Dal Carnevale alla Pasqua. I riti della Settimana Santa a Gallipoli

di Paolo Vincenti

 

Il lungo periodo che va dal Carnevale alla Pasqua nella città di Gallipoli è caratterizzato da una ininterrotta serie di riti in cui più che altrove il sacro si mischia col profano, in una straordinaria sintesi che dimostra quanto sia stato operante nel passato il fenomeno che gli studiosi chiamano sincretismo.

Non si può parlare delle manifestazioni di culto a Gallipoli senza fare un raffronto fra il passato ed il presente perché la modernità ha trasformato molto, in certi casi tutto, di quel complesso di rituali e tradizioni che costituiscono il patrimonio demo etno antropologico della terra salentina.  Una volta, il tempo di Carnevale a Gallipoli iniziava esattamente il 17 gennaio, festa di Sant’Antonio Abate, detto “Sant’Antoni de lu focu”, quando si accendevano tantissime “focareddhe” e si bruciavano per la città enormi cataste di gramaglie d’ulivo, dando così l’avvio alla festa con canti e balli per le strade ed i vicoli[1]. Era il suono della pizzica pizzica ad allietare i festivi ritrovi mentre il fuoco scoppiettava alzando nel cielo le sue scintille. Una tradizione, questa, che affonda le radici in un passato pagano quando la funzione apotropaica del fuoco veniva esaltata dai riti di purificazione.  Il periodo di festa dunque iniziava significativamente con un battesimo di fuoco, nell’evento di Sant’Antonio Abate – al quale il rito, una volta cristianizzato, fu dedicato -, e terminava con un funerale, quello di Teodoro, la maschera popolare del carnevale gallipolino, la cui morte segnava l’avvio del periodo di mestizia consona alla Quaresima.

Teodoro, il protagonista del carnevale gallipolino d’antan, viene chiamato confidenzialmente “lu Titoru”. Come riferisce lo studioso Elio Pindinelli, la leggenda vuole che il giovane soldato, trattenuto lontano dalla sua terra, desiderasse ardentemente tornare in patria almeno per il Carnevale, nel periodo, cioè, in cui tutti potevano godere dell’abbondanza del cibo e divertirsi, prima dell’avvento della Quaresima. Anche la madre di Teodoro, la “Caremma”, in pena per il figlio, pregava perché Dio potesse concedere qualche giorno di proroga del Carnevale, e le sue suppliche furono ascoltate. Si allungò così la festa di due giorni (detti “li giurni de la vecchia”) e Teodoro poté arrivare a Gallipoli in tempo per i festeggiamenti. Era un martedì e Teodoro, per recuperare il tempo perduto, si diede a gozzovigliare partecipando della crapula insieme ai suoi compaesani e mangiando quintali di salsicce e polpette di maiale, tanto da rimanerne strozzato. Così, la festa si trasformava in funerale perché con Teodoro moriva anche il Carnevale, nella disperazione della madre e fra le urla di dolore delle vicine e comari[2].

La bara di Teodoro veniva portata in processione per le strade della città: un carro, allestito coi paramenti funebri, trasportava un pupo di paglia che raffigurava lu Titoru, fra i pianti delle prefiche (le “chiangimorti”) e i frizzi e lazzi del popolo; infatti, essendo il cadavere di Teodoro abbigliato elegantemente, con frac e cilindro, questo suscitava l’ironia dei suoi amici e compagni di bevute, straniti nel vedere un pezzente acconciato in siffatto modo. Così le imprecazioni e le battute di spirito dei partecipanti al funerale andavano avanti fino a mezzanotte quando il suono delle campane segnava la fine della crapula, cioè del divertimento matto e volgare. La rappresentazione teatralizzata della morte del Carnevale ha origini antichissime, che risalgono almeno al Medioevo, come dimostrano gli studiosi di tradizioni popolari. Nel Medioevo venivano allestite delle sceneggiate in cui era fatto morire il Re Carnevale, il quale rappresentava il sovrano di un immaginario Paese della Cuccagna, dove tutti potevano bere e mangiare a sazietà. “Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza.” Chi non conosce questi versi della ballata di Lorenzo De’ Medici, Il trionfo di Bacco a Arianna? È uno di quei canti carnascialeschi che, nel Quattrocento, a Firenze, durante il Carnevale venivano cantati dalle allegre maschere in coro su dei carri sontuosamente addobbati.  È il canto della gioventù lieta e fuggitiva, un invito alla gioia e alla festa, portata dal Carnevale. Molti studiosi hanno visto una continuità fra questa festa e gli antichi “Saturnali”, che si celebravano a Roma in dicembre.  I Saturnali (descritti da Macrobio nella sua opera Saturnalia) erano dei giorni, nel cuore dell’inverno, dedicati al dio Saturno e si tenevano grandi festeggiamenti, durante i quali i romani si travestivano ed accadeva che i nobili indossassero le misere vesti degli schiavi ed i poveri indossassero gli abiti dei nobili con una confusione di ruoli che è tipica della festa, ossia del tempo straordinario. Ma avventurarci nelle svariate ipotesi sull’origine del Carnevale e sulla stessa etimologia del nome ci porterebbe lontano dal tema del presente contributo. In Puglia, il Carnevale più antico è quello di Putignano, ed anche il più lungo perché i festeggiamenti cominciano il 26 dicembre, con la cosiddetta “Festa delle Propaggini”, in concomitanza con la ricorrenza di Santo Stefano, patrono della cittadina. Nel Salento, quello di Gallipoli, oltre ad essere uno dei più antichi, è certamente il più spettacolare. In passato, per le strade del borgo antico, le maschere, a gruppi, scorrazzavano per le strade invase dalla gente, fra gli applausi, i coriandoli, i confetti e l’euforia generale. Con l’inizio del Novecento, il Carnevale gallipolino si spostò nella città nuova, ma sempre “lu carru te lu Titoru” rimaneva protagonista assoluto delle sfilate. Cominciava, in quel periodo, la tradizione dei carri allegorici, sull’esempio degli altri e più rinomati Carnevali nazionali. Fu dopo la seconda guerra mondiale che questa tradizione prese piede a Gallipoli, ed ogni anno di più si allestivano enormi carri colorati, realizzati dalle sapienti mani degli artigiani locali[3].

Finiva di impazzare il carnevale nella città vecchia per spostarsi su Corso Roma, nelle nuove forme codificate dagli operatori culturali e la modernità prendeva il sopravvento sulla tradizione. Gli imprenditori gallipolini capirono di potere sfruttare meglio dal punto di vista turistico l’attrazione del Carnevale e da allora questo ha avuto un tale successo da non temere rivali nella provincia di Lecce, con una massiccia affluenza di visitatori da ogni dove. Certo, lamenta lo storico Cosimo Perrone, si è perso lo spirito originario della festa, quello che animava, almeno fino agli anni Settanta, il popolo gallipolino nel periodo carnascialesco. Purtroppo la tradizione si perde anche perché scompaiono coloro che ne erano i depositari, i vecchi maestri cartapestai gallipolini, che ormai non sono più. Quando rintoccava il campanone di San Francesco d’Assisi, spiega Perrone, tutti si mettevano in ginocchio e manifestavano la propria compunzione; cominciava così, dal Mercoledì delle Ceneri, la penitenza, che si protraeva per quaranta lunghi giorni, ovvero i giorni della Quaresima.

Dopo il Mercoledì delle Ceneri, il giovedì della settimana successiva, si festeggia la Pentolaccia, che dà la possibilità di consumare gli ultimi strascichi del Carnevale ormai concluso. Si tratta di una grossa pentola, una pignatta, nella quale sono contenuti confetti e dolciumi di ogni tipo che i bambini devono rompere, per potere venire in possesso del prezioso contenuto. Ma questa tradizione un tempo era molto più sentita: gli ultimi momenti di divertimento, prima della penitenza quaresimale di preparazione alla Santa Pasqua[4]. La Quaresima, dal latino quadragesima dies, è il lungo periodo di preparazione all’Avvento del Signore e dura appunto quaranta giorni, dal Mercoledi delle ceneri al Sabato Santo, e ricorda il periodo trascorso da Gesù Cristo nel deserto ad imitazione del quale i fedeli in passato facevano penitenza attraverso il digiuno rituale e la mortificazione della carne.

In queste settimane faceva e fa tuttora la sua comparsa sui balconi delle case non solo gallipoline la maschera della “Caremma”. Questa usanza, molto diffusa in passato, si era quasi del tutto persa ma negli ultimi anni, grazie alle associazioni culturali di molti centri salentini, è stata ripresa ed oggi nei nostri paesi tanti vicoli e cortili, balconi e palazzi espongono la simpatica vecchina di pezza[5]. La Caremma o Quaremma (secondo altre versioni Coremma) è la madre del Carnevale e, con la sua bruttezza, rappresenta simbolicamente la Quaresima, il periodo dell’astinenza e del digiuno canonico. È raffigurata da un fantoccio a forma di donna, vestita di nero e in posizione seduta: in una mano ha un fuso con un filo di lana e nell’altra una arancia trafitta da sette penne di gallina. Questo strumento rappresentava, nella società contadina di un tempo, un improvvisato calendario quaresimale che, settimana dopo settimana, veniva aggiornato, strappandole una penna per volta, fino all’ultima domenica di Pasqua quando, al suono delle campane, le si dava fuoco nelle pubbliche piazze. Il colore nero dei suoi vestiti esprime il lutto per la perdita del figlio, Teodoro. La canocchia e il filo rimandano ad una tradizione antichissima. Infatti, già nella religione dei romani, una delle mitiche Parche, Cloto, filava la trama e nelle sue mani scorreva il filo della vita degli uomini. L’arancia rappresenta il frutto selvatico originario da cui si erano riprodotti i vari innesti e il suo succo amaro è segno di sofferenza. Nei tempi passati, a mezzogiorno di Sabato Santo, si sospendevano tutte le attività e si cominciava a fare un rumore enorme; in campagna, i contadini alzavano le zappe in aria e le battevano fra di loro, le campane suonavano a festa, i ragazzini ruotavano le loro “trozzule” e le madri davano due scappellotti ai propri figli. In quel momento la Caremma (detta Saracosteddha o Saracostì nella Grecìa Salentina) esauriva il proprio compito ed allora veniva tolta dal terrazzo, appesa ad un palo e, a mezzanotte, incendiata con scoppi di mortaretti. Finiva così il periodo di Quaresima ed iniziava, con la Resurrezione del Signore, il tempo della purificazione e della salvezza. Questo antichissimo rito pagano, che coincide con l’inizio della primavera, venne assimilato dal Cristianesimo nella propria cultura. L’usanza di rappresentare con fantocci vari il periodo fra Carnevale e la Pasqua è comune a tutta Europa, sia pure con modalità diverse. Aldo D’Antico fornisce una delle spiegazioni del termine “Caremma”: questo deriverebbe dal francese “Careme”, che significa Quaresima, e si deve all’invasione delle truppe francesi nel Meridione nel XVI secolo. I soldati francesi presenti nel Salento, infatti, incuriositi da quel fantoccio simile ad una strega messo sulle terrazze delle abitazioni, gli attribuirono il significato che loro davano a “persona vestita stranamente”, altra variante del termine francese careme, anche associandola al periodo pasquale. Il dialetto salentino, poi, così pieno di francesismi, ha fatto proprio questo termine, che è diventato Caremma[6].

Ma facciamo un passo indietro. I riti della Settimana Santa a Gallipoli iniziano il venerdi precedente la Domenica delle Palme, quando si festeggia la Madonna Addolorata.

A celebrare l’Addolorata è la Confraternita di Santa Maria del Monte Carmelo e della Misericordia, ma non c’è chiesa o confraternita a Gallipoli che non esponga una effige della Vergine. Questa festa ricorda i sette dolori di Maria. A mezzogiorno in punto, la statua della Vergine, pregevole opera lignea del XVIII secolo, esce dalla sua chiesa per recarsi in Cattedrale e durante il rito religioso viene suonato l’Oratorio Sacro. Fra questi, lo Stabat Mater, la cui musica fu composta dal gallipolino Giovanni Monticchio, verso la fine dell’Ottocento: sette terzine, come i sette dolori di Maria, estrapolate dalla celebre opera di Jacopone da Todi. Alternativamente vengono suonate le Frottole.

Secondo Cosimo Perrone, l’introduzione dell’Oratorio Sacro a Gallipoli risale al 1697 e fu introdotta dal maestro Fortunato Bonaventura ed eseguita per la prima volta tra il 1733 e il 1740, nella Chiesa delle Anime. “Svariati sono stati i maestri che nell’ultimo secolo l’hanno diretta. Da Angelo Schirinzi, Gino Metti, al maestro Giorgio Zullino, il quale insieme a Metti, ha composto un preludio dedicato alla Madonna, al maestro Gino Ettorre, francescano, professore nel Conservatorio di Lecce”. Negli ultimi anni “è toccato anche alla maestra Gabriella Stea e al maestro Enrico Zullino”[7]. Come Oratorio sacro sono conosciuti anche il Mater Dolorosa, opera del maestro Francesco Luigi Bianco del 1886, e Una turba di gente, dello stesso maestro Bianco su testo di Giovanni Santoro.

La Frottola è una composizione musicale di origine popolare che risale al Settecento ed è caratterizzata da un alternarsi di toni lenti e veloci e, applicata ai sacri riti, con l’accompagnamento del canto, conferisce alla celebrazione un forte pathos[8]. È tradizione, in questo giorno, che le donne recitino mille Ave Maria. La statua lignea della Madonna è vestita di nero, con veste trapuntata di ricami dorati e una corona d’argento le sormonta il capo, ricoperto da un lungo velo fino alle spalle. Sino a qualche anno fa, la statua veniva vestita dalla nobile famiglia dei Ravenna, nella cappella privata del proprio palazzo, per un antico privilegio di cui godeva la famiglia[9]. I confratelli in abito nero e con la candela a quattro luci accompagnano la processione, insieme al Vescovo, ai sacerdoti e alle autorità civili e militari. Essi inoltre, in coppie di due, portano la Croce dei Misteri, una croce molto particolare che reca in sé tutti i simboli della Passione e Morte di Cristo, come la lancia che ferì il costato, la tenaglia, il boccale pieno di fiele, l’amaro calice bevuto nell’Orto degli Ulivi, il sudario, la corona di spine, la mano che simboleggia gli schiaffi dati a Cristo dal centurione romano, la scritta INRI apposta sulla Croce, il gallo, che rimanda al tradimento di Pietro, il martello, i chiodi, la colonna della flagellazione, la scala, la canna con la spugna imbevuta di aceto, i dadi, la tunica rossa tirata a sorte dai soldati, la sacca con i trenta denari del tradimento di Giuda e la lanterna, che simboleggia il lume portato dai soldati del Sinedrio quando andarono ad arrestare Gesù nell’Orto degli Ulivi. Colpisce, nella processione, l’immagine piangente e contristata della Madonna Addolorata e spiccano la sua veste riccamente decorata, il fazzoletto e il cuore trafitto.

Durante la cerimonia, si tiene anche la Benedizione del mare in cui la Madonna, dal bastione della Bombarda, comunemente detto di San Giuseppe, di fronte al porto mercantile, benedice l’elemento più importante per una città rivierasca, il mare, preziosa fonte di reddito per moltissimi gallipolini dediti alla pesca. L’incontro fra le due Confraternite viene detto “Ssuppiju”, termine dialettale con cui si indica propriamente l’andare incontro di una Confraternita all’altra. Ciò avviene quando nella processione la Confraternita della Misericordia si incontra con quella di Santa Maria delle Neve o del Cassopo e in segno di ospitalità sosta per alcuni minuti di fronte alla Chiesa di San Francesco di Paola, sede di detta confraternita. Come si diceva, sono numerosissime le statue dell’Addolorata presenti a Gallipoli; fra le più importanti: quella dell’Oratorio di San Luigi, quella dell’Oratorio di San Giuseppe, quella dell’Oratorio del Rosario, l’Addolorata dell’Oratorio dell’Immacolata, quella dell’Oratorio di Santa Maria degli Angeli, la Vergine del Suffragio dell’Oratorio delle Anime, l’Addolorata della Cattedrale, quella dell’Oratorio di Santa Maria del Cassopo, dell’Oratorio del Ss. Crocifisso, la Desolata dell’Oratorio di Santa Maria della Purità, l’Addolorata dell’Oratorio del Carmine e un’altra lignea sempre dell’Oratorio del Carmine[10].

Il primo venerdì di Quaresima poi a Gallipoli inizia l’ostensione nella Cattedrale di Sant’Agata della Sacra Sindone, che finisce il Venerdì prima della Domenica delle Palme. Essa è una riproduzione della Sindone del Duomo di Torino, una delle poche copie esistenti al mondo, portata a Gallipoli nel Cinquecento dal Vescovo Quintero Ortis[11]. “Nell’Oratorio dell’Immacolata, tutti i venerdì di Quaresima si è soliti fare la pia pratica delle cinque piaghe del Signore. I confratelli, partendo dalla porta d’ingresso, caricati della croce o delle grosse pietre appese al collo, salmodiando e recitando le preghiere, raggiungono in ginocchio l’altare”[12].

Luigi Tricarico riporta il modo di dire, diffuso a Gallipoli, “le uci, le cruci, le parme e a Pasca pane e carne”, con cui si fa riferimento alle domeniche di Quaresima precedenti la Pasqua e caratterizzate ciascuna da una espressione di religiosità popolare, ovvero: le voci delle Anime del Purgatorio (uci) a cui è dedicata la quarta domenica di Quaresima; le croci che vengono coperte con del panno viola (cruci) la quinta domenica di Quaresima (il velo viene tolto alle croci durante la Messa sciarrata del Venerdi Santo ed esse sono restituite all’adorazione dei fedeli); la Domenica delle Palme (parme); e quindi la fine delle restrizioni e del digiuno penitenziale (pane e carne) nella Domenica di Pasqua[13].

La Domenica delle Palme si ricorda l’ingresso festante di Gesù a Nazareth, accolto da moltitudine di rametti di ulivo sventolanti al cielo. Oggi non si tiene più la sacra rievocazione storica della Passione e Morte di Gesù curata per molti anni dalla Comunità del Canneto.

I riti pasquali hanno inizio il Mercoledi delle Ceneri, che era detto in latino caput quadragesimae, ossia inizio della Quaresima, o caputi ieiunii, inizio del digiuno. Le ceneri sono quelle dell’ulivo benedetto nella Domenica delle Palme e la loro riduzione in polvere simboleggia la più estrema mortificazione dell’uomo, secondo il detto evangelico: “ricordati che sei polvere e polvere ritornerai” (dal Libro della Genesi). Il Giovedì Santo è il giorno dedicato ai Sepolcri. In realtà, in questo giorno si ricorda l’istituzione del Sacro Mistero dell’Eucarestia e durante la Messa, in Coena Domini, che si tiene la sera, viene rievocata l’Ultima Cena di Cristo con gli Apostoli. Al termine della messa, le sacre ostie sono esposte su un altare addobbato per l’occasione, in modo da poter essere adorate dai fedeli fino all’indomani pomeriggio. E’ tradizione portare sull’altare fiori e piatti di grano germogliato al buio. Questo grano, che adorna l’altare della Reposizione, è stato fatto germogliare dalla quarta o quinta domenica di Quaresima fino al Mercoledì Santo, in una stanza completamente buia ed è offerto simbolicamente a Cristo, che, chiuso nell’Urna, risorgerà come il grano alla luce. Questi piatti di grano sono ornati con nastrini colorati e immaginette sacre[14].

Come informa Luigi Tricarico, in passato, a partire da questo momento, le campane venivano legate in segno di lutto ed era vietato persino ridere, scherzare o cantare per strada come forma di rispetto per Cristo morto e di partecipazione al dolore[15]. La sera viene fatta visita ai Sepolcri, sia dai fedeli che dalle varie Confraternite cittadine. Queste sono annunciate da tromba, tamburo rullante e “trozzula” e procedono alla visita a passo lento e in orari distinti. La trozzula è un curioso arnese di legno costituito da un manico che termina con una ruota dentata e una linguetta che, sbattendo con un movimento rotatorio sui denti della ruota, fa un grosso baccano: uno strumento antichissimo, di cui si servivano già primi cristiani per chiamarsi a raccolta nei luoghi di preghiera (la “troccola” è detta a Taranto e apre la processione del Venerdi). I confratelli indossano il saio, la mozzetta e il cappuccio completamente calato sulla faccia per mantenere l’anonimato e sono chiamati per questo, Mai, una parola che probabilmente deriva dal termine mago, forse scaturita dalla paura che un tempo il loro aspetto sinistro incuteva nei bambini.

La ritualistica dei Sepolcri, i “Sabburghi” in dialetto, commemora l’inizio della Passione di Cristo nell’orto di Getsemani.  Come riferisce Cosimo Perrone, questo rito ebbe inizio a Gallipoli nella prima metà del Settecento, ad opera, probabilmente, della Confraternita di San Giovanni Battista, ora scomparsa, nella chiesetta dove oggi si venerano i Santi Cosma e Damiano.

 

A Gallipoli più che altrove infatti si è diffusa la devozione confraternale ed ogni sodalizio – sono dieci in tutto – è contraddistinto da propri colori e particolari privilegi ottenuti. Sfilano, sotto gli occhi dei fedeli e dei curiosi turisti, le Confraternite della Misericordia, di Santa Maria del Rosario, di Santa Maria della Neve, di San Giuseppe, del Ss. Sacramento e del Canneto, dell’Immacolata Concezione, della Ss. Trinità e delle Anime del Purgatorio.

Esse discendono dalle medievali corporazioni delle arti e mestieri e la loro composizione interna va dai muratori ai sarti, dai pescatori agli scaricatori di porto, o bastagi, dai fabbri ai falegnami, e via dicendo. Ognuna ha una chiesa propria e una propria divisa ma solo tre confraternite possono aggiungere al saio, alla mozzetta e al cappuccio, il cappello a larghe tese e il bordone da pellegrino: quella di Santa Maria della Neve e San Francesco da Paola, quella della Misericordia e quella della Santissima Trinità. Un tempo, era tradizione che nella giornata del Giovedi Santo si tenessero delle vere e proprie processioni ai Sepolcri da parte di alcune confraternite che portavano la statua di Cristo morto e dell’Addolorata[16].

Lasciamo la parola allo storico: «Anticamente, prima della riforma liturgica, quando cioè Cristo risorgeva il mezzogiorno di sabato, la funzione del Giovedì Santo cominciava fin dalla mattina presto. A mezzogiorno in punto, “per privilegio secolare” usciva la processione della Confraternita della SS. Trinità e Purgatorio (dei nobili) poi di Sant’Angelo (dei nobili patrizi), indi seguivano quelle del Rosario, Santa Maria del Cassopo, Sacro Cuore, San Giuseppe, San Luigi, Santi Medici. Alle 17,30, usciva la processione della Confraternita degli Angeli “lunghissima e ricca di simbolismo col gruppo statuario di Cristo morto fra gli Angeli, impugnanti gli arnesi del martirio”»[17]. Prima della riforma liturgica del 1957, “alle primissime ore del Venerdi Santo, ancora prima dell’alba, la Confraternita di S.Maria della Purità (la Confraternita te li Vastasi, cioè degli scaricatori di porto o bastagi) attraversava con la statua di Cristo morto […] e con quella della Vergine Desolata […] le strade di tutta la città…”[18]. Oggi si tiene invece la semplice visita.

Nel pomeriggio, in tutte le chiese e chiesette viene allestita la Deposizione. Il Mistero è aperto all’adorazione del pubblico a partire dalle ore 15 fino a mezzanotte, quando la Chiesa si chiude per consentire la preparazione della Processione del Venerdi Santo. Se, nella visita ai Sepolcri, succede che due coppie di confratelli diversi si incontrino, nel già citato “Ssuppiju”, il diritto di passare spetta alla Confraternita più antica.

Un tempo, quando i sensi della religiosità popolare si esprimevano in maniera più vibrante, nella società contadina del passato, così lontana dagli stimoli e dalla moderna tecnologia, la contrizione da parte del popolo si allungava in tutto il tempo della Quaresima. Davvero uomini e donne mortificavano la propria carne con digiuni e astinenza sessuale. Oggi, per i fedeli, il periodo del rigore abbraccia la sola settimana santa, con il cosiddetto “precetto pasquale”.

 

Il Venerdi Santo si celebra la “Messa sciarrata”, cioè errata, sbagliata, perché esce fuori dai canoni liturgici, quasi che il sacerdote, colpito e frastornato dal lutto, non si ricordasse più come celebrarla.  La Processione del Venerdi Santo è anche detta “Te l’Urnia” (ossia della Tomba) e viene organizzata dalla Confraternita del Crocefisso, a cui una volta appartenevano i bottai, che hanno l’abito rosso, la mozzetta celeste e una corona di spine sulla testa e che portano i Misteri della Passione di Cristo, e da quella degli Angeli, i cui appartenenti, ovvero i pescatori, indossano l’abito bianco e la mozzetta celeste e portano la statua della Madonna Addolorata. Questa processione si ferma davanti al parapetto che si affaccia sul mare, presso il Bastione di San Francesco di Paola e da qui la Vergine dà la sua benedizione ai pescatori, che ringraziano suonando le sirene delle loro imbarcazioni; poi si prosegue fino all’arrivo in Chiesa, intorno alle 24[19]. Questa processione, una delle più suggestive di Puglia insieme a quella di Taranto (coi famosi Perdùne), rappresenta il culmine delle celebrazioni pasquali gallipoline ed è largamente conosciuta in tutta Italia. Del resto, il movimento dei “flagellanti” ha origini antichissime: questo moto di devozione penitenziale iniziò a propagarsi in Italia fin dal Duecento. Oltre al Cristo morto, opera lignea del XIX secolo, sfilano molte statue in cartapesta realizzate su commissione del sodalizio organizzatore. La sacra manifestazione è ricca di fascino, grazie ai Penitenti, cioè confratelli che, per espiazione dei peccati, si autoflagellano ad imitazione di Cristo.

Essi sono anonimi e utilizzano per questo rito alcuni speciali strumenti, come la “tisciplina”, che consiste in lamine di ferro di varia grandezza con cui il penitente incappucciato e a piedi scalzi si percuote con la mano sinistra, mentre tiene nella mano destra un crocefisso; alcuni utilizzano un più semplice cilicio; un altro strumento di tortura è la “mazzara”, o zavorra, cioè due grosse pietre legate ad una corda che il penitente si appende al collo sempre come punizione corporale, e poi la “Croce”, i cui portatori sono detti Crociferi. Inoltre sul cappuccio, i penitenti portano la corona di spine. Questa è fatta con una pianta selvatica di asparago, raccolta in campagna le ultime settimane di Quaresima e viene chiamata “sparacine” o “spine te Cristu”.

Molto lunga e laboriosa è la preparazione dell’Urnia, cioè della Tomba di Cristo, che è portata in processione: poche ore prima di uscire dalla Chiesa, vengono cosparse sulla Tomba delle gocce di una essenza profumata che richiama gli odori tipici della vegetazione medio-orientale, e alcuni confratelli particolarmente devoti fanno arrivare questo profumo addirittura dalla Terra Santa[20].

Molte sono le statue del Cristo Morto e tutte bellissime: il Cristo Morto della Confraternita del Crocefisso, quello della Confraternita di Santa Maria degli Angeli, quello ligneo della Chiesa di San Francesco D’Assisi, opera dell’artista spagnolo Diego Villeros, del 1600; quello della Confraternita di Santa Maria del Monte Carmelo e della Misericordia, quello della Confraternita di Maria Ss. Della Purità, che è racchiuso in un’urna dorata; inoltre, il Cristo Morto con l’Addolorata della Confraternita di Santa Maria della Neve o del Cassopo[21]. Alcune Confraternite, come quelle del Carmine, della Purità, di San Giuseppe, e dell’Immacolata allestiscono anche il Mistero della Deposizione, comunemente chiamato Calvario, esponendo le statue dell’Addolorata e del Cristo Morto all’adorazione dei fedeli. Il più bello, che si poteva ammirare fino agli inizi degli anni Novanta del Novecento, era quello della Confraternita dell’Immacolata, opera dei fratelli pittori Nocera. Ma Calvari e Ultime Cene vengono allestiti anche nelle case dei privati per essere esposti, soprattutto a Gallipoli vecchia, durante il pellegrinaggio dei Sepolcri o durante la Processione del Venerdi Santo. Molte famiglie, infatti, posseggono proprie statue inerenti la Passione, anche a grandezza naturale, che abbelliscono con fiori, ceri e grano germogliato al buio. Alcune sono davvero spettacolari e scenografiche ed attirano l’attenzione degli incuriositi turisti. Durante la Processione della Tomba, aperta dal suono della “trozzula”, i confratelli si dispongono in tre coppie per ogni statua più un Correttore, senza cappuccio, che disciplina l’andamento della processione e tiene in mano un bastone di legno, il “bordone”, che reca scolpito in cima il simbolo della statua che accompagna. Tra i confratelli, uno ha in mano il bastoncino, un bastone più piccolo degli altri, ed è colui che riveste la più alta carica della Confraternita, dopo il Priore. Ogni confraternita espone i “Lampioni”, portati da quattro confratelli, e che sono un elemento caratteristico della Settimana Santa gallipolina: essi sostituiscono, nella processione del Venerdi Santo, il cosiddetto “Pannone”, cioè la lunga asta drappeggiata con i colori della Confraternita che apre le processioni ordinarie. La Tomba di Cristo viene portata a spalla dai “fratelli della bara”, che sono confratelli in borghese o semplici devoti. Un lungo serpentone di gente si snoda per le principali strade del paese, nel segno della tradizione, fra la commozione dei tantissimi devoti che affollano la città, in ispecie emigranti tornati a casa per le festività. “È come una ferita sempre aperta, per un po’ sembra rimarginarsi ma torna, sempre, profonda e lancinante. In questa città si compie il dolore, l’agonia, la morte del figlio di Dio che fu poi la salvezza dell’uomo… Gallipoli in questi giorni è Passione e Mistero, Gesù muore e la città si ferma”[22]. A processione terminata, ai confratelli vengono distribuite le tradizionali “pagnotte”, panini conditi con tonno e capperi[23].

Nella notte, invece, si tiene la processione della Desolata, organizzata dalla Confraternita di Santa Maria della Purità. Questa suggestiva cerimonia del Sabato Santo prende l’avvio intorno alle tre antelucane, quando la città è ancora avvolta nel buio. I confratelli della Purità o dei “Vastasi”, cioè gli scaricatori di porto, che indossano l’abito e il cappuccio bianco e la mozzetta color giallo paglierino, conducono la statua di Cristo Morto adagiato in un’urna dorata e la statua di Maria Desolata, che risale al Settecento, la quale, coperta da un manto nero, siede ai piedi della Croce. Il sacerdote, con il priviale rosso, che dirige la processione, reca in mano la reliquia della Croce. Dietro, vanno tutti i civili e i bambini e le bambine vestiti in abiti della Prima Comunione. Il procedere lento e cadenzato degli incappucciati, il loro salmodiare e il religioso silenzio che avvolge la cerimonia procurano negli astanti un senso di sospensione del tempo e dello spazio e non pochi sono coloro che rompono in pianto per la forte emozione di una simile esperienza. “Un’intera città avvolta da un silenzio così intenso e profondo da poterlo vedere. È il silenzio che ha il volto coperto da un cappuccio, come i confratelli che nella settimana santa rendono onore al Signore”[24].  In passato, le statue in questa processione erano portate in spalla da un gruppo di Ebrei stanziati a Gallipoli fin dal Cinquecento, detti in dialetto “Sciutei” (come i pesci). Essi abitavano nel quartiere Purità che perciò era detto Giudecca e con questo loro sacrificio volevano simbolicamente riparare al peccato di aver condannato a morte Gesù[25].

Quando i confratelli della Misericordia si incontrano con quelli della Purità, avviene “lu Ssuppiju” e vi è il saluto dei due correttori delle Confraternite.  “Queste due processioni” scriveva Giuseppe Albahari qualche anno fa, “che gli ospiti stanno scoprendo sempre più numerosi, hanno […] un posto speciale nel cuore dei gallipolini, soprattutto in relazione ad alcuni momenti: il passaggio nei vicoletti del centro storico che fa quasi toccare con mano ogni statua, la lunga teoria di figure che si staglia contro il cielo chiaro del primo mattino sul ponte secentesco, la benedizione che, sul bastione della Purità, conclude il rito. E per la gente, prima mesta, è già tempo di scambiarsi gli auguri per l’incombente Resurrezione”[26]. Negli ultimi anni sulla spettacolare processione dei Misteri si accendono anche le luci dei riflettori, venendo trasmessa in diretta sui network locali, come Studio 100 e Telerama, e sul web, con la diretta streaming per i salentini nel mondo. Il suono degli strumenti di rito e l’atmosfera generale di lutto in passato si stemperavano poi a mezzogiorno quando si dicevascapulane le campane”: allora le campane tornavano a suonare, si scoppiavano mortaretti e fuochi d’artificio e si dava fuoco alle caremme; nelle case si battevano le mani sui muri, sui mobili, sui tavoli e tutti potevano finalmente festeggiare la fine della penitenza e delle privazioni, ripetendo il detto “Essi tristu e fanne trasire Cristu” (“ esci anima cattiva e fai entrare Gesù Cristo”), a significare il rinnovamento che il giorno di Pasqua porta con sè[27]. Oggi questo succede a Mezzanotte quando, durante la solenne Veglia Pasquale, si toglie il lenzuolo che copriva il Cristo Risorto sugli altari, e si dà l’avvio alla Pasqua. Una trattazione a parte meritano le preghiere gallipoline del periodo quaresimale, i modi di dire del linguaggio popolare e i canti, di cui in questa sede non ci possiamo occupare[28].

Finalmente la Domenica di festa si possono gustare i tipici dolci pasquali, come “la pupa”, “lu caddhuzzu” e “lu panaru” che sono fatti di pane. Sulla tavola pasquale dei gallipolini di un tempo non potevano mancare “lu benadittu”, un piatto contenente un uovo sodo, un finocchio, un’arancia e un pane che era stato benedetto durante la Messa, e l’agnello, preparato come spezzatino (“lu spazzatu”).  Un pezzettino di pane benedetto veniva conservato in casa per scongiurare le tempeste, quando lo si buttava nel mare dall’alto delle mura invocando la fine dei marosi e la salvezza dei naviganti[29].

A queste specialità tipicamente gallipoline si aggiungono l’agnello di pasta di mandorla, detto “pecureddhu”, farcito con la crema faldacchiera o con la marmellata, che allude all’Agnus Dei, l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Spesso, è impreziosito da cioccolatini che sono posti sopra l’impasto e da bandierine, simbolo della Resurrezione e del trionfo di Cristo sulla morte. Nel periodo di Quaresima, protagonista è anche la “cuddhura”, di cui la pupa e lu caddhuzzu sono delle varianti. Dal greco kollura, ha forma circolare, come la sfera dell’ostensorio, e simboleggia, come il serpente che si morde la coda, il cerchio del tempo che si rinnova; ma il pane è anche un elemento fondamentale della Comunione cristiana e rappresenta, come sappiamo, il corpo di Cristo che si è immolato sulla Croce, come il vino ne rappresenta il sangue. Essa può essere dolce o salata e al centro di questa specie di ciambella si mette un’arancia o un finocchio. Una volta, il pane utilizzato era rigorosamente azzimo. Fra “cuddhure” e “puddhiche” non c’è molta differenza, ma mentre le cuddhure, sia dolci che salate, si realizzano solo a casa, oggi le puddhiche si possono trovare anche nei bar e spesso, invece che con pane artigianale, sono fatte con pan brioche[30]. Ancora, le uova, simbolo di fecondità, e a Gallipoli, poi, un “must” sulla tavola pasquale sono la “scapece” (la “salsa di Apicio”), cioè pesce in aceto avvolto con pane grattugiato imbevuto di zafferano, e i “mustazzoli”, così chiamati perché un tempo erano preparati con il mosto cotto, oggi realizzati con farina, mandorle tostate e sbriciolate, zucchero, olio d’oliva, cannella, bucce d’arancia, chiodi di garofano e “gileppu”, ovvero una glassa al cacao prodotta amalgamando sul fuoco zucchero acqua e cacao[31].

Il giorno di Lunedi dell’Angelo, Pasquetta, a Gallipoli detto “Pascone”, i fedeli non rinunciano alla tradizionale scampagnata con colazione al sacco, come succede in tutto il resto del Salento. Le vivande che caratterizzano la scampagnata sono la parmigiana di melanzane, le polpette, la carne fritta e panata, e spesso anche la pasta al forno avanzata dal pranzo pasquale oppure preparata apposta, le frittelle con i carciofi e le immancabili uova sode[32].

Il ciclo di morte e rinascita, la resurrezione a nuova vita, il rigoglio della natura a primavera dopo i rigori dell’inverno, rappresentano i cosiddetti riti di passaggio delle antiche civiltà contadine e pagane, collegati cristianamente al ciclo pasquale, e su di essi si sono intrattenuti gli antropologi con una ricca messe di studi ai quali in questa sede si può solo rimandare.

Le sacre celebrazioni descritte sono oggigiorno meno radicate di una volta nella devozione popolare ma rappresentano un momento fortemente simbolico nella vita di una comunità locale. “Nei nostri Misteri”, scrive Cosimo Damiano Fonseca, “c’è una dialettica profonda tra antico e moderno”[33]. I cerimoniali della Settimana Santa che raggiungono il culmine nella Processione dei Misteri rinnovano a Gallipoli e in tutto il Meridione d’Italia un atto di fede che resiste ancora negli anni Duemila venti, in tempi di relativismo e massificante potere delle comunicazioni di massa. Certo, prevale l’elemento folclorico, perché si è capito che questi cortei sono veicoli straordinari di attrazione turistica, come lamenta Raffaele Nigro, il quale tuttavia, ammette che “riemerge comunque una palpabile voglia di contrizione e, allo stesso tempo, di purificazione. È qualcosa che persiste, a dispetto di ogni fragile certezza di questo nostro Medioevo contemporaneo”[34]. La danza dei penitenti che percorrono autoflagellandosi le storte e le stradine del borgo “umilia la velocità”, come scriveva Carlo Belli nel 1959, assistendo alla processione dei Perduni di Taranto, guardando quegli uomini incappucciati simili a fantasmi dondolanti nell’oscurità: “in un muto cammino fantasmi immobili espiano i loro peccati”[35].

Questo fascino antico è forse uno di quei portati del patrimonio immateriale di un popolo bello da tramandare alle giovani generazioni.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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Associazione Gallipoli Nostra, La Settimana di Passione a Gallipoli, a cura di Cosimo Perrone, quinta ristampa, Alezio, Tip. Corsano, 2011.

 

Note

     [1] Elio Pindinelli, Le focareddhe, in «Almanacco gallipolino 1995», Gallipoli, Grafiche Sud Pacella, 1995, p. 6.

     [2] Idem, Lu Titoru – La Caremma, in «Almanacco gallipolino 1995», cit., p. 10 e p. 14.

     [3] Idem, A Gallipoli un Carnevale d’altri tempi, in «Almanacco gallipolino 1996», Gallipoli, Grafiche Sud Pacella, 1996, p. 17.

     [4] Regione Puglia, Crsec Le/48- Gallipoli, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli Tra storia mito e leggenda, a cura di Cosimo Perrone, Alezio, Tip. Corsano, 2003, p. 40.

     [5] Loredana Viola, Prima di Pasqua si darà fuoco alla “Curemma”, in «Quotidiano di Puglia», 12 marzo 2006; Misteri e Caremme, così si celebrano i riti della Passione, in «Quotidiano di Puglia», 7 aprile 2006.

     [6] Centro Solidarietà Madonna della Coltura Parabita, La Caremma, a cura di Aldo D’Antico, Parabita, Il Laboratorio, 2002. Elio Pindinelli, La Caremma, in «Almanacco gallipolino 1995», cit., p. 14. La vecchietta brucia nel rogo e le feste possono cominciare, Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 7 aprile 2004. Maria Claudia Minerva, Con l’arrivo di Pasqua finisce l’astinenza: fuoco alle Caremme, in «Quotidiano di Puglia», 12 marzo 2007.

     [7] Regione Puglia, Crsec Le/48- Gallipoli, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli Tra storia mito e leggenda, a cura di Cosimo Perrone, cit., pp. 51-91.

     [8] Ibidem.

     [9] Ibidem. Si veda inoltre Luigi Tricarico, Te le “Cennereddhe”…a Pasca (riti, tradizioni e suggestioni della Quaresima gallipolina) Con la collaborazione di Cosimo Spinola, Santuario Santa Maria del Canneto, Alezio, Tip. Corsano, 2004.

     [10]Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.

     [11] Ibidem.

     [12] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim.

     [13] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.

     [14] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim. Si veda inoltre: Associazione Gallipoli Nostra, La Settimana di Passione a Gallipoli, a cura di Cosimo Perrone, quinta ristampa, Alezio, Tip. Corsano, 2011.

      [15] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.

     [16] Ibidem.

     [17] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim.

     [18] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim. Si può anche utilmente consultare: Un anno a Gallipoli (tra sacro e profano), in Comunità del Canneto, Perle di ieri, a cura di Luigi Tricarico, Alezio, Tip. Corsano, 2002, pp. 97-114.

   [19] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim.

     [20]Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.

     [21] Ibidem.

     [22] Cinzia Di Lauro, Gallipoli Passione e mistero nel borgo del mare e del vento, in «Qui Salento», Lecce, Guitar Edizioni, aprile 2005, p. 62.

     [23] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim. Si veda anche G. F. Mosco, Gallipoli – Venerdì Santo. Moviola per una processione, Ed. Ass. L’Uomo e il mare, Tuglie, Tip. 5emme, 2003, passim.

     [24] Serena Mauro, Il silenzio della Passione tra incappucciati e penitenti, in «Qui Salento», Lecce, Guitar Edizioni, aprile 2006, p. 60.

     [25] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim.

     [26] Giuseppe Albahari, Sfilano i Misteri e il mare fa da sfondo, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 10 aprile 2009.

     [27] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.  Si veda inoltre Mistici silenzi nella processione dei Misteri, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 6 aprile 2007.

     [28] Ibidem. Inoltre: Un anno a Gallipoli (tra sacro e profano), in Comunità del Canneto, Perle di ieri, a cura di Luigi Tricarico, cit.; Ettore Vernole, La passione di Gesù nelle tradizioni popolari salentine, in «Archivio per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari italiane», a. XIV, fasc. III-IV, Catania, 1939, pp. 143-155.

     [29] Elio Pindinelli, Il pranzo pasquale, in «Almanacco gallipolino 1995», cit., p. 16. Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 7 aprile 2004. Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 23 marzo 2005.

     [30] Si veda: Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 5 aprile 2007.

     [31] Elio Pindinelli, La salsa di Apicio, ovvero la scapece, in «Almanacco gallipolino 1996», cit., p. 18.

     [32] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim. Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.

     [33] Antonio Di Giacomo, I giorni della Passione. Cortei e penitenti incappucciati “Una gran voglia di Medioevo”, in «La Repubblica-Bari», 8 aprile 2004.

     [34] Ibidem

     [35] Carlo Belli, La notte dei Perdoni, ovvero la velocità umiliata, Roma, Tip. Pedanesi, 1974, p.42.

 

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