricostruito da Elisabetta Corsi, la quale spiega che le opere: “sono state scritte in una lingua complessa e sofisticata, nota come guanhua 官話, ovvero la lingua semivernacolare in uso già da secoli tra i membri dell’élite composta dai funzionari pubblici (guan 官) che avevano superato con successo gli ultimi gradi dell’esame di stato. Anni di intenso studio non necessariamente garantivano ai missionari la certezza di poter padroneggiare quella lingua al punto da essere in grado di impiegarla con profitto nella composizione dei testi. Ciò spiega dunque il ricorso alla rete degli adepti, cioè quei convertiti cinesi che potevano assicurare la messa in prosa dei concetti che i missionari, talvolta con il solo ausilio della memoria, poiché sprovvisti di testi di riferimento, trasmettevano loro, forse sotto dettatura, oppure attraverso appunti. Non solo la lingua rappresentò uno dei principali ostacoli all’adattamento dei missionari alla vita intellettuale cinese; la composizione dei testi dovette infatti tenere conto di norme editoriali invalse da secoli, di una comunità di lettori preparata ed esigente, di un mercato editoriale fiorente e differenziato a livello locale […] Un’ulteriore difficoltà che si riscontra nell’ermeneutica dei testi è determinata dal fatto che essi erano soggetti ad un processo di revisione non solo di carattere censorio ma anche stilistico”[49]. Sostiene la Corsi che, come riferisce il gesuita torinese Alfonso Vagnoni (1566-1640) che sarà compagno di de Ursis dal 1617, “nel Tongyou jiaoyu 童幼教育 (titolo in latino sulla prima pagina di guardia: De ludo litterario ad ducendos pueros): 遵教規凡是譯經典諸書必三次看詳方允付梓茲並鐫訂閲姓氏於後. le regole della venerabile religione [contemplano] che sia le traduzioni dei testi canonici sia qualsiasi altro libro debbano essere letti attentamente per tre volte ed emendati ogni qualvolta vi si riscontri qualcosa di sconveniente. I nomi dei revisori dovranno inoltre apparire sullo stampato”[50]. Inoltre, “date le difficoltà prosodiche della lingua cinese, i missionari dipendevano dall’aiuto di convertiti e assistenti per la messa in bello stile dei loro testi, i quali spesso venivano composti sotto dettatura (koushou 口授). È inevitabile che il processo di revisione del testo comportasse delle alterazioni di senso, talvolta forse anche molto significative. Non sempre i risultati di tali revisioni sono brillanti, poiché in alcuni testi la scrittura risulta diseguale e il periodare disadorno, come se fosse il prodotto dell’intervento di più mani”[51]. Dunque, come riferito dalla Cigola, la fonte a cui fa riferimento de Ursis è il testo di Agostino Ramelli[52].

Nel luglio 2016, il prof. Saldanha (Università di Macao) ha scoperto, nella Biblioteca Ajuda di Lisbona, un manoscritto di de Ursis. Questo manoscritto rappresenta un eccezionale ritrovamento poiché ad oggi non abbiamo gli scritti preparatori alle numerose opere dei gesuiti in Cina. Esso quindi ci permetterà di entrare nel laboratorio degli scienziati gesuiti e cogliere gli elementi di originalità e conoscere le fonti occidentali oppure cinesi di alcune di queste opere, capire quindi se quella del Nostro sia da considerarsi opera originale o mera trascrizione.

L’opera viene anche tradotta in giapponese. Tamburello scrive: “Il trattato del gesuita S. De Ursis,T’ai-hsi shui-fa, stampato a Pechino nel 1612, fu volto in kanbun da Matsushita Kenrin per un’edizione che apparve a Kyoto nel 1663, insieme ad altre opere dello stesso gesuita e di altri correligionari”[53]. Le opere sono state anche tradotte in coreano[54].

Bartoli sostiene che De Ursis è stato un uomo di scienza non solo teorico ma anche pratico e ci fornisce una dettagliata descrizione delle sue abilità, nel paragrafo intitolato “Macchine da innalzare l’acqua ammiratissime dai Cinesi”[55]. Saverio Santagata, parlando di de Ursis (dicendolo però nato a Napoli nel 1572), scrive che: “applicò l’animo a far vedere che gli altri missionari sforniti non erano di quelle Matematiche Scienze, onde si era renduto così ammirevole il già defunto[56]. Egli stesso, alle usate macchine, altre ne aggiunse, e quelle in particolare, che Idrauliche si appellano, non mai più vedute in Pechino, e perciò sommamente ammirate. La reputazione del Padre Sabatino crebbe moltissimo, quando di lì a poco in puro linguaggio mandarino stampò un Commentario Critico, Matematico, Istorico, e discoprì errori intorno alle Epoche e a’ Fasti Cinesi, aggiungendovi, tra altri trattati, il primo delle predette Macchine Idrauliche, el secondo di Gnomonica, e il terzo degli Analemmi”[57].

Ebbe de Ursis conoscenza delle acquisizioni di Leonardo, trovandosi egli in Cina? Ci aiuterà certamente a capirlo la traduzione in corso dell’Idraulica, a cura del Prof. Hans Ulrich Vogel dell’Università di Tubingen[58], raffrontandola con la nuova opera rinvenuta all’Ajuda di Lisbona. È certo però che se la fonte più accreditata di Sabatino è stato Agostino Ramelli, definito da Reti addirittura un plagiario di Leonardo, de Ursis ebbe sia pure indirettamente conoscenza degli studi leonardeschi[59]. La Cina ebbe senz’altro notevoli apporti dalla cultura araba e persiana[60]. I Rapporti con il mondo mussulmano, in epoca Song (960-1279), oltre la più nota via della seta erano segnati dalla “via del muschio”. Il commercio di questo prodotto univa il Mediterraneo e il Medio Oriente all’India, al Tibet e alla Cina[61]. Risalgono a questo periodo la traduzione delle prime opere scientifiche arabo-persiane. Il prestigio degli astronomi mussulmani si consoliderà in epoca Yuan (1279-1368), quando i mussulmani al servizio del Khan contribuirono enormemente al progresso scientifico e culturale dell’impero mongolo e della civiltà cinese, in generale operando un’originale sintesi tra la sapienza orientale e le idee provenienti dall’Occidente[62]. Molto probabilmente anche Leonardo ebbe conoscenza dei trattati arabi. Secondo la versione di Reti, molte furono le reciproche influenze fra gli scienziati europei, a partire da Francesco di Giorgio Martini, e dunque dovremmo fare un ulteriore passo avanti e dare per acquisito il fatto che Sabatino venne in contatto con gli studi di Leonardo e li assimilò, permeandoli nei suoi studi cinesi. Numerosi sono i riferimenti ai rapporti fra Leonardo e la tecnica cinese[63].

Se è così, possiamo allora affermare che attraverso Sabatino e suoi successori gesuiti missionari, gli echi leonardeschi si riverberano nella Cina dei Ming.

 

Note

[1] L. Reti, Francesco di Giorgio Martini’s Treatise on Engineering and Its Plagiarists, in «Technology and Culture», The Johns Hopkins University Press, Vol. 4, N. 3, 1963, pp. 287-298.

[2] Voce Francesco Di Giorgio Martini, in La corte il mare i mercanti la rinascita della Scienza editoria e società astrologia, magia e alchimia, Milano, Electa Editrice, Centro di Edizioni Alinari Scala, 1980, p. 157.

[3] L. Reti, op.cit., p.288. Tutte le traduzioni sono degli autori.

[4] “F. di Giorgio Martini, Trattato di Architettura Civile e Militare, edito da Carlo Promis (2 volumi, Turin, 1841)”: Ibidem.

[5] “G. Vasari, Vite cinque (Franceschi, Alberti, Franc. Di Giorgio, Signorelli, de Mercillat), annotati da Girolamo Mancini (Firenze, 1917)”: Ivi, p. 289.

[6] Voce Francesco Di Giorgio Martini in La corte il mare i mercanti la rinascita della Scienza, cit., p. 157.

[7] Ivi, p. 290.

[8] Ivi, p. 293.

[9] Ibidem.

[10] Voce Vittorio Zonca, in La corte il mare i mercanti la rinascita della Scienza, cit., p. 163.

[11] Per i rapporti fra Leonardo e Francesco Di Giorgio, si veda: F. P. di Teodoro, L’architettura idraulica negli studi di Leonardo da Vinci: fonti, tecniche costruttive e macchine da cantiere, in Architettura e tecnologia : acque, tecniche e cantieri nell’architettura rinascimentale e barocca, a cura di Claudia Conforti e Andrew Hopkins, Roma, Nuova argos, 2002, pp. 258- 277.

[12]G. Barrella, La Compagnia di Gesù nelle Puglie, 1574-1767, 1835-1940, Lecce, Tipografia Ed. Salentina, 1941, p. 81.

[13] Jap-Sin 14 II ff.192rv.-193r. ai righi 7-8.

[14] Per una bibliografia essenziale su de Ursis, si vedano:Vita del P. Carlo Spinola della Compagnia di.Giesù morto per la Santa Fede nel Giappone del p. Fabio Ambrosio Spinola dell’istessa Compagnia all’Illustriss. E Reverendiss. Signore, e Padron Colendissimo, Monsignor Prospero Spinola Digniss. Vicelegato di Bologna, In Roma e in Bologna, per Clemente Ferroni, 1628, p. 165; Dell’Historia della Compagnia di Giesu la Cina terza parte dell’Asia descritta dal P. Daniello Bartoli della medesima Compagnia, Roma, Stamperia del Varese, 1663, passim; P. Couplet, Catalogus Patrum SocietatisJesu qui post obitum S.Francisci Xaverii primo saeculo sive ab anno 1581 usque ad 1681 in Imperio Sinarum Jesu Christi fidem. Propagarunt, Paris 1686, pp. 12-13; Menologio di pie memorie d’alcuni religiosi della Compagnia di Gesù raccolte dal Padre Giuseppe Antonio Patrignani della medesima Compagnia e distribuite per quei giorni dell’anno, ne’ quali morirono. Dall’anno 1538. Fino al 1728. Tomo I, che contiene gennajo febbrajo, e marzo, Venezia, Niccolò Pezzana, 1730, pp. 51-52; H. Cordier, L’imprimerie sinoeuropéenne en Chine : bibliographie des ouvrages publiés en Chine par les européens au XVIIe et au XVIIIe siècle / par M. Henri Cordier, Parigi, Imprimerie Nationale, 1901, p. 41 e pp. 51-52; P.M.Ricci S.J., Relacao escripta pelo seu companheiro P.Sabatino De Ursis S.J. publicacao commemorativa do Terceiro Centenario da sua morte (II de maio de 1910) mandada fazer pela Missao Portoguesa de Macau, Roma, Tipografia Enrico Voghera, 1910; L.Pfister, Notices Biographiques et Bibliographiques sur les Jésuites de l’Ancienne Mission de Chine, Xangai, 1932-1934, passim, pp. 103-105; L. G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti, Vol.I, Lecce, Gaetano Campanella, 1874, p. 56; Opere storiche del P.Matteo Ricci S.I., a cura di Pietro Tacchi Venturi, Macerata, Tipografia F.Giorgetti, 1913, Volume II, p. 58; G. Barrella, I Gesuiti nel Salento Appunti di storia religiosa da documenti editi ed inediti pubblicati in occasione del III Centenario dalla morte del B. Bernardino Realino apostolo e compatrono di Lecce (1616-1916) Parte prima, Lecce, Tipografia Giurdignano,1918, pp. 71-72; Idem, La Compagnia di Gesù nelle Puglie, 1574-1767, 1835-1940, Lecce, Tipografia Ed. Salentina, 1941, p. 81; Storia  dell’introduzione del Cristianesimo in Cina scritta da Matteo Ricci S.I. nuovamente edita ampiamente commentata col sussidio di molte fonti inedite delle fonti cinesi da Pasquale M. D’Elia S.I.,Parte II, Libri IV-V, Da Nancian a Pechino (1597-1610-1611), Roma, La Libreria dello Stato,1949, p. 387; G. Ruotolo, Ugento Leuca Alessano Cenni storici e attualità, Siena Cantagalli, 1952, p.7; J.Wicki, Liste der Jesuiten-Indienfahrer:1541–1758, Münster Aschendorff, 1967, pp. 283-284; J. Dehergne S.J., Répertoire des Jésuites de Chine, de 1542 à 1800, Biblioteca Instituti Historici S.I. Volumen n.37, Roma, 1973, p. 75; J. F. Schutte, Monumenta Missionum Societas Iesu, Vol. XXXIV, Missiones Orientales, Monumenta Historica Japoniae I, Textus Catalogorum Japoniae 1549-1654, Roma, 1975, passim; Dictionary of Ming Biography 1368-1644 L.Carrington Goodrich, Editor, Chaoyng Fang, Associate Editor, Volume II, M-Z, Columbia University Press, New York and London, 1976,pp. 1331-1332; F. Iappelli, I gesuiti nel Salento 1574 -1767, in «Societas», n.4-5, 1992, p.112; U. Baldini, Saggi sulla cultura della Compagnia di Gesù (secoli XVI-XVIII), Padova, Cleup Editrice, 2000, p. 94; G. Ricciardolo, Oriente e Occidente negli scritti di Matteo Ricci, Napoli, Chirico, 2003, p.164; G. Spagnolo, Xion Sanba. Sabatino de Ursis, un gesuita salentino alla corte di Pechino, in «Il Bardo», a.XX, n.1, Copertino, dicembre 2010, p. 4; ecc.

[15]Per un’analisi complessiva della figura e dell’operato di Xu si rinvia a: Statecraft and Intellectual Renewal in the Late Ming: The Cross-Cultural Synthesis of Xu Guangqi (1562-1633), a cura di Catherine Jami, Peter Engelfriet, Gregory Blue, Leiden, Brill, 2001. Specificamente, in questo volume: A. Dudink, The image of XU Guangqi as author of christian texts ( a bibliographical appraisal), a p.100 cita L’Idraulica e Sabatino de Ursis; F. Bray, G. Metailiè, Who was the author of  the nongzheng quanshu ?, pp. 322-359, per un’analisi del “Nongzheng quanshu”; e A. Dudink, Xu  Guangqi’s carreer: an annotaded chronology, pp. 399-409, per la biografia di Xu. Su quest’ultimo aspetto si veda anche R. Stone, Scientists Fete China’s Supreme Polymath, in «Science», Vol. 318, 2 novembre 2007, p. 733.

[16] P. Couplet, Catalogus Patrum Societatis Jesu qui post obitum S.Francisci Xaverii primo saeculo sive ab anno 1581 usque ad 1681  in Imperio Sinarum Jesu Christi fidem Propagarunt  Paris 1686, pp. 12-13.

[17] M. Cigola, Y.Fang, Preliminary study of the work of Xu Guangqi in the technical knowledge in 17th century: from the perspective of drawing and representation, in IFToMM Workshop on History of Mechanism and Machine Science May 26-28 2015, St-Petersburg, Russia, p. 3

https://www.academia.edu/12604535/Preliminary_study_of_the_work_of_Xu_Guangqi_in_the_technical_knowledge_in_17th_century_from_the_perspective_of_drawing and_representation

[18] https://heron-net.be/pa_cct/index.php/Detail/objects/3273

[19] Copia digitalizzata in World Digital Library. https://www.wdl.org/en/item/13534/#q=sabatino+de+ursis.  Inoltre si vedano: A. Dudink, The Chinese Christian books of the former Beitang Library, in «Sino-Western cultural relations journal», Dept. of History, Baylor University, Waco, TX, USA, n.26, 2004, p.56; A. Chan, Chinese Books and Documents in the Jesuit Archives in Rome. A descriptive catalogue: Japonica Sinica I-IV, M.E.Sharpe, Amonk, New York, 2002, pp. 366-367 (Arsi, JAP.Sin. II, 61). “It is a manuscript made by six volumes (Jian卷) written on bamboo paper with a paper case. There is no date on, the cover bears a label with the title in Chinese and a Latin inscription: «Hydraulica | a p.Sabbathino | de Ursis, S.J»” : M. Cigola, Y.Fang,  op.cit., p. 3. Per la copia conservata presso la Biblioteca Nazionale di Francia: https://catalogue.bnf.fr/ark:/12148/cb445839431.

[20] Y. Dong, Catalogo delle opere cinesi missionarie della Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1996, che contiene 487 titoli di opere missionarie datate dal secolo XVI al secolo XVIII e comprende “documenti, manoscritti e a stampa che riguardano le attività missionarie in Cina in età moderna: testi di missionari europei, ma anche di scritti dei loro collaboratori cinesi”: p.II. Tra le opere di Sabatino, viene indicata l’Idraulica: “Ursis, Sabatthinus , de,  Tai  xi  shu fa in   Barb. Oriente 142 ( 1-2 ); R.G. Oriente. III. 227 (5)”, p. 98; “ LI Zhizao  Tian  xue  chu  han (Prima collezione delle discipline  celesti)  1 ed  a Beijing ? 1629 -1630, Barb. Oriente. 146  142-143”,  p. 116; “Nong Zheng quan Shu  Enciclopedia Agricola 1 ed a Beijing 1640  R.G. Oriente. III. 1 195 “, p. 124.

Altre copie sono conservate presso la Biblioteca di Shanghai. Si veda: A. Dudink,  The Zikawei 徐家匯 manuscript copy (1885) of Wang Zheng’s Renhui yue 仁會約 (1634) [revised, with footnotes], in «Sino-Western cultural relations journal»,  Dept. of History, Baylor University, Waco, TX, USA, n.36, 2014, pp. 14-24; Idem, The rediscovery of a seventeenth-century collection of Chinese Christian texts: The manuscript ’Tian xue ji jie’,in «Sino-Western cultural relations journal», cit., 15, 1993, pp.1-26. La Biblioteca di Shanghai sorge dove c’è stato l’ultimo collegio dei Gesuiti e dove ha insegnato il prof. Pasquale D’Elia. Shanghai ha dato anche i natali a Xu Guangqi, che è sepolto nel quartiere cattolico di Zikawei. L’insediamento gesuita di Zikawei  fu fondato nel 1847 quando il superiore gesuita, P. Claude Gotteland, ordinò a Padre Lemaitre di acquistare la proprietà a quattro miglia fuori dalla città di Shanghai adiacente al luogo di sepoltura dell’eminente studioso. Un ramo della famiglia di Xu era rimasto fedele ai cattolici per anni e aveva costruito una piccola cappella su questa proprietà in un sito chiamato appunto Zi-ka-wei (letteralmente “villaggio della famiglia Xu”). Si consultino: D. E. MungelloDrowning Girls in China Female Infanticide since 1650, Lanham, Md, Rowman & Littlefield Publishers, 2008, p.90; G. King, The Xujiahui (Zikawei) Library of Shanghai, in  «Libraries & Culture», University of Texas PressStable ,Vol. 32, n. 4, 1997, pp. 456-469.

[21] https://www.wdl.org/en/item/13534/#q=DE+URSIS+ .

[22] Come riportato da Standaert, l’arrivo di testi di idraulica, di autori come Zonca, Ramelli, ecc., risale al 1618 ed è quindi posteriore alla pubblicazione del trattato di de Ursis: N. Standaert, The transmission of Renaissance culture in seventeenth-century China, in «Renaissance Studies »Vol. 17 n.3, 2013, pp. 367-391. Sullo stesso argomento, R. André, J. Filliozat, Une bibliothèque de la Renaissance en Chine, in «Bulletin de l’Association Guillaume Budé», n.3, octobre 1953, pp.113-125; e ancora I. Iannaccone, Johann Schreck Terentius. Le scienze rinascimentali e lo spirito dell’Accademia dei Lincei nella Cina dei Ming, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 1998, pp. 63-64.

[23]G. Aleni, Vita del Maestro Ricci Xitai del Grande Occidente, a cura di Gianni

Criveller, Brescia, Centro Giulio Aleni, 2010, p. 167. Fra i correttori, anche Zhang Nai: T. Meynard SJ, The Jesuit Reading of Confucius The First Complete Translation of the Lunyu (1687) Published in the West, Brill Leiden, Boston, 2015, p. 43.

[24] E. Giunipero, Fede religiosa e ideali politici in Xu Guangqi alla luce della persecuzione di Nanchino, in Un cristiano alla corte dei Ming Xu Guangqi e il dialogo interculturale tra Cina e Occidente, a cura di Elisa Giunipero, Milano, Guerini e Associati, 2013, p. 167.

[25] M. Cigola, Y.Fang, Preliminary study of the work of Xu Guangqi in the technical knowledge in 17th century: from the perspective of drawing and representation, in IFToMM Workshop on History of Mechanism and Machine Science May 26-28, 2015, St-Petersburg, Russia, 2015, p. 2 https://www.academia.edu/12604535/Preliminary_study_of_the_work_of_Xu_Guangqi_in_the_technical_knowledge_in_17th_century_from_the_perspective_of_drawing_and_representation.  Inoltre si veda: L. A. Maverick, Hsü Kuang-Ch’i, a Chinese Authority on Agriculture,  in  «Agricultural History, American Historical Association», Vol. 14, n. 4, 1940, pp. 143-160.

[26] G. Bertuccioli, SABATINO DE URSIS, in Dizionario Biografico Degli Italiani, Torino, Treccani, 1991, p. 499. B. Zhang, M. Tian, Wang Zheng (1571–1644), in  Distinguished Figures in Mechanism and Machine Science Their Contributions and Legacies, Part 2, a cura di Marco Ceccarelli, Springer Science e Business Media B.V., 2010, pp. 247-260.  A p.254, il libro riporta che l’opera fu pubblicata fra il 1781 e il 1782.

Edizioni moderne del Tianxue chuhan nel 1965: Tianxue chuhan [Fondamenti di astronomia], [annotato da] Li Zhizao, Taipei, Taiwan xuesheng shuju, 6 volumi,1965; del Siku quanshu zongmu tiyao nel 1997: Siku quanshu zongmu tiyao [Catalogo generale con annotazioni della ‘Biblioteca completa dei quattro depositi’], [edizione rivista a cura di] Lu Guangming, Beijing, Zhonghua shuju, 2 volumi, 1997; del Nongzheng quanshu jiaozhu nel 1979 e 1994: Nongzheng quanshu jiaozhu  [Edizione annotata del ‘Trattato completo sull’amministrazione agricola’], [compilato da] Xu Guangqi, [a cura di] Shi Shenghan, Shanghai, Shanghai guji chubanshe, 3 volumi, 1979; Nongzheng quanshu [Trattato completo di amministrazione agricola], [compilato da] Xu Guangqi, in Zhongguo kexue jishu dianji tonghui. Nongxue juan [Raccolta di testi sulla scienza e la tecnologia cinesi. Agricoltura], [a cura di] Fan Chuyu, Zhengzhou, Henan jiaoyu chubanshe, 5 volumi,1994. Il Bertuccioli dice che l’opera Tianxue chu han ha avuto un’ulteriore ristampa in sei volumi nel 1966 a Taipei e venne poi ristampata a Shanghai nel 1843: G. Bertuccioli, Sabatino De Ursis, in op.cit., pp. 498-499.

[27] Z. Xiaohong, Le opere di carità di Xu Guangqi e il loro fondamento teologico, in Un cristiano alla corte dei Ming Xu Guangqi e il dialogo interculturale tra Cina e Occidente, a cura di Elisa Giunipero, Milano, Guerini e Associati, 2013, pp. 154-156.

[28] Si veda M. Fontana, Matteo Ricci un gesuita alla corte dei Ming, Milano, Mondadori 2005, pp. 290- 291.

[29] Arsi, Jap.-Sin., 14 ff.347v. – 348r, riportato in P. M. D’elia S.J., Galileo in Cina. Relazioni attraverso il Collegio Romano tra Galileo e i gesuiti scienziati missionari in Cina (1610-1640), Roma, Pontificia Università Gregoriana, 1947, pp. 30-31.

[30] L. M. Brockey, Journey to the East: the Jesuit mission to China, 1579-1724, Cambridge, Belknap Press of Harvard University Press, 2007, pp. 75-76.

[31] U.Baldini, The Jesuit College in Macao as a meeting point of the European, Chinese and Japanese mathematical traditions. Some remarks on the present state of research, mainly concerning sources (16th–17th centuries),  in The Jesuits, the Padroado and East Asian science (1552-1773),  a cura di Luís Saraiva e Catherine Jami, Singapore, Hackensack, NJ, World Scientific, 2008, p. 47. A p.48, nota 47, viene riportato un estratto della lettera.

[32] D. Shi-ran, La science sous les dynasties Ming et Qing :les contacts entre les civilisations chinoise et occidentale, in Regards historiques sur sciences II, n.160, 1990, Unesco, pp. 397-404.

[33] Ivi, p. 400. Nella stessa pagina fa un elenco dei gesuiti, tra cui de Ursis.

[34] M. Paolillo, Il giardino cinese: una tradizione millenaria, Milano, Guerini e Associati, 2007, p. 20. L’origine della stessa città di Pechino è connessa alla figura mitologica di Zeha “collegato al tema della regolamentazione dell’elemento acqueo”: M. Paolillo, Un ragazzo venuto da lontano. Origine, fortuna e ruolo nel simbolismo spaziale di Pechino, in La Cina e il mondo Atti dell’XI convegno dell’Associazione italiana Studi Cinesi Roma, 22- 24 Febbraio 2007, a cura di Paolo De Troia, Università La Sapienza Roma Edizioni Nuova Cultura Roma, 2010, p. 417.

[35] D. Latini, Yu il Grande: biografia di un mito Ricostruzione e interpretazione simbolica del mito delle acque debordanti, tesi di Laurea (relatore Prof. Riccardo Fracasso), Università Ca Foscari Venezia, Anno accademico 2013/2014.

[36] D. Guida, Xu Guangqi e la ricostruzione della legittimità della dinastia Ming attraverso il pensiero occidentale, in Un cristiano alla corte dei Ming, cit., p. 93. Per le edizioni moderne delle opere di Xu: Xu Guangqi zhuyi ji, Scritti vari e opere tradotte di Xu Guangqi, [compilato da] Shanghaishi Wenwu Baoguan Weiyuanhui, Shanghai, Shanghai guji chubanshe,1983; Xu Guangqi ji, Opere complete di Xu Guangqi, [edito da] Wang Chongmin, Shanghai, Shanghai guji chubanshe, 2 Voll., 1984.

[37] D. Lambertini, La fortuna delle macchine senesi nel Cinquecento, in Prima di Leonardo Cultura delle macchine a Siena nel Rinascimento, a cura di Paolo Galluzzi, Milano, Electa,1991 pp. 135-146.

[38] Ivi, p. 137.

[39] Ivi, p. 94.

[40] L.Tiangang, L’armonia religiosa sulla “Via della Seta marittima”: il dialogo tra Confucianesimo e Cristianesimo, in Uomini e religioni sulla Via della Seta, a cura di Elisa Giunipero, Milano, Guerini e Associati, 2017, p. 113.

[41] Il concetto viene rafforzato da Y. Liu, The Complexities of a New Faith: Xu Guangqi’s Acceptance of Christianity in «Journal of Religious History», Religious History Association Vol. 37, n. 2, June 2013, pp. 228 -244. Specificamente a p. 236,Yu Liu dice: “In a preface to Sabatino de Ursis (1575–1620)’s treatise Taixi Shuifa [Western Irrigation], Xu famously summarised the relationship of Christianity with his native belief as supplementing Confucianism and repudiating Buddhism (buRu yiFo).”

[42] M. Cigola, Y.Fang, op.cit., p. 3.

[43] Si veda Z. Baichun, T.Miao, Wang Zheng and the Transmission of Western Mechanical Knowledge to China, in Transformation and Transmission: Chinese Mechanical Knowledge and the Jesuit Intervention, a cura di Zhang Baichun e Jürgen Renn, Max Planck Institute for the History of Science, Berlino, 2006, p.81. Si veda anche K-H. Hsiao, H –S. Yan, Mechanisms in Ancient Chinese Books with Illustrations, Springer, 2014, dove a p.116 si dice che de Ursis introduce la vite di Archimede  e a p.118 si riportano le illustrazioni.

[44] M. Cigola, Y.Fang, op.cit., p. 3.

[45] “«Why did modern science, the mathematization of hypotheses about Nature, with all its implications for advanced technology, take its meteoric rise only in the West at the time of Galileo? … why modern science had not developed in Chinese civilization (or Indian) but only in Europe? » This question was sharpen by his realization that «between the first century B.C. and the fifteenth century A.D., Chinese civilization was much more efficient than occidental in applying human natural knowledge to practical human needs»”: J. Needham, The Grand Titration: Science and Society in East and West, Toronto, University of Toronto Press, 1969, pp. 16 e 190.

[46] E.Bautista Paz, M. Ceccarelli, J. Echávarri Otero, J. L.Muñoz Sanz, A Brief Illustrated History of Machines and Mechanisms, in «History of Mechanism and Machine Science», Volume 10,Springer, 2010, p. 20.

[47] Ivi, pp. 19-20.

[48] M. Cigola, Y.Fang, op. cit., p. 4. A proposito delle invenzioni di Archimede, si rimanda a: Z. Baichun et Al., Archimedean Mechanical Knowledge in 17th Century China, in The Genius of Archimedes – 23 Centuries of Influence on Mathematics, Science and Engineering   Proceedings of an International Conference held at Syracuse, Italy, June 8-10, 2010,  a cura di S. A. Paipetis e M. Ceccarelli, Springer  2010, pp.189-205; Z. Baichun, Mechanical Technology, in A History of Chinese Science and Technology, a cura di Yongxiang Lu, Vol.3 Springer, pp. 277-384.

[49] E. Corsi, Missionari, saperi e adattamento tra Europa e imperi non cristiani. Atti del Seminario (Macerata 14 maggio 2013), a cura di Vincenzo Lavenia e Sabina Pavone, Macerata, Edizioni Eum, 2015, pp. 78-79.

[50] Ivi, p. 81.

[51] Ivi, p. 82.

[52] Le diverse et artificiose machine del capitano Agostino Ramelli dal Pnte Della Tresia Ingegniero del Christianissimo Re di Francia e di Pollonia. nelle quali si contengono varij et industriosi movimenti, degni di grandissima speculatione, per cavarne beneficio infinito in ogni sorte d’operatione: composte in lingua Italiana et Francese a Parigi in casa dell’autore, co. privilegio del re 1588. Con riferimento allo studio della Cigola, un’altra fonte è: B. S. Hall e A. Ramelli, A Revolving Bookcase by Agostino Ramelli, in « Technology and Culture», Vol. 11, n. 3, Jul., 1970, pp. 389-400, in cui si  nomina anche de Ursis alla nota 17, p. 395. E inoltre P. JIxing, The Spread of Georgius Agricola’s De Re Metallica in Late Ming China, in  T’oung Pao, Vol. 77, Liv.1/3,  Brill, Leiden, 1991, pp. 108 -118.  Si veda inoltre L. Reti, Leonardo and Ramelli, in « Technology and Culture», The Johns Hopkins University Press,Vol. 13, n. 4, Oct.,1972, pp. 577-605.

[53] A. Tamburello, La cultura occidentale nel Giappone Tokugawa: Parte I: Gli sviluppi del nanbangaku e l’apporto attraverso la Cina, in «Il Giappone», Vol. 19, IsIAO, Roma, 1979, p. 147. Notizie biografiche su Li Zizao e Xu Guangqi, con riferimento all’Idraulica, in A. W.Hummel, Eminent Chinese Of The Ch’ing Period 1644-1912 Vol.I  The Library of Congress Washington, 1943, in cui alla voce Hsu  Kuang -ch’I, a cura di J.C. Yang, pp.316-318, si parla di de Ursis e dell’Idraulica; alla voce Li Chih- tsao, a cura di P. Y. Teh-Lu e J.C. Yang, pp. 452-454, si parla di de Ursis precisamente a p. 453; e ancora K. Hashimoto, Hsu Kuang-ch’i and Astronomical Reform:The Process of the Chinese Acceptance of Western Astronomy 1629–1635, Kansai, Japan, Kansai University Press, 1988, dove a p.16 si parla dell’Idraulica. Inoltre, sempre sull’Idraulica cinese, si veda il già citato: E.Bautista Paz, M. Ceccarelli, J. Echávarri Otero, J. L.Muñoz Sanz, A Brief Illustrated History of Machines and Mechanisms, Springer, Science + Business Media B.V., 2010, in particolare al Cap 2, Chinese Inventions and Machines On Hydraulic Machinery, pp. 26 -32. Per un’analisi storica della tecnologia sulle macchine nell’Idraulica, si rinvia a C. Rossi, F.Russo, F. Russo, Ancient Engineers’ Inventions Precursors of the Present, Springer, 2009, pp. 81-148, in particolare per la vite di Archimede (nota in Cina come “la coda del drago”), p. 101. Inoltre, P. Palmieri, Breaking the circle: the emergence of Archimedean mechanics in the late Renaissance, in « Archive for History of Exact Sciences», Vol. 62, n. 3, Springer, May 2008, pp. 301-334.

[54] Si veda: D. L. Baker, Jesuit Science through Korean Eyes, in « Journal of Korean Studies Contents», Vol. 4, 1982-83, University of Washington Center for Korea Studies, 1982, pp. 207-239 (viene citato de Ursis alla nota 11, p. 210 ); Idem, The Seeds of Modernity: Jesuit Natural Philosophy in Confucian Korea,  in « Pacific Rim Report », n. 48, August 2007.

Sull’impatto delle macchine di de Ursis si veda  S. Kink, MA, Beistand für die Himmlischen Kräfte: Pumpentechnik, in Sabatino de Ursis’ Taixi shuifa 泰西水法 (Hydromethoden des Großen Westens, 1612), https://www.georgius-agricola.de/downloads.html L’articolo presenta vari estratti dell’Idraulica che risulta così essere non un semplice trattato ma una summa della fisica aristotelica appresa da de Ursis nel Collegio di Coimbra, soprattutto con riferimento all’effettivo uso che delle macchine idrauliche viene fatto, per esempio in Giappone.

[55] D. Bartoli, Delle Opere del Padre Daniello Bartoli della Compagnia di Gesù Volume XVII Della Cina Libro III, dalla Tipografia di Giacinto Marietti, Torino 1825, pp.15-18; nell’edizione originale secentesca, pp. 545ss. Recentemente è stata pubblicata una nuova edizione dell’opera di Bartoli: D. Bartoli, L’Asia Istoria della Compagnia di Gesù, a cura di Umberto Grassi Introduzione a cura di Adriano Prosperi Contributi di Elisa Frei, Torino, Einaudi, 2019.

[56] Si riferisce a Padre Giovanni Andrea Giordano, anch’egli matematico e missionario in Cina che morì a Nanchino nel 1613.

[57] S. Santagata, Istoria della Compagnia di Gesù appartenente al Regno di Napoli, descritta dal P. Saverio Santagata della medesima Compagnia dedicata a sua Eminenza Il Signor Cardinale Antonino Sersale, Arcivescovo di Napoli, Parte Quarta, Napoli, Stamperia Vincenzo Mazzola, 1757, pp. 177-178.

[58] Il progetto“Translating Western Science, Technology and Medicine to Late Ming China: Convergences and Divergences in the Light of the Kunyu gezhi 坤輿格致 (Investigations of the Earth’s Interior, 1640) and Taixi shuifa 泰西水法 (Hydromethods of the Great West, 1612),” dal 2018 al 2021, finanziato dalla German Research Foundation (DFG), sotto l’egida dell’Unesco.

[59] Per il contributo di Leonardo sull’idraulica, si veda anche L. Reti, The Leonardo da Vinci Codices in the Biblioteca Nacional of Madrid, in «Technology and Culture»,  Vol. 8, n.4, Oct.,1967, pp. 437-445.

[60]F. Rosati, L’Islam in Cina Dalle origini alla Repubblica Popolare, Roma, L’asino d’oro edizioni, 2017, passim.

[61] Ivi, p. 37.

[62] Si veda: J. Goody, Rinascimenti. Uno o molti?, Roma, Donzelli, 2010, passim.

[63] Si veda J. Needham, Science and Civilisation in China, Vol. 4: Physics and and Physical Technology, Part. II Mechanical  Engineering, Cambridge University Press,1965, passim.

Libri| Saturae, di Paolo Vincenti

Giovedi 3 novembre 2022, presso il Circolo Culturale G. D’Annunzio di Casarano, si dialoga con i Classici greci e latini in una serata che si preannuncia coinvolgente e unica nel suo genere. “Ad animarla lo scrittore ricercatore e poeta Paolo Vincenti, autore di un raro e prezioso libretto dal titolo Saturae (Agave Edizioni), inequivocabile ed esplicito richiamo a un genere letterario tanto antico quanto immortale, con il quale i Classici Romani (da Lucilio a Orazio) e ancora prima i Classici Greci(da Archiloco ad Ipponatte), hanno lasciato ai posteri una grande lezione di realismo, di ironia e, diremmo oggi, di resilienza, nei confronti delle contraddizioni del quotidiano, delle ingiustizie e delle deviazioni del vivere civile.

Paolo Vincenti, con un personale stile colto e sarcastico, si ispira ai Classici con dovizia di citazioni e acuti riferimenti, per sferzare con le sue esilaranti Saturae personaggi e situazioni del mondo di oggi. E lo fa con risultati eccellenti, non solo sul piano della scrittura, ma anche della performance e del teatro. Senza infingimenti e ipocrisie, trascinando il lettore-spettatore in un vortice di piacevoli e spassose considerazioni e riflessioni”. (Anna Stomeo)

 

 

dalla prefazione di Patrizia Morciano

Che cosa si può dire di più adatto a questa silloge poetica di Paolo Vincenti se non che, ancora una volta, l’autore ci restituisce una classicità riattualizzata? L’avevo scritto a proposito di Al mercato dell’usato (Agave Edizioni, 2020) e lo riconfermo per questa raccolta: Paolo Vincenti ha la capacità di far rivivere il mondo della letteratura greca e latina, di declinarlo nei tempi della nostra postmodernità, a riprova della sua perenne attualità. E se nella precedente raccolta era salito sul terreno arduo del mito ed era riuscito nell’impresa di riportarlo fra di noi, qui scende su quello scabroso e perciò altrettanto difficile della satira, solo apparentemente meno impegnativo (lo riconosceva già Orazio nel decimo componimento del suo primo libro di Saturae).

Satura quidem tota nostra est, diceva orgogliosamente Quintiliano in età imperiale, alludendo all’origine tutta romana di quel genere caratterizzato, fin dall’età arcaica e dalla satira letteraria di Lucilio (III sec.a. C.), dalla varietà dei contenuti e dall’interesse rivolto al quotidiano, al domestico, al contemporaneo, al deviante da norme ideali di comportamento. Ma i Romani sapevano benissimo che le premesse di quella poesia stavano anch’esse nel mondo greco, nella commedia antica come in certi giambi di Archiloco, Ipponatte e di altri autori dell’età arcaica (ancora una volta è Orazio che ce ne esprime la consapevolezza nelle sue due satire di argomento letterario, la IV e la X del primo libro). Anche della lezione di questi tiene dunque conto la penna colta di Paolo Vincenti, soprattutto in quei testi in cui sembra di sentire l’eco dell’aggressività giambica (L’onorevole La Minchia, Vot’Antonio!, Cave canem, Mezzosangue).

Ma in questo libretto, a proposito di echi, riaffiorano anche quelli delle forme artistiche preletterarie che sono certamente alle origini della stessa commedia antica e, in genere, di tutte le espressioni artistiche successive fondate sul ridiculum e sulla comicità, com’è appunto la satira: certa licenziosità se non addirittura oscenità di alcuni dei testi presenti nella raccolta (si pensi, tanto per fare qualche esempio, a Palinodia, a Nuova edizione, vecchio vizio, a Una pezza a colore, che ha un seguito ancora più licenzioso in Chi è causa del suo mal…) rinvia, infatti, non solo a Catullo o all’Orazio, per esempio, degli Epodi, ma anche alle feste rituali greche delle “Falloforie” in cui feticci dell’organo sessuale maschile venivano portati in processione, con l’accompagnamento di canti osceni, o ai fescennini versus, versi licenziosi scambiati nella Roma contadina delle origini, sempre con funzione apotropaica e dunque recitati durante feste rituali nei campi o durante matrimoni, per garantirsi il favore della divinità. Ovviamente anche nei versi dell’autore moderno non c’è morbosità, ma lusus, il gusto di ricollegarsi a quest’antica tradizione

Le Saturae di Paolo Vincenti sono dunque come ponti a grandi arcate che ci riportano alle scaturigini della poesia occidentale…

Rocco Coronese, nel ventennale della scomparsa

di Paolo Vincenti

La 24esima Edizione di “Identità Salentina”, organizzata dalla sezione Sud Salento di Italia Nostra, quest’anno è stata dedicata a Rocco Coronese, nel ventennale della scomparsa. “Ricordando Rocco Ricercando l’arte per la bellezza del territorio”: questo il titolo della manifestazione, voluta dal professor Marcello Seclì, già presidente della sezione Sud Salento di Italia Nostra.

La rassegna, che si svolge a Parabita, è partita il 17 settembre e si protrarrà fino al 16 ottobre, ed è patrocinata da: Comune di Parabita, Provincia di Lecce, Consiglio Regione Puglia, Camera di Commercio di Lecce, Università del Salento, Accademia Belle Arti di Lecce, Istituto Superiore “Giannelli” di Parabita, Confartigianato Imprese Lecce e Banca Popolare Pugliese.

Rocco Coronese è un parabitano illustre ed è per questo che la sua città natale ha voluto rendergli omaggio. Rocco Coronese era nato a Parabita, nel 1931. Aveva iniziato la sua attività come pittore, frequentando, negli anni Cinquanta, gli ambienti artistici romani. Dalla fine degli anni Sessanta, aveva iniziato l’attività di scultore che lo aveva portato ad esporre nelle maggiori città italiane. Sono numerose le manifestazioni organizzate da Coronese in spazi aperti, come a Roma, Lecce, Parabita, seguendo l’innovativo progetto di valorizzare, attraverso questi eventi artistici, anche i luoghi che li ospitavano e la loro storia. Parallelamente all’attività artistica egli portò avanti l’attività didattica: insegnante di grafica pubblicitaria all’Accademia di Belle Arti di Lecce e, in seguito, di Plastica ornamentale all’Accademia di Belle Arti di Frosinone, di cui era anche Direttore. Tenne prestigiose collaborazioni con la Rai, con il Coni, con il Comune di Roma, dove ha vissuto per molti anni, e con diversi Enti Pubblici. Realizzò marchi per importanti aziende, tra cui la nostra Banca Popolare Pugliese.

A Roma fece molte amicizie, come quella con Vittorio Bodini, quella con Cesare Zavattini. Coronese è morto nel 2002 a Frosinone ed è sepolto nel cimitero di Parabita.

Un sentito omaggio all’arte del creativo, venne reso con il libro Rocco Coronese, per opere, per luoghi, per parole, pubblicato dal Comitato “Gli amici di Rocco Coronese”, già nel 2012, in occasione del decennale della scomparsa. Patrocinato dal Comune di Parabita, da Provincia di Lecce, Presidenza Giunta Regionale, Università del Salento, Accademia Belle Arti di Lecce, Liceo Artistico “Giannelli” di Parabita, e sostenuto finanziariamente da Banca Popolare Pugliese, il libro, curato da Marcello Seclì, con l’Introduzione del professore Luigi Scorrano, ripercorreva la carriera del Maestro attraverso la pubblicazione dei cataloghi delle sue mostre. Ora il ventennale della morte offre una nuova occasione di approfondire la figura di Rocco Coronese come artista ed operatore culturale, con particolare riferimento alla sua città dove ha lasciato testimonianze importanti ed indelebili.

La rassegna dedicata a Coronese da Italia Nostra prevede una serie di mostre, convegni, incontri, in un programma molto articolato di cui si dà notizia sui pieghevoli di presentazione e nei manifesti e nelle locandine affissi e distribuiti per la città.

Nella inaugurazione di sabato 17 settembre, coordinati dallo studioso Paolo Vincenti, hanno preso la parola Mario Fiorella, presidente di Italia Nostra Sud Salento, l’organizzatore Marcello Seclì, già allievo e amico di Rocco Coronese, la studiosa Federica Coi, laureata in Beni Culturali, che ha parlato del nuovo volume edito da Italia Nostra, Rocco Coronese. Ricerche e mostre in memoria di un maestro, che si basa proprio sullo studio condotto dalla dottoressa Coi nelle sue attività di ricerca sul percorso artistico di Coronese.

È seguito poi l’intervento del professore Massimo Guastella, docente di Storia dell’arte contemporanea presso l’Università del Salento, che si è soffermato sulla figura e sulla carriera di Coronese. Le iniziative collocate in questa edizione di Identità Salentina, come scrive Marcello Seclì nella brochure di presentazione, “non hanno alcuna ritualità commemorativa, ma sono dettate dalla volontà di perseguire nel solco che Rocco ha tracciato quegli obiettivi di crescita culturale e di tutela del territorio attraverso percorsi pedagogici e creativi dell’arte”.

La manifestazione si articola in due mostre. “In memoria di Rocco Coronese. 20 artisti per il ventennale”, che si tiene nei locali di Via Piave, vede la partecipazione di venti artisti salentini che hanno conosciuto personalmente o hanno collaborato con Coronese e che hanno accolto l’invito di Italia Nostra ad omaggiare il maestro con una loro opera; essi sono: Franco Contini, Antonio De Salve, Enzo Fasano, Marcello Gennari, Antonio Greco, Sandro Greco, Giuseppe Lisi, Laura Manieri, Giusy Palma, Carmelo Piccinno, Cesare Piscopo, Vito Russo, Marcello Seclì, Luigi Sergi, Fernando Schiavano, Francesco Spada, Salvatore Spedicato, Cosimo Damiano Tondo, Rita Tondo, Franco Ventura.

La seconda mostra è “Manifesti per l’Arte. L’arte nei manifesti”, che si svolge a Villa Colomba, riprende l’iniziativa del 2002 e si rifà alla grande passione del maestro Coronese per l’arte del manifesto. L’idea di raccogliere dei manifesti e di creare uno spazio apposito per contenerli era venuta a Rocco sul finire degli anni Settanta e, nel 1982, aveva realizzato questo ambizioso ed innovativo progetto, con l’apertura del Centro di attività per la comunicazione-Museo del Manifesto a Parabita che, oggi, conta più di 70.000 pezzi. Purtroppo l’attività del Museo, a Parabita, si arrestò nel 1987, a causa di problemi logistici, ma Coronese continuò ad organizzare eventi nel parallelo Museo del Manifesto di Ferentino, in provincia di Frosinone, la città in cui egli risiedeva.

Nel 2002, l’Amministrazione di Parabita destinò al Museo un’ala di Palazzo Ferrari e da giugno a settembre di quell’ anno, si è tenne la 1° Mostra tematica, “L’Arte nei Manifesti”, ma ancora una volta le attività del centro si arrestarono. La sezione Sud Salento di Italia Nostra però ha continuato a raccogliere materiale delle più svariate provenienze e ad oggi la collezione consta di oltre 5000 pezzi italiani e stranieri. Ed ora questa ulteriore raccolta di manifesti viene resa pubblica. Gli orari delle mostre sono: 10-12.30 e 16.30-19, escluso il lunedi mattina. Nella serata del 17 settembre, era purtroppo assente il critico d’arte Toti Carpentieri, che avrebbe proprio dovuto illustrare la nuova raccolta di manifesti.  Durante la serata, Marcello Seclì ha poi omaggiato tutti i presenti di una plaquette nella quale è riportato un disegno di Coronese, “Un albero per il Salento”, dedicato ad Italia Nostra, associazione di cui era membro, ed una significativa poesia intitolata “Verde”, già pubblicata in un volume del 1992, Noi, il tempo, le immagini – Album di vita parabitana, edito dal Centro di Solidarietà Madonna della Coltura e Italia Nostra. Sabato 8 ottobre 2022 si terrà a Villa Colomba la tavola rotonda “Forme e funzioni dell’opera d’arte nel XXI secolo”.

Sabato 15 ottobre invece presso il Teatro Carducci, sempre a Parabita, si svolgerà il convegno “L’istruzione artistica e il suo ruolo per la bellezza del territorio”. Interverranno varie personalità del mondo dell’arte, della formazione, delle istituzioni e della cultura in genere. Domenica 16 ottobre la serata conclusiva della manifestazione, presso il Teatro Carducci, “Il polo delle arti nel Sud Salento”, con proiezione di docufilm, interventi di esperti e concerto degli studenti del Liceo musicale “Giannelli”.

Scrivono gli amici, nel volume del 2012 Rocco Coronese, per opere, per luoghi, per parole: “semplice e diretto Rocco Coronese sapeva coinvolgere, sapeva dare e domandare il giusto per nobili fini. Egli riusciva ad affascinare con la sua capacità di stare fra la gente, semplicemente. Pur essendo mancato per alcuni anni, ad ogni suo ritorno si sentiva a casa più di tanti che erano rimasti. Di fatto non si era mai allontanato da quella cultura orgogliosamente sua, suo punto di forza. Parabita ed il Salento, dunque, origine e fine. Grande comunicatore e promotore culturale, Rocco Coronese, nella sua straordinaria esperienza di artista e creativo, ha utilizzato vari linguaggi che ora vogliamo riproporre in alcune iniziative culturali per quanto è nelle nostre possibilità. Con l’auspicio che questo territorio sappia apprezzare e valorizzare le sue opere più di quanto non abbia fatto fino ad oggi…”. L’artista intesseva un dialogo continuo, serrato, con l’arte, cercando nella varietà delle soluzioni, la risposta alle proprie domande. Egli era anche convinto della funzione sociale dell’arte. “L’apertura verso gli altri è totale”, scrive Luigi Scorrano “Coronese esercita, si può dire, un’azione di affrancamento dal pregiudizio e dalla asfitticità di posizioni separanti. Percepisce la novità”.

Il nuovo volume dedicato a Coronese è disponibile presso la sede di Italia Nostra a Parabita. L’intera rassegna, è il caso di segnalarlo, è finanziata con fondi privati ovvero grazie all’intervento degli sponsor che l’hanno sostenuta.  Sempre nel segno di Rocco Coronese.

 

Il gesuita salentino Francesco Antonio Camassa esperto di arte militare

 

DE RE MILITARI NELLA SPAGNA DI FILIPPO IV: IL GESUITA SALENTINO FRANCESCO ANTONIO CAMASSA

 

di Francesco Frisullo-Paolo Vincenti

ABSTRACT. In the essay, the figure of Francesco Antonio Camassa, a Jesuit from Salento, military engineer and teacher is treated. Born in Lecce in 1588, personal adviser and confessor of the Marquis of Leganès, Governor of Milan, at the height of a brilliant career as a teacher within the Company of Jesus, he was called to Spain to the court of King Philip IV, of whom he became military adviser. Through an accurate bibliographic research, the life and works of Father Camassa, who died in Spain in 1642, are reconstructed.

 

RIASSUNTO. Nel saggio, viene trattata la figura di Francesco Antonio Camassa, gesuita salentino, ingegnere militare e insegnante. Nato a Lecce nel 1588, consigliere personale e confessore del Marchese di Leganès, Governatore di Milano, all’apice di una brillante carriera come docente all’interno della Compagnia di Gesù, viene chiamato in Spagna alla corte del Re Filippo IV, del quale diviene consigliere militare. Attraverso una accurata ricerca bibliografica si ricostruiscono la vita e le opere di Padre Camassa, che muore in Spagna nel 1642.

Filippo IV di Spagna

 

Nel 1633 viene pubblicata a Madrid la Tabla Vniversal para ordenar en cualquiera forma Esquadrones, por el Padre Francisco Antonio Camassa de la Compañia de Iesus, Cathedratico de la Mathematica militar en los Estudios Reales del Colegio Imperial de Madrid, Con licencia en Madrid, por Andrés de Parra. Si tratta di una dissertazione con disegni e calcoli matematici e disegni geometrici circa la disposizione degli squadroni degli eserciti.

Il suo autore è un gesuita originario di Lecce, Francesco Antonio Camassa, ingegnere militare e insegnante, ma soprattutto spirito attivo, marziale, intraprendente. Tre, le tappe fondamentali della vita e della carriera di Camassa: Lecce, Napoli, Madrid. Ma ogni gesuita in quei tempi era cittadino del mondo, specie chi si recava in missione in Oriente o nelle Americhe, lo spirito di avventura e il desiderio di evangelizzare erano consentanei alla natura dei frati.

Camassa è un illustre predecessore di importanti autori che tratteranno di polemologia, fra i quali, non ultimo, il nostro Giuseppe Palmieri, autore delle Riflessioni critiche sull’arte della guerra (1756-1761)[1], opera giustamente famosa che, al pari di quella del Camassa, si occupa di tattica militare. Salvatore Capodieci, in un recente saggio sulla figura del Palmieri, prima di illustrare dettagliatamente l’opera dello studioso martignanese, fa una doverosa distinzione in questo genere di trattatistica fra opere di strategia ed opere di tattica, adducendo ad esempio due illustri riferimenti, forse i più famosi in quest’ambito, ovvero il tedesco Karl Von Clausewitz (1780-1831) e l’italiano Piero Pieri (1893-1979)[2]. L’autore che Capodieci omette, nella sua disamina delle opere degli scrittori militari dall’antichità all’Età Moderna, è proprio Padre Camassa. Non ci sorprende, essendo il gesuita misconosciuto nel Salento. Eppure a lui, Lecce, la sua città, ha intitolato una via.

Di lui scrive Romano Gatto: “Nato a Lecce nel 1588, entrò a far parte della Compagnia nel 1606. Assolse all’intero corso di studi a Napoli. Prima delle matematiche insegnò 2 anni lettere umane, 2 anni filosofia, 2 anni teologia e 2 casi di coscienza. Morì a Saragoza il 30 luglio 1646”[3]. Nel suo libro, Gatto si occupa di tutti gli insegnanti succedutisi alla cattedra di matematica del Collegio dei Gesuiti di Napoli, soffermandosi su alcune figure particolarmente importanti come Hieronimo Hurtado, Georg Feder, Francesco Sangro, Vincenzo Figliucci, Cristoforo Clavio, e poi Giovanni Giacomo Staserio, Scipione Sgambati, ecc. Sebbene l’insegnamento di Camassa durò solo un anno, dal 1631 al 1632, a lui Gatto dedica una scheda nella parte finale del libro, in cui vengono passati in rassegna, in ordine cronologico, tutti i professori di matematica del Collegium Neapolitanum, dal 1589 al 1680[4]. Dalla scheda apprendiamo che Camassa arrivò a Napoli nel 1607 e studiò retorica, logica, fisica, metafisica e teologia. Nel 1620-21 fu inviato come predicatore a Bovino, successivamente ad Atri[5], dove insegnò filosofia dal 1621 al 1624, teologia dal 1624 al 1625, filosofia e casi di coscienza dal 1625 al 1627, e quindi tornò a Napoli destinato alla Casa delle Probazioni. Questa era l’istituzione in cui si completava la formazione dei gesuiti, che iniziava con la “prima probazione”, vale a dire l’ingresso e l’ambientazione, che duravano una dozzina di giorni, e la “seconda probazione”, ovvero il Noviziato, che durava due anni, fasi caratterizzate dalla intensa preghiera e dal severo studio. La “terza probazione” consisteva negli esercizi spirituali, prescritti da Sant’Ignazio di Loyola e dall’uscita dei frati nella società civile, nella quale essi si mettevano a disposizione di enti caritatevoli e dei più bisognosi, unendo il lavoro alla preghiera e allo studio, comunque imprescindibili. Con la “quarta probazione” i frati erano chiamati al quarto voto, oltre a quelli di povertà, castità e ubbidienza già pronunciati, ossia il voto di obbedienza al Papa, con il quale si sottomettevano interamente alla volontà del Sommo Pontefice. Questo quarto voto, come sappiamo specifico della Compagnia di Gesù, completava il cammino spirituale del perfetto gesuita[6].

Camassa divenne consigliere personale e confessore del Marchese di Leganès, Governatore di Milano, che in quel tempo era dominata dagli Spagnoli. Il Marchese di Leganès, Diego Mexía Felipez de Guzmán y Dávila (1580-1655), già Presidente delle Fiandre, si era distinto su vari campi di battaglia guadagnandosi fama e la stima dell’Imperatore della Spagna Filippo IV, che gli aveva affidato nel 1635 la guida del Ducato di Milano. Grande esperto di cose militari, uomo di cultura e mecenate, cugino del potentissimo Primo Ministro, Duca di Olivares, fu coinvolto nella Guerra dei Trent’anni. Collezionista di oggetti d’arte e uomo raffinatissimo, di lui esiste un ritratto, opera di Van Dick. Alla sua corte, a Milano, era circondato da svariati ingegneri militari: fra questi Francesco Antonio Camassa, che era anche il più fidato collaboratore, e che lo seguì nelle imprese belliche della battaglia di Nördlingen, nel1634, e dell’assedio del Piemonte dal 1637. Ma facciamo un passo indietro, tornando a Napoli.

Come detto, nel 1631 a Padre Camassa fu assegnata la cattedra di matematica presso il Collegio Napoletano; succedeva a Giovan Battista Trotta e Orazio Giannini[7].

Tenne la cattedra solo per un anno poiché, segnalato dal Viceré alla corte di Spagna, venne chiamato in quella nazione dalla Compagnia di Gesù su espresso invito del Re Filippo IV. Doveva essere già notevole, dunque, la fama che si era guadagnato a Napoli se gli venne riservata una simile attenzione.

Gatto riporta la lettera inviata dal Generale dell’Ordine Muzio Vitelleschi al Provinciale napoletano il 3 giugno 1632: “Quando V.R. riceverà questa e le sarà accennato dal Viceré che il P.Francesco Antonio Camassa vada in Spagna, come la Maestà Re comanda, V.R. lo manderà obedendo prontissimamente come siamo obbligati con tutta la Compagnia sopra quello che si può spiegare stante i beneficij innumerevoli della maestà sua[8]. Nel 1634, giunse a Madrid, dove entrò agli Estudios Reales de Santo Isidro, che era stato il Collegio di San Isidro dei Gesuiti, trasformato in una vera e propria università nel 1629 per volere del Re Filippo IV e del Primo Ministro Duca di Olivares, nonostante la ferma opposizione di Salamanca, sede della più gloriosa e antica Università di Spagna, che veniva così a perdere il suo primato.

Gli Estudios Reales attirarono una grande quantità di studenti, i rampolli della nobiltà madrilena, e divennero ben presto la scuola di formazione della classe dirigente spagnola. Ciò era dovuto al prestigio degli insegnanti che vi erano chiamati, fra i quali certamente Padre Juan Eusebio Nierenberg, esperto naturalista, ma anche occultista ed esperto di arti magiche[9], i celebri matematici Claude Richard, Padre Isasi e Jean Charles de La Faille, quest’ultimo precettore del Principe Don Juan e ritratto anche da Van Dyck[10], e lo stesso Camassa.

Nel 1634 dunque il Nostro si trasferisce nella nazione iberica e inizia il suo magistero a Madrid. Della sua attività di insegnante in Spagna, scrive Astrain: “Por algunos annos el P.Camassa, italiano, explicò una catedra de ingegneria, sobre todo en suas aplicationes militares[11].

Nel 1637 è a Milano e al seguito delle truppe del Marchese di Leganès[12] nelle operazioni belliche nel Piemonte. Occorre però inquadrare questa battaglia nell’ambito della Guerra dei Trent’anni (1618-1648)[13].

Una guerra, iniziata nella Germania, dominata dagli Asburgo d’Austria, che era una confederazione di stati essenzialmente già divisi dal punto di vista religioso tra luteranesimo e cattolicesimo, allorché si diffuse nel Palatinato Renano il calvinismo, anche ad opera del Principe elettore Federico V. Questo determinò la ferma opposizione sia dei luterani che dei cattolici, in particolare dei Gesuiti, intenzionati a difendere strenuamente le posizioni cattoliche contro l’attacco protestante. Essendo la collocazione geografica del Palatinato Renano molto strategica, situato come era al centro dell’Europa, fra i Paesi Bassi spagnoli e la Francia, questo scatenò gli interessi delle due principali potenze, ovvero della Francia, calvinista, e dell’Impero asburgico, cattolico. Il conflitto prese l’avvio dalla Boemia, con la cosiddetta “defenestrazione di Praga” del maggio 1618, nella prima fase, detta boemo-palatina, e poi si propagò in tutta Europa, coinvolgendo la Francia, la Danimarca, la Svezia. Impossibile in questa sede ripercorrere dettagliatamente le fasi della guerra che mise a ferro e fuoco l’Europa centrale; a noi basti interessarci di una parte di questa guerra, la fase che appunto coinvolse il Piemonte e la Savoia. Il Piemonte era stato annesso alla Savoia del Duca Emanuele Filiberto, in seguito ai tratti di pace di Cateau Cambrésis del 1559. Con la morte di Vittorio Amedeo I, nell’ottobre del 1637, essendo suo figlio maggiore Francesco Giacinto ancora troppo piccolo, venne assunta la reggenza dalla madre, Maria Cristina di Borbone, sorella del re di Francia Luigi XIII. Ella doveva difendersi dalle mire dei fratelli Tommaso e Maurizio di Savoia, legittimi aspiranti al trono, che vennero esiliati fuori dal Piemonte. Con la morte del piccolissimo Francesco Giacinto, la successione al trono passò al fratellino Carlo Emanuele, di appena quattro anni, e a questo punto la reggenza di Maria Cristina appariva messa a rischio. Il Piemonte infatti era del tutto diviso fra i “madamisti”, sostenitori di Maria Cristina, schierati con i Francesi, ed i “principisti”, fedeli ai fratelli Savoia, ossia il principe Tommaso e il cardinal Maurizio, che appoggiavano gli Spagnoli. Nel 1638, Tommaso di Savoia-Carignano si recò a Madrid e prese accordi per l’invasione del Piemonte che, gravitando nell’orbita della Francia, costituiva in effetti una seria minaccia per la Spagna stessa. Così, il Governatore di Milano, il Marchese di Leganès, attaccò la Savoia iniziando il piano di invasione, con la mira di sottomettere anche il Piemonte unendolo alla Lombardia, per creare un vasto stato unitario spagnolo. Dopo avere occupato Breme, poi Vercelli, quindi Palestro, all’inizio del 1639 le truppe lombardo-spagnole entrarono nel Piemonte facendosi strada fino a Torino. Goffredo Casalis, parlando dell’assedio di Vercelli, cita il Camassa, e scrive: “Il P. Camassa, gesuita, che ebbe, durante l’assedio, la carica di primo ingegnere, scelse gli assalimenti, e tracciò una circonvallazione di dieci miglia d’estensione. Gli spagnuoli lavorarono con molto ardore, ed in pochi giorni perfezionarono la circonvallazione; essi aprirono la trincea su tre diversi punti, e portaronsi a trecento passi dalla spianata in un molino, che la guarnigione cercò invano di difendere.[14]. Secondo i piani di battaglia, nell’accordo fra la Spagna ed i due eredi Savoia, il territorio conquistato sarebbe stato diviso in tre parti uguali. L’occupazione spagnola di Breme, città dalla pianta pentagonale fortificata, era importante in quanto la sua posizione strategica per attaccare anche Novara e Pavia, in mano ai Francesi. Caddero le città di Chieri, Moncalieri, Ivrea, Verrua, e infine Chivasso. In seguito, sotto l’attacco concentrico delle truppe guidate da Tommaso di Savoia, quelle del Duca di Leganès, e gli altri battaglioni guidati da don Martín di Aragona e don Juan de Garay, capitolarono le città di Villanova d’Asti, Asti, Pontestura, Moncalvo e Trino.

Alla fine di aprile 1639 iniziò l’assedio di Torino, dove erano di stanza i Francesi. Il Cardinale Richelieu offrì al Principe Tommaso una tregua, cercando un accordo, ma questa fu rifiutata dal Savoia che rimase fedele agli Spagnoli. “Le munizioni da vitto e da guerra mancavano agli assediati, e già ne’primi giorni fu d’uopo di regolarne la distribuzione con molta parsimonia, ed il padre Camassa, gesuita che durante l’assedio ebbe la carica di primo ingegnere, scelse gli assalimenti e tracciò una circonvallazione di dieci miglia di estensione”, scrive Gaudenzio Claretta[15].

L’assedio di Torino fu lungo e difficile, i Francesi erano un avversario duro da battere. Ad agosto, Tommaso di Savoia prese la città e Maria Cristina dovette arrendersi; ma i Francesi tornarono alla carica e ad ottobre si riaprirono le ostilità. Questi, guidati da Enrico di Lorena-Harcourt, inflissero una pesante sconfitta ai Lombardo-Spagnoli a Chieri. “Il tentativo di occupare il Piemonte”, scrive Annalisa Dameri, “riuscito anche se solo per pochi anni, da parte del marchese di Leganés, governatore dello stato di Milano, è documentato oltre che da una serie di lettere inviate a Filippo IV, al conte duca di Olivares e ad altri ufficiali, da un atlante senza firma, ora conservato a Madrid.

Le venti tavole illustrano rilievi e progetti per le cinte urbane delle cittadine occupate da Leganés e dal principe Tommaso nella loro avanzata verso Torino. In alcuni casi i lavori, svolti in pochi mesi, per potenziare ciò che è stato facilmente conquistato, trasformano indelebilmente i perimetri urbani. Al servizio di Leganés vi è sicuramente Prestino ed è ormai dimostrato che il governatore si avvalga, inoltre, della consulenza del padre gesuita Francisco Antonio Camassa, suo confessore e professore di arte fortificatoria al Collegio Imperiale di Madrid”[16].

Nella primavera del 1640, Tommaso di Savoia, sceso nuovamente in campo, venne sconfitto ancora una volta dalle truppe francesi a Casale Monferrato. A questo punto, il Principe decise di giocare il tutto per tutto, attaccando Torino per strapparla ai Francesi che ancora la difendevano strenuamente. Vistosi alle strette, tentò una resa con la speranza di raggiungere un accordo con Enrico di Lorena Harcourt, ma ogni trattativa questa volta fu rifiutata dai Francesi fin quando le truppe lombardo-spagnole vennero del tutto sbaragliate. Il Principe Tommaso, per non soccombere, si ritirò ad Ivrea. Al fine di ottenere delle condizioni più favorevoli iniziò a trattare segretamente con il Cardinale Richelieu, ma i tentativi fallirono quando il Principe, nella primavera del 1641, rinnovò il suo accordo con la Spagna, il che spinse la Francia a scendere nuovamente in campo. Tutte le città piemontesi vennero riprese e al Savoia non restò che scendere a compromessi con l’odiata Cristina di Francia, con la quale stipulò una alleanza che certo lo vedeva sfavorito, perché prima di tutto doveva riconoscere come legittimo erede al trono Carlo Emanuele, e inoltre, con i trattati ufficiali che seguirono (1642), si vide riconosciute solo le piazzeforti di Biella e di Ivrea. Le fortificazioni di tutte queste città coinvolte nella guerra vennero ricostruite sulla base di progetti spagnoli. E questo ci riporta al Camassa.

Il rapporto di Camassa col Leganès, come già visto, è precedente alla invasione del Piemonte e risale alla battaglia di Nordlingen, in Baviera, del 1634[17]. Sul fronte di guerra delle Fiandre prima, e della Germania poi, l’esercito spagnolo era guidato dall’indomito Don Diego Mesya y Guzman. In Germania, al suo seguito erano l’Infante Cardinal Fernando, l’umanista Francesco de Roales, che ne era stato il tutore, per volere del padre Filippo III, Francesco Camassa e Guillen Lombardo, quest’ultimo a capo di un contingente di truppe irlandesi. Questo è quanto riferisce Fabio Troncarelli nel libro La spada e la croce[18], in cui traccia un profilo dell’avventuriero di origini irlandesi William Lamport che era stato allievo di Camassa agli Estudios Reales di Madrid[19].

Il Camassa fornì una preziosa consulenza in questa guerra ai fini della sua vittoriosa risoluzione. In particolare, nella battaglia di Nordlingen, presa d’assalto dalle truppe imperiali il 5 settembre 1634, l’esercito guidato dall’Infante Cardinal rischiava di essere sbaragliato dalle truppe protestanti guidate da Bernardo di Sassonia e rinforzate dalla partecipazione svedese, cioè da uno dei più forti eserciti europei dell’epoca, che aveva sconfitto anche il grande condottiero Wallenstein. Fu proprio grazie alle indicazioni tattiche di Camassa che il Cardinal Fernando poté vincere la guerra, come scrive Fabio Troncarelli[20]. “A chi spetta”, si chiede Troncarelli, “la manovra che risolse brillantemente la battaglia?” Questa non poteva essere merito del Cardinal Fernando, del tutto inesperto di guerra, nè tanto meno dell’Imperatore Ferdinando, se è vero che le truppe asburgiche avevano assediato invano per alcune settimane Nordlingen. Non poteva essere, se non in minima parte, merito del Duca di Lorena, un francese al servizio della Spagna. Il merito, secondo Troncarelli, doveva essere di un ingegnere esperto di tattiche militari, nel contempo fornito di una solida cultura umanistica che gli ricordasse le mirabili imprese degli antichi romani. Questo personaggio non poteva che essere il “Dottor Sottile Camassa”. Solo un astuto gesuita ed il suo allievo Lombardo avrebbero potuto concepire una simile vittoria[21]. “A me pare evidente che solo un personaggio come lo scaltro Camassa, il docente di Re militari, che spiegava con passione Polibio e Vegezio il mattino presto, era in grado di inventare su due piedi la vittoria di Nordlingen. Di ciò abbiamo, del resto, una riprova nelle fonti, che attribuiscono al gesuita un ruolo decisivo nella fortificazione della collina di Albuch. Tali fortificazioni avevano lo scopo di bloccare gli attacchi nemici, mentre la cavalleria aggirava le loro posizioni. Solo un gesuita italiano, forgiato dall’acerrima competizione col diabolico Machiavelli, tanto entusiasta della cavalleria romana, avrebbe osato in quel frangente domandare agli antichi la ragione delle loro azioni…”[22]. E. Charveriat, che lo chiama Camaja, scrive: “le Père Camaja, à élever et à garnir d’artillerie trois retranchements, en forme de demi-lunes, ouverts au nord, et fermés au midi, du côté de l’ennemi, par un mur de trois pieds de haut. Les Bavarois étaient environ sis mille; les Impériaux, douze Mille; les Espagnols, quinze mille; en tout trente-trois mille hommes, dont vingt mille d’infanterie et treize mille de cavalerie: huit mille hommes ennron de plus que les Suédois. L’armée impériale faisait face au midi; l’armée suédoise faisait face au nord.[23].

Camassa riscosse un successo così grande con i suoi consigli militari che una volta tornato in Spagna nel 1635 tenne a Madrid una applaudita conferenza sulle tattiche militari e sulle fortificazioni, alla quale partecipò anche il Re Filippo IV nascosto dietro una grata, a detta di Troncarelli[24], il quale cita anche una preziosa fonte per conoscere meglio la figura di Camassa, ossia una lettera di Bernardo Monanni del 30 giugno 1635 conservata a Firenze[25].

Oltre ad impartire lezioni private de re militari a Filippo IV, fu probabilmente, come riportano alcune fonti, anche precettore dell’erede al trono Baltasar Carlos[26].

La Dameri parla di una relazione tecnica di Giovanni Battista Vertova in viaggio da Malta in Italia. “In visita in Piemonte, dopo Torino (ricevuto a corte da Cristina di Francia), Pinerolo, Felizzano, Vertova nel novembre 1638 è in Alessandria per un incontro tra i massimi esperti di fortificazioni al servizio della Spagna al fine di discutere del nuovo impianto fortificatorio di Malta. Ad Alessandria si riuniscono gli alti comandi spagnoli tra cui Leganés, Camassa, don Francisco de Melos, don Alvaro de Melos, il conte Ferrante Bolognini, don Martin d’Aragona e Juan (Giovanni) de Garay: Camassa ha modo di esprimere un parere tecnico (De Lucca, 2001) «Hebbi con alcuni Ingegneri, et anco con il Padre Gammasa Jesuita, molti discorsi di queste nostre fortificazioni e ne porto meca le memorie in scritto»”[27].

Anche Fernando Rodrìguez De La Flor si sofferma sul Camassa come esperto di tattica militare, citando la sua opera Tabla universal: “La geometría, en un sentido más general, determina toda la polemología, tal y como J. de Beausobre: «La ciencia de la guerra es esencialmente geométrica… La disposición de un batallón y de un escuadrón sobre un frente entero y determinada altura es sólo el resultado de una geometría profunda todavía ignorada» (Commentaires sur les défenses des places, II, París, 1757, p. 307. Cito por M. Foucault, Vigilar y castigar, Madrid, 1982, p. 168). El fragmento citado puede ponerse en relación con toda una serie de obras que ofrecen sistematizaciones de orden geométrico en las disposiciones de las formaciones militares, en lo que se denominaba el «arte de escuadronear», como es el caso del libro de Francisco Antonio Camassa, Tabla universal para ordenar en qualquiera forma Esquadrones. En un sentido, en última instancia también geométrico, Paul Virilio ha estudiado los fenómenos bélicos, y en concreto el de la ubicación de defensas a lo largo de un territorio, como producto de lo que el analista define como ‘perspectiva’, cf. Logistique de la Perception. París,1984”[28].

Nell’opera Cristiano desagravio y retractaciones de Don Guillén Lombardo. Manuscrito novohispano del siglo XVII, a cura di Gonzalo Lizardo, sono riportate diverse lettere di Guillén Lombardo che citano il Camassa[29].

Così come, sempre con riferimento al leggendario Guillén Lombardo, nell’articolo Zorro’ of Wexford?,Gerry Ronan cita ampiamente il Camassa nella biografia del Lamport[30].

Un’altra fonte lo dice anche al seguito di Carlo IV, Duca di Lorena, nella campagna militare di Germania e Francia[31].

Conosciamo svariate lettere di Padre Camassa. All’interno del Memorial Histórico Espanol; Colección de Documentos, Opúsculos y Antigüeda des Madrid, Academia Real de la Historia, Volume XIX, Madrid,1865, si trova la collezione Cartas de algunos pp. de la Compañía de Jesus: sobre los sucesos entre los anos de 1634 y 1648: in quest’opera, troviamo al Tomo VII, una lettera di Camassa alle pp.281-2;  nello stesso Tomo VII, alla p. 493 è riportato l’indice dell’intera collezione:

“Camassa (P. Francisco Antonio), de la C. de J. ; confesor del marqués de Leganés. I 33, 35, 101, 440, 483, 268, 519; sus cartas de Italia, II 28, 91 ; de Valencia , IV 353. V 19. VI 196, 206, 288, 297, 308, 314, 331, 339, 355, 370 (M. Agosto, 1646). VII 329, 345, 360, 361.”

Si tratta di una serie di lettere in cui Camassa riferisce essenzialmente sull’andamento del conflitto bellico.

Padre Camassa è citato da Astrain[32] e da Victor Navarro Brotons[33], il quale, nel paragrafo in cui si occupa del Collegio dei Gesuiti di Madrid, fondato nel 1560 (Los Reales Estudios Del Colegio Imperial De Madrid), scrive: “Junto a della Faille y Richard, [ si riferisce a Jean Charles della Faille e a Claude Richard, primi insegnanti di matematica ] en las primeras décadas de funcionamiento de los Reales Estudios del Colegio Imperial residieron y enseñaron en esta institución, el polaco Alexius Silvius Polonus (1593-ca.l653), el escocés Hugo Sempilius, y el italiano Francisco Antonio Camassa(1588-l646). También enseñó matemáticas y arte militar el jesuita Vasco Francisco Isasi”. E in nota, specifica: “Camassa era de Lecce. Véase Carlos Sommervogel, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, 11 vols., Bruselas, 1890-1900, vol. II, col. 175 y Simón, op.cit. (nota 3), I, p.545[34].

Anche il Diaz si occupa di lui[35], come pure il Sommervogel, già citato da Navarro Brotons, che però lo considera spagnolo[36]. Ampiamente ne tratta il De Lucca[37].

Annalisa Dameri, ricercatrice del Politecnico di Torino, nel saggio già menzionato si occupa del rapporto fra Leganès e Camassa[38] e riporta anche notizie della morte, sebbene in maniera molto nebulosa come per tutta la bibliografia da lei citata. “Il necrologio scritto per la morte di Camassa (ACGRoma, AH, PT, m. 45, necrologia 1557- 1670, c. 206, 4 agosto 1646) ribadisce la vicinanza e la collaborazione con Leganés: il 30 luglio 1646, nella città di Saragozza muore all’età di 57 anni, dopo quarant’anni all’interno della Compagnia di Gesù, colpito da una «calentura maliciosa »”[39].

Nell’opera Il Ciro Politico, Filippo Maria Bonini lo indica come “matematico ed astrologo”[40].

A volte il suo nome viene spagnolizzato in Gamassa, come in  Le voyage du Prince don Fernande Infant d’Espagne, di Diego de Aedo y Gallart[41]. Da citare anche la voce che gli viene dedicata nel Diccionario histórico de la Compañía de Jesús biográfico-temático[42]. Su di lui anche un tesi di laurea nel 2010[43].

Un’ampia scheda gli dedica José Almirante[44], il quale parla di un coinvolgimento del Nostro nella fortificazione delle mura di Sabbioneta e di Saragozza.

Infine, abbiamo scoperto che un’altra opera gli viene attribuita da Giovanni Cinelli Calvoli[45], e cioè: Le stravaganze d’Amor divino:Orazione nella nascita di Cristo composta dal Rev. e Dottor Teologo Francesco Antonio Camassa,1672. Un’opera di teologia, dunque, che mette in risalto la sua figura di pensatore sebbene la data del 1672 non coincida con la data della sua morte nel1642. Probabile sia stata stampata postuma.

Delle brevi considerazioni a conclusione di questo saggio. Può apparire singolare ai nostri occhi la figura di Francesco Antonio, per il suo ruolo di ingegnere militare. Non così doveva essere ai tempi in cui egli visse. Quello della trattatistica militare era un genere letterario fiorente specie nella Spagna del Cinquecento[46], ma non solo: infinita la bibliografia, come abbiamo già visto nel corso della trattazione. Né doveva rappresentare una novità l’appartenenza di Camassa ad un ordine religioso. Anzi, egli si collocava in un percorso già segnato fin dalla nascita della stessa Compagnia di Gesù, affine, per organizzazione e concezione, alla più rigida disciplina del mondo militare, come spiega bene Gianclaudio Civale[47]. Era stato il gesuita Edmond Auger ad aprire la strada, incitando il sovrano di Francia Carlo IX a prendere le armi contro gli ugonotti in quella fase delle guerre di religione che nella seconda metà del Cinquecento insanguinarono la Francia. Nella sua opera[48], Auger spronava con inusitata violenza il sovrano a massacrare senza pietà i nemici della fede, nella convinzione che solo la guerra poteva portare il castigo meritato dagli ugonotti. Era una convinzione condivisa da tutti gesuiti, quella della guerra come giusto flagello di Dio, e della necessità di sterminare eretici ed infedeli per il trionfo della religione cattolica, Ad majorem gloriam Dei, secondo il loro stesso motto. In questo clima, nascevano anche manuali del perfetto soldato cristiano, in cui erano impartite rigide istruzioni ai combattenti per la fede, esemplare l’opera Soldato christiano di Antonio Possevino[49]. Non risulta dunque stridente, almeno ad un primo approccio, l’azione di Camassa con la sua vocazione religiosa. È certo che lo iato fra la spada e la fede fosse saldato dalla causa superiore.

Indagare poi i conflitti di coscienza che alcuni padri potevano patire nel loro impegno militare è materia che ci porterebbe molto lontano dalla tesi di questo contributo.

A noi basti aver diradato le nebbie che avvolgevano la figura di Francisco Antonio Camassa e aver fatto conoscere alla comunità degli studiosi salentini un figlio illustre di questa terra.

 

BIBLIOGRAFIA SU FRANCESCO ANTONIO CAMASSA

Le voyage du Prince don Fernande Infant d’Espagne, Cardinal: depuis le douziéme d’Avril de l’an 1632, qu’il partit de Madrit pour Barcelone avec le Roy Philippe IV son frere, julques au jour de fon entreè en la ville de Bruxelles le quatrième du mois de Novembre de l’an 1634 Tradyict de l’Espagnol de Don Diego de Aedo y Gallart…. En Anverse  Jean Crobbaert, 1635, p.126.

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Note

[1]G. Palmieri, Riflessioni Critiche sull’Arte della Guerra, Napoli, 1761, ristampa a cura di Mario Proto, Manduria, Lacaita, 1995.

[2] S. Capodieci, Arte della guerra e innovazioni agricole in Giuseppe Palmieri, in Aa.Vv.,Carlo di Borbone e la “stretta via del riformismo” in Puglia. Atti dell’Incontro di Studio Bari, Brindisi e Lecce, 14-15 e 18 dicembre 2017, a cura di Pasquale Corsi, Società Storia Patria per la Puglia, Bari, 2019, pp. 105-133. Nell’ambito dell’epistemologia, fondamentale è l’opera di V. Ilari, Tra bibliografia ed epistemologia militare. Introduzione allo studio degli scrittori militari italiani dell’età moderna, in «Rivista di Studi Militari», n.1, 2012, pp. 141-170, in cui l’autore “ricostruisce la genesi della prima bibliografia militare italiana, pubblicata a Torino nel 1854 da Mariano d’Ayala (1808-1877), un ufficiale del Genio Napoletano esiliato per ragioni politiche. Questa bibliografia, che include più di 10.000 libri e manoscritti scritti o tradotti in Latino o in Italiano fin dal XV secolo, era basata in parte su precedenti bibliografie generali o di fortificazione (soprattutto quella pubblicata nel 1810 da Luigi Marini), e in parte sulla biblioteca militare raccolta dal Conte Cesare Saluzzo di Monesiglio (ora ‘Fondo Saluzzo’ della Biblioteca Reale di Torino). Lo studio inquadra il lavoro di d’Ayala nella storia della bibliografia militare europea, dal Syntagma de studio militari pubblicato a Roma nel 1637 da Gabriel Naudé, fino alla Bibliografia generale delle bibliografie militari pubblicata nel 1857 dal ben noto bibliotecario Julius Petzholdt (1812-1891)”. Ivi, p.141. Un libro molto interessante sul ruolo dei gesuiti nelle fortificazioni e in generale nelle opere di ingegneria militare, è quello di D. De Lucca, Jesuits and Fortifications: The Contribution of the Jesuits to Military Architecture in the Baroque Age, Brill, Leiden, 2012, nel quale l’autore oltre a passare in rassegna le varie figure di gesuiti presenti accanto a potenti, ai condottieri e ai loro eserciti, che si sono variamente occupati di opere de re militari, e ad illustrare come queste opere venissero fatte rientrare nell’ambito delle discipline matematiche, si sofferma sulla delicatezza del ruolo dei frati ingegneri, nonché sulle loro crisi di coscienza, sui dissidi interiori  e sui dissensi da parte dello stesso ordine gesuita, poiché il loro ruolo era ritenuto incompatibile con la vocazione di un religioso. Si veda: M. Vesco, Ingegneri militari nella Sicilia degli Asburgo: formazione, competenze e carriera di una figura professionale tra Cinque e Seicento, in Aa.Vv., Defensive Architecture of the Mediterranean. XV to XVIII centuries, Vol I, a cura di Pablo Rodríguez-Navarro, Editorial Universitat Politècnica de València, 2015, pp. 223-230. Inoltre: P.Rodríguez-Navarro, Modern age fortifications of the Mediterranean coast Bibliographic guide, Editorial Universitat Politècnica de València, 2015.

[3] R. Gatto, Tra scienza e immaginazione. Le matematiche presso il collegio gesuitico napoletano (1552-1670 ca), Firenze, Olschki,1994, p. 185.

[4] Ivi, pp. 269-270.

[5] Aa.Vv., Alle origini dell’Università dell’Aquila: cultura, università, collegi gesuitici all’inizio dell’età moderna in Italia Meridionale : atti del convegno internazionale di studi promosso dalla Compagnia di Gesù e dall’Università dell’Aquila nel IV centenario dell’istituzione dell’Aquilanum Collegium (1596), L’Aquila, 8-11 novembre 1995, a cura di Filippo Iappelli, Ulderico Parente, Istitutum Historicum Societatis Iesu, Roma, 2000, p. 95.

[6] Per i riferimenti specifici all’ordine dei Gesuiti, si veda: Glossario Gesuitico Guida all’intelligenza dei documenti, a cura di W. Gramatowski S.I., ARSI, Roma,1992, ad vocem.

[7] Il suo nome compare anche fra i “Lettori di matematica” del Collegio di Napoli elencati in un manoscritto di Vincenzo Carafa, databile intorno al 1625, conservato nella BNR (ms Ges.1629) a c.194, che dice: “Lettori di Matematica: Gio. Giac. D’Alessandro, Gio.Giac. Staserio, Gio.Batta Trotta, Gio.Batta Zupo, Francesco Antonio Camassa, Scipione Sgambati, Horatio Giannino, Gio.Batta Galeota”, riportato da R. Gatto, op.cit., pp. 78-79. Si veda anche A. Udias, Profesores de matematicas en los Colegios de la Compania de Espana, 1620-1767, in «Archivum Historicum Societatis Iesu» vol. XXIX, fasc. 157 gennaio-giugno 2010, pp. 3-27, che cita Camassa a p. 25.

[8] Arsi, Neap. 17, c.46v, in R. Gatto, op.cit., p. 185.

[9] Juan Eusebio Nierenberg (1595-1658), autore del libro Curiosa filosofia y tesoro de maravillas, Madrid, Imprimeria del Reymo, 1634, che è solo una delle opere della sua sterminata produzione, che comprende anche le biografie di Sant’Ignazio di Loyola e di San Francesco Borgia. Nell’opera De la hermosura de Dios y su amabilidad por las infinitas perfecciones del Ser divino (1641), coniuga la filosofia platonica con la dottrina cristiana della grazia.

[10] Su Jan Charles della Faille, professore di matematica al Collegio Imperiale di Madrid, si veda la Voce Jean-Charles della Faille 1597-1652, curata da O. Van De Vyver, in Diccionario histórico de la Compañía de Jesús (4 volúmenes) biográfico-temático, a cura di Charles E.O’Neill e Joaquín María Domínguez, Universidad Pontificia Comillas, Madrid, Insititutum Historicum S.I. Roma, 2001, p.2935 (del pdf). Inoltre, O. Van De Vyver S. I., Lettres de J.Ch. Della Faille S. I., Cosmographe du Roi a Madrid, a M. F. Van Langren, cosmographe du Roi a Bruxelles, 1634-1645, in «Archivum Hisoricum Societatis Iesu», XLVI, 1977, pp.73 ss. Vi si riporta una corrispondenza fra l’astronomo e matematico fiammingo Michel Florent van Langren (Langrenius) e della Faille, nella quale è citato più volte Camassa.

[11] A. Astrain, Historia de la Compañia de Jesús en la Asistencia de España, Madrid, Razón y Fe, 1916, Tomo V, p.168, riportato anche da Gatto, op.cit., p. 185. Inoltre A. Udias, op.cit., p. 25.

[12] Sul Leganès, fra gli altri: F. Arroyo Martín, El marqués de Leganés. Apuntes biográficos, in «Espacio, Tiempo y Forma», Serie IV, H. Moderna, t. 15, 2002, pp. 145-185.

[13] Si può fare riferimento a: J. Huxtable Elliot, La Spagna imperiale:1469-1716, Bologna, Il Mulino,1982; Idem, Il miraggio dell’impero.Olivares e la Spagna: dall’apogeo al declino Tradotto da Paola Moretti, introduzione di Giuseppe Galasso, 2 Volumi, Roma, Salerno Editrice, 1991. Con particolare riferimento alla partecipazione dei gesuiti alla guerra dei trent’anni, si veda: R. Bireley, The Jesuits and Thirty Years war: Kings, Courts, and Confessors, Cambridge, University Press, 2009, specificamente al capitolo 6, pp.167-203; J.B. Sánchez, La Compañía de Jesús y la defensa de la monarquía Hispánica, in «Hispania Sacra», LX, 2008, pp. 181-229. Inoltre, La decadenza della Spagna e la Guerra dei Trent’Anni 1610-1648, a cura di J.P.Cooper, Cambridge University Press, Garzanti, 1971.

[14] G. Casalis, Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale degli stati di S. M il Re di Sardegna, Volume XXV G.Maspero, Torino, 1853, p.404.

[15] G. Claretta, Storia della reggenza di Cristina di Francia duchessa di Savoia con annotazioni e documenti inediti, Parte Prima, Stabilimento Civelli Torino,1868, p. 307.

[16] A. Dameri, La difesa di un confine. Le città tra Piemonte e Lombardia nella prima metà del XVII secolo, in Aa.Vv., El dibujante ingeniero al servicio de la monarquía hispánica. siglos XVI-XVIII, a cura di Alicia Cámara Muñoz, Fundación Juanelo Turriano, 2016, pp.284-285.

[17]Sulla guerra di Nordlingen, si veda R. Bireley, The Jesuits and Thirty Years war: Kings, Courts, and Confessors, Cambridge, University Press, 2009, pp.139 e 159.

[18] F. Troncarelli, La spada e la croce, Roma, Salerno Editrice, 1999.

[19] L’irlandese William Lamport spagnolizzò il proprio nome in Guillén Lombardo de Guzmàn, in onore di Gaspar de Guzman, Conte di Olivares. Egli combattè per conto della Spagna nelle Fiandre, accanto al Cardinal Infante Fernando, nella battaglia di Nordlingen, poi a Bruxelles e successivamente ancora in Spagna, dove partecipò nel 1638 alla battaglia di Fuentarabia a capo di un reparto di truppe irlandesi. Nel 1640, il Conte di Olivares lo inviò in Messico a tutelare gli interessi della Corona dai rapaci amministratori spagnoli. Autore di opere in prosa e in versi, accusato di praticare la magia e l’astrologia, fu un personaggio molto controverso. In Messico, dove poté toccare con mano le angherie e le violenze perpetrate dai conquistatori a danno degli Indios, finì al centro di una vasta rete di interessi contrapposti e quindi nelle maglie dell’Inquisizione, che lo tenne in carcere per ben 17 anni fra stenti e torture di ogni genere. Alla fine, venne bruciato sul rogo, nel 1659. Alla figura di Lombardo si è ispirato Vicente Riva Palacio per creare il personaggio di Zorro, diventato ben presto una leggenda, protagonista di una fortunata serie di romanzi, film e telefilm. Si veda anche G. Ronan, The Irish Zorro,The extraordinary adventures of William Lamport (1615-1659), London, Brandon, 2004.

[20] F. Troncarelli, op.cit., p. 167.

[21] Ivi, p.169. Oltre a quella di Camassa, su William Lamport, notevole fu l’influenza che ebbe Juan Eusebio Nierenberg, in quanto esperto di arti magiche: Ivi, p.163.

[22] Ivi, p.170.

[23] E. Charveriat, Histoire de la guerre de trente ans:1618-1648 Periode suedoise et periode francaise:1630-1648 tomo II , E. Plon Parigi, 1878, p.291.

[24] F. Troncarelli, op.cit., p.359. L’autore però dice Camassa nato intorno al 1584, entrato nella Compagnia di Gesù a Napoli nel 1607 e morto nell’agosto del 1646: Ivi, p.357.

[25] Archivio di Stato Mediceo, filza 4960, citata da J. H. Elliot, The Revolt of the Catalans. A study of the Decline of Spain (1598-1640), Cambridge, Univ. Press, 1963, p.582: Ibidem. 

[26]A. Dameri, Progettare le difese: il marchese di Leganés e il padre gesuita Francesco Antonio Camassa, esperto di arte militare, in Aa.Vv., Defensive Architecture of the Mediterranean. XV to XVIII centuries, Vol I, a cura di Pablo Rodríguez-Navarro, Editorial Universitat Politècnica de València, 2015, p.30.

[27] Ivi, p.35.

[28] F. R. De La Flor, La frontera de castilla el fuerte de la concepción y la arquitectura militar del Barroco y la llustración, Diputación de Salamanca, 2003, nota 68, pp.219-220. Sull’argomento si veda anche: A. E. López, Guerra y cultura en la Época Moderna. La tratadística militar hispánica de los siglos XVI y XVII. Autores, libros y lectores, Madrid, Ministerio de Defensa, 2001, p.618. E ancora: J. Patricio Sáiz, El peluquero de la Reina Comunicazione Cambio tecnológico y transferencia de tecnología en España durante los siglos XIX y XX , en el marco del Plan Nacional de Investigación Científica, Desarrollo e Innovación Tecnológica 2004-2007, Ministerio de Educación y Ciencia, Dirección General de Investigación, referencia SEJ2004-03542/ECON, p.14; A. E. López, La edad de oro de la tratadística militar española, in «Don Quijote Revista de Historia militar», I n s t i t u t o d e H i s t o r i a y C u l t u r a m i l i t a r Año LI Núm. Extraordinario Imprenta Ministerio de Defensa Madrid, 2007, pp.101-127, che cita Camassa a p.126.

[29]Cristiano desagravio y retractaciones de Don Guillén Lombardo [manuscrito de 1651] [Archivo General de la Nación], Edición, prólogo, epílogo y notas: Gonzalo Lizardo, Universidad Autónoma de Zacatecas «Francisco García Salinas», 2017, passim.

[30] G. Ronan, Zorro’ of Wexford?,in «The Past The Organ of the Uí Cinsealaigh Historical Society», n. 22, 2000, pp.3-50.

[31] F. Des Robert, in Campagnes de Charles IV duc de Lorraine et de Bar, en Allemagne, en Lorraine et en Franche-Comté, 1634-1638, d’après des documents inédits tirés des archives du Ministère des affaires étrangères, Parigi, 1883, a p.36 dice: “Ce fut le P. Camaja, jésuite, qui dirigea les travaux de défense.

[32] A. Astrain, Historia de la Compañia de Jesús en la Asistencia de España, Madrid, Razón y Fe, 1916, Tomo V, p. 168.

[33] V. Navarro Brotons,  Los Jesuítas y la renovación científica en La España del siglo XVII, in  «Studia Histórica Moderna», Ediciones Universidad de Salamanca, Vol. 14,1996, pp.15-44.

[34]Ivi, p.20. Dello stesso autore, Tradition and Scientific Change in Early Modern Spain: The Role of the Jesuits, in Aa.Vv., Jesuit Science and the Republic of Letters, a cura di Mordechai Feingold, Cambridge, Mass: London : MIT, 2003, p.334. Idem, El Colegio Imperial de Madrid, in Aa.Vv., Momentos y lugares de a ciencia española, siglos XVI-XX, a cura di Antonio Lafuente e Juan Pimentel, Madrid, 2012, on-line: http://hdl.handle.net/10261/63686 pp.51 e 54.

[35] J.S.Díaz, Historia del Colegio Imperial de Madrid: Casa y Colegio de la Compañia de Jesus (1560-1602) Colegio Imperial (1603-1625) Los Reales Estudios (1625-1767), Consejo Superior de Investigaciones Científicas, Instituto de Estudios Madrileños, Madrid,1952, p.545.

[36] Bibliothèque de la Compagnie de Jésus Premiere Partie: Bibliographie, par les pères Augustin et Aloys de Backer; Seconde partie: Histoire, par le pere Auguste Carayon   Nouvelle Èdition  par Carlos Sommervoegel,S.J.,publieè par la Province de Belgique, Bibliographie Tome II Boulanger-Desideri, Bruxelles Oscar Schepens –  Paris Alphonse Picard, 1891, p.575 (ma dell’opera vi sono altre edizioni, come quella del 1898 e quella del 1960).

[37]D. De Lucca, Jesuits and Fortifications: The Contribution of the Jesuits to Military Architecture in the Baroque Age, Brill, Leiden, 2012, Nota 182 a p.143 e pp.141, 143, 144, 145, 210, 220, 230, 231, 260, 309, 329, con informazioni  generali sulla vita e  sull’operato accademico e militare  di Camassa .

[38]A. Dameri, Progettare le difese: il marchese di Leganés e il padre gesuita Francesco Antonio Camassa, esperto di arte militare, in Aa.Vv., Defensive Architecture of the Mediterranean. XV to XVIII centuries, Vol I, a cura di Pablo Rodríguez-Navarro, Editorial Universitat Politècnica de València, 2015, pp.29-36.

[39]Ivi, p.31.

[40] Il Ciro Politico dell’Abbate Filippo Maria Bonini Consultore, e Assistente del Sant’Officio in tutto lo Stato della Repubblica di Genova diviso in due parti all’Altezza Sereniss: e Reverendiss: del Signor Principe  Leopoldo Cardinal De Medici. Venetia, 1668 Per Nicolò Pezzana, p.50.

[41] Le voyage du Prince don Fernande Infant d’Espagne, Cardinal: depuis le douziéme d’Avril de l’an 1632, qu’il partit de Madrit pour Barcelone avec le Roy Philippe IV son frere, julques au jour de fon entreè en la ville de Bruxelles le quatrième du mois de Novembre de l’an 1634 Tradyict de l’Espagnol de Don Diego de Aedo y Gallart…. En Anverse  Jean Crobbaert, 1635, p.126: “Pere Gamassa”. Si vedano inoltre: J. B. Sánchez, La Compañía De Jesús y la defensa de la monarquía hispánica,  in  «Hispania Sacra», LX 121, enero-junio 2008, pp.181-229; F. Arroyo Martìn, El marquès de Leganés. Apuntes biogràficos, in «Espacio, Tiempo y Forma» Serie IV, H.Moderna, t.15,Uned, Madrid, 2002, pp.145-185: Camassa è citato a p.154; Voce Francisco Antonio Camassa, in J. Martìnez Veròn, Arquitectos en Aragòn Diccionario Històrico Volumen II Cabal-Kuhnel, Istituciòn “Fernando El Càtolico”, Saragozza, 2001, p.101.

[42] J. Escalera, Voce Francisco Antonio Camassa, in Diccionario histórico de la Compañía de Jesús (4 volúmenes) biográfico-temático, a cura di Charles E.O’Neill e Joaquín María Domínguez, Universidad Pontificia Comillas, Madrid, Insititutum Historicum S.I. Roma, 2001, p.1356 (del pdf); e anche Idem, alla voce Collegio Imperial de Madrid, Ivi, p.1931, e alla voce Ensenanza Militar, Ivi, p.2752.

[43] El Marquès De Leganès y las artes. Tesis Doctoral di Josè Juan Perez Preciado (Relatore Alfonso E.Pèrez Sànches) Universidad Complutense de Madrid, Facultad de Geografìa e Historia, 2010, passim.

[44] Bibliografía militar de España / por el Excmo. señor José Almirante Madrid: Imp. y Fundición de Manuel Tello, 1876, pp.108-109.

[45] Biblioteca volante di  Gio. Cinelli Calvoli  continuata dal Dottor Dionigi Andrea Sancassani Edizone seconda, in miglior forma ridotta , e di varie aggiunte, ed osservazioni arricchita Tomo secondo Dedicato al reverendissimo Padre Don Alessandro Rossi, Venezia, Giambattista Albrizzi Q.Girolamo, 1735, p.34.

[46] Si vedano A. Espino Lopez, Guerra y Cultura en la Epoca Moderna. La tratadistica militar hispanica en los siglos VXI y XVII. Autores, libros y lectores, Madrid, Ministerio de Defensa, 2001, ed anche F.Gonzalez De Leon, Doctors of the Military Discipline, in Idem, The Road to Rocroi. Class, Culture and Command in the Spanish Army of Flanders, 1567-1659, Leiden, Brill, 2009.

[47] G.Civale, Guerrieri di Cristo Inquisitori, gesuiti e soldati alla battaglia di Lepanto, Milano,Edizioni Unicopli, 2009, p.35.

[48] E. Auger, Le pédagogue d’arms, pour instruire un prince chrétien à bien entreprende et heureusement achever une bonne guerre, pour estre victorieux de tous les ennemis de son Estat et de l’Eglise catholique, Paris, Sebastien Nivelle, 1568.

[49] Soldato christiano con l’instruttione de’ Capi dell’Essercito Catolico composto dal R.P.Antonio Possevino della Compagnia di Giesu, Macerata, Sebastiano Martellini, 1588. Sull’argomento, si veda Vincenzo Lavenia, Tra Cristo e Marte. Disciplina e catechesi del soldato cristiano in età moderna, in Aa.Vv., Dai cantieri della storia liber amicorum per Paolo Prodi, a cura di Giuseppe Olmi e GianPaolo Brizzi, Bologna, Clueb, 2007, pp.37-54.

Libri| La Sho’ah. Il giorno della memoria

AA.VV., “LA SHO’AH. IL GIORNO DELLA MEMORIA”, A CURA DI MAURIZIO NOCERA, S.L. 2019, PP.52.

 

di Paolo Vincenti

Un agile libriccino dal titolo impegnativo: La Sho’ah. Il giorno della memoria, a cura di Maurizio Nocera (gennaio 2019), ci riporta ad una tematica sempre attuale e intimamente avvertita.

La celebrazione del 27 gennaio, in Italia più che altrove, ha costantemente ricevuto grande risonanza, attraverso scuole, enti, associazioni, che si sono fatti promotori di attivazione delle pratiche del ricordo. In Puglia, principale sponsor della Giornata della memoria è stata la rete laterziana dei Presìdi del libro che attraverso le scuole di ogni ordine e grado sparse sul territorio regionale, spesso in collaborazione con le più sensibili associazioni locali, attiva ogni anno svariate celebrazioni, che non si esauriscono in quel solo importante giorno ma abbracciano interamente il mese di gennaio e sconfinano in quello di febbraio, a volte con significative estensioni per tutto l’anno scolastico. Il libro in parola, realizzato con il sostegno del Comitato promotore dell’Unesco di Lecce, si apre con una significativa citazione di Jean Paul Sartre, tratta dall’opera L’antisemitismo.

Maurizio Nocera, noto e prolifico studioso salentino, scrittore, poeta ed alacre operatore culturale, ha voluto pubblicare questo libro, dalla copertina patinata e dalla elegante veste grafica, senza scopo commerciale, con la meritoria intenzione di distribuirlo gratuitamente agli studenti degli Istituti Superiori di secondo grado, destinatari privilegiati, come si diceva sopra, delle iniziative legate alla Sho’ah, un termine ebraico, tratto dalla Bibbia (Isaia 47, 11) che significa “distruzione”, passato ad indicare per estensione l’eccidio degli Ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale (abitualmente ma non del tutto propriamente definito “Olocausto”).

Nel libro viene ospitato un intervento del 1997 di Avram Goldstein Goren (1905-2005), magnate della finanza ebreo romeno e filantropo, vissuto fra la Palestina e l’Italia, testimone della Shoah, che usa parole semplici eppure emblematiche, togliendole dalle sue memorie di deportato pubblicate in due libri di grande successo. Segue poi un poemetto in versi liberi di Maurizio Nocera, dal titolo “Il demonio della morte ad Auschwitz”, di recente composizione.

Nel suo intervento Maurizio Nocera, anche segretario della sezione leccese dell’Anpi (Associazione nazionale partigiani italiani), ricorda come nella campagna di odio antisemita, la Shoah fu la punta più estrema della programmatica opera di sterminio del popolo ebreo voluta dalla mente criminale di Adolf Hitler. Cionondimeno, grandi furono le responsabilità del regime fascista italiano che seguì il dittatore tedesco nella sua dissennata politica, che sfociò nel progetto di pulizia etnica con l’Olocausto.

La più grande vergogna della politica fascista viene individuata da Nocera nelle leggi razziali promulgate nel 1938 e successivamente nella creazione anche in Italia dei campi di concentramento sul modello dei lager tedeschi. Di questi, il più tristemente noto è quello di Auschwitz-Birkenau, a nord di Cracovia, Polonia, dove vennero uccisi milioni di Ebrei, insieme a Rom e Sinti, e liberato dall’Armata Rossa il 27 gennaio del 1945. Questo giorno successivamente è diventato la Giornata della Memoria, istituito in Italia con una legge del 2000, recepita poi anche dall’Onu, che ha dichiarato il 27 gennaio Giornata mondiale della Memoria.

Questo impegno è stato promosso principalmente dall’Unesco, ovvero l’Organizzazione delle Nazioni Unite per la Scienza, l’Educazione e la Cultura, nata nel 1946 dalla volontà dei Ministri della Cultura dei Paesi alleati. Su questa organizzazione mondiale e sul suo impegno per la cooperazione e la pace nel mondo, si sofferma Pompeo Maritati nel suo intervento all’interno del libro. Lo stesso Maritati, presidente del club Unesco di Lecce, individua le cause di una immane tragedia come l’Olocausto, non solo nella precisa volontà del regime nazista, ma anche nella acquiescenza dei popoli europei, nella loro indifferenza di fronte ad una simile aberrazione. Ciò perché il regime totalitario aveva in qualche modo svuotato la coscienza della gente, fino ad annullare ogni capacità critica, non solo nel popolo minuto, nella massa degli illetterati, ma addirittura negli intellettuali, molti dei quali avallarono incredibilmente le deportazioni di massa e poi il genocidio. L’indifferenza, sostiene Maritati, seguendo le parole di Liliana Segre, fu mortale almeno quanto i lager e le camere a gas. Maritati sottolinea poi come, dopo la fine della guerra, nonostante il famoso processo di Norimberga, molti criminali nazisti la abbiano fatto franca, con la complicità dei governi nazionali, primo fra tutti il governo tedesco, che imbastì dei processi farsa, garantendo la sostanziale immunità dei colpevoli. Ciò che grida vendetta agli occhi del mondo, secondo Maritati, è proprio questa assenza della giustizia di fronte al genocidio degli ebrei e a chi lo operò. Ecco che il giorno della memoria serve allora non solo per ricordare quanto accadde e per commemorare le vittime del nazifascismo, ma anche per stimolare la riflessione e il pensiero critico delle nuove generazioni di fronte agli emergenti totalitarismi e alle persecuzioni che in forme diverse si perpetuano in svariate parti del mondo, a danno di indifese minoranze.

La seconda sezione del libro, “Voci nel vento”, è dedicata ai dipinti di Massimo Marangio, artista salentino che dipinge con la tecnica del bitume su tela. L’autore rappresenta l’inferno del lager nazista attraverso l’esposizione espressionista dei protagonisti di quell’orrore, le vittime della persecuzione, o più che altro, si potrebbe dire, dei loro corpi. Corpi nudi, emaciati, volti scarniti e magri, esili figure pallide che si muovono come fantasmi sul teatro di una tragedia infinita. Persone ed animali, esponenti di un’umanità dolente, deprivata, protagonisti anonimi popolano questi quadri, dalle rese cromatiche forti, e le immagini ci arrivano inquietanti, stranianti. I contorni sono sfumati, ci lasciano percepire solo una massa indistinta di condannati, morti viventi, a volte sotto lo sguardo vitreo dell’ufficiale nazista la cui macabra figura si staglia sulla turba dei senza volto. Massimo Marangio, che insegna presso il Liceo Artistico Ciardo- Pellegrino di Lecce, ha esposto nelle maggiori fiere nazionali ed è originario di San Pietro Vernotico, il paese di Domenico Modugno, al quale ha anche dedicato una mostra nel 2018, “Dipinti pensati su Domenico Modugno e Pierpaolo Pasolini”, curata proprio da Maurizio Nocera. La ricerca storica è alla base delle sue pitture, come si può evincere dai titoli delle varie personali (basti citare, fra le altre: “Balconi a Oriente”, “Testimoni del tempo” “I luoghi della Taranta”, “Arie crepuscolari”). Marangio è un pittore impegnato che non esita a scegliere tematiche di carattere sociale nelle sue opere. Emblematica è questa, presente nel libro, sebbene priva di didascalie e di qualsiasi commento; forse, nell’intenzione dei proponenti, per lasciare che siano le immagini a parlare da sé. Il messaggio arriva forte e chiaro. Ed assolutamente consigliabile è la lettura del libro.

Libri| San Lorenzo da Brindisi in dialogo con i Luterani

IL COLLOQUIUM CHARITATIVUM E L’IMPEGNO DI P.ALFREDO DI NAPOLI SU SAN LORENZO DA BRINDISI

 

di Paolo Vincenti

Ormai vastissima la bibliografia su San Lorenzo da Brindisi, al secolo Giulio Cesare Russo (Brindisi, 1559-Lisbona, 1619). Beatificato da Pio VI (1783) e canonizzato da Leone XIII (1881), fu proclamato Doctor Apostolicus da Giovanni XXIII (1959) con il breve Celsitudo ex humilitate, confermando il decreto della Congregazione dei Riti del 28 novembre 1958.

Il titolo gli venne conferito per i suoi meriti nell’ambito della esegesi biblica, della teologia e della predicazione. Su tutti, degno di menzione è il lavoro svolto da Arturo M. da Carmignano di Brenta: San Lorenzo da Brindisi, dottore della chiesa universale (1559-1619),[1] soprattutto con riferimento all’Opera Omnia del santo da Brindisi.[2]

Nel 2017, presso la Biblioteca Provinciale dei Cappuccini di Puglia di Bari, si è tenuto il Convegno “Colloquium Charitativum”, sia per celebrare l’anno luterano (2016-2017), che in vista delle commemorazioni per il IV Centenario della morte di San Lorenzo (2019).  Nel 2018 è stato pubblicato, a cura di Alfredo di Napoli, il volume “Colloquium Charitativum”: San Lorenzo da Brindisi in dialogo con i Luterani, che ne riporta gli Atti.[3]

Nel volume, dopo il Discorso inaugurale di Alfredo Marchello,[4]l’Indirizzo di saluto di Ruggiero Doronzo,[5] e l’Introduzione di Alfredo di Napoli,[6] si trova il primo contributo, che è di Francesco Neri, OFM, Docente di Teologia Sistematica presso la Facoltà Teologica Pugliese. Nel suo contributo, San Lorenzo da Brindisi “Doctor Apostolicus”. La teologia al servizio dell’evangelizzazione,[7]l’autore, pur riconoscendo che “su questo Dottore della Chiesa non mancano studi di carattere storico e spirituale”, lamenta che essi siano “sovente carichi di un pregiudizio d’ammirazione e devozione, che però sortiscono l’effetto di rendere san Lorenzo tanto esemplare quanto irraggiungibile e ininfluente. Inoltre proprio lo specifico teologico, per quanto oggetto di approfondimenti settoriali, attende ancora di essere dettagliatamente studiato e sistematicamente divulgato”. Pertanto propone: “Con le nostre pagine, tentiamo di offrire un contributo proprio alla lettura teologica di san Lorenzo da Brindisi.”[8]

Gianluigi Pasquale OFM, Professore incaricato nella Facoltà di Sacra Teologia della Pontificia Università Lateranense, Stato della Città del Vaticano, Docente di Teologia Fondamentale a Milano nella sezione parallela dello Studio Teologico affiliato «Laurentianum» di Venezia, è autore del saggio La Teologia della Storia nella dottrina di san Lorenzo da Brindisi. In un margine di confronto con Martin Lutero.[9] “Questa ricerca si presenta come il primo studio in assoluto che enuclea la «teologia della storia» a partire dall’intera Opera omnia di San Lorenzo da Brindisi. E della stessa punta a evidenziarne l’intrinseca originalità, declinabile in alcuni tratti. Il primo sta nello sforzo, impari, attuato dal Brindisino nell’aver saputo leggere la Sacra Scrittura attraverso una costante lente d’ingrandimento cristologica. Il secondo, di essersi inserito adeguatamente nella tradizione francescana la quale, valorizzando l’atomo della libertà umana per ottenere la salvezza, della stessa privilegia la nerbatura volontaristica, rispetto a quella intellettiva. Nel terzo, Lorenzo da Brindisi esibisce quell’originale capacità di interpretare la storia a partire dai tre attori in essa perennemente coinvolti: Dio, l’uomo e il male, potenza oscura che solo Gesù Cristo potrà debellare. Infine, il Dottore Apostolico evidenzia, ante litteram, lo stigma soteriologico afferente alla storia, sapendo che essa non è un banale transitare di accadimenti, ma utilizza gli stessi per «concedere» a Dio di salvare l’uomo, innalzandolo dal presente verso l’eternità.”[10]

Questo contributo è pure importante perché si dà notizia di un’opera poco conosciuta di San Lorenzo, ovvero il Commentariolum, una sorta di poscritto al Lutheranismi Hypotyposis Martini Lutheri [11]che “è un manoscritto avventuratamente trovato, lacero, nell’anno 1770 da fra’ Giovanni Maria da Bergamo (1705-1773), Cappuccino, Segretario del Reverendissimo Padre Francesco Maria da Bergamo, Predicatore del Sacro Palazzo Apostolico”, come chiarisce l’autore, che cita a suffragio dell’autenticità dell’opera laurenziana, Bonaventura da Coccaglio.[12]

Paolo Cocco OFM, Professore invitato presso la Pontificia Università San Tommaso “Angelicum” di Roma e presso l’Istituto di Teologia della Vita Consacrata “Claretianum” incorporato alla Pontificia Università Lateranense, è autore di Lorenzo da Brindisi e Martin Luther. Dal conflitto alla comunione?.[13] In questo contributo, analizza la polemica fra Policarpo Leyser e Lorenzo da Brindisi e fra Lorenzo e Martin Luther, preludio al conflitto armato che da lì a poco avrebbe contrapposto i cattolici ai protestanti. Proponimento del Cocco è, seguendo le sue stesse parole, “analizzare lo spessore e il significato del conflitto che Lorenzo da Brindisi ha alimentato nei confronti di Martin Luther e quindi tra cattolici e luterani […] scavare al di sotto del conflitto e sondare se ci sia, al di sotto delle apparenze e delle evenienze storiche, comunione tra Lorenzo e Luther […] cercare di cogliere il messaggio che Lorenzo e Luther possono offrire a noi cristiani del XXI secolo e le istanze che essi possono suggerire e sollecitare, perché sia posta più adeguatamente in rilievo la comunione in Cristo che già sussiste tra noi, perché possa meglio brillare, a gloria di Dio, in questa nostra epoca.”[14]

Angelo Romita, Direttore dell’Ufficio per l’Ecumenismo, diocesi di Bari-Bitonto, è autore del saggio Papa Francesco e i risultati di Lund. La Dichiarazione congiunta cattolico-luterana (31.X.2016),[15]che offre “alcune riflessioni sulla Dichiarazione congiunta cattolico-luterana firmata il 31 ottobre 2016 a Lund (Svezia), […] corredate dalla presentazione di due importanti documenti dottrinali: la citata Dichiarazione congiunta e la ‘Dichiarazione lungo il cammino: Chiesa, Ministero ed Eucaristia’, che contiene le 32 affermazioni teologiche della Commissione per le questioni ecumeniche e interreligiose della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti (USCCB) e della Chiesa evangelica luterana in America (ELCA).”[16] Alfredo di Napoli, Università del Salento, Consulente scientifico del Convegno, è autore del saggio Dal Conflitto tra san Lorenzo da Brindisi e P. Leyser al Consenso cattolico-luterano (1607-1999.[17] “Attraverso la narrazione di un episodio avvenuto a Praga nel 1607, riguardante la disputa teologica tra san Lorenzo da Brindisi e il luterano Polykarp Leyser, l’articolo propone una rivisitazione delle posizioni teologiche dei protagonisti alla luce dei risultati della Dichiarazione congiunta tra la Chiesa Cattolica e la Federazione Luterana Mondiale (Augusta, 1999) per evidenziare le possibili convergenze sulla dottrina della giustificazione tra le due teologie.”[18]Nel saggio, l’autore si chiede: “San Lorenzo da Brindisi: uomo ecumenico?”, e risponde: “La domanda non è retorica. Per dare una risposta bisognerebbe da una parte venir fuori dalle prospettive odierne di “fare ecumenismo”, dall’altra evitare di correre il rischio di “fare irenismo”. Oggi le Chiese cristiane si incontrano, dialogano, organizzano meeting, soprattutto pregano. Non è poco; sappiamo però quanto difficili siano i rapporti di confronto basati sulle riflessioni teologiche. L’azione “ecumenica” di san Lorenzo da Brindisi rivela un proprium e assume il suo significato positivo nella sua stessa definizione di teologo impegnato nella ricerca e nell’affermazione della verità. Egli fu un uomo di incontro e di confronto, base indispensabile del dialogo.”[19] E porta altri esempi di campioni del dialogo e dell’ecumenismo, a partire dallo stesso Valeriano Magni, discepolo di Lorenzo, che nel 1645 a Toruń partecipò al Colloquium Charitativum teologico tra i rappresentanti delle confessioni cristiane convocato da Ladislao IV di Polonia (1632-1648). Ma anche il cardinale veneziano Gasparo Contarini durante la dieta di Ratisbona; e poi i teologi del Cinquecento Albert Pigge, Julius Pflug, Johann Gropper e prima di loro Caetano Tommaso De Vito. “Essi certamente non aderivano all’opinione di Lutero, ma si richiamavano ad Agostino e a Bernardo da Chiaravalle. Mossi da un profondo spirito che oggi possiamo definire “ecumenico” ante litteram, hanno cercato il dialogo senza eccedere nell’irenismo.”[20]

Vi è anche un contributo di Mechthild Lattorf, Pastora della comunità evangelica-luterana di Bari.[21]

Nello stesso libro, dopo le Conclusioni di Mario Spedicato, Università del Salento,[22]viene pubblicato, nella sezione Documenti, il Carteggio sulla disputa teologica tenuta a Praga nel 1607 tra Leyser e san Lorenzo da Brindisi,[23] già edito nella citata opera di Arturo M. da Carmignano di Brenta. Un volume consistente per numero di pagine, ma soprattutto notevole per il denso contenuto di analisi e interpretazione laurenziana.

Un plauso va a Padre Alfredo di Napoli per il suo impegno di infaticabile promoter dell’opera di san Lorenzo. Basti qui citare alcune fra le ultime iniziative che lo hanno visto coinvolto. Prima del libro qui recensito, nel 2016 ha pubblicato La storia si fa preghiera. Litania pro serenissimo rege Maximiliano II contra Turcas (1566),[24] presentato lo stesso anno nel XX Colloquio Laurenziano organizzato dalla Cattedra Laurenziana dell’Arcidiocesi di Brindisi-Ostuni e dalla Società di Storia Patria per la Puglia-Sezione di Brindisi.

Il libro riporta il testo di una Litania, recitata da Massimiliano II d’Asburgo in occasione della guerra contro i Turchi del 1566 e dedicata a San Lorenzo, che era cappellano militare in Ungheria nel 1601; il testo originale si trova presso l’Archivio di Stato di Vienna.
Nel 2017, ha publicato Secundum Regulam ex Eleemosinis, con Prefazione di Mons. Benigno L.Papa. Molta parte del libro è dedicata a San Lorenzo da Brindisi.[25] L’autore riporta una ponderosa cronologia di fonti bibliografiche edite ed inedite sulla vita e le opere del santo. In particolare modo, sulla partecipazione di Lorenzo alla battaglia di Albareale del 1601, di Napoli pubblica una memoria inedita, contenuta nella Relazione degli avvenimenti occorsi al santo nei paesi transalpini dal 1599 al 1612, ovvero Commentario manuscritto originale fatto per obbedienza dal venerabile servo di Dio il p.Lorenzo da Brindisi, il cui originale autografo è conservato in Archivio Provinciale Cappuccini Milano. Ms.338.

Di Napoli si sofferma sui processi diocesani e di canonizzazione di San Lorenzo, iniziati all’indomani della sua morte, e di alcuni di questi riporta diversi estratti, tutti comunque presenti in A.M Carmignano del Brenta, nel Volume IV/2 della già citata opera. Segue poi le travagliate vicende della beatificazione e della canonizzazione del santo lungo i secoli Settecento e Ottocento, fino ad arrivare alla proclamazione di Dottore della Chiesa universale del 1959.

Nel libro viene anche riportata la summenzionata Litania pro serenissimo rege Maximiliano II contra Turcas di Massimiliano II d’Asburgo, nella doppia versione latina e italiana. Inoltre, un documento, anch’esso inedito, delle monache clarisse del Convento cappuccino di Alessano che dedicano a San Lorenzo da Brindisi la Cronaca della loro fondazione.[26]

 

Note

[1] Arturo M. Da Carmignano Di Brenta, San Lorenzo da Brindisi, dottore della chiesa universale (1559-1619), I-IV/2, Venezia, Curia provinciale dei Frati Minori Cappuccini, 1960-1963.

[2] Questo il titolo completo: S. Laurentii a Brundusio, Opera omnia a Patribus Min. Capuccinis prov. venetae e textu originali nunc primum in lucem edita notisque illustrata, Patavii, Ex Officina Typographica Seminarii, 1928-1956, con la seguente progressione: I. Mariale; II/1-3. Lutheranismi Hypotyposis; III. Explanatio in Genesim; IV. Quadragesimale primum; V/1-3. Quadragesimale secundum; VI. Quadragesimale tertium; VII. Adventus; VIII. Dominicalia; IX. Sanctorale; X/1. Quadragesimale quartum; X/2. Sermones de tempore adiectis opusculis: 1. De rebus Austriae et Bohemiae, 2. De numeris amorosis.

[3] “Colloquium Charitativum”: San Lorenzo Da Brindisi in dialogo con i Luterani Atti del I Convegno di studi storico-ecumenici Bari, 29 aprile 2017, a cura di Alfredo di Napoli, Bari, L’aurora Serafica, 2018.

[4] Alfredo Marchello, Lorenzo da Brindisi: uomo del passato, santo del nostro tempo, in Colloquium Charitativum”: San Lorenzo Da Brindisi in dialogo con i Luterani, cit., pp.XV-XVII.

[5] Ruggiero Doronzo, La Biblioteca Provinciale dei Cappuccini di Puglia e il Colloquium Charitativum, Ivi, pp. XIX-XX.

[6] Alfredo di Napoli, La proposta del ‘Colloquium Charitativum’ nell’Anno Luterano (2017), Ivi, pp. XXI-XXV.

[7] Francesco Neri Ofm, San Lorenzo da Brindisi “Doctor Apostolicus”. La teologia al servizio dell’evangelizzazione, Ivi, pp. 1-19.  Il saggio è stato già pubblicato in Solus amor hic me tenet. Scritti in onore di Salvatore Palese, a cura di L.Lotti, Monopoli (BA), Edizioni Viverein, 2013, pp. 319- 335.

[8] Ivi, p.1. Francesco Neri, è anche autore di San Lorenzo da Brindisi “Doctor Apostolicus”. La teologia al servizio dell’evangelizzazione, in “Italia Francescana” 85, 2010, pp.126-141.

[9] Gianluigi Pasquale Ofm, La Teologia della Storia nella dottrina di san Lorenzo da Brindisi. In un margine di confronto con Martin Lutero, Ivi, pp.21-66.

[10] Ivi, p.21.

[11] S. Laurentii Brundisini, De rebus Austriae et Bohemiae 1599-1612. Commentariolum autographum. Primum evulgavit notisque ac multis monumentis ineditis illustravit p. Eduardus Alenconiensis ejusdem Ordinis Archivo Praefectus, Romae, Apud Curiam Generalitiam, 1910. Sul Commentariolorum, si veda anche A.J.G. Drenas, Lorenzo da Brindisi’s ‘Commentariolum de rebus Austriae et Bohemiae’: an introduction to, and translation of, the Document in English, in “CF”, 85/3-4, 2015, pp. 595-629.

[12] Bonaventura Da Coccaglio, Ristretto istorico della vita, virtù e miracoli del B. Lorenzo da Brindisi, Generale dell’Ordine de’ Cappuccini, Venezia, Ed. Simone Occhi, 1783.  Di Gianluigi Pasquale, si segnala anche La parola dalla Scrittura: l’attualità della teologia in San Lorenzo da Brindisi Dottore della Chiesa, in “Italia Francescana” 85, 2010, pp.249-255.

[13] Paolo Cocco Ofm, Lorenzo da Brindisi e Martin Luther. Dal conflitto alla comunione?, Ivi, pp.67-75.

[14] Ivi, p.67.

[15] Angelo Romita, Papa Francesco e i risultati di Lund. La Dichiarazione congiunta cattolico-luterana (31.X.2016), Ivi, pp.77-83.

[16] Ivi, p.77.

[17] Alfredo di Napoli, Dal Conflitto tra san Lorenzo da Brindisi e P. Leyser al Consenso cattolico-luterano (1607-1999), Ivi, pp.101-134. Questo contributo è stato già pubblicato in “Parola e Storia”, Rivista dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose “San Lorenzo da Brindisi” dell’Arcidiocesi di Brindisi-Ostuni (Facoltà Teologica Pugliese), 21, a. XI/1, 2017, pp.39-66.

[18] Ivi, p. 101.

[19] Ivi, p.105.

[20] Ivi, p.108.

[21] Mechthild Lattorf, Predigt zum 500. Gedenktag der Reformation Bari 2017, Ivi, pp.135.143.

[22] Mario Spedicato, Conclusioni, Ivi, pp.145-148.

[23] Documenti, Ivi, pp.149-181.

[24] Alfredo di Napoli, La storia si fa preghiera. Litania pro serenissimo rege Maximiliano II contra Turcas (1566), Bari, L’Aurora Serafica, 2016.

[25] Alfredo di Napoli, Secundum Regulam ex Eleemosinis. Il Salento e i suoi frati cappuccini (secoli XVI-XVII), L’Aurora Serafica, Bari, 2017, pp.239-328.

[26] Si veda anche Vincenzo Criscuolo, San Lorenzo da Brindisi e i due monasteri brindisini delle cappuccine “Santa Chiara” e “Santa Maria degli Angeli”, in “Collectanea Franciscana,” 79/1-2, Assisi-Roma, 2009, pp.149-179.

 

Libri| Guida al Grottesco

AA.VV. , GUIDA AL GROTTESCO, A CURA DI CARLO BORDONI E ALESSANDRO SCARSELLA, BOLOGNA, ODOYA, 2017, PP. 287.

di Paolo Vincenti

Il genere letterario della saggistica è in piena salute, come conferma questo libro edito da Odoya: Guida al Grottesco, a cura di Carlo Bordoni e Alessandro Scarsella (Bologna 2017). Il volume è diviso in 17 capitoli, più un’Appendice, firmati da vari autori, compresi i due curatori.

La definizione di grottesco si fa storicamente risalire alla scoperta romana delle grotte nella casa di Nerone, sul Colle Esquilino, e alla definizione di grottesche che ai disegni parietali che le caratterizzavano diede Benvenuto Cellini nel Cinquecento. In queste grotte, che si trovavano sotto la Domus Aurea infatti, erano dipinte strane creature, animali, volatili, vegetali, esseri bizzarri, che in mancanza di categorizzazione vennero definiti grotteschi per via della loro localizzazione. Questo genere artistico si colloca fra il comico ed il tragico.

Il grottesco è tutto ciò che attiene alla ibridazione, alla stranezza, alla irregolarità, tutto ciò che sfugge alla normalità, insomma potremmo dire tutto ciò che è, o appare, anormale. Di contro alla simmetria delle forme classiche, il grottesco dà vita a forme bizzarre, sfuggenti, volutamente esagerate, eccessivamente ingrandite o rimpicciolite; ecco allora che oggetti che amiamo ci appaiono sotto un’altra luce o addirittura i corpi umani ci sembrano ributtanti, osceni, se ingranditi nei loro minimi particolari anatomici, come per esempio dovevano apparire a Gulliver i corpi nudi delle donne giganti nell’opera di Jonhatan Swift.

In altri termini, il grottesco è il deforme, il subnormale, il mostruoso. Deforme è l’aspetto di Tersite, nell’Iliade, le teste degli Ortolani nei quadri di Arcimboldo, smisuratala è la bocca di Gargantua e ancor di più di Pantagruele, in Rabelais, il naso di Cirano, il ventre di Ubu Roi, mostruoso è il volto del Fantasma dell’Opera, dell’Orco cattivo delle favole, di Elephant man al cinema. A dominare è l’iperbole, la voluta enfatizzazione di caratteri fisici o psicologici, la messa in risalto delle funzioni primarie del corpo, come defecare o far minzione, quelle che si è portati a nascondere, l’ostentazione delle parti intime, non a caso chiamate pudenda.

In pittura, nella raffigurazione con la tecnica della condensazione, vengono aggrumati degli elementi per cui diventa incomprensibile, non più riconoscibile la loro funzione originaria, oppure vengono dilatati, allontanati, con lo stesso risultato. Ancora, degli oggetti possono essere decontestualizzati rispetto al loro uso abituale, oppure viene fatta una sostituzione di elementi con altri elementi; il grottesco è un ribaltamento delle forme o rovesciamento, quando per esempio il deretano prenda il posto della testa, o il didietro del corpo venga messo davanti, oppure i piedi girati all’indietro.

Da punto di vista teoretico, il brutto, nella sua identificazione con il grottesco, ha seguito un percorso lungo che, secondo la ricostruzione di Remo Bodei (Le forme del bello, 2003), si potrebbe sintetizzare nelle seguenti tappe. Nella concezione classica, a partire da Platone, il brutto viene condannato radicalmente ed estromesso da qualsiasi considerazione sull’arte. Il brutto, per essere incongruità, disarmonia, scardina il concetto eminentemente classico di bello come proporzione ed eleganza delle forme, e per questo non compare nelle dissertazioni. Come si sa, infatti, la bellezza viene intesa dai classici secondo la triade, appunto platonica, di bello, buono e vero. Il brutto è in questo senso il contrario dell’arte, e questa condanna totale, da Platone giungerà, attraverso Plotino con le sue Enneadi, anche al Medioevo, permeando la teorie estetiche dei secoli fino al Rinascimento.

Il bello nella concezione classica ha una valenza morale, sintetizzata dalla formula greca kaloskaghatòs, e a maggior ragione il brutto, che è indecenza, corruzione morale, non vi rientra. Nel Settecento, che infatti riprende il concetto classico di bellezza come armonia delle forme, pulizia, linearità, il brutto viene ancora estromesso dall’arte neoclassica, di cui uno dei massimi teorizzatori è Lessing con il suo Laoconte, che utilizza come grandiosi esempi della bellezza le statue dell’arte antica.

Dunque, prima di tutto il grottesco rientra nella categoria del brutto, inteso come assenza del bello o come contrapposizione al bello. Inoltre, il grottesco appartiene alla categoria del comico e in particolare al novero del ridicolo, che del comico è una degenerazione. Esso può considerarsi un venir meno dell’ordine formale che caratterizza l’essenza del bello, dunque come disarticolazione, confusione e anche assenza di unità; per esempio, nel corpo umano, si potrebbe pensare ad una scomposizione delle parti, come quella attuata da Hieronimus Bosch nei suoi quadri in cui sezioni del corpo, disaggregate, volutamente esagerate, campeggiano in un caos senza limiti.

Il grottesco utilizza un iperrealismo talmente forte che appare assurdo, o al contrario una incompiutezza quasi astratta; in ogni caso, i suoi elementi nodali rimangono la discrepanza, la smisuratezza, l’anomalia, come informa uno dei suoi massimi teorizzatori che è Michail Bachtin. Questa iperbolicità nel grottesco procura degli effetti di straniamento simili a quelli del comico, che però debordano nel ridicolo, e Bachtin utilizza come caso esemplare il romanzo Gargantua e Pantagruel di Rabelais.  La rappresentazione iperbolica del corpo umano può suscitare il riso, apparire divertente, sia pure nel suo effetto straniante, giocosa, in fin dei conti positiva, come in Rabelais, oppure può essere triste, quando del corpo vengano messe in risalto le funzioni corporali, e in questo caso è attuata in chiave negativa, quasi deprimente, come per esempio avviene in Swift. Il ridicolo è proprio conditio sine qua non del grottesco, fin dalla Commedia d’età classica, analizzata anche da Aristotele nella sua Poetica.

Nell’Ottocento, il brutto entra nelle teorizzazioni estetiche e acquista un suo statuto autonomo, viene considerato come categoria a sé, in termini di contrapposizione e ribaltamento della categoria del bello. Il brutto quindi, come contrario del bello, guadagna una sua dimensione ontologica. La principale teorizzazione in questo senso è quella di Karl Rosenkraz con l’Estetica del brutto del 1853, ma si deve anche a Victor Hugò, il quale espone le sue idee in materia nella Prefazione della tragedia Cromwell, del 1827.  Hugò rappresenta il brutto, nella sua dimensione grottesca, in opere come Notre Dame de Paris, con la famosa figura del gobbo Quasimodo, repellente e deforme, e L’uomo che ride, con la inquietante e sardonica figura di Gwynplaine, ma anche ne I lavoratori del mare, con la orrorifica figura della piovra antropomorfa, e ne Il re si diverte, con la figura dello sciancato gobbo Triboulet che, trasposto in musica da Giuseppe Verdi, diventa Il Rigoletto. Grottesco è il paese di Cuccagna e in generale tutti i mondi alla rovescia partoriti dalla letteratura, come Bengodi, Capinculo, il Paese di Prete Gianni, il Paese di Carnevale, ecc.

Quanto finora sommariamente descritto viene dettagliatamente esposto nel libro che si recensisce. Nel capitolo su “Barocco ed eccesso”, si passa in rassegna l’uso del grottesco nella letteratura inglese d’età elisabettiana e giacobita. Il riferimento è alle opere La duchessa di Amalfi, di Webster, Peccato che sia una puttana, di Jhon Ford o Tito Andronico di Shakespeare, nelle quali sulla componente orrorifica, mutuata direttamente da Seneca, si colloca l’elemento grottesco, in termini di straniamento o paradosso, soprattutto in opere come Re Lear, di cui viene analizzata l’emblematica figura del fool, il buffone di corte, o Macbeth o Troilo e Cressidra. In un altro capitolo del libro, si passano in rassegna le maschere della commedia dell’arte: Arlecchino e Colombina, Pantalone, Rosaura, Brighella, la Gnaga o donna gatto, e il loro rapporto con Venezia.

Uno dei capitoli più interessanti è quello su circo e cinema. Un saggio sul grottesco non può non prendere in considerazione la figura del diavolo nelle infinite sue declinazioni, dai trattati medievali fino alla sua rappresentazione nella letteratura horror e nella cinematografia contemporanee, passando per L’Inferno di Dante, Belfagor di Machiavelli ed il Faust prima marlowiano cinquecentesco, poi goethiano settecentesco, per arrivare ai Faust novecenteschi di Pessoa e di Thomas Mann. Viene trattata anche la Fiaba per poi arrivare al Grand Guignol, che può essere considerato il teatro del grottesco par eccellence. In questo capitolo, viene analizzato un classico del grottesco, ovvero il già citato L’Ubu Roi di Alfred Jarry, rappresentato nel 1896 a Parigi, uno dei testi fondamentali della dissoluzione contemporanea, nelle sue varie declinazioni di Ubu incatenato, Ubu cornuto, Ubu sulla collina e gli altri episodi di una saga al centro della quale troneggia, pantagruelico, Ubu con il suo ventre enorme e la sua fame insaziabile, soprattutto con la sua deformità del fisico che riflette quella dell’animo.

Jarry aveva inventato il personaggio nel suo romanzo Guignol, del 1893, che si può considerare un precursore del genere. Questa forma di teatro, ideata da Oscar Meténier,  rappresenta forse l’estensione più emblematica del grottesco novecentesco, con i  personaggi dei bassifondi cittadini che mette in scena, le puttane, i delinquenti, i derelitti e tutta la vara umanità di scarto della moderna civiltà, grazie agli autori Antona Taverna e Andrè de Lorde, i quali, insieme a molti altri, rappresentano sul palco, con tocco verista, uccisioni e scannamenti, con abbondante uso di strumenti di tortura, armi da taglio e sangue che sgorga a fiotti insozzando gli spettatori della prima fila. Il Grand Guignol è un teatro di avanguardia che attraverso la spettacolarizzazione dell’orrore, della violenza, delle pulsioni più basse di un’umanità criminale e assassina, sulla quale si esercita letterariamente Antonin Artuad, costituisce la punta più estrema del grottesco, che si avvale di tinte forti, contrasti netti, e fa gridare allo scandalo i benpensanti.

E se il grottesco rimanda a tutto ciò che è bizzarro, deforme, spaventevole, quale migliore estrinsecazione dei mostri? Dalla letteratura gotica al fantastico moderno, il libro offre una imperdibile cavalcata attraverso i migliori parti letterari degli autori del terrore.  Così come attraverso i vampiri e gli spettri e i fantasmi. Nella vasta letteratura e nella cinematografia su mostri, vampiri e fantasmi, va da sé che sia facilissimo che si scada nel ridicolo, che l’orrore divenga parodia, demistificazione del genere stesso.

Anche nel genere fantascientifico, il grottesco rappresenta una degenerazione nel senso del suo opposto; dalla fantascienza classica, cioè che si basa sulla scienza e innesta su una base scientifica l’elemento di incredibilità, si passa al grottesco che è invece anti classico, ovvero anti scientifico. In particolare il grottesco riguarda quel sottogenere della fantascienza che è il fantascientifico comico, in cui esso si manifesta più che altro come satirico. In conclusione, Guida al grottesco è un saggio molto denso e ricco di spunti di riflessione erudita.

Sabatino De Ursis e la questione dei riti cinesi nel Nome di Dio (1610-1939)

“ANDIAMO ERRATI, ANDIAMO ERRATI”

SABATINO DE URSIS E LA QUESTIONE DEI RITI CINESI NEL NOME DI DIO (1610-1939).

 

di Francesco Frisullo – Paolo Vincenti

 

ABSTRACT. The work De cognitione Veri Dei apud Litteratos, by the Jesuit from Salento Sabatino de Ursis (1575-1620), a missionary in China, can be considered the starting point of the thorny and secular “Question of rites”, which involved the Church in various several times over, from 1610 to 1939. The work was lost but his arguments were taken up in the drawing up of the Traitè sur quelques points de la religion des chinois by Nicolò Longobardo. The treaty deals with the question of the translation of the word “god” into Chinese, with the compatibility with Catholicism of the Confucian rites attributed to the deceased and Confucius and ultimately with the relationship between Catholicism and Confucianism. Opinions on these subjects were radically divergent, even among the Jesuits themselves, so as to create a profound fracture with all the other religious orders. The treatise by Longobardo, therefore, will not be published by the Jesuitical Society, but by the philosopher Leibniz, in 1701.  

 

RIASSUNTO. L’opera De cognitione Veri Dei apud Litteratos, del gesuita salentino Sabatino de Ursis (1575-1620), missionario in Cina, può essere considerato il punto di partenza della spinosa e secolare “Questione dei riti”, che coinvolse la Chiesa, in varie riprese, dal 1610 al 1939. L’opera fu smarrita ma le sue argomentazioni vennero riprese nella stesura del Traitè sur quelques points de la religion des chinois di Nicolò Longobardo.

Il trattato affronta la questione della traduzione del termine “dio” in cinese, della compatibilità con il cattolicesimo dei riti confuciani tributati ai defunti e a Confucio e in definitiva del rapporto tra Cattolicesimo e Confucianesimo. Le opinioni su tali argomenti erano radicalmente divergenti, anche tra gli stessi gesuiti, tanto da creare una frattura profonda con tutti gli altri ordini religiosi. Il trattato di Longobardo, pertanto, non verrà pubblicato dalla Compagnia di Gesù ma dal filosofo Leibniz, nel 1701.

 

Nel 1618, il gesuita salentino Sabatino de Ursis (1575-1620)[1], missionario in Cina, scrive il De cognitione Veri Dei apud Litteratos, opera smarrita, le cui argomentazioni saranno riprese nella stesura del Traitè sur quelques points de la religion des chinois di Nicolò Longobardo. Il trattato affronta la questione della traduzione del termine “dio” in cinese, della compatibilità con il cattolicesimo dei riti confuciani tributati ai defunti e a Confucio e in definitiva del rapporto tra Cattolicesimo e Confucianesimo. Le opinioni su tali argomenti erano radicalmente divergenti, anche tra gli stessi gesuiti, tanto da creare una frattura profonda con tutti gli altri ordini religiosi. Il trattato di Longobardo, pertanto, non verrà pubblicato dalla Compagnia di Gesù ma dal filosofo Leibniz, nel 1701. Ma procediamo con ordine.

 

“Pigliate da noi”

Tutto parte da Matteo Ricci (1552-1610), il grande evangelizzatore della Cina, matematico, geografo e sinologo. Il carisma di Ricci faceva la sua parte nel guadagnare alla religione cristiana nuovi accoliti in Cina, ma il numero delle conversioni aumentò progressivamente anche grazie ai missionari giunti dopo di lui a rinforzare l’opera cristiana, fra i quali Niccolò Longobardo (1559-1654)[2], che poi sostituì Ricci nella guida della missione. Matteo Ricci, nell’opera Il vero significato del “Signore del Cielo”, redatta con la supervisione del dotto cinese Feng Yingjjng e pubblicata nel 1603, affronta in forma dialogica la questione della compatibilità fra la religione cinese e quella cristiana. Frutto di una lunghissima elaborazione, l’opera di Ricci cerca di dimostrare l’esistenza di un unico e vero Dio, chiamato appunto Signore del Cielo, comune a tutte le religioni e quindi anche al Confucianesimo, alla cui autorità, a partire dai testi più antichi di quella religione, l’autore si appella per dimostrare, alla luce della ragione naturale, l’esistenza di un unico Creatore onnipotente del cielo e della terra. Con grandissima erudizione, Ricci, nel dialogo, che si svolge fra un gesuita europeo ed un dotto cinese, spesso in funzione antibuddista, chiamando in causa i più importanti testi dell’antichità classica, sia delle Sacre Scritture che del Confucianesimo, le concezioni scientifiche acquisite, e dimostrando anche la dottrina dell’immortalità dell’anima, mira a colpire l’immaginario del lettore colto della Cina del suo tempo. “Questo Qualcuno non è altri che il Signore del Cielo che le nostre nazioni occidentali chiamano Deus”, afferma Ricci, con riferimento a Dio[3].

In realtà, fu Michele Ruggieri (1543-1607) il primo a studiare il cinese e a pubblicare un’opera di teologia in quella lingua. Ruggieri fu battistrada e punto di riferimento per Matteo Ricci. Egli diede alle stampe il primo Catechismo in cinese, il Tianzhu shilu (“Vera esposizione del Signore del Cielo”), oltre a molti componimenti poetici che coniugavano la fede cristiana con il buddismo. Il Catechismo di Ruggieri costituiva una prima pionieristica prova di scritto cristiano, destinato poi ad essere sostituito dal nuovo Catechismo, Tianzhu shiyi, pubblicato da Matteo Ricci. Il testo ricciano, che fu inviato nel 1603 al Generale Acquaviva per l’approvazione, ma iniziato a scrivere già dal 1593, emendava gli errori dell’opera di Ruggieri, che infatti venne distrutta per ordine dei superiori Valignano e de Sande.

Ricci sceglie il confucianesimo[4] come dottrina con cui dialogare e rifiuta il Buddismo poiché, se così si può dire, ritiene questo più “concorrenziale” con il Cristianesimo, avendo un suo clero e contenendo numerosi elementi metafisici all’interno delle sue dottrine. Nel contrastare il buddismo, utilizza argomentazioni aristoteliche[5].

Nella sua opera Dell’entrata, sottolinea le somiglianze cultuali fra le due religioni e accusa i buddisti di averle “copiate”, travisandole dal Cristianesimo:“pigliate da noi”, afferma[6].

Se però da un lato rifiuta Buddismo e Taoismo, d’altro canto è costretto a ricorrere spesso alla terminologia buddista quando deve esprimere “la credenza nell’aldilà, l’idea del paradiso e dell’inferno e il celibato, che non sono proprie del Confucianesimo”[7].

Il temine Shangdi, ossia “Sovrano dell’alto”, inteso come espressione del “dio unico”, risale alla dinastia Shang (1766-1122 a.C.), i cui sovrani erano considerati manifestazione terrena della divinità suprema e anello di congiunzione tra il popolo e gli antenati. I Sovrani Shang e i loro successori, per tutta l’epoca imperiale, si attribuiranno l’appellativo “di”, traducibile come “imperatore”.

In epoca Zhou (900- 221 a. C), si volle svincolare la dignità imperiale dal legame dinastico e quindi si passò a esprimere la divinità con “Tian”, “Cielo”. Inoltre, per legittimare il passaggio dinastico, venne formulata la teoria del “Mandato Celeste”  (“Tiān mìng”); la dinastia Shang non godeva più della protezione del Cielo che “ ha  inviato i Zhou  per punirli e  sostituirli  e attuare il Mutamento del Mandato ( Geming)”. Su tali presupposti si fonda ancora oggi la concezione dello stato cinese[8]. Se per la questione di Dio, Ricci poteva fare affidamento sulla tradizione locale, non così facilmente gli fu possibile affrontare il tema dell’anima. Egli si trovò di fronte a maggiori difficoltà poiché, come osserva Corradini, in Cina l’opposizione sostanziale tra anima e corpo era sconosciuta [ …]  Ricci tradusse questa parola con linghun; questa terminologia fu approvata in una conferenza dei missionari gesuiti a Macao nel 1600”[9]. Secondo Etiemble, come tutte le questioni, anche quella dei riti è fondamentalmente un questione “grammairiennes ” (grammaticale): il punto è se i cinesi “venerano” o “adorano” Confucio, il Cielo, gli antenati, e se le manifestazioni tributate siano da considerarsi “riti” o “cerimonie”[10]. I gesuiti, nel loro obbiettivo di infondere il messaggio cristiano, hanno enfatizzato la “religione naturale” dei cinesi che, per l’assenza della Rivelazione divina, ha lasciato spazio alla superstizione e all’idolatria[11]. Ricci ravvisava nei cinesi la presenza di un “monoteismo naturale” o “di un antico monoteismo di cui si è persa la memoria”[12]. Questa posizione verrà messa in discussione dai suoi confratelli durante la conferenza dei missionari a Jiading del 1628, ma sarà ripresa sostanzialmente dai cosiddetti “figuristi” e abbracciata da Kircker e Leibniz, come meglio vedremo[13].

 

Dio, angeli e anima razionale dei Cinesi

Bisogna dire che, a spingere “verso una linea maggiormente compromissoria nei confronti del confucianesimo”, erano anche i letterati convertiti giapponesi e cinesi[14], che chiedevano spesso ai padri gesuiti “di confrontarsi con la cultura locale alle sue stesse condizioni”[15]. Standaert parla proprio di un cristianesimo che è stato “modellato”  dai cinesi  nel XVII secolo e tale è oggi rimasto[16].

Il libro Il vero significato del “Signore del Cielo” procurò a Ricci, inevitabilmente, la forte ostilità del clero buddista e numerosi incidenti anche abbastanza gravi.

Longobardo, successore di Matteo Ricci, dimostra di non approvare la riforma religiosa da quello propugnata. Egli rigetta la soluzione ricciana, ritiene che nessun termine cinese sia “accomodabile” alla parola Dio cristianamente intesa[17]e cerca una translitterazione della stessa in cinese, come fatto dai gesuiti giapponesi con quella lingua: per esempio, Francesco Saverio, all’inizio della sua predicazione, ricorse a termini buddisti per rendere alcuni concetti cristiani ma da subito li abbandonò affidandosi alla traslitterazione delle parole portoghesi[18]. Longobardo, democraticamente, volle coinvolgere tutti i gesuiti cinesi nella questione, chiedendo loro se fosse accettabile il compromesso ricciano fra cristianesimo e confucianesimo o se invece non fosse ritenuta, la religione di Confucio, materialista e tutt’affatto lontana dalla vera spiritualità, caratterizzandosi più che altro come un sistema di pensiero, una elaborazione teorica più vicina alla filosofia che alla teologia. Longobardo mise in dubbio l’efficacia di alcuni termini, come “angeli”, “anima” e soprattutto il nome cinese di “dio”. La stessa posizione fu assunta da de Ursis e Rodriguez, i quali sostenevano che i cinesi non avessero una nozione di dio e che quindi nessun termine adottato nei classici fosse assimilabile al dio dei cristiani[19]. La soluzione della “controversia terminologica”[20] proposta da Longobardo era “dousi” già sperimentata da Ricci ma poi abbandonata, come pure non ebbe successo nel tardo periodo Ming[21].

Vediamo di esaminare attentamente come andarono le cose. Longobardo a Pechino incontra Padre Sabatino de Ursis, “alle prese con i miei stessi scrupoli”, scrive[22], ed esprime i suoi dubbi in un trattato a due mani proprio con de Ursis, che però non ebbe alcuna influenza sulla questione perché restò manoscritto[23].  È del 1617 un trattato di Sabatino de Ursis, non pervenutoci, intitolato de Verbo Xam – ti[24].

Il nuovo Visitatore Valentino Caravallo ordinò di esaminare gli scritti classici delle “Tre sette” cinesi (Confucianesimo, Buddismo e Taoismo) e propose una lista di termini non accettabili nei testi cristiani, ordinando di individuare quelli di cui bisognava servirsi. Tale disposizione venne confermata da Francesco Viera, che diede, altresì, mandato di sottoporre le varie questione ai Mandarini cristiani. Lombardo invia il lavoro dei gesuiti di Pechino a Macao:

gli invia entrambe le cose tramite Padre Sabatino, quando questi con altri nostri Padri fu esiliato a Macao e io e gli altri raccomandai di dire a viva voce molti altri particolari che non scrivevo, facendo assegnamento su di lui come di una persona molto versata in queste materie. Assolse il compito alla perfezione; ma il Padre Visitatore, vedendo che i Padri Pantoja e Banoni (Vagnoni) che erano a Macao avevano un parere diverso dal nostro, reputò che tali controversie non potessero terminare senza che fossero trattate nella forma opportuna. Perciò ordinò ai tre Padri di scrivere ciascuno per suo conto un trattato sull’argomento, e per tenere un metodo fissò loro tre argomenti. Il primo fu Dio; il secondo gli Angeli; e il terzo l’Anima razionale; e li esortò in particolare a cercare se nelle scienze cinesi ci fossero alcunché di rapportabile a queste tre cose perché da ciò dipendeva la risoluzione da prendere sui termini cinesi di cui si poteva servire e su quelli che bisognava rigettare. I tre Padri fecero il loro trattato. I Padri Pantoja e Banoni risposero affermativamente, e cercarono di provare che i cinesi avevano avuto una qualche conoscenza di Dio, degli angeli e dell’anima, che chiamavano Xangti, Tienxin e Ling-hoen. Invece Padre Sabatino rispose negativamente, sostenendo che i cinesi, secondo i principi della loro Filosofia, non hanno conosciuto una sostanza spirituale distinta dalla materia, così come noi la concepiamo, e che di conseguenza non hanno ne conosciuto né Dio né Angeli né l’Anima razionale. Questo parere fu accolto dai Padri del Giappone  che erano a Macao , come il più conforme alla dottrina dei cinesi; poco mancò che il Padre Visitatore non si pronunciasse a favore di Padre Sabatino  […]”[25].

Nel 1618, come detto in apertura di articolo, Sabatino de Ursis scrive il De cognitione Veri Dei apud Litteratos[26]. L’opera fu smarrita ma in buona parte confluì in quella di Longobardo.

Sempre nel 1618, il Visitatore Vieira chiede a Cammillo Costanzo, Luis Naito, João Rodrigues e de Ursis un ulteriore approfondimento sulla questione.

In una lettera del Natale 1618 di Camillo Costanzo al Generale Vittelleschi, il gesuita lascia chiaramente intendere che tali questioni siano già state ampiamente dibattute dai padri giapponesi, arrivando alle stesse conclusione di alcuni gesuiti in Cina, tra cui “Sabbino de Ursi,, il quale quando scriveva di questo in Pechino , et io nel Giappone senza comunicarci sin non poi dicemmo lo stesso”[27]. Molto alta è la considerazione che Costanzo ha di “Padre Sabbatino D’Artis (Ursis) , et altri , i quali sanno bene , chi la setta di Confuso , chi la setta di Xaca ( Budda) , e Roxxio[28].  Infatti, quando João Rodrigues (1561-1633), grande conoscitore della cultura giapponese[29], nel 1615 venne in Cina per affrontare i termini della questione con i “tre Pilastri” (Leone, Paolo e Michele, i tre mandarini cinesi convertiti), a Pechino a fargli da interprete fu proprio de Ursis[30].

Nel repertorio bibliografico sulla questione dei riti scritto dal vice provinciale Giandomenico Gabiani (1623-1694) il 22 settembre 1680 e inviato a Roma, è riportato un trattato del 1614 di de Ursis: “Sabbatino de Ursis super nomine XAMTI Pekini an 1614 elucubratus, in quo explicatur multiplex ejus nominis acceptio apud Sinenses litteratos tum antiquos tum recentiores; ac deum exponitur christianus sensus sub quo in nostrum hominum libris accipitur, ac legittime ponitur pro vero Deo[31].

Gabiani oltre alle “Adnotationes” di de Ursis e agli scritti di Longobardo fa riferimento a un’opera scritta da Sabatino a Macao nel 1618, ovvero “Copiosus tractatus a P. Sabbatino de Ursis Macaensi in urbe anno 1618 ex praescripto P[atr]is Fr[ancisc]i Vieirae Visitatoris latine conscriptus, in quo P. Sabbatinus ita probare contendit Sinenses literatos …”[32]. Lo stesso trattato è citato da Dehergne[33]. In una lettera del 3 ottobre 1620 dal Giappone al Generale Vitteleschi, Camillo Costanzo[34] conferma che la sua posizione sulla questione argomento del dibattito fosse contraria a quanto affermato da Vagnone e in accordo con quella de Ursis:

Come ben lo mostro nell cose della Cina , hoggi tante errate come sono, et io con Padre Sabbatino gli provammo con quattro trattati. E già toccai in questo Padre voglio che sappia Vostro paternità ch’il Padre Sabbatino per la nostra humiltà stando in Macao andò dal Padre Visitatore Francisco Viera dicendogli:Andiamo errati, andiamo errati. Et in segnale di ciò, lo detto Padre gli fece fare un trattato contro il padre Vagnone”[35].

 

Ciò che darà veramente il via alla “Questione dei riti” è lo scandalo provocato dal fatto che i gesuiti consentissero ai cristiani convertiti di celebrare i riti in onore degli antenati e Confucio. Così, nel 1636 tale pratica venne denunciata al vescovo di Manila[36]. Questo è il primo atto della controversia che durerà quasi trecento anni. La liceità dei riti in onore di Confucio e degli antenati era stata affrontata in due Conferenze che i Gesuiti tennero a Macao nel 1603 e 1605[37] e ulteriormente in una conferenza del 1621 sempre a Macao, indetta dal Visitatore Jeronimo Ruiz, che portò alla stesura delle Ordinationes Anno 1621 approbatae in favorem P. Matthaei Ricci[38].

Nel 1623 Longobardo pubblicò le sue teorie nell’opera Responsio brevis super controversias de Xanti [Shangdi], tienxin [Tianshen], linghoen [linghun] alijsque nominibus et terminis Sinicis, ad determinandum qualia eorum uti possint vel non in hac Christianitate, nella quale rigettava il compromesso con la religione confuciana, la cosiddetta accomodatio[39]. Tuttavia, la disputa, piuttosto che essere placata, si rinfocolò e vennero prodotti vari scritti per confutare o avallare le affermazioni di Longobardo[40]. Come osserva Rule, la controversia non è riducibile ad una mera questione speculativa, come invece sostenuto da Dunne[41], ma il vero obiettivo da affrontare era la strategia dell’accomodamento così come declinata da Ricci per la Cina[42]. Ad un certo punto, il nuovo Visitatore, André Palmeiro (1569-1635), poco propenso alla linea ricciana ma preoccupato di mantenere una posizione equilibrata tra le due “fazioni”, per riportare la pace tra i gesuiti cinesi[43], indisse nel 1628 a Jiadiang, nella provincia dello Jiangsu, una conferenza, che trattò ben 38 proposizioni. A coordinare i lavori, oltre a Longobardo, anche Giulio Aleni[44]. Durante la conferenza emersero chiaramente i distinguo tra i vari padri ed inoltre, come evidenzia Feng-Chuan Pan, si confermò la fondamentale diversità tra la visione dei gesuiti, che in quanto cattolica è di tipo trascendentale, e quella dei confuciani, che è di tipo  esistenziale[45].

Questa volta però Longobardo con le sue argomentazioni ebbe il definitivo sopravvento e cosi il Palmeiro nelle Ordinationes Anno 1629 da una parte prescrisse l’uso, sia nei sermoni che nei libri, dei termini Shang di e Tian, dall’altra quello di Tian zhu, per significare l’idea di Dio. Nel 1630 il Generale dell’ordine, Muzio Vittelleschi, dichiarò nulla questa disposizione. Nel 1635, il Vescovo agostiniano di Manila denunciò i gesuiti al Papa, successivamente ritirò la denuncia, ma ciò fu sufficiente per fare allargare i confini della Questione dei Riti, che da quel momento interessava non più solo i gesuiti ma tutta la Chiesa[46].

Del resto, a complicare il quadro degli eventi si aggiunse la nascita di “Propaganda Fide”, con la Costituzione Inscrutabili divinae providentiae di Papa Gregorio XV del 22 giugno 1622[47], e, nel 1658, del MEP, ovvero le “Missions Etrangères de Paris”[48] che posero fine alla condizione di monopolio in cui di fatto operavano i gesuiti in Cina e al protettorato portoghese, in un quadro geo-politico in forte mutamento, soprattutto con l’avanzata nell’area asiatica delle altre grandi potenze europee, in primis l’Olanda. Se mettiamo in conto la nascita della “Compagnia delle Indie Orientali” e un cambio epocale in Cina nel 1644 con la fine dell’era Ming, iniziata nel 1368, e l’inizio dell’era Qing (che si protrarrà fino al 1911)[49], possiamo capire quanto questi eventi abbiano influenzato la questione che stiamo affrontando. Si aggiunga che già dal1631 il monopolio delle missioni dei gesuiti in Cina era di fatto terminato con l’arrivo del primo domenicano, il fiorentino P.Angelo Cocchi[50].

 

Dubbi o proposizioni

È chiaro che la proibizione delle cerimonie in onore degli antenati e di Confucio fosse inaccettabile per i cinesi e infatti l’atteggiamento non “accomodante” dei missionari nuovi arrivati provocò nel 1638 il cosiddetto “Incidente di Fujian” che determinò  l’espulsione degli stessi e una ricca produzione di scritti anticristiani  che  verranno  pubblicati nella raccolta  Poxieji  (1640)[51]. Il bando, tuttavia, non interessò i membri della Compagnia per via della loro fedeltà alla linea di Ricci.

Il 12 settembre 1643 il domenicano Morales giunge a Roma e ottiene il primo decreto di condanna dei riti da Papa Innocenzo X (1645). Nel 1649, Morales ritorna in Cina e  notifica il decreto al Vice Provinciale Diaz, che  ritenne improvvida le decisione canonica “adducendo che  era stata presa parte inaudita[52].  Così venne inviato a Roma nel 1651 il gesuita trentino P. Martino Martini (1614-1661) per perorare la causa dei missionari  ignaziani. Questi presenta a Propaganda Fide quattro Dubbi  o proposizioni, contro le argomentazioni di Morales[53]e una Brevis Relatio[54]. Le argomentazioni portate da Martini furono convincenti, e il 23 marzo 1656 Papa Alessandro VII emanò un decreto che sconfessava quello del predecessore. Morales scrive un nuovo memoriale (1661) all’indirizzo della Sacra Congregazione, che il 13 novembre 1669 si pronuncia a favore del domenicano. Papa Clemente IX conferma il decreto. Nel 1664, alla morte di Morales, nuovo superiore dei Domenicani è lo spagnolo Navarrete[55].

L’opposizione ai riti cinesi non era accettabile da parte dell’Imperatore, le cerimonie in onore degli antenati costituivano uno dei pilastri su cui si fondava il Confucianesimo, sicché nel 1665 tutti i missionari presenti in Cina (15 gesuiti, 3 domenicani e il francescano Caballero) vennero confinati a Canton.

Nella forzata permanenza in quella città, i missionari tennero nel 1667-68 una importante conferenza sulla Questione dei riti, nella quale venne redatta e sottoscritta  una dichiarazione che in 42 punti riaffermava la liceità dei riti. Il documento non fu firmato da Caballero. Proprio in occasione della conferenza di Canton, Navarrete e Caballero entrarono in possesso dello scritto (o degli scritti) di Longobardo[56]e presumibilmente anche di de Ursis[57].

 

Uno scritto che risorge dalle ceneri

E torniamo così allo scritto di Nicola Longobardo che avevamo lasciato.

Come già spiegato, il trattato non venne pubblicato dalla Compagnia di Gesù che riteneva non si potesse affidare alle stampe, anche se ne verranno pubblicati degli stralci da esponenti di altri ordini religiosi in funzione polemica contro i gesuiti. Come riporta Tabaglio, “il libro del Longobardi (viene dato) alle fiamme”[58].

Quest’opera, scritta in portoghese, venne tradotta in latino dal padre minorita Antonio de Sancta Maria o Caballero, nel 1661[59]e successivamente in spagnolo dal frate Domingo Navarrete, nel libro Tratados históricos, políticos, éthicos y religiosos de la monarchia de China, nel 1676[60] che cita espressamente de Ursis, alla p.125[61].

Navarrete il 6 gennaio 1673 era a Roma per esporre i suoi casi a Propaganda Fide e l’anno dopo a Madrid[62]. Il domenicano, a sostegno delle proprie tesi, chiamava in causa i più vecchi missionari tra cui de Ursis[63], ma, come osserva Sisto Rosso[64], ometteva i gesuiti più anziani che erano di parere avverso, primo fra tutti Pantoja, a lungo compagno di de Ursis[65].

L’opera di Longobardo fu tradotta in francese dall’abate de Ciré nel 1701 col titolo Traité sur quelques points de la religion des Chinois, con annotazioni del filosofo  Leibniz.  Nel Preambolo l’autore ricostruisce la tematica della “Questione del Signore del Cielo”[66]. Quest’opera “fu resa nota da G.W. Leibniz nel Journal des sçavants nel 1701 (pp.154-158), ed ebbe un’influenza profonda sul suo pensiero (G.W. Leibniz, Opera omnia, IV, 1, Genève 1768, pp. 89-144), in particolare sulla redazione del Discorso sulla teologia naturale dei Cinesi, molto più di quanto non ne abbiano avuto gli scritti del Ricci”[67].

Leibniz sviluppa meglio queste riflessioni nel Discours sur la théologie naturelle des Chinois, del 1716, in cui viene affrontata più da vicino la tesi dell’ “ateismo” dei cinesi sostenuta da de Ursi-Longobardo. È solo in quell’occasione che Leibniz entra in possesso diretto del Trattato di Longobardo e di quello di Antonio di Santa Maria, per mano di Nicolas Remond, che aveva spedito i due scritti al filosofo tedesco per averne un parere[68]. Contro le affermazioni di de Ursis-Longobardo, Leibniz prendeva posizione in difesa di Ricci ritenendo che nel pensiero cinese fosse presente l’idea di Dio al pari della dottrina cristiana. In una lettera al Bosses (1716), Leibniz sostiene che ancor più dei filosofi greci i cinesi si sono avvicinati alla verità[69].  Egli avrebbe voluto meglio precisare questa sua posizione ma lo colse la morte[70].

Nel De cultu Confucii, scritto prima della Novissima sinnica (1697), il filosofo tedesco riporta la questione della natura dei riti religiosi /civili degli antenati a una dimensione puramente semantica (si quam ejus definitionem Quaeramu )[71]. Come sostiene Piro, per “Leibniz, è possibile che i Cinesi non sappiano essi stessi se i loro culti sono civili o religiosi. […] Le lingue storiche umane sono infatti contrassegnate dall’ambiguità di senso, dalla polisemia. Solo un linguaggio di tipo matematico, una Characteristica Universalis, potrebbe sottrarsi completamente all’ambiguità. Per contro, le formule di un rito sono contrassegnate dall’opposta tendenza ad avere un significato non del tutto esplicitabile”[72].

Leibniz, osserva Etiemble, vedeva nell’accomodamento la capacità di operare una sintesi tra le diverse culture orientale e occidentale[73]. Infine, nel 1748 il Trattato viene pubblicato in versione integrale dal filosofo tedesco[74].

 

“Ex illa die”

Tornando in Cina, al momento in cui avevamo lasciato la nostra narrazione, il 22 marzo 1692, l’imperatore Kangxi (1654 -1722) emanò l’editto di tolleranza con il quale si aprivano ufficialmente le porte all’apostolato missionario[75]. Come osserva Durconet, l’editto era quasi un segno di riconoscenza ai gesuiti per i servizi scientifici, militari e diplomatici resi. L’editto non riconosceva la libertà di professare la religione cristiana né di fare proselitismo e tuttavia la posizione raggiunta a corte da vari gesuiti li fornì di una “copertura politica” anche nei momenti più duri per il cattolicesimo in Cina[76].

Nel 1687, il Papa Innocenzo XII aveva nominato il sacerdote parigino Charles Maigrot vicario apostolico del Fujian. Nel 1693, Maigrot emana il Mandatum seu Edictum, che riporta sette divieti relativi alla controversia dei riti. I gesuiti, non riconoscendo l’autorità di Maigrot, che di fatto sconfessava le disposizioni apostoliche, non vollero osservare i divieti. Maigrot allora inviò a Roma Nicholas Charmot per far approvare comunque il Mandatum[77].

Propaganda Fide riesamina la questione ed emana un nuovo decreto di proibizione, Cum Deus optimus (20 novembre 1704), e intanto invia in Cina Carlo Tommaso Maillard de Tournon (1688-1710), con il mandato segreto di bandire i riti  malabarici e cinesi[78],  gli uni con decreto Inter graviores emesso il 23 giugno 1704 a Pondichéry, gli altri con il decreto Quandoquidem audivimus emesso a Nanchino il 25 gennaio 1707[79].

L’Imperatore Kangxi, che ricevette il legato il 31 dicembre 1705, per nulla persuaso dall’atteggiamento di Tournon[80], anzi molto contrariato dall’opposizione ai riti, fece espellere da Pechino Tournon e relegarlo prima a Canton e poi ai domiciliari a Macao dove morì, in stato di prigionia, nel 1710, prima ancora di ricevere la berretta cardinalizia, che intanto gli era stata conferita a Roma.

Nel 1707, Kangxi impose il cosiddetto piào, ossia il permesso di predicare in Cina  vincolato al giuramento di rispettare  la prassi missionaria di Matteo Ricci[81].

Il Papa Clemente XI, il 19 marzo 1715, emana la costituzione apostolica Ex illa die[82] che impone il rispetto di tutte le precedenti disposizioni che proibivano i riti cinesi, vincolando i missionari al giuramento. L’imperatore Kangxi nel 1716 volle avere dei chiarimenti dal Papa inviando per mano del gesuita torinese Giuseppe Provana il cosiddetto Piao Rosso sottoscritto dai missionari presenti a Pechino. Tuttavia Provana, giunto a Roma, vi rimase e non tornò più in Cina, per sommo disdoro dell’Imperatore[83]che considerò questo un affronto diplomatico[84].

Il Papa inviò solo nel 1720 a Pechino una nuova delegazione, guidata da Carlo Ambrogio Mezzabarba. Questi fece delle concessioni nei confronti di alcuni gesti rituali in precedenza condannati, con le otto Permissioni (1721)[85]. 

Nel 1717, Kangxi  proibisce il proselitismo e la predicazione del cristianesimo. Il figlio, Yongzheng (16781735),che gli successe sul trono, decretò nel 1724 l’espulsione di tutti i missionari (relegati a Canton), eccetto quelli di Pechino, che continuarono ad operare a corte come funzionari[86]. Il provvedimento verrà confermato dall’imperatore Qianlong(1711-1799). Poiché le Permissioni di Mezzabarba non furono unanimemente accettate, la Questione dei riti ebbe una nuova ripresa. Promotore ne fu Carlo Orazio da Castoramo (1643-1755)[87].

Papa Bendetto XIV pubblicò, l’11 luglio 1742, la costituzione apostolica Ex quo singulari, con la quale confermava in maniera definitiva le proibizioni dell’Ex illa die[88].  Ciò determinò la fine della Controversia di riti cinesi, poiché si imponeva il divieto anche della sola ripresa della discussione, pena l’erogazione di provvedimenti canonici[89], e contestualmente si sanciva la non liceità della strategia dell’accomodamento di Ricci. Una decisione storica, che ebbe “conseguenze catastrofiche per il cristianesimo in Cina”, come osserva, sulla scorta di Pastor, Hans Kung[90]. Con la sua definitiva sanzione, Papa Lambertini, proibendo i riti, riduceva ad uno stato di marginalità sociale e al rischio di perseguibilità penale i cinesi convertiti, anche se l’obbiettivo  principale era più estesamente colpire la strategia missionaria dei gesuiti[91].

Una nuova ondata di missionari arriverà in Cina, al seguito degli eserciti europei dopo gli umilianti “Trattati ineguali” del 1842, dopo la “rivolta dell’Oppio” e la “ rivolta dei Boxer” contro i “diavoli stranieri “. Con l’aumento dei neofiti, però, si riproporrà la questione della formazione del clero locale e del rapporto con la millenaria cultura cinese. Il 25 marzo 1935 Propaganda Fide fece richiesta ai vicari apostolici in Cina di nuova documentazione che riavviasse “l’incresciosa” Questione dei riti[92]. La Questione può dirsi conclusa solo nel 1939, coll’emanazione dell’Istruzione Plane compertum, emanata dalla Congregazione di Propaganda della Fede (8 dicembre 1939), che riconosce il caratte­re civile delle cerimonie in onore di Confucio e degli omaggi ai defunti dinanzi alle tavolette funerarie:

“Si approva la partecipazione dei fedeli ai riti in onore di Confucio, sia nelle scuole sia in altri edifici, come pure si accetta la collocazione della sua immagine nelle scuole cattoliche, per il saluto con l’inchino del capo. Si permette la partecipazione passiva alle cerimonie con carattere superstizioso, in caso di necessità. Si riconosce la liceità delle manifestazioni di ossequio civile dinanzi ai defunti e alle tavolette memoriali”[93].

 

Va fatta una riflessione su quanto abbia influito in questo atto di Papa Pio XII il ruolo diplomatico svolto da P. Piero Tacchi Venturi, nel processo di riappacificazione tra Stato Italiano e Santa Sede. Non è un caso che nel 1942 verranno pubblicate dalla Libreria dello Stato le “Fonti Ricciane” di Pasquale D’Elia[94]. Si può dire che in Cina, tra XVII e XVIII secolo, si sia di fatto celebrato un “Concilio Vaticano II” ante litteram, quando in Europa erano ancora freschi di stampa i decreti del Concilio di Trento. Una interessante conclusione ci viene data da Etiemble, il quale evidenzia che se non si è avuta l’europeizzazione della Cina, di converso si è avuta la “sinesizzazione” dell’Europa, alla quale fu proposto, in una maniera distorta, appunto “accomodata”, il Regno di mezzo[95]. L’immagine della Cina, trasmessa dai gesuiti, come quella di un paese meritocratico, governato da filosofi laici[96], ebbe tanto successo in Europa che, paradossalmente, questo finì col ritorcersi contro i suoi stessi proponenti[97]. Cioè, i gesuiti loro malgrado fornirono agli intellettuali illuministi un pretesto per la secolarizzazione dell’Europa. Tra questi, per esempio, il fondatore della scuola fisiocratica Francois Quesnay(1694-1774), soprannominato il “Confucio D’Europa”[98], l’illustre esponente del razionalismo tedesco Christian Wolff[99] e il famoso Voltaire, fra tutti il più accanito detrattore dei gesuiti[100]. In tutti questi autori, ci fu una profonda ammirazione nei confronti del millenario regno cinese. In loro si ritrova il parallelismo “Confucio-Socrate”, veicolato dai gesuiti in Cina, in seguito alla questione dei riti che, al di là dei contenuti propriamente teologici, si rivelò la causa del primo grande confronto interculturale tra i due antichi mondi, un confronto iniziato nel “nome di Dio”.

 

 

Un vivo ringraziamento a P. Robert Danieluk, al dott. Sergio Palagiano e al dott. Mauro Brunello,dell’Archivio Storico dei Gesuiti di Roma,per le preziose indicazioni  nelle  ricerche  in ARSI,  al  personale dell’ Institutum Historicum Societatis Iesu (IHSI), al sign. Antonio Piscopiello, della Biblioteca comunale “A. Caloro” di Alessano, per la solerte disponibilità nell’accogliere le richieste bibliografiche.

 

Note

[1] Per una bibliografia essenziale su de Ursis, si vedano: Vita del P. Carlo Spinola della Compagnia di.Giesù morto per la Santa Fede nel Giappone del p. Fabio Ambrosio Spinola dell’istessa Compagnia all’Illustriss. e Reverendiss. Signore, e Padron Colendissimo, Monsignor Prospero Spinola Digniss. Vicelegato di Bologna, in Roma e in Bologna, per Clemente Ferroni, 1628, p. 165; Dell’Historia della Compagnia di Giesu la Cina terza parte dell’Asia descritta dal P. Daniello Bartoli della medesima Compagnia, Roma, Stamperia del Varese, 1663, passim; P. Couplet, Catalogus Patrum SocietatisJesu qui post obitum S.Francisci Xaverii primo saeculo sive ab anno 1581 usque ad 1681 in Imperio Sinarum Jesu Christi fidem. Propagarunt, Paris 1686, pp.12-13; Menologio di pie memorie d’alcuni religiosi della Compagnia di Gesù raccolte dal Padre Giuseppe Antonio Patrignani della medesima Compagnia e distribuite per quei giorni dell’anno, ne’ quali morirono. Dall’anno 1538. Fino al 1728. Tomo I, che contiene gennajo febbrajo, e marzo, Venezia, Niccolò Pezzana, 1730, pp. 51-52; H. Cordier, L’imprimerie sinoeuropéenne en Chine : bibliographie des ouvrages publiés en Chine par les européens au XVIIe et au XVIIIe siècle / par M. Henri Cordier, Parigi, Imprimerie Nationale, 1901, p. 41 e pp. 51-52; P.Ricci S.J., Relacao escripta pelo seu companheiro P.Sabatino De Ursis S.J. publicacao commemorativa do Terceiro Centenario da sua morte (II de maio de 1910) mandada fazer pela Missao Portoguesa de Macau, Roma, Tipografia Enrico Voghera, 1910; L.Pfister, Notices Biographiques et Bibliographiques sur les Jésuites de l’Ancienne Mission de Chine, Xangai, 1932-1934, pp. 103-105; L. G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti, Vol.I, Lecce, Gaetano Campanella, 1874, p. 56; Opere storiche del P.Matteo Ricci S.I., a cura di Pietro Tacchi Venturi, Macerata, Tipografia F.Giorgetti, 1913, Volume II, p. 58; G. Barrella, I Gesuiti nel Salento Appunti di storia religiosa da documenti editi ed inediti pubblicati in occasione del III Centenario dalla morte del B. Bernardino Realino apostolo e compatrono di Lecce (1616-1916) Parte prima, Lecce, Tipografia Giurdignano,1918, pp. 71-72; Idem, La Compagnia di Gesù nelle Puglie, 1574-1767, 1835-1940, Lecce, Tipografia Ed. Salentina, 1941, p. 81; Storia dell’introduzione del Cristianesimo in Cina scritta da Matteo Ricci S.I. nuovamente edita ampiamente commentata col sussidio di molte fonti inedite delle fonti cinesi da Pasquale M. D’Elia S.I.,Parte II, Libri IV-V, Da Nancian a Pechino (1597-1610-1611), Roma, La Libreria dello Stato,1949, p. 387; G. Ruotolo, Ugento Leuca Alessano Cenni storici e attualità, Siena Cantagalli, 1952, p.7; J.Wicki, Liste der Jesuiten-Indienfahrer:1541–1758, Münster Aschendorff, 1967, pp. 283-284; J. Dehergne S.J., Répertoire des Jésuites de Chine, de 1542 à 1800, Biblioteca Instituti Historici S.I. Volumen n.37, Roma, 1973, p. 75; J. F. Schutte, Monumenta Missionum Societas Iesu, Vol. XXXIV, Missiones Orientales, Monumenta Historica Japoniae I, Textus Catalogorum Japoniae 1549-1654, Roma, 1975, passim; Dictionary of Ming Biography 1368-1644, L.Carrington Goodrich, Editor Chaoyng Fang, Associate Editor, Volume II, M-Z, Columbia University Press, New York and London, 1976,pp. 1331-1332; F. Iappelli, I gesuiti nel Salento 1574 -1767, in «Societas», n.4-5, 1992, p.112; U. Baldini, Saggi sulla cultura della Compagnia di Gesù (secoli XVI-XVIII), Padova, Cleup Editrice, 2000, p. 94; G. Ricciardolo, Oriente e Occidente negli scritti di Matteo Ricci, Napoli, Chirico, 2003, p.164; G. Spagnolo, Xion Sanba. Sabatino de Ursis, un gesuita salentino alla corte di Pechino, in «Il Bardo», a.XX, n.1, Copertino, dicembre 2010, p. 4; ecc.

[2]Su Niccolò o Nicola Longobardo o Longobardi si vedano: Voce, a cura di Elisabetta Corsi, in Dizionario Biografico degli Italiani, Vol.65, 2005, on line,; J.Dehergne S.J., Répertoire des Jésuites de Chine, de 1542 à 1800, Biblioteca Instituti Historici S.I. Volumen n.37, Roma, 1973, pp. 153-154; L.Pfister, Notices biographiques et bibliographiques sur les Jésuites de l’39;ancienne mission de Chine 1552-1773, I, Changhai 1932, n. 32, pp. 58-66; N. Longobardo, Trattato sui terremoti, a cura di  Silvia Toro, Prefazione di Francesca Failla,  Bologna, EDB, 2017.

[3] Matteo Ricci, Il vero significato del “Signore del Cielo”, traduzione di Alessandra Chiricosta, Roma, Città del Vaticano, Urbaniana University press, 2006, p. 79.  La traduzione presente in questa edizione è quella del 1607 rivisitata dal dotto cinese Li Zhizao e da questi inserita nella raccolta di libri cristiani Tianxue Chu Han (1629) e tradotta in varie lingue nei paesi asiatici: Ivi, pp. 60-61.

[4] Il Confucianesimo “non contiene niente contro l’essentia della fede Catholica”, afferma Ricci nella sua opera Della entrata della Compagnia di Giesù e Christianità nella Cina, a cura di Maddalena Del Gatto, Prefazione di Filippo Mignini, Milano, Quodlibet, 2015, p. 98.

[5] T. Meynard, Chinese Buddhism and the Threat of Atheism in Seventeenth-Century Europe, in «Buddhist-Christian Studies», Vol. 31, University of Hawai’i Press, 2011, p. 3.

[6] M. Ricci, Dell’entrata cit., nota 3, p. 100.  Questa accusa verrà ripresa anche da Bartoli: “i riti propri di questa legge, tolti dalla Religione Christiana, fondata in que’medefimi tempi da gli Apostoli S.Bartolomeo e S.Tommaso”, afferma, in  Dell’Historia della Compagnia di Giesu La Cina Terza parte dell’Asia descritta dal P. Daniello Bartoli della medesima Compagnia, Roma, Stamperia del Varese, 1663, pp. 126-127.

[7] N.Standaert, Matteo Ricci e la cultura cinese, in Nell’anima della Cina. Saggezza, storia, fede, a cura di Antonio Spadaro, Roma, Ancora- La Civiltà Cattolica, 2017, p. 91.

[8] A. Cheng, Storia del pensiero cinese. Vol.I. Dalle origini allo “studio del Mistero”, Torino, Einaudi, 2000, pp. 36-39.

[9] P. Corradini, La questione dei riti cinesi nei secoli XVII e XVIII, in L’Europa e l’evangelizzazione delle Indie Orientali, a cura di Luciano Vaccaro, Milano, Centro Ambrosiano, 2005, p. 191.

[10] R. Étiemble, Les Jésuites en Chine. La querelle des rites (1552-1773), Collection Archives Julliard, Parigi, 1966, pp. 21-34.

[11] P. Corradini, op.cit., p.188; P. Santangelo, L’impero del Mandato Celeste La Cina nei secoli XIV-XIX, Bari, Laterza,2014, p. 299.

[12] M.Catto, L’ateismo dei cinesi in Matteo Ricci e Niccolò Longobardo, in www.giornalidistoria.net, p. 5.

[13] Ivi, p.9.  Sul Figurismo: Voce, a cura di J.Lopez Gay, in Diccionario histórico de la Compañía de Jesús (4 volúmenes) biográfico-temático, a cura di Charles E. O’Neill e Joaquín María Domínguez, Universidad Pontificia Comillas Madrid 2001, pp. 3058-3059; A. Albanese, La Cina secondo il figurismo di Foucquet (1665-1741) in alcuni documenti dell’epoca, in L’invenzione della Cina Atti dell’VIII Congresso AISC Lecce 26-28 aprile 2001, a cura di Giusi Tamburello, Università del Salento, Galatina, Congedo, 2004,pp. 39-59;  V. Pinot, La Chine et la formation de l’esprit philosophique en Million (1640- 1740), Genève, Slatkine Reprints, 1971, pp. 347-48.

[14] S. Pavone, I Gesuiti dalle origini alla soppressione, Bari, Laterza, 2004, p. 107.

[15] J. Casanova, I gesuiti e la globalizzazione, in «Annali di studi religiosi», n.16, 2015, pp. 11-31; inoltre si veda: J. Ücerler, Christianity and Cultures. Japan & China in Comparison,1543-1644, a cura di M. Antoni e J. Ücerler, Institutum Historicum Societatis Iesu, Roma, 2009.

[16] N. Standaert, Christianity shaped by the Chinese, in The Cambridge History of Christianity: Volume 6, Reform and Expansion 15001660, a cura di R. Po-chia Hsia, Cambridge Univerity Press, 2008, p. 575.

[17] Longobardo “sembra […] che avesse una conoscenza più profonda rispetto allo stesso Ricci, del cinese classico e dei commentari neoconfuciani”, scrive Nicolas Standaert in Matteo Ricci e la cultura Cinese, in Nell’anima della Cina. Saggezza; storia, fede, a cura di Antonio Spadaro, Roma, Ancora-La Civiltà Cattolica, 2017, p. 86.

[18] G. Elison, Deus Destroyed. The image of Christianity in Early Modern Japan, Harvard University Press, 1988, pp. 30-40.

[19] F. Bontinck, La Lutte autour de la Liturgie Chinoise aux XVIIe et XVIIIe Siècles, Publications de l’Université Lovanium de Léopoldville, 1962, p. 60.

[20] G. Criveller, Matteo Ricci Missione e ragione, Bornago, Pimedit, 2010, p. 82.

[21] Ivi, p.83.

[22] Gottfried Wilhem Leibiniz, La Cina. Presentazione di Carlo Sini, Milano, Spirali, 1987, p. 42.

[23] H. Cordier, La Question des rites chinois in «Annales du Musée Guimet  Bibliotèque de vulgarisation  Tomo 41  Conferences Au Musee Guimet 1914», Parigi, 1916,  p.151.

[24]Apostolic Legations to China of the eighteenth century, a cura di Sisto Rosso, South Pasadena, P.D. and Ione Perkins, 1948, p. 93.  Un volume del Settecento sembrerebbe alludere ad un’altra opera ancora di Sabatino: “Così che l’Orsi, ed il Ruiz composero  cadauno separatamente dall’altro, un Trattato, concordemente provando. che li Cinesi principi della loro Filosofia mai conobbero darsi sostanza alcuna distinta dalla materiale”: Giuseppe Maria Tabaglio, Giovanni Battista Benedetti, Baldassare Montecatin, Il disinganno contraposto de un religioso dell’Ordine de’Predicatori alla difesa de’Missionarii Cinesi della Compagnia di Giesù: Et ad un altro libricciuolo Giesuitico intitolato L’esame dell’autorità e[tc] : parte seconda, Colonia, Berges,1701, pp. 130-131.

[25] G. W. Leibiniz, La Cina. Presentazione di Carlo Sini, Milano, Spirali, 1987, pp. 43-44

[26] Apostolic Legations..cit., a cura di  Sisto Rosso, p. 93.

[27] S. De Fiores, Il Beato Camillo Costanzo di Bovalino. Con 17 lettere inedite dal Giappone alla Cina, Milano, Jaca Book, 2000, p. 149.

[28] Ivi, p.166.

[29]Joao Rodrigues è noto con l’appellativo “Tsüzu”, ossia l’“interprete”, perché era l’intermediario tra i giapponesi e i mercanti portoghesi; si deve a lui un dizionario portoghese-giapponese che è anche la prima grammatica giapponese scritta da un occidentale, ossia Arte da lingoa de Iapam, pubblicata a Nagasaki nel 1604: J.E. Moran, The Japanese and the Jesuits. Alessandro Valignano in Sixteenth-Century Japan, Routledge, London and New York, 1993, pp. 178-188.

[30] M. Cooper, Rodrigues the Interpreter An Early Jesuit in Japan and China, Weatherhill, New York and Tokyo, 1974, p. 283.

[31] H. B. Maitre, Un dossier bibliographique de la fin du XVIIe siècle sur la question des termes chinois, in «Recherches de Science Religieuse », n.36, Parigi, 1949, p. 66.

[32] Ivi, p. 67. Possiamo supporre che questo scritto sia il De vera cognizione. Su Gabiani: Voce, a cura di Giuliano Bertuccioli, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 51,1998, on line.

[33] J. Dehergne, R. Malek, Catéchismes et Catéchèse en Chine de 1584 À 1800, in «Monumenta Serica », Vol. 47, 1999, p. 424.

[34] Per Camillo Costanzo (1572-1622), si veda: Voce, a cura di J. López-Gay, in Diccionario cit., p. 2159.

[35] S.De Fiores, Il Beato Camillo Costanzo cit., pp. 173-174. Su Alfonso Vagnone (1566-1640): G. Falato, Tongyou Jiaoyu [educazione dei giovani] (ca. 1632), in Associazione Italiana di Studi Cinesi Atti del XV convegno 2015, a cura di Tommaso Pellin e Giorgio Trentin, Venezia, Libreria Editrice Cafoscarina, 2017, pp. 87-97.

[36] E. Menegon, Christian Loyalists, Spanish Friars, and Holy Virgins in Fujian during the MingQing Transition, in «Monumenta Serica », n. 51, 2003 p .342.

[37]P. Corradini, La questione dei riti cinesi nei secoli XVII e XVIII, in L’Europa l’evangelizzazione delle Indie Orientali, a cura di Luciano Vaccaro, Milano, Centro Ambrosiano, 2005, p. 191.

[38] Apostolic Legations to China of the eighteenth century, a cura di Sisto Rosso, South Pasadena, P.D. and Ione Perkins, 1948, p. 96.

[39] Ivi, pp. 96-97.

[40] Ivi, pp. 99-103.

[41] G. H. Dunne S.J., Generation of Giants The story of the Jesuits in China in the Last Decades of the Ming Dynasty, University of Notre Dame Press, Indiana, 1962, p. 286.

[42] P. A. Rule, KUng-Tzu or Confucius?: The Jesuit Interpretation of Confucianism, tesi Au s t r a l i a n N a t i o n a l U n i v e r s i t y, Canberra 1972, p. 257.

[43]Su Palmeiro si veda: L. M. Brockey, The Visitor André Palmeiro and the Jesuits in Asia,   Belknap Press Harvard, 2014, pp. 218 -245 e  pp. 278-326.

[44]Su Giulio Aleni si veda, fra gli altri: Voce, a cura di Pietro Pirri, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 2, 1960, on line; Giulio Aleni, Vita del Maestro Ricci Xitai del Grande Occidente, a cura di Gianni Criveller, Brescia, Centro Giulio Aleni, 2010; Idem, Geografia dei paesi stranieri alla Cina. Zhifang waiji, Traduzione, introduzione e note di Paolo De Troia. Brescia, Centro Giulio Aleni, 2009; Voce, a cura di B. Luk, in Diccionaro cit., p. 185.

[45] Feng-Chuan Pan, The Chinese-Jesuit metaphysical debate about Ultimacy  https://www.uniroma1.it/it/node/16399.

[46] L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del medio evo: compilata col sussidio dell’Archivio segreto pontificio e di molti altri archivi / Ludovico Pastor ; nuova versione italiana sulla 4. ed. originale del sac. prof. Angelo Mercati Volume XIII: Storia dei papi nel periodo della Restaurazione Cattolica e della Guerra dei Trent’anni: Gregorio XV (1621-1623) ed Urbano VIII (1623-1644), Roma, Desclée e C., 1934, p. 780.

[47]P. Guilday, The Sacred Congregation de Propaganda Fide (1622-1922), in  «The Catholic Historical Review», Vol. 6, n. 4, gennaio 1921, p. 479.

[48] notoriamente avverse ai gesuiti e più vicine alle posizioni gianseniste: S. Pavone, I Gesuiti dalle origini allo loro soppressione, Bari, Laterza, 2004, p. 104.

[49] Sulle Mep, si veda: M. Lunay, G. Moussay, Les Missions étrangères: Trois siècles et demi d’histoire et d’aventure en Asie, Parigi, Librairie Académique Perrin,2008. Su Propaganda Fide si rinvia a: G. Pizzorusso, La congregazione romana “De Propaganda fide” e la duplice fedeltà dei missionari tra monarchie coloniali e universalismo pontificio (XVII secolo), in Librosdelacorte.es Monográfico 1, año 6 (2014)  ISSN 1989-6425.

[50] Su Angelo Cocchi, si veda: Voce, a cura di Giuliano Bertuccioli, in Dizionario Biografico degli Italiani, Vol.26, 1982, on line; I.Vecchi O.P., I primi martiri d’Oriente, in « Dominicus», n.1, gennaio-febbraio 2001, Bologna, p. 4.

[51] E. Menegon, Jesuits, Franciscans, and Dominicans in Fujian,  in “Scholar from the West” GuilioAleni S.J. (1582-1649) and the Dialogue between Christianity and China, a cura di Tiziana Lippiello e Roman Malek, Nettetal Steyler,Verlag, 1997,  p. 222.

[52] G. Borsa, La nascita del mondo moderno in Asia Orientale. La penetrazione europea e la crisi delle società tradizionali in India, Cina e Giappone, Milano, Rizzoli,1977, p. 56.

[53]B. Bolognani, L’Europa scopre il volto della Cina Prima biografia di Martino Martini, in «La natura alpina», Rivista Trimestrale di Aggiornamento e di divulgazione Scientifica, Volume 30 fascicolo 18, Trento, 1979, p. 96.

[54] Brevis Relatio de Numero, Et Qualitate Christianorum apud Sinas Auctore Martino Martinio Tridentino Viceprovinciae Sinensis Procuratore è Societate Iesu Iuxta exemplar Romanum, Coloniae, Apud Ioannem Buseum, 1655. Su Martino Martini, si vedano: J. Sebes, Il ruolo di Martino Martini  nella Controversia dei Riti cinesi, in  Martino Martini  geografo   cartografo   storico teologo  Atti del convegno di Studi internazionali  Provincia autonoma di Trento-Museo Tridentino di scienze naturali, a cura di  Giorgio Melis, Trento, 1983 pp. 445 -471; Voce, a cura di Federico Masini, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 71, 2008, on line; G. Criveller, Martino Martini e la controversia dei Riti cinesi, in  Martino Martini, Man of Dialogue, a cura di Luisa M. Paternicò, Claudia von Collani, Riccardo Scartezzini, Università degli studi di Trento, 2016, pp. 199 -220.

[55] H. Cordier, Histoire générale de la Chine et de ses relations avec les pays étrangers. Tome III Librairie Paul Geuthner, Parigi, 1920 pp. 318-332.

[56] G. Criveller, La controversia dei riti cinesi storia di una lunga incomprensione, in «I quaderni del museo », n.23, Milano, 2012, p. 12. Un’altra ricostruzione ci è fornita da D.E. Mungello, Source Malebranche and Chinese Philosophy, in «Journal of the History of Ideas »,Vol. 41, n.4 Oct.-Dec., University of Pennsylvania Press, 1980, nota 23, pp. 558-559

[57]J. Ries, I cristiani e le religioni dagli Atti degli Apostoli al Vaticano II, Milano, Jaca Book, 2006, pp. 352-356. Una raccolta dei documenti dibattuti nella Conferenza è stata data alla stampe in: Acta Cantoniensia authentica: in quibus praxis missionariorum Sinensium Societatis Jesu circa ritus Sinenses approbata est communi consensu patrum Dominicanorum, & Jesuitarum, qui erant in China; atque illorum subscriptione firmata. Nunc primum prodeunt transmissa ex Archivio Romano Societatis Jesu, cum accessione epistolae di. Ludovici de Cice’ (senza indicazioni editoriali ),1700. Una ricca raccolta di atti e documenti sulla controversia dei riti, dal 1646 al 1698, in Giacomo Fatinelli, Historia Cultus Sinensium, seu varia scripta de Cultibus Sinarum, inter Vicarios Apostolicos Gallos aliosque Missionarios, & Patres Societatis Jesucontroversis, oblata Innocentio Tertio Pontifici Maximo ex Sacra Congregationi Em.um Cardinalium dirimendae huic Causae praepositorum: Adjecta Appendice Scriptorum Patrum Societatis Jesu de eadem Controversia. Coloniae, s.t., 1700.

[58]Giuseppe Maria Tabagli, Giovanni Battista Benedetti, Baldassare Montecatin: Il disinganno contraposto de un religioso dell’Ordine de’Predicatori alla difesa de’Missionarii Cinesi della Compagnia di Giesù: Et ad un’altro libricciuolo Giesuitico intitolato L’esame dell’autorità e[tc] : parte seconda Colonia, Berges,1701, pp. 130-131, ma la vicenda, nelle pagine successive, è  ancor meglio  precisata.

[59]Una copia della Responsio “de lusitano idiomata versata in latinum   per fr , Antonio de santa Maria 32 ff datag 1661”, è conservata presso la Biblioteca Casanatese a  Roma,  come riporta E. Menegon, The Casanatense Library (Rome) and its China Materials. A Finding List, in « Sino-Western Cultural Relations Journal », XXII, Waco, TX, USA, 2000, p. 40. Liam Matthew Brockey, in Journey to the East: the Jesuit mission to China, 1579-1724, Cambridge, Belknap Press of Harvard University Press, 2007, p. 133, riferisce di un’altra copia che è una parziale versione dello scritto di Longobardo del 1620 nella nota a commento di questa affermazione: «Santa Maria (forse grazie a Jean Valat) trovò la “Resposta breve” di Longobardo nella residenza di Shandong dei Gesuiti nei primi anni del 1660. Due terzi del trattato erano stati bruciati, ma l’introduzione – una discussione sulla cosmologia cinese e le interviste di Longobardo ai letterati sui termini controversi – era intatta. Santa Maria inviò una traduzione latina ai cardinali della Propaganda Fide, l’organo ecclesiastico romano responsabile degli affari missionari. Questo testo è stato stampato in diverse lingue in Europa dai rivali della Società, eppure i volumi mancavano degli avvertimenti di Longobardo che avvertivano il lettore che i suoi argomenti potevano essere correttamente compresi solo nel contesto degli altri trattati di João Rodrigues, Sabatino de Ursis, Alfonso Vagone e Diego de Pantoja. Per la lettera di Santa Maria, vedi Antonio de Santa Maria ai Cardinali della Propaganda Fide, [Jinan?], 29 marzo 1662, APF Scritture Riferite nei Congressi, Indie Orientali Cina, 1: 23r / v. »: Ivi, p. 444.

Un altro scritto di Longobardo sempre riprodotto da Santa Maria è conservato presso la BNF: https://archivesetmanuscrits.bnf.fr/ark:/12148/cc35020j 

Una copia della Responsio autenticata nel 1662 dal domenicano Juan Bautista Morales  è l’origine del Trattato di Navarrete: M. Catto, L’ateismo dei cinesi in Matteo Ricci e Niccolò Longobardo, in www.giornaledistoria.net, p. 10. Su Antonio di Santa Maria o Caballero si veda: A. Van Den Wyngaert, Sinica franciscana: Vol. 2., Relationes et epistolas fratrum minorum saeculi 16. et 17. / collegit, ad fidem codicum redegit et adnotavit p. Anastasius Van Den Wyngaert, Firenze (Quaracchi) : Tip. Barbera, Alfani e Venturi, 1933, pp. 317-606.

[60]Domingo Navarrete, Tratados históricos, políticos, éthicos y religiosos de la monarchia de China, I, Madrid, 1676.  Il Trattato contiene, alle pp. 246-289, la Respuesta breve sobre las controversias de el Xang  ti …., ossia la traduzione spagnola della Responsio di Longobardo, che, come dichiara Navarrete, si basa sull’originale conservato nell’Archivio di Propaganda Fide di Roma che ne autorizza altresì la pubblicazione: Ivi, p. 245.

Il Trattato, secondo quanto riporta Intorcetta, per mano del gesuita Vallat, venne in possesso di Santa Maria che lo tradusse anche in spagnolo: R.P.Prosperi Intorcetta Societatis Jesu. Testimonium de cultu sinensi, datum anno 1668, Parigi, 1700, p. 227.

La copia di cui parla Intorcetta, riferendo la testimonianza dei padri Francesco de  Ferrari e Adam Shall, è l’unica  salvatasi dalle fiamme ordinate  dai due superiori nel 1649: “igne combusti anno 1649”: R.P. Prosperi Intorcetta. Testimonium cit., p .226.   Come precisa Criveller, si tratta del rapporto di Nicolò Longobardo bocciato dai confratelli nel gennaio1628 in occasione della conferenza di Hángzhōu che si presumeva distrutto, secondo la pratica di cancellare, quando vi fossero, le evidenze dei disaccordi: G. Criveller, La controversia dei riti cinesi storia di una lunga incomprensione, in « I quaderni del museo », n.23, Milano, 2012, p. 12.

La posizione del Bartoli, nella sua opera La Cina del 1663, alle pp. 895-898, è  in difesa delle soluzioni ricciane, contro  ogni oppositore anche interno  alla compagnia stessa; dura, ad esempio, è la sua reprimenda  nei confronti dei gesuiti giapponesi ai quali rimproverava di intervenire su questioni che riguardavano il confucianesimo e non il buddismo che loro conoscevano meglio; né  va dimenticato che la sua stessa opera di “Istorico della Compagnia in lingua volgare”, cioè L’Asia, va considerata come rientrante nelle azioni apologetiche messe in campo dalla Compagnia sotto attacco per la questione dei Riti. Si vedano: W. Yinlan, La Cina di Daniello Bartoli, Roma, Urbaniana University Press, 2014, pp. 33-34; D. Bartoli, L’Asia Istoria della Compagnia di Gesù, a cura di Umberto Grassi, Introduzione di Adriano Prosperi, Contributi di Elisa Frei, Torino, Einaudi, 2019.

Parimenti in un’ottica apologetica va vista la pubblicazione del De Christiana expeditione apud sinas suscepta ab Societate Jesu. Ex P. Matthaei Riccii eiusdem Societatis commentariis Libri V: Ad S.D.N. Paulum V. In Quibus Sinensis Regni mores, leges, atque instituta, & novae illius Ecclesiae difficillima primordia accurate & summa fide describuntur auctore P. Nicolao Trigautio, Belga, ex eadem Societate, Augsburg,1615, che si inserisce nel clima della controversia: G. Ricciardolo, Oriente e Occidente negli scritti di Matteo Ricci, Napoli, Chirico, 2003, pp. 176-194.

[61]Stralci dell’opera di Longobardo, anche in Apologia de padri Domenicani missionarii della China; o pure risposta al libro del padre Le Tellier Giesuita, intitolato difesa de nuovi christiani, e dilucidatione del P. Le Gobien della stessa Compagnia, sopra gli honori, che li Chinesi prestano à Confucio, ed a i morti. Per un religioso dottore, e professore di teologia dell’ordine di S. Domenico, Colonia, Cornelio D’Egmon,1699, p. 206.

[62]Apostolic Legations to China of the eighteenth century, a cura di Sisto Rosso, cit., p.124.

[63] D. Navarrete, Tratados históricos, cit., p.125.

[64] Apostolic Legations to China of the eighteenth century, a cura di Sisto Rosso, cit, p.124.

[65]Zhang Kai, Diego de Pantoja Y China, Editorial Popular, Madrid, 2018, nello specifico pp. 279-329; Diego De Pantoja, Sj (1571-1618) Un puente con La China de los Ming, a cura di Wenceslao Soto Artuñedo Xerión, 2018. Su Diego Pantoja (1571-1618): Voce, a cura di J. Sebes, in Diccionario cit., p. 6147.

[66] Traité Sur Quelques Points De La Religion Des Chinois Par le R.P. Nicolas Longobardi, Ancien supérieur des missions de la Compagnie de Jésus à la Chine  Imprimé à Paris l’an 1701, auquel on a joint quelques remarques de M. G. W. Leibniz.  Si veda: F.Perkins, Leibniz and China: A Commerce of Light, Cambridge University Press, 2004, p. 159

[67] E. Corsi, Niccolò Longobardo, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Treccani, 2005, 65, pp. 716-720.

[68] G.W. Leibniz, Lettre sur la philosophie chinoise à M. de Rémond, in Opera Omnia, Tomo IV, Genève, chez Fratres de Tournes, 1768, p.171.  La Parte I contiene altri scritti di Leibniz  sulla  Cina,  le pp. 89-144 contengono il Trattato di Longobardo.

[69] G. W. Leibniz, The Leibniz–Des Bosses Correspondence, a cura di Daniel Garber e Robert C. Sleigh, Jr., Yale University, 2007, p. 359.

[70] M. R. Antognazza, Leibniz una biografia intellettuale, Milano, Hoepli, 2015, pp. 605-606; M. Laerke, On religions, in Leibniz e la cultura enciclopedica, a cura di Massimo Mori, Bologna, Il Mulino, 2018, pp. 265-266. Inoltre, come riporta Franklin Perkins, alla base del Discours sur la théologie naturelle des Chinois (1716) di Leibniz,  ci sono due scritti: Confucius, Sinarum Propaganda Philosophus, sive Scientia Sinensis latina exposito studio et operâ Properi Intorcetta, Christiani Herdtrich, Francisci Rougemont, Philippi Couplet, PP. Soc. Jesu, Parigi 1687,  e il  Trattato di Longobardo: F. Perkins, Leibniz and China: A Commerce of Light, Cambridge University Press, 2004, p. 159. Sul gesuita Intorcetta (1625-1696): F. M. Abbate, Prospsero Intorcetta un gesuita piazzese missionario in Cina, Caltanissetta, Edizioni Lussografica, 2018.

Per una ricchissima raccolta di lettere di Leibniz con i gesuiti missionari in Cina, si veda: G. W. Leibniz, Der Briefwechselmit den Jesuiten in China(1689 – 1714),Herausgegeben und mit einer Einleitung versehen von Rita Widmaier Textherstellung und Ubersetzung von Malte-Ludolf Babin Felix Meiner Verlag  Hamburg, 2006. Secondo Spence, per Leibniz la questione della natura dei riti era un aspetto di secondaria importanza, mentre egli era più interessato ai contenuti  propriamente filosofico-morali del confucianesimo: J. D. Spence, Les Chinois vus par les Occidentaux, de Marco Polo à nos jours, Société et cultures de l’Asie, ‘Université de Montréal, 2000, p. 108.  Per un’approfondita analisi delle influenze della cultura cinese sull’opera e sul pensiero filosofico di Leibniz si rinvia a: D. E. Mungello, Leibniz and Confucianism: The Search for Accord, University Press of Hawaii Honululu, 1977.

[71] I. Klutstein-Rojtrnan, R.J. Zwi Werblowsky, Leibniz: De cultu Confucii civili, in «Studia Leibnitiana», n. 16, 1984, p. 98.

[72]F. Piro, Che cosa è precisamente un ‘culto civile’?Un confronto tra le strategie accomodazionistiche di Intorcetta e Leibniz”, in Prospero Intorcetta S.J.: Un Siculus Platiensis nella Cina del XVII secolo, a cura di Antonino Lo Nardo, Vanessa Victoria Giunta, Giuseppe Portogallo, Fondazione Prospero Intorcetta Cultura Aperta, Piazza Armerina, 2018, pp. 174-184.

[73] R. Eteimble, Conosciamo la Cina? La Cina ieri e oggi, Milano, Il Saggiatore, 1972, p.74. Più recentemente il gesuita sinologo Standaert ha messo in evidenza come il più grande errore fatto dalla Chiesa nel dirimere la Questione dei Riti fu quello di non aver tenuto debitamente conto del parere degli intellettuali cinesi: N. Standaert, Chinese Voices in the Rites Controversy Travelling Books, Community Networks, Intercultural Arguments Bibliotheca Instituti Historici, V. 75, Roma, 2012.

[74] Lettre sur la Philosophie Chinoise à M. de Rémond par Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) Genève, chez Fratres de Tournes, 1748.  La traduzione italiana del Trattato, insieme ad altri scritti di Leibinz sulla Cina, si trova in G. W. Leibiniz, La Cina. Presentazione di Carlo Sini, Milano, Spirali, 1987.

[75] E. Ducornet, La Chiesa e la Cina, Milano, Jaca Book, 2008, p. 32; C. Giraudo, Se Matteo Ricci fosse sbarcato in Madagascar… La sacramentaria del 3° millennio: una tradizione in cerca di traduzione, in L’inculturazione della prassi sacramentaria: una traduzione?, a cura di A. Gasperoni e B. Selene Zorzi, Assisi, Cittadella Editrice, 2012,  p. 93.

[76]J. E. Wills Jr., The World from 1450 to 1700, The Oxford University Press 2009, p. 43.

[77] C. Von Collani, Charles Maigrot’s Role in the Chinese Rites Controversy, in The Chinese Rites Controversy. Its History and Meaning, a cura di David E. Mungello, Monumenta Serica Monograph Serie 33, Steyler Verlag, Nettetal 1994, pp. 149-183.

[78] G. Dell’Oro, Oh quanti mostri si trovano in questo nuovo mondo venuti d’Europa: vita e vicissitudini di un ecclesiastico piemontese tra Roma e Cina: Carlo Tommaso Maillard de Tournon 1668-1710, in «Annali di storia moderna e contemporanea», 1998, anno IV, n. 4 p. 325.

[79]M. Fatica, Il Portogallo, la Santa Sede e la legazione di Carlo Tommaso Maillard de Tournon in India e in Cina (1704-1710), in L’Orientalistica a Napoli. Atti dei convegni internazionali Il Portogallo in Cina e Giappone nei secoli XVI-XVII (Napoli, 12-13 maggio 2014) e Riflessi europei della presenza portoghese in India e nell’Asia orientale (Napoli, 4 maggio 2015), a cura di Rosaria de Marco, Napoli, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, 2017, p. 207;

Su de Tournon: Voce, a cura di Giacomo Di Fiore, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 67, 2006, on line.

[80] M. Biffi, Ridefinizione del sinocentrismo come criterio ermeneutico della diplomazia cinese. Modelli teorici, strategie attuative e riferimento alle relazioni con la Santa Sede, Padova, Cedam, 2019, pp. 99-105. Come sottolinea Gagliardi, la  controversia fu gestita da parte  di Roma e Pechino in un clima di “reciproca intransigenza”:  E. Gagliardi,  L’inculturazione del cattolicesimo in Cina da padre Matteo Ricci a Pio XI, in « Cultura e Identità », Anno II, n. 7, settembre -ottobre Roma, 2010, p. 66.

[81] V. Cronin, Il saggio dell’Occidente (1552-1610 ), Milano, Bompiani, 1956, p. 345.

[82]Collectanea S. Congregationis de Propaganda Fide Seu decreta instructiones rescripta pro apostolicis missionibus Vol.I 1622- 1866,  Typographia Polyglotta Roma, 1907, pp. 39-40.

[83] Su Provana, si veda: Voce, a cura di Eugenio Menegon, in Dizionario Biografico degli Italiani,Volume 85, 2016, on line.  G. Criveller, Messaggio dell’imperatore Kangxi a Papa Albani sulla controversia dei riti cinesi, in «L’Osservatorio Romano»,  22/08/ 2109,  p. 4.

[84]F. Vossilla, Artistic diplomacy during and after the Rites Controversy, in Ferdinando Moggi (1684-1761). Architetto e gesuita fiorentino in Cina, a cura di S. U. Baldassarri, C. Cinelli, F. Vossilla, Firenze, Pontecorboli Editore, 2018, p. 25 .

[85] Sostegno Maria Viani, Historia delle cose operate nella China da Monsignor Gio. Ambrogio Mezzabarba, patriarca d’Alessandria, legato apostolico in quell’Impero, Monsù Brianson, Parigi, 1739.

[86] P. Corradini, La Cina  – Storia Universale dei Popoli e delle Civiltà,  Volume XIX, Torino, UTET, 1969 p. 217.

[87] Su Castorano: Voce, a cura di Michela Catto, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 79, 2013, on line; G. Di Fiore, La Legazione Mezzabarba in Cina (1720-1721), Istituto Universitario Orientale, Collana “Matteo Ripa” VII, Napoli, 1989.

[88] Confirmatio, et innovatio constitutionis incipientis: ex illa die: a Clemente papa XI. In causa ritum, seu ceremoniarum Sinensium editaeRomae: ex Typographia reverendae Camerae Apostolicae, 1742.

[89] A. Santini, Cina e Vaticano dallo scontro al dialogo, Roma, Editori riuniti, 2003, p. 49.

[90] H. Kung, J. Ching, Cristianesimo e religiosità cinese, Milano, Mondadori,1988, p. 257.

[91] G. Greco, Benedetto XIV Riforme e conservazione, Roma, Salerno editore, 2011, p. 161.

[92] Storia della Chiesa, Vol.XXIV ( 1846-1965 ), a cura di Josef Metzerl, Cinisello Balsamo, Ed. San Paolo, 1999, p. 111.

[93] Plane compertum est in Orientalium Regionibus nonnullas caeremonias, licet antiquitus cum ethnicis ritibus connexae essent, in Acta Apostolicae Sedis Commentarium Officiale Annus X X X I I- Series  II- Vol. VII; Romae, Tipys  Polyglottis Vaticanis 1940, pp. 24-27.

[94] Tacchi Venturi dal febbraio 1923 riveste il “ ruolo informale di  incaricato d’affari”  della Segreteria di Stato della Santa Sede: G. Sale, La chiesa di Mussolini. I rapporti tra fascismo e religione, Milano, Rizzoli,2011, p. 90. L’11 febbraio 1932, Mussolini  si reca in visita ufficiale in Vaticano e responsabile dei preparativi è proprio Tacchi Venturi, come riporta un altro storico gesuita, Giacomo Martina, in Storia della Compagnia di Gesù in Italia (1984- 1983 ) Brescia, 2003, p. 264. Sul ruolo diplomatico svolto da Tacchi Venturi si rinvia a: S. Palagiano, Pio XI e Pietro Tacchi Venturi SJ, in Pio XI e il suo tempo, Atti del Convegno Desio, 10 Febbraio 2018, a cura di Franco Cajani, in  «I Quaderni della Brianza», anno 498, n.184, 2018, pp. 545 -565; sul suo contributo alle vicende editoriali dell’Enciclopedia Italiana: G.Turi, Il Mecenate il filosofo e il gesuita. L’ «Enciclopedia Italiana » specchio di una nazione, Bologna, Il Mulino, 2002.

[95] R. Etiemble, Conosciamo la Cina ? La Cina ieri e oggi, Milano, Il Saggiatore, 1972, p. 66.

[96]Ivi, pp. 66-67; M. Catto, Atheism: A Word Travelling To and Fro Between Europe and China, in The Rites Controversies in the Early Modern World, a cura di G. Županov e Pierre Antoine Fabre, Brill 2018, pp. 68-88.

[97] J. Wrigth, in I gesuiti storia mito e passione, Roma, Newton Compton, 2005, p. 160, dice: “ La cultura che distrusse la Compagnia doveva la maggior parte dei propri svaghi e mode ai reportage dei missionari gesuiti”.

[98] L. Lanciotti, Che cosa ha veramente detto Confucio, Roma, Astrolabio Ubaldini Editore,1997 p. 104; V. Pinot, Les physiocrates et la Chine au XVIIIe siècle, in «Revue d’histoire moderne et contemporaine»,tome 8, n.3,1906, pp. 200-214.

[99] F. Marcolungo, La nozione di progresso in Christian Wolff: tra metodo matematico, logica e impegno etico, in Modernità e progresso Due idee guida nella storia del pensiero, a cura di Gregorio Piaia e Iva Manova, Padova, CLEUP, 2014, pp. 99-100; M. Campo, Cristiano Wolff e il razionalismo precritico Vol. 2 Vite e pensiero, Miano 1939, pp. 519-520.

[100] Voltaire, Il secolo di Luigi XIV, 1739,1752, con Saggio di Giovanni Macchia, Introduzione a cura di Enrico Sestan, traduzione Umberto Morra, Torino, Einaudi,1994.

Ritagli di cielo. La pittura di Marcello Torsello

CARDIGLIANO-LA CHIESA-

 

di Paolo Vincenti

È recentemente scomparso Marcello Torsello. “Ritagli di cielo” è il titolo di una mostra pittorica da lui tenuta nel 2010 al Museo Internazionale Mariano di Arte Contemporanea di Alessano, a Borgo Cardigliano di Specchia e a Villa Meridiana di Santa Maria di Leuca, e raccolta in un Catalogo curato dal professor Carlo Franza. L’autore era forse più conosciuto per essere il padre del fotoreporter Gabriele Kash Torsello, all’attenzione delle cronache nazionali e mondiali per il suo rapimento avvenuto in Afghanistan nel 2006 e animatore dell’agenzia fotografica “ProPugliaPhoto”.

Carlo Franza, nella presentazione del Catalogo, spiega che  “le vicende della pittura di Marcello Torsello,[…] lasciano leggere dichiarazioni di attualità, dove passato presente e futuro si svelano intrecciati al filo del desiderio…. Il paesaggio di Torsello se da una parte guarda all’americano Edward Hopper per una sorta di pittura silenziosa, calma, stoica, luminosa e classica, dall’altra si allontana dalle forme e dall’iconicità, per segnalarsi come addirittura svolta astratto-geometrica, per via dei tagli e delle scenografie, per via di certi comignoli sui tetti che sono fortemente evocativi, immagini avvolte nella luce e nell’ombra, addirittura fantasmi dei luoghi…”.

PARLANO LE OMBRE 100X70, ACRILICO SU TELA

 

E’ facile dunque farsi sorprendere da questi dipinti di Torsello, realizzati con la tecnica dell’acrilico, da questi “ritagli di cielo” appunto, in cui leggiamo, tra astrazione e consistenza, quei comignoli su tetti, quei meriggi pallidi e assorti, quelle edicole votive, in un paesaggio marcatamente salentino, su sfondi bianchi e grigi fra i quali si stagliano quel blu e quell’azzurro così poetici.

Una poesia silenziosa, una pittura di colore, emozione incomprimibile, attraverso la quale l’autore realizza il proprio animo.  Marcello Torsello, nato ad Alessano nel 1935, si era dedicato, per motivi professionali, alla tabacchicoltura. Una volta in pensione, aveva deciso di volgersi all’arte seguendo un’antica inclinazione che lo ha portato a dare corpo pittorico ai suoi sogni, ideali, speranze.

LA MASSERIA

 

Nel 2009, a Milano gli è stato conferito dal Circolo della Stampa il Premio delle Arti per la pittura, edizione XXI. Ha tenuto diverse mostre, nel Salento, fra Alessano e Santa Maria di Leuca, e poi Firenze, Roma. Una bella foto dell’autore, in quarta di copertina, ci mostra un volto sereno, seppur scavato dalle rughe, di chi forse ha consapevolezza della finitezza dell’uomo a raffronto dell’eternità dell’arte.

L’iconografia Vaniniana nel tempo: da Antonio Bortone a Donato Minonni

 

di Paolo Vincenti

    

Nell’ambito dell’arte scultorea vaniniana, fra le opere degne di menzione è il busto realizzato nel 1868 dal grande scultore ruffanese, ma fiorentino di adozione, Antonio Bortone(1844-1938). Troppo note la figura e le opere del Bortone per dovercene soffermare in questa sede più del dovuto. Lo scultore Antonio Ippazio Bortone, nato a Ruffano, dopo la formazione napoletana, si trasferisce a Firenze dove raggiunge la gloria, divenendo uno dei più ammirati artisti italiani dell’epoca. Basti pensare che a Firenze viene chiamato a lavorare alla facciata di Santa Maria del Fiore, per la quale realizza, tra gli altri, le due statue di Sant’Antonino e San Giacomo Minore (1887) e i due bassorilievi di Michelangelo e Giotto (1887), oppure al Michele di Lando (1895), nella Loggia del Mercato Nuovo. Per quanto riguarda le opere salentine, molte sono quelle degne di menzione, fra le quali: il busto di Giuseppe Garibaldi (1867), in marmo, che si trova presso il Castello Carlo V di Lecce; i busti in marmo di Francesco Milizia (1872), di Antonio Galateo (1873) e di Filippo Briganti (1875), presso la Biblioteca Provinciale N. Bernardini di Lecce; la statua in marmo di Sigismondo Castromediano (1890), che si trova nel Museo omonimo di Lecce, il Monumento a Sigismondo Castromediano (1903), nella omonima piazzetta leccese; il Monumento a Francesca Capece (1900) a Maglie; il monumento a Salvatore Trinchese (1907) a Martano; il ritratto di Pietro Cavoti (1912), presso il Convitto Colonna a Galatina, ma soprattutto Il Fanfulla (1877), che gli valse l’appellativo  di “mago salentino dello scalpello”, come lo definì Brizio De Santis, nel basamento dell’opera. Il Fanfulla gli diede fama anche in Francia, poiché all’Esposizione Universale di Parigi nel 1878 ottenne la medaglia di 3° grado. Questo monumento, oggetto pochi anni fa di un intervento di restauro, dopo essere stato a lungo nella Villa Comunale, si trova oggi in Piazza Raimondello Orsini, a Lecce[1].

Fu l’Onorevole Gaetano Brunetti[2], all’epoca Presidente della Provincia di Lecce, nonché mecenate dello scultore, a commissionare la realizzazione in marmo di un busto dedicato a Giulio Cesare Vanini,“affidandone l’esecuzione all’esimio scultore Antonio Bortone da Ruffano, dimorante a Firenze”, come scrive Cosimo De Giorgi[3]. Vi è una nota corrispondenza fra il Bortone e il Deputato Brunetti, che per i suoi interessi professionali e politici frequentava Firenze, dove risiedeva anche l’illustre conterraneo. Esistono due lettere di Antonio Bortone a Gaetano Brunetti, una datata 30 settembre 1868 e l’altra 2 gennaio 1869, entrambe da Firenze[4]. Della statua del Bortone è stata da più parti evidenziata la scarsa verisimiglianza all’originale (o ad un presunto originale, che comunque non esiste). Il Bortone infatti, come tutti gli artisti del periodo, si rifece certamente al ritratto di Raffaello Morghen (1758-1833), autore di una delle prime incisioni del filosofo taurisanese, risalente agli inizi dell’Ottocento, nella Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli[5]. Se si vuol ricostruire una iconografia vaniniana filologicamente corretta bisogna però partire almeno dall’incisione anonima del 1685 inserita nel frontespizio del libro di Johann Müller, Atheismus devictus… (Franckfurt,1685), e da quella del 1714, tratta dalla rivista “Neue Bibliothec oder Nachricht und Urtheile von neuen Büchern und allerhand zur Gelehrsamkeit dienenden Sachen”, (n.34, 1714), curata da Nicolaus Hieronymus Gundling, in cui l’autore delle incisioni potrebbe essere Johann Adam Delsenbach. Traggo queste informazioni dal libro di Andrzej Nowicky, Giulio Cesare Vanini (1585-1619) La sua filosofia dell’uomo e delle opere umane[6], una edizione rarissima in possesso del prof. Francesco De Paola (con dedica personale di Nowicky). Dal ritratto del Morghen,[7]dicevamo, si giunge al busto di Bortone.Vanini viene raffigurato con baffi e pizzetto, folta capigliatura, e in un atteggiamento vagamente romantico[8]. Il busto viene conservato presso la Biblioteca Provinciale “N.Bernardini” di Lecce.

Allo stesso modo Vanini è rappresentato nella litografia del Petruzzelli del 1878 per il libro di Raffaele Palumbo, Giulio Cesare Vanini e i suoi tempi [9], riproposta nel volume taurisanese del 1969 sulle celebrazioni per i 350 anni della morte di Vanini[10]. In quest’ultima pubblicazione, alla litografia del Petruzzelli, in basso, è aggiunta la formula del giuramento di Vanini all’atto del conseguimento del titolo di dottore in utroque iure. In realtà, si tratta di un fotomontaggio, ovverosia di due documenti a sé stanti assemblati insieme: infatti la litografia è nel summenzionato volume di Raffaele Palumbo, mentre la formula del giuramento è conservata in Archivio di Stato di Napoli e pubblicata da Francesco De Paola in un suo saggio del 2008[11].

Come nella litografia del Petruzzelli, così Vanini viene ritratto anche in una tela anonima ad olio del 1902 che si trova a Taurisano in una collezione privata[12]. Tutte queste rappresentazioni di Vanini corroborano quella del Bortone. Occorre dire, a maggior difesa dello scultore ruffanese, che egli, su consiglio del Brunetti, si rivolse al Barone Giovanni Casotti e all’erudito Luigi Giuseppe De Simone, per attingere informazioni sul Vanini, prima di apprestarsi alla realizzazione dell’opera. Bortone voleva giustamente documentarsi al meglio. Per questo chiedeva un ritratto, che infine gli fu mandato dal De Simone. Questo ritratto doveva essere quello del Morghen, tolto alla già citata Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, come suppone Francesco De Paola[13]. Allo stesso modo Vanini viene raffigurato da Eugenio Maccagnani (1852-1930) nel busto del 1886 che si trova nella Villa Garibaldi a Lecce, e anche da Ettore Ferrari (1845-1929) nel medaglione che si trova nella base del monumento a Giordano Bruno del 1889, in piazza Campo dei Fiori a Roma[14]. In quest’ultimo monumento, costituito da otto medaglioni che riproducono i ritratti di altrettanti eroi del libero pensiero (Paolo Sarpi, Tommaso Campanella, Pietro Ramo, Aonio Paleario, Michele Serveto, John Wyclif e Jan Hus), nel medaglione che raffigura Vanini è posto anche un ritratto più piccolo di Martin Lutero[15]. Sempre con pizzetto e folta capigliatura Vanini è raffigurato in uno schizzo pubblicato da Cesare Serafini nel 1914[16] e da Martin Zbigniew nel 1976[17]. Bortone era figlio del suo tempo. Come spiega De Paola, “in quei momenti, dominati dal desiderio di sconfiggere il potere temporale del Papato e di riconquistare Roma elevandola al suo giusto rango di capitale d’Italia, la figura del filosofo morto tragicamente e atrocemente a Tolosa per mano (come si riteneva, ma in modo errato) dell’Inquisizione e vittima dell’intolleranza religiosa e dell’oscurantismo scientifico, sembrò, al mazziniano e massone Brunetti, lo strumento più adatto per condurre e inasprire una campagna politica contro lo Stato Pontificio e la religione cattolica, esaltandone non la reale dimensione culturale, bensì solo l’aspetto di vittima della Chiesa cattolica”[18]. Bortone insomma sentiva a sé consentanea la natura del Vanini e ne sposava idealmente la causa. In questo, era certamente influenzato dal suo amico e conterraneo, l’erudito Pietro Marti, giornalista e scrittore, che qualche anno dopo dedicherà proprio al martire di Tolosa il libro Giulio Cesare Vanini[19]. Marti, nel suo elogio del filosofo, definito il “precursore del trasformismo scientifico”, seguendo le parole di Bodini[20], passa in rassegna tutti gli studiosi che avevano severamente contestato il Vanini e quelli che invece lo avevano difeso. Si sofferma lungamente sulle vicende biografiche di Vanini, sulle numerose tappe del suo lungo peregrinare e soprattutto sulle sue opere, approfondendo il pensiero del filosofo, che inquadra nel contesto storico in cui visse e operò. Porta illustri esempi di filosofi del Cinquecento, Seicento, Settecento, per esaltare l’eroismo del taurisanese, e tuttavia non si sottrae a quella visione che erroneamente lo considerava un martire della repressione cristiana, accomunandolo idealmente al grande Giordano Bruno.

Anche da Firenze, intermediario il Brunetti, si voleva erigere un monumento al Vanini, ma questo non fu mai realizzato. Si costituì un comitato, il cui principale animatore era Giuseppe Ferrari, il quale richiedeva a Sigismondo Castromediano il ritratto del Vanini. “Tu solo puoi guidarci […] ti preghiamo di darci un’indicazione che possa condurre lo scalpello”[21], scrive il Ferrari da Firenze al Duca Castromediano, il quale con Casotti, De Simone e Maggiulli era intento alla preparazione del Dizionario biografico degli uomini illustri di Terra d’Otranto[22].

Quest’opera non si realizzò mai. «Appaiono evidenti i motivi per cui questi spiriti risorgimentali» scrive De Paola, citando Palumbo, «intendevano esaltare la figura e l’opera del Vanini, “ultima vittima della reazione cattolica durante le guerre di religione”: farne lo strumento della lotta contro la chiesa cattolica e arruorarlo nel proprio schieramento nel conflitto per l’unificazione dell’Italia, anche a scapito della verità storica e del reale svolgimento degli avvenimenti biografici del filosofo di Taurisano. […] nulla si sa dei motivi del fallimento di questo tentativo degli spiriti risorgimentali di Firenze di innalzare una statua al Vanini in Taurisano che, come è ben noto, non fu mai realizzata. Ma una qualche attività del gruppo dovette aver luogo, perché effettivamente lo scultore di Ruffano elaborò un bozzetto in gesso di un bel monumento […] che è possibile rinvenire in varie pubblicazioni»[23]. Nowicky dice di essere in possesso di una fotografia del monumento sulla quale è scritta una dedica del Bortone al dott. Nicola Vacca[24].

Facciamo ora un salto temporale per occuparci delle opere dedicate a Vanini da Donato Minonni, scultore e pittore, conterraneo dello stesso Vanini, essendo nato nel 1943 a Taurisano, dove risiede e opera[25].

Minonni lavora con le più svariate tecniche come lo smalto, l’argento, il mosaico vetroso, l’intarsio. Fra le realizzazioni più importanti, occorre segnalare: il Monumento a Padre Pio, in marmo di Carrara, alto m.2.30 a Taurisano, del 1989; la statua di San Francesco d’Assisi in bronzo patinato verde pompeiano, alta 2 metri e 50, che si trova a Gemini di Ugento, voluta dalla Confraternita Maria Ss. Del Rosario nel 1994; la statua di Santa Lucia in legno di cirmolo, realizzata nel 1998,  che si trova a Brindisi, nella chiesa di San Nicola; l’angelo con un’ala sola in marmo bianco di Carrara, a Gallipoli. Bellissima e poetica la scultura “Apollo e Dafne” del 1989, recentemente entrata a far parte di collezione privata. Donato Minonni opera in vari contesti e in più settori dando man forte a quella schiera di pittori, scultori, grafici, designers che con le arti figurative impreziosiscono il nostro Salento. Notevoli le sue realizzazioni all’interno della Fondazione Filograna a Casarano, come la grande fontana centrale ed i giardini, e poi alcune opere in bronzo per il Calzaturificio Filanto di Casarano. Fino a qualche anno fa, suo stretto collaboratore era il figlio Carlo, che ora ha intrapreso nuove strade, essendosi trasferito a Firenze. Una delle realizzazioni in cui è stato impegnato insieme col figlio, è quella del sarcofago della serva di Dio Mirella Solidoro, presso la chiesa taurisanese “Ss. Mm. Maria Goretti e Giovanni Battista”. Un foto-catalogo a stampa della sua produzione riporta le varie fasi dell’opera, dal progetto alla scelta dei blocchi di marmo a Carrara, fino alla lavorazione e posa in opera, con l’inaugurazione finale. Nella stessa chiesa, opera di Minonni sono le grandi e bellissime vetrate realizzate in vetri colorati e grisaglia ad alto fuoco, e poi la recentissima Via Crucis, che adorna le pareti della chiesa, realizzata in vetro con colori ceramici e retroilluminata.

Nell’antropologia del Salento affondano le matrici artistiche del suo fare scultura. Minonni mi spiega come nascono le opere che gli vengono commissionate. La prima fase è quella degli studi preparatori in cui si documenta leggendo tutto ciò che è stato scritto sul soggetto o sul tema che deve essere realizzato, anche con l’ausilio di filmati, ove se ne disponga, documentari e strumenti della nuova tecnologia, come i dvd. Quindi procede ai bozzetti preparatori che sottopone all’attenzione dei committenti  e, dopo il placet degli stessi, passa all’ultima fase, quella della realizzazione vera e propria. Perché ciò avvenga però, deve scoccare la scintilla, ovvero deve arrivare l’ispirazione. In questo caso, alla technè si unisce la theia dynamis, per dirla con Platone, cioè la magia dell’ispirazione che ha sempre qualcosa di divino, che irrompe ed invade l’artista. Una delle opere più imponenti di Minonni è il monumento a Padre Pio in bronzo che si trova a Parabita, voluto da un comitato promotore presieduto dal compianto poeta Rocco Cataldi. Il monumento scultoreo, realizzato da Donato insieme al figlio Carlo, venne inaugurato nel giugno del 2002. L’opera, come spiega lo stesso Minonni, “raffigura un grande tronco di ulivo scavato dagli anni nella secolare ricerca della luce. Dalle vecchie radici, come per miracolo, continuano a spuntare sempre nuovi germogli e ramoscelli. Sembrano mani protese verso il cielo in segno di preghiera, auspici di pace e riconciliazione. Dall’albero, animato da varie figure, emerge il Santo di Pietralcina. La sua mano sinistra si protende porgendo la corona del Rosario a chi la implora, l’altra si alza per benedire due ragazzini intenti a ripetere il rito millenario della piantagione, rimando al culto della Madonna della Coltura di Parabita”[26].  A Rocco Cataldi, per volontà dei vecchi alunni, Minonni ha dedicato un busto ricordo, ovvero una Stele con ritratto in pietra, posizionata nello stesso spiazzo in cui ha luogo il monumento a Padre Pio.

Fra le sue opere, ancora: la stele funeraria con ritratto di Marcello Lezzi a Matino, del 1997; l’Angelo ad ali spiegate, in marmo bianco di Carrara, a Gallipoli, del 2001; il Monumento a Papa Giovanni Paolo II, realizzato in marmo bianco di Carrara, alto 3 metri e 15 e posizionato nella omonima piazzetta a Casarano, nel 2007. Questa statua potrebbe in realtà definirsi un gruppo scultoreo, dati l’alto contenuto simbolico dell’opera e le diverse serie allegoriche tracciate nella materia. Infatti, sulle spalle del Papa, vediamo delle colombe e dei ramoscelli di ulivo che il Santo Padre solleva con la mano destra. In basso, sotto la sua stola, un nido di pace per l’infanzia; ai piedi del santo, troviamo il gruppo di “Solidarietà e Carità”, rappresentate con dei giovani che offrono acqua e cibo ad un denutrito; a sinistra in basso è rappresentata l’ “Accoglienza”, con una barchetta carica di disperati che cerca di guadagnare la riva mentre qualcuno da terra tenta di mettere in salvo un bambino. Nella parte posteriore invece sono rappresentate scene di guerra, i campi di concentramento, le fosse comuni, le deportazioni e il pianto delle madri che genera un mare di lacrime.

Fra le opere più recenti, un busto in marmo di Giosue Carduci, voluto dal Circolo Tennis “G.Verardi” di Taurisano, posizionato nel cortile dell’omonimo edificio scolastico taurisanese e inaugurato nel dicembre del 2011, per i 150 anni dell’Unità d’Italia.

Veniamo dunque alle opere che Minonni ha dedicato a Vanini:

  • Nel 1969 una medaglia ed un busto in occasione del primo convegno di studi sul filosofo taurisanese, a 350 anni dalla morte[27];
  • Sempre nello stesso anno, una versione modificata della statua, in graniglia di marmo di Carrara e cemento grigio, in cui è stata ridotta parte del busto che si presenta con una camicia accollata, e che oggi fa parte di collezione privata;
  • Nel 1985, un Annullo postale realizzato in occasione del 400° anniversario della nascita del filosofo. Nel disegno si riprendono le fattezze dei busti realizzati nel 1969;
  • Nel 1995, una medaglia per il Liceo Scientifico di Casarano, dove Minonni ha insegnato Disegno e Storia dell’Arte fino al congedo[28];
  • Ancora nel 1995, un busto in bronzo per il Liceo Scientifico di Casarano, che venne intitolato allo stesso Vanini[29];
  • Nel 2017, il busto del 1969, conservato e legato con filo di ferro nell’edificio scolastico Vanini di Taurisano, rifatto per volontà dello stesso Minonni.

A coloro che si soffermano sulla raffigurazione del suo primo Vanini, in abbigliamento da guascone francese (o“alla D’Artagnan”, come si dice comunemente), si potrebbe facilmente obbiettare elencando una serie di statue che ornano il ballatoio del Museo del Louvre, come Giovanni Cassini, Perinaldo (1625-1712), Cartesio (1596-1650), J. Goujon (1510-1572), Pier Corneille (1606-1684), Moliere (1622-1673) che documentano l’abbigliamento tra la fine del ‘500 e i primi del ‘600, epoca in cui visse e morì il filosofo di Taurisano. E per la precisione: Molti infatti hanno sempre pensato che Vanini dovesse indossare il saio dei Carmelitani, ritenendolo quasi un Giordano Bruno minore. Così non è, e basterebbe consultare una minima parte della ormai sterminata bibliografia vaniniana, perché come si sa il pensatore taurisanese fu solo per brevissimo tempo un predicatore[30]. Ma questo è un altro discorso nel quale non mi avventuro, rimandando il lettore ai più ragguardevoli saggi presenti negli Atti. Non si può concludere questa carrellata sull’iconografia vaniniana senza citare l’opera più recente, ovverosia il ritratto di Vanini installato nel 2017 nella centrale Piazza Castello di Taurisano, e comunemente conosciuto come “La maschera”. Questa scultura, che ha suscitato divergenti pareri, è stata realizzata dall’architetto Paolo Prevedini in bronzo e secondo alcuni è ispirata all’opera dello scultore polacco Igor Mittoray.

 

Note

     [1] Per una bibliografia essenziale sullo scultore, si vedano: A. De Gubernatis, Dizionario degli artisti italiani viventi, Firenze, 1906, p. 68; E. Giannelli, Artisti napoletani viventi: pittori, scultori ed architetti: opere da loro esposte, vendute e premii ottenuti in esposizioni nazionali ed internazionali, Napoli, Tip. Melfi e Joele, 1916, pp. 520-525; P. Marti, Antonio Bortone e la sua opera, Lecce, 1931; I. Laudisa, L’opera di Antonio Bortone, in Aa.Vv., Antonio Bortone, Pro Loco Ruffano, Lecce, Conte Editore, 1988, pp. 15-34; A. de Bernart, Antonio Bortone nella stampa periodica salentina, Ivi, pp. 37-45; A. Laporta, Rarità bibliografiche: un sonetto dedicato ad Antonio Bortone, Ivi, pp. 49-51; A. E. Foscarini, Lettere edite ed inedite di Antonio Bortone, Ivi, pp. 53-67; A. de Bernart, Antonio Bortone e le figure dei suoi monumenti. Nel 150° di sua nascita (1844-1994), in «Bollettino storico di Terra d’Otranto», n.4, 1994, pp. 72-78; O. Casto, Bortone a Firenze, in Colloqui 150° Anniversario della nascita di Antonio Bortone. 1844-1994, Pro Loco Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis, 1994, pp. 3-8; A. E. Foscarini, Bozzetti in gesso di Antonio Bortone, Ivi, pp.27-28; E. Inguscio, Della “vittoria alata” di Antonio Bortone in Ruffano, in «Il Bardo», Copertino, a. VII, n.2, dicembre 1997, p. 13; A. de Bernart, Antonio Bortone e la sua casa natale in Ruffano, Amministrazione Comunale Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis, 2004; P. Vincenti, L’arte commemorativa postbellica. Antonio Bortone da Ruffano e una sua opera inedita, in «L’Idomeneo», Rivista del Dipartimento di Beni Culturali-Università del Salento, in collaborazione con Società Storia Patria Puglia, Sezione di Lecce, n.26, 2018, Castiglione, Grafiche Giorgiani, 2019, pp. 247-282; Idem, Dal Fanfulla a Quinto Ennio nel segno di Antonio Bortone, in «Il Filo di Aracne», Galatina, n.3, luglio-settembre 2019, pp. 42-43.

     [2] Sull’On. Gaetano Brunetti, avvocato e uomo di vasta cultura, si veda: P. Palumbo, L’on. Gaetano Brunetti e i suoi tempi (1829-1900), Lecce, Tipografia Salentina, 1915.

     [3]  C. De Giorgi, La Provincia di Lecce, Vol. II, Galatina, Congedo, 1975, p. 145.

     [4] Pubblicate da P. Palumbo, L’on. Gaetano Brunetti cit., pp. 334-335, e da A. E. Foscarini, Lettere edite ed inedite di Antonio Bortone, in Aa.Vv., Antonio Bortone, Pro Loco Ruffano, Lecce, Conte Editore, 1988, p. 57.

     [5] Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli ornata de’ loro rispettivi ritratti, compilata da diversi letterati nazionali, Napoli, N. Gervasi, 1817. Si tratta di un’opera monumentale in 15 volumi, usciti dal 1815 al 1830.

     [6] A. Nowicky, Giulio Cesare Vanini (1585-1619) La sua filosofia dell’uomo e delle opere umane, Accademia Polacca delle Scienze, Biblioteca e Centro di Studi a Roma, fascicolo 39, Ossolineum, Wroclaw-Warszawa-Krakòw, 1968, pp. 38- 44. Ringrazio sentitamente il prof. De Paola per avermene permesso la consultazione.

     [7] Il ritratto del Morghen, nella già menzionata Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, è allegato alla biografia di Vanini a cura di Andrea Mazzarella da Cerreto. Ne riferisce A. Nowichy, op.cit., p. 40. Questo ritratto viene pubblicato per la prima volta in ambito salentino da Francesco De Paola in F. De Paola – M. Leopizzi, I documenti originali sui “processi” a Vanini, Fasano, Schena Editore, 2001, p. 15.

     [8] Così è ritratto anche in M. Laval, Le philosophe Uciglio Vanini, in «Mosaique du Midi», 1837-1838, p. 22. Il busto di Bortone viene pubblicato nel libro di Guido Porzio, Antologia vaniniana, Lecce, 1908, prima del frontespizio. Si veda A. Nowicky, op.cit. p. 40.

     [9] R. Palumbo, Giulio Cesare Vanini e i suoi tempi. Cenno biografico-storico corredato di documenti inediti, Napoli, 1878, riportato da A. Nowicky, op.cit. p. 41.

     [10] Amministrazione Comunale di Taurisano, Celebrazioni in onore di Giulio Cesare Vanini. 350° Anniversario della morte, a cura di Antonio Santoro, Francesco De Paola, Luigi Crudo, Prefazione di Aldo de Bernart, Cutrofiano, Panico &Toraldo,1969, p. 8.

     [11] Archivio di Stato di Napoli, Collegio dei Dottori, busta 171, Folio 43v, in F.  De Paola, Note sui Vanini di Taurisano e sui dottori dell’antica Terra d’Otranto, in Aa.Vv., Filosofia e Storiografia. Studi in onore di Giovanni Papuli, Vol. II – L’età moderna, a cura di S. Ciurlia, E. De Bellis, G. Iaccarino, A. Novembre, A. Paladini, Galatina, Congedo,2008, p. 113.

     [12] Tela in casa del dottor Luigi Ponzi di Taurisano. La nota è in A. Nowicky, op.cit. p. 42.

     [13] F. De Paola, Vanini nel Salento: origine e fine di un’icona anticlericale, in Aa.Vv., Nei giardini del passato. Studi in memoria di Michele Paone, a cura di P. Ilario D’Ancona e Mario Spedicato, Lecce, Edizioni Grifo, 2011, p. 112.

     [14] A. Nowicky, Centralne Kategorie filozofii Vaniniego, Panstwowe Widawnictwo Naukowe, Warszawa 1970, p. 176, fuori testo.

     [15] Sull’argomento, fra gli altri, si veda L. Montonato, Presenze luterane in Giulio Cesare Vanini, in «L’Idomeneo Lutero in Terra d’Otranto. Atti del Convegno di Studi (Lecce, 25,26 ottobre 2017)», Rivista del Dipartimento di Beni Culturali-Università del Salento, in collaborazione con Società Storia Patria Puglia, Sezione di Lecce, n.24-2017, Lecce, 2018, pp. 225-228.

     [16] C. Serafini, Giulio Cesare Vanini, Roma, Editoriale G. Galilei, 1914.

     [17] Uno schizzo pubblicato da A. Nowicky, in Ostatnia noc Vaniniego, Katowice, 1976, p. 183. Lo stesso Nowicky parla di un altro quadro del 1935 conservato nel Museo di Storia della Religione e dell’Ateismo a Leningrado, dipinto da Rada Efimovna Chusid, e di un disegno del 1952, di autore ignoto, nel Circolo Vaniniano di Taranto, probabilmente tratto dal medaglione del monumento di Campo dei Fiori: A. Nowicky, Giulio Cesare Vanini (1585-1619) La sua filosofia dell’uomo e delle opere umane, cit. p. 44.

     [18] F. De Paola, Vanini nel Salento: origine e fine di un’icona anticlericale, cit., p. 110.

     [19] P. Marti, Giulio Cesare Vanini, Lecce, Editrice Leccese, 1907. Su quest’opera, si sofferma E. Inguscio nel suo saggio Vanini nel pensiero di Pietro Marti, in Idem, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013, pp.123-134. Marti dedicò anche un saggio all’opera dell’amico scultore: P. Marti, Antonio Bortone e la sua opera, Lecce, 1931.

     [20] V. Bodini, In memoria di Pietro Marti. La vita e l’opera, in «La Voce del Salento», n,11, Lecce, 18 maggio 1933, p. 1.

     [21] Come da lettera riportata da P. Palumbo, op.cit., p. 335. L. M

     [22] Che sarà pubblicato solo nel 1999: F. Casotti, S. Castromediano, L. De Simone, L. M aggiulli, Dizionario biografico degli uomini illustri di Terra d’Otranto, a cura di Gianni Donno, Alessandra Antonucci, Loredana Pellè, con Prefazioni di Donato Valli, Ennio Bonea e Alessandro Laporta, Manduria, Lacaita, 1999.

     [23] F. De Paola, op.cit., p.113. Il bozzetto in gesso per un monumento a Vanini venne pubblicato da L.Ponzi, Onoranze mancate per Giulio Cesare Vanini, in «La Zagaglia», a. X, n.38, Lecce,1968, p. 12, e poi nel già citato Antonio Bortone, Pro Loco Ruffano, cit., a p. 145.

     [24] A. Nowicky, op. cit. p. 42.

     [25] Si rinvia a P. Vincenti, Fare scultura: Donato Minonni, in «Il Filo di Aracne», Galatina, n.5, novembre-dicembre 2014, pp. 41-43.

     [26] Ivi, p. 42.

     [27] Si veda: Amministrazione Comunale di Taurisano, Celebrazioni in onore di Giulio Cesare Vanini. 350° Anniversario della morte, cit. Interessanti le dichiarazioni dell’autore sulla genesi delle due opere: “Il busto, realizzato con graniglia di marmo di Carrara e cemento bianco da modello in argilla, venne posizionato nella Scuola elementare G.C.Vanini di Taurisano. La mia prima scultura in assoluto”, informa Donato Minonni, “avevo frequentato a Lecce, presso l’Istituto Statale d’Arte G. Pellegrino la sezione Pittura. Ispirandomi al busto di Eugenio Maccagnani, tuttora esistente nella Villa comunale di Lecce, volli interpretare un mio ritratto del Filosofo dandogli un’espressione piuttosto corrucciata e allo stesso tempo determinata a perseguire le proprie idee. In questo caso, come in tantissimi esempi della ritrattistica neoclassica anche il Nostro si presenta privo di abbigliamento. Il modello per la medaglia in gesso, invece, del diametro di 10 cm, venne pubblicato dal prof. Andrzej Nowicky, in un suo libro del 1970”. Il libro a cui fa riferimento Minonni è, A. Nowicky, Centralne Kategorie filozofii Vaniniego, cit., p. 283.

     [28] Si tratta di una medaglia in bronzo dorato, del diametro cm. 5, realizzata in numerosi esemplari per premiare ogni anno l’alunno più meritevole nel corso di studi del Liceo. Rappresenta la medesima immagine del busto in bronzo del filosofo.

     [29] L’opera è stata realizzata con fusione a cera persa, presso la fonderia Bruno Sordini di Milano. Questa l’interpretazione che lo scultore dà all’opera: “In questo caso, una maggiore libertà di interpretazione dell’espressione del volto e della composizione danno una rappresentazione del filosofo che, avvolto dalle fiamme del rogo, conserva la sua espressione pensante ma determinata. I capelli corti isolano la testa dal gioco delle fiamme che avvolgono la sua figura mentre dal basso parte e si avvolge a spirale una forma che si lega al resto della composizione”. Sulla statua si leggono i versi del prof. Francesco Politi, nativo della stessa Taurisano, che cosi recitano: “Di Natura gli arcani anelò con ardore indagare, / lasciò tra le fiamme la vita, / svanì cenere sparso da mani sacrileghe al vento, / ma dell’audace suo spirito i lumi furono albori /alle ansie e alle ricerche dell’età nuova”.

     [30] La letteratura sul Vanini ha sempre presentato il filosofo, sulla base della documentazione esistente in quell’epoca, come un frate carmelitano in fuga dall’ordine e dalla Chiesa cattolica. Ciò è vero solo in parte. Come indiscutibilmente dimostrano i documenti pubblicati nel 1998 da Francesco De Paola, il pensatore salentino ritornò nel mondo cattolico dall’Inghilterra nel 1614, dopo avere ottenuto la dispensa dal suo ordine e il permesso di vivere in “habito di prete secolare”. Si veda: F. De Paola, Giulio Cesare Vanini da Taurisano filosofo europeo, con nuovi documenti e testimonianze; introduzione di Giovanni Dotoli, Fasano, Schena Editore, 1998, pp. 220-221 (doc.XX), pp. 221-222 (doc.XXI), p. 223 (doc. XXII), pp. 224-225 (doc.XXIII), da cui risulta il nuovo status di Vanini al suo ritorno dall’esperienza inglese.

Breve storia del Collegio Argento di Lecce

RELIGIONI AC BONIS ARTIBUS[1].

BREVE STORIA DEL COLLEGIO ARGENTO DI LECCE

di Paolo Vincenti

 

La storia della Compagnia di Gesù a Lecce parte nel 1574 sotto la guida di Padre Bernardino Realino[2]. In quella data, nasce a Lecce la prima Casa Professa gesuitica di Puglia che, divenuta in seguito Collegio, è anche la prima per importanza fra i nove collegi pugliesi[3].  Il Collegio, nato nel 1583, viene annesso alla Chiesa del Gesù[4].

La sede dei Gesuiti sorge sull’antica Chiesa di San Nicolò dei Greci, dove si officiava con rito greco, poi divenuta Chiesa del Buon Consiglio, la cui confraternita, in seguito alla presa di possesso da parte dei gesuiti, si trasferisce in San Giovanni del Malato[5]. La Chiesa del Gesù viene solennemente inaugurata e aperta al culto nel 1577[6], e contiene tele dell’Imperato, di Letizia, Antonio Verrio ed altri notevoli pittori[7]. Il Collegio fu fondato dall’Avv. Raffaele Staivano e realizzato anche grazie alle donazioni di numerosi benefattori provenienti dalle famiglie più agiate di Lecce[8].

Dopo Lecce, i Gesuiti si insediarono a Cerignola nel 1578, dove sorse il primo Collegio di Puglia in ordine di tempo; nel 1583, in concomitanza con quello leccese, nacque il Collegio di Bari; nel 1592 quello di Barletta; nel 1605 fu la volta di Bovino; nel 1611 i Gesuiti giunsero a Molfetta, dove nel 1618 nacque anche il Collegio; nel 1613 fu fondato il Collegio di Monopoli; nel 1617 la Residenza di Taranto, che nel 1624 divenne Collegio; infine, nel 1753 vide la luce il Collegio di Brindisi[9].

Ma, come detto, il Collegium Lupiense fu il più importante del Regno dopo quello di Napoli, e qui furono inviati i migliori professori, luminari nelle loro discipline, quali, uno su tutti, il Beato Carlo Spinola (1564-1622)[10].

All’opera spirituale dei Padri si devono poi la nascita delle Congregazioni mariane, dei Ministeri Apostolici e soprattutto delle Missioni[11]. Il Collegio si trovava all’epoca in quell’edificio che oggi è occupato dal Palazzo di Giustizia. Ivi si insegnavano latino, greco, filosofia, teologia, matematica, e queste materie attiravano l’attenzione della classe più agiata della Terra d’Otranto che inviava a studiare i propri rampolli nel Collegio di Lecce.

Un episodio particolare riguarda la permanenza a Lecce di P. Onofrio Paradiso, che il Barrella definisce “il Realino redivivo di Lecce”[12]. Il suo operato era talmente apprezzato che gli stessi sovrani Carlo IV e Maria Amalia pregarono il Provinciale nel 1757 di voler trasferire P. Paradiso nella Capitale. La richiesta incontrò la ferma opposizione non solo dei suoi confratelli del Collegio ma di tutta la popolazione di Lecce dove Paradiso era ormai tenuto in conto di santo, tanto che i cittadini presidiarono l’entrata del Collegio affinché nessuno della pubblica autorità potesse prelevare il frate e addirittura murarono la porta carraia dell’istituto segregando di fatto il Paradiso all’interno della sua stessa casa[13].

Nel 1767 vi fu la prima espulsione dei Gesuiti dal Regno di Napoli e la loro missione educatrice si arrestò. Il loro istituto passò ai Benedettini, come attesta Sigismondo Castromediano in uno scritto in cui rievoca la storia del prestigioso Liceo Palmieri che egli stesso frequentò e dove, per sua ammissione, trascorse gli anni più belli della propria vita[14].

Dopo la cacciata della Compagnia di Gesù dal Regno di Napoli, i resti mortali di Bernardino Realino vennero trasportati nella Cattedrale leccese e poi, nel 1855, nella chiesa di San Francesco della Scarpa, dopo il ritorno dei Gesuiti a Lecce, chiamati a reggere il Real Collegio San Giuseppe (poi divenuto Liceo Palmieri)[15]. Fu il Re Giuseppe Bonaparte a fondare nel 1807 il Real Collegio e Convitto “San Giuseppe” (intitolato al suo santo onomastico) presso l’istituto dei Missionari di San Vincenzo di Paola, fuori Porta Rugge; questi ultimi furono spostati in altra sede.

Con il ritorno dei Borbone, secondo la narrazione del Castromediano, il Collegio San Giuseppe venne trasferito nell’ex Istituto dei frati di San Francesco d’Assisi, che nel frattempo era divenuto deposito del sale, dopo essere stato caserma e ospedale militare. Nel 1832, ritornati in città i Gesuiti, a loro venne affidata la conduzione del Collegio, per sommo disdoro del Castromediano stesso, il quale aveva in uggia l’ordine gesuitico e non risparmia nella sua opera parole avvelenate nei confronti dei padri. Probabilmente, alla base di questo astio, come spiegano Rossi e Ruggiero, vi doveva essere il fatto che Castromediano ritenesse i Gesuiti collusi con la dinastia dei Borboni che era stata causa delle sue tribolazioni, e inoltre egli addebitava ai padri anche la dispersione dei beni archeologici rinvenuti negli scavi di Rugge e custoditi nel loro Collegio[16].

Sta di fatto che la scuola dei Gesuiti contava sempre nuovi iscritti ed un crescente successo. Infatti il Collegio venne notevolmente ampliato sotto la direzione dei lavori del gesuita Gianbattista Jazzeolla, ingegnere, e nel 1833 solennemente inaugurato[17]. Intervennero quindi i torbidi del 1848.

I Gesuiti, come in tutta la penisola, vennero cacciati anche da Lecce. Infatti, in seguito alla soppressione dei Gesuiti, anche nel capoluogo salentino vi furono disordini fra la cittadinanza. Come informa P. Barrella, nella Rivoluzione del 1848, fra le voci entusiastiche ed i festeggiamenti per la concessione della costituzione da parte del Re Ferdinando II, si insinuavano anche moti di dissenso nei confronti dei Gesuiti: liberali e carbonari chiedevano al Papa Pio IX la soppressione dell’Ordine. Quasi ogni sera, sostiene Barrella, si riunivano “gruppi di tumultuosi e giovinastri sotto le finestre del Collegio di Lecce” che gridavano “Viva Gioberti, morte ai Gesuiti!”[18] La Piazzetta di San Francesco della Scarpa si riempì di guardie nazionali che cercavano di placare gli animi dei manifestanti.

Così come a Napoli, dove il popolo furioso invadeva le scuole, le chiese e i collegi dei Gesuiti, gridando “fuori o sangue!”, a Lecce si crearono disordini e tafferugli, i frati vennero cacciati e dispersi fra Brindisi e Taranto, dove furono ricevuti dal clero regolare ed ospitati in attesa di nuova sistemazione[19]. Nel 1850, con il ristabilimento dell’Ordine, i Gesuiti ritornarono anche a Lecce, dove ripresero la direzione del Collegio di San Giuseppe, con nuovo Rettore, P.Carlo M.Turri[20].

Nel 1852 il Collegio dei Gesuiti venne elevato a Regio Liceo. Alle cattedre di diritto civile e penale, vennero aggiunte quelle di medicina, fisiologia, farmacia, anatomia, e inoltre alla dipendenza del Collegio era una casa rurale, Villa Mellone, nella periferia di Lecce, sede di villeggiatura per le vacanze estive degli studenti[21]. Il Collegio era frequentato da un numero crescente di studenti provenienti dalle più illustri famiglie leccesi.

Dopo l’Unità d’Italia, con la definitiva cacciata dei Gesuiti, il Liceo venne intitolato all’illustre economista leccese Giuseppe Palmieri[22]. La prima collocazione dell’Istituto, nel 1874, era stata il Palazzo Rossi di fronte alla Chiesa di San Matteo: successivamente venne spostato nel Palazzo Lubelli, di fronte alla Chiesa delle Alcantarine. Nel 1884 vi fu la concessione del terreno da parte del Comune di Lecce e nel 1888 iniziarono i lavori di costruzione che terminarono nel 1896[23]. Nicodemo Argento fu il primo Rettore, alternandosi con altri Direttori fino al 1904, anno della sua morte.  P. Giovanni Barrella, che è il principale biografo di Nicodemo Argento, ci fa sapere che egli, nato a Monopoli l’11 febbraio 1832, uomo dottissimo e dotato di preclare virtù (certo infiorettate dal correligionario biografo), dopo varie peregrinazioni fra Francia e Italia, giunse nel 1872 a Lecce, come precettore privato presso la famiglia Bozzi-Corso. Dopo una breve permanenza a Napoli, ritornò nel 1874 a Lecce[24]

In quel tempo, dopo l’espulsione dei Gesuiti del 1860, il Collegio leccese, al pari degli altri, era non più esistente e in tutta la Terra d’Otranto permanevano solo 36 gesuiti senza fissa collocazione. Argento ricostituì l’Istituto, come detto, presso il Palazzo Rossi, e successivamente presso il Palazzo Lubelli di fronte alla Chiesa delle Alcantarine, al quale, con il cresciuto numero dei convittori, venne annesso l’attiguo Palazzo De Marco[25]. Proprio per le mutate esigenze del Collegio, lo stabile in cui esso era allocato si rivelò insufficiente, sicché nel 1884 Padre Argento ebbe a censo dal Comune di Lecce una vasta area fuori dalle mura della città dove erigere un nuovo e più ampio edificio[26].

Nel 1888, dunque, con la posa della prima pietra, iniziarono i lavori e, nonostante le enormi difficoltà economiche incontrate, proseguirono fino al completamento, nel 1896, quando i primi studenti si insediarono nelle nuove classi: era lo stesso anno, come non manca di sottolineare Padre Barrella, della beatificazione di P. Bernardino Realino, alla cui intercessione celeste Barrella attribuisce la realizzazione della nuova struttura[27]. E proprio a Padre Argento si deve, a prezzo di un enorme carico burocratico e grazie ai buoni uffici presso la Santa Sede di Roma, la traslazione dei resti mortali di San Bernardino Realino dalla Chiesa di San Francesco della Scarpa nella chiesetta del nuovo Collegio.

Ciò avvenne nel 1896 e insieme ai resti di Padre Realino vennero traslati quelli del Beato P. Onofrio Paradiso[28]. Dopo alcuni Rettori che si avvicendarono alla guida del Collegio, Argento riprese la direzione nel 1903, quando il Collegio versava in uno stato di crisi, dalla quale egli prontamente lo risollevò. Dopo la sua morte, nel 1906, per volontà dei suoi confratelli, gli venne eretta nel Collegio una lapide, inaugurata in pompa magna dal Vescovo Mons. Trama e dalle autorità cittadine, con grande concorso di amici ed ex studenti e colleghi dell’Argento e con la lettura di un discorso commemorativo da parte del prof. Gianferrante Tanzi[29].

Alcuni anni dopo, nel 1915, per volere dei professori Brizio De Santis, che era stato allievo dell’Argento al Regio Liceo San Giuseppe, e Carmelo Franco, che ne sostennero le spese, venne eretto, nell’atrio dell’istituto, un busto in bronzo, opera pregevolissima dell’esimio scultore Antonio Bortone, posizionato su un piedistallo in pietra di Trani, sul quale si legge: “A Nicodemo Argento Gli alunni e gli ammiratori 1915”[30].

Nel 1908 la scuola venne trasformata in Seminario Interdiocesano divenendo il Primo seminario regionale Pugliese[31], Così il Collegio Argento venne chiuso per fare spazio al grandioso progetto voluto dal Papa Pio X[32].

Il primo Rettore fu P. Guglielmo Celebrano, cui seguì nel 1909 P. Arturo Donnarumma e nel 1912 P. Luigi Tullo[33]. Nel 1911 il Seminario Regionale Pugliese venne trasformato in Università teologica[34].

Allo scoppio della guerra, nella quale perse la vita, sul Monte San Michele, P. Pietro Giannuzzi, cappellano del Seminario Regionale Pugliese, primo dei cappellani militari morti sul campo[35], l’Istituto venne requisito e divenne Ospedale Contumaciale delle Regia Marina, fino al 1920, quando riprese le sue funzioni[36]. Le attività del collegio nel frattempo si trasferirono a Molfetta[37]. In quegli anni, la terribile epidemia di spagnola, che si diffuse a Lecce, in particolare nel 1918, non risparmiò nemmeno il Collegio Argento[38].  Dopo la guerra, le attività dell’Argento ripresero più fiorenti che mai fino a giungere ad un grande successo di iscrizioni nell’anno 1924, importante anche per una fausta ricorrenza per i Gesuiti leccesi.

Infatti, in quell’anno, nell’occasione del cinquantenario dell’Istituto, venne scoperta una lapide dedicata a tutti i caduti in guerra ex alunni del Collegio, come riportato da tutti gli organi di stampa dell’epoca. Purtroppo la targa venne poi rimossa e di essa si è persa ogni traccia. Molto probabilmente anche questa targa era opera dell’illustre scultore Bortone ma, essendo irreperibile, non se ne può trovare conferma. In quella solenne occasione, la salma di Padre Argento, grazie all’opera infaticabile del Rettore Barrella, venne traslata dal Cimitero di Lecce alla Cappella dell’Istituto e fu anche inaugurato il busto del fondatore, opera di Antonio Bortone, e nel locale d’ingresso fu apposta una targa ricordo con il testo di Brizio De Santis, Preside dell’Istituto Tecnico di Lecce e che già era stato allievo dell’Argento presso il Regio Liceo San Giuseppe[39]. La salma del Padre Argento venne tumulata ai piedi dell’altare dove erano custoditi anche i resti di Bernardino Realino, il santo tanto amato e venerato dall’Argento.

La cerimonia, presieduta dal Vescovo Mons. Trama, vide una folla immensa di partecipanti, insieme alle autorità cittadine di Lecce e di Monopoli: nella cittadina barese, patria dell’Argento, venne anche collocato un suo ritratto nell’Aula consigliare del Municipio e a lui venne intitolata la stradina dove sorgeva la sua casa natale; nel contempo a Lecce gli fu intitolata una piazza[40]. Nel 1930 il Regio Liceo Argento venne parificato. Nel 1947 un’altra tappa importante fu la canonizzazione del fondatore Padre Realino, con la consegna delle chiavi della città al Santo. L’Istituto venne acquistato dalla Provincia di Lecce che vi realizzò le sedi della Biblioteca Provinciale “Nicola Bernardini” – la cui prima dotazione fu proprio quella proveniente dalla biblioteca dei Gesuiti -, e del Museo Provinciale “Sigismondo Castromediano”[41].

 

Note

[1] È il motto che campeggia tuttora sulle mura dell’ex Collegio Argento, lo stesso che si trova anche nel più importante Collegio Romano. Si veda: Ilaria Morali, Religioni ac bonis artibus: l’“apostolato scientifico” dei gesuiti in Cina,  in Pianeta Galileo 2009, a cura di Alberto Peruzzi, Regione Toscana, Firenze, 2010, pp. 399-415.

[2] Su San Bernardino Realino (1530-1616), esiste una vasta bibliografia. Fra le fonti più antiche: Giulio Cesare Infantino, Lecce sacra, Lecce, Tip. Pietro Micheli, 1634, pp. 162-176; Vita del Padre Bernardino Realino da Carpi della Compagnia di Gesù composta dal P. Giacomo Fuligatti della medesima Compagnia, Viterbo, 1644; Menologio di pie memorie di alcuni Religiosi della Compagnia di Gesù, raccolte dal P. Giuseppe Antonio Patrignani della medesima Compagnia e distribuite per quei giorni dell’anno ne’ quali morirono, dall’anno 1538 fino all’anno 1728, v. III, Venezia, Tip. Nicolò Pezzana, 1730, passim; Vita del Venerabile Padre Bernardino Realino della Compagnia di Gesù scritta dal P. Giuseppe Boero della medesima Compagnia, Postulatore della causa, Roma, Tip. Bernardo Morini, 1852; Cenni biografici del Venerabile Padre Bernardino Realino scritti dal suo concittadino Isidoro Maini, Modena, Tip. Immacolata Concezione, 1869; Compendio della vita del V.P. Bernardino Realino d. C[ompagnia] d[i] G[esù] apostolo della città di Lecce, scritto dal P. Giuseppe Broia della medesima Compagnia, Lecce, Tip. Fratelli Spacciante, 1892; Ettore Venturi, Storia della vita del Beato Bernardino Realino: sacerdote professo della Compagnia di Gesù, scritta e illustrata dal P. Ettore Venturi della medesima Compagnia, Roma, Tipografia Befani, 1895; Vincenzo Dente, Un santo educatore e letterato gesuita, in «La civiltà cattolica», n. LXXXII, 1931, pp. 21-36 e 209-225; Giuseppe Germier S.J., San Bernardino Realino, Firenze, Libreria editrice Fiorentina 1942, p. 408; Pietro Tacchi Venturi, Mario Scaduto, Storia della Compagnia di Gesù in Italia, v. III, L’epoca di Giacomo Laínez, il governo (1556-1565), Roma, 1964, p. 293. La fonte più recente è Defensor Civitatis Modernità di padre Bernardino Realino Magistrato, Gesuita e Santo. Atti del Convegno Internazionale di Studi a quattrocento anni dalla morte (1616-2016), Lecce, 13-15 ottobre 2016, a cura di Luisa Cosi e Mario Spedicato, Società Storia Patria-Sezione di Lecce, Lecce, Grifo Editore, 2017.

[3] P. Giovanni Barrella, La Compagnia di Gesù nelle Puglie 1574-1767, a cura dell’Istituto Argento di Lecce, Lecce, Tipografia Salentina, 1941, p.17.

[4] Sul Collegio di Lecce: Francesco Schinosi, Istoria della Compagnia di Gesù appartenente al Regno di Napoli descritta da Francesco Schinosi della medesima Compagnia, parte prima, libro IV, Napoli, Stamperia Michele Luigi Mutio, 1706, pp. 283-291.

[5]Giulio Cesare Infantino, Lecce sacra cit., pp.217-218.

[6] P. Giovanni Barrella, La Compagnia di Gesù nelle Puglie cit., p.23.

[7] Ivi, p.26.

[8] P. Giovanni Barrella, Un grande educatore. Vita aneddotica del P. Nicodemo Argento S.I. 1832-1905 con rapidi cenni sul Collegio da lui fondato in Lecce 1874-1950, pubblicata in occasione del LXXV della fondazione del Collegio stesso, Lecce, Tip. Scorrano, 1951, p.70.

[9] P. Giovanni Barrella, La Compagnia di Gesù nelle Puglie cit., p.15.

[10] Ivi, p.24. Sullo Spinola, si vedano: Vita del P. Carlo Spinola della Compagnia di Giesù morto per la Santa Fede nel Giappone del p. Fabio Ambrosio Spinola dell’istessa Compagnia all’Illustriss. e Reverendiss. Signore, e Padron Colendissimo, Monsignor Prospero Spinola Digniss. Vicelegato di Bologna, In Roma e in Bologna, per Clemente Ferroni, 1628; Daniele Frison, The office of procurator through the letters of Carlo Spinola S.J., in «Bulletin of Portuguese – Japanese Studies», vol. 20, giugno, Universidade Nova de Lisboa, Portugal, 2010, pp. 9-70; Idem, ‘La piu difficile, e la piu disastrosa via, che mai fino allora niun altro’ Carlo Spinola and his attempts to get to the Indias, in «Revista de Cultura», Instituto Cultural do Governo da Regiao Administrativa Especial de Macau, 44, 2013, pp.88-109.

[11] Ivi, pp.67-79.

[12] P. Giovanni Barrella, La Compagnia di Gesù cit., p.70.

[13] Ivi, p.77.  Sul Paradiso si veda: Salvatore Bini, Onofrio Paradiso-Apostolo del Salento, Salerno, Ed. Arci Postiglione, 2011.

[14] Sigismondo Castromediano, La commissione conservatrice dei Monumenti storici e di Belle Arti di Terra d’Otranto al Consiglio Provinciale Relazione per gli anni 1874-1875 del Duca Sigismondo Castromediano, Lecce, Tip. Salentina, 1876, pp.14-16.

[15] P. Giovanni Barrella, Un grande educatore cit., p.23.

[16] Aa. Vv., Il gabinetto di fisica del Collegio Argento, I Gesuiti e l’insegnamento scientifico a Lecce. Spunti per una storia, a cura di Arcangelo Rossi e Livio Ruggiero, Lecce, Edizioni Grifo, 1998, p.16.

[17] P. Giovanni Barrella, La Compagnia di Gesù cit., p.109.

[18] P. Giovanni Barrella, Un episodio del 1848 a Lecce. La cacciata dei Gesuiti (da Mss.inediti), Lecce, Tip. Giurdignano, 1923, p.7.

[19] Ivi, p.13.

[20] Nicola Bernardini, Lecce nel 1848: figure, documenti ed episodi della rivoluzione, Lecce, Tip. Bortone, 1913 p.499.

[21] P. Giovanni Barrella, La Compagnia di Gesù cit., p.111.

[22] Sigismondo Castromediano, La commissione conservatrice dei Monumenti storici e di Belle Arti di Terra d’Otranto cit., p.16.

[23] Valentino De Luca, “Stringiamoci a coorte siam pronti alla morte l’Italia chiamò”. La Prima guerra mondiale nei monumenti e nelle epigrafi di Lecce, Galatina, Editrice Salentina, 2015, p.64.

[24]  P. Giovanni Barrella, Un grande educatore cit., p.11.

[25] Ivi, p.13.

[26] Ivi, p.14.

[27] Ivi, p.22.

[28] Ivi, p.26.

[29] Ivi, p.69.  Il Discorso letto dal Prof. Cav. Gianferrante Tanzi nella cerimonia dello scoprimento della lapide viene pubblicato da Giovanni Barrella, in La figura del P. Nicodemo Argento, Lecce, Tip. Editrice Salentina Fr.lli Spacciante, 1906, pp.5-16, in cui è pubblicato anche 25 giugno 1906, un discorso informale tenuto da Cosimo De Giorgi a mensa: Ivi, pp.17-20.

[30] Ivi, pp.69 -70.

[31] Teodoro Pellegrino, Il Primo seminario regionale Pugliese a Lecce, in “Il popolo del Salento”, 18 febbraio 1955, riportato da Valentino De Luca in Lecce negli anni della Grande Guerra, Galatina, Editrice Salentina, 2019, p.79.

[32] Salvatore Palese, Ugento – Santa Maria di Leuca, in Storia delle Chiese di Puglia, a cura di S. Palese e L.M. De Palma, Ecumenica Editrice, Bari 2008, p. 356: «Il rinnovamento del clero fu originato pure dalla formazione dei giovani chierici nel nuovo seminario regionale che Pio X aveva voluto a Lecce nel 1908 e affidato ai Gesuiti e trasferito a Molfetta nel 1915».

[33] P. Giovanni Barrella, Un grande educatore cit., p.76.

[34] Aa. Vv., Il gabinetto di fisica del Collegio Argento, I Gesuiti e l’insegnamento scientifico a Lecce cit.,  p.11.

[35]P. Giovanni Barrella, Un grande educatore cit., p.76. Sull’esperienza dei cappellani militari, si vedano: F. Lovison, I cappellani militari nell’Europa in guerra, Relazione al Convegno di giovedì 16 ottobre 2014, Pontificio Comitato di Scienze Storiche, Roma, 2014; R. Morozzo Della Rocca, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti soldato, Studium, Roma, 1980.  Su Mons. Angelo Bartolomasi, primo Vescovo militare italiano: N. Bartolomasi, Mons. Angelo Bartolomasi. Vescovo dei soldati d’Italia, vol. I, Il Vescovo del Carso e di Trieste liberata, edito a cura dell’Opera Mons. Bartolomasi, Roma 1966; con specifico riferimento alla partecipazione del clero pugliese e salentino: Salvatore Palese-Ercole Morciano, Preti del Novecento nel Mezzogiorno d’Italia. Repertorio biografico del clero della Diocesi di Ugento-S. Maria di Leuca, Galatina, Congedo, 2013, passim; V. Robles, Vescovi, clero e popolo di Puglia durante la grande guerra, in La Chiesa barese e la Prima Guerra Mondiale (Per la storia della Chiesa di Bari-Bitonto n. 31), a cura di Salvatore Palese, Bari, Edipuglia, 2016, pp.11-81; Ercole Morciano, La “Grande Guerra” nelle carte dell’archivio Storico Diocesano di Ugento, in «Bollettino Diocesano S. Maria de Finibus Terrae Atti ufficiali e attività pastorali della Diocesi di Ugento – S. M. di Leuca»,  a cura di Mons. Salvatore Palese, a. LXXXI – n. 2, Luglio-Dicembre 2018, pp.788-823, in particolare I cappellani militari, pp.791-794.

[36] Si vedano: P. Giovanni Barrella, P. Nicodemo Argento S.J. e il suo “Istituto” nel primo cinquantenario dalla fondazione dell’ “Istituto Argento” 1874-1924, Lecce, Tip. Lit. Vincenzo Masciullo, 1924; Pietro Marti, Il Collegio Argento, in «Il Salento. Almanacco illustrato», 1933 e Valentino De Luca, “Stringiamoci a coorte siam pronti alla morte l’Italia chiamò” cit., p.64.

[37] Valentino De Luca, Lecce cit., p.80.

[38]P. Giovanni Barrella, Un grande educatore cit., p.79.

[39] Valentino De Luca, Stringiamoci a coorte cit., pp.61-64.

[40]P. Giovanni Barrella, Un grande educatore cit., p.87.

[41] Valentino De Luca, Stringiamoci a coorte cit., p.64.

 

L’attività letteraria del Circolo Culturale “G. D’Annunzio” di Casarano

CIRCOLO CULTURALE D’ANNUNZIO: PRIMA VERA – RACCOLTA DI VERSI IN VERSI

 

di Paolo Vincenti

Una antologia poetica inaugura l’attività letteraria del Circolo Culturale “G. D’Annunzio” di Casarano. Onore al merito della Presidente e del consiglio direttivo che in vario modo hanno continuato e continuano ad operare cultura in tempi tristi come quelli che stiamo vivendo. Una silloge, dunque, un florilegio, una somma di poeti e poetesse che, diversi per formazione e professione, stile e sensibilità, sono accomunati dalla medesima propensione. Essi, tutti, hanno deciso di accordare la propria lira a quella del dio Apollo, auspice e protettore della poesia, rendendo omaggio all’arte antica e sempre nuova della poesia; e ciò, al di là di ogni intenzione programmatica, fuori da qualsiasi manifesto estetico, ché qui, lungi da un mero spontaneismo, è l’ispirazione a governare il canto e a muovere la penna, l’afflato, al quale questi autori si consegnano toto corde. “Poesia istintuale”, potremmo definirla, prendendo a prestito una definizione utilizzata dal critico letterario Luca Canali, esprimente cioè “un irrefrenabile desiderio di comunicazione”, forse compresso nella vita di tutti i giorni. Si tratta di diciassette autori, una poesia per ognuno.

La prima prova poetica è di Anna Maria Bianco, giovane studentessa originaria di Melissano, la quale “ama guardare, osservare, creare e scrive prevalentemente poesie che rappresentano per lei piccoli pezzi di storie che devo lasciare andare”. Così dice lei stessa in limine alla sua poesia, “Scriverei una lettera”.  La seconda autrice presente nel volume è Anna Pia Merico che, originaria di Taranto, vive a Gallipoli.  Sono probabilmente le due città di mare, quella d’origine e quella d’elezione, ad ispirarle accorati versi che germinano dall’amore per la vita, per l’arte e per la sua terra, come la stessa scrive in una breve scheda di presentazione. Significativa è la sua poesia, nella quale chiede ad un liutaio di accordare i sogni.  Un profilo variegato ed una robusta formazione professionale portano Antonella Screti, psicopedagogista, trainer in tecniche per il benessere e comunicazione ecologicamente corretta, a scrivere versi densi di valenze sociali, umane, antropologiche, come questi in cui celebra idealmente il matrimonio fra Oriente ed Occidente, prima che un destino incombente ponga fine al mondo come noi lo conosciamo. La Screti ha già pubblicato volumi quali Calze a rete e maliziosi sorrisi (Ed. Oistros), Storia di Raidha e la chiesetta (Musicaos Ed.), Dipingendo e narrando Otranto (all’interno della Collana “Lungo la costa di questo nostro mare”).

Erina Pedaci, la quarta autrice ospite del volume, è laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne ed è docente di Lingua inglese. Ha pubblicato altri due libri di filastrocche: Non solo filastrocche (2015) e Tanti grilli per la testa (2018). Per l’Associazione Fidapa BPW-Italy di cui fa parte, ha pubblicato nel 2019 un opuscolo per la Campagna HE FOR SHE sulla parità di genere, dal titolo Io, mamma e papà, insieme per la parità. Nella sua poesia si rivolge alla luna, un tema che ha ispirato i poeti fin dagli albori della letteratura. Basti pensare, solo per rimanere al Novecento, al Dino Campana dei Canti Orfici (“La notte”), al Quasimodo di Terra (“Notte, serene ombre, culla d’aria) o di Ed è subito sera, al Pascoli del Gelsomino notturno (“E s’aprono i fiori notturni, nell’ora che penso ai miei cari), alla notte del Carducci in A Virgilio (“Come quando su’ campi arsi la pia Luna imminente il gelo estivo infonde”), o anche alla bellissima Rapsodia su una notte di vento di T. S. Eliot, ecc.

Non nuova all’esperienza poetica è Fernanda Quarta Marzano, che scrive da sempre ed ha già ricevuto notevoli apprezzamenti e riconoscimenti per le sue poesie raccolte in sillogi, quali Gabbiani azzurri, Mescia Nina, O riti o fusci, Petali di gerani, Terra Noscia, Raccontini, Sorrisi di bimbi, La storia di Puccio primario, Storielline curiose, ecc. Evocativa la poesia che qui presenta, nella quale il sorriso diventa un porto quiete nella tempesta che squassa la festa della natura, ed il sorriso è quello di mamma passera che mette al sicuro i propri piccoli in un caldo nido mentre la bufera può anche continuare.

Forte di una robusta formazione culturale è anche Giuseppe Giovanni Orsi, di Poggiardo, insegnante di Materie letterarie e socio fondatore del Nuovo centro Studi Utopici dell’Università del Salento, nonché presidente dell’Associazione Culturale AION con sede a Santa Cesarea Terme. Orsi, che ha già all’attivo svariate pubblicazioni, anche di carattere socio pedagogico, qui propone “Fronde di sguardi”, una poesia dall’atmosfera vagamente sognante che trova la sua espressione più felice in quelle “dita” che “arpeggiano al telaio la coperta del tuo domani”.

Laura Rotella, originaria di Collepasso, scrive poesie, o meglio “pensieri, esplorazioni dell’anima su un foglio bianco”, come lei le definisce, da sempre, e molte di queste sono state selezionate e pubblicate sulla rivista online “Osservatorio Poetico Salentino”. Una delle più intense, la sua poesia senza titolo, ha come tema il paesaggio del Sud, con al centro quel portato magico-folklorico-antropologico che è il tarantismo e intorno la bellezza aspra e selvaggia delle nostre contrade.

Luigina Parisi, autrice già nota al pubblico salentino, coltiva la scrittura, sia poetica che narrativa, fin dall’adolescenza, ed ha partecipato a diversi concorsi letterali. Nel 2019 ha pubblicato la raccolta di racconti Malurmia (VJ Edizioni) e il romanzo Un abbraccio sospeso (Musicaos Editore). “Ritagli di cielo” sono i protagonisti dei suoi raffinati versi.

Marco Giorgio Reho, che, nato a Gagliano del Capo, vive a Matino e di professione fa l’idraulico, ci lascia, lui salentino, l’immagine di una aurora boreale che è uno spettacolo atmosferico certo molto raro alle nostre latitudini, ma si sa che il potere della fantasia può far viaggiare i poeti nel tempo e nello spazio, senza limitazioni di sorta.

Maria Consiglia Mercuri, gallipolina, docente di materie giuridiche, confessa un grande mai rinnegato amore per la poesia, con una rilevante attenzione per le parole che ne compongono la trama: “Quando parlerò di te, saprai le parole mai dette. Il silenzio avrà voce, il pensiero sarà vento, i miei occhi cristalli di luce”, scrive.

Anche Maria D’Albenzio, campana d’origine e salentina d’adozione, non è nuova sul palcoscenico letterario, essendo avvezza all’esercizio della scrittura, ch’ella esplica in recensioni per artisti e poeti e in pubblicazioni varie. Come per tutti noi, a muoverla sono le “passioni”, che danno anche il titolo alla poesia che qui propone.

La giovanissima Martina Fiorentino, parabitana, ama la scrittura e la lettura ed esprime la propria creatività in pregevoli versi come quelli che compongono questa poesia, nella quale è presente una Mafior, suo alter ego letterario, messaggera del suo bisogno comunicativo, ch’è forse quello della generazione dei post millennials, la sua, denominata “zeta” dai sociologi.

Patrizia Carlino presenta la bellissima “I luoghi del cuore”. Coltivatrice diretta di professione, è poetessa e pittrice autodidatta. “Scrivere per me”, afferma, “è una necessità che mi fa sentire maggiormente legata a ricordi e ad affetti che ormai non ci sono più e che col tempo potrebbero svanire del tutto e a tematiche universali che mi sono particolarmente a cuore”.

Quello di Pina Petracca è un nome noto agli amanti della poesia. Ella è autrice di sillogi poetiche, quali Inno alla vita (Liber Ars- Lecce), del 1999, L’Antidoto (Carra Editrice) del 2007, Il senso dell’incanto (Libellula Edizioni), del 2013, che contiene sue poesie ispirate dai dipinti della pittrice Laura Petracca, e poi Solitudini a Sud della tua luce (Esperidi Edizioni), del 2017. Le sue poesie sono inserite in diverse antologie e riviste letterarie. Una raffinatissima penna, come conferma il testo qui presente, “Dio aveva i piedi di mio padre”, da leggere d’un fiato e da meditare in un tempo lungo.

La poetessa Tonia Romano dice di avere una “forte sensibilità verso tematiche sociali importanti”.  Ha partecipato a moltissimi concorsi letterari riportandone premi e riconoscimenti. “Rivestita di foglie e cespugli”, scrive nella sua poesia, “un senso di pace accoglie l’immenso”.

La casaranese Valeria Pacella, laureata in Archeologia presso l’Università degli Studi di Lecce, ha collaborato negli anni con varie associazioni attente alla cura della formazione dei più piccoli. Scrive e compone per diletto, coltivando la passione per l’arte, la letteratura e la musica. Protagonista della sua poesia è l’alba, celebrata in versi dai più grandi poeti (pensiamo all’“aurora ditirosata”, di cui parla già Omero e che diventa un topos della letteratura greca e latina) che qui sorride mentre si allontana, “lasciando un dolce calore che mantiene calda la terra promessa di una nuova speranza”.

Anche Maria Campeggio, di Parabita, maturità magistrale, Laurea in Pianoforte presso il Conservatorio “T. Schipa” di Lecce e Laurea in Didattica della Musica, è poetessa di lungo corso.  Ha partecipato a vari reading letterari ed ha pubblicato nel 2014 il libro La rosa di Gerico (Il Laboratorio Ed.). Versi aerei, i suoi, eterei, come quella luna, custode dei ricordi bambini, protagonista della sua delicata lirica “Al tramonto”.

La forma lessicale di questi componimenti si presenta molto accessibile. Invero, la semplicità espressiva nasconde la ricchezza interiore, un giacimento di risorse, pensieri, emozioni, aspirazioni, di cui sono portatori questi poeti i quali non cercano il rimbombo, la grancassa, gli esperimenti verbo visivi e gli effetti speciali di altre stagioni poetiche e letterarie, ma si offrono così, con le loro prove versificatorie, senza orpelli né finzioni, sospesi fra antico e moderno, fra il farsi della poesia e il viverla. Non omnes arbusta iuvant humilesque Myricae, cioè “non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici”, scrive il grande Virgilio nel IV Libro delle Bucoliche, scolpendo in questi versi quello che diverrà quasi il manifesto della poesia semplice, dimessa, tanto che vennero ripresi da Giovanni Pascoli in epigrafe a molte sue opere, prima fra tutte quella che da essi traeva il titolo, ovvero Myricae. Anche della raccolta che qui si presenta non sono protagonisti “poeti laureati”, come li definì Eugenio Montale ne I limoni.

I nostri autori sono cantori di un tempo fatto di strade e paesaggi, suoni e colori, situazioni e quadri di vita; purtuttavia, per tornare Montale, è bello lasciarsi richiamare da quel cortile semiaperto e dal giallo vivido dei suoi limoni, è uno struggimento necessario, anzi, è proprio “la nostra parte di ricchezza”.

La poesia di Maria Campeggio

di Paolo Vincenti*

Maria Campeggio non è nuova all’attività poetica. Scrive da sempre.  Qui si presenta una summa della sua produzione, un florilegio delle sue liriche, selezionate dalla stessa autrice.

Quella di Maria Campeggio è poesia di assoluta e limpida soggettività. Sono il suo apprendistato e il lungo esercizio a determinare le soluzioni formali dei suoi scritti, sempre sorrette dai sentimenti che le presuppongono. Tuttavia, il suo universo poetico si apre a tante suggestioni e tutte le cose, gli eventi minimi quotidiani, quell’orto concluso ch’è la sua dimensione esistenziale, credo elettiva, sebbene percettibili nella trama dei versi, sono proiettati in una dimensione più ampia, alare, nei suoi raffinati testi. Tangibile la maturazione artistica dell’autrice, di pari passo con quella umana. Si definisce una donna in cammino, infatti: “eppure sono sempre in cammino”, scrive, “albero fecondo di questa terra” (Cammino di vita).

La sua formazione culturale è prevalentemente musicale e chissà che questa non le abbia fornito l’humus, la condizione ideale per la gestazione dei componimenti poetici, molti dei quali recano in sé una musicalità che viene da lontano, come conferma la stessa etimologia del termine “lirica”, composizione poetica che i Greci accompagnavano appunto col suono della lira, strumento caro al dio Apollo, protettore e auspice della poesia.

Si tratta di versi sciolti, sorretti da un linguaggio che si compone nel farsi della poesia. Intravedo, quali referenti letterari, i grandi poeti del Novecento, Saba, Montale, Quasimodo, ma senza addebiti scoperti. Il suo vocabolario è certamente poetico, ricercato, per quanto facilmente intellegibile, avulso dalle problematicità dell’oggi, contemporaneo, sebbene lontano dalla lingua dell’omologazione. Le parole sono connotative delle emozioni, dei palpiti, dei moti dell’anima che muovono l’ispirazione. È poesia intimistica, poesia dei minimi dettagli, della natura, delle relazioni famigliari – forte, simbiotico, il rapporto con il padre e la madre-, amicali, sentimentali – dell’amore negato, perso, respinto: versi intensi, pensosi della vita, dei destini umani, delle relazioni fra simili, come quei richiami che sussumono un mondo, gremito di presenze e assenze, sospeso fra la ordinata armonia del cosmo ed il caos che la sconquassa, così come la vita, del resto, sempre in bilico fra dolore e gioia, buio e tenebre, vittorie e sconfitte.

Tre sono i temi nei quali si può dividere questo canzoniere: l’amore; il paesaggio; la spiritualità. Al primo tema appartengono alcune liriche scelte, di un intimismo sofferto e donato. Il secondo tema si materia di liriche che cantano la natura nei suoi aspetti fenomenologici e nella quale è facile scorgere il paesaggio vitale, ovvero il Salento, sua dimora larica, mai nominato ma comunque iconizzato dai chiari elementi geografici che ne connotano il territorio. Le poesie che appartengono al terzo tema, in cui l’autrice dispiega una forte spiritualità, sono occasionate dalle feste del calendario liturgico, il Natale, l’Epifania, la Pasqua, il Lunedì dell’Angelo, ma anche da quei momenti topici che segnano la vita dell’anno.

Fra le poesie dell’amore, troviamo Lasciami il tempo (una delle più significative: “Stasera l’ultimo grido di una stella sarà la mia voce che ti abbandona”), Rose di maggio, Incontrarti, Io e te, Non ci sei (“Tormentoso hai spezzato la mia anima. No, non voglio il tuo caffè: è troppo poco raccontarti solo per un momento quando non basterebbe l’intera vita per viverti”), Tu, Dimenticami (“come l’estate dimentica i ciclamini in ritardo”, scrive, “e rende spumeggianti le spighe di grano mature. Dimenticami. Come l’ape lussuriosa che dimentica il fiore dopo averne rubato il nettare. Dimenticami…”).

Da segnalare Rinascita continua e Attimo, fra le più belle della raccolta.

Rientrano nel secondo tema, del paesaggio e del passare delle stagioni, liriche come Pomeriggio gallipolino, Agosto e Tramonto, queste ultime notevolissime per il grado di concentrazione che riesce a raggiungere, e ancora Al tramonto, Neve, Mattino di dicembre, La primavera. Mai viene meno, nell’autrice, una visione superiore del tutto, come le liriche che rientrano nel terzo tema confermano: Universo, Festa dell’Immacolata, Santa Lucia, In attesa del Natale, la bellissima Adeste Fideles (“I pastori ci guidano e cantano magnificenza. Adeste fideles … Gli Angeli s’abbandonano ai suoni nei cieli e l’amaro sulla terra si fa miele da versare su grevi torpori”), Natale 2020 (con quella “voglia di versarmi addosso vino fresco frizzante e un’allegria schiacciante sotto abeti avvampati di luce…”), Fine anno, Capodanno 2021, in cui scrive: “Nei tuguri dei cuori miserabili coppe colme s’affannano Del Nulla il nulla s’è fatto portabandiera”. E poi Epifania, Vigilia dell’Immacolata, Carnevale, Lunedi dell’Angelo.

Ancora: Vigilia di Santa Cecilia protettrice dei musicisti, evidentemente cara alla poetessa, la quale congiunge le Muse Euterpe e Calliope in fertile connubio, e, strettamente collegata a questa, Perle di pensieri.

Ha valenze sociali L’attimo, dedicata al magistrato Giovanni Falcone e ai membri salentini della sua scorta che persero la vita nell’attentato del 1992 ad opera di Cosa Nostra. Maria si unisce ad una lunga schiera di artisti ed intellettuali che ne hanno celebrato l’eroico gesto.

Non può mancare l’invocazione alla luna: l’astro che fin dagli albori della civiltà, da Saffo per arrivare al grande Leopardi, da Omero a Pablo Neruda, da D’Annunzio a Tagore, ispira i poeti e gli scrittori in un lungo canto d’amore.

Maria Campeggio conosce il valore salvifico della poesia, come lenimento dal tramenio della vita, quasi balsamo per i mali e le brutture da cui è colpita l’attuale società. La poetessa, per quell’umanissimo bisogno di comunicazione che è proprio di tutti, è disponibile a squadernare il suo album poetico e a condividere le sue accensioni liriche, certi “momenti dell’essere”, per dirla con Virginia Woolf, e lo fa con testi nei quali il reticolato poetico di emozioni, sussulti, suoni, colori, si dispiega quasi come logos svelato che spazza via le interrogazioni sul senso della vita, i dubbi e le incertezze che denotano un vuoto, proprio di quest’era in dissoluzione, ma da cui Maria sembra essere immune perché salva nel proprio credo e niente affatto disposta a barattarlo per le mode effimere, per le convenienze del momento.  I lettori, comunque, giudici finali di ogni opera, troveranno altri semi di senso sparsi in questa silloge in cui potranno ben apprezzare la poesia di Maria Campeggio.

 

Prefazione in Maria Campeggio, Cristalli d’anima, Tipografia 5emme, Tuglie, 2021

Spigolature bibliografiche sul Settecento letterario minore

di Paolo Vincenti

Il Settecento letterario meridionale è caratterizzato da una vasta produzione di scritture di viaggio, che costituiscono una non trascurabile fonte per la conoscenza di usi e costumi, economia, politica e religione, del nostro territorio durante il secolo dei Lumi. Molto si è scritto sull’apporto dato da questi documenti letterari compilati dai visitatori stranieri in trasferta nelle nostre terre. A voler dare una lettura trasversale di una simile messe letteraria, si offrono delle noterelle bibliografiche che legano insieme certe opere della letteratura odeporica settecentesca, con alcuni dei maggiori protagonisti di Terra d’Otranto che hanno informato di sé la seconda parte del secolo, culminata nella Rivoluzione Napoletana del 1799. Nello specifico, vengono trattati l’abate francese Richard de Saint-Non ed il suo Voyage pittoresque ou Description des royaumes de Naples et de Sicile. Si ripercorrono le tappe della travagliata genesi di quest’opera monumentale e i rapporti dell’abate con la corte borbonica napoletana e del suo editore Benjamin Delaborde con il canonico Annibale De Leo, attraverso un’opera poco conosciuta del Vescovo di Brindisi. L’opera di Saint Non si lega strettamente a quella di un altro viaggiatore, l’inglese Henry Swinburne, e cioè Travels in the Two Sicilies by Henry Swinburne in the Years 1777, 1778 e 1779,  attraverso un caso di furto letterario di cui si forniscono i dettagli. Lo Swinburne, a sua volta, è legato al Vescovo di Taranto Giuseppe Capecelatro, attraverso il salotto culturale dell’ambasciatore inglese William Hamilton. Il Capecelatro, che fornisce allo Swinburne molto materiale per il suo libro, anche attraverso le ricerche malacologiche del naturalista Padre Antonio Minasi, era al centro di un vasto movimento culturale fra Taranto e Napoli a fine Settecento ed è complice e auspice delle opere di altri viaggiatori stranieri in Terra D’Otranto, quali il Conte svizzero Carlo Ulisse De Salis Marschlins e gli scrittori tedeschi Friedrich Leopold Stolberg e Georg Arnold Jacobi.  Di furti letterari, e non solo, si potrebbe parlare allora, o anche di libere reinterpretazioni, con riferimento a certi scambi culturali, e di seguito se ne capirà il motivo.

 

Come si sa, con il termine Grand Tour si indica il viaggio di istruzione e di formazione, ma anche di divertimento e di svago, che le élites europee intraprendevano attraverso l’Europa fra Settecento e Ottocento. Protagonisti di questo vasto fenomeno, quegli intellettuali europei che percorrevano l’Europa, imbevuti di cultura classica e affascinati dalla bellezza dell’Italia nella quale essi vedevano la culla dell’arte e per esteso della civiltà mediterranea. Quando vengono avviati gli scavi archeologici a Pompei ed Ercolano, sotto il Re Carlo di Borbone nel 1748, il Grand Tour nel nostro Paese riceve un ulteriore incremento[1].

Fra i viaggiatori francesi, un posto di primissimo piano spetta all’Abate Jean-Claude Richard de Saint-Non(1727-1791), con il suo Voyage pittoresque ou Description des royaumes de Naples et de Sicile, un’opera consistente, molto citata in tutte le biografie, dalla travagliata gestazione. L’abate era un uomo di straordinaria cultura e un personaggio eclettico: erudito, pittore, secondo alcune fonti anche musicista, scrittore ed editore, con una grande passione per l’arte e per la storia[2]. Con Benjiamin Delaborde progettò una grande opera divisa in due parti, una dedicata alla Svizzera e una all’Italia, da pubblicare in un unico libro. Ma i progetti iniziali cambiarono, a causa di un parziale fallimento della prima uscita dell’opera. L’Abate di Saint Non fece il suo viaggio fra il 1759 e il 1761. Fra i suoi collaboratori, Jean Louis Desprez, pittore e architetto, che fu in Italia dal 1777 al 1784, prima di essere chiamato in Svezia alla corte del Re Gustavo III, dove rimase per il resto della vita. A lui si devono i bellissimi acquerelli che illustrano il Voyage del Saint Non[3]. Di tutti i suoi magnifici disegni, particolarmente degni di nota sono quelli che riproducono monumenti oggi non più esistenti, come la Madonna di Santa Croce di Barletta, l’antico assetto della Cattedrale di Trani, quello della Piazza Sant’Oronzo di Lecce[4].

Ma la collaborazione più importante di Saint Non, per quanto gravida di spiacevoli conseguenze, fu quella con Vivant Denon (1747-1825), autore di buona parte dei testi del libro, pittore di talento, egittologo e diplomatico in Russia, Svezia, Svizzera e a Napoli, autore del fondamentale Voyage dans la Haute e direttore del Louvre sotto Napoleone, che seguì nella campagna d’Egitto[5]. Il motivo per cui Denon si ritrovò fra gli autori del Voyage si deve al fatto che Saint Non, nel suo viaggio in Italia, si era fermato a Napoli e non conosceva le altre regioni meridionali. Affidò dunque a Dominique Vivant Denon l’incarico di compiere il viaggio alla volta di Sicilia, Calabria, Puglia. Questi riportò le sue annotazioni di viaggio, o come si diceva allora “impressioni”, che però l’abate non recepì in toto ma volle rimaneggiare e adattare a quello che era il suo precostituito disegno, soprattutto per conciliare il testo con le immagini realizzate da lui stesso e dai numerosi collaboratori. Fu così che Saint Non venne accusato di plagio da Denon, sebbene egli fosse il committente dell’opera e quindi in pieno diritto di utilizzare il materiale che aveva profumatamente pagato. Bisogna infatti aggiungere che lo sforzo finanziario sostenuto per la realizzazione dell’opera fu notevole, in ispecie dopo il primo insuccesso dell’iniziativa editoriale e le ingarbugliate vicende burocratiche che ne seguirono. Il risultato finale però fu notevole. Il Voyage viene pubblicato in 4 tomi e diviso in 5 grandi volumi in-folio, fra il 1781 e il 1786.

Il primo tomo è interamente dedicato a Napoli. Saint Non è prima di tutto colpito dall’arte e quindi riserva alla pittura, alla scultura e all’architettura la maggiore attenzione, anche per i suoi interessi personali di pittore e curatore d’arte; un posto importante è occupato dall’antropologia, ossia dall’osservazione degli usi e costumi del popolo napoletano. Importanza viene riservata anche al Vesuvio e quindi alla storia naturale. In questo, il Saint Non era influenzato senz’altro dal circolo culturale vicino alla corte borbonica che egli frequentava e che vedeva fra i principali promotori l’ambasciatore inglese William Hamilton, accreditato vulcanologo. Saint Non, da erudito e appassionato della civiltà classica, non può non riportare nelle sue descrizioni anche quanto dicono gli autori greci e latini e quindi la storia dei luoghi. Il tutto corredato dalle stupende vedute dei pittori, in primis Desprez. Il secondo tomo è dedicato alla Campania e agli scavi di Ercolano e Pompei, che in quel momento suscitavano l’interesse appassionato della comunità scientifica europea. Il terzo tomo è dedicato alla Magna Grecia. Si descrivono i monumenti di Puglia, Basilicata e Calabria, le colonne, le monete e le antiche vestigia della civiltà classica. Il quarto tomo è dedicato alla Sicilia. Dalla descrizione di Saint Non emerge buona parte della civiltà di Terra d’Otranto negli anni della dominazione borbonica. Più specificamente, nel terzo tomo, dedicato alla Magna Grecia, vi è la descrizione del viaggio da Napoli a Barletta (passando per Benevento, Lucera, Siponto, Manfredonia, Monte Sant’Angelo), da Canne a Polignano (passando per Canosa, Trani, Bisceglie, Bari, Mola e l’abbazia di San Vito), da Polignano a Gallipoli, attraverso la Terra d’Otranto (passando da Brindisi, Squinzano, Lecce, Soleto e Otranto), infine da Taranto sino ad Eraclea, passando per Metaponto, Bernaldo e Policoro, e giù fino alla Sicilia. Nel nostro territorio, l’autore si sofferma sul Castello di Brindisi, sul Chiostro dei Domenicani di Lecce, e poi su Maglie, Otranto, fino al Tallone d’Italia.

Come detto, però, la collaborazione con Denon sfociò in una denuncia di plagio. Alla base di questo inconveniente fu la rottura fra l’Abbè e il primo editore dell’opera, Benjamin de Laborde (1734-1794), compositore e storico della musica, uno degli uomini più influenti della corte di Luigi XV. Denon, forse sobillato dall’editore Laborde (deluso e amareggiato per essere stato escluso dal progetto), accusò Saint Non di essersi appropriato dei suoi testi, senza citarlo come autore, sebbene queste fossero le precise condizioni contrattuali sottoscritte dallo stesso Denon.

Ma ora lasciamo un momento il Saint Non per occuparci di un altro viaggiatore del Settecento nelle nostre contrade. L’inglese Henry Swinburne (1743–1803) pubblicò la sua opera Travels in the Two Sicilies by Henry Swinburne in the Years 1777, 1778, and 1779, in due volumi nel 1783-85, con una successiva edizione nel 1790, sul suo viaggio fatto in Calabria, Sicilia e Puglia tra il 1777 e il 1779. Il primo volume include cenni storici sul Regno di Napoli, tabelle riguardanti le dinastie, le monete, le unità di misura, le strade, le rotte e una descrizione geografica dei territori. Nel secondo volume, si sofferma sul territorio pugliese e, cosa che ci interessa più da vicino, su Terra d’Otranto. Nel suo viaggio era assieme alla moglie Martha Baker. L’opera è un documento veritiero della realtà delle province meridionali del Settecento, perché tratta di testimonianze raccolte sul campo dall’autore, si potrebbe dire in presa diretta. Di particolare interesse, il suo disappunto di fronte al barocco leccese e a quello che ne è il monumento simbolo, la Chiesa di Santa Croce, che derubrica a pessimo esempio di commistione fra stili diversi. Lo Swinburne detesta la città di Lecce e la sua architettura, però racconta gli aneddoti, le leggende, le tradizioni e le curiosità che raccoglie parlando con la gente del luogo[6].

Nella prima traduzione in francese dell’opera, nelle note, viene riportato proprio il diario di viaggio di Denon, prima ancora che questo fosse pubblicato da Saint Non, ossia dal legittimo proprietario. Le traduttrici francesi erano Mademoiselle de Kéralio e Madame de La Borde. Lo conferma lo stesso autore nella Prefazione alla seconda edizione: «Due signore hanno onorato il mio lavoro con traduzioni in francese: una è Mademoiselle de Kéralio, una stimata scrittrice di biografie; mentre l’altra è Madame de La Borde, l’amabile e compita moglie di un Fermier-General, ultimo cameriere personale di Luigi XV. La sua versione è elegante e stampata in uno stile molto bello da Didot. Suo marito, che ha pubblicato una storia della musica di grande valore, ha aggiunto due volumi di note per correggere le mie mancanze, dove credeva di averne trovate e per spiegare più dettagliatamente molti punti relativi alla storia, alla chimica e alla musica, che erano stati solo toccati. Ho adottato le sue correzioni dove le ho ritenute giuste e ho aggiunto le informazioni che ho ricevuto sulle Due Sicilie dopo la pubblicazione della prima edizione»[7].

Il marito della Laborde altri non è che il già citato editore Benjamin, il quale non si fece scrupoli di pubblicare il materiale inedito di Denon senza l’autorizzazione del legittimo proprietario. Ma c’è di più. In questo contesto si inserisce anche la figura del Canonico Annibale De Leo, Vescovo di Brindisi (1739-1814)[8].

Infatti, Laborde, quando era ancora coinvolto nel progetto editoriale del Voyage, invia una lettera al Canonico De Leo, il 2 agosto 1779. La lettera, che si trova presso la Biblioteca arcivescovile di Brindisi, viene pubblicata per la prima volta da Franco Silvestri (a lui segnalata dall’allora bibliotecario della “De Leo”, Rosario Jurlaro), nella sua edizione del Voyage Pittoresque[9]. In questa lettera, Laborde chiede al canonico De Leo di inserire un suo saggio su Brindisi all’interno dell’opera di Saint Non. Da questa lettera si rileva il fatto che Delaborde nel 1779 non solo era ancora coinvolto nella realizzazione dell’opera, ma anzi la riteneva interamente sua, o almeno, a sé stesso la accreditava nella missiva al presule brindisino, al quale chiedeva anche un’opera sulla “Vita di Pacuvio”, di cui il Denon gli aveva parlato[10]. Questo dimostra che l’impianto originale del Voyage doveva essere diverso e avvicinarsi di più ad un’opera collettiva, una raccolta di saggi di studiosi locali sul territorio dell’Italia Meridionale. Forse anche a questo cambio di impostazione si devono le divergenze fra il vero autore Saint Non e l’editore “millantatore” Delaborde. Non c’è la risposta di De Leo, così come all’interno dell’opera dell’abate francese non compare il saggio dello storico brindisino. Ciò ha portato gli studiosi a credere che De Leo avesse opposto un diniego alla richiesta di Laborde[11].

tavole di Castellan inserite nel testo Lettres sur l’Italie. Colonna di Brindisi

 

L’opera su Brindisi venne pubblicata autonomamente nel 1843[12].Vito Guerriero, il curatore dell’opera, che trova il manoscritto ancora inedito presso la Biblioteca e lo pubblica, spiega nell’Introduzione: «Si sapeva comunemente e con certezza, che il signor De la Borde, gentiluomo di Camera di Luigi XVI, ed autore del Viaggio pittoresco d’Italia, capitato in Brindisi, ebbe premura di trattare col prelato De Leo, come letterato di gran rinomanza. Tra le altre cose di cui si parlò nelle dotte lor conferenze, cadde discorso sopra una memoria inedita del detto De Leo, portante il titolo testé enunziato. L’importanza del soggetto mosse il signor De la Borde a chiederne la lettura, della quale gentilmente accordatagli fu invaghito in maniera che, come in attestazione di stima, pregò il De Leo ad essergli compiacente di dargli quello autografo, sulla parola di onore di farlo stampare in Parigi nel suo ritornarvi… la Memoria però, o per la morte di costui o per gli sconvolgimenti da lui trovati in Francia nel suo ritorno, non fu mai stampata né mai se ne poté sapere il destino»[13].

Il porto di Brindisi ritorna nell’opera pittorica di un altro viaggiatore straniero, val bene Jacob Philipp Hackert (1737-1807), con I porti delle Due Sicilie (prima versione stampata a Napoli nel 1792)[14]. Hackert era pittore di corte del re Ferdinando IV e in questa veste fu in Italia con molti incarichi come quello di supervisionare il trasferimento della collezione Farnese da Roma a Napoli. Ma l’incarico più prestigioso che ricevette dal re Ferdinando IV fu la commissione del famoso ciclo di dipinti raffiguranti i porti del Regno di Napoli. Le numerose vedute dei porti si articolano in tre gruppi suddivisi tra le vedute campane, pugliesi, calabresi e siciliane. Per eseguire i disegni preparatori, si recò in Puglia e in Campania. La serie comprende 17 quadri e si trova ancora oggi custodita presso la Reggia di Caserta, massima realizzazione artistica voluta dal Re Carlo di Borbone; vi sono raffigurati esattamente i porti di Taranto, Brindisi, Manfredonia, Barletta, Trani, Bisceglie, Monopoli, Gallipoli, Otranto[15].

Annibale De Leo, avviato agli studi dallo zio, Ortenzio De Leo, illustre giurista, storico e scrittore, di formazione napoletana, divenne Vescovo di Brindisi nel 1797. Importante il suo rapporto con il frate cappuccino Giovan Battista Lezzi, casaranese, suo Segretario e biografo, che divenne, alla morte di De Leo, primo bibliotecario della biblioteca arcivescovile di Brindisi, fondata da De Leo nel 1798 (e che a lui oggi è intitolata), che constava di circa seimila volumi[16].

Ma perché i lettori non pensino che abbiamo perso il filo della nostra narrazione, torniamo al manoscritto del vescovo di Brindisi richiesto da Delaborde. Non è vero che De Leo non spedì mai l’opera al Delaborde. In realtà, il francese dovette di questa venire in possesso. Infatti, Petra Lamers ci fa sapere dove andò a finire[17]. Il Laborde inserì alcuni estratti dell’opera di De Leo proprio nelle note sulla traduzione francese di Travels in the Two Sicilies di Swinburne, curata dalla moglie, per l’esattezza nel volume 2, da pag.249 a pag.262, dove si parla di Brindisi[18]. Ma nella descrizione e storia del porto di Brindisi, l’editore non fa riferimento al canonico De Leo. Ciò dimostra la abituale scorrettezza del Laborde, a tutto vantaggio dell’Abbè di Saint Non. Si può dunque parlare, in questo caso, di un furto letterario a danno del Saint Non, sebbene sia impari il confronto fra la sua opera e quella di Swinburne, anche perché diverso era l’intento. Scrive Franco Silvestri: «l’Inglese fa del suo libro una guida per i turisti eruditi, lo correda di scarse, scadenti e scialbe incisioni e di molte tariffe, orari di poste, elenchi di pesci, molluschi, prodotti del suolo, entrate doganali e dazi; il Saint Non vuole un libro che nessun viaggiatore potrà mai portarsi appresso, con i suoi grandi cinque volumi in folio del peso complessivo di circa mezzo quintale, e che vuol essere una summa di arte, di storia, di ricerche archeologiche, ed immagini preziosamente incise e stampate: lo spirito colto, raffinato, avido di bellezza del viaggio in Italia dei Francesi, è in evidente contrapposizione allo spirito pratico del Grand Tour inglese»[19].Tornando allo Swinburne, suo tramite per il viaggio in Italia era l’Ambasciatore inglese presso il Regno di Napoli, il già citato Sir William Hamilton. Il suo salotto culturale costituiva il centro di raccordo della intellettualità napoletana sotto Ferdinando IV. Sir William Hamilton (1730-1803), «uno dei primi tombaroli della storia», come lo definisce Angelo Martino in «Nuovo Monitore Napoletano»[20],era archeologo, diplomatico, antiquario e vulcanologo e pubblicò a Napoli Les Antiquités étrusques, grecques et romaines nel 176667. Egli, che aveva accesso agli scavi per via della sua alta funzione, non si fece scrupoli di impossessarsi di molti reperti archeologici, sia per motivi di studio che di prestigio personale. Da un furto letterario siamo passati ad un furto vero e proprio, o quanto meno ad appropriazione indebita e ricettazione. Lo stesso Goethe, che gli fa visita nella sua villa il 27 maggio 1787, all’ambasciatore che gli mostra orgoglioso la collezione di reperti archeologici, rendendosi conto che molti di questi provenivano dagli scavi di Pompei, consiglia di non diffondere la notizia del loro rinvenimento, perché potrebbe riceverne dei guai giudiziari. Cosa puntualmente avvenuta. Infatti, a causa delle sue frequenti e sospette visite sui siti, Hamilton viene deferito al Ministro Bernardo Tanucci, il quale fa arrestare l’informatore dell’Ambasciatore, non potendo incriminare Hamilton stesso. Hamilton evita la prigione, ma perora la causa del suo informatore presso il Re Ferdinando IV, il quale intercede con Tanucci per la liberazione dell’informatore. Molta parte di questo materiale archeologico viene trasferito da Hamilton presso il British Museum di Londra, dove si trova ancor oggi[21]. Indiscutibili invece i meriti scientifici dell’inglese, specie con riguardo alla sperimentale scienza della mineralogia[22].

Un altro frequentatore del circolo napoletano era l’Arcivescovo di Taranto Giuseppe Capecelatro, come informa Benedetto Croce[23]. Capecelatro fu il corrispondente culturale dello scrittore Swinburne, che lo menziona nelle note della sua opera: «Sono particolarmente grato a Monsignor Capecelatro, arcivescovo di Taranto; al Consigliere Monsignor Galliani; a Don Filippo Brigante Patrizio di Gallipoli; a Don Pasquale Baffi; a Don Domenico Cirillo; a George Hart, scudiero; a Padre Antonio Minasi, dell’ordine di San Domenico; a Don Domenico Minasi, arciprete di Molocchio; e a Don Giovanni Presta di Gallipoli»[24]. In particolare, Capecelatro fornì buona parte del materiale di cui lo Swinburne si è servito per la compilazione dei capitoli relativi alla Puglia.

Giuseppe Capecelatro (1744-1836), personaggio vastissimo ed eclettico, aveva fondato a Taranto una Accademia scientifica presso il Seminario Arcivescovile, intorno alla quale ruotavano molti studiosi delle più varie materie. Uomo di ampie vedute, contraddittorio, accusato di giansenismo, acceso anticurialista e regalista, molto dotto, imbevuto dello spirito illuminista del secolo, avversava la corruzione della chiesa e la superficialità con cui i prelati si approcciavano al sacro, ma nello stesso tempo si costruiva una favolosa villa a Portici, “Leucopetra”, dove riceveva il fior fiore della intellettualità e della nobiltà napoletana, dando costosi e raffinatissimi banchetti. Protetto dal potente Ministro Bernardo Tanucci, gli fu facile divenire arcivescovo di Taranto, a seguito di un mirabile cursus honorum. Fedele al re di Napoli ma sospettato di appoggiare la rivoluzione giacobina del 1799, venne anche arrestato; ritornato fedele ai Borbone ma pronto a passare al servizio dei napoleonidi durante il decennio francese (fu membro del Consiglio di Stato istituito da Giuseppe Bonaparte e addirittura da Murat nominato Ministro dell’Interno), per poi di nuovo rientrare nei ranghi, intrattenne rapporti con intellettuali e regnanti e con gli esponenti di spicco della politica europea, da Caterina II a Leopoldo di Toscana, da Gustavo III di Svezia ad Amalia di Weimar, da Goethe a Madame de Stael, da Herder a  Münter, da Swinburne a Lady Morgan, da Walter Scott ad Alessandro Verri. Dottore in utroque iure, poi ordinato sacerdote, influenzato nel suo acceso anticurialismo dalla lezione di Muratori e Giannone, tenne posizioni originali e spregiudicate, ai limiti dell’eresia, che gli costarono inimicizie, guai giudiziari e invidie. Si schierò spesso accanto al Governo Borbonico nella polemica giurisdizionalista contro la Chiesa. Coltivò svariati interessi eruditi e fu autore di molte opere. A Taranto si costruì una lussuosa residenza sul Mar Piccolo dove poteva dedicarsi alle sue speculazioni filosofiche[25].

Gino L. Di Mitri in un saggio apparso sulla rivista «L’Idomeneo»[26]dimostra come l’autore delle note zoo-geo-botaniche della famosa opera Deliciae tarentinae di Tommaso Niccolò D’Aquino, sia Padre Antonio Maria Minasi, domenicano, rigorosissimo scienziato di fede linneana, docente di botanica all’Università di Napoli, e frequentatore anche del circolo tarantino di Mons. Capecelatro per il quale compila una Memoria sui Testacei di Taranto classificati secondo il sistema del CH.Linneo (Napoli s.d. ma 1782), trattato che serviva a perfezionare quello precedente scritto dal Vescovo tarantino, vale a dire Spiegazione delle conchiglie che si trovano nel piccolo mare di Taranto (Napoli, 1780), spedito alla Zarina di Russia Caterina II. Poiché la Spiegazione era stata scritta molto frettolosamente in vista dell’invio in Russia e conteneva diverse imperfezioni, all’Accademia di Capecelatro si impose l’esigenza di riparare con un’opera più organica e completa. Di quest’opera, ufficialmente attribuita al Vescovo Capecelatro, Di Mitri restituisce al Minasi la paternità sulla base di riscontri oggettivi. Così pure le notizie di carattere malacologico contenute nel libro di Swinburne sono opera del domenicano di origini calabresi Minasi, che allo Swinburne venne introdotto certamente dall’arcivescovo tarantino. È lo stesso inglese che lo ringrazia nell’opera: « Ho ricevuto dal mio amico F.Ant Minasi la seguente lista di molluschi trovati in acque tarantine. L’ha messa su secondo il sistema di Linneo, a partire da un vasto assortimento di specie, che lui doveva classificare prima che fossero presentate dall’arcivescovo di Taranto all’Infante Don Gabriele»[27]. E segue la lunga lista dei molluschi. Dalla nota di Swinburne apprendiamo che il Capecelatro fosse intento alla compilazione di un altro trattato malacologico, auspice il Minasi, da inviare stavolta all’Infante Gabriele di Borbone, quarto figlio di Carlo III di Spagna e Maria Amalia di Sassonia. E vediamo come gli scambi letterari si intensifichino, man mano che procediamo nella trattazione.

Taranto nel 1789, Incis. da Hackert

 

Figura fondamentale, il Capecelatro, anche per altri viaggiatori stranieri come il Conte Carlo Ulisse De Salis Marschlins (1728-1800), svizzero, la cui opera è un caposaldo della letteratura di viaggio in Puglia. Egli percorre le nostre contrade nel 1789 e si dimostra fortemente interessato a tutti i nostri paesi. Si sofferma sugli aspetti economici della nostra terra, in particolare è interessato all’agricoltura, ovverosia alla coltivazione dell’olivo, della vite, del tabacco, degli agrumi. Pubblica per la prima volta le sue impressioni di viaggio in tedesco in due volumi a Zurigo nel 1790 e nel 1793. La prima pubblicazione del libro in lingua italiana viene fatta nel 1906,[28] con la traduzione di Ida Capriati De Nicolò, e poi viene più volte ripubblicato[29].

Il De Salis scruta il Salento con occhio attento e indagatore, analizza tutti i fenomeni sociali e di costume che osserva. Imbevuto dello spirito illuminista, si pone di fronte alle realtà locali con mente lucida e scientifica. Il De Salis conobbe nel 1788 a Taranto il Capecelatro, che lo accompagnò nel viaggio in Puglia[30]. De Salis era insieme ad un altro religioso, il noto scienziato veneto Alberto Fortis al quale si deve la scoperta delle nitriere di Molfetta, in particolare per lo studio del pulo[31]. L’Abate Fortis diede un impulso fondamentale al progresso degli studi naturalistici nel Regno di Napoli. Ma questo è un altro discorso[32].

È sempre l’arcivescovo Capecelatro che riceve a Taranto i viaggiatori tedeschi Stolberg e Jacobi, che ne riportano vivissima impressione e si dicono attratti dalla sua grande personalità. Il poeta Friedrich Leopold Stolberg (1750-1819) documenta il viaggio nel sud Italia nell’opera Reise in Deutschland, der Schweiz, Italien und Sicilien in den Jahren 1791 und 1792, 4 voll., 1794, recentemente tradotta in italiano da Laura A. Colaci,[33] che scrive: «Dopo il viaggio nel Sud della Germania e della Svizzera col fratello e con Goethe, Stolberg ne intraprese uno più lungo in compagnia della moglie Sophie von Redern, del figlioletto, di G.A. Jacobi e G.H.L. Nicolovius attraverso la Germania, la Svizzera e l’Italia. Frutto di questo viaggio è il volume Reise in Deutschland, der Schweiz, Italien und Sicilien in den Jahren 1791 und 1792. Viaggiò in Puglia dal 3 al 17 magio del 1792»[34]. Si tratta di un’opera epistolare, composta delle lettere che egli aveva inviato durante il suo soggiorno nel nostro Paese a vari corrispondenti tedeschi. Queste lettere però vennero rielaborate per la loro pubblicazione e ciò portò ad una certa stilizzazione, soprattutto in quelle che hanno un maggiore contenuto politico e religioso. Visitò Brindisi, Lecce, Otranto, Gallipoli. Il compagno di viaggio di Stolberg, Georg Arnold Jacobi (1768-1845), al ritorno pubblica Briefe aus der Schweiz und Italien nel 1796-7, una raccolta delle sue lettere inviate da Brindisi, Lecce e Gallipoli[35]. Sempre di un’opera epistolare si tratta, ma le lettere dello Jacobi sembrano essere quasi in presa diretta,  meno stilizzate di quelle del suo compagno di viaggio Stolberg, e soprattutto si nota in lui una minore componete polemica, pur essendo protestante e classicista anch’egli. È molto più critico però nei confronti del governo di Napoli e del malcostume che in quella città allignava. Mentre la prosa dello Stolberg è più accattivante, controllata e in qualche modo romantica, avendo egli rimaneggiato le lettere, quella dello Jacobi è più scarna e realistica. Entrambi i viaggiatori sono attratti dai resti dell’antichità classica, per cui, specie quando giungono in Puglia, a partire da Taranto, la loro attenzione si sofferma sulle influenze greche della nostra civiltà. Il classicismo di Stolberg però è filtrato dal cristianesimo. Questo lo porta a vedere l’Italia, e in particolare il Sud, in quanto più diretta emanazione di quella cultura, come una sorta di paradiso perduto che egli idealizza, dandone una visione edenica, certo lontana dalla realtà. «Pur vivendo nel clima del classicismo winckelmaniano, lo Stolberg è distante dall’idea di classico alla Winckelmann», scrive Scamardi[36].

Stolberg ripudia ogni idea dell’arte che non sia classica, per esempio il barocco leccese. «I ruderi classici evocano, sì, l’idea della caducità della vita umana, un elemento, questo, certo presente in tanta poesia sulle rovine della fine del Settecento, solo che lo Stolberg oppone la certezza della fede cristiana[…] In questo lo Stolberg anticipa non solo taluni stilemi di un certo romanticismo, ma anche un certo kitsh romantico»[37].

Questo può spiegare la grande fascinazione che la personalità così aperta del Capecelatro esercita sullo Stolberg, che ritrova «l’esperienza di un cattolicesimo illuminato nella persona dell’arcivescovo di Taranto, in cui intelligenza, senso dell’amicizia e dell’ospitalità, una vita vissuta in sintonia con la natura si fondono in un modello di fede cristiana (cattolica) in cui un protestante in crisi può più agevolmente ritrovarsi»[38].

Fermiamoci qui, con la speranza di avere assolto al meglio il compito prefissato e di non avere annoiato oltremisura i benevoli lettori.

Scritti di viaggio, religione, politica, arte, cultura, interessi eruditi, salotti mecenateschi fra la capitale e Terra d’Otranto fanno da contrappunto ad una stagione letteraria nel regno di Napoli, quella del Settecento meridionale, che se definire minore è appropriato nel raffronto con altre più dense di nomi altisonanti, tuttavia non può non dirsi viva ed interessante.

Note

[1] Si vedano fra gli altri, C. De Seta, L’Italia nello specchio del Grand Tour, in «Storia d’Italia», n. 5, Torino, Einaudi, 1982, pp.127-263 e G. SCianatico, Scrittura di Viaggio. Le terre dell’Adriatico, Bari, Palomar, 2007. Ma anche T. Scamardi, La Puglia nella letteratura di viaggio tedesca. Riedesel- Stolberg-Gregorovius, Lecce, Milella, 1987.

[2] Sull’Abate di Saint Non e sul Voyage, i testi consultati sono: F. Silvestri, Viaggio pittoresco nella Puglia del Settecento: dal Voyage pittoresque, ou Description des Royaumes de Naples et de Sicile, Milano-Roma, Carlo Bestetti Edizioni d’arte, 1977; P. Lamers, Il viaggio nel Sud del’Abbè de Saint-Non, Presentazione di Pierre Rosemberg, Napoli, Electa, 1992; Jean Claude Richard De Saint-Non, Viaggio Pittoresco, a cura di Raffaele Gaetano, Soveria Mannelli, Rubbettino 2009; Jean Claude Richard De Saint-Non in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, ad vocem.

[3]Su Jean Louis Desprez, fra gli altri: Jean Louis Desprez, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, ad vocem; F. Silvestri, Viaggio pittoresco nella Puglia del Settecento: dal Voyage pittoresque, ou Description des Royaumes de Naples et de Sicile, Milano-Roma, Carlo Bestetti Edizioni d’arte, 1977, pp.37-60; Jean Louis Desprez, in F. Fiorino, Viaggiatori francesi in Puglia dal Quattrocento al Settecento, Vol.VII, Fasano, Schena, 1993, pp.241-334.

[4] F. Silvestri, op.cit., p.44.

[5] Su Dominique Vivant Denon, fra gli altri:  Vivant Denon, in  Treccani.it  -Enciclopedie on line, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, ad vocem; F. Silvestri, op.cit., pp.31-33; Dominique Vivant Denon,  Lettere inedite a Isabella Teotochi Albrizzi, introduzione e note di Mario Dal Corso, Padova, Centro Stampa Palazzo Maldura, 1979 ( poi Padova, Alfasessanta, 1990); Id., Viaggio a Palermo, traduzione di Laura Mascoli, introduzione di Carlo Ruta, Palermo, Edi.bi.si., 2000; Id., Viaggio nel regno di Napoli, 1777-1778, traduzione e commento di Teresa Leone, Napoli, Paparo edizioni, 2001; Id., Calabria felix, traduzione di Antonio Coltellaro, Catanzaro, Rubbettino 2002; Id., Bonaparte in Egitto. Due cronache tra illuminismo e Islam, scelta e commento di Mammoud Hussein, traduzione di Vito Bianco, Roma, Manifestolibri, 2007.

[6] Sull’opera di Swinburne, si veda: A. Cecere, Viaggiatori inglesi in Puglia nel Settecento, Fasano, Schena, 1989, pp. 37ss.; Ead., La Puglia nei diari di viaggio di H. Swinburne, Crauford Tait Ramage, Norman Douglas, in «Annali della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Bari», Terza serie, 1989 -90/X, Fasano, 1993.

[7] Henry Swinburne, Viaggio Nel Regno Delle Due Sicilie negli Anni 1777, 1778 e 1779 (Sezioni XVII-XXXV) Viaggio da Napoli a Taranto, Traduzione e Introduzione a cura di Lorena Carbonara, Edizioni Digitali Del Cisva, 2010, p.12 (on line).

[8] Su De Leo, fra gli altri, R. Jurlaro, Annibale De Leo nella storia della storiografia italiana, in «Ricerche e Studi», a cura di Gabriele Marzano, n.1, 1964, Fasano, 1964, pp.29-30; G. Liberati, Annibale De Leo e la cultura del ‘700 in Brindisi, in «Brundisi Res», n.II, 1970, pp. 17-18; G. Perrino, Annibale De Leo teologo, storico, pastore, in «Brundisii res», n.VII, 1975, p.289; S. Palese, Seminari di Terra d’Otranto tra rivoluzione e restaurazione, in B.Pellegrino (a cura di), Terra d’Otranto in età moderna. Fonti e ricerche di storia religiosa e sociale, Galatina, Congedo, 1984, pp.121ss.

[9] F. Silvestri, Viaggio pittoresco nella Puglia cit.,p.61.  L’opera curata da Silvestri, edita la prima volta nel 1972, riproduce solo il tomo terzo che contiene il “Viaggio pittoresco della Magna Grecia”, suddiviso in 4 capitoli, con traduzione italiana e testo francese a fronte in stampa anastatica. Si veda anche P. Lamers, op.cit., p.33.

[10] Il riferimento è a Delle memorie di M. Pacuvio antichissimo poeta tragico dissertazione di Annibale de Leo, Napoli, nella Stamperia Raimondiana, 1763, unica opera pubblicata in vita dal Vescovo di Brindisi.

[11] F. Silvestri, op.cit., p. 62.

[12] A. De Leo, Dell’antichissima Città di Brindisi e Suo Celebre Porto. Memoria inedita di Annibale De Leo. Seguita da un articolo storico de’vescovi di quella chiesa compilato da Vito Guerriero Primicerio della Cattedrale della stessa Chiesa, per ordine dell’attuale Arcivescovo D.Diego Planeta come dalla pagina seguente, Napoli, dalla Stamperia della società Filomatea, 1846. Poi ripubblicato in ristampa anastatica in Id., Dell’antichissima Città di Brindisi e Suo Celebre Porto, a cura di Rosario Jurlaro, Bologna, Forni, 1984.

[13] A. De Leo, op.cit., p. IV, riportata anche in F. Silvestri, op.cit., p. 62.

[14] Su Jacob Philipp Hackert, si veda: Philipp Hackert, Dodici porti del Regno di Napoli, a cura di M. Vocino, Napoli, Montanino, 1980; A. Mozzillo, Gli approdi del Sud. I porti del regno visti da Philipp Hackert (1789-1793),Cavallino, Capone, 1989.

[15] La serie è stata in mostra, dal 20 giugno al 5 novembre 2017, presso la Sala Ennagonale del Castello di Gallipoli (Lecce).  L’esposizione, intitolata I porti del Re, a cura di Luigi Orione Amato e Raffaela Zizzari, è stata prodotta dal Castello in collaborazione con la Reggia di Caserta e il Comune di Gallipoli ( http: www.famedisud.it/il-sud-settecentesco-di-philipp-hackert-in-mostra-a-gallipoli-i-porti-…). Nel giugno 2018, si è tenuta a Brindisi la grande mostra: “Brindisi: Porto d’Oriente”, presso Palazzo Nervegna, dove è stato possibile “ammirare per la prima volta il celebre quadro ‘Baia e Porto di Brindisi’ che il vedutista prussiano Jakob Philipp Hackert realizzò nella seconda metà del ‘700 su incarico del re Ferdinando IV di Borbone. L’esposizione è stata organizzata nell’ambito del progetto ‘La Via Traiana’ e comprendeva una serie di opere che raccontano la storia della città attraverso alcune vedute del porto, fatte dai viaggiatori del ‘700” ( http:www.brundarte.it/2018/03/23/baia-porto-brindisi-jakob-philipp-hackert/).

[16] Ernesto Marinò attribuisce ad Ortenzio De Leo la paternità di un’opera su San Vito degli Schiavi, città natale di De Leo (Succinta Descrizione Storica sull’Origine e Successi della Terra di Sanvito in Otranto Provincia del Regno di Napoli Scritta nel 1768 Da N.N.) sottraendola ad Annibale De Leo, al quale era stata fino ad allora dai più attribuita, proprio sulla base di un documento del Lezzi, ovvero la sua opera Memorie degli scrittori salentini, nella quale, parlando del Vescovo Annibale De Leo e delle sue opere, il cappuccino attribuisce allo zio di Annibale, Ortenzio De Leo, la redazione della detta opera. E. Marinò Ipotesi sull’attribuzione del manoscritto sulla Storia di Sanvito del 1768,  in  «L’Idomeneo», Società Storia Patria Sezione di Lecce, n.5, Galatina, Edizioni Panico, 2003, pp.83-118. Strano che l’estensore dell’articolo, parlando di Giovan Battista Lezzi, non citi in bibliografia una delle fonti più autorevoli in merito, ossia Gino Pisanò (fra i vari contributi, G. Pisanò, Un informatore letterario de Settecento: G.B.Lezzi tra Puglia Napoli e Firenze, in Id., Lettere e cultura in Puglia tra Sette e Novecento (Studi e testi), Galatina, Congedo, 1994, pp.9-35).

[17] P. Lamers, op.cit., p.58.

[18] Ivi, p.36.

[19] F. Silvestri, op.cit., p.19.

[20] A. Martino, Un tombarolo illustre, Sir William Hamilton

http: www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?…sir-william-hamilton

[21] N. H. Ramage, Sir William Hamilton as collector, exporter and dealer, American Journal of Archaeology – luglio 1990, riportata da A. Martino  http: www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?…sir-william-hamilton

[22] Sull’ambiente intellettuale napoletano che ruotava attorno all’ambasciatore inglese, si vedano: G. Doria (a cura di), Campi Phlegraei: Osservazioni sui vulcani delle Due Sicilie comunicate da Sir William Hamilton e illustrate da Pietro Fabris, Milano, Il Polifilo, 1964; C. Knight, Hamilton a Napoli. Cultura, svaghi, civiltà di una grande capitale europea, Napoli, Electa, 1990 (ristampa 2003); G. Pagano De Divitiis, V. Giura (a cura di), L’Italia nel secondo Settecento nelle relazioni segrete di William Hamilton, Horace Mann e John Murray, Napoli, ESI, 1997; Aa.Vv., The Hamilton papers. Carte donate alla società di storia patria, Napoli, Associazione Amici dei Musei di Napoli, 1999.

[23] B. Croce, Uomini e cose della vecchia Italia, vol.II, Bari, Laterza, 1943, pp.158-182.

[24] H. Swinburne, op.cit., p.13, nota 13.

[25] Su Giuseppe Capecelatro, fra gli altri, B. CROCE, Uomini e cose della vecchia Italia, Vol. II, Bari, Laterza, 1943, pp.158-182; M. Zazzetta, Capecelatro,Giuseppe, in «Enciclopedia Cattolica», III, Città del Vaticano, 1949; N. Vacca, Terra d’Otranto. Fine Settecento inizi Ottocento (Spigolature da tre carteggi), Società Storia Patria Bari, 1966; P. Stella, Capecelatro, Giuseppe, in Dizionario Biografico degli Italiani, XVIII, Treccani, Roma,1975, pp. 445-452; C. Laneve, Le visite pastorali di mons. Giuseppe Capecelatro nella Diocesi di Taranto alla fine del Settecento, in «Ricerche di storia sociale e religiosa», 13, 1978, pp.195-226; G. Peluso, Giuseppe Capecelatro arcivescovo di Taranto e ministro di due re, in «L’Arengo», n.III, Taranto, 1980, pp.197-221; V. De Marco, La Diocesi di Taranto nel Settecento: 1713-1816, Roma, Edizioni Storia e Letteratura, 1990; A. Pepe, Il clero giacobino: documenti inediti, I, I riformatori: Capecelatro, Rosini, Serrao, Napoli, Procaccini, 1999; D. Pisani, Note bio-bibliografiche su Giuseppe Capecelatro, in G. Capecelatro, Discorso istorico-politico dell’origine, del progresso, e della decadenza del potere de’ chierici su le signorie temporali con un ristretto dell’istoria delle Due Sicilie (rist. anastatica), Taranto, 2008; S. Vinci, Giuseppe Capecelatro (1744-1836). Un arcivescovo tra politica e diritto, in «Archivio Storico Pugliese», n.LXV , Società di Storia Patria per la Puglia Bari, 2012, pp.41-78; ecc.

[26] G. L. Di Mitri, Il vero autore del commentario scientifico alle «Delizie tarantine», in  «L’Idomeneo», n.3, Società Storia Patria Puglia sezione di Lecce, Lecce, Edizioni Panico, 2000, pp.69-90.

[27] H. Swinburne, op.cit., p.85, nota72.

[28] C. U. De Salis Marschlins, Nel Regno di Napoli: viaggi attraverso varie province nel 1789, Trani, Vecchi, 1906.

[29] Fra gli altri, in C. U. De Salis Marschlins, Viaggio nel Regno di Napoli, Galatina, Congedo, 1979, con Introduzione di Tommaso Pedio, e in Id., Viaggio nel Regno di Napoli – che riproduce la prima traduzione italiana di Ida Capriati De Nicolò -, a cura di Giacinto Donno, Lecce, Capone, 1979 e 1999, e ancora in Id., Nel Regno di Napoli Viaggi attraverso varie provincie nel 1789, Avezzano, Edizioni Kirke, 2017.

[30] T. Scamardi, op.cit., p.82.

[31] Si veda, fra gli altri, M. Toscano, Alberto Fortis nel Regno di Napoli: naturalismo e antiquaria 1783-1791, Bari, Cacucci, 2004.

[32] Dell’Abate Alberto Fortis (1741 –1803),  letteratonaturalista e  geologo, religioso atipico, come il Capecelatro, citiamo solo l’opera più importante, ovvero il Viaggio in Dalmazia, in due volumi, stampato a Venezia nel 1774.

[33] Friedrich Leopold Graf Zu Stolberg, Reise In Deutschland, Der Schweiz, Italien Und Sizilien In Den Jahren 1791 Und 1792 1794 Viaggio In Germania, Svizzera, Italia e Sicilia negli anni 1791 e 1792 1794 Con traduzione italiana a cura di Laura A. Colaci, Edizioni Digitali Del Cisva, 2010 (on line).

[34] F.L. Graf Zu Stolberg, op.cit., p.1 (on line).

[35] C. Stasi, Dizionario Enciclopedico dei Salentini, Vol.2, Lecce, Grifo, 2018, p.1128; T. Scamardi, op.cit., pp.61-91.

[36] T. Scamardi, op. cit., p.76.

[37] Ivi, p.77.

[38] Ivi, p.91.

Raffaele Marti (1859-1945), un letterato salentino da riscoprire

UN LETTERATO SALENTINO DA RISCOPRIRE: RAFFAELE MARTI. PRIMO CONTRIBUTO BIO-BIBLIOGRAFICO

di Paolo Vincenti

Fratello del più noto Pietro Marti, fu scienziato e letterato di non poco momento. Raffaele Marti nacque a Ruffano nel 1859 da Elena Manno e Pietro. Suoi fratelli accertati: Luigi Antonio, nato nel 1855, Francesco Antonio, nato nel 1856, Maria Domenica Addolorata, nel 1858, Pietro Efrem (che morì dopo 3 mesi) nel 1861, Pietro Luigi, nel 1863[1]. Tuttavia, sappiamo da alcuni fogli autobiografici di Pietro Marti, ritrovati in una biblioteca privata, che erano quindici i fratelli, di cui Pietro, l’ultimo[2]. Fra questi, anche Giuseppe, al quale il poeta Luigi Marti dedica la sua opera, Un eco dal Villaggio (Alla memoria di mio fratello Giuseppe morto giovanissimo vissuto a bastanza per conoscere e patire”), ma su di lui, fino ad ora, alcun riscontro.

La notorietà di Raffaele, probabilmente, fu offuscata da quella di Pietro Marti.[3] Nella prima parte della sua vita, il suo percorso si intreccia strettamente con quello del più illustre fratello, per formazione e per le prime esperienze lavorative. Ma è giunto il momento che anche Raffaele raccolga la messe che i suoi indiscutibili meriti hanno prodotto.

Come i fratelli Pietro e Luigi, anch’egli frequentò il corso primario inferiore e quello superiore, a costo di grandi sacrifici per la madre, per altro vedova. Come i fratelli, fu maestro elementare a Ruffano, e poi a Lecce, dove fondò, insieme a loro, nel 1884, un istituto secondario di istruzione privato, che era uno dei due ginnasi privati leccesi insieme a quello del Padre Argento.[4] Come Pietro, si trasferì a Comacchio, dove insegnò per alcuni anni.

Raffaele, insigne scienziato, doveva godere della stima della comunità scientifica dell’epoca se il grande Cosimo De Giorgi scrive anche una Presentazione della sua opera Golfi di Taranto, Napoli e Valli di Comacchio, definendolo “un benemerito della scienza e della nostra provincia”.[5]Il prof Marti, il matematico insigne, che per tanti anni ha illustrato la scuola, s’appalesa oggi uno scienziato di alto valore”, scrive di lui Don Pasquale Micelli, recensendo l’opera Le coste del Salento su “L’Ordine” (Lecce, 9 maggio 1924), e continua “Il recente lavoro è un insieme armonico di tutto ciò che forma una solida cultura moderna; la Geologia, la Fisica, la Litologia, l’Idrografia, la Flora, la Fauna, la Mineralogia, la Storia, la Preistoria, la Politica, la Letteratura, l’Arte, l’Agraria, la Pesca, ecc. sono trattate con pennellate da maestro”[6].

Nel 1894, pubblica L’acqua conferenza letta nella sala del consiglio comunale di Norcia e Operazioni del calcolo e loro analogia.[7]  Nel 1896, pubblica Golfi di Taranto, Napoli e Valli di Comacchio (loro produzione alimentare),[8]con Presentazione di Cosimo De Giorgi, in cui si occupa della fauna marina nei due golfi tarantino e napoletano e nelle valli di Comacchio: uno studio approfondito sulle specie ittiche che vivono nei tre mari Ionio Adriatico e Tirreno. Inoltre pubblica Elementi di Algebra.[9] Nel 1907, pubblica Dalla P. della Campanella al C. Licosa [10]e, nello stesso anno, Foglie sparse[11]. Nel 1913, dà alle stampe Gli acari o piaghe sociali. Dramma in quattro atti e cinque quadri.[12]Quest’opera viene premiata dalla Reale Accademia Filodrammatica di Palermo nel 1910 e dal Teatro Italiano di Roma il 31 luglio 1911, come opera edificante e di elevata valenza sociale[13].

Lunga fu la collaborazione di Raffaele come pubblicista nelle riviste fondate o dirette dal fratello, l’infaticabile promoter Pietro Marti. Pietro, infatti, diresse, fra gli altri, i periodici “L’Indipendente”, nel 1891, “Il Salotto” di Taranto, nel 1896, “L’avvenire”, di Taranto, nel 1897, e sempre nella città ionica collaborò a “Il lavoro” e “La palestra”; inoltre a Lecce fondò e diresse “La democrazia”, dal 1893 al 1896, poi divenuto “Il corriere salentino”, dal 1902 al 1920, “Fede”, dal 1923 al 1926, “La voce del Salento”, dal 1926 al 1933, per citare solo i più importanti. In particolare, su “La voce del Salento”, Raffaele collaborò con articoli di carattere storico e archeologico e recensioni di libri.[14] Se con Pietro condivideva l’amore per il patrimonio artistico della nostra terra d’Otranto e la necessità di una sua strenua difesa (Pietro fu anche Regio Ispettore ai Monumenti della Provincia di Lecce, dal 1923 al 1929, nonché Direttore della Biblioteca Provinciale “Bernardini”), quindi un interesse di carattere erudito, con l’altro fratello, Luigi, (1855-1911), condivideva l’amore per la poesia e le belle lettere.[15]  Ma, come detto, gli interessi culturali in casa Marti coinvolgevano tutti i fratelli maschi. Infatti, anche Antonio (1856- 1926) fu un letterato.[16]

Raffaele scrive anche diverse commedie, a conferma della poliedricità e della varietà dei suoi interessi, come: Un’ora prima di scuola. Commedia in un atto; Patriottismo. Commedia in un atto; Il ciabattino di Sorrento. Dramma in tre atti; Gli orfani del vecchio impiegato. Queste composizioni, a quel che ci risulta, restano manoscritte e non trovano sbocco editoriale. Non sappiamo neppure se esse siano state rappresentate in teatro ma è certo che vengono fatte circolare in versione manoscritta, se ricevono alcuni premi e menzioni d’onore, come si rende noto nell’opera Le coste del Salento, che riserva una pagina alle “Opere di stampa del Prof. Raffaele Marti”, ossia una sintetica sua bibliografia degli scritti. Ed è appunto del 1924 Le coste del Salento Viaggio illustrativo, per i tipi della Tipografia Conte di Lecce:[17] un excursus storico- letterario fra le coste della penisola salentina, condito anche dalle tante leggende che avvolgono queste contrade. Nella sua nota iniziale, Marti si rivolge “Ai giovani”, invitandoli a trarre profitto da questo suo lavoro di “Geografia fisica, della Fisica terrestre, della Mineralogia, della Geologia, della Paleontologia, della Fauna, dell’Ittiofauna e della Malacologia, della Flora terrestre e marina”. Un programma certo ambizioso, forse troppo, che si propone anche di parlare delle torri, dei castelli, dei villaggi e della varia architettura salentina sparsa fra i due mari Ionio e Adriatico. Occorre però rapportare questo pur vasto programma alle conoscenze del tempo, che erano certo più scarse, per cui certe ricerche apparivano quasi pionieristiche, ed inoltre occorre tener conto dell’intraprendenza con cui taluni eruditi dagli interessi universali quale Marti si aprivano alla conoscenza.  Il libro dimostra di essere molto apprezzato dalla critica. Se ne occupano tutti i giornali locali, da “La Provincia di Lecce” a “Il Nuovo Salento”, da “La Gazzetta di Puglia” a “La Freccia”, periodico di Palermo. “In una sintesi mirabile”, scrive Pasquale Micelli  su “L’Ordine” (Lecce, 9 maggio 1924), “egli ha saputo raccogliere, in poco più di 100 pagine, quanto riguarda la penisola salentina, nella varietà delle coste bagnate dall’Adriatico e dallo Ionio, l’origine, la storia e l’antico splendore delle città sparse su di esse o nell’immediato hinterland, i costumi dei popoli, che la abitano, lo sviluppo intellettuale e commerciale, la natura e la fertilità del terreno […] In tutto il libro si trova mirabilmente concentrato quanto moltissimi scrittori hanno diluito in vari poderosi volumi”[18].“Il libro ci fa tornare alla memoria i magnifici prodotti della letteratura storica e scientifica francese, che tende a popolarizzare l’arte ed il pensiero”, scrive un articolista (probabilmente Pietro Marti) su “Fede” (Lecce, 20 giugno 1924)[19].“Mai mi era capitato di leggere un libro in cui fossero fermate tutte le espressioni del Salento”, sostiene Pietro Camassa sul periodico brindisino “Indipendente” (ottobre 1924), “Vi si parla di mitologia, di preistoria, di letteratura, d’arte, di storia militare, civile, politica, di pesca, di caccia, di industria…”[20].  Gli scrive anche il famoso archeologo Luigi Viola, in una lettera che Marti inserisce nel libro L’estremo Salento, insieme ai giudizi critici di cui stiamo riferendo.[21] Nel 1925 è la volta di Lecce e i suoi dintorni.[22]

Anche questo libro è accolto molto bene dalla critica di settore. Ne scrive “L’Indipendente” di Brindisi (11 luglio 1925) come di un libro molto riuscito e interessante, giudizio condiviso da Nicola Bernardini su “La Provincia di Lecce” del 24 maggio 1925[23]. E sul “Corriere Meridionale” (Lecce, 20 agosto 1925), afferma Francesco D’Elia: “il presente volume del Prof. Marti ha un carattere popolare, in quanto le principali notizie storiche dei luoghi, esposte in forma spicciola, sono fuse insieme con numerose indicazioni delle varie forme di attività cittadina, culturale, artistica, industriale, che crediamo utilissime perché ci dimostrano il progresso raggiunto nella civiltà dei nostri luoghi, e quel migliore avvenire che attendono di raggiungere”[24]. Anche in questo libro, Marti dà cenni di Geografia, idrografia, si occupa di storia e di arte dei principali centri dell’hinterland leccese, come Surbo, San Cataldo, Acaia, Strudà, Pisignano, San Cesario, Monteroni, Novoli, Campi, Trepuzzi, oltre naturalmente al capoluogo di provincia. Nel 1931 esce L’estremo Salento,[25]  con Prefazione di Amilcare Foscarini, il quale afferma che “se i precedenti libri di questo benemerito ed instancabile autore sono riusciti dilettevoli e istruttivi per la generalità dei lettori, quest’ultimo li supera per un maggiore interesse, poiché tratta di una contrada incantevole, lussureggiante, ricca di memorie, di terreni fertilissimi e di prodotti commerciali, cinta da ridenti marine, da stazioni balneari e termo-minerali di eccezionale importanza, poco apprezzata perché poco conosciuta”[26].

Come recita il titolo, l’opera si occupa dell’estrema propaggine del Salento, il Capo di Leuca, ovvero il Promontorio Iapigio, che divide l’Adriatico dallo Ionio. Parte dalla preistoria, citando le fonti greche e latine e passando in rassegna tutte le più svariate e oggi abusate ipotesi sulle origini del nostro popolo. Si occupa della storia antica del Salento, della storia medievale e moderna, delle famiglie gentilizie e dei grandi personaggi del passato, secondo uno schema paludato che se oggi è superato, ai tempi di Marti era ancora in auge e anzi era l’unico metodo storiografico in uso. Si può dunque apprezzare lo sforzo profuso dal Nostro, in questa notevole attività pubblicistica e nel suo impegno nella scoperta e parimenti nella valorizzazione dell’enorme portato culturale di cui è depositaria la terra salentina. Pur essendo uno scienziato, di robusta formazione positivista, Marti fu amato dalla Musa e seppe coltivare generi letterari così diversi con immutata partecipazione.  Ulteriori approfondimenti potranno rendere più nitida una figura così interessante.

Raffaele Marti morì a Lecce il 5.2.1945, all’età di 86 anni.

 

Note

[1] Devo queste e le successive notizie anagrafiche all’amico studioso Vincenzo Vetruccio, il quale ha condensato le sue ricerche sulla famiglia Marti in un “Discorso Su Pietro Marti pronunciato il 19 febbraio 2015 presso la scuola primaria Saverio Lillo” Inedito.

[2] Si tratta di opera inedita, lasciata incompleta e segnalata da Alfredo Calabrese, Le memorie di Pietro Marti, in “Lu lampiune” n.1 Lecce, Grifo, 1992, pp.27-34.

[3] Sulla figura dell’erudito Pietro Marti (1863-1933), storico, giornalista, conferenziere, illustre concittadino di Ruffano, esiste una cospicua bibliografia. Tra gli altri:

Carlo Villani, Scrittori ed artisti pugliesi antichi, moderni e contemporanei, Trani, Vallecchi, 1904, p.578 (nuova edizione Napoli, Morano, 1920, pp-137-138);  Domenico Giusto, Dizionario bio-bibliografico degli scrittori pugliesi (dalla Rivoluzione Francese alla rivoluzione fascista), Bari, Società Editrice Tipografica, 1929, pp.187-188;  Aldo de Bernart, Nel I centenario della nascita di Pietro Marti, in “La Zagaglia”, Lecce, n. 21, 1964, pp.63-64;  Pasquale Sorrenti, Repertorio bibliografico degli scrittori pugliesi contemporanei, Bari, Savarese, 1976, pp.375-376; Ermanno Inguscio, La civica amministrazione di Ruffano (1861-1999). Profilo storico,  Galatina, Congedo Ed., 1999, pp.174-175; Paolo Vincenti, Pietro Marti da Ruffano, in “NuovAlba”, dicembre 2005, Parabita, 2005, pp-17-18; Aldo de Bernart, In margine alla figura di Pietro Marti,  in “NuovAlba”, aprile 2006, Parabita, 2006, p.15;  Ermanno Inguscio, Vanini nel pensiero di Pietro Marti, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie,  n. XX, Lecce, Argo, 2009, pp.137-148;Idem, Pietro Marti direttore di giornali, in “Terra di Leuca. Rivista bimensile d’informazione, storia, cultura e politica”, Tricase, Iride Edizioni, a. VII, n. 39, 2010, p. 6; Idem, L’attività giornalistica di Pietro Marti,  in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie,  n. XXI, Lecce, Argo, 2010-2011, pp.227-234;Idem, Il giornalista Pietro Marti, in “Terra di Leuca. Rivista bimensile d’informazione, storia, cultura e politica”,Tricase, Iride Edizioni, a.VIII, n.40, 2011, p.7;Idem, Liborio Romano e le ragioni del Sud nel periodo postunitario. Il contributo di Pietro Marti sul patriota salentino, in “Risorgimento e Mezzogiorno. Rassegna di studi storici”, n.43-44, dicembre 2011, Bari, Levante Ed., pp.147-161; Idem, Pietro Marti e la cultura salentina. Apologia di Liborio Romano, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie, n. XXII, Lecce, Grifo,2012, pp.164-185;Aldo de Bernart, Cenni sulla figura di Pietro Marti da Ruffano, Memorabilia 35, Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis,2012; Ermanno Inguscio, Pietro Marti, il giornalista, il conferenziere, il polemista, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie, n. XXIII, Lecce, Argo, 2013, pp.40-58; Idem, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013.

[4] Ermanno Inguscio, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013, p.34.

[5] “…imitate questo vostro compagno di studio, che ha scritto il suo libro raccogliendone gli elementi dalla natura vivente e reale […] Fate, fate, fate voi come ha fatto lui, e vi renderete benemeriti, non solo alla scienza, col contributo che darete, ma anche alla nostra provincia”: Cosimo De Giorgi, Prefazione, in Raffaele Marti, Golfi di Taranto, Napoli e Valli di Comacchio (loro produzione alimentare), Lecce, Tip. Lazzaretti, 1896, p.6.)

[6] Giudizi sopra alcune opere del Marti, in Raffaele Marti, L’estremo Salento, Lecce, Stabil. Tipografico F.Scorrano e co., 1931, pp.8-9.

[7] Raffaele Marti, L’acqua conferenza letta nella sala del consiglio comunale di Norcia e Operazioni del calcolo e loro analogia , Lecce,  Tip. Cooperativa, 1894.

[8] Idem, Golfi di Taranto, Napoli e Valli di Comacchio (loro produzione alimentare), Lecce, Tip. Lazzaretti, 1896.

[9] Idem, Elementi di Algebra, Taranto, Tip. Latronico, 1896.

[10] Idem, Dalla P. della Campanella al C. Licosa, Taranto, Tip. Spagnolo, 1907.

[11] Idem, Foglie sparse, Taranto, Tip. Spagnolo, 1907.

[12] Idem, Gli acari o piaghe sociali. Dramma in quattro atti e cinque quadri, Lecce, Tip. Conte, 1913.

[13] Ermanno Inguscio, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013, p.195.

[14] , Ermanno Inguscio, Letteratura arte e storia nel periodico “La voce del Salento”, in Idem, Pietro Marti (1863-1933), op.cit.., pp.149-160.

[15] Luigi, sposato a Pallanza, in provincia di Novara, anch’egli firma de “La voce del Salento”, fu apprezzatissimo poeta e scrittore.  Fra le sue opere, per citare solo qualche titolo: Un eco dal villaggio, Lecce, Stab. Tip. Scipione Ammirato, 1880; Manfredi nella Storia e nella Commedia dell’Alighieri, Lecce, Tipografia Salentina, 1887; Liriche, Lecce, Tipografia Garibaldi, 1889; La verde Apulia, Lecce, Tipografia Salentina, 1889; Napoleone e la Francia nella mente di Foscolo, Pallanza, Tipografia Verzellini, 1891; Un secolo di patriottismo, Pallanza, Tipografia Verzellini, 1891; Il Salento, Taranto, Editore Mazzolino, 1896; Dalle valli alle vette, Milano, La Poligrafica, 1898; ecc. Luigi morì improvvisamente a Salerno nel 1911, all’età di 56 anni.

[16] Fra le opere di Antonio Marti, basti citare: il volume di poesie Povere foglie, Lecce Tip. Editrice Sociale- Carlino, Marti e Cibaria, 1891, e Scritti vari – Novelle e Viaggi, Intra, Tipografia Bertolotti Paolo e Francesco,1893.

[17] Raffaele Marti, Le coste del Salento Viaggio illustrativo, Lecce, Tip. Vincenzo Conte, 1924.

[18] Giudizi sopra alcune opere del Marti, in Raffaele Marti, L’estremo Salento, Lecce, Stabil. Tipografico F.Scorrano e co., 1931, p.8.

[19] Ivi, p.10.

[20] Ivi, p.12.

[21] Ivi, p.11.

[22] Idem, Lecce e suoi dintorni. Borgo Piave, S. Cataldo, Acaia, Merine, S. Donato, S. Cesario ecc., Lecce Tip. Gius. Guido, 1925.

[23] Giudizi sopra alcune opere del Marti, in op.cit., p.14.

[24] Ivi, p.13.

[25] Idem, L’estremo Salento, Lecce, Stabil. Tipografico F.Scorrano e co., 1931.

[26] Amilcare Foscarini, Prefazione, in op.cit., p.3.

Storia e storie della Grande Guerra, dalla Nazione alla Terra d’Otranto

di Alfredi di Napoli

È stato pubblicato, nel 2020, per i tipi della Argomenti Edizioni di Novoli, Storia e storie della Grande Guerra Istituzioni, società, immaginario dalla Nazione alla Terra d’Otranto, a cura di Mario Spedicato e Paolo Vincenti.

Il volume raccoglie solo alcuni dei contributi delle numerose iniziative culturali organizzate dalla Società di Storia Patria di Lecce sulla Grande Guerra, a partire da quella celebrata ad Oria nel dicembre del 2014, con due appendici seminariali svolte nella primavera del 2016 e nell’inverno 2018, in collaborazione con l’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano di Brindisi. A questi, si sono aggiunti alcuni saggi scritti appositamente per il libro, il cui primitivo progetto si è dunque necessariamente ridimensionato a causa dei ritardi nella pubblicazione degli Atti dei vari Convegni.

Ciò non ha fatto venire meno la solidità dell’impianto metodologico e il rigore scientifico dei saggi pubblicati. Essi sono divisi in alcune aree tematiche, e precisamente: La crisi del liberalismo prima e dopo la Grande Guerra, con saggi di Flavio Silvestrini e Maria Sofia Corciulo, I dinamismi della società, con saggi di Luigi Montonato, Fiorenza Taricone e Paolo Vincenti, Gli specchi della memoria. Pubblico e privato nella narrazione della Grande Guerra, con saggi di Paolo Vincenti, Anna Maria Andriani, Pasquale Guaragnella, Francesco Carone, Paolo Vincenti, Maria Antonietta Bondanese, Federico Carlino.

Il volume, voluto dalla SSPP, Sezione di Lecce, e dall’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano di Brindisi, reca una bellissima copertina, con la realizzazione grafica di Argomenti Edizioni, ed è realizzato grazie al contributo di Uniformazione e Nova Liberars.

Un libro vario, per impostazione e metodo, ma vertente sugli avvenimenti diretti o indiretti della Prima Guerra Mondiale con un focus sul territorio salentino.

Come scrive nella Prefazione Mario Spedicato, Presidente della SSPP-Lecce: «l’impostazione rappresenta la principale novità metodologica proposta da questo volume. Sono ormai maturi i tempi perché la più attrezzata ricerca sul territorio ripercorra la Grande Guerra non solo scavando negli strati più profondi del tessuto sociale – come la ricorrenza del Centenario ha dimostrato – ma anche dilatandone i confini temporali. Il progressivo esautoramento del significato e dei poteri del Parlamento, la ristrutturazione dei rapporti centro-periferie, la partecipazione popolare ai grandi eventi (sia pure in forme grezze e poco consapevoli), il protagonismo femminile (tanto delle donne intellettuali quanto delle illetterate), l’incredibile produzione memorialistica e simbolica, popolare e non, sono processi che la storiografia ha da tempo collocato in un quadro di medio-lunga durata che gli anni ’15-18 rendono più visibile».

Il primo saggio è di Flavio Silvestrini, Parlamento di guerra e antiparlamentarismo: l’autunno del giolittismo tra crisi istituzionale e controversie ideologiche (1914-1919). Il periodo che va sotto il nome di Giolittismo comprende molti aspetti del primo Novecento politico italiano. Lo strappo determinato dall’intervento in guerra dell’Italia è la prima tangibile manifestazione di chiusura del sistema giolittiano. Attorno alla figura dello statista piemontese si era radunato in Parlamento un gruppo neutralista, ma incapace di essere punto di forza dell’orientamento politico. Nei convulsi giorni di maggio, in cui l’Italia entrò in guerra si ebbe l’opportunità di verificare lo scambio tra due tendenze politiche. Il più attivo agitatore degli interventisti fu Gabriele D’Annunzio. Il 13 maggio, dopo che dei dimostranti avevano cercato di irrompere a Villa Malta, residenza del tedesco Bulow, il Vate arringava contro Giolitti incitando alla violenza contro i traditori della Patria. Uno spettacolo teatrale si trasformò in comizio, dove il poeta usò parole di fuoco contro lo statista accusandolo di essere in combutta con lo straniero. Qualche giorno dopo che Giolitti aveva abbandonato Roma e Montecitorio, D’Annunzio arringava il popolo romano. Con la riapertura della tornata parlamentare, il Presidente Salandra introduceva nuove misure volte a tutelare la salute pubblica e la difesa dello Stato. Il parlamento divenne una tribuna propagandistica impedendo, di fatto, all’opposizione di svolgere il proprio ruolo. È emblematica la discussione che seguì Caporetto, innescata dopo la pubblicazione degli Atti della Commissione d’inchiesta che aveva fornito uno strumento ai seguaci di Giolitti per individuare i responsabili della crisi italiana e addebitare tutti gli errori al Generale Cadorna. Ciò serviva per isolare la destra liberale e ravvivare il fronte socialista. Il gruppo socialista, infatti, diversamente dagli esponenti giolittiani, non ebbe molti miglioramenti e il gruppo in Parlamento era formato da una minoranza riformista. La sintesi verso l’intervento in guerra fu fornita dal discorso di Turati. Giolitti torna sulla scena politica nell’ottobre del 1919, rompendo il silenzio pubblico e un esilio volontario. Occorreva però una seria rilettura degli ultimi anni. Il paese era vittorioso ma stremato, il disastro economico evidenziava come l’interventismo non fosse stato disinteressato, ma avesse avuto il sostegno di potentati economici. Quattro anni di poteri eccezionali nelle mani del governo avevano compromesso la libertà parlamentare, ma esautorare il Parlamento significava favorire l’avvento del proletariato. Salandra fu colpito dal cambio di registro dell’avversario politico; Giolitti tornava con la lettura dei fatti chiedendo al governo responsabile del conflitto di dare il giudizio agli elettori. Escludere il popolo che aveva patito così tanto in termini di vite umane da decisioni importanti non era più pensabile. La critica di Giolitti però era quella di un politico arroccato nelle sue certezze e la conseguenza fu l’impossibilità di dare seguito ad ambiziosi programmi; ciò aprì un dramma istituzionale che si concretizzò con l’avvento del fascismo.

Il secondo saggio è di Maria Sofia Corciulo, Il Comitato Segreto della Camera dei Deputati (13-18 dicembre 1917). Il saggio passa in rassegna l’ampia diminutio dei poteri parlamentari negli anni 1914-1918, esamina il lungo e sofferto dibattito che si tenne in Parlamento in occasione dell’entrata in guerra dell’Italia e si concentra sulla nascita, all’indomani della disfatta di Caporetto, di un Comitato segreto, costituito il 13 dicembre 1917, per accelerare i lavori della Camera. Infatti, al fine di evitare dibattiti inconcludenti e disordinati, si stabilì che essi vertessero sulle recenti, tragiche vicende militari, strettamente connesse alla politica estera, e le discussioni furono così più spedite ed efficaci, fino al 18 dicembre. Tuttavia, ancora una volta, si notò che la mancanza di norme regolamentari sui Comitati Segreti doveva essere al più presto sanata (una proposta in tal senso sarà presentata l’anno seguente, il 13 febbraio 1918). Il saggio riporta i passaggi più rilevanti e significativi del lavoro del Comitato segreto. Grazie anche ai dibattiti, iniziati in Comitato Segreto e proseguiti in Assemblea, dopo Caporetto, la tattica militare venne in parte mutata; il vitto dei soldati, spesso insufficiente, fu migliorato ed estremamente rare furono le decimazioni dei militi considerati indisciplinati. Certamente anche per questi “ripensamenti” l’esercito italiano si riprese e si batté con coraggio sulle sponde del Piave riscattando i fatali errori dell’Ottobre 1917.

Il terzo contributo del libro è quello di Luigi Montonato, Spagnuola, l’epidemia del 1918 uccise più della Grande Guerra. Ricerca sulla stampa dell’epoca, che si occupa della epidemia detta all’inizio febbre primaverile, poi estiva, influenza da soldato, febbre dei mitraglieri e poi spagnuola, che colpì l’Italia e tutto il mondo, fra il 1918 e il 1919 e che fece più morti della stessa guerra mondiale. Oltre a descrivere gli aspetti sanitari, il saggio offre una ricerca sulla stampa dell’epoca, rivelando come i mezzi di informazione si occuparono della terribile pandemia. Se ne ricava che il Paese fu praticamente abbandonato a se stesso. Lo si riscontra leggendo le cronache dei giornali dell’epoca, che, pur contenute e prudenti, a volte censurate, danno l’idea della situazione reale in cui versavano le popolazioni da Nord a Sud, nei centri urbani e nelle periferie. Il governo, che pur si sforzava di far fronte alla gravissima emergenza, era oggettivamente in difficoltà e insisteva nelle raccomandazioni sul rispetto delle misure di igiene e sulla fiducia che l’epidemia sarebbe passata come altre precedenti, sostanzialmente perché altro non si poteva fare.

Il contributo di Fiorenza Taricone tratta di Teresa Labriola e l’interventismo italiano. Unica figlia femmina del filosofo Antonio Labriola, intellettualmente molto dotata, Teresa Labriola è stata una delle teoriche del femminismo italiano. Prima donna laureata in giurisprudenza, non fu ammessa all’esercizio dell’avvocatura perché l’accesso a tale professione era vietato alle donne dal Codice Pisanelli. Fu necessaria una guerra mondiale perché le donne potessero accedere a tutte le professioni, ma con vistose eccezioni. La Labriola fu tra le pochissime intellettuali a tentare una sintesi del pensiero femminista, scomponendolo fino a individuare il nucleo teorico e la matrice ideologica delle varie correnti, iniziate nel XVIII secolo sulla scia della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Infatti, considerava il movimento femminista “l’ultima ed estrema punta del moto più generale dell’intera società dell’Occidente europeo”. Per il femminismo rivendicò la dignità del pensiero; inoltre fu favorevole all’interventismo femminile italiano. Saggista e pubblicista prolifica, la sua produzione corre su un doppio binario: uno di carattere teorico-filosofico e l’altro emancipazionista-femminista. Dopo la morte del padre, iniziò un percorso politico e intellettuale diverso, convertendosi al nazionalismo, che diventò per lei un credo politico, e all’interventismo, convinta che le donne costituissero una mobilitazione civile indispensabile per la guerra stessa. Il suo insistente rivolgersi alle donne era motivato dalla convinzione che la nazione fosse stata da sempre retta e governata dagli uomini e questo inveterato sistema di potere impedisse alle donne di sviluppare pienamente sé stesse e di avere un ruolo fattivo nella società che stava nascendo. La Labriola lottava affinché le donne acquisissero una maggiore coscienza di classe, prendessero contezza dell’importanza della partecipazione civile e tenessero il costante contatto con le classi direttrici della produzione. Nonostante la sua conversione al fascismo, non ebbe grandi onori in vita, anche perché continuamente oscurata dalla fama del padre, la cui eredità si dimostrò troppo pesante per lei che, sempre più fragile psicologicamente, morì, quasi settantenne, in ristrettezze economiche nel febbraio del 1941.

Si passa al saggio di Paolo Vincenti, Luci ed ombre nella partecipazione delle donne salentine alla Prima Guerra Mondiale. La partecipazione delle donne alla Guerra ha dimostrato come il loro impegno sia stato ampio e variegato, determinando un concreto passo verso l’emancipazione femminile. È emerso un universo femminile prismatico che, oltre ai settori più tradizionali, come quello dell’assistenza e del maternage, ha riversato il proprio impegno in molti altri campi che fino ad allora erano di esclusiva pertinenza maschile. Certamente, la presenza femminile era più numerosa nell’assistenzialismo sia cattolico che laico. Le donne appartenenti all’aristocrazia e all’alta borghesia fondarono e parteciparono a diverse associazioni di beneficenza nel Salento come in tutta Italia. Molte infermiere partirono per le zone di guerra, con l’autorizzazione del padre, mentre la figura delle “madrine di guerra” nasce con lo scopo di tenere alto il morale delle truppe e di far sentire meno soli i soldati al fronte; spesso le madrine di guerra adottavano questi soldati come figliocci per la durata del conflitto. Quelle più giovani intraprendevano una corrispondenza epistolare che non di rado portava all’innamoramento e quindi al fidanzamento o al matrimonio. Molte furono le crocerossine anche nel Salento, così come le “Dame di Carità”, promotrici di iniziative benefiche a favore dei soldati feriti o mutilati o degli orfani e delle vedove di guerra. Molte donne furono impegnate nel campo intellettuale come insegnanti, scrittrici, giornaliste. In assenza degli uomini, si sostituirono a loro nel lavoro nei campi; nelle città le donne entrarono nell’industria metallurgica, meccanica, costituendo un’alta percentuale di presenze alla fine della guerra. Molte si impegnarono direttamente al fronte, come le Portatrici Carniche, che operarono lungo il fronte della Carnia, si arrampicavano sulla montagna trasportando con le loro gerle rifornimenti e munizioni fino alle prime linee italiane ed esponendo a rischio la propria vita. Questa emancipazione si rivelò un’arma a doppio taglio; infatti, quasi sempre la partecipazione attiva delle donne al mondo del lavoro era sinonimo di sfruttamento, considerato che il salario si manteneva più basso rispetto alle ore lavorative. Al di là del grado sociale e culturale, le donne si trovarono coinvolte in un evento che ridisegnò ruoli e percorsi sia in campo politico, che sociale ed economico. Il conflitto fu molto lungo ed esse furono capaci di inscenare plateali manifestazioni di ribellione, a favore della pace, manifestando in tutto il Paese, violando atavici tabù. Ma queste agitazioni furono fortemente contrastate dal potere costituito e ci fu una ferma volontà, sia da parte della stampa che del governo, di farle passare sotto silenzio, pur di non dar voce alle protagoniste. Nonostante ciò, le donne riuscirono ad appropriarsi di un ruolo attivo che non avevano mai avuto.

È sempre a firma di Paolo Vincenti, il saggio Il soldato ruffanese Rocco Gnoni, vittima delle fucilazioni sommarie nella Prima Guerra Mondiale. Nella storia della Prima Guerra Mondiale è annotata una pagina tra le più inquietanti, quella delle fucilazioni sommarie, che vide molti soldati morti per repressione interna, uccisi dall’esercito italiano per insubordinazione, resistenza agli ordini, diserzione e altro. In guerra non si moriva solo di fame, freddo, stenti, ma anche in seguito a processi sommari nei quali i soldati venivano mandati alla sbarra per futili motivi e con estrema facilità condannati, assolvendo alla funzione di capro espiatorio. Quel che è peggio è che questi severi provvedimenti venivano lasciati al libero arbitrio degli ufficiali sul campo, costretti a decidere per non essere oggetto a loro volta di provvedimenti disciplinari. La dura repressione partì da una circolare del generale Cadorna che prevedeva per l’esercito una ferrea disciplina e una dura risposta agli atti di insubordinazione. Gli ufficiali erano costretti a essere inflessibili con i sottoposti, ma anche i giudici dei 117 tribunali militari erano spesso richiamati a una maggiore severità. Fra le tante vittime della giustizia sommaria, anche un soldato salentino: Rocco Gnoni. L’ordine di fucilazione fu impartito dal Comando della seconda armata il 3 novembre 1917, proprio quando i reparti si apprestavano ad abbandonare Pordenone. Sconosciuta la motivazione della sentenza, mentre l’Albo d’oro dei caduti della Grande Guerra dice di lui che fu disperso in battaglia il 30 ottobre, nel ripiegamento al Piave. Anche il foglio matricolare annota “disperso” e rilascia dichiarazione di irreperibilità. Ed è così che viene ricordato nella targa del monumento ai caduti del suo paese, Torrepaduli, frazione di Ruffano. L’autore ricostruisce minuziosamente la parabola del soldato Gnoni attraverso la compulsazione di fonti anche minime, per ristabilire la verità dei fatti. Nel 2016 è stato organizzato un incontro presso l’Istituto Comprensivo di Ruffano per ricordare tutti coloro che sono stati fucilati da mano amica e il relatore e i docenti hanno cercato di far luce sulla vicenda di Rocco Gnoni. La sua vedova raccontava ciò che un reduce le aveva riferito: mentre il marito era a rifocillarsi in una osteria dopo le dure battaglie, fu redarguito da un ufficiale a cui, forse, rispose in modo irrispettoso. Nel 2015, gli onorevoli Zanin e Scanu hanno proposto una legge sulla riabilitazione di questi caduti della Prima Guerra Mondiale, eroi minori di una beffarda tragicommedia.

Segue il contributo di Anna Maria Andriani, Li cunti te lu focaliri. Fra i percorsi della memoria collettiva. L’indagine storiografica contemporanea ha aperto un dibattito sulle nuove fonti relative ad aspetti inediti della Grande Guerra: ad esempio, quali strategie dovette adottare l’Italia, dapprima neutrale, per coagulare una coscienza patriottica e nazionale in grado di sostenere un conflitto dai costi umani e finanziari imprevedibili. Aspetti messi in luce grazie al ricorso a materiali e documenti non “canonici” o all’indagine sui “dimenticati” della storia, i dispersi, i prigionieri. Con specifico riferimento alla riflessione di Pierre Nora su “i luoghi della memoria”, alla Convenzione Unesco (2003) sulla tutela del patrimonio immateriale culturale, alle metodiche della Oral History, l’autrice ha impostato il proprio progetto di ricerca finalizzato alla raccolta di “storie di vita” vissuta. I racconti dei “ricordi” dei Reduci della Grande Guerra narrati dai figli o dai nipoti costituiscono la fonte orale utilizzata. Sono racconti di gente comune, illetterata per lo più, che colpiscono per la modestia dei mezzi espressivi e l’efficacia delle loro narrazioni. L’autrice apre pure una interessante digressione sui temi del racconto/ricordo/memoria/narrazione. Nella memoria collettiva, la Grande Guerra entra dunque in scena anche con i racconti dei ricordi dei reduci, ambientati in alcuni luoghi del conflitto. Tale tipologia testuale può arricchire la documentazione storica sulla Prima Guerra Mondiale e incentivare la ricerca di fonti, ora finalmente riconosciute dalla storiografia ufficiale. Si tratta dell’esperienza di uomini comuni ricostruita attraverso il racconto di chi ha raccolto i loro ricordi di guerra. Da qui l’indicazione di “racconti accanto al fuoco” (li cunti ti lu fucaliri), raccolti cioè dalla voce dei “vecchi”, che usavano narrare la vicenda bellica vissuta nelle sere d’inverno, quando la famiglia si stringeva accanto al caminetto. Per ragioni anagrafiche, i racconti proposti non sono riferiti dai protagonisti (nel testo chiamati “Attanti”), ma da coloro che li hanno ascoltati, indicati perciò come “Narratori”. Il ricordo appartiene a chi ha vissuto l’evento, la memoria è però anche di chi lo ha sentito raccontare. E la Storia è studio e interpretazione del passato, di cui fanno parte tanto la memoria quanto il ricordo legati in un rapporto a spirale. Il racconto del ricordo segna la rivincita della storia; nel tempo l’uomo segnato -protagonista-narratore – diventa “attante” e l’ascoltatore si fa, a sua volta, narratore. È significativo che tra le nuove fonti della storia, il racconto, in cui si intrecciano verità partecipata soggettiva e accadimento storico oggettivo, sia stato annoverato con tutti i crismi. Infine, l’autrice deplora l’assenza dei “racconti” e dell’affabulazione nella società odierna, in cui la famiglia è stata travolta dalla rivoluzione tecnologica e mediatica e anche le piazze e i centri storici sono stati svuotati delle funzioni aggregative loro proprie.

Il saggio di Pasquale Guaragnella, Paesaggi di guerra e visioni di sofferenza e di morte. Su alcune novelle dell’ultimo De Roberto, analizza l’opera Novelle dello scrittore siciliano Federico De Roberto. Pur non avendo partecipato alla Grande Guerra, De Roberto si dimostra un ottimo conoscitore di cose militari, per esempio nella novella Lo scrittore, in cui appare magistrale la descrizione del paesaggio invernale montano. Un paesaggio di incredibile suggestione, per chi era vissuto in collina o in pianura. Un incredibile contrasto era quello che si veniva a creare nella mente dei soldati fra il senso di orrore e la scoperta della frontiera e di quegli incantevoli paesaggi. I soldati si chiedevano come mai si poteva morire in luoghi simili, e nelle lettere che spedivano ai parenti si evidenziava una duplicità: essi cioè indossavano una doppia divisa per il freddo, ma anche una duplice personalità, quella del combattente e quella dello scalatore, quella del sottoposto e quella del superiore. La montagna stabiliva dei ruoli: l’esperienza del montanaro e il sapere delle gerarchie militari. Infatti basta leggere l’altra novella, Il Trofeo, in cui vi è un confronto tra due ordini di esperienze e di saperi, per cogliere la rappresentazione di un duplice paesaggio, quello del fronte di guerra e quello familiare di casa. Ne La posta, la novella più intensa di De Roberto, si incontra la partecipazione umana del soldato Valastro che nonostante l’imperversare delle granate si illude di essere al suo paese con i suoi cari, proprio nel momento in cui incombe su di lui la mala sorte. Una granata lo uccide e la scena che descrive il corpo del soldato senza vita ha un non so che di religioso, ed è qui che si riconosce la duplicità dell’arte narrativa di De Roberto; la rappresentazione della morte del soldato, a guerra ormai conclusa, risente della rielaborazione del lutto e della memoria. Il recupero del corpo del giovane fante offre a De Roberto l’occasione per mettere in scena ciò che potrebbe essere una deposizione. Il corpo del soldato è ridotto in brandelli; è la violenza della guerra tecnologica che rende irriconoscibili i corpi, creando una specie di separazione corpo-nome, che poi nel primo dopoguerra dà l’avvio alla monumentalizzazione del “milite ignoto”. Non sarà ignoto il protagonista della novella di guerra più nota dello scrittore siciliano: La paura, racconto che costituisce una notevole eccezione rispetto allo spirito bellicistico così dominante in quegli anni nella nostra cultura, per la sua dura denuncia degli orrori della guerra. Anche questa novella non è molto diversa dalle altre. Si apre con una interessante descrizione del paesaggio a cui seguirà quella dei soldati che carponi devono raggiungere la postazione di vedetta e che vengono colpiti da un invisibile cecchino nemico. Il soldato Morana, famoso per i suoi atti di coraggio, è colto dalla paura e rifiuta di ubbidire al tenente Alfani, dopo che ha visto morire cinque suoi compagni. Nonostante questo rifiuto comporti di morire di fronte a un plotone di esecuzione, egli sceglie una terza via: quella del suicidio. L’uomo è solo e abbandonato, senza patria, senza familiari, senza regole. Questa novella, che De Roberto invia alla redazione de “La Lettura”, viene rispedita al mittente con molto dispiacere dal direttore Renato Simoni perché avrebbe certamente, una volta pubblicata, trovato nei lettori molte opposizioni per un argomento così scabroso. Ma non c’è dubbio che La paura sia una perfetta opera d’arte.

La Grande Guerra fu tale anche per il coinvolgimento delle comunità civili, comprese quelle più distanti dal fronte. Grandi e piccoli dovevano sentirsi partecipi della difesa della Patria, attraverso i mezzi di persuasione propri della propaganda dell’epoca, tra i quali, per i ragazzi, le copertine dei quaderni di scuola. La grafica aveva una straordinaria carica comunicativa. Su questo argomento verte il contributo di Francesco Carone, La Grande Guerra raccontata da quaderni scolastici e dalla stampa popolare. Attraverso la scuola erano veicolati i modelli educativi funzionali al potere politico: particolare attenzione era data alle letture al fine di suscitare emulazione e ammirazione per i soldati al fronte. Le immagini di Achille Beltrame per la «Domenica del Corriere» venivano utilizzate per illustrare il conflitto sui quaderni scolastici, quaderni che oggi possiamo considerare “luoghi della memoria”. Ovvio che la realtà della guerra era ben diversa da quella “eroica” raffigurata sulle loro copertine. L’autore offre quindi una disamina di alcune fra le immagini (desunte dall’archivio privato Monaco-Filotico di Oria) più ricorrenti sui quaderni di scuola, per instillare nei discenti spirito patriottico, ardimento militare, devozione alla Casa Savoia, circonfusa di un’aura sacrale in quanto artefice dell’unità d’Italia. È riportata una immagine di copertina con Vittorio Emanuele III, il “re soldato”, che consuma una colazione con semplici militari: atteggiamenti che lo resero molto popolare tra i fanti contadini, oppressi dalla vita di trincea e dagli attacchi suicidi contro il fronte nemico. Le figure del re o della regina madre, Margherita, contribuivano a coagulare il consenso alla guerra e a rafforzare quella identità nazionale che si veniva costruendo sui campi di battaglia, dove milioni di uomini, di ogni parte d’Italia, si sentivano uniti nel medesimo compito per la difesa della Patria. «La patria diventa la realtà delle masse in combattimento e la Grande Guerra trasforma un esercito di contadini in un esercito di italiani che, attraverso i quaderni scolastici, consente alla scuola di sviluppare un nuovo senso di appartenenza, educando i giovani ad una nuova cittadinanza attiva e responsabile». Oltre che esaltare le azioni belliche di alpini e bersaglieri, le illustrazioni educavano gli alunni anche al senso del sacrificio e del risparmio, finalizzati al prestito nazionale. I piccoli potevano concorrere offrendo i propri salvadanai, come mostravano le vignette di giornali e quaderni. «Anche le materie scientifiche come la matematica vedevano la guerra come assoluta protagonista: i bambini facevano i conti sugli effettivi dell’esercito italiano in rapporto a quelli dei nemici oppure sul costo quotidiano di un soldato; l’insegnamento delle scienze, poi, si fondava sullo studio delle armi da guerra e, in particolare, del carro armato e dei gas chimici». Caratteristica delle illustrazioni per i ragazzi era, per così dire, l’anonimato e la stereotipia dei luoghi riprodotti, senza riferimento a località familiari, in quanto le immagini dei quaderni dovevano rispondere unicamente all’esigenza promozionale di una guerra necessaria per il bene della Patria e per infondere i valori dell’eroismo e del dovere alle giovani generazioni.

Il filone della monumentalistica bellica nasce all’indomani della Prima Guerra Mondiale, per l’esigenza di elaborare il lutto e commemorare i tanti eroi caduti per la Patria. Di questo si occupa Paolo Vincenti nel suo “L’ombra sua torna ch’era dipartita”. Il culto dei caduti in Terra d’Otranto nelle opere di Antonio Bortone. Nell’Italia del Nord, oltre ai monumenti, sorsero Ossari e Sacrari, dato l’altissimo numero di vittime non identificate. A tutte queste vittime senza nome venne dedicato il grande monumento del Milite Ignoto a Roma, presso l’Altare della Patria. Nel resto d’Italia, sorsero viali e Parchi della Rimembranza e moltissimi monumenti dedicati ai caduti. Con il monumento, si creava una unione di intenti fra Stato e cittadini. Oggi sono più di 12.000 i monumenti, commissionati dalle amministrazioni locali e collocati nelle piazze dei vari paesi d’Italia; dal monumento equestre, tipico prodotto dell’arte risorgimentale, si passò alla stele o Vittoria Alata. Ma furono svariate le tipologie di soggetti scelti per i monumenti: cippi, lapidi, obelischi, aquile, soldati, non sulla base di una lettura stilistica, ma la scelta fu operata dai comuni in base alla disponibilità economica. Il culto di onorare i caduti nacque con l’avvento del Fascismo che con una mirata ed efficace polarizzazione del consenso, indirizzò la propria propaganda all’istituzione del ricordo. Nel 2017 l’ICCD ha terminato la catalogazione dei monumenti, definendo attribuzioni, datazioni e tipologie. Anche la Terra d’Otranto diede un notevole contributo alla causa. Fra i vari artisti, alcuni persino sconosciuti, lo scultore ruffanese, ma fiorentino d’adozione, Antonio Bortone fu tra coloro che realizzarono il maggior numero di opere sul tema, fra Parabita, Ruffano, Tuglie, Calimera, oltre a busti e targhe sparsi in tutta la provincia di Lecce. L’autore passa in rassegna le opere bortoniane soffermandosi sul particolare valore simbolico delle loro iconografie. All’indomani della caduta del Fascismo, poi, un moto generale di riprovazione coinvolse anche i monumenti ai caduti, che furono identificati con la propaganda del regime e per questo coinvolti nel totale rigetto di simboli, immagini, rituali e di tutto ciò che si identificava col fascismo.

Maria Antonietta Bondanese offre il saggio Religiosità e devozione di militi supersanesi nella Grande Guerra. Nel contesto della sconvolgente esperienza collettiva del Primo conflitto mondiale, è ricordato il toccante gesto di undici soldati di Supersano: la raccolta di una somma di denaro inviata al Parroco del paese per “funzioni sacre” in onore di San Michele Arcangelo, patrono del piccolo centro salentino. La lettera dei militi, recante sul retro, in minuta, la risposta del sacerdote, rimase per anni custodita nel cuore d’argento pendente dall’impugnatura della spada dell’arcangelo. Attestazione dell’umile religiosità di uomini che, travolti dalla bufera della storia, cercarono scampo nella fede.

L’ultimo intervento del libro è quello di Federico Carlino, Un eroe leccese della Grande Guerra, in cui si ripercorre la storia di Umberto Colamussi, eroe nella Prima Guerra Mondiale, che l’autore definisce “uno di questi tanti, innumerevoli Eroi, che hanno sacrificato la loro giovane vita per la Patria”. Si ricostruisce la biografia di Colamussi e le sue gesta, utilizzando come fonte principale il volume Fabrizio Colamussi intellettuale europeo, a cura di Lorenzo Carlino e Alessandro Laporta, edito nel 2009 dalla SSPP, Sezione di Lecce. Colamussi è stato inserito nella lista dei militari salentini riportata sul Monumento ai Caduti del Maccagnani in Piazza d’Italia, a Lecce, inaugurato il 28 ottobre 1928. Un’altra lapide dove Umberto Colamussi è ricordato si trova sotto il porticato del Liceo Palmieri in Piazzetta Carducci.

 

STORIA E STORIE DELLA GRANDE GUERRA ISTITUZIONI, SOCIETÀ, IMMAGINARIO DALLA NAZIONE ALLA TERRA D’OTRANTO

A CURA DI MARIO SPEDICATO E PAOLO VINCENTI

SOCIETÀ STORIA PATRIA PUGLIA SEZIONE DI LECCE, NOVOLI, ARGOMENTI EDIZIONI, 2020, PP. 240.

Gesuiti salentini e i fratelli Antonio e Angelo Stefanizzi

di Alfredo di Napoli

 

Voluto dall’Associazione Autori Matinesi e dal Centro Studi Aldo Bello di Matino, è stato recentemente pubblicato, per le cure di Paolo Vincenti, A Maggior Gloria di Dio. I Fratelli Antonio e Angelo Stefanizzi: da Radio Vaticana allo Sri Lanka.

Il libro ripercorre la vita e la carriera di due straordinari personaggi, entrambi gesuiti e originari della città di Matino: Padre Antonio, tecnico e scienziato, e Padre Angelo, missionario in Sri Lanka e operatore di pace.

Un libro interessante che fa luce sulla vita di due gesuiti contemporanei, ma si pone in ideale continuità con la ricerche proficuamente avviate dal curatore del libro e con un filone di studi inaugurato già da alcuni anni dalla Società di Storia Patria di Lecce teso alla rivitalizzazione di numerose figure dei gesuiti del passato, come sottolinea Mario Spedicato, Presidente della SSPP, Sezione di Lecce, che firma la Prefazione del libro.

Scrive Spedicato: “In questi ultimi anni la ricerca storica ha focalizzato l’attenzione sul ruolo esercitato da non pochi salentini nel settore della scienza, delle arti e dello sviluppo economico-sociale. Sono stati disseppelliti uomini di grande e indiscutibile valore culturale di cui si era persa la memoria, caduti nell’oblio per una colpevole distrazione. Sono emersi via via dalla polvere degli archivi personaggi cui il Salento dovrebbe essere fiero di aver dato i natali, ma che per ragioni oscure sono stati a lungo relegati nel dimenticatoio. La sorpresa più grande è stata quella di scoprire che un numero sempre crescente di queste straordinarie figure si sono formate nella Compagnia di Gesù. Hanno scelto di abbracciare la religione di S. Ignazio di Loyola e di servire la Chiesa in ogni parte del mondo, gesuiti che in modo particolare hanno svolto la loro missione evangelizzatrice lontani dal Salento, ma del Salento sono rimasti fulgida espressione […] Abbiamo iniziato con l’emersione di due gesuiti che sono saliti agli onori degli altari, Francesco de Geronimo di Grottaglie e il salentino di adozione Bernardino Realino, poi recuperato un gesuita di San Cesario di Lecce, Adriano Formoso, missionario in Sud America nel ‘600, rivalutato un altro gesuita missionario di Martina Franca, Michele Salpa, fondatore nel 1610 dell’Università degli Studi di Vilnius in Lituania, e, per ultimo, riscoperto un gesuita di Ruffano, Sabatino de Ursis, missionario e scienziato nella Cina dei Ming.

Ora questo quadro storiografico si arricchisce del lavoro di Paolo Vincenti sui due gesuiti Stefanizzi, interessanti figure del recente passato che danno lustro alla città di Matino, centro che ha dato loro i natali”.

Nel libro, dopo il Saluto del Sindaco della Città di Matino, Giorgio Toma, e l’Introduzione del Presidente dell’Associazione Autori Matinesi, Cosimo Mudoni, Custodi di memorie condivise, si trova un intervento di Don Giorgio Crusafio, decano dei prelati matinesi, Padre Angelo e Padre Antonio Stefanizzi: due frutti della nostra terra. Don Giorgio riporta una testimonianza di affetto e di fede con curiosità ed aneddoti legati alle due figure dei gesuiti suoi concittadini. Dopo la Prefazione di Spedicato, si apre il saggio di Francesco Frisullo e Paolo Vincenti, intitolato La Lunga Vita di Padre Antonio Stefanizzi, gesuita scienziato, in cui si riscostruisce il profilo bio-bibliografico di Padre Antonio.

Egli è scomparso il 4 ottobre 2020 a Roma all’età di 102 anni, di cui ben 87 vissuti nella Compagnia di Gesù. La stampa nazionale ha dato grande risalto alla notizia della sua scomparsa. Era nato il 18 settembre 1917 in una famiglia numerosa, composta di sette figli, dei quali due, Antonio ed Angelo, indossano l’abito di Sant’Ignazio, e una sorella, Agata, nata nel 1924, diventa suora dell’ordine di Nostra Signora del Cenacolo (è morta a Torino nel 2017). Aveva fatto studi umanistici, ma anche scientifici, tant’è vero che nel 1949 si trasferisce per un corso di perfezionamento negli Stati Uniti, precisamente a New York, alla Fordham University, tenuta dai Gesuiti. Negli USA segue i corsi del professor Victor Hess, premio Nobel quale scopritore dei raggi cosmici. Gli autori della ricerca hanno trovato svariate fonti a stampa americane che parlano di Padre Antonio. Insegna matematica e fisica alla Pontificia Università Gregoriana di Roma e il 24 marzo 1953 viene nominato Direttore della Radio Vaticana. Tocca proprio a lui sovrintendere anche tecnicamente, il 15 agosto del 1954, alla prima trasmissione radiofonica della preghiera dell’Angelus da parte di un Papa. Nel gennaio del 1959 Papa Giovanni XXIII annuncia il Concilio Vaticano II e nel novembre dello stesso anno istituisce la Commissione sui “Mezzi moderni di apostolato”, con il compito di analizzare il ruolo dei nuovi mezzi di comunicazione e la loro valenza pastorale; della Commissione, guidata dal Gesuita Enrico Baragli, fa parte anche Padre Antonio. Ha non solo contribuito tecnicamente alla diffusione del Concilio Ecumenico Vaticano II, ma ne è stato attore in prima persona. Come esperto di tecnica radiofonica e di telecomunicazioni satellitari, Padre Antonio partecipa a Washington, in rappresentanza della Santa Sede, all’avvio nel 1964 dell’Intelsat (International Telecommunications Satellite Consortium), la prima organizzazione intergovernativa mondiale per lo sviluppo e la gestione delle telecomunicazioni via satellite, di cui la Città del Vaticano era uno degli 11 Stati fondatori. Nell’ottobre 1965, nella storica visita che Paolo VI compie negli Usa tenendo il suo discorso all’ONU, Stefanizzi fa parte del seguito papale.

Nel saggio si sottolinea anche l’importante ruolo svolto da Radio Vaticana sotto la sua direzione negli anni della Guerra Fredda, quando è stata di fatto l’unico strumento che è riuscito a rompere la cortina di ferro; il messaggio del Papa giungeva attraverso l’etere alla cosiddetta “Chiesa del Silenzio” che ha continuato a operare in quegli anni con grandi sacrifici e con spirito di martirio nell’Europa comunista. Padre Stefanizzi contribuisce anche all’organizzazione e all’ampliamento della grande stazione radiofonica cattolica installata a Manila, nelle Filippine, denominata Radio Veritas, con la missione di far risuonare la voce cattolica nelle Filippine, Giappone, Cina, Indonesia e in tutto il Sud- Est Asiatico. Molto intensa anche l’attività culturale di Padre Antonio, ricostruita nella bibliografia che segue il saggio. In particolare egli è assiduo collaboratore della rivista «La Civiltà Cattolica»; è autore del libro, Le nuove tecnologie di comunicazione. Valutazioni e prospettive (1983), ed escono a sua cura diverse pubblicazioni edite da Radio Vaticana durante gli anni della sua direzione.

Studioso e al contempo conduttore radiofonico, sulla scia di Guglielmo Marconi (1874-1937), che può essere considerato il fondatore di Radio Vaticana insieme a Padre Giuseppe Gianfranceschi (1875-1934), che fu il primo direttore. È stato anche membro del Consiglio di Amministrazione del CTV (Centro Televisivo Vaticano) fino al 1997, quando riceve una bella lettera gratulatoria da Papa Giovanni Paolo II. Viene messo in congedo nel 2010 e, come già detto, scompare nel 2020. Nel saggio si ripercorre anche il suo rapporto con la città di Matino soprattutto grazie alla testimonianza di Don Giorgio Crusafio. Prendendo spunto dalla formazione scientifica di Padre Antonio, Francesco Frisullo e Paolo Vincenti dedicano il saggio successivo, Uomini di scienza e di fede, ad un excursus sulle principali figure di gesuiti scienziati nella storia, con particolare riferimento ai salentini.

Si passa quindi a Padre Angelo. Con il saggio Padre Angelo Stefanizzi, il Gandhi dello Sri Lanka. Una biografia spirituale, Frisullo e Vincenti tratteggiano un completo profilo del missionario salentino. Angelo Stefanizzi, missionario per moltissimi anni in Sri Lanka, nasce il 2 ottobre 1919. Come il fratello Antonio, anch’egli entra nella Compagnia di Gesù. Nel 1948 parte per l’India, dove l’anno successivo viene ordinato sacerdote. Dopo aver compiuto gli studi di teologia, nel 1952, intraprende l’attività missionaria nel centro-sud dello Sri Lanka, prima a Yatiyantota come viceparroco, in seguito a Dehiowita, nel 1967, e poi a Maliboda, nel 1983, come parroco.

Egli parlava correntemente tre lingue: inglese, singalese e tamulico. Si dedica all’assistenza della povera gente, in particolare dei lavoratori nelle piantagioni di the a Tamil, e all’assistenza dell’infanzia abbandonata e delle ragazze disagiate, oltre che alla tutela del lavoro, promuovendo nel territorio la formazione professionale per i giovani e avviando preziose esperienze di scuola-lavoro. Si ascrivono a suoi grandi meriti l’avere lavorato alla pacificazione dello Sri Lanka, insanguinato per molti anni da una fratricida guerra civile, e l’aver messo in comunicazione le diverse fedi religiose presenti sul territorio, cosa che gli valse l’appellativo di “Padre Gandhi” con cui era conosciuto. Gli autori poi riservano una doverosa attenzione ad altri due gesuiti matinesi, padre Giuseppe Angelè e padre Cosimo Guida, precursori di padre Angelo nella missione in Sri Lanka, dei quali si ricostruiscono le vicende biografiche con notizie inedite. Padre Stefanizzi ritornò a Matino in occasione del suo cinquantesimo di sacerdozio, nel 2000, festeggiato da tutta la comunità del suo paese. Muore nel febbraio del 2010 e la stampa nazionale indiana dà grandissimo risalto alla notizia.

Ovunque egli viene ricordato in concetto di santità. Come già per Padre Antonio, anche per Padre Angelo viene riportata una utile bibliografia degli scritti. Padre Angelo si pone in continuità con altre figure di gesuiti missionari nell’estremo Oriente, molte delle quali segnalate da Francesco Frisullo e Paolo Vincenti nel saggio successivo: Missionari gesuiti pugliesi in Estremo Oriente e storia della missione dello Sri Lanka. In particolare, gli autori si soffermano sulle figure di missionari pugliesi e salentini come Vincenzo Antoglietta, Francesco Riccio, Giuseppe di Mesagne, Giovanni Andrea Lubelli, Giovanni Giuseppe Costa, ecc. Un utile excursus è quello che dedicano alla storia dell’isola che ha accolto la missione di Padre Angelo.

Nel saggio intitolato Gesuiti salentini in America, Frisullo e Vincenti, sulla scorta del viaggio di Padre Antonio nel Nuovo Continente, offrono una rapida carrellata di gesuiti salentini che lo hanno preceduto nella missione degli Stati Uniti. Si tratta di missionari fra Ottocento e Novecento, come Vincenzo e Vito Carrozzini, Alessandro Leone, i due fratelli Salvatore e Carlo Personè, Eugenio Vetromile, Donato Maria Gasparri, ed altri.

Segue poi un saggio di Livio Ruggiero sugli esperimenti scientifici dei gesuiti sull’elettricità a Lecce fra Ottocento e Novecento, e, nel segno del formidabile binomio scienza e fede, che per tutta la vita hanno coniugato i fratelli Stefanizzi, offre una approfondita riflessione Maria Antonietta Bondanese nel saggio successivo. Completa il volume, curato graficamente da Donato Stifani, una Appendice fotografica.

Il libro è stato presentato a Matino il 17 settembre 2020, presso la Chiesa Madre “San Giorgio”, alla presenza di Cosimo Mudoni, Presidente dell’Associazione che ha patrocinato la pubblicazione, del Sindaco Giorgio Toma, del parroco Don Andrea Danese, del professor Mario Spedicato, di Don Giorgio Crusafio e del curatore Paolo Vincenti, al quale va il merito di avere segnalato alla nostra attenzione così alti e nobili esempi di religiosità salentina nel mondo. L’illustrazione di copertina, Societatis Missiones Indicae, tratta da un’opera del 1640, ci sembra la più bella per significare il profondo valore morale e civile di questo libro.

 

A MAGGIOR GLORIA DI DIO. I FRATELLI ANTONIO E ANGELO STEFANIZZI: DA RADIO VATICANA ALLO SRI LANKA

A CURA DI PAOLO VINCENTI

ASSOCIAZIONE AUTORI MATINESI, CENTRO STUDI ALDO BELLO, MATINO, TIP. SAN GIORGIO, 2020, PP. 186.

 

Sull’argomento vedi anche:

Libri| I Fratelli Antonio e Angelo Stefanizzi – Fondazione Terra D’Otranto

Il salentino padre Antonio Stefanizzi della Compagnia di Gesù, classe 1917 – Fondazione Terra D’Otranto

Gesuiti salentini in America – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Bagliori artistici. Un pittore, uno scrittore e un musicista

ANDREA LO BUE

Il colore domina incontrastato le opere di Andrea Lo Bue, giovane pittore galatinese che si approccia all’arte con piglio e fierezza. I suoi grovigli di colore rimandano subito, come importante referente, a Jackson Pollock, il grande pittore americano principale esponente dell’Action painting. L’utilizzo dei materiali più disparati, l’astrattismo e una componente di forte sperimentazione sono le caratteristiche principali di questo tipo di pittura del cui insegnamento sembra che Lo Bue sia permeato.

Figlio di Giorgio Lo Bue, studioso di storia locale molto conosciuto a Galatina, Andrea, diplomato perito industriale, è un pittore autodidatta. E’ lui stesso a dirci di essersi avvicinato all’arte dopo aver constatato di provare grandi emozioni ed è così nata una grande passione. Ha prodotto moltissimi quadri, prima su ciò che capitava: compensati, muri e cartoni, successivamente su tela. Ha sperimentato diverse modalità di dipingere: pennelli, spatole, mani, con spruzzi, e ha voluto sempre ricercare qualcosa che lo emozionasse.  Le misure delle tele dipinte vanno da 40×40 cm. a 2,50×2,50 m.  Oggi preferisce pitturare tele delle dimensioni 100×70 cm., ma si avventura in pitture composte da più tele o da tele che oltre ai colori sono invase da trucioli metallici ricavati al tornio. Troviamo, in queste opere, versamento di colore, tensione verso l’Informale, la pittura per la pittura. Sicuramente un promettente esordio che lascia intravedere ampi margini di crescita umana e artistica. Seguiremo con interesse il percorso appena tracciato di Andrea Lo Bue.

 

LUIGI PISANELLI

Interessante esordio, questo di Luigi Pisanelli, con Tornerà la lepre a Buna (Musicaos Edizioni, 2019). Il giovane scrittore parabitano racconta, per immagini, sensazioni, suggestioni, attraverso una scrittura che definirei cinematografica, dinamica, molto contemporanea, la storia di una generazione, la sua, cresciuta nel Salento e poi trasferitasi per motivi di studio al Nord, all’imbocco di quella perigliosa strada che è la maturità, fra speranze, sogni infranti, conquiste e sconfitte. È “la linea d’ombra”, per dirla con Conrad, che ha condizionato ed ispirato tante menti geniali nella storia della letteratura. Così, fra le varie tappe che costellano questo romanzo, ecco dipanarsi il bandolo della matassa, ovverosia il sinuoso percorso, esistenziale prima che geografico, dell’autore, protagonista diegetico dell’opera. Infatti, lo scrittore è l’io narrante del romanzo, racconta in prima persona le vicende narrate. Si sente, forte, l’imprinting di certa letteratura americana, in particolare la letteratura di viaggio, e poi Kerouac e gli autori della Beat Generation. Solido basamento dell’opera, le ottime letture dell’autore, che dissemina citazioni a piene mani nel corso delle pagine. Pisanelli ha il culto della bella scrittura, si avverte la sua robusta formazione classica.

Il passaggio dell’età è un topos per un romanzo di formazione, come questo libro è stato definito, anche se la sua struttura è più diaristica e, a tratti, direi, cronachistica, data la fluviale lunghezza dell’opera, che non permette di mantenere alta l’attenzione dall’inizio alla fine. Pisanelli procede per accumulo, probabilmente nella foga di chi ha tanto da dire e non sa arginare l’empito. Vi sarebbe materia per più libri.  Il romanzo manca di un centro focale, di una storia vera e propria, e ad orchestrare personaggi e situazioni è la notevole capacità dell’autore che li muove, apparentemente senza un progetto, una visione d’insieme, ma in base al flusso continuo della scrittura. La forza centrifuga sbalza i personaggi verso l’universo caotico, magmatico, del libro, che comunque si segnala all’attenzione del lettori per freschezza, vivacità, brio e per l’ottima predisposizione dell’autore all’affabulazione. Sicuramente il talento di Pisanelli porterà presto prove più mature.

 

PAOLO PREITE

Un artista che si segnala alla nostra attenzione, Paolo Preite, romano ma ruffanese d’origine, e un disco notevole il suo, per essere un’opera prima. Certo, le collaborazioni con musicisti di grosso calibro giocano una parte importante, soprattutto nel rendere il suono più internazionale, ma quello che “fa” il disco è il mondo artistico del suo autore, che infatti firma musica e testi di quasi tutti i brani. Sospeso fra folk e soul, si apprezzano certe atmosfere rarefatte, quasi sospese, in alcuni pezzi. Si potrebbe definire un crooner in salsa rock. Il mix fra musica e parole funziona, c’è un perfetto bilanciamento e la scelta di cantare in inglese premia Paolo Preite perché la sua voce, che non è dotata di grandi estensioni, è però molto calda, pastosa, e può giocare nel cantato con le allungate e le sfumate che la lingua inglese, a differenza di quella italiana, consente. La sua voce ricorda un po’ quella di James Taylor ma non ha debiti scoperti verso i suoi maggiori, ossia non si evince, dall’ascolto, quali siano state le sue influenze musicali: ciò è sicuramente positivo, nel senso che Preite cerca un proprio percorso, una cifra stilistica originale che sicuramente raggiungerà. I testi sono quasi tutti di buon livello, tranne quello in italiano che è il punto più debole di tutto il lavoro e richiama un easy listening tipico di boy band come Dear Jack o Modà, assolutamente da evitare per chi abbia scelto un percorso autorale. Vero che quello del cantautorato italiano è un terreno minato ed il confronto può apparire troppo alto per un esordiente.  Ma, per non virare su un pop facile, che darebbe dei risultati più immediati ma porterebbe su un territorio da cui non si ritorna, possiamo consigliare a Paolo Preite che continui sulla strada intrapresa e, citando il titolo del suo cd, non smetta di sognare.

Antonio Ferrari, soldato matinese nella Guerra di Etiopia

 

di Paolo Vincenti

Meritoria iniziativa, questa dell’Associazione Nazionale dei Sottufficiali d’Italia – Sezione di Matino, ANSI, di ricordare il carabiniere Antonio Ferrari, soldato nella Guerra di Etiopia.

L’opuscolo intende ricostruire la vicenda biografica del carabiniere Ferrari inquadrandola all’interno del macro contesto, la campagna d’Africa, in cui si svolse. Imbarcatosi da Napoli, Ferrari giunse in Somalia nell’aprile del 1936. Un volta in Etiopia, nella Regione dell’Ogaden, si distinse nella battaglia di Gunu Gadu. Cadde sul campo da eroe, gridando “Viva l’Italia!”. Fu decorato sul campo della Medaglia d’Argento al Valor Militare “alla Memoria”.

Fu grande il tributo di sangue pagato dall’Italia nella guerra, voluta da un regime fascista in cerca di riabilitazione agli occhi della comunità internazionale. La propaganda politica ebbe aggio nell’accreditare quella che di fatto era una guerra di conquista, condotta da una potenza coloniale, inoculando nelle coscienze ancora scosse dagli orrori della Prima Guerra Mondiale uno spirito di rivalsa, rinsaldando un sentimento nazionalista col quale dare fondamento alla campagna d’Africa.

Il carabiniere Ferrari, al pari di tanti altri caduti, non fu solo una pedina di questa fatale scacchiera, giacché “nessun uomo è un’isola”, per dirla coi versi del poeta John Donne. Egli era consapevole di essere parte integrante di una comunità, sentiva, forse più d’altri, l’amore per la patria e più di altri era disposto per essa al sacrificio estremo. “Fu vera gloria?” si chiedeva Alessandro Manzoni ne “Il cinque maggio”.

Per i posteri, ovvero i colleghi carabinieri italiani, e in ispecie per la piccola patria, Matino, quella del commilitone Ferrari fu vera gloria, tanto vero che la locale sezione dell’Ansi è a lui intitolata, vi è una lapide in una Caserma del Comando Interregionale dei Carabinieri di Roma in cui è inciso il suo nome fra i decorati, ed inoltre è stata a lui intitolata una strada di Matino.

Comprensibili l’afflato, la compartecipazione, finanche l’orgoglio, con cui si esprimono i curatori dell’opuscolo. Essi hanno, per il soldato Antonio Ferrari e per il suo eroico gesto, parole di accorata vicinanza, che esulano dalla scontata e un po’ gonfia retorica patriottarda cui siamo abituati. È, la loro, una corrispondenza di accenti, che scaturisce non solo dalla comune appartenenza all’arma dei carabinieri, ma è una colleganza dell’anima prima ancora che di bandiera. L’esperienza umana del soldato Antonio Ferrari e l’impegno dell’ANSI per ricordarlo ci testimoniano ancora una volta l’importanza della storia patria e il dovere della memoria affinché ciò che è stato non vada perso nella superficialità di questi tempi distratti.

Lo sciakuddhi, il folletto dispettoso del Salento

il folletto salentino, visto da Daniele Bianco

 

di Paolo Vincenti

Lo sciakùddhi, o sciacuddhi, è la maschera popolare del Carnevale della Grecìa salentina, protagonista delle colorate sfilate in maschera che si tengono nei giorni carnascialeschi. È un termine greco-salentino col quale si indica un curioso folletto, esponente di quell’immenso patrimonio che sono le tradizioni popolari del nostro territorio, abitato da molte altre maschere o “spauracchi”, quali la catta scianara, l’uomo nero, le macare, il Nanni Orcu, ecc.  Lo sciakùddhi è conosciuto sotto nomi diversi non solo negli altri comuni del Salento ma anche in tutta la vasta area meridionale italiana. Nella fantasia popolare, esso è un folletto, molto piccolo, bruttino, fosco, peloso, vestito di panno e con un buffo cappellino in testa; in genere scalzo, smanioso di possedere un paio di scarpette, quindi riconoscente nei confronti di coloro che gliele donano, ai quali regala un gruzzolo di monete sonanti o indica il luogo dove si trova nascosto un tesoro, l’acchiatura. Ha l’abitudine di saltare di notte sul letto delle case che visita, raggomitolandosi sul petto del dormiente e dandogli un senso di soffocamento, poiché esercita una forte pressione; e probabilmente, proprio dalla voce dialettale carcare, ossia “premere”, deriva carcaluru, nome con cui è più conosciuto nel nord Salento.  Per la verità, questo che stiamo descrivendo è propriamente il tipo dello scazzamurrieddhu, assimilato allo sciakùddhi, mentre lu moniceddhu è raffigurato come un uomo piccolissimo, vestito con un abito da frate ed è considerato uno spiritello più bizzarro e scherzoso che cattivo, come è invece  lu scazzamurrieddhu : “piccin piccino, gobetto, con gambe un  po’ marcate in fuori, è peloso in tutta la persona, gli copre il capo un piccolo cappelletto a larghe tese e indossa una corta tunica affibbiata alla cintola”, come  ci informa il Castromediano.

Vi è almeno una trentina di modi in cui è chiamato questo folletto: oltre a quelli già citati, asciakùddhi, variante di sciakùddhi, nella Grecìa Salentina, soprattutto a Martano; àuru, nelle varianti lauru e laurieddhu, a Lecce; diaulicchiu o fraulicchiu, o, più raro, piccinneddhu, nel medio Salento; scarcagnulu, diffuso nel Capo di Leuca; altrove anche uru, urulu, ecc.

Per il Rohlfs, sciacuddhi /sciaguddhi è un folletto ed anche un incubo; il suo nome verrebbe dal greco σκιαούλον, ossia “piccolo spettro”, da σκιά ,“ombra”, con influsso del latino augurium. In altre aree del Salento si ha però, come abbiamo detto, anche scazzamurreddhu, scazzamaurrieddhu, che secondo il Vocabolario dei dialetti salentini vale “spirito, folletto” e “incubo”. L’origine si trova in un cazzamurreddhu che, oltre a presentare l’aspetto di una parola composta, si mostra anche congruente col francese cauchemar. La somiglianza non è sfuggita a Rohlfs, che infatti rimanda la nostra forma a un composto tra la voce dialettale cazzare, “schiacciare”, e il germanico mara, “fantasma”. Nonostante la voce salentina (e meridionale) presenti un vocalismo e uno sviluppo morfologico più tipico, l’origine di questo secondo elemento è rafforzata dal primo, visto che TLFI (Trèsor de la langue francaise informatisè) ritiene che il francese cauche dipenda proprio da un latino calcare, “schiacciare” e, in sintonia con la proposta di OED (Oxford English Dictionary on line) per l’inglese nightmare, riconduce il francese mar a forme di tipo mare, “spettro” presenti in neerlandese, tedesco e inglese antico.

Munacceddhu e animali, visto da Daniele Bianco

 

A Napoli, “o munaciello” è quasi una maschera popolare; ma, a differenza del monaciello napoletano, che miracolosamente nacque dalla bella Mariuccia e dall’ottantenne doli Salvatore, come informa Giovan Battista Basile nel Cunto de li cunti, lu scazzamurrieddhu salentino non ha lasciato traccia della sua venuta al mondo. Può essere lo spirito di un bambino morto senza aver ricevuto il battesimo, come il monachicchio, l’omologo lucano del nostro moniceddhu, di cui parla Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli. Oppure, questo spirito lo si credeva sprigionato dal fumo delle carcare (da cui, forse, un’altra etimologia per carcaluru), nelle quali si produceva la calce utilizzata per le costruzioni. Dal fumo della calce ribollente, veniva fuori l’astuto folletto e guai alla casa che prendeva di mira, nella quale si intrufolava passando dal camino, e guai agli abitanti della stessa, che venivano svegliati di soprassalto dallo scazzamurrieddhu, il quale in questo modo, sonoramente, sottolineava il proprio arrivo. Certo, il comitato di benvenuto che il furbo carcaluro si sarebbe aspettato di trovare al suo arrivo non era proprio la “festa” che gli arrabbiatissimi famigliari, svegliati di soprassalto, gli volevano fare. Il Nostro è dunque un nano, categoria dalla quale ha attinto molta letteratura per l’infanzia e in ispecie le fiabe (pensiamo, su tutti, a Biancaneve e i sette nani).

Il primo e il più famoso di questi nani è lu cumpare Sangiunazzeddhu, così chiamato perché piccolissimo quasi quanto un sanguinaccio, secondo il Castromediano. Sangiunazzeddhu sta per Sanguinello e la derivazione forse più attendibile di questo termine, secondo Rossella Barletta, è quella di Silvanus, una divinità agreste della mitologia romana che più tardi il popolo convertì in una specie di folletto.

A volte, egli può volgere la sua attenzione agli animali: di notte striglia, abbevera i cavalli e gli asini nelle stalle, oppure li bastona; può vedere di buon occhio il cavallo e mal vedere l’asino, e allora toglie la biada all’uno e la porta all’altro. Una volta infilatosi in casa dal camino, comincia a compiere una serie di scherzetti anche pesanti: nasconde o cambia la disposizione degli oggetti, rompe piatti, bottiglie, bicchieri, producendo un gran frastuono, facendo sobbalzare nel letto i componenti della famiglia. Guai se vi è un ospite sgradito in casa: lu moniceddhu comincia a premergli il petto fino a toglierli il respiro. Ma se l’oppresso riesce a vincere l’affanno e a catturare il folletto, prendendolo per il ciuffetto e tenendolo fermamente, allora il dispettoso spiritello piange e prega e tutto promette per riavere la libertà.

disegno di Daniele Bianco

 

Un altro modo per sottometterlo è impadronirsi del suo berretto rosso, lu cappeddhuzzu. Senza il suo copricapo, il folletto non può vivere e per riaverlo promette di rivelare ai padroni della casa il luogo in cui si trova un’acchiatura. Ciò può essere un tranello e, per ritrovare questo fantomatico tesoro, l’uomo può cacciarsi in grossi guai, sempre che il folletto non sia nel frattempo scappato, dopo aver ricevuto il suo cappeddhuzzu, senza rivelare alcun nascondiglio. Essendo un burlone, se gli si chiede denaro, egli colma la casa di cocci; se invece gli si chiedono cocci, egli dà il denaro. “E’ uno di quei folletti”, dice ancora il Castromediano, “tra il bizzarro e l’impertinente, tra lo stizzoso e lo scherzevole, cattivo con chi lo ostacola o sveli le sue furberie, benefico con chi usa tolleranza”.

Frequentando le stalle, può succedere che si innamori di un’asina o di una cavalla ed allora è tutto premure e dolcezze. Pettina e lucida il crine o la coda della cavalla di cui è innamorato e, a questa soltanto, porta tutta la biada, sottraendola agli altri animali, che diventano sempre più rinsecchiti, per somma disperazione dello stalliere che non riesce a darsi una spiegazione per lo strano fenomeno. La famiglia che abita la casa visitata dal nanetto, a causa della sua presenza ossessiva e fastidiosissima, può anche decidere di cambiare casa; sempre che il terribile folletto non decida di seguire le sue vittime nella nuova abitazione.

Fra i vari dispetti, il peggior male è, senz’altro, quello di non dormire la notte o di dormire male, con un sonno agitato dagli incubi. C’è un altro rimedio per tenerlo lontano: si può apporre ad un arco o alla sommità della porta principale della casa un paio di corna di bue o di montone, di cui il folletto ha una paura tremenda. Come visto, un altro nome con cui viene indicato dalle parti di Lecce è lauru o auru, auricchiu nel suo diminutivo. Secondo Rossella Barletta, l’origine del termine auro deriva da “augurio”, dal latino augurium, derivato da augur, cioè “augure”, intendendo con questo termine quei sacerdoti che, nella religione romana arcaica, divinavano la volontà degli déi attraverso la lettura dei segni celesti o anche attraverso il canto o il volo, oppure ancora le interiora, degli uccelli. Ma il termine “augurio”, nella nostra lingua, è collegato con qualcosa di positivo, un buon auspicio, e questo ci fa pensare alla componente buona, o almeno duale, del carattere di questo folletto-divinità della casa. Maurizio Nocera individua un’altra etimologia per laurieddhu: “Le due parole (Laurieddhu e Monachicco) non sono in contraddizione fra di loro, anzi: Laurieddhu si riferisce al luogo e ha la sua origine etimologica da laura, grotta naturale, spesso usata nel primo millennio d. C. dai monaci bizantini per i loro ritiri, per pregare ed anche per dormire. In Salento le laure basiliane sono molte tuttora visitabili. Monachicco invece significa appunto piccolo monaco, che vive nella laura”.

Ricorda, Nocera, le sue paure di bambino nel piccolo paese agricolo (Tuglie) in cui è nato: “La mia paura era legata soprattutto al buio e ai racconti che si facevano intorno a questo elemento della natura. Una volta andati a letto, ai bambini si raccomandava di mettersi sotto le coperte e di non mettere mai fuori la testa da esse, pena l’arrivo del laurieddhu e gli scherzi di cattivo gusto che egli avrebbe potuto fare. A ciò vanno aggiunte le paure derivanti dai racconti legati all’apparizione di anime morte o comunque di spiriti maligni. Ovviamente da bambino anch’io ho creduto a tutto ciò, e non dimentico il terrore che avevo per questo strano spiritello. Il mio lettino stava affianco a quello di mio fratello più grande, oltre al quale c’era il camino, di giorno acceso, di notte spento. Una volta coricato e messa la testa sotto le coperte, l’immagine della mente più appariscente che mi si presentava era sempre quella della bocca del camino nero, dal quale poteva uscire lo gnomo dispettoso o qualche anima morta. Terrore e tremore fino a che il sonno non vinceva. Da adulti, mio fratello mi ha ricordato che durante quella prima fase di sonno ipnagogico, parlavo molto, a volte gridavo anche, e le parole che scandivo erano sempre rivolte allo gnomo affinché stesse lontano da me. Paure di bambino scaturite dalla narrazione.

Oggi di tutta questa leggenda sono rimasti solo i racconti”. Fatto sta che, nonostante la disponibilità di contributi autorevoli di figure di spicco della cultura salentina, deve ancora allestirsi una bibliografia sugli esseri immaginari salentini, anche in relazione a quelli di altre aree dello spazio mediterraneo.

Per trovare l’origine degli scazzamurrieddhi, secondo noi, si può certamente risalire ai Lares, ai Penates e ai Manes, le divinità domestiche della casa romana. Nella religione romana, i Lares erano protettori di uno spazio fisico ben preciso e circoscritto, la casa appunto. Ad essi si portavano delle offerte, come un grappolo d’uva, una corona di fiori o cibarie. Il Lar Familiaris è invocato da Catone nel De agri cultura e da Plauto nell’Aulularia. I Penati erano, etimologicamente, gli dèi del penus, cioè il vano delle provviste. Anch’essi erano i protettori della casa e dei suoi abitanti, in particolare del pater familias. Vi erano poi i Lemures o Manes, cioè gli spiriti dei morti. La morte, nell’antica Roma, veniva ritenuta contagiosa, funesta, e quindi doveva essere purificata con riti appropriati, come il sacrificio di una scrofa a Cerere. Il lutto durava nove giorni. L’ultimo giorno, si faceva un pasto sulla tomba, poi la pulizia con la scopa e la purificazione della casa e di tutti coloro che avevano assistito alla sepoltura. La famiglia infatti si riteneva contaminata, in qualche modo, dal contatto con la morte. Se ai morti veniva data giusta sepoltura, essi potevano sopravvivere in pace nell’aldilà, altrimenti potevano tornare sulla terra e tormentare i vivi. Questi spettri malefici erano chiamati Larvae e i famigliari venivano da essi tormentati. I Lares ed i Penates non abbandonavano mai la casa e ne proteggevano gli abitanti, mentre i Manes, nella loro forma di Larve, potevano essere avversi. Se dunque affondassero nella mitologia romana le origini dei folletti di casa nostra, ciò fornirebbe anche una spiegazione della loro doppia natura, benevola e malevola.

tavola di Daniele Bianco

 

Ringrazio il prof. Antonio Romano per l’ottima consulenza bibliografica.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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Idem, Leggende di Puglia, Bari, Levante, 1958.

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Giuseppe Gigli, Superstizioni, pregiudizi e tradizioni in Terra d’Otranto, ristampa, Bologna, Forni, 1970.

Sigismondo Castromediano, Cavallino: usi costumi e superstizioni, ristampa, Lecce, Capone Editore, 1976.

Gerard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini di Terra d’Otranto, Galatina, Congedo, 1976.

Aa.Vv., Favole e leggende salentine, Bari, Adda Editore, 1977.

Aa.Vv., Salve – miti e leggende popolari, Salve, Edizioni Vantaggio, 1995.

Alice Joisten e Christian Abry, Trois notes sur les fondements du complexe de Primarette. Loups-garous cauchemars, prédations et graisses, in Le Monde alpin et rhodanien. Revue régionale d’ethnologie, n. 30- 1-3, 2002, pp.135-161.

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Gian Luigi Beccaria, I nomi del mondo. Santi, demoni, folletti e parole perdute, Torino, Einaudi, 1995.

Sabina Canobbio, Les croquemitaines du Piémont occidental. Premier inventaire, in Le Monde alpin et  rhodanien. Revue régionale d’ethnologie, n.26-2-4, 1998, pp. 67-80.

Davide Ermacora, Intorno a Salvàns e Pagàns in Friuli: buone vecchie cose o nuove cose buone, in «Atti dell’Accademia San Marco» n. 11, 2009, pp. 477-502.

Gennaro Finamore, Tradizioni popolari abruzzesi, Torino-Palermo C. Clausen, 1894 (Rist. anast. Cerchio, Polla, 1986).

Aa.Vv., Leggende e tradizioni popolari delle Valli Valdesi, a cura di Arturo Genre e Oriana Bert, Torino, Claudiana, 1977.

Alice Joisten e Christian Abry, Les croquemitaines en Dauphiné et Savoie: l’enquête Charles Joisten, in Le Monde alpin et rhodanien. Revue régionale d’ethnologie, n. 26-2-4, 1998, pp. 21-56.

Êtres fantastiques des Alpes, a cura di Alice Joisten e Christian Abry, Paris, Entente, 1995, (Collezione di Estratti da: Le Monde alpin et rhodanien. Revue régionale d’ethnologie, n.1-4/1992).

Giovanni Ruffino, Fantastiche abitatrici dello spazio domestico nelle credenze popolari alpine e siciliane, in Les êtres imaginaires dans les recits des Alpes – Actes de la conférence annuelle sur l’activité scientifique du Centre d’Études Francoprovençales, Saint-Nicolas 16-17 décembre 1995, 45-50.

Rossella Barletta, Scazzamurrieddhri i folletti di casa nostra, Fasano, Schena Editore, 2002.

Federico Capone, In Salento Usi, costumi, superstizioni, Lecce, Capone Editore, 2003.

Salento da favola storie dimenticate e luoghi ritrovati, a cura di Roberto Guido, Lecce, I libri di Qui Salento, Guitar Edizioni, 2009.

Maurizio Nocera, Il laurieddhu e il culto della papagna nel Salento, in La magia nel Salento, a cura di Gianfranco Mele e Maurizio Nocera, Lecce, Edizioni “Spagine/Fondo Verri”, 2018, pp. 123-136.

Libri| L’una e tre (DiscorDanze)

di Laura De Vita

 

L’una e tre (DiscorDanze), edita da ArgoMenti Edizioni nel 2019, è l’ultima silloge poetica di Paolo Vincenti, giornalista e scrittore salentino dalla ricca formazione culturale e politica.

Non è affatto un caso che la precedente opera del poeta avesse come titolo L’una e due – DiscoRdanze (Edizione La Fornace, Galatina 2016): la lancetta del pendolo che scandisce la vita stessa ha scoccato un solo minuto, in realtà sono passati tre anni e non è cambiato nulla, il caos permane, più dirompente di prima, creando appunto le “discordanze” del sottotitolo.

Come la precedente opera, anche L’una e tre è suddivisa in due parti: “disco” e “danze” che, come messo in evidenza da Abele Longo nella interessante prefazione, omaggiano il postmoderno la prima ed il classicismo la seconda, sia negli argomenti che nel linguaggio formale. Una poesia che oscilla tra lo sperimentalismo e il classicismo quindi, sfociando in forme linguistiche innovative ed originali, ma sempre densissime del pathos che alberga in tutte le intime lacerazioni umane. Se nella prima parte l’autore osserva il caos che lo circonda e sembra abbandonarsi ad un sentimento di repulsione e disgusto, nella seconda quel che prevale è il senso dell’irrisione e dello scherno (divertitevi ghiottoni, mangioni che siete, vanesi e viveurs…).

Anche se potrei citare molte liriche significative che sono rappresentative della poetica dell’autore e che hanno incontrato il mio particolare e personale gradimento (CoabitazioniNell’animaVita al minutoQuesto tempoMordace), emblematico è il componimento dal titolo Distonico:

Tutto è disarmonico
e io distonico
mi sento comico
nel mondo illogico
quasi matematico
il disastro ultimo

Come si può notare, la poesia di Vincenti è essenziale e al contempo estremamente efficace: se il suo obiettivo era quello di mettere in risalto l’assurdità della realtà odierna, egli ci è riuscito perfettamente.

Vincenti è uno scapigliato del XXI secolo (e con gli scapigliati del XIX secolo ha in comune la rivendicazione della propria indipendenza, il rifiuto del perbenismo falso e bigotto, l’identificazione tra arte e vita, il polemico bisogno di verità e molto altro) ed i suoi versi sembrano scritti in stato di ebbrezza, scanditi dal ritmo incessante di uno strumento a percussioni e la sensazione che il lettore prova nel leggerli è quella di essere risucchiato in un mondo distorto, dove nulla va come dovrebbe andare e dove il protagonista è totalmente fuori luogo ed incapace di mischiarsi a tanto scempio.

Si tratta di una poesia estremamente lucida, perché il poeta pensa e sceglie accuratamente i versi da utilizzare per descrivere cinicamente e criticare in maniera irriverente la realtà alienante e distopica del mondo che lo circonda e dove, volente o nolente, è costretto a vivere. Ma non vi è rassegnazione: da individuo libero e fiero, sempre fedele ai suoi valori e alla sua profonda umanità, continua a cercare l’innocenza perduta e, attraverso questa sua tenace opera di resistenza, riesce a ristabilire un giusto ordine delle cose; un uomo che, attraverso la desolante e spiazzante descrizione della “rottura” ritrova la sua unità ed il suo esatto posto nel mondo.

Elegia dell’ulivo

ph Mauro Minutello

 

LA “PASSIONE” DEGLI ULIVI

di Paolo Vincenti

Ulivi ricurvi, intrecciati in un abbraccio spasmodico di vita, avvinghiati alla terra con le loro radici eppure anelanti al cielo, fermi immobili nel perenne scorrere delle cose eppure in continua mutazione, sempre uguali a se stessi pure rinnovandosi e trasformandosi nell’alternarsi delle stagioni.

Questo almeno erano gli ulivi, i patriarchi verdi della nostra Puglia, ideali sentinelle del tempo che passa, prima che un flagello dalle proporzioni bibliche intervenisse a falcidiarli, portandoli ad un lento ed inesorabile declino.

Questo morbo è la xylella fastidiosa (nomen omen, purtroppo), che isterilisce i giganti della nostra terra, li priva della loro linfa vitale e li condanna senza appello. Assistere desolati alla moria degli ulivi, quando nemmeno le condizioni di maggiore siccità di questa “Apulia sitibonda”, come la definì Orazio, ci sono riuscite, è una esperienza straziante.

Il paesaggio salentino sta velocemente mutando, e capita, percorrendo strade e stradine lambite dalla campagna (tutte, o quasi, nel Salento), di vedere con raccapriccio enormi zone brulle là dove verdeggiava vigoroso e intricato il fitto fogliame, ed ora regna invece un bircio marroncino per lo più sgottato dall’indifferenza dei passanti, che a questo scenario da day after stanno drammaticamente facendo l’abitudine.

ph Mauro Minutello

 

La perdita dei connotati larici del paesaggio nostrano, così fortemente iconizzato dagli alberi d’ulivo, come un buco nella tela del pittore, una malvoluta tabula rasa in uno scenario da paese sud asiatico spaventosamente attraversato da uno tsunami, conferisce a questa terra un aspetto alieno, quasi fosse sceso su di essa un nero sudario di morte. L’ulivo, cantato dai poeti, simbolo di pace e vittoria nell’araldica, “Hoc pinguem et placitam paci nutritor olivam“, “nutriti di questa oliva pingue e alla pace gradita”, scrive Virgilio (Georgiche, Libro II, vv. 420-425), è forse la pianta più famosa nella storia dell’umanità, da quel primo albero fatto spuntare dalla Dea Athena sul suolo greco, nella mitologica disputa con il dio Nettuno, al ramoscello di olivo portato in bocca dalla colomba partita dalla biblica Arca di Noè, dopo il diluvio universale, fino agli ulivi dell’orto del Getsemani, il luogo dell’agonia e dell’arresto di Gesù Cristo.

L’ulivo, noto già ai babilonesi, agli egizi, agli ebrei, ai fenici, agli etruschi, era conosciuto a Cnosso, nell’isola di Creta, quindi caro a quella civiltà minoica che molti studiosi hanno ritenuto antesignana della più tarda civiltà greca, e già presente negli ideogrammi della scrittura micenea nel 1400 a.C..

Questa pianta sempreverde viene cantata nella poesia classica a partire da Omero che, nell’Iliade scrive: “Qual d’olivo gentil pianta, nutrita in lieto d’acque solitario loco, bella sorte e frondosa: il molle fiato l’accarezza dell’aure, e, mentre tutta del suo candido fiore si riveste, un improvviso turbine la schianta dall’ime barbe e la distende a terra;” (Omero, Iliade, Libro XVII). Ne parlano Catone il vecchio nella sua opera De agricultura e l’erudito Varrone nel suo trattato Rerum rusticarum libri tres: “Le tue rare virtù non furo ignote/ alle mense d’Orazio e di Varrone/ che non sdegnàr cantarti in loro note”, scrive D’Annunzio (Gabriele D’Annunzio, L’olio, vv.9-11). Mentre si assiste impotenti ad una simile agonia, vien fatto di pensare con scoramento a tutto questo e alle tante raffigurazioni pittoriche e scultoree dell’ulivo nella storia dell’arte.

Quell’ulivo di cui Sofocle diceva: “una pianta che su terra d’Asia non so, né che di Pelope germini sulla vasta isola dorica”, alludendo al fatto che l’ulivo non fosse nato in Asia minore, men che meno nel Peloponneso, ma che esso, secondo la leggenda, fosse stato fatto spuntare dal suolo dalla dea Athena riconoscente alla nazione attica; e ancora: “indomita, spontanea, venerato terrore delle lance desolatrici, fiorente rigoglio di queste zolle: il glauco paterno ulivo. E mai né antica né giovane mano di nemico invasore lo stroncherà facendone sterminio, poiché lo veglia eterna la pupilla mai chiusa di Giove Morio, e, glauco, l’occhio di Atena”. (Sofocle, Edipo a Colono, vv. 690-704). Non fu verace profeta Sofocle, perché né Giove, invocato come protettore degli ulivi, dal greco morìai, né la Pallade Athena “occhiazzurrina”, hanno saputo purtroppo difendere i giganti verdi, e il terrore alle lance nemiche che essi dovevano incutere (in quanto intesi come alberi della pace) è quello dei Caterpillar che li abbattono.

ph Mauro Minutello

 

Ma poi che la terribile pestilenza delle piante, l’invisa xylella, tragica precorritrice di quella, ancor più temuta, degli umani, ovvero il covid 19, si è abbattuta sugli ulivi, condannandoli ad una fine senza gloria, ad accelerare il processo di disfacimento è intervenuto lo stato di bisogno dei contadini, misto alla miserabile ma pur sempre umana brama di lucro, dacché è stato predisposto prima, dal cosiddetto “Piano Silletti”, con i fondi della Comunità Europea, un contributo di circa 140 euro per ogni albero abbattuto, e poi, più recentemente, stanziata la concessione di contributi per un totale di svariati milioni, per il loro reimpianto nelle zone infette. I finanziamenti per l’abbattimento delle piante hanno suscitato appetiti e dato adito a stratagemmi per aumentare il premio ristorativo, solo in parte giustificati dalla situazione di emergenza che vivono gli operatori agricoli.

Cosicché gli ulivi, da archetipi di longevità, simboli di ininterrotta armonia fra uomo e natura, oggi diventano pretesto per strappare un po’ di denari illeciti.

La Puglia e specificamente il nostro Salento furono da sempre mèta di viaggiatori e turisti stranieri, ammirati dalle incomparabili bellezze paesaggistiche offerte dal territorio. Il fenomeno del Grand Tour, fra Settecento e Ottocento, ossia il viaggio di istruzione e di formazione, ma anche di divertimento e di svago, che le élites europee intraprendevano attraverso l’Europa, vedeva protagonisti non solo i giovani rampolli delle famiglie aristocratiche, ma anche diplomatici, filosofi, collezionisti, romanzieri, poeti, artisti, per i quali il “viaggio in Italia” rappresentava un’esperienza irrinunciabile. Ciò diede origine ad una sterminata produzione di epistolari, reportages, diari di viaggio, racconti, romanzi. Così i nostri ulivi sono stati ammirati, descritti e cantati da inglesi, tedeschi, francesi, olandesi, svedesi, svizzeri, polacchi. E se ancora ai nostri giorni gli “assolati uliveti”, per dirla con Pablo Neruda (Ode all’olio) hanno portato moltissimi oriundi da ogni parte d’Italia a trasferirsi qui nel Salento, eletto a buen ritiro, ciò è stato determinato da quell’affatturante nòstos, quasi una struggente nostalgia del non vissuto, con cui essi li hanno saputi avvincere.

ph Mauro Minutello

 

L’ulivo racconta la memoria di un popolo, è simbolo identitario, oggi più che mai, perché, in quanto pianta duale, celeste e terragna, connubio di umano e divino, allegorizza il presente destino di morte e di rinascita, diviene vessillo di speranza e di riscatto: la speranza che, con le nuove cure che riuscirà a portare la scienza, attraverso un lungo processo di metamorfosi, giunga la rinascita per purificazione che riscatti anche l’umanità. E quale immagine di intensa speranza, più che mai belli e vibranti sentiamo allora quei versi di Nazim Hikmet (Alla vita) che, parafrasati da Roberto Vecchioni (Sogna, ragazzo sogna) dicono di quel contadino che a settant’anni pianterà degli ulivi convinto ancora di vederli fiorire.

 

La “passione” degli ulivi, in Elegia dell’ulivo. Riflessioni. Emozioni. Ricordi, a cura di Associazione Autori Matinesi, Matino, maggio 2021

Nell’epopea degli “ppoppiti”, la ricerca dell’identità salentina,

Giorgio Cretì

 

Poppiti (Il Rosone, 1996) è un romanzo moderno che ha sapore d’antico.

Ne è autore Giorgio Cretì (1933-2003), scrittore salentino, nato a Ortelle, in provincia di Lecce, ma trasferitosi presto a Pavia. Autore di vari racconti pubblicati su “Il Rosone”, la rivista dei pugliesi di Milano, e su altri periodici, Cretì, membro dell’Associazione Stampa Agroalimentare, ha dedicato i propri interessi di studio prevalentemente al settore della gastronomia e della cucina, dando alle stampe pregevoli testi come: Erbe e malerbe in cucina (Sipiel, 1987), il Glossario dei termini gastronomici, compresi i vocaboli dialettali, stranieri e gergali, annesso al volume I grandi menu della tradizione gastronomica italiana (Idea Libri, 1998), Il Peperoncino (Idea Libri, 1999), La Cucina del Sud (Capone Editore, 2000), A tavola con don Camillo e Peppone (Idea Libri, 2000), La Cucina del Salento (Capone, 2002), ed altri.

Il romanzo narra una storia d’amore che si volge nella campagna salentina, a Masseria Capriglia, fra Santa Cesarea Terme e Vignacastrisi, dove vivono i protagonisti del racconto, Poppiti appunto (o, nelle varianti Ppoppiti, con rafforzamento della lettera iniziale, o ancora Ppoppeti).

Varie le etimologie di questo termine gergale, ma la più accreditata è quella che lo fa risalire al latino post oppidum, ossia “fuori dalle mura del borgo”, ad indicare nell’antica Roma coloro che abitavano fuori dalle mura fortificate della città, dunque i contadini.

Questo termine è passato ad indicare la gente del Salento e in particolare dell’area più meridionale, ovvero di un territorio caratterizzato fino a cinquant’anni da un paesaggio prevalentemente agricolo e dominato dalla civiltà contadina.

ph Giorgio Cretì

 

La storia si svolge all’inizio del secolo Novecento e gli umili contadini del racconto sono Ia e Pasquale, il quale è chiamato alla guerra di Libia del 1911 ed è così costretto a lasciare soli la moglie ed il bimbo appena nato. L’assenza di Pasquale si protrae a lungo perché in guerra egli viene fatto prigioniero. Quando ritorna nel Salento, con grandi progetti per la sua famiglia, Pasquale non trova però la situazione ideale che aveva immaginato ma anzi incombe sulla Masseria Capriglia una grave tragedia.

Del romanzo è stato tratto un adattamento teatrale dalla compagnia “Ora in scena”, per i testi della scrittrice Raffaella Verdesca e la regia dello studioso Paolo Rausa. La rappresentazione teatrale è stata portata in vari teatri e contesti culturali a partire dal 2013 con un discreto apprezzamento di critica e di pubblico. In particolare, fra il maggio ed il giugno del 2014, ad Ortelle, città natale dello scrittore, nell’ambito della manifestazione “Omaggio a Giorgio Cretì”, venne allestita in Piazza San Giorgio, la mostra di pittura Ortelle. Paesaggi Personaggi … con gli occhi (e il cuore) di Carlo Casciaro e Antonio Chiarello, presso Palazzo Rizzelli. Ortelle commemorava così un suo figlio illustre, con una serie di incontri e conferenze e con la messa in scena dello spettacolo teatrale, a cura di Raffaella Verdesca e Paolo Rausa. Le parole del romanzo di un cultore di storia patria si intrecciavano ai colori e alle immagini di due artisti del pennello, anch’essi ortellesi. La mostra pittorica di Casciaro e Chiarello ha portato alla pubblicazione di un catalogo dallo stesso titolo della mostra, con doppia speculare copertina, realizzato con il patrocinio del Comune di Ortelle, dell’Università del Salento, del CUIS e della Fondazione Terra D’Otranto.

Sulla copertina, in una banda marrone nella parte superiore, si trova scritto: “Per un antico (pòppitu) eroe. Omaggio a Giorgio Cretì”. Nella parte centrale, la foto di un bellissimo antico portale del centro storico di Ortelle. All’interno del volumetto, Casciaro e Chiarello si dividono equamente gli spazi: da un lato le opere dell’uno e dal lato opposto quelle dell’altro, realizzando una sorta di residenza artistica o casa dell’arte su carta. Il catalogo è introdotto da una bellissima poesia di Agostino Casciaro, dedicata proprio ad Ortelle e da una Presentazione della critica d’arte Marina Pizzarelli.

uno dei dipinti di Carlo Casciaro

Quindi troviamo i volti di Carlo Casciaro, fra i quali il primo è proprio quello dello Pòppitu Cretì, in un acrilico su tela del 2014; poi quello di Agostino Casciaro, tecnica mista 2014, e quello del pittore Giuseppe Casciaro (1861-1941), ch’è forse la maggior gloria ortellese, pittore di scuola napoletana, del quale Carlo è pronipote. Inoltre, l’opera Ortelle, acrilico su tela 2012, con una citazione di Franco Arminio; Capriglia, acrilico su tela 2014, con una citazione dal romanzo di Cretì; Largo Casciaro, acrilico su tela 2013, e infine una scheda biografica di Carlo Casciaro. Di Carlo ho già avuto modo di scrivere che dalla fotografia alla pittura, egli comunica attraverso la sua arte totale. (Paolo Vincenti, L’arte di Carlo Casciaro in “Il Galatino”, 14 giugno 2013).

Laureato all’Accademia di Belle Arti di Lecce, ha vissuto a lungo a Milano prima di ritornare nel borgo avito e qui ripiantare radici. L’oggetto privilegiato della sua pittura è il paesaggio salentino. Il suo è un naturalismo che richiama quello dei più grandi maestri, come Vincenzo Ciardo. È un paesaggismo delicato, fuori dal convenzionale, dal naif. Nelle sue tele, dai vivaci colori, in cui vengono quasi sezionati i reticolati urbani dei nostri paesini, più spesso le aree della socialità come le piazze, gli slarghi, le corti, si ammirano animali quali pecore, buoi, galline, gazze, convivere in perfetta armonia con oggetti e persone, in un’epoca ormai lontana, fatta di ristrettezze e di fatica, quella della civiltà contadina del passato. Il segno colore di Casciaro dà ai suoi paesaggi un’immagine di gioia temperata, di una serenità appena percepita, cioè non un idillio a tutto tondo, tanto che il cielo incombente sulle scene di vita quotidiana sembra minaccioso e il sole non si mostra quasi mai.

Nel microcosmo di una piccola e fresca cantina nella quale ha ricavato il suo studio, oggi Carlo fotografa vecchi e vecchine, parenti, amici, personaggi schietti e spontanei di quella galleria di tipi umani che offre la sua comunità, li immortala nei suoi ritratti a matita e pastello e li appende con le mollette a dei fili stesi nella cantina a suggellare arte e vita, sogno e contingenza. Una delle sue ultime realizzazioni infatti è Volti della Puteca Disegni-Foto-Eventi, Minervino Ortelle Lecce 2016 (Zages Poggiardo, 2017).

Mutando verso del catalogo, si ripetono la poesia di Agostino Casciaro e la Presentazione di Pizzarelli, e poi troviamo le opere di Antonio Chiarello. Fra i versi di Antonio Verri e Vittorio Bodini, sette acquerelli con una piantina turistica di Ortelle, cartoline e vedute panoramiche della città di San Vito e di Santa Marina e una Vecchia porta + vetrofania, L’uscio dell’orto (…e lucean le stelle), tecnica mista del 2011. Quindi, la scheda biografica di Antonio Chiarello. Anche di Antonio, fra le altre cose, ebbi a scrivere che egli, laureato all’Accademia di Belle Arti di Lecce, utilizza, per le sue Pittoriche visioni del Salento, le tecniche più svariate con una certa predilezione per l’acquerello. (Paolo Vincenti, Da Sant’Antonio ad Antonio Chiarello in “Il Paese Nuovo”, 18 giugno 2011).

Nel 2005 Chiarello ha realizzato per la prima volta la mostra devozionale “San’Antonio giglio giocondo…”, con “tredici carte devozionali” dedicate al suo santo onomastico ed ha portato questo progetto- ex voto in giro per la provincia di Lecce in tutti i paesi dove vi sia il protettorato o almeno una devozione per il santo. Visceralmente legato alla patria salentina, Chiarello ne ha dipinto le grotte, i millenari monumenti, gli alberi, i suoi borghi incantati, le bellezze di Castro e di Porto Badisco, di Santa Cesarea e di Otranto, di Muro Leccese, di Poggiardo e di tutta la costa adriatica leucadense.

Autore anche di svariate realizzazioni grafiche e di manifesti, nella sua avventura umana ed artistica, ha interagito con amici quali Antonio Verri, Pasquale Pitardi, Donato Valli, Antonio Errico, Fernando Bevilacqua, Rina Durante. All’epopea degli ppoppiti, Chiarello e Casciaro confessano di sentirsi intimamente vicini per cultura, formazione e scelta sentimentale.

Ecco allora, nell’ideale ricerca di un’identità salentina, la pittura dei due artisti poppiti salentini intrecciarsi, in fertile connubio, con la scrittura di uno poppitu di ritorno quale Giorgio Cretì.

Nell’epopea degli “ppoppiti”, la ricerca dell’identità salentina, in Identità Salentina 2020, Salento Quale identità quale futuro? Contributi e testimonianze per la cultura e il governo del territorio, Italia Nostra sezione Sud Salento, a cura di Marcello Seclì, Collepasso, Tip. Aluisi, 2021

Su Giorgio Cretì vedi:

Giorgio Cretì – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’omaggio di Ortelle a Giorgio Cretì con la presentazione del volume antologico delle opere – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 Giorgio Cretì come uno sciamano – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Storia di guerra e passione nel Salento rurale – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Le canzoni patriottiche e lo spettacolo per la Patria. Anna Fougez

di Paolo Vincenti*

Abstract. The role of patriotic song and entertainment during the First World War was remarkable. In addition to the most important and well-known patriotic songs such as The song of Grappa, The bell of San Giusto, Tammurriata nera and, above all, The song of Piave, there are other lesser known ones that were popular during the immediate post-war years and the coming of Fascism. One of the undisputed protagonists of entertainment, cinema and also of the gossip  of that period was Anna Fougez, aka Maria Annina Laganà Pappacena (1894-1966), a  greatly admired diva, whose biography has the main part in our contribution, with a focus on her best known musical productions.

Riassunto. Il ruolo della canzone patriottica e dello spettacolo nel corso della Prima Guerra Mondiale fu notevole. Oltre ai più importanti e conosciuti canti patriottici come La canzone del Grappa, La campana di San Giusto, Tammurriata nera e, su tutti, La canzone del Piave, ve ne sono altre meno note che correvano popolari durante gli anni dell’immediato dopoguerra e poi dell’avvento del Fascismo. Una delle indiscusse protagoniste dello spettacolo, del cinema e anche delle cronache rosa di quel periodo fu Anna Fougez, al secolo Maria Annina Laganà Pappacena (1894-1966), grande diva, richiesta ed ammirata, la cui biografia è al centro del nostro contributo, con un focus sulle sue più note produzioni musicali.

 

 

«Vipera, vipera, / sul braccio di colei / che oggi distrugge tutti i sogni miei / sembravi un simbolo: / l’atroce simbolo / della sua malvagità».

Sono i versi della sua canzone più famosa, Vipera, appunto, come la forma del braccialetto d’oro, che indossava sempre sul palcoscenico, e la cintura, che portava stretta alla vita. Vipera è la sua canzone manifesto, anche se tante altre ne scrisse e interpretò. Parliamo di Anna Fougez, diva italiana di origini tarantine, protagonista indiscussa del varietà degli anni Venti e Trenta e anche cantante, attrice, scenografa, regista.  Maria Annina Laganà Pappacena (1894-1966) in arte Anna Fougez, fu una donna dal talento innato ed una stella di prima grandezza dello spettacolo italiano.

Figlia di Teresa Calamo e di Angelo Pappacena, che alla nascita la abbandonarono nella ruota degli esposti, venne adottata dagli zii, anche se in lei restava, mai sopita, la speranza di conoscere un giorno i propri genitori naturali, cosa che avverrà con il Pappacena, che molti anni dopo ne riconoscerà la paternità.  Apprendiamo questa e le altre notizie sulla vita della Fougez dal recente libro di Luigi Calabrese: Irresistibile Fougez Biografia di una diva[1]. Non passava certo inosservata, Anna Fougez, con le sue piume di struzzo, le vistose acconciature, il trucco artistico e soprattutto le sue pose da vera vamp avant-la-lettre. Artista a tutto tondo, confezionava da sé i propri abiti perché voleva colpire nel segno anche attraverso l’immagine; in lei, la forma si compenetrava alla sostanza, il talento si sposava alla voglia di stupire, ma ogni sua scelta era deliberata, affatto lasciata al caso.

Enfant prodige, debutta a soli otto anni in un teatro di Ventimiglia, dove l’impresario, forse per sbaglio o forse per attirare l’attenzione del pubblico, fa stampare sui manifesti il nome di Eugénie Fougére, la più grande vedette francese di quei tempi. Ed è così che Maria Annina adotta quel nome d’arte che la seguirà per tutta la vita. Non si sa perché la Fougez abbia debuttato così presto, e nemmeno lei lo spiega nella sua biografia[2], certamente era dotata di un talento precoce che faticava a restare contenuto fra le pareti domestiche[3]. A sedici anni già si esibiva a Napoli, amatissima dal pubblico, ma anche al teatro Mastroieni di Messina, al Trianon di Roma, al Gambrinus di Milano. Lavorò insieme ad Ettore Petrolini, che non restò certo indifferente al suo talento, e infatti intercorse fra i due una fitta corrispondenza epistolare. Collaborò con i più importanti attori e registi dell’epoca. All’inizio degli Anni Venti, era l’artista di Varietà più famosa e più pagata d’Italia. Non aveva paura di scandalizzare, ma le sue armi di seduzione, oltre al suo physique durôle, erano l’intelligenza viva e la determinazione con cui sul palcoscenico teneva testa anche ai colleghi maschi. Sposò un parente romano, Giovanni Battista Serrao, ma questo non le impedì di intraprendere una relazione sentimentale con il ballerino di tango René Thano (alias GalanisAthanasio), il quale a sua volta era sposato con l’attrice e cantante Jeanne Bourgeois (in arte Mistinguett). La passione per Thano fu così forte che la Fougez lo sposò poi in seconde nozze.

La seduzione era una delle armi su cui la Fougez puntava e non ne faceva mistero: emblematico, in questo senso, il suo nome de plume, proprio in omaggio alla famosa ballerina parigina di cui sopra. Il suo obiettivo era quello di superare la fama di Elvira Donnarumma, la più famosa interprete della canzone napoletana di quei tempi, come sostiene Valeria Palumbo nel suo saggio dal titolo Vipera: vita e morte di Anna Fougez[4].

“Anna Fougez, signor / vi si presenta qua / per danzar, per cantar…”: questo era il motivetto che la accompagnava quando entrava in scena.Al cinema il debutto avvenne con Germione (1917); recitò in L’immagine dell’altra(1914), Le avventure di Colette (1916), La vita e la leggenda (1919), L’ultima recita di Anna Parnell (1919), L’oltraggio (1921), Fiore selvaggio (1921), Il fallo dell’istitutrice (1922).

Ma soprattutto fu la grande interprete del Café chantant. Il Cafè chantant è un’antica forma di teatro, che univa insieme musica, ballo e canto. Nata già nel Seicento in Inghilterra, esplose però verso la fine dell’Ottocento in Francia durante la Belle Époque, e da qui si irradiò anche in Italia.  Le rappresentazioni si svolgevano in piccoli teatri o in locali adattati allo scopo, molto spesso dei caffè, da cui appunto la definizione di cafè chantant. Il pubblico vi accedeva impegnandosi a pagare la consumazione, oppure con un vero e proprio biglietto.

Il successo fu grande, tanto che queste rappresentazioni si allargarono a comprendere anche forme di teatro, numeri artistici di prestigiatori e giocolieri, brani d’opera, insieme alle canzonette. In Italia, il café chantant, ribattezzato “caffè concerto”, fu accolto con grande entusiasmo dal pubblico e in questo genere di spettacolo all’inizio del Novecento i più famosi ed apprezzati attori furono, insieme alla Fougez, Lina CavalieriLydia JohnsonLeopoldo FregoliEttore PetroliniRaffaele Viviani. La donna era spesso la protagonista e per lei venne adottato il termine sciantosa, dal francese chanteuse, che significa cantante, antesignana della odierna soubrette. Gli uomini invece, quando non protagonisti, recitavano in ruoli di comprimari, i cosiddetti caratteristi o finedicitori.

Il genere artistico nel quale si esibivano venne chiamato rivista, ad indicare uno spettacolo leggero, che molto concedeva alla battuta di spirito, alla facezia, al motteggio, perciò anche detto avanspettacolo, e che incontrò il grande favore del pubblico, almeno fino a quando gli attori poterono esprimersi con arguzie e irriverenza, prima che, con la Grande Guerra  e poi col Fascismo, intervenisse la censura a limitarne di molto la libertà creativa e questo genere artistico iniziasse a declinare, anche sotto i colpi della nascente arte del cinema.

Anna Fougez divenne proprio il simbolo della sciantosa, nel senso di donna intrigante, audace, elegante e maliziosa al tempo stesso, glamour, come diremmo oggi.  Come lei, poche altre rappresentanti di questo genere, come Paolina GiorgiGilda Mignonette e Yvonne De Fleuriel, erano considerate dalla stampa dell’epoca delle icone di stile e di fascino[5], insomma delle vamp[6].

Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale non trovò indifferente la Fougez. Il suo collaboratore E.A. Mario, pseudonimo di Giovanni Gaeta, all’indomani della disfatta di Caporetto, nel 1918, aveva scritto La leggenda del Piave, vera canzone manifesto della partecipazione italiana alla guerra. L’autore, oltre a recarsi personalmente a cantarla sul fronte, subendo anche un provvedimento penale, al ritorno dalla trincea, la affida a Anna Fougez che ne fa un grande successo. La pubblica nelle edizioni “La Canzonetta” insieme a Vipera. La canta anche a Milano, insieme a Madonnina blu, nel 1918, per i reduci dal fronte[7].  Queste canzoni, che caratterizzano fortemente il periodo storico che stiamo affrontando, così come gli atteggiamenti “trasgressivi” di alcune cantanti e protagoniste dello spettacolo, ci offrono una chiara testimonianza di una maggiore presa di coscienza e di una più convinta sterzata, da parte del “gentil sesso”, sulla strada dell’emancipazione femminile. Del pari, interpretare le canzoni di guerra, come fece la Fougez, significava avere in qualche modo acquisito una coscienza politica e sociale[8].

Filippo Tommaso Marinetti adora la Fougez, tanto che nel famoso “Manifesto Futurista” pubblicato il 20 febbraio del 1909 su «Le Figaro», quando tratta del Varietà, cita la Fougez definendola “stella futurista”[9].. Del pari, D’Annunzio è un suo grande ammiratore. Altre sue canzoni sono dedicate alla guerra, come L’emigrante e Impulso.
Talmente popolare, che viene chiamata dalla pubblicità per prestare il suo volto alla reclame del dentifricio Gitana Email, del liquore Campari, dell’impermeabile Pirelli. Rilascia interviste e tutte le riviste dell’epoca le dedicano intere pagine; le sue foto fanno il giro del Paese.

Il trionfo di Anna Fougez viene decretato da tutta la stampa nazionale e in ogni posto che frequenta si lascia dietro un codazzo di ammiratori, così come gli adoranti fan la accolgono con strepiti e ovazioni in tutti i teatri nei quali si esibisce.

Anna Fougez vanta un altro primato: è stata una delle prime cantautrici della storia. Oltre alle canzoni scritte dagli altri, ella ne compose moltissime di proprio pugno. Donne e farfalle è il titolo di un album prodotto dalla casa editrice “La canzonetta”, che raccoglie canzoni scritte per i testi e la musica proprio da Anna Fougez, fra il 1926 e il 1929. Questa la track list: 1) Il trionfo del grano, 2) Sua Maestà la Donna, 3) Donne e farfalle, 4) L’apache galante, 5) Ventaglio di diamanti, 6) Gioielli , 7) Fascino di Madera, 8) Dedè (Commiato di Fougez), 9) Kadigia, 10) La leggenda dell’ombrello, 11) Femmena bella, 12) Vezzi di donne.

E affidò anche canzoni ad altre, come per esempio Sua maestà la donna, cantata da Ines Talamo. Nel film “Gran varietà”del 1953 Anna era interpretata da Lea Padovani[10]. Pur vivendo a Roma, non recise mai il legame con Taranto e le accoglienze che le riservava la sua città natale, specie al Teatro Orfeo dove si esibiva spesso, ma anche ai teatri Alhambra, Eden, La Pineta, erano trionfali.

Nel 1980, Bruno Longhini scrisse per la Rai la sceneggiatura di “Anna Fougez, un mito tra le due guerre”, ispirata al mondo del varietà e inserita nel programma “Una voce una donna”, con la regia di Achille Millo, che andò in onda su Rai1, precisamente nel 1981 (le altre tre dive biografate erano Edith Piaf, Gilda Mignonet e Judy Garland).

Ne parla Leo Pantaleo[11], il quale recitava in più ruoli in quello sceneggiato, in cui la Fougez era interpretata dall’attrice napoletana Marina Pagano. Rientrato a Taranto, nel 1986, l’attore volle realizzare una mostra sulla Fougez al Castello Aragonese, e dedicarle un libro, riproponendo la sua autobiografia[12]. Inoltre scisse la commedia “Anna Fougez il mondo parla io resto”, parafrasando il titolo della autobiografia della diva, che venne rappresentata al Teatro Umberto di Roma e successivamente in svariati teatri italiani, con attrici quali Adriana Palmisano, Nella Tuzzi e Tiziana Spagonella, ad interpretare la Fougez.

Successivamente ancora, dalla commedia di Leo Pantaleo venne tratto uno spettacolo musicale da Luca Lippolis, attore e aiuto regista di Pantaleo[13]. In effetti, la Fougez in Puglia si esibì a Bari, al Teatro Margherita, a Brindisi, al Teatro Verdi, a Lecce, al Politeama Greco, ma i suoi ritorni erano sempre a Taranto, dove amava ritrovare la propria gente, risentire il profumo dell’infanzia e delle care cose perdute. Alloggiava all’Hotel Europa, il più prestigioso albergo della città ionica.

Oltre ad essere molto graziosa – alta, bruna, intensi occhi neri – era intelligente, diffidò di agenti e manager e gestì da sola la propria carriera. Voce roca ma calda, disinibita, precorritrice del movimento femminista, sensuali movenze, regina delle scene, seppe catalizzare l’attenzione del pubblico, anche grazie al suo trasformismo, esperta come poche dell’arte di promuovere la propria immagine. Seppe amministrarsi e restare sull’onda del successo per molti anni, al netto degli inevitabili compromessi. E il più sintomatico della sua carriera fu quello con il regime fascista, fatale, forse. Nel 1922, nel teatro San Martino di Milano, alla presenza di Benito Mussolini, cantò un Fox-trot di Mussolini, scritto da lei stessa sulle note di Rodolfo De Angelis. Ma più che al Duce, la Fougez fu legata al di lui fratello, Arnaldo Mussolini, con il quale ebbe una relazione, più o meno nello stesso periodo in cui il gossip le attribuiva anche un flirt con il principe ereditario Umberto[14].

Più che un compromesso, quella per il Fascismo è per Anna una vera infatuazione, esaltata dalla relazione sentimentale che intraprende con Michele Bianchi, primo segretario del Partito Fascista, quand’ella è ancora sposata con Giovanni Battista Serrao. Lo scotto da pagare sono le contestazioni da parte dei giovani studenti universitari che a volte irrompono nei suoi spettacoli, lanciando frutta marcia sul palco e sommergendola di fischi.

È proprio grazie a Bianchi che diventa proprietaria della villa di Santa Marinella, in provincia di Roma. La relazione con il gerarca fascista le costa anche un duro attacco, calunnioso e infamante, da parte di Matilde Serao sulle colonne de “Il Giorno”. Anna risponde a quella dura sortita, querelando il giornale di Napoli e la sua querela viene ripresa da tutta la stampa, creando un vero caso.

Fra le sue canzoni, ancora, Abat jour (che si ascolta in sottofondo anche nel film “Ieri oggi e domani” di Vittorio De Sica, durante la famosa scena dello spogliarello di Sophia Loren davanti a Marcello Mastroianni), Lo shimmy delle stelle, Chi siete?, Il fox trot delle lucciole, Fiocca la neve,  La java della rosa, Salotto blu, Sotto il cielo di Siviglia, Il fox trot delle piume e molte altre.

Nel 1928, insieme all’impresario Angelo Bigiarelli e a René Thano, creò la “Grande rivista italiana”, la sua casa di produzione, con la quale realizzò diversi spettacoli. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, nel 1939, Anna decide di ritirarsi dalle scene. Vi era già stata una sua presa di distanza dal Fascismo in seguito alla promulgazione delle leggi razziali. Ora, si sentiva quanto mai lontana dalle ragioni interventiste ed oltranziste del partito. Decide così, nel 1940, di lasciare, e si rifugia nella sua villa di Santa Marinella, dove trascorre il resto della vita fra i ricordi degli splendori passati, il gioco delle carte, le frequentazioni amicali, sempre in compagnia dell’amato RenèThano. Muore nel 1966, a 71 anni e, come da sua volontà, viene sepolta a Taranto, dove riposa tuttora[15].

Nel 2017, a cinquant’anni dalla morte, la città di Taranto le ha tributato grandi onori[16]. Se la sua vita si potesse racchiudere in due versi, questi potrebbero essere quelli della Tosca pucciniana: «Vissi d’arte, vissi d’amore,/non feci mai male ad anima viva!»

*Società di Storia Patria per la Puglia. paolovincenti71@gmail.com

 

Note

[1]L. Calabrese, Irresistibile Fougez: Biografia di una diva, Taranto, Scorpione Editrice, 2016. Il libro, con la Prefazione dello stesso autore, riporta alcune interviste a personaggi televisivi dell’epoca che collaborarono con la Fougez, come Nino Taranto, Carlo Dapporto e Leo Pantaleo, al quale si deve la riscoperta della Fougez.

[2]A.Fougez, Il mondo parla ed io passo, Roma, Casa Editrice Pinciana, 1931.

[3]L. Calabrese, Irresistibile Fougezcit., p.37.  Sulla cantante si veda anche: M. De Giorgi,La diva del varietà. Anna Fougez (1849-1966), in Oltre il segno. Donne e scritture nel Salento (sec.XV-XX), a cura di Rosanna Basso, Copertino, Lupo, 2012, pp.272-289.

[4] Riportato da L. Calabrese, Irresistibile Fougez cit., p.53.

[5] La sciantosa fu la regina dello spettacolo degli anni di inizio Novecento, che colpiva particolarmente l’immaginario popolare. Intorno ad essa, cantante o attrice di rivista, si creò una forma di divismo molto vicina a quella di oggi per le star del cinema e della musica. “La sciantosa” si intitolava un film di Alfredo Giannetti, del 1971, con Anna Magnani e Massimo Ranieri, che racconta la vicenda di una cantante che, recatasi al fronte per tenere spettacoli destinati ai militari, vi trova la morte colpita dal nemico.

[6] Interessante notare come il termine vamp, riferito ad una donna molto affascinante e seduttiva, sia una abbreviazione di “vampira” e derivi dal personaggio cinematografico di Irma Vep, interpretato al cinema dall’attrice francese Musidora, nome d’arte di Jeanne Roques. La famosa star venne arruolata dal regista Luis Feuillade per interpretare la parte di Irma Vep (anagramma di vampira) membra del gruppo criminale LesVampires, protagonista del film omonimo, uscito a puntate nelle sale fra il 1914 e il 1916. Fu una serie che ebbe molto successo non solo in Francia ma anche in Italia. Mentre in quegli anni infuriava la guerra (lo stesso Feuillade venne chiamato al fronte e dovette lasciare gli episodi del film ad altri registi), il pubblico si esaltava alle imprese della sexi ladra.

[7]L. Calabrese, Irresistibile Fougezcit.,p. 56.

[8] Cfr.: L. Pisano, Cantare le donne. Un racconto con parole e musica, dalle antiche ballate popolari a Mina. http: soroptimistca.files.wordpress.com › 2016/05 › estratto-…

 

[9]Ivi, p.58.

[10]In rete, sul canale Youtube, si trova un video in cui la Padovani, alias Fougez, canta Foxtrot e compaiono anche Vittorio De Sica e Delia Scala.https://youtu.be/CespMLqOcDM. Ma sono molti i filmati disponibili con le interpretazioni della Fougez.

[11]L. Calabrese, Irresistibile Fougez cit., p26.

[12]L. Pantaleo, Anna Fougez. Il mondo parla io resto. Il volto, la linea, il fascino, le canzoni, la magia del “mito” più popolare del varietà fra le due guerre, Taranto, Scorpione Editrice,1986.

[13]L. Calabrese, Irresistibile Fougez cit., pp.30-31. Sempre sul canale tematico Youtube è possibile ascoltare un estratto dello spettacolo “Anna Fougez il mondo parla io resto”, scritto e diretto da Leo Pantaleo (che ha realizzato anche i bellissimi costumi), messo in scena dalla Compagnia Casavola di Taranto diretta da Renato Forte nel 2007, al teatro Orfeo, con Tiziana Spagnoletta nel ruolo della Fougez e la scenografia di Pasquale Strippoli.https://youtu.be/Nn6GM74kkOk.

[14]Ivi, p. 102. Il libro di Calabrese presenta un ricchissimo corredo fotografico e tante testimonianze dalla stampa dell’epoca.

[15]Ivi, pp. 154-156.

[16] Riportiamo dalla rete il resoconto dei festeggiamenti di quell’anno:

Anna Fougez, la Prima Nazionale del film “Fiore Selvaggio”

Lo scorso 19 dicembre, al Teatro Orfeo di Taranto, ha avuto luogo la proiezione in prima nazionale del film “Fiore Selvaggio” con Anna Fougez.

Un omaggio all’attrice e poliedrica artista di origine tarantina che furoreggiò sui palcoscenici fra gli anni ’20 e ’30 del secolo scorso. Momento centrale della manifestazione – voluta dall’Associazione La Bottega delle Idee di Taranto e realizzata in collaborazione con CSC-Cineteca Nazionale e Apulia Film Commission – è stata la proiezione del film “Fiore selvaggio”, diretto da Gustavo Serena e interpretato dalla Fougez. Fiore selvaggio è il solo film conservato dei sette che l’attrice girò tra il 1917 e il 1922. L’unica copia al mondo è conservata presso la Cineteca Nazionale, che ha colto l’opportunità di questa celebrazione per procedere ad un complesso restauro, di cui è stata presentata una prima fase. Il film è stato accompagnato dal vivo al pianoforte dal Maestro Antonio Coppola. La serata è stata aperta da un intervento canoro del soprano Tiziana Spagnoletta, accompagnata al pianoforte del Maestro Dante Roberto, che ha presentato il famoso brano “Vipera”. Vi è stata poi la proiezione in post-produzione di una serie di filmati, dell’Istituto Luce e della RAI Teche, che hanno riproposto alcune riprese televisive dei decenni passati dedicate all’artista. Solo a quel punto Adriano Calzolaro e Luigi Calabrese hanno presentato al pubblico l’intero progetto “Irresistibile Fougez”, ideato dalla Bottega delle Idee e diviso in tre segmenti: il restauro e la proiezione in prima nazionale del film Fiore selvaggio; il libro-catalogo sulla biografia della diva, uscito nelle librerie cittadine nella giornata di ieri; La mostra interamente dedicata all’artista, con l’esposizione dei suoi costumi di scena, delle fotografie private e dei suoi spettacoli, delle locandine e delle copertine dei suoi dischi, delle lettere autografe e di altro materiale, che prenderà il via nel prossimo mese di marzo 2017 all’interno delle sale della Galleria del Castello Aragonese di Taranto. Il progetto “Irresistibile Fougez” è prodotto in partnership con la Regione Puglia, il Comune di Taranto, La Cineteca Nazionale, Apulia Film Commission, il Teatro Orfeo, l’Agenzia di Sviluppo Terra Jonica e Programma Sviluppo. Ha inoltre il patrocinio della Provincia di Taranto, del Teatro Pubblico Pugliese, della SIAE e di RAI Teche. http: www.canale189.it/news/…/anna-fougez-la-prima-nazionale-del-film-fiore-selvaggio/

Le prostitute di guerra

       TRA VERGOGNA E ONORE: LE PROSTITUTE DI GUERRA

di Paolo Vincenti*

 

“Vecchio professore cosa vai cercando
in quel portone
forse quella che sola ti può dare
una lezione
quella che di giorno chiami con disprezzo
pubblica moglie
quella che di notte stabilisce il prezzo
alle tue voglie”

(Fabrizio De Andrè – “Città vecchia”)

 

Scorrendo anche una minima parte della vasta bibliografia nell’area macrotematica “donne e guerra”, ci si rende conto del fatto che non possa esservi nessuna limitazione del ruolo che le donne ebbero nel primo conflitto mondiale. Ogni categorizzazione sarebbe fuori luogo, ogni schematizzazione che volesse circoscrivere il loro impegno apparirebbe fuorviante. Ciò perché le donne rivestirono tutti i ruoli, eccettuato quello di combattere sul fronte. Qualsiasi esemplificazione dunque dovrebbe essere rigettata. Ogni stereotipo è da rifiutare. Oltre ai settori più tradizionali e conosciuti, infatti, come quello delle infermiere e delle crocerossine, cui sono dedicati alcuni contributi anche in questo volume, ve ne sono altri poco esplorati, come quello delle madrine di guerra, o che non lo sono mai stati, come quello delle prostitute. Ed è su quest’ultimo, che vogliamo appuntare la nostra attenzione.

La partecipazione delle donne alla guerra abbracciò quasi tutti i campi. Fra le varie occupazioni, le più consistenti furono quelle legate all’assistenzialismo, sia di matrice cattolica che laica. Le donne di estrazione aristocratica ed alto borghese incoraggiarono la nascita di associazioni di beneficenza, che si prendessero cura dei soldati impegnati al fronte, attraverso donazioni, raccolte fondi, invio di beni di prima necessità, generi alimentari, indumenti caldi, medicine. I primi ruoli ad essere ricoperti furono dunque quelli di cura e di maternage, fedelmente alla vocazione che una storia millenaria ha assegnato alle donne. L’ambito del volontariato di maggiore attrattiva fu la Croce Rossa. Svariate le infermiere salentine che partirono per le zone di guerra[1].

 

Le Crocerossine italiane alla vigilia della Grande Guerra erano già 4.000 e dopo il conflitto giunsero ad 8.000 unità, secondo alcuni calcoli perfino a 10.000, sommando le appartenenti ad altre associazioni di volontariato, come le “Samaritane”, le più contigue alle Crocerossine. Indossavano una divisa bianca, con una lunga gonna ed un velo, un abbigliamento simile a quello delle suore. Esse furono l’avamposto, potremmo dire, la prima linea, della partecipazione femminile alla guerra. Le infermiere della Croce Rossa inizialmente provenivano da famiglie benestanti, poi dalla classe borghese e infine anche dalle classi sociali più basse. Non tutte avevano fatto studi regolari ma in occasione della guerra l’emergenza sanitaria prevaleva sui titoli di studio. Esse potevano partire per il fronte se in possesso di un’autorizzazione parentale, rilasciata cioè dal padre o da chi ne faceva le veci. I soldati sofferenti le vedevano come madri, sorelle, confortatrici. Questo non faceva comunque passare in secondo piano il loro alto potere seduttivo. L’immagine dell’infermiera anzi, al di fuori della stereotipata idealizzazione imposta dalla propaganda politica, suscitava ben altri pensieri nei soldati ricoverati in ospedale, come vedremo meglio successivamente. “Numerosissime sono [le cartoline]in cui esse, graziosamente racchiuse nelle loro divise non prive di civetteria, occhieggiano in direzione di gagliardi soldati, li abbracciano, assumono atteggiamenti scopertamente seduttivi.”, scrive Antonio Gibelli[2].

Nel sacrario di Redipuglia, dove riposano i caduti sul Carso, sull’Isonzo e sul Piave, nel numero di 100.000 (dei 650.000 italiani morti in guerra) spicca un’unica sepoltura femminile, quella di Margherita Kaiser Parodi, crocerossina partita nel 1915 e morta di influenza spagnola nel 1918, medaglia di bronzo al valor militare[3].

Un aspetto sicuramente poco studiato è quello delle madrine di guerra, incaricate di prendersi cura dei soldati, in una specie di “adozione”, come spesso è stata definita, ma si potrebbe meglio dire di “affidamento” o “adozione a distanza”, simile a quella che oggi molte famiglie occidentali praticano a vantaggio di poveri bambini di alcuni paesi dell’Africa[4].

La figura delle madrine di guerra è contigua a quella delle dame di carità, tanto vero che all’inizio queste donne sono più che altro di estrazione aristocratica ed alto borghese e l’attivazione di pratiche di assistenza avviene nell’ambito delle Congregazioni di carità. Costoro si premuravano di tenere alto il morale delle truppe avviando una corrispondenza epistolare con i soldati di cui si prendevano cura; più spesso, dato l’alto tasso di analfabetismo, inviandogli indumenti caldi.

Questo tipo di beneficenza si allargò anche alle classi più umili poiché a maggior ragione le donne del popolo, sebbene poco scolarizzate, erano in grado di offrire certi servizi. Furono i parroci a spingere le ragazze delle scuole a scrivere ai soldati sul fronte, contribuendo così ad abbassare l’età media delle madrine di guerra, non più madri, ma tutt’al più sorelle o fidanzate, e anche questo contribuì a determinare il successo dell’epistolografia, un genere letterario che si rivelerà fondamentale negli studi successivi sul conflitto nell’ambito delle cosiddette “scritture del reale”. Moltissime furono le cartoline e le foto che viaggiavano nella doppia direzione dal fronte alle madrine[5].

 

Talune istituzioni caritatevoli, come per esempio al Nord la “Lega delle seminatrici di coraggio”, si occupavano anche di raccolte fondi a favore delle vedove di guerra o degli orfani di guerra, coinvolgendoli a loro volta nella beneficenza, con iniziative di varia mobilitazione[6].

Molti gli esempi di madrine di guerra al Nord, rarissimi al Sud e nello specifico nel Salento. Allo stato dell’arte, non siamo riusciti a trovare nessun esempio nel Salento di madrine di guerra, almeno non abbiamo reperito relazioni epistolari. Ci giunge solo un nome, che è quello della gallipolina Maria Pagliano, sorella del noto pittore e fotografo Giulio Pagliano. Tuttavia, il Museo della Civiltà Contadina di Tuglie ne conserva la foto ed alcuni calzettoni caldi, inviati evidentemente al soldato adottato, oltre agli strumenti per realizzarli, ma nessuno scritto[7].

La partecipazione delle donne si esplicò anche nelle professioni intellettuali, come quelle di insegnanti, promotrici culturali, giornaliste e perfino inviate di guerra[8].

Dunque, non solo in ruoli di supplenza degli uomini, ma in ruoli attivi. Poiché gli uomini partendo avevano lasciato abbandonate le campagne, divennero contadine. In città, entrarono nell’industria pesante, metallurgica, meccanica. Non solo operaie, ma anche portalettere, autiste di mezzi pubblici, telegrafiste, impiegate negli Uffici notizie per le famiglie dei militari[9]. Impegnate anche direttamente sul fronte, come le Portatrici carniche, la più conosciuta delle quali è Maria Plozner Mentil, unica donna cui sia stata intitolata una caserma in Italia[10].  Queste donne portavano beni di conforto e rifornimenti ai soldati sul fronte. Dai paesi circonvicini esse si arrampicavano sulla montagna fino ad arrivare in prima linea, a rischio della propria vita[11].

Un altro campo in cui le donne si applicarono per la cura e il benessere dei soldati fu quello della prostituzione. Questa era regolamentata dallo Stato sin dal 1859, quando Cavour fece aprire case di tolleranza controllate per i soldati francesi venuti a combattere contro l’Austria. La regolamentazione continuò con il Governo Crispi nel 1888 e con quello Nicotera nel 1891, con l’obbligo di tener chiuse le persiane di queste case (da cui “case chiuse”). Ma fu durante la Prima Guerra Mondiale che il fenomeno del meretricio dilagò. Preziosa fonte è il libro di Emilio Franzina, I casini di guerra[12], un caposaldo nella materia.

Molte “lucciole” circolavano liberamente nelle zone di guerra dove era più forte la concentrazione soldatesca, per offrire a fanti e artiglieri i propri servizi. Il fenomeno della prostituzione libera però era causa di disordine e distrazione delle milizie e procurava non poche noie agli alti ufficiali che erano costretti a richiamare i soldati, onde contrastare quel commercio incontrollato. Infatti, nonostante le durissime direttive, la ricerca del piacere fisico era ineludibile, al di là delle severissime circolari del Generale Cadorna, perché irrinunciabile era il bisogno di calore, affetto, protezione che, sia pure in forma surrogata, il rapporto sessuale poteva offrire.

Si poneva forte l’esigenza di concedere ai soldati dei momenti di svago, in cui poter allentare la tensione accumulata sul fronte. Si volle dunque regolamentare il tempo libero, prima di tutto con l’istituzione delle “Case del Soldato”, come già accadeva in altre nazioni quali la Francia e la Germania. Nacque una rete di Case del Soldato, ideate da Padre Giovanni Minozzi nel 1916 con l’assenso del Generale Porro, per permettere ai militari di svagarsi con pratiche di socializzazione che restavano contenute nell’alveo cattolico[13], anche come antidoto a diverse e più indecenti tentazioni.

Però, ad un certo punto, fu lo Stato a favorire siffatte tentazioni, con la nascita delle case di tolleranza per militari. Infatti, nel 1915, vennero istituiti per legge i postriboli, definiti, per analogia contrastiva con le Case del Soldato, “Casini del soldato”, e venne regolamentato con una serie di circolari il loro funzionamento.

I bordelli venivano militarizzati attraverso un programma molto rigido di controlli affidati agli ufficiali medici. Questi luoghi “protetti” erano stati previsti in primis per allontanare le lavoratrici del sesso che si prostituivano direttamente sul campo (e che una volta erano le “donne di guarnigione”, ovvero prostitute che, fin dalle guerre napoleoniche, seguivano i soldati nelle campagne militari prestandosi a varie incombenze oltre a quella prettamente sessuale), e poi per prevenire la diffusione della sifilide e contenere all’interno di strutture chiuse la prostituzione.

La reazione cattolica all’istituzione dei postriboli fu immediata. Moltissime le lettere di protesta dei parroci dei luoghi in cui venivano istituiti i bordelli, che creavano anche un moto di generale disapprovazione da parte della classe borghese, quella dei benpensanti, i quali in alcuni casi facevano sentire la loro vibrante protesta. Lettere di protesta erano inviate anche ai prefetti, ma restavano inascoltate. Giocoforza, le gerarchie ecclesiastiche incentivarono l’apertura di centri ricreativi cattolici, in funzione antipornografica. Così molti preti, sia nei paesi della pianura che in quelli sul fronte, si prodigavano per aprire Case del Soldato che volevano garantire a sottoposti e ufficiali un momento di sano svago, con spettacoli musicali, tombolate, giochi di prestigio, recite, e vi erano anche dei libri per la lettura dei più scolarizzati[14].

Il tempo libero dei soldati venne poi meglio organizzato con il Servizio P (“Propaganda”), quando, dopo la disfatta di Caporetto, si voleva risollevare il morale delle truppe evidentemente fiaccato da una così disastrosa sconfitta. A queste attività ricreative vennero chiamati a sovrintendere degli ufficiali, denominati “P”, invitando a collaborare anche artisti, cantanti, intellettuali e giornalisti, tutti impegnati a rinfocolare il sacro amor patrio nelle truppe. Iniziarono anche a stamparsi dei giornali di trincea [15]e la propaganda bellica, in seguito all’avvicendamento del dispotico Generale Cadorna con il più umano e comprensivo Diaz, raggiunse l’acme.

Le Case del Soldato si moltiplicarono. In realtà, quella combattuta da Don Minozzi era una battaglia impari, perché la farina de diavolo era stata impastata direttamente dal Comando Supremo. Il Veneto fu teatro privilegiato di questa fioritura di casini militari. Gli alti prelati scagliarono fulmini e saette sulle case di prostituzione, scrivendone al Papa, addebitando ad esse fatalisticamente le cause della guerra e della disfatta di Caporetto e pronosticando guai e rovina per l’esercito italiano. Soprattutto i preti e i vescovi veneti, come appare ovvio, esecravano queste pratiche diffuse e legalizzate. Essi lamentavano che la prostituzione avrebbe comportato anche lo sfruttamento minorile, la tratta delle bianche, il traviamento di giovani e giovanissime che si sarebbero perdute, e in questa campagna proibizionista erano affiancati dalle femministe, non solo cattoliche, ma anche laiche[16]. Le continue pressioni, però, caddero nel vuoto; e non poteva essere altrimenti, dal momento che gli stessi preti di campagna una volta sul fronte partecipavano di quell’ “infernale commercio”. Le case chiuse infatti, accoglievano anche loro. I prelati si dicevano inorriditi nel constatare come ormai, specie dopo Caporetto, fosse abituale fra le truppe la pratica di alcolizzarsi, bestemmiare e andare a prostitute[17]. Ancor peggio, se a fumare, sbevazzare, usare il turpiloquio erano gli stessi preti (che venivano definiti “pretacchioni”). Questi religiosi venivano minacciati non solo di essere sospesi a divinis, ma addirittura scomunicati, quando per esempio fossero stati trovati ad assistere a spettacoli indecenti nei cinema e nei teatri, o a fornicare nei bordelli. Certi cappellani militari celebravano molte messe al giorno per potersi sbronzare riempiendo di vino le coppe del sangue di Cristo durante l’Eucarestia[18].

Fra il 1917 e il 1918, il numero dei casini sembrò aumentare in maniera esponenziale, a dispetto dei contagi venerei o luetici e della durissima campagna proibizionista portata avanti da Mons. Luigi Pellizzo. I soldati contagiati dalla sifilide venivano allontanati dal fronte ma questo non scoraggiava il ricorso alle prostitute.

La fioritura di postriboli spingeva anzi molte donne a raggiungere i luoghi di guerra per darsi a quella redditizia attività. Nell’opera Satire italiane, lo scrittore Giovanni Comisso descrive dettagliatamente i casini di guerra[19].

La propaganda bellica nella forma dei volantini informativi affissi nelle caserme, nei luoghi di aggregazione e massime nei bordelli, esaltava il valore della prostituzione legale, stimmatizzando quella clandestina e non controllata, e ne elencava i vantaggi per la salute, per la patria e per la famiglia. Che cosa potevano pochi volenterosi prelati contro una simile macchina politica e propagandistica? Per altro, tale regolamentazione poneva l’Italia su un piano di avanguardia rispetto agli altri Paesi dove vigeva una legislazione più arretrata. Ciò era dovuto alla lunga esperienza in materia che il nostro Paese poteva vantare. Infatti, la prima regolamentazione prostituzionale in Italia si ebbe nel 1860, ma fu nel 1891 che essa si perfezionò[20].

Durante le campagne d’Africa, la legislazione sul tempo libero dei militari prevedeva, per gli ufficiali, feste, teatro, e anche la pratica del “madamato”, antesignana della prostituzione militare. Questa pratica, “spiega Gustavo Ottolenghi (Gli italiani e il colonialismo. I campi di detenzione italiani in Africa, Milano, 1997, pp.184-185), era una forma particolare di unione privata tra un uomo bianco e una donna indigena che prevedeva una forma di affitto della donna stessa all’uomo per tutta la durata di tempo che lui desiderava, con facoltà di procreazione, senza che peraltro potessero derivare alla donna altri diritti oltre quello di ottenere il pagamento della somma pattuita per il proprio affitto.[…] In pratica questo istituto era stato introdotto nelle colonie italiane, con il tacito consenso delle autorità ecclesiastiche, in modo da assicurare ai coloni e ai militari celibi una compagnia temporanea per tutto il periodo della loro permanenza in Africa, senza che potessero loro derivare degli obblighi di sorta…”[21].

Una forma di prostituzione legalizzata anch’essa, per giunta senza alcuna prescrizione sanitaria, ancora più spinta di quella del 1915, se prevedeva addirittura la possibilità di ingravidare la meretrice. Per i soldati semplici invece erano consentite le “sciarmutte”, ossia le battone di strada. Questo primo impianto prostituzionale creato in Etiopia durante le guerre d’Africa poi si diffuse anche in Eritrea, Libia, in Somalia e giunse in Italia, destinato ad essere collaudato durante la Prima Guerra Mondiale. Ma già nella guerra italo-turca del 1911, erano stati sperimentati i bordelli militari, di fronte al massiccio ricorso dei soldati al sesso a pagamento[22].

Sicché nel corso della Prima Guerra Mondiale le case di tolleranza funzionavano a pieno regime. E del resto, le pulsioni sessuali dei militari costituivano un fattore che non poteva non essere tenuto da conto se si voleva evitare che sfociasse in stupri o in pratiche omosessuali, viste come turpitudini da evitare, ma che di regola accadono in tutte le situazioni più estreme e borderline. E a questa regolamentazione si adeguarono tutti i prefetti e gli incaricati statali. Il controllo di un simile traffico permetteva, come già sottolineato, che si svolgesse in maniera disciplinata, con le schedature di prostitute e soldati. Lo spettro era quello della sifilide, ma temutissima era anche la spagnola, che in quegli anni mieteva vittime in tutta Europa.  Il soldato, questo era l’assunto su cui si basava la norma, non poteva reprimere il fisiologico bisogno sessuale senza conseguenze che lo avrebbero portato ad una condizione psicofisica alterata; la Patria richiedeva soldati pienamente consapevoli, i quali dovevano sfogare i propri bisogni per mantenere quella concentrazione sul fronte che una prolungata astinenza sessuale invece avrebbe compromesso.

In alcune lettere dal fronte, nella memorialistica di guerra, queste donne vengono da alcuni soldati definite degli angeli,  perché grazie a loro riacquistavano il benessere, ed erano ritenute addirittura delle benemerite, per la grande utilità del loro servizio. E si trattava di una attività talmente attrattiva che non solo talune meretrici da altre regioni d’Italia si recavano al confine per esercitarla, ma anche infermiere volontarie si davano ad essa per realizzare più lucrosi guadagni e migliorare così il proprio tenore di vita.

La guerra, moltiplicatore sociale di vizi e virtù, stimolò l’umanitarismo da un lato e le più basse pulsioni dall’altro, incentivò la beneficenza e la solidarietà femminili, ma anche di converso la licenziosità e il libertinaggio, sia pure in contesti di necessità o di miseria. Non esistono assolutizzazioni, rigide dicotomie.  I ruoli femminili erano mobili, e accadeva che alcune infermiere potessero intrattenere rapporti sessuali[23] o vere e proprie relazioni sentimentali con i soldati. Di più, alcune crocerossine diventavano prostitute[24], come al contrario alcune prostitute si trasformavano in infermiere.

Imprevedibili sono i percorsi della ricerca storica. Quando pensavamo che, se difficile reperire documenti riguardo le madrine di guerra, sarebbe stato pressoché impossibile per le prostitute, ecco che una storia ci viene incontro, con molta sorpresa. È il caso di una nostra concittadina, partita per il fronte nel 1917, sulla quale la verecondia, un malcelato senso di vergogna o di rimozione da parte della famiglia, sentimenti tanto inconcepibili a distanza di decenni quanto rispettabili, ci impediscono di fornire alcun dettaglio anagrafico. A volte infatti, per particolari aspetti della vita, si attuano, volontariamente o meno, strategie di rimozione della memoria[25]. Possiamo dire che questa donna partì da Ruffano nel 1917 con il permesso del padre, per esercitare l’attività di crocerossina, pur non avendo compiuto studi specifici.

Non conosciamo le motivazioni che la spinsero a partire: più che l’umanitarismo, sospettiamo che fu il bisogno a muoverla, provenendo da una poverissima famiglia di contadini. Una volta giunta a Pordenone, esercitò per circa un anno l’attività di assistente infermiera in un ospedale di campo. Percependo magri guadagni, abbandonò l’attività assistenziale e si diede al meretricio. Fu prostituta in una casa di tolleranza di San Giorgio di Nogaro. In questo centro l’attività prostituzionale era fiorente a seguito della massiva presenza in città non solo di soldati ma anche di studenti universitari[26].

Una ingiallita fotografia, messa a disposizione dal pronipote, ce la mostra bella, in abiti civili, alta, probabilmente sul metro e settanta, con una carnagione bianca e una folta massa di capelli neri intrecciati con uno chignon, strana acconciatura per una contadina. Non sappiamo quanto durò la sua permanenza nella casa di prostituzione militare, ma ella continuò ad esercitare la professione anche dopo la fine della guerra, in un bordello civile a Pordenone. Qui, conobbe l’uomo di cui si innamorò e che sposò. Si trasferirono a Padova, città natale del marito, ed ebbero tre figli. Questo ramo della famiglia infatti ancora oggi vive nella città patavina.

Questa storia ci è stata raccontata da un discendente della signora, appartenente al ramo della famiglia rimasto a Ruffano. Si tratta di una fonte del tutto fededegna, che ha però chiesto l’osservanza dell’anonimato. Ci rendiamo conto che ciò potrebbe ingenerare nel lettore il sospetto che questa storia sia stata partorita dalla fantasia di chi scrive, e tuttavia è così emblematica che abbiamo preferito correre il rischio, per non privarci del piacere di raccontarla.

La guerra è stato il primo fattore di emancipazione femminile nell’Italia del Novecento[27]. Il conflitto, proprio per la sua caratteristica di festa evidenziata in antropologia, di sospensione del tempo ordinario, favoriva certe licenze che non ci si prendeva nei giorni comuni[28]. L’evento straordinario faceva perdere i freni inibitori. Questo valeva per le donne che si davano al meretricio e per gli uomini che le cercavano per congiungersi carnalmente.

Lo Stato insomma con una mano permetteva il losco traffico e con l’altra diramava severe istruzioni sanitarie, recitava cioè due ruoli in commedia. Era tale paradosso che muoveva l’indignazione dei vescovi, i quali inveivano anche contro la stampa ed il cinema, rei, a loro dire, di incentivare l’andazzo, così come i caffè concerto, i tabarin, le sale ricreative. I prelati vedevano dovunque trionfare il diavolo sui tacchi e nelle gonne delle donnine di piacere che li minacciavano con la loro oscena presenza[29]. Ma la diffusione capillare dei casini di guerra non era più arginabile. Questa tradizione continuerà e si incrementerà durante la Seconda Guerra Mondiale, di pari passo con la prostituzione nelle case di tolleranza civili; sia all’una che all’altra, darà un colpo di spugna la Legge Merlin, del 20 settembre 1958, che porterà alla chiusura delle 717 case di prostituzione presenti sul territorio nazionale.

Sui bordelli si possono leggere le bellissime pagine di Ernest Hemingway, in Addio alle armi[30], ma il documento più straordinario, crudo e iperrealista, sono le opere di Filippo Tommaso Marinetti, quali L’alcova di acciaio e I taccuini 1915-1921[31], all’insegna di una sessualità nazionalista che è la cifra dominante nelle opere “belliche” del padre del Futurismo. Queste opere, soprattutto I taccuini, fotografavano perfettamente la realtà postribolare, e Marinetti condisce la narrazione con un linguaggio scabroso ma consono al clima osceno, boccaccesco, che pervade ogni singolo rigo dell’opera.

Come detto, nel 1958 la legge chiuse le case di tolleranza (promuovendo quella criminalizzazione della prostituta sulla quale, oltre alle gerarchie ecclesiastiche, da sempre tantissimi intellettuali proibizionisti si sono esercitati), ma aprì di contro all’immaginario collettivo un epos alimentato da tanta produzione letteraria, cinematografica e musicale, fino alle nostalgiche e ciclicamente ritornanti petizioni di riesumazione dell’istituto postribolare.

 

    * Società di Storia Patria per la Puglia. paolovincenti71@gmail.com

 

[1] Sulla storia della Croce Rossa, si vedano: A. Frezza, Storia della Croce Rossa Italiana, Firenze, Poligrafo Fiorentino,1956; Storia della Croce Rossa Italiana dalla nascita al 1914, a cura di Costantino Cipolla-Paolo Vanni, Vol.I, Saggi- Vol. II Documenti, Milano, Franco Angeli, 2013; Donne al fronte. Le Infermiere Volontarie nella Grande Guerra, a cura di Stefania Bartoloni, Roma, Jouvence, 1998; Le crocerossine nella Grande Guerra, a cura di Paolo Scandaletti e Giuliana Variola, Udine, Gaspari, 2008; Accanto agli eroi. Diario della Duchessa d’Aosta. 1: maggio 1915 – giugno 1916, a cura di Alessandro Gradenigo e Paolo Gaspari, Prefazione di Amedeo Di Savoia, Udine, Gaspari, 2016. Per il Salento: T. Barba Bernardini D’arnesano, La Croce Rossa a Lecce. La sezione femminile, Lecce, Grifo Editore, 2013. In questo stesso volume, G. Caramuscio, Anche noi soldati. Le memorie di Delia Jannelli crocerossina di Taranto, Infra.

     [2] A. Gibelli, La Grande Guerra degli Italiani, Milano, Bur, 2009, p. 203.

     [3] S. Bartoloni, Italiane alla guerra: l’assistenza ai feriti 1915-1918, Venezia, Marsilio, 2003, p. 213; A. N. Picotti, Margherita Kaiser Parodi, in «Quadernetto Giuliano», nº 2, Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione, 2017, pp. 6-7.

     [4] Diario dall’Inferno. Memorie di guerra di un ufficiale di artiglieria dal Carso all’Ortigara, 1915-1917, a cura di L. Viazzi e S. Zeno Naviglio,1998, pp.74-79; A. Molinari, La buona signora e i poveri soldati. Lettere a una madrina di guerra (1915-1918), Torino, Scriptorium, 1998; S. Bartoloni, L’associazionismo femminile nella prima guerra mondiale e la mobilitazione per l’assistenza civile e la propaganda, in Aa.Vv.,  Donna lombarda, 1860-1945, a cura di A. Gigli Marchetti- N. Torcellan, Milano, Franco Angeli, pp.65-91.

     [5] In questo stesso volume, G. Caramuscio, Le convitate di carta. Assenze/presenze femminili nella corrispondenza dei combattenti, Infra

     [6] A proposito delle vedove di guerra, alcuni studi focalizzano l’attenzione proprio sull’aspetto del lutto che accomuna le donne nella loro partecipazione alla Prima Guerra Mondiale. Le donne sono le protagoniste di questa ‘comunità del lutto’ che nasce durante la guerra e che sopravvive ben oltre la guerra”, scrive Augusta Molinari (rifacendosi a S. Audoin-Rouzeau, A. Becker, La violenza, la crociata, il lutto. La Grande Guerra e la storia del Novecento, Torino, Einaudi, 2002), “una comunità che ricorre ai rituali più diversi per placare il trauma collettivo di una morte di massa mai sperimentata in Europa.[…]Nel caso dell’Italia, quanto forte fosse la consapevolezza che era la dimensione del lutto a definire l’appartenenza delle donne alla guerra, emerge dal diffuso bisogno delle donne di partecipare a rituali pubblici di lutto”: A. Molinari, Donne e ruoli femminili nella Grande Guerra, Milano, Selene Edizioni, 2008, p.11.

     [7] D. Dimo, Le madrine di guerra, in Tuglie-Salento e la Grande Guerra, Mostra di reperti, cimeli, documenti e fotografie d’epoca, Museo della Civiltà Contadina del Salento, Tuglie, s.d., p.20.

     [8] Sul ruolo delle donne nel giornalismo di guerra: Aa.Vv., Scrittrici/giornaliste. Giornaliste/scrittrici, Atti del convegno: Scritture di donne tra letteratura e giornalismo, Bari 29 novembre – 1 dicembre 2007, a cura di Andriana Chemello e Vanna Zaccaro, Università di Bari, 2011; A. Buttafuoco, Cronache femminili. Temi e momenti della stampa emancipazionista in Italia dall’Unità al fascismo, Università di Siena, Dipartimento di studi storico-sociali e filosofici, 1988. Sulla funzione dei giornali di trincea: G. Lombardo Radice, Nuovi saggi di propaganda pedagogica, Torino, Paravia, 1922;  R. Pozzi, La strumentalizzazione propagandistica della figura femminile in alcuni giornali di trincea, in  «Quaderni di Studi Interculturali Rivista semestrale a cura di Mediterránea», n.3, 2017,Centro di Studi Interculturali – Università di Trieste, pp. 169-180, in cui l’autrice tratta di tre inviate di guerra, vale a dire Ester Danesi Traversari, Flavia Steno e Stefania Türr. Ester Danesi Traversari fu corrispondente di Guerra per «Il Messaggero», mentre Amelia Cottini Osta, con lo pseudonimo di Flavia Steno, fu invita in Germania per «Il Secolo XIX»; Stefania Türr fu corrispondente dalla trincea per «La Madre Italiana». Per il Salento, con riferimento alla pubblicistica bellica e post bellica, si possono utilmente consultare: G. Caramuscio, Stampa e opinione pubblica a Lecce tra provincialismo, nazionalismo ed ecumenismo (1914-18), in «L’Idomeneo – Il Salento e la Grande Guerra. Atti del Seminario di Studi. Lecce, Monastero degli Olivetani, 5 dicembre 2014 », Società Storia Patria per la Puglia, Sezione di Lecce, n.18, Università del Salento, Lecce, 2014, pp.51-110 e Idem, Il milite noto. Modelli di eroismo bellico in opuscoli commemorativi salentini, in Aa. Vv.,“Colligite fragmenta”. Studi in memoria di Mons. Carmine Maci, a cura di Dino Levante, Campi Salentina, Minigraf, 2007, pp.487-516. Svariate furono le donne intellettuali che vissero in primo piano l’età della Prima Guerra Mondiale. Fra le altre, possiamo citare: la professoressa Giulia Lucrezi Palumbo (1876-1956), sulla quale si vedano: A. Invitto, Biografia intellettuale di Giulia Lucrezi Palumbo. Tesi di Laurea, Università di Lecce, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 2004-2005; G. Caramuscio, Giulia Lucrezi-Palumbo: soggettività femminile e cultura tra Risorgimento e Guerra fredda (1876-1956), in « L’Idomeneo – Storie di donne», Società di Storia Patria per la Puglia Sezione di Lecce n.8, Galatina, Panico, 2005, pp. 117-156; R. Basso, La prima professoressa salentina Giulia Lucrezi Palumbo (1876-1956), in Aa.Vv.,Oltre il segno. Donne e scritture nel Salento (sec.XV-XX), a cura di Rosanna Basso, Copertino, Lupo,2012,pp.200-203; in questo stesso volume, G. Caramuscio –P. Morciano, La voce leccese della Patria: Giulia Lucrezi-Palumbo, Infra; Giulia Poso (1879-1963) sulla quale, tra gli altri:  M. C. Guadalupi, Giulia, Brindisi, Tip.Ragione,1964; R. Basso, La sfida della professione, il richiamo del privato Giulia Poso, in Oltre il segno cit.., pp.204-214; Maria Luigia Quintieri (1881-1973), per la quale si rimanda a: M. Calogiuri, “Colla ragione come col cuore”. Autrici meridionali tra modernità e tradizione, Lecce, Milella, 2008, pp.73-111; Eadem, Impegno educativo e milizia politica Maria Luigia Quintieri (1881-1973), in Oltre il segno. cit., pp.216-221; Maddalena Santoro (1884-1944) della quale ha scritto D. De Donno, Intellettuali e fascismo. Un percorso al femminile. Maddalena Santoro (1884-1944), in «Ricerche Storiche», n.2, Lecce, 2010, pp.349-372; Eadem, Saper soffrire, saper amare, saper piacere Maddalena Santoro (1884-1944), in Oltre il segno. cit., pp.230-241, e inoltre, Eadem, Maddalena Santoro e la guerra, Infra; Oronzina Quercia Tanzarella(1887-1940) sulla quale hanno scritto: R. Basso, Stili di emancipazione, Lecce, Argo, 1999, pp-41-81; Eadem, Le scritture di Oronzina Tanzarella (Ostuni 1887-Roma 1940), in Aa.Vv., Il filo di Arianna. Materiali per un repertorio della bibliografia femminile salentina (sec.XVIII-XX),a cura di  Rosanna Basso e Marisa Forcina, Lecce, Milella, 2003, pp.109-126; Eadem, Vestale della scuola pubblica Oronzina Quercia Tanzarella(1887-1940), in Oltre il segno. cit., pp.242-247; in questo stesso volume, P. Morciano, La guerra antiretorica di Oronzina Quercia Tanzarella, Infra; su Maria Panese Tanzarella (1888-1981), si possono consultare: K. Di Rocco, Maria Panese Tanzarella. Attivista cattolica nell’Italia fascista, in «Parola e storia », a.I, n.I, 2007, pp.59-77; Eadem, Militanza cattolica, in Oltre il segno. cit., pp.248253; altra figura degna di menzione è quella di Maria Rosaria Filieri (1895-1944), sulla quale si veda: M. R. Filieri, Oltre la scuola, la parola pubblica, in Oltre il segno. cit., pp.254-259 e Eadem, Maria Rosaria Filieri dalla pietas alla celebrazione, Infra; inoltre Magda Roncella (1882-1939), per la quale si rinvia, in questo volume, a G. Caramuscio, Come fiammelle nell’ombra. Magda Roncella dopo Caporetto, Infra; Emma Fiocco(1899-1984), della quale si è occupata R. Basso, Donne e giornali. La Rappresentazione del femminile nelle pagine di alcuni periodici salentini (1884-1943), fascicolo monografico di “Studi salentini”, n. LXXXIV-LXXXV, Lecce, 2007-2008.

     [9] E. Schiavon, Interventiste nella Grande Guerra. Assistenza, propaganda, lotta per i diritti a Milano e in Italia (1911-1919), Firenze-Milano, Le Monnier, 2015.

    [10] R. Rossini, E. Meliadò, Le donne nella Grande Guerra 1915-18. Le portatrici carniche e venete, gli angeli delle trincee, Mantova, Sometti, 2017.

     [11] M. Faraone, “Un po’ di polenta, un pezzettino di formaggio e una bottiglia d’acqua, perché sorgenti lassù non ci sono”: intervista con Lindo Unfer, «recuperante» e direttore del museo della grande guerra di Timau, in «Quaderni di Studi Interculturali Rivista semestrale a cura di Mediterránea », n. 2, 2015, pp. 22-30.

     [12] E. Franzina, I casini di guerra, Udine, Gaspari, 1999.

     [13] D. G. Minozzi, Ricordi di guerra, Amatrice, Vol. I, 1956; E. Franzina, I casini di guerra, cit., p. 67.

     [14] M. Pluviano, Le case del soldato, in «Notiziario dell’Istituto Storico della Resistenza in Cuneo e provincia », n.36, dicembre 1989, pp.5-88.

     [15] M. Isneghi, Giornali di trincea (1915-1918), Torino, 1977; P. MelograniStoria politica della grande guerra 1915-1918, Milano, Mondadori, 2001.

     [16] E. Franzina, I casini di guerra, cit.,  p.190.

     [17] Sulla partecipazione dei preti e cappellani militari alla guerra: R. Morozzo Della Rocca, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti soldati (1915-1919), Udine, Gaspari, 2015; Aa,. Vv., La spada e la croce. I cappellani militari nelle due guerre mondiali, Atti del convegno di studi sulla Riforma e i movimenti religiosi in Italia (Torre Pellice 28-30 agosto 1994), a cura di Giorgio Rochat, in «Bollettino della Società di studi valdesi », n. 176, giugno 1995.

    [18] P. Monelli, Le scarpe al sole. Cronaca di gaie e di tristi avventure di alpini, di muli e di vino, Milano, Mursia, 2016.

    [19] G. Comisso, Satire italiane, Milano, Longanesi, 1961, pp.188-195.

    [20] Si veda: G. Gattei, Controllo e classi pericolose: la prima regolamentazione prostituzionale unitaria (1860-1888), in Salute e classi lavoratrici in Italia dall’Unità al fascismo, a cura di M.L.Betri-A.Gigli Marchetti, Milano, Franco Angeli,1982, pp. 763-796.

    [21]  E. Franzina, op.cit., pp.194-195.

    [22]Ivi, pp.88-89.  Si possono inoltre utilmente consultare: T. Bertillotti, Donne eroiche e «veneri vaganti». Luoghi di intrattenimento e rispettabilità, pp. 295-316, in ; M.S. Palieri, Nella trincea del sesso. «Wanda», in M. Boneschi e Aa. Vv., Donne nella Grande Guerra, Bologna, il Mulino, pp. 67-80; A. Cazzullo, Sante e puttane, La guerra dei nostri nonni, Milano, pp. 25-33.

 

     [23] Si pensi alle teorie del Lombroso che distingueva fra donna delinquente, donna prostituta e donna normale: C. Lombroso-G. Ferrero, La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, Torino, Fratelli Bocca Editori, 1903.

     [24] Di Crocerossine che esercitavano anche la prostituzione, parla C. Malaparte, in Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti con Introduzione di Mario Isnenghi, Milano, Mondadori, 1981.

     [25] Si veda: E. Imbriani, Dimenticare. L’oblio come pratica culturale, Nardò, Besa, 2004.

     [26] Infatti a San Giorgio di Nogaro venne istituita una Scuola Medica dove gli studenti di medicina, che frequentavano a Padova o in qualche altra vicina Università, venivano a completare gli studi, e una volta laureati, erano subito arruolati nell’Esercito nel Corpo Sanitario.

[27] Cfr.: S. Soldani, Donne senza pace. Esperienze di lavoro, di lotta, di vita tra guerra e dopoguerra (1915-1920) in «Annali dell’Istituto Alcide Cervi», n.13, 1991, pp.11-56; G. Procacci, La protesta delle donne delle campagne in tempo di guerra, Ivi, pp.37-86; E. Guerra, Il dilemma della pace. Femministe e pacifiste sulla scena internazionale, Roma, Viella, 2014; G. Procacci, Dalla rassegnazione alla rivolta. Mentalità e comportamenti popolari nella grande guerra, Roma, Bulzoni, 1999. In ambito salentino: S. Coppola, Pane!… Pace!, il grido di protesta delle donne salentine negli anni della Grande Guerra, Castiglione D’Otranto, Giorgiani Editore, 2017.

[28] Si veda, fra gli altri: E. Imbriani, Nella terra di mezzo. La guerra tra festa e dolore, in «L’Idomeneo – Il Salento e la Grande Guerra. Atti del Seminario di Studi. Lecce, Monastero degli Olivetani, 5 dicembre 2014», Società Storia Patria per la Puglia, sezione di Lecce, n.18, Università del Salento, Lecce, 2014, pp.199-208.

     [29] E. Franzina, op.cit., p. 82. Contro i postriboli militari e a favore del ritorno ad una pulizia morale, era anche don Pacifico Brandi che nella sua opera ci dà molte notizie sulle Case del Soldato: P. Brandi, Le mie memorie di guerra (1916-1919), Loreto, 1939.

     [30] E. Hemingway, Addio alle armi, Milano, Mondadori, 1965, pp.448-449.

     [31] F. T. Marinetti, L’alcova di acciaio. Romanzo vissuto, Milano, Vitagliano, 1921; Idem, I taccuini 1915-1921, a cura di Alberto Bertoni, Bologna, Il Mulino, 1987.

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