Gino Pisanò poeta: la raccolta di versi Clematides

 

di Renato De Capua

 

Gino Pisanò (1947-2013), importante figura di riferimento negli ambiti della filologia, della critica letteraria, della storia culturale, è insieme a tante altre grandi figure autorevoli, esponente di un Umanesimo meridiano, che dal Salento, estrema terra del Sud, furono in grado di irraggiare il proprio pensiero grazie alle ferventi attività didattiche, culturali ed editoriali; e furono grandemente studiosi e critici attenti, che non sempre la marginalità del territorio periferico di cui erano espressione, ne ha ben premiate le ottime qualità sul piano nazionale della storia della letteraria[1].

Oggi più che mai queste figure meritano la nostra attenzione. Senza di esse non si sarebbe formata quella coscienza collettiva del territorio, che l’uomo non dovrebbe mai trascurare, ma anzi conoscere, valorizzare, tramandare, facendo giungere a un prossimo domani ciò che è racchiuso nei gesti e nelle parole di uno ieri talvolta remoto, in altri casi non così troppo aggrovigliato tra le pieghe del tempo.

Fortunatamente e in maniera doverosa, allo studioso di origini casaranesi, sono stati dedicati, come omaggio, numerosi studi e pubblicazioni, nonché alcune manifestazioni di pubblico ricordo.

La finalità di questo scritto è di gettare la luce su un aspetto meno noto della figura di Gino Pisanò, uomo di fondamentale raffronto nell’ambito delle Humanae litterae contemporanee, critico e saggista dalla vasta produzione bibliografica. Come ben annota Paolo Vincenti in suo articolo[2], cui rimando per un esaustivo ricordo dell’intellettuale:

“Pisanò era anche poeta. Clematides[3], la sua esordiale raccolta poetica, è anche una delle sue prime opere e [rappresenta] un unicum nella sua carriera […]”.

Ed è proprio su questa silloge poetica che vogliamo soffermare la nostra attenzione, poiché essa fornisce la preziosa possibilità di cogliere quell’humanitas profonda di un intellettuale sì riservato, ma esplicitamente amante dei propri lavoro e territorio, dei libri da egli stesso pubblicati. L’opera è attraversata da un senso di calda tenerezza che certamente ha connotato il suo agire e il suo sentire.

 

La raccolta di versi Clematides, con una nota introduttiva di Aldo de Bernart[4], viene pubblicata dalla casa editrice Congedo di Galatina nel 1984, e presenta la dedica ai figli Attilio ed Enrico da parte dell’autore.

La nota introduttiva si apre con la spiegazione del titolo: le Clematides[5], cioè le vitalbe, sono piante che di frequente possono incontrarsi nei boschi, data la loro natura spontanea. Secondo de Bernart, Pisanò aveva potuto osservarle nel Bosco Belvedere[6], durante alcune sue passeggiate. Osservando poi il loro comportamento, esse sono rampicanti, capaci di superare i venti metri in altezza e di sviluppare forti fusti legnosi e ramificati che avviluppano gli alberi. Esse tendono alla luce e questa loro peculiare caratteristica botanica, suggerì senza dubbio a de Bernart l’espediente per tessere una meravigliosa similitudine, che spiega la visione della poesia da parte di Pisanò:

“Come le Clematides, nella sua poesia [Pisanò] cerca il sole, l’azzurro mare, la bellezza, in una sintesi di antico e di nuovo, tesa al recupero di forme classiche, limpide e perfette, con spunti originali, spesso autobiografici […]”[7], che vanno a porsi in una relazione tensiva e continuativa con il tempo vissuto dall’autore nella dimensione del ricordo, quello appartenente al momento della stesura delle liriche e quello che oggi a noi si rivela.

Più avanti, nella stessa nota introduttiva, de Bernard dirà ancora:

“Pisanò […] radica le sue liriche nella memoria, come la vitalba i suoi fiori nel bosco. A lui basta, perciò, raccogliere vitalbe andando per boschi, così come si accontenta di scrivere liriche andando a ritroso nel tempo per contemplare la bellezza classica del passato che fa da sfondo, a volte angoscioso al vissuto, quasi sempre doloroso, del poeta. […]”[8]

A questa concezione di sotteso pessimismo, evidenziata giustamente dal curatore della nota, si aggiunge una fascinazione per l’antico che si può cogliere all’interno dei componimenti: il poeta  desidera fare in modo che le memorie antiche dei luoghi vivano ancora per narrare storie, miti, leggende, potendo così infrangere la barriera del tempo.

Le liriche, infatti, sono intrise di un profondo amore per la propria terra e il poeta paragona la sua vita al mare[9] che, mediante l’andirivieni delle sue onde, scandito dal vasto e “altisonante” dispiegarsi delle ali dei grandi volatili che s’infrangono sulla sua spuma, è riuscito a donare “il ciottolo e la conchiglia” a nuova luce.

Il mare, tra le tante immagini che riesce a suscitare e che sospingono lo spirito creativo dell’uomo, spesso lo si associa ai principi di casualità e di imprevedibilità accidentale della vita di ognuno, concezioni anch’esse fortemente sostenute da Pisanò, come vedremo tra poco. In questo caso, oltre a tale interpretazione, potremmo leggere nell’immagine del mare che restituisce i suoi oggetti alla terra, quella dello studioso impegnato nel valorizzare momenti e figure di un tempo che attendevano rinnovato interesse; e ancora questa analogia è indicativa del sentire la poesia come ricerca, a partire dal proprio mondo interiore, con un verticalismo ascendente e proteso verso un’esteriorità che attende di poter nuovamente prendere la parola.

Dopo la pregevole nota introduttiva di de Bernart e poco prima di entrare nel vivo della raccolta, il lettore è invitato a soffermarsi sulla lettura di un frammento[10] della tradizione lirica greca.

Pisanò, infatti, cita in esergo alla sua silloge il poeta lirico greco, Simonide di Ceo, vissuto tra il VI e il V sec. a.C.:

 

“Tu che sei uomo non dire mai

ciò che sarà domani,

né se vedi un altro felice

per quanto tempo lo sarà.”

 

Il componimento simonideo, collocato precisamente in tale punto dell’opera, ci fornisce una prima chiave di lettura, o meglio, una prima luce interpretativa che lo stesso autore diffonde sulle proprie liriche.

Il messaggio, quasi un discreto monito pronunciato a bassa voce, si concentra su un errore spesso commesso dall’uomo: scambiare l’oggi con un postulato, con un dato leggibile aprioristicamente. Come può farlo, in bilico com’è nell’attesa del domani? Così la felicità individuale e quella dell’altro divengono effigi transitorie, indecifrabili e in mano all’arbitrio dell’azione disgregatrice del tempo.

Seguendo tali coordinate, leggiamo la poesia in endecasillabi Segno del tempo[11] di Pisanò, che si disvela in aperta connessione con il frammento di Simonide, scelto dall’autore per inoltrarci nel proprio orizzonte poetico:

 

Al ficodindia abbarbicato al muro

d’arcane latomie l’ulivo greco

contorto nello spasimo somiglia.

Segno del tempo, immobile ed uguale,

che a rompere la terra ci consuma,

fingendosi diverso nell’attesa.

 

Tutto il tessuto testuale della lirica si concentra su immagini paesaggistiche tipicamente meridionali, che possono con certezza essere ricondotte a quelle del paesaggio salentino.

Due piante, profondamente diverse nella loro conformazione botanica, il ficodindia e l’ulivo, vengono qui accomunate da un medesimo destino ineffabile e universale.

Il ficodindia è spesso posto in una posizione di sacrificata marginalità, adiacente a quei tradizionali muretti a secco, formati da pietre d’arcane latomie; l’ulivo, definito greco per la derivazione, l’ampio impiego simbolico di questa pianta nella storia letteraria della civiltà ellenica e la sacralità da essa tributatagli, si presenta contorto, come se fosse dolorante e in preda a uno spasimo lancinante. Ne consegue che le due piante, seppur profondamente diverse nell’estetica e nella biologia, appaiono di sembianza simile per il disporsi irregolare dei loro rami.

Questa disarmonia nella forma diviene allora il pretesto per chiamare l’uomo nel campo aperto del confronto ed evidenziare che anch’egli, al pari di ogni ente naturale e pur nella propria diversità, appare simile al ficodindia e all’ulivo dinanzi al segno del tempo, forza disgregante di eventi e di certezze, che vede nell’attesa la facoltà di creare incrinature e increspature nel mare della vita.

Ecco come, partendo da due immagini determinate ma diverse, coesistenti però in uno stesso tipo di paesaggio, Pisanò giunge a formulare un principio di universale valenza, che racconta e racchiude l’uomo e le sue istanze.

Sempre immerso nell’inappagabile sete dell’attesa, egli dimostra i segni della sua finitudine e i limiti della propria terrestrità.

Se già quanto esposto lascia intravedere la bellezza della silloge, non esaurisce il campo visivo-tematico esplorato dall’autore in Clematides.

Infatti, come accennato, è fortemente presente una focalizzazione sui luoghi e sulle strutture che li abitano (si pensi ai componimenti Presso una torre costiera del XVI secolo, al Frammento n.1), nonché un’attenzione ai riferimenti letterari paradigmatici di alcune suggestioni del gusto dell’autore (Sopra un verso di Quasimodo), all’omaggio alla melanconica incisività dei generi letterari del frammento e dell’epitaffio (Frammenti n. 2 e 3, Epitaffio in morte di A. Rampi), al gusto classico per la traduzione (si pensi ad Aurea mediocritas dal greco di Archiloco e al distico elegiaco latino dell’epistola dedicata da Pisanò al gesuita P. Antonio Chetry[12]).

Nell’indice, inoltre, accanto ai titoli di ciascun componimento, c’è l’indicazione della struttura metrica adoperata (rispettivamente: endecasillabi, verso libero, strofa saffica, novenari, esametro, distico elegiaco), dato che evidenzia non soltanto la sapiente conoscenza di Pisanò dei metri della tradizione letteraria antica, moderna e contemporanea, ma anche le consapevoli destrezza e leggiadria nell’impiegarli. Tutto ciò impreziosisce la concezione della poesia, che, Per Pisanò, è espressione di un misurato e tacito approssimarsi alla parola, l’eco di una memoria che vuol rivivere, proprio come quel mare, narrato dall’autore, profondamente lungisonante e conducente chi vi alberga a nuova luce.

 

Note

[1] Per approfondire la questione circa la marginalizzazione della letteratura del sud, si suggerisce la lettura del recente saggio di Simone Giorgino, che affronta ampiamente il problema:

S. Giorgino, Carta poetica del sud poesia italiana contemporanea e spazio meridiano, Musicaos editore, Neviano 2022.

Si propone un brevissimo estratto dal testo già indicativo della reiterata affermazione della questione: “La letteratura del Sud appare non come parte integrante e imprenscindibile di un percorso di studio, serio e omogeneo sulla letteratura nazionale […]. La discriminazione della letteratura del Sud […] [è] conseguenza di un diffuso atteggiamento, iniziato fin dai tempi del Risorgimento.” (Giorgino, op. cit. pagg. 9-10).

[2] Vincenti P., In ricordo di Gino Pisanò, filologo, critico letterario, storico della cultura, Fondazione Terra d’Otranto, 2022. L’articolo è consultabile online all’indirizzo https://www.fondazioneterradotranto.it/2022/12/28/in-ricordo-di-gino-pisano-filologo-critico-letterario-storico-della-cultura/.

E ancora, per un ritratto di Pisanò, si veda l’intervento dello storico dell’arte Paolo Agostino Vetrugno dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose Metropolitane di Lecce, relazione tenutasi nell’ambito del seminario del 17 marzo 2023, nella Sala Teatro dell’ex convitto Palmieri a Lecce, nel decimo anniversario della scomparsa di Gino Pisanò. L’iniziativa è avvenuta, con la promozione da parte della Società di Storia Patria di Lecce. Il testo della relazione è consultabile al seguente link https://www.spazioapertosalento.it/news/gino-pisano-ed-il-libro-come-bene-culturale/ .

[3] Pisanò G., Clematides raccolta di versi, Congedo editore, Galatina, 1984.

[4] Aldo de Bernart (1925-2013), studioso salentino e importante punto riferimento per molti intellettuali. Particolarmente sensibile alla valorizzazione dell’aspetto culturale del patrimonio salentino. Per un profilo biografico e umano si consiglia la lettura del seguenti contributo di Paolo Vincenti, sempre fruibile in rete:

Vincenti P., Aldo de Bernart in memoria, Fondazione Terra d’Otranto, 2023. (https://www.fondazioneterradotranto.it/2023/07/14/aldo-de-bernart-in-memoria/)

[5] Clematis (Clematides nella forma plurale), è una specie di piante appartenente alla famiglia delle Ranunculaceae. L’etimologia deriva dalla radice greca klema – “viticcio” o anche “pianta volubile” o “legno flessibile”. La nomenclatura scientifica del genere si deve a Carl von Linné (1707-1778), biologo e scrittore svedese, ritenuto pietra miliare della moderna classificazione scientifica degli organismi, in particolare per l’opera Species Plantarum del 1753.  In italiano il termine viene tradotto con il lemma “vitalba”;la specie si presenta molto diffusa in Italia e in Europa. Il fusto è perlopiù erbaceo o legnoso, con inclinazione rampicante. I fiori, di varie tonalità, presentano diverse vivaci gradazioni (verde-giallognolo, rosso, viola o bianco).

[6] Oggi quest’area è nota con il toponimo di Paduli e si trova tra Scorrano e Miggiano (LE); in passato si chiamava Bosco di Belvedere, una foresta risalente al periodo post-glaciale, con un’estensione di circa settemila ettari e una superficie di trentadue km. Area ricca di ecosistemi (per la coesistenza del bosco, della palude, dello stagno e della macchia mediterranea), i primi documenti storici che ne certificano l’esistenza risalgono al 1476, quando il bosco era annoverato nell’inventario del feudo di Supersano, ad opera dei principi Gallone di Tricase, che ne detennero la proprietà per quasi trecento anni. Nel 1851, però, il patrimonio boschivo venne suddiviso tra i vari comuni e ciò sancì la distruzione del sistema preesistente della foresta, per dar luogo alla cultura dell’olivo, destinata a divenire nucleo portante dell’economia locale. Nel 1877 Cosimo De Giorgi annotava: “Non è senza il massimo dolore ch’io osservo di anno in anno cadere atterrate al suolo quelle querce maestose che hanno sfidato per tanti secoli le ingiurie del tempo, dell’atmosfera, degli uomini e degli animali. La falce e la mannaia livellatrice del boscaiolo segnano intanto, inesorabili su questa via di distruzione […].” Oggi l’associazione per la tutela dell’ambiente “manu manu riforesta!” si occupa di ricreare la biodiversità preesistente nella zona, contrastando il fenomeno della desertificazione, in luogo dei tanti ulivi devastati dalla Xylella. Si segnala, inoltre, il sito dell’associazione https://www.manumanuriforesta.org/.

[7] Pisanò, op. cit. pag. 7.

[8] Pisanò, op. cit. pag. 8.

[9] Il riferimento è alla lirica Sopra a un verso di Quasimodo, presente nell’op. cit., pag. 15.

[10] Pisanò menziona buona parte integrante del frammento PMG 521 di Simonide (D.L. Page, Poetae Melici Graeci, Oxford 1962), del quale può risultare interessante ripercorrere l’antefatto e il contenuto. Cicerone, nel De Oratore (II, 351-360), narra l’aneddoto secondo cui il poeta di Ceo, invitato a cena a casa di Scopas, signore di Crannone (antica città della Tessaglia), avrebbe iniziato a cantare un elogio in suo onore, essendogli stato dallo stesso commissionato. Simonide, però, diede più ampio spazio alla celebrazione del mito di Castore e Polluce, piuttosto che allo stesso Scopas. Allora quest’ultimo, profondamente irritato, affermò che avrebbe dimezzato la paga al poeta, dovendo egli stesso chiedere la restante parte ai Dioscuri. Così si tramanda che, poco tempo dopo, Simonide fu chiamato da due giovani misteriosi a uscire dalla sala. Uscito fuori, il soffitto della casa crollò, travolgendo Scopas e gli altri convitati. Simonide ebbe salva la vita, grazie alla chiamata dei due giovani misteriosi, nei quali il poeta di Ceo riconobbe i Dioscuri. La parte mancante del frammento, e non citata da Pisanò, continuava a soffermarsi sulla labilità del tempo; paragonato al volo effimero dell’ala di una mosca, esso muta imprevedibile la direzione del suo volo.

[11] Pisanò, op. cit. pag. 14.

[12] È una nota esegetica al componimento che conclude Clematides, a fornirci alcuni cenni su questo nome. Rileggendo la nota a pag. 22: “P. ANTONIO CHETRY S. J., umanista, filologo, storico, autore di numerose pubblicazioni, ha composto un’operetta singolare breve e bizzarra; Il gioco del calcio in latino, cui fa cenno G. Pisanò nella breve epistola.”.

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2 Commenti a Gino Pisanò poeta: la raccolta di versi Clematides

  1. A Gino Pisanò: letterato e poeta.

    Nascosta clessidra, ha il tempo del tuo tempo
    alla fredda diaspora dice il tuo nostòs :
    L’essere, è presenza di figlio esteso a noi
    che conosce l’astio dello sguardo strano.
    Il nostro, è doloroso, chiuso luogo del cuore-
    che Mario Spedicato dice l’indifferibile misura
    al senso del tuo domani – costato la vita.
    Matrice seria di letterario esistenziale,
    la stessa, svela e dice l’umano tuo cammino
    di greco sogno e, latino verso.
    Tu, stemperi a noi omeriche ascendenze
    di alate poetiche, e segnati momenti
    rilevante auspicio all’albero riarso:
    dove, autorevole penna è faticosa fatica.
    Certo, sconti stagioni di tragiche avversità
    che, liturgia sapiente, chiude conto d’anima.
    La mutuata tua stagione, ha chiaro, aperto libro
    al verbo che stringe frase e voce all’onda ingenua-
    dove, il misurato tuo assillo stana le parole
    e vanta leucadio richiamo a opache esegesi.
    Sequenza chiara di riflesso lume
    il tuo Gino – vince la notte del sillabario
    dove silenziosi stiamo, come oscure gruviere
    cercandoti al mattino, prima che il verso cambi

    Lecce –venticinque – di febbraio -2015-peppino martina

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