Lo sciakuddhi, il folletto dispettoso del Salento

il folletto salentino, visto da Daniele Bianco

 

di Paolo Vincenti

Lo sciakùddhi, o sciacuddhi, è la maschera popolare del Carnevale della Grecìa salentina, protagonista delle colorate sfilate in maschera che si tengono nei giorni carnascialeschi. È un termine greco-salentino col quale si indica un curioso folletto, esponente di quell’immenso patrimonio che sono le tradizioni popolari del nostro territorio, abitato da molte altre maschere o “spauracchi”, quali la catta scianara, l’uomo nero, le macare, il Nanni Orcu, ecc.  Lo sciakùddhi è conosciuto sotto nomi diversi non solo negli altri comuni del Salento ma anche in tutta la vasta area meridionale italiana. Nella fantasia popolare, esso è un folletto, molto piccolo, bruttino, fosco, peloso, vestito di panno e con un buffo cappellino in testa; in genere scalzo, smanioso di possedere un paio di scarpette, quindi riconoscente nei confronti di coloro che gliele donano, ai quali regala un gruzzolo di monete sonanti o indica il luogo dove si trova nascosto un tesoro, l’acchiatura. Ha l’abitudine di saltare di notte sul letto delle case che visita, raggomitolandosi sul petto del dormiente e dandogli un senso di soffocamento, poiché esercita una forte pressione; e probabilmente, proprio dalla voce dialettale carcare, ossia “premere”, deriva carcaluru, nome con cui è più conosciuto nel nord Salento.  Per la verità, questo che stiamo descrivendo è propriamente il tipo dello scazzamurrieddhu, assimilato allo sciakùddhi, mentre lu moniceddhu è raffigurato come un uomo piccolissimo, vestito con un abito da frate ed è considerato uno spiritello più bizzarro e scherzoso che cattivo, come è invece  lu scazzamurrieddhu : “piccin piccino, gobetto, con gambe un  po’ marcate in fuori, è peloso in tutta la persona, gli copre il capo un piccolo cappelletto a larghe tese e indossa una corta tunica affibbiata alla cintola”, come  ci informa il Castromediano.

Vi è almeno una trentina di modi in cui è chiamato questo folletto: oltre a quelli già citati, asciakùddhi, variante di sciakùddhi, nella Grecìa Salentina, soprattutto a Martano; àuru, nelle varianti lauru e laurieddhu, a Lecce; diaulicchiu o fraulicchiu, o, più raro, piccinneddhu, nel medio Salento; scarcagnulu, diffuso nel Capo di Leuca; altrove anche uru, urulu, ecc.

Per il Rohlfs, sciacuddhi /sciaguddhi è un folletto ed anche un incubo; il suo nome verrebbe dal greco σκιαούλον, ossia “piccolo spettro”, da σκιά ,“ombra”, con influsso del latino augurium. In altre aree del Salento si ha però, come abbiamo detto, anche scazzamurreddhu, scazzamaurrieddhu, che secondo il Vocabolario dei dialetti salentini vale “spirito, folletto” e “incubo”. L’origine si trova in un cazzamurreddhu che, oltre a presentare l’aspetto di una parola composta, si mostra anche congruente col francese cauchemar. La somiglianza non è sfuggita a Rohlfs, che infatti rimanda la nostra forma a un composto tra la voce dialettale cazzare, “schiacciare”, e il germanico mara, “fantasma”. Nonostante la voce salentina (e meridionale) presenti un vocalismo e uno sviluppo morfologico più tipico, l’origine di questo secondo elemento è rafforzata dal primo, visto che TLFI (Trèsor de la langue francaise informatisè) ritiene che il francese cauche dipenda proprio da un latino calcare, “schiacciare” e, in sintonia con la proposta di OED (Oxford English Dictionary on line) per l’inglese nightmare, riconduce il francese mar a forme di tipo mare, “spettro” presenti in neerlandese, tedesco e inglese antico.

Munacceddhu e animali, visto da Daniele Bianco

 

A Napoli, “o munaciello” è quasi una maschera popolare; ma, a differenza del monaciello napoletano, che miracolosamente nacque dalla bella Mariuccia e dall’ottantenne doli Salvatore, come informa Giovan Battista Basile nel Cunto de li cunti, lu scazzamurrieddhu salentino non ha lasciato traccia della sua venuta al mondo. Può essere lo spirito di un bambino morto senza aver ricevuto il battesimo, come il monachicchio, l’omologo lucano del nostro moniceddhu, di cui parla Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli. Oppure, questo spirito lo si credeva sprigionato dal fumo delle carcare (da cui, forse, un’altra etimologia per carcaluru), nelle quali si produceva la calce utilizzata per le costruzioni. Dal fumo della calce ribollente, veniva fuori l’astuto folletto e guai alla casa che prendeva di mira, nella quale si intrufolava passando dal camino, e guai agli abitanti della stessa, che venivano svegliati di soprassalto dallo scazzamurrieddhu, il quale in questo modo, sonoramente, sottolineava il proprio arrivo. Certo, il comitato di benvenuto che il furbo carcaluro si sarebbe aspettato di trovare al suo arrivo non era proprio la “festa” che gli arrabbiatissimi famigliari, svegliati di soprassalto, gli volevano fare. Il Nostro è dunque un nano, categoria dalla quale ha attinto molta letteratura per l’infanzia e in ispecie le fiabe (pensiamo, su tutti, a Biancaneve e i sette nani).

Il primo e il più famoso di questi nani è lu cumpare Sangiunazzeddhu, così chiamato perché piccolissimo quasi quanto un sanguinaccio, secondo il Castromediano. Sangiunazzeddhu sta per Sanguinello e la derivazione forse più attendibile di questo termine, secondo Rossella Barletta, è quella di Silvanus, una divinità agreste della mitologia romana che più tardi il popolo convertì in una specie di folletto.

A volte, egli può volgere la sua attenzione agli animali: di notte striglia, abbevera i cavalli e gli asini nelle stalle, oppure li bastona; può vedere di buon occhio il cavallo e mal vedere l’asino, e allora toglie la biada all’uno e la porta all’altro. Una volta infilatosi in casa dal camino, comincia a compiere una serie di scherzetti anche pesanti: nasconde o cambia la disposizione degli oggetti, rompe piatti, bottiglie, bicchieri, producendo un gran frastuono, facendo sobbalzare nel letto i componenti della famiglia. Guai se vi è un ospite sgradito in casa: lu moniceddhu comincia a premergli il petto fino a toglierli il respiro. Ma se l’oppresso riesce a vincere l’affanno e a catturare il folletto, prendendolo per il ciuffetto e tenendolo fermamente, allora il dispettoso spiritello piange e prega e tutto promette per riavere la libertà.

disegno di Daniele Bianco

 

Un altro modo per sottometterlo è impadronirsi del suo berretto rosso, lu cappeddhuzzu. Senza il suo copricapo, il folletto non può vivere e per riaverlo promette di rivelare ai padroni della casa il luogo in cui si trova un’acchiatura. Ciò può essere un tranello e, per ritrovare questo fantomatico tesoro, l’uomo può cacciarsi in grossi guai, sempre che il folletto non sia nel frattempo scappato, dopo aver ricevuto il suo cappeddhuzzu, senza rivelare alcun nascondiglio. Essendo un burlone, se gli si chiede denaro, egli colma la casa di cocci; se invece gli si chiedono cocci, egli dà il denaro. “E’ uno di quei folletti”, dice ancora il Castromediano, “tra il bizzarro e l’impertinente, tra lo stizzoso e lo scherzevole, cattivo con chi lo ostacola o sveli le sue furberie, benefico con chi usa tolleranza”.

Frequentando le stalle, può succedere che si innamori di un’asina o di una cavalla ed allora è tutto premure e dolcezze. Pettina e lucida il crine o la coda della cavalla di cui è innamorato e, a questa soltanto, porta tutta la biada, sottraendola agli altri animali, che diventano sempre più rinsecchiti, per somma disperazione dello stalliere che non riesce a darsi una spiegazione per lo strano fenomeno. La famiglia che abita la casa visitata dal nanetto, a causa della sua presenza ossessiva e fastidiosissima, può anche decidere di cambiare casa; sempre che il terribile folletto non decida di seguire le sue vittime nella nuova abitazione.

Fra i vari dispetti, il peggior male è, senz’altro, quello di non dormire la notte o di dormire male, con un sonno agitato dagli incubi. C’è un altro rimedio per tenerlo lontano: si può apporre ad un arco o alla sommità della porta principale della casa un paio di corna di bue o di montone, di cui il folletto ha una paura tremenda. Come visto, un altro nome con cui viene indicato dalle parti di Lecce è lauru o auru, auricchiu nel suo diminutivo. Secondo Rossella Barletta, l’origine del termine auro deriva da “augurio”, dal latino augurium, derivato da augur, cioè “augure”, intendendo con questo termine quei sacerdoti che, nella religione romana arcaica, divinavano la volontà degli déi attraverso la lettura dei segni celesti o anche attraverso il canto o il volo, oppure ancora le interiora, degli uccelli. Ma il termine “augurio”, nella nostra lingua, è collegato con qualcosa di positivo, un buon auspicio, e questo ci fa pensare alla componente buona, o almeno duale, del carattere di questo folletto-divinità della casa. Maurizio Nocera individua un’altra etimologia per laurieddhu: “Le due parole (Laurieddhu e Monachicco) non sono in contraddizione fra di loro, anzi: Laurieddhu si riferisce al luogo e ha la sua origine etimologica da laura, grotta naturale, spesso usata nel primo millennio d. C. dai monaci bizantini per i loro ritiri, per pregare ed anche per dormire. In Salento le laure basiliane sono molte tuttora visitabili. Monachicco invece significa appunto piccolo monaco, che vive nella laura”.

Ricorda, Nocera, le sue paure di bambino nel piccolo paese agricolo (Tuglie) in cui è nato: “La mia paura era legata soprattutto al buio e ai racconti che si facevano intorno a questo elemento della natura. Una volta andati a letto, ai bambini si raccomandava di mettersi sotto le coperte e di non mettere mai fuori la testa da esse, pena l’arrivo del laurieddhu e gli scherzi di cattivo gusto che egli avrebbe potuto fare. A ciò vanno aggiunte le paure derivanti dai racconti legati all’apparizione di anime morte o comunque di spiriti maligni. Ovviamente da bambino anch’io ho creduto a tutto ciò, e non dimentico il terrore che avevo per questo strano spiritello. Il mio lettino stava affianco a quello di mio fratello più grande, oltre al quale c’era il camino, di giorno acceso, di notte spento. Una volta coricato e messa la testa sotto le coperte, l’immagine della mente più appariscente che mi si presentava era sempre quella della bocca del camino nero, dal quale poteva uscire lo gnomo dispettoso o qualche anima morta. Terrore e tremore fino a che il sonno non vinceva. Da adulti, mio fratello mi ha ricordato che durante quella prima fase di sonno ipnagogico, parlavo molto, a volte gridavo anche, e le parole che scandivo erano sempre rivolte allo gnomo affinché stesse lontano da me. Paure di bambino scaturite dalla narrazione.

Oggi di tutta questa leggenda sono rimasti solo i racconti”. Fatto sta che, nonostante la disponibilità di contributi autorevoli di figure di spicco della cultura salentina, deve ancora allestirsi una bibliografia sugli esseri immaginari salentini, anche in relazione a quelli di altre aree dello spazio mediterraneo.

Per trovare l’origine degli scazzamurrieddhi, secondo noi, si può certamente risalire ai Lares, ai Penates e ai Manes, le divinità domestiche della casa romana. Nella religione romana, i Lares erano protettori di uno spazio fisico ben preciso e circoscritto, la casa appunto. Ad essi si portavano delle offerte, come un grappolo d’uva, una corona di fiori o cibarie. Il Lar Familiaris è invocato da Catone nel De agri cultura e da Plauto nell’Aulularia. I Penati erano, etimologicamente, gli dèi del penus, cioè il vano delle provviste. Anch’essi erano i protettori della casa e dei suoi abitanti, in particolare del pater familias. Vi erano poi i Lemures o Manes, cioè gli spiriti dei morti. La morte, nell’antica Roma, veniva ritenuta contagiosa, funesta, e quindi doveva essere purificata con riti appropriati, come il sacrificio di una scrofa a Cerere. Il lutto durava nove giorni. L’ultimo giorno, si faceva un pasto sulla tomba, poi la pulizia con la scopa e la purificazione della casa e di tutti coloro che avevano assistito alla sepoltura. La famiglia infatti si riteneva contaminata, in qualche modo, dal contatto con la morte. Se ai morti veniva data giusta sepoltura, essi potevano sopravvivere in pace nell’aldilà, altrimenti potevano tornare sulla terra e tormentare i vivi. Questi spettri malefici erano chiamati Larvae e i famigliari venivano da essi tormentati. I Lares ed i Penates non abbandonavano mai la casa e ne proteggevano gli abitanti, mentre i Manes, nella loro forma di Larve, potevano essere avversi. Se dunque affondassero nella mitologia romana le origini dei folletti di casa nostra, ciò fornirebbe anche una spiegazione della loro doppia natura, benevola e malevola.

tavola di Daniele Bianco

 

Ringrazio il prof. Antonio Romano per l’ottima consulenza bibliografica.

 

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