Brindisi arcaica: la cinta muraria

di Nazareno Valente

Dapprima i fiumi e poi il mare costituirono in epoca preistorica ed arcaica le vie quasi obbligate utilizzate dai commerci, perché rendevano più agile e veloce il trasporto e lo scambio delle merci. Nel mondo occidentale non c’era infatti nessuna città che avesse assunto il ruolo di guida e che di conseguenza potesse farsi garante dell’edificazione e, soprattutto, della gestione delle strade che avrebbero reso più proficua l’alternativa delle vie terrestri. Sicché, sino a quando i Romani, basandosi sulle notevoli conoscenze ingegneristiche acquisite dagli Etruschi, non costruirono un efficace sistema viario di media e di lunga percorrenza, erano fruibili solo tragitti di difficile percorrenza per qualsiasi mezzo di trasporto. E questo favoriva le vie marittime, anche quale usuale itinerario per le comunicazioni, sebbene la navigazione utilizzasse mezzi (le navi) particolarmente vulnerabili in condizioni di tempo estremo, sia per la limitata stazza, sia per la propulsione, imperniata com’era in modo prevalente sulle vele e quindi nella sostanza condizionata dalle bizzarrie del vento.

Proprio a causa di tali restrizioni si andava per mare con estrema cautela, ben sapendo che era fonte di vita ma anche limite alla vita stessa e che inoltre la morte in mare negava uno dei pochi — se non l’unico — diritto allora acquisito, e in aggiunta particolarmente sentito, vale a dire una degna sepoltura. Per questo c’era tutta una serie di regole auree cui attenersi per non andare incontro alle peggiori sorprese. Le principali imponevano che non si prendesse il mare nelle cattive stagioni — di conseguenza d’inverno e in parte dell’autunno le navi rimanevano in terra a secco — e, a prescindere dalle stagioni, se le condizioni del tempo e del vento non erano propizie; che si affrontasse il mare aperto solo quando era strettamente necessario e che si navigasse per lo più tenendosi vicino alle coste — la cosiddetta navigazione di cabotaggio — in modo d’avere la possibilità, se il tempo subiva un cambio repentino, di guadagnare subito la terraferma cercando riparo in una ansa di un fiume o in una insenatura protetta da qualche altura rocciosa dai venti.

Erano questi ancoraggi di fortuna che, nella prospettiva migliore, offrivano solo attrezzature costituite da semplici pali di ferro o di legno a cui le imbarcazioni si ormeggiavano con funi. E la cui funzione primaria di asilo lo si ritrova nei termini portuali usati sia dai Greci, che hanno tutti in senso figurato il significato di rifugio, sia in parte dai Romani che continuarono a chiamare refugia le strutture di tale tipo.

Con l’andare del tempo i punti di ormeggio meglio posizionati lungo i percorsi seguiti dai mercanti furono sempre più attrezzati e strutturati per essere in grado, non solo di dare protezione ai naviganti e ospitalità alle navi, ma anche di offrire i servizi più essenziali di manutenzione e di approvvigionamento idrico ed alimentare, oltre allo spazio necessario per commerciare i prodotti trasportati.

Nacquero così i porti che rappresentavano la fortuna delle città che li gestivano, essendo un bene prezioso e in aggiunta alquanto raro, almeno sino all’inizio dell’era cristiana.

Solo una struttura capace di dare tutte le prestazioni elencate meritava d’essere chiamata dai Greci limén, e dai Romani portus, mentre la postazione che forniva solo i servizi essenziali e le più usuali possibilità di ormeggio veniva chiamata rispettivamente hormos e statio.

Sin dal periodo preromano, lo scalo di Brindisi riuscì ad ottenere questa specie di bandiera blu, visto che gli autori lo nominano sempre chiamandolo, in base alla lingua usata,  limén o portus. Nel periodo romano poi si distinse ancor più, tanto da ottenere la qualifica di eulìmenon, letteralmente buon porto, concessa ai soli approdi di riconosciuto prestigio.

Per cogliere però quali fossero in antichità le reali configurazioni del porto brindisino e della città, occorre servirsi di un passo della narrativa antica a cui non è mai stato dato eccessivo peso perché, le poche volte che viene citato, è tradotto in modo talmente generico e convenzionale da non rendere per nulla il reale pensiero del suo autore.

Stando alle traduzioni, un ignoto geografo del II secolo a.C., ricordato come lo Pseudo-Scimno, fa in apparenza un’affermazione del tutto scontata visto che, riferendosi ad un’epoca arcaica, ribadisce qualcosa di già noto a tutti, cioè a dire che «il porto di Brindisi è dei Messapi» («Βρεντέσιoν ἐπίνειóν τε τῶν Μεσσαπίων»1). Asserzione quindi per niente originale, se si pensa che i Brindisini erano per certi versi i Messapi per antonomasia.

Le cose però cambiano radicalmente se, in luogo delle traduzioni, si ricorre al testo originale greco. Appare infatti subito evidente che lo Pseudo-Scimno non utilizza il solito termine generico di limén per caratterizzare l’approdo brindisino, ma quello meno usuale di epìneion.

Per quanto anche il significato principale di questo vocabolo sia porto, il ricorso ad un simile termine era fatto quando si volevano specificare meglio le caratteristiche dell’approdo. In particolare, gli autori antichi lo usavano nei casi in cui si era di fronte a sistemi portuali del tutto caratteristici, vale a dire quando il porto, pur facendo parte integrante della città, ne era al tempo stesso un elemento aggiuntivo del tutto separato. E ciò avveniva quando la città che lo gestiva non era stata edificata insieme sulla costa, ma distante qualche chilometro nell’entroterra. Ed appunto per precisare questa diversa collocazione tra città e suo porto che quest’ultimo veniva definito un epìneion.

In definitiva, diversamente da quanto generalmente si dà per certo, sono propenso a credere che in origine l’abitato di Brindisi era collocato in una zona completamente distinta da quella in cui si trovava il porto e che in definitiva, nel periodo arcaico preromano, la città era posta in posizione arretrata rispetto alla costa, probabilmente nell’attuale zona periferica situata a nord ovest, dalle parti, tanto per intenderci, della Commenda di una volta e del Paradiso.

Solo successivamente l’abitato fu spostato e congiunto al porto, e questo trasferimento avvenne quando i Romani, impossessatisi della città, fondarono nella seconda metà del III secolo a.C. la relativa colonia latina. In tale frangente, oltre a riedificarla secondo propri criteri costruttivi, la ribattezzarono con il nuovo nome di Brundisium, o meglio di Brundusium, riutilizzando di fatto il precedente nome indigeno di Brunda.

Occorre precisare che il porre l’abitato lontano dal suo porto era in tempi arcaici molto più usuale di quello che si possa credere. Basta pensare ad Atene, il cui porto, Il Pireo, era collocato ben distante dal centro cittadino, per comprendere che l’accorgimento era adottato con frequenza.

C’erano motivi di cautela che inducevano a farlo. Un porto era infatti una fortuna e, al tempo stesso, potenziale fonte di guai. Lo si può intuire dallo stesso termine usato dai Romani, portus, che si riconduceva al termine porta, vale a dire la porta delle mura cittadine — ricordiamo che l’uscio di casa era chiamato ianua — e quindi al tipico concetto latino di confine tra ciò che è noto e ciò che è ignoto o anche tra ciò che è favorevoli e ciò che è avverso. In definitiva, al pari del mare, un porto aveva in sé un duplice valore antitetico: apriva ai commerci ed ai guadagni ma nel contempo era un luogo vulnerabile da cui, come una qualsiasi porta cittadina, potevano agevolmente penetrare i malintenzionati, con tutte le brutte conseguenze del caso.

Tucidide, il celebre storico greco, giustificava tale accortezza per la presenza in tempi arcaici di una diffusa pirateria che depredava qualsiasi cittadina collocata sulla costa, riferendo in aggiunta che, sebbene non fosse una tattica più seguita ai suoi tempi (siamo nel V secolo a.C.), le città di più antica fondazione continuavano ad essere situate ancora nell’interno2. E, come già esposto, Atene ne era l’esempio più famoso.

Una inevitabile conseguenza nell’adozione di una simile strategia precauzionale è che l’epìneion era una struttura portuale che si poneva principalmente a difesa della città e, quindi, era una postazione fortificata, munita di solide mura, disponibile eventualmente ad ospitare una clientela selezionata.

Altra inevitabile conseguenza è che, a differenza di quanto ipotizzato da alcuni3, l’approdo brindisino non aveva un ruolo emporico, vale a dire di zona aperta ai commerci. Sebbene questi non fossero certo preclusi, erano però riservati come appena detto ad una clientela scelta in base a consolidate consuetudini o a formali alleanze, oppure limitati alla raccolta ed allo smercio delle mercanzie prodotte nelle zone limitrofe, ed in funzione in ogni caso secondaria rispetto a quella propria di epìneion.

Con ogni probabilità il mondo ionico frequentava l’approdo brindisino e di certo vi approdavano i navigli Ateniesi, facendo parte Atene della ristretta cerchia di comunità con cui Brindisi intratteneva rapporti più che amichevoli sin dai tempi precoloniali, come le fonti letterarie indicano in maniera più che manifesta. Mentre era di sicuro interdetto alle comunità achee e spartane, o doriche in genere, con le quali sussisteva uno stato di belligeranza quasi costante.

In tal senso appare significativo un passo in cui Polibio4 chiarisce in maniera perentoria che, prima della deduzione della colonia latina di Brundisium, il traffico proveniente dalla Sicilia e dalla Grecia era in grandissima parte convogliato a Taranto ed era nei porti dei Tarantini, che i naviganti facevano «i loro scambi e traffici». Oltre a questa esplicita considerazione, lo storico lascia in aggiunta intendere che a questi commerci il porto di Brindisi era del tutto estraneo.

Il che induce ad escludere che in periodo preromano l’approdo brindisino possa essere stato un emporion, nel senso che si dà a questo termine di luogo adibito e destinato principalmente al libero svolgimento di attività mercantili.  D’altra parte il fatto stesso che fosse un epìneion fa di per sé cadere una simile ipotesi. Sicché la struttura portuale era munita di una solida cinta muraria che la metteva in condizione di rendere vani eventuali incursioni nemiche.

A differenza di quanto comunemente si riferisce, le mura di periodo messapico non dovevano cingere la sola collinetta collocata a nord della città, di fronte al seno di Ponente del porto interno, ma anche l’area meridionale del centro e la collinetta di Levante. Come infatti già emerso da rilievi archeologici5 anche la zona meridionale risultava in periodo arcaico già abitata. A questo si aggiungono aspetti strategici e di contesto che fanno propendere per una configurazione della struttura muraria ben diversa da quella presunta dalla cronachistica locale6.

Le due collinette erano infatti separate da una depressione (l’attuale corso Garibaldi) che in antichità dava origine ad una terza insenatura abbastanza stretta — alla quale non a caso si dà il nome convenzionale di canale della Mena — che però tagliava per lungo tratto l’approdo brindisino da est ad ovest. Sicché sarebbe stato alquanto imprevidente proteggere la sola zona a nord, lasciando nel contempo parzialmente indifeso il canale della Mena e del tutto senza protezione l’intero seno di levante. Cosa questa alquanto improbabile, se si considera inoltre che la collinetta meridionale si sarebbe trovata in posizione ben più elevata rispetto alla parte meridionale delle mura e quindi in condizione di creare grossi danni se fosse caduta in mano di eventuali assalitori. Un qualsiasi nemico avrebbe infatti potuto approdare indisturbato nel ramo di levante ed avere la possibilità sia di aggirare le mura, arrivando ad aggredire il centro abitato, sia di dare l’assalto al porto con il vantaggio di poterlo investire da una zona sovrastante che rendeva di fatto inutile la stessa protezione delle mura. In conclusione la cinta muraria doveva necessariamente proteggere anche gli approdi della parte meridionale del porto interno, e non solo quelli del ramo di ponente, se si voleva rendere imprendibile l’epìneion.

Alla giusta obiezione che l’estensione delle mura sarebbe stata talmente imponente da creare non pochi problemi per difenderle adeguatamente in ogni settore, si può rispondere ricordando che Brindisi nel periodo arcaico era una città in grado di primeggiare, non solo nel contesto regionale che gli era proprio — si pensi che Floro la dichiara «capitale della regione»7 — ma anche in quello extraregionale — tanto è vero che Trogo la qualifica la città più prestigiosa dell’Apulia («urbs Apulis»8) — e quindi capace di mettere in campo un numero di effettivi non certo banale. Oltre ad aggiungere che i settori delle mura da presidiare in maniera assidua erano quelli che davano sul mare, essendo i soli da dove potevano giungere pericoli improvvisi.

I dati archeologici ed il contesto inducono pertanto a credere con una qual certa sicurezza che il circuito murario salvaguardasse tutte e tre le insenature. Tuttavia non forniscono nessuna indicazione sul percorso seguito dalle mura a sud della città, se non quella del tutto scontata che dovesse contenere al proprio interno la collinetta meridionale il cui apice era situato dove l’attuale via Taranto si affaccia sul porto.

 

La ricostruzione è pertanto del tutto ipotetica e si basa sull’usuale considerazione che, in alcuni settori (settentrionale, orientale ed in parte sud-orientale), la cinta muraria non dovesse discostarsi più di tanto dal tracciato delle mura romane e di quelle aragonesi. Mentre per gran parte del settore meridionale e, soprattutto, di quello occidentale, il suo percorso dovesse risultare con ogni probabilità in posizione molto più arretrata rispetto a quello delle mura edificate dai Romani e dagli Aragonesi.

In base a queste considerazioni, il circuito delle mura doveva percorrere via Camassa in direzione nord-est quindi, piegando verso sud-est, seguire un tragitto arretrato rispetto a viale Regina Margherita, sino a rasentare il pendio della collinetta dove si trovano le Colonne, per poi arrivare dove ora si trovano i giardinetti di piazza Vittorio Emanuele II. Avrebbe quindi costeggiato entrambe le sponde dell’insenatura della Mena proseguendo successivamente verso sud, sino a raggiungere e superare i pendii di via Taranto e di Porta Lecce. Tra via Gallipoli e via Giovanni XXIII avrebbe cambiato percorso indirizzandosi verso nord,  ricongiungendosi così con il settore settentrionale; qui giunto, dopo aver svoltato verso est, seguiva con ogni probabilità via dei Mille e via Sant’Aloy.

Difeso da queste mura viveva l’avamposto della Brunda messapica con il compito di gestire le strutture portuali ed i commerci che si svolgevano con i popoli corregionali ed alleati, garantendo al tempo stesso il centro abitato da sgradite sorprese.

Come già sottolineato, Brunda, che i Greci chiamavano Brentesion, fu congiunta al suo porto quando i Romani, conquistatala nel 267 a.C., decisero circa un ventennio dopo di dedurvi una colonia di diritto latino.

E, come ricordato da Cicerone, fu il 5 agosto 244 a.C. che la Brindisi si collocò per la prima volta sul basso promontorio prospiciente il mare.

 

 

Note

1 Pseudo-Scimno (II secolo a.C.), Descrizione della terra, v. 364.

2 Tucidide (V secolo a.C.),  La guerra del Peloponneso, I 7, 1.

3 Si veda in tal senso g. carito, Brindisi. La storia del mare, Independently published 2022, p. 13.

4 Polibio (III secolo a.C. – II secolo a.C.), Le Storie, X, fr. 1.

5 G. Cera, Brindisi in età messapica e romana. Topografia della Città, L’Erma di Bretschneider, Roma 2022, p. 212.

6 G. Carito, Le mura di Brindisi: sintesi storica, in Brundisii res , vol. 13 (1981), pp. 33-41.

7 Floro, Bellorum omnium annorum septingentorum libri duo,  I 15, 1.

8 Giustino (II secolo d.C.?), Epitome delle storie filippiche di PompeoTrogo (I secolo a.C – I secolo d.C.), XII 2, 5/11.

La Brentesìa: dopo l’arrivo dei colonizzatori (II)

di Nazareno Valente       

Come già sappiamo, i Calabri scacciati da Taranto dai Parteni trovarono rifugio a Brindisi25; mentre nulla s’è detto dei nostri concittadini che si trovavano a sud-ovest di Taranto e che, a prima vista, non sembrerebbero aver lasciato traccia alcuna. Di certo dovettero cedere il passo agli Achei, che precedettero l’arrivo dei Parteni, stabilendosi nel tempo su entrambe le coste dell’attuale Calabria.

In linea teorica si può presupporre che, al pari di quanto fecero altri indigeni depredati dai colonizzatori, molti di loro si spostarono nell’entroterra cercando di riorganizzarsi. La gran parte, però, non volle lasciare del tutto libero il campo agli invasori e, sfruttando le politiche distensive e di coesistenza attuate dai coloni di Sibari nei riguardi dei nativi, riuscì a ritagliarsi un proprio spazio presumibilmente nella Siritide, mantenendo nel contempo un certo legame con la madrepatria. La loro presenza in quella zona la si può intravedere nel concreto nell’alleanza che Brindisi stipulò con i Turini e, soprattutto in un brano molto controverso di Strabone.

Prima di vedere quale, è utile però chiarire il significato che il geografo pontico assegnava agli etnici ed ai coronimi utilizzati. Dagli scritti emerge con chiarezza che per Strabone, Iapigia e Calabria erano di fatto sinonimi tra loro. Quindi, a differenza di tanti altri autori, per lui la Iapigia non era una più vasta regione che conteneva la Calabria, ma s’identificava con essa.  Per quanto riguarda gli etnici, invece, si nota che quando egli parlava degli Iapigi intendeva indistintamente gli abitanti (Calabri e Salentini) della Calabria. Quando la questione riguardava espressamente i Salentini, il geografo usava però lo specifico etnico Salentinoi (Σαλεντῖνοi), mentre, se erano coinvolti i soli Calabri, non si serviva del termine epicorio Kalabroì (Καλαβροὶ), che infatti non usa mai, ma di quello di matrice greca, vale a dire Messapi. Per cui, per Strabone unicamente i Calabri erano propriamente Messapi, mentre i Salentini non lo erano.

 

Ebbene mentre Strabone tratta della decadenza cui era soggetta Taranto, costretta per difendersi dai suoi nemici a ricorrere frequentemente a comandanti forestieri (ξενικοῖς26), Strabone inserisce un’informazione fuori contesto che ha tolto il sonno a parecchi specialisti. Appena finito di narrare i fatti avvenuti attorno al 330 a.C., in cui Alessandro il Molosso, venuto in soccorso di Taranto, era stato destinato all’insuccesso proprio a causa dell’ingratitudine dei Tarantini, introduce infatti all’improvviso un argomento del tutto diverso, affermando : «Essi [i Tarantini] si scontrarono  con i Messapi per il possesso di Eraclea, fruendo dell’aiuto del re dei Dauni e di quello dei Peucezi» («Πρὸς δὲ Μεσσαπίους ἐπολέμησαν περὶ Ἡρακλείας, ἔχοντες συνεργοὺς τόν τε τῶν Δαυνίων καὶ τὸν τῶν Πευκετίων βασιλέα»27).

Senza andare dietro ai diversi dubbi che tormentano gli storici, ci si soffermerà solo su quelli di possibile interesse.

La principale questione controversa è di carattere cronologico, cioè a dire non si è in grado di datare in maniera condivisa questa contesa accesasi tra Tarantini e Messapi per il possesso di Eraclea. Se la si pone al tempo di Alessandro il Molosso, vale a dire tra il 334 ed il 330 a.C., i Messapi (o per dire meglio, i Calabri) sembrano del tutto fuori posto come competitori, dal momento che, come già riferito, con il condottiero epirota avevano stipulato un trattato di pace. Era piuttosto con i Lucani che in quegli anni i Tarantini avevano frequenti attriti, avendo appunto loro strappato Eraclea, proprio grazie all’aiuto di Alessandro il Molosso.

Se invece lo scontro si riferisce ad una data precedente, allora non può che riguardare la fondazione di Eraclea, e quindi un secolo e più prima (444 o 443 a.C.), quando il conflitto sorse tra Taranto e Thurii. Nel tal caso, il coinvolgimento dei Messapi potrebbe essere pensato come di supporto ai Turini con i quali erano, come detto, alleati. Però questa ipotesi solleva un dubbio del tutto spontaneo. Constatato che erano i Turini i maggiori interessati alla questione, non si capisce come mai Strabone non li citasse neppure, mettendo invece in rilievo la partecipazione dei Messapi che, data la lontananza dei loro insediamenti con il teatro dello scontro, non potevano certo essere la forza più consistente in contrasto con i Tarantini.

Come questa, ogni altra possibile collocazione temporale avanzata ha finito per sollevare a sua volta problemi irrisolvibili, sicché i più hanno dovuto amaramente concludere che la notizia data da Strabone non sia del tutto corretta e che di conseguenza necessiti d’essere in parte emendata. Fatto sta che neppure sulle correzioni da apportare si è riusciti a trovare un accordo condiviso, anche perché a sparigliare le carte ed a creare il maggiore imbarazzo è proprio la presenza dei Messapi in una zona non di loro pertinenza. Quello che in definitiva risulta inspiegabile è perché mai i Messapi si fossero lasciati coinvolgere in un conflitto che si svolgeva in un territorio così lontano dal proprio.

Tutto potrebbe risultare più comprensibile se, in linea con l’ipotesi fatta, si accettasse che i Calabri di Brindisi si trovavano in quella zona perché vi dimoravano e che queste azioni belliche rientravano in un più ampio contesto di difesa degli ultimi lembi di terra rimasti in loro possesso, così come facevano in maniera indistinta tutti gli altri italici della zona. In questa ottica, l’episodio narrato da Strabone farebbe pertanto parte dei tentativi compiuti dai Brindisini di frenare l’avanzata tarantina verso Metaponto e  la Siritide e di conservare il territorio in cui erano stati relegati.

Se così è, potremmo ipotizzare che le enclave del passato dominio, o della Brentesìa per usare il vocabolo di Eustazio, si collocavano tra Thurii e Taranto, e questa supposizione, oltre a spiegare i motivi della contesa con i Tarantini per Eraclea, valorizzerebbe pure l’alleanza che i Brindisini avevano stipulato con Thurii che, allo stesso modo, aveva tutto l’interesse che Taranto non estendesse i suoi confini nella Siritide.

Come si può notare l’ipotesi che i Calabri di Brindisi possano essersi insediati ben oltre i confini del Salento prende sempre più corpo, e troverà ancor più avallo dall’esame di un episodio che rese i Calabri ed i Salentini tristemente noti ai colonizzatori greci.

L’aspetto strano è che, in questo caso, gli studiosi sono tutti d’accordo sull’interpretazione da dare alla vicenda, solo che non si sono preoccupati di valutare alcuni aspetti di contorno niente affatto banali.

Si è già avuto modo di narrare l’avvenimento in un’altra occasione dandogli il dovuto rilievo, in quanto, a detta di Erodoto, rappresentava la più grande strage di Greci («φόνος Ἑλληνικὸς μέγιστος») tra tutte quelle di cui si aveva al suo tempo conoscenza28. Lo si riassume di seguito per analizzare i punti di maggiore interesse per il tema trattato.

Racconta Diodoro che tra il 473 ed il 472 a.C. scoppiò in Italia una contesa tra i Tarantini e gli Iapigi, «venuti ad urto per contrasti sorti su zone ai loro confini» («περὶ γὰρ ὁμόρου χώρας ἀμφισβητούντων πρὸς ἀλλήλους»); contrasti che divennero scontri sempre più aspri, sino a sfociare in un aperto conflitto29.

Ora, dal momento che la disputa riguardava zone di confine, è naturale presumere che gli Iapigi maggiormente coinvolti in questo caso fossero i Calabri di Brindisi, il cui territorio confinava appunto con quello dei Tarantini. Ebbene, costretti dall’aggressività dei Parteni, i Brindisini reagirono con tale decisione che in breve tempo, coadiuvati dai Salentini, dai Pedicli e da altri popoli confinanti, approntarono un grande esercito composto da più di 20.000 uomini30 a cui Taranto si preparò ad opporsi alleandosi con i Reggini. La battaglia campale che ne seguì fu violenta e determinò molte vittime in entrambi i campi ma, alla fine, vide prevalere i Brindisini ed i suoi alleati. A questo punto, Diodoro così prosegue: «nella fuga gli sconfitti si separarono in due contingenti, dei quali il primo si ritirò a Taranto e l’altro fuggì verso Reggio. In maniera analoga si divisero anche gli Iapigi: quelli che inseguirono i Tarantini, essendo breve la distanza, fecero grande strage dei nemici; gli altri che s’erano posti all’inseguimento dei Reggini dimostrarono un tale ardore da far pensare che volessero piombare insieme ai fuggitivi a Reggio  per impadronirsi della città» («Τῶν δὲ ἡττηθέντων εἰς δύο μέρη σχισθέντων κατὰ τὴν φυγήν, καὶ τῶν μὲν εἰς Τάραντα τὴν ἀναχώρησιν ποιουμένων, τῶν δὲ εἰς τὸ Ῥήγιον φευγόντων, παραπλησίως τούτοις καὶ οἱ Ἰάπυγες ἐμερίσθησαν. Οἱ μὲν οὖν τοὺς Ταραντίνους διώξαντες ὀλίγου διαστήματος ὄντος πολλοὺς τῶν ἐναντίων ἀνεῖλον, οἱ δὲ τοὺς Ῥηγίνους διώκοντες ἐπὶ τοσοῦτον ἐφιλοτιμήθησαν ὥστε συνεισπεσεῖν τοῖς φεύγουσιν εἰς τὸ Ῥήγιον καὶ τῆς πόλεως κυριεῦσαι»31).

Alla fine Erodoto fa la conta dei morti32: tremila reggini ed ancor più i Tarantini, il cui numero fu talmente alto da non poter neppure essere calcolato.

La cosa qui più interessante da sottolineare è tuttavia un’altra: il racconto di Diodoro offre informazioni di dettaglio di notevole rilievo, meritevoli di un’attenta valutazione non fosse altro per comprendere dove questa battaglia, tanto famosa ma ugualmente rimasta senza nome, abbia potuto avere svolgimento. Va infatti sottolineato che le fonti non sono per nulla esplicite su dove questo epico scontro sia avvenuto, anche se la questione non ha turbato più di tanto gli specialisti, sicuri che la località in questione, seppure sconosciuta, non poteva che trovarsi tra Taranto e Brindisi, apparendo del tutto scontato che quella era l’unica zona di confine tra le due città.

Invece, proprio il resoconto dello storico siciliano, indica in maniera evidente che il terreno dello scontro non possa essere stato quello.

Lo si comprende  in maniera evidente da due aspetti.

Il primo riguarda il coinvolgimento dei Reggini. Sia pure in maniera vaga, il fatto che i Reggini si siano lasciati coinvolgere nella contesa dai Tarantini può già far pensare che le dispute di frontiera non riguardassero solo i confini ad est di Taranto, ma anche di quelli ad ovest ed a sud-ovest della città ionica. Vale a dire una zona che i Reggini avevano tutto l’interesse fosse controllata da una città alleata piuttosto che da una comunità nemica. Il secondo, ben più preciso, è che al momento della disfatta i Tarantini ed i Reggini si separarono, dandosi alla fuga per vie diverse.

Ebbene,tenuto presente che nelle battaglie oplitiche, come quella che si racconta, chi soccombeva aveva tutto l’interesse a mantenere i ranghi più compatti possibile, perché in caso contrario finiva per essere alla mercé di chi aveva preso il sopravvento, non si capisce come mai i Reggini ed i Tarantini si separarono, adottando la peggiore strategia possibile che risultava in realtà un vera e propria scelta suicida. Infatti, se la battaglia è avvenuta come comunemente si crede ad est di Taranto, non c’era motivo che i due contingenti si separassero, essendo l’unica via di fuga possibile proprio quella che avrebbe consentito loro di trovare riparo a Taranto, da dove i Reggini erano in aggiunta costretti a transitare, se volevano poi ritornare a Reggio. Tra le altre cose, in tal caso, non si capisce neppure come abbiano potuto i Brindisini inseguire i Reggini sino a Reggio, visto che per farlo avrebbero dovuto compiere un’impresa impossibile, vale a dire prima conquistare Taranto che si frapponeva al loro inseguimento.

 

Ora, salvo che Diodoro non si sia inventato ogni cosa, la risposta obbligata che si può dare è che lo scontro non avvenne ad est di Taranto ma dalla parte opposta a sud-ovest della città ionica, con ogni probabilità in una località tra Metaponto e Sibari. Questo diverso scenario renderebbe infatti plausibile perché mai i Reggini decisero di separarsi, preferendo fuggire verso la propria città, piuttosto che dirigersi verso Taranto che pure, come detto, si trovava più vicina. Di fatto i due gruppi si separarono perché, per raggiungere ciascuno di loro la propria città, dovevano necessariamente fuggire in direzioni opposte. E furono di conseguenza inseguiti dai Calabri di Brindisi sin sotto le mura delle loro città.

Altra inevitabile conclusione è che nel primo trentennio del V secolo a.C., quando si svolse questo epico scontro, i Brindisini erano ancora stanziati a sud-ovest di Taranto in una non meglio identificata zona della Siritide. In caso contrario, non sarebbero stati in grado di affrontare una battaglia campale di quella portata in luoghi così lontani dai propri insediamenti, privi come sarebbero stati dei necessari rifornimenti.

In conclusione, il racconto dettagliato di Diodoro sull’epilogo della mischia che portò alla più grande strage di Greci rende evidente che la Calabria, la quale ai tempi di Strabone coincideva più o meno con l’attuale Salento, in precedenza, prima dell’arrivo dei coloni greci, si estendeva a nord sino a quasi il fiume Ofanto ed a sud-ovest sino a Crotone. L’arrivo degli Achei ridimensionò questi confini facendoli arretrare sul versante ionico poco a sud di Eraclea; quello dei Parteni privò i possedimenti di Brindisi dapprima del territorio tarantino e  successivamente della Siritide. In questo contesto la fondazione di Eraclea, invano contesa ai Tarantini,  come testimoniato da Strabone, rappresenta l’epilogo della presenza brindisina al di fuori del Salento. Si può quindi datare al 434-433 a.C. la fine del dominio dei calabri di Brindisi nelle zone delle attuali Lucania e Calabria.

 

La fine del dominio brindisino in Siritide

Impossibile avere certezze su come si sviluppò la successiva storia delle popolazioni brindisine rimaste separate dalla madrepatria, non essendo rimasta nelle fonti narrative nessuna loro traccia.

Possono però farsi delle ipotesi.

Con ogni probabilità, dopo la perdita di Eraclea, furono relegati nelle zone più interne e più impervie, dove i coloni greci non riuscivano ad imporre la loro egemonia. Poi si raggrupparono con altre genti scacciate dai Greci oppure, in situazione magari di sudditanza con altre popolazioni indigene, attesero l’arrivo di tempi migliori.

Nel frattempo anche il mondo della Magna Grecia incominciava la sua parabola discendente e le genti italiche, in particolare i Lucani, comparsi sulla scena nel V secolo a.C., passarono all’inizio del secolo successivo al contrattacco. La loro predisposizione alle doti guerresche, esercitate ed educate con rigore simile a quello spartano sin dalla più tenera età, li rendeva particolarmente temibili ed idonei ad esercitare una forte egemonia sulle popolazioni italiche della zona.

Qualche decennio dopo si affacciò sul palcoscenico della storia un altro popolo agguerrito, di cui non si aveva mai avuto prima menzione, i Brettii, la cui genesi fornirà spunti utili per comprendere cosa ne fu dei Brindisini rimasti nel territorio magnogreco.

Tutte queste apparizioni, troppo improvvise per poter essere davvero tali, sono spiegabili solo alla luce di complesse dinamiche di trasformazione sociale e territoriale avvenute tra le popolazioni italiche lì dimoranti. In pratica i Lucani ed i Brettii possono considerarsi le nuove compagini che si sostituivano alle precedenti, dopo averle integrate e modificate sia a livello sociale, sia a livello di dislocazione territoriale. La stessa genesi dei Brettii — quella dei Lucani esula dagli interessi di questo intervento — fornisce l’esempio concreto delle trasformazioni in atto in un mondo sconvolto dalla colonizzazione greca. Per quanto le fonti narrative antiche ci forniscano notizie discordanti in merito, c’è un aspetto che le accomuna nell’indicare che i Brettii facevano inizialmente parte di una società, definibile Lucana, in quanto i Lucani vi esercitavano un evidente predominio.

Se da un punto di vista storiografico i Lucani sono documentati presenti nell’attuale Calabria dal V secolo a.C., quando accolgono i pitagorici scacciati dai Crotoniati, i Brettii lo sono solo dal decennio 360/350 a.C. A detta di Diodoro, che nella sua “Biblioteca” raccoglieva notizie provenienti da più fonti, durante il consolato di M. Popilio Lena e C. Manlio Imperioso (359 a.C.)  «si raccolse in Lucania una moltitudine di gente mista, venuta da ogni dove, la maggior parte servi fuggitivi. Questi all’inizio vissero come predoni, e per l’abitudine a dimorare all’aperto e alle incursioni acquisirono esperienza e pratica nelle attività militari. Perciò, essendo risultati superiori in battaglia ai propri vicini, divennero molto potenti. Dapprima assediarono e misero a sacco la città di Terina, poi, conquistate Ipponio, Thurii e molte altre città, costituirono un assetto politico comune (κοινὴν πολιτείαν). Furono chiamati Brettioi perché erano per lo più schiavi. Infatti gli schiavi fuggitivi erano appunto chiamati Brettioi nella lingua delle genti del luogo»33.

Più stringata, ma anche più circostanziata, la versione fornita da Strabone il quale riferisce che i Brettii avevano ricevuto il nome dai Lucani che così chiamavano i ribelli (ἀποστάται); dapprima erano stati dediti alla pastorizia al servizio dei Lucani e successivamente s’erano resi liberi «quando Dione fece guerra a Dionisio sollevando tutti contro tutti [357-356 a.C.]»34. Il geografo indica poi che la loro metropoli era Cosentia (Cosenza) ed occupavano l’estrema penisola dell’attuale Calabria a sud dell’istmo tra Skylletion ed il golfo di Hipponion (all’incirca dalla costa poco a sud da Catanzaro a Vibo Valentia)35.

In epoca più tarda è da porsi la tradizione che si deve a Pompeo Trogo nell’epitome fatta da Giustino che, dopo aver messo in rilievo il loro coraggio, la loro ricchezza e l’aggressività che li aveva resi particolarmente temibili agli occhi dei popoli vicini, narra la loro origine causata da una banda di cinquanta giovani lucani i quali, ripudiato il rigorose regime militare di stampo spartano con cui erano educati, s’erano uniti per compiere saccheggi a danno dei propri vicini36. Dati i successi, la banda aveva visto gonfiare le proprie fila da una moltitudine di gente diversa finendo per divenire il terrore dell’intera regione, sinché Dionisio, il tiranno di Siracusa, sollecitato dai propri alleati, non aveva tentato di porvi rimedio inviando seicento mercenari africani37. Pure i mercenari però risultarono sconfitti e la loro cittadella conquistata dai rivoltosi, grazie all’aiuto di una donna chiamata Bruzia, dalla quale assunsero il nome di Bruttii. Proprio la cittadella strappata ai mercenari fu il loro primo insediamento ufficiale, divenuto presto asilo di tutti i pastori che vivevano nelle vicinanze38.

Oltre a sottolineare la loro originaria sudditanza dai Lucani, i resoconti mettono in evidenza come il loro peso militare e politico, emerso alla metà del IV secolo a.C., fosse comunque l’esito finale d’un processo iniziato molto tempo prima. Altro aspetto rilevante per i nostri scopi, è anche il rilievo dato all’eterogeneità dei Brettii, alla cui composizione contribuirono popoli diversi. In altre parole i Brettii si formarono a seguito di complesse dinamiche di trasformazione, tra le altre cose proprio nel mentre sparivano dalla scena storica popoli come gli Enotri, gli Ausoni, i Choni ed i rimasugli dei Calabri di Brindisi lì trapiantati.

Per cui non pare troppo azzardato ipotizzare che i Brettii avessero accolto tra le proprie fila la maggior parte di coloro che volevano rivalersi dei soprusi subiti a seguito delle successive ondate di colonizzazione.

C’è una vecchia teoria della illiricità etnica dei Brettii, presupposta dal presunto nome illirico da loro assunto e  da altre convergenze toponomastiche39, che non intendo certo riscoprire se non per evidenziare alcune analogie tra questo popolo e quello dei Brindisini spodestati dagli Achei e dai Tarantini. Il richiamo a tale ormai superata ipotesi è fatto perché l’interpretazione dell’etnico, Βρέττιοι (Brettioi), suggerisce accostamenti degni di nota con Brindisi.

Stefano Bizantino40 parla infatti di un’isola nell’Adriatico, «Βρεττία νῆσος» (l’isola Brettia), a cui i Greci davano un’altra denominazione, l’isola dei cervi («Ἐλαφοῦσσα»), e ribadisce che anche il nome di Brindisi («Βρεντέσιον πόλις») era dovuto alla somiglianza del suo porto con una testa di cervo («βρέντιον γὰρ παρὰ Μεσσαπίοις ἡ τῆς ἐλάφου κεφαλή»), aggiungendo un altro significativo accostamento: il termine Brindisi derivava da Brento, figlio di Eracle, al pari dei Brettii che discendevano da Bretto, anch’egli figlio di Eracle.

Un altro possibile collegamento tra Brindisi ed i Brettii è riscontrabile inoltre in Dionisio d’Alessandria il quale in un breve accenno dei Lucani e dei Brettii41 chiama questi ultimi Βρέντιοι (Brentioi), invece di Βρέττιοι (Brettioi), facendo intendere che l’etnico derivava da βρέντιον (Brention), vale a dire dallo stesso termine usato dai nostri antichi concittadini per indicare la testa di un cervo e da cui, come più volte riportato, originava il nome, Βρεντέσιον (Brentesion), dato dai Greci alla nostra città.

Ora questa preferenza data da Dionisio d’Alessandria alla forma Βρέντιοι, rispetto a Βρέττιοι di origine lucana, non pare del tutto casuale e sembra in aggiunta riferirsi ad una fonte ben più antica. Pertanto sembrerebbe avvalorare ancor più l’ipotesi che i termini Brentioi (Brettii) e Brentesion (Brindisi) abbiano avuto un’origine comune derivando entrambi da brention.

Se tutto ciò è naturalmente poco per sostenere una parentela etnica tra Brettii e Brindisini, è tuttavia non banale se considerata in un’altra ottica.

Si pensi, ad esempio ad altre possibili analogie.

Come i Brettii, la società Calabra della penisola salentina aveva una forte componente dedita alla pastorizia ed un etnico a cui la propaganda denigratoria tarantina assegnava simili connotazioni negative, accostandolo allo stesso modo agli schiavi. Tutti aspetti questi marginali, se la questione viene trattata da un punto di vista etnico, ma interessanti se valutati nel senso di tradizioni comuni.

Tradizioni che si può pensare i Brettii acquisirono nel corso del tempo, avendo accolto tra le proprie file i Brindisini, così come avevano fatto, a memoria di Diodoro e Giustino, con popolazioni di altra etnia. In definitiva non sembra tanto avventato supporre che una significativa componente della società Brettia fosse costituita dai Brindisini prima insediati tra Metaponto e Crotone.

Ed infatti in un passo, anch’esso del tutto trascurato dagli storici, ma del pari chiaro nella sua formulazione, Polibio, nell’elencare i popoli che abitano la costa ionica nel tratto che va da Taranto a Reggio, afferma che, oltre ai Lucani ed ai Brettii ci sono «tuttora dei Calabri» («ἔτι δὲ Καλαβροὶ»)42. Come dire che ancora all’epoca di Polibio, vale a dire nel II secolo a.C., c’erano ancora Brindisini che vivevano nei loro antichi possedimenti della Brentesìa. E la cosa viene comunicata in modo talmente spontaneo e senza darvi enfasi, da lasciar intendere che  fosse del tutto naturale che in quegli anni ci fossero Calabri stanziati lontano dai loro usuali insediamenti.

In definitiva,era una notizia così scontata per un lettore dell’epoca che non c’era neppure bisogno di darle rilievo.

Questa è anche l’ultima traccia lasciata dai Calabri di Brindisi che avevano dovuto subire l’avanzata e la supremazia  dei coloni Greci nel territorio tra Metaponto ed il Bruzio.

La fine dell’organizzazione politica dei Brettii fu repentina al pari della sua costituzione. Già al suo tempo, Strabone poteva affermare che dei Brettii «non sopravvive più nessuna organizzazione politica comune oppure usi comuni, e sono completamente scomparsi lingua, modo di armarsi, di abbigliarsi e ogni altra cosa di questo genere: in definitiva, considerati sia singolarmente, sia nel loro assieme, i loro insediamenti sono del tutto privi di ogni rilevanza»43.

Con i Brettii sparirono anche i Calabri di Brindisi della cui esistenza sarebbe il caso di prendere finalmente consapevolezza, viste le consistenti tracce da loro lasciate sin nel Bruzio.

(2 – fine)

 

Note

25 Giustino, Epitome delle storie filippiche di Pompeo Trogo, III 4, 11-12.

26 Strabone, Geografia, VI 3, 4.

27 Ibidem.

28 Erodoto, Storie, VII 170.

29  Diodoro siculo, Biblioteca storica, XI 52, 1-2.

30 Ibidem, XI 52, 3.

31 Ibidem, XI 52, 4.

32 Erodoto, Storie, VII 170.

33 Diodoro siculo, Biblioteca storica, XVI 15, 1-2.

34 Strabone, Geografia, VI 1, 4.

35 Ibidem, VI 1, 4-5.

36 Giustino, Epitome delle storie filippiche di Pompeo Trogo, XXXIII 1, 3/10.

37 Ibidem, XXXIII 1, 10-11.

38 Ibidem, XXXIII 1, 12.

39 H. Rix, Bruttii, Brundisium und das illyrische Wort für ‘Hirsch’, in Beiträge zur Namenforschung, vol. 5 (1954), pp. 115/129.

40 Stefano Bizantino, Ethnica, voci Brentesion, Brettia e Brettos.

41 Dionisio d’Alessandria (I secolo d.C. – II secolo d.C.), Descriptio orbis, v. 362.

42 Polibio, Storie, X, fr. 1.

43 Strabone, Geografia, VI 1, 2.

 

Per la prima parte:

La Brentesìa: dopo l’arrivo dei colonizzatori (II) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

I porti di Brindisi e Taranto in due mappe del XVII secolo

di Armando Polito

Ad integrazione delle due mappe riportate tempo fa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/24/gallipoli-e-taranto-in-due-mappe-del-xvii-secolo/) ne segnalo altre due facenti parte di una collezione custodita nella Biblioteca Nazionale di Francia (collocazone: Bibliothèque nationale de France, département Cartes et plans, GE DD-2987 (5656). Lo faccio a beneficio di chi volesse fare un esame comparativo anche sul piano grafico, tenendo presente che, quando , come nella cartografia, dev’essere rappresentato fedelmente lo stesso soggetto, tutto si gioca sui dettagli. Poi ci sono gli scopiazzamenti spudorati, che coinvolgono pure nomi di cartografi ed editori famosi del passato (solo di quello?…), ma questo è un altro discorso.

Brindisi arcaica: i miti di fondazione e le origini ateniesi

Brindisi arcaica: i miti di fondazione e le origini ateniesi*

 

di Nazareno Valente

 

Per i Greci non tutti i barbari erano valutati alla stessa stregua, nel senso che c’era, tra coloro che parlavano un idioma diverso dal loro, chi si distingueva potendo contare su antiche origini in un qualche modo riferibili a quelle greche. È il caso, ad esempio, degli Etruschi e dei popoli che risiedevano in Calabria che, ricordiamo, era la denominazione geografica data dai nostri antichi conterranei alla penisola Salentina — più comunemente chiamata Messapia, in onore del coronimo prescelto dagli “invasori”venuti dalla Grecia e che a quel tempo era abitata dai Calabri (residenti nell’Alto Salento e nella costa adriatica sino ad Otranto) e dai Sallentini (nel Basso Salento e in parte della costiera ionica).

Per Erodoto, i Calabri ed i  Sallentini erano ritenuti discendenti dei Cretesi che, sorpresi da una tempesta, erano stati scagliati sulla costa salentina dove, non avendo più le navi per tornare in patria, avevano deciso di rimanere1. Con qualche variante, lo stesso mito era riportato da Conone2, e le stesse origini cretesi venivano assegnate agli abitanti del Salento da Strabone3, da Ateneo4 e da Solino5, Varrone6 e Verrio7 prevedevano, oltre ai Cretesi, il concorso di gente proveniente dall’Illirico e dalla Locride ed infine Plutarco8 aggiungeva ai Cretesi il solo apporto degli Ateniesi. In controtendenza con queste tesi il solo Nicandro di Colofone, il quale assegnava agli indigeni un’origine illirica. Raccontava appunto che Licaone, giunto sulle coste adriatiche con un esercito in gran parte formato da Illiri guidati da Messapio, aveva scacciato chi vi risiedeva e assegnato agli Illiri la regione della Messapia9.

Occorre in aggiunta premettere che le coste del Basso Adriatico erano rimaste estranee all’attività colonizzatrice dei Greci, non già perché questi non ci avessero provato, quanto piuttosto per il fatto che non erano riusciti a prevalere. I Calabri ed i Sallentini s’erano sempre saputi far rispettare ma ciò nonostante avevano dovuto subire l’influsso del mondo greco con cui avevano instaurato un rapporto prevalentemente di carattere commerciale. La via settentrionale, com’era chiamata la rotta che portava i Greci nel Mediterraneo occidentale, toccava pure i centri costieri dell’allora Calabria e, soprattutto, Otranto e Brindisi. Ed era forse da queste frequentazioni che trovavano alimento le leggende di fondazione via via confezionate. Far passare che un certo luogo aveva antiche origini assimilabili alle proprie, era in effetti un modo come un altro per i naviganti di metterci il cappello sopra e di potersi così servire di approdi più affidabili e sicuri. E forse proprio per questo aspetto, Brindisi, allora città di gran lunga la più rinomata della zona, fruiva di un particolare privilegio nella creazione dei racconti di fondazione che utilizzavano per altro anche figure mitiche e non solo generici coloni.

Una delle più fantasiose viene desunta da Stefano Bizantino10, un grammatico di Bisanzio, che faceva derivare il nome di Brindisi («Βρεντέσιον», Brentesion), oltre che dalla classica configurazione del suo porto simile alla testa d’un cervo, da Brento, figlio di Ercole («ἀπὸ Βρέντου Ἡρακλέους»). Quello stesso Brento che incontrollate dicerie vorrebbero addirittura in competizione con il padre nella costruzione delle Colonne, posizionate sulla collina settentrionale della città. Colonne che, in aggiunta, ancora adesso sono spacciate per terminale simbolico della via Appia. Ora, sebbene nessuna fonte narrativa antica dia per esplicito che Brento sia mai stato fondatore della nostra città, lo si vocifera, e la cronachistica locale lo reputa addirittura con certezza tale, ricavandolo in maniera forse sin troppo azzardata dalla sola ricostruzione dell’etimo compiuta da Stefano Bizantino.

 

Diomede e Teseo tra i possibili fondatori di Brindisi

In quel periodo Brindisi non era un porto molto disponibile agli approdi ed ai commerci generalizzati, malgrado ciò la presenza soprattutto ionica vi era tuttavia evidente, rinvenibile per l’appunto nel patrimonio leggendario d’un lontano passato. E forse proprio questa assiduità delle popolazioni ioniche rappresenta di fatto una delle poche, se non l’unica, verità contenuta in questi miti delle origini, insieme alla propaganda di carattere politico e sociale di cui essi si facevano probabilmente strumento. Collegandosi ad età molto indietro nel tempo, i racconti prevedevano infatti il coinvolgimento di personaggi più mitici che storici, per cui per la fondazione di Brindisi gli autori antichi erano dibattuti se assegnarne il merito a Diomede o, addirittura, al leggendario Teseo. Per quanto riguarda il primo, occorre dire che il suo rapporto con Brindisi era però alquanto controverso.

Presentato come eroe civilizzatore, Diomede ricopre il ruolo di ecista in molte leggende delle città della costa adriatica sino all’estremo e misterioso Timavo, per quanto il suo culto era particolarmente vivo in Daunia. Brindisi, se fosse stata da lui effettivamente edificata, risulterebbe la città più a sud della costa occidentale e, in aggiunta, alquanto lontana dalle zone in cui l’eroe comunemente operava in queste vesti. Sebbene siano due le testimonianze che lo vogliono fondatore della nostra città, la più tarda di esse — quella di Isidoro — non è altro che un copia ed incolla succinto della versione di Trogo, pervenutaci tramite Giustino, che è quindi l’unica ad avere un certo valore documentario.

Nella sua epitome di Trogo, Giustino narra appunto che, «durante la spedizione compiuta in Italia da Alessandro il Molosso, il condottiero epirota fece per prima guerra agli Apuli. Tuttavia dopo aver saputo di quanto era avvenuto in passato alla loro capitale, decise di fare pace e di stipulare accordi con il loro re. Allora, infatti, capitale dell’Apulia era Brindisi, città fondata dagli Etoli guidati da Diomede, condottiero assai stimato e noto per la fama delle imprese compiute a Troia; costoro scacciati dagli Apuli, s’erano recati a consultare gli oracoli, ottenendo il seguente responso: il luogo che avessero chiesto in restituzione, sarebbe rimasto in loro possesso in eterno. Essi dunque tramite gli ambasciatori e dietro minaccia di guerra,  intimarono agli Apuli di restituire loro la città. Ma quando gli Apuli vennero a conoscenza dell’oracolo, massacrarono gli ambasciatori e li seppellirono nella città, che divenne così per essi  una perpetua dimora. E così, morti, possedettero a lungo la città, come previsto dal responso. Venuto a conoscenza di questa vicenda, Alessandro, in piena osservanza degli antichi fati, si astenne dalla guerra con gli Apuli» («Igitur cum in Italiam venisset, primum illi bellum cum Apulis fuit, quorum cognito urbis fato brevi post tempore pacem et amicitiam cum rege eorum fecit. Erat namque tunc temporis urbs Apulis Brundisium, quam Aetoli secuti fama rerum in Troia gestarum clarissimum et nobilissimum ducem Diomeden condiderant; sed pulsi ab Apulis consulentes oracula responsum acceperant, locum qui repetissent perpetuo possessuros. Hac igitur ex causa per legatos cum belli comminatione restitui sibi ab Apulis urbem postulaverant; sed ubi Apulis oraculum innotuit, interfectos legatos in urbe sepelierant, perpetuam ibi sedem habituros. Atque ita defuncti responso diu urbem possederunt. Quod factum cum cognovisset Alexander, antiquitatis fata veneratus bello Apulorum abstinuit»11)..

S’è riportato per intero il racconto di Giustino per consentire a chi lo desideri di analizzare in maniera del tutto autonoma il pezzo che contiene un possibile evidente errore. Brindisi era infatti al tempo in cui scrivono i due storici  una località della Calabria e non dell’Apulia che, a grandi linee, corrispondeva all’attuale Puglia centro-settentrionale. Non solo, essi la indicano capitale (urbs) dell’Apulia. Ora, salvo che Giustino non abbia travisato il pensiero di Trogo sulla collocazione e sulle funzioni di Brindisi — ma parrebbe alquanto strano trattandosi d’una città tra le più famose e rinomate del tempo — l’unica possibilità è che abbia riassunto il passo in maniera troppo sommaria. Nel senso che abbia tralasciato di riferire, forse considerandole informazioni scontate per i lettori, perché mai Brindisi fosse considerata in quel contesto facente parte dell’Apulia, nientemeno poi nelle vesti di città principale, e come mai si trovasse ad esercitare una simile egemonia. In effetti, come vedremo in uno dei prossimi interventi c’è una possibile risposta a queste apparenti incongruenze, che indurrebbe a credere che con ogni probabilità non si ha a che fare con una svista o, peggio ancora, con un banale errore ma con un’incomprensione dovuta ad un eccesso di sintesi.

Altro aspetto interessante da rimarcare è che in genere erano i barbari a fare le spese di certi sofismi, sopraffatti dall’acutezza e furbizia dei Greci, mentre questa volta sono proprio gli indigeni che mettono in campo in modo perfido l’astuzia, sfruttando a proprio vantaggio il responso degli oracoli e rendendo così vani i tentativi degli Etoli di riappropriarsi della città. In ogni caso, questo fa capire ad Alessandro il Molosso che non si sta rapportando con degli sprovveduti, e ciò lo convince a scendere a più miti consigli ed a desistere dal condurre una strategia troppo aggressiva.

Tranne Trogo ed Isidoro, che però come già riferito non fa altro che copiarlo, nessun altro considera Diomede fondatore di Brindisi, che anzi il più delle volte si trova schierata in campo avverso e viene citata come città a lui ostile.

È per esempio il caso degli “Excerpta Politiarum” di Eraclide Lembo, dove Diomede combatte al fianco dei Corciresi contro i Brindisini12, oppure delle “Metamorfosi”, dove Antonino Liberale, forse ripetendo Nicandro di Colofone, fa intervenire l’eroe greco in aiuto dei Dauni impegnati a guerreggiare con i nostri concittadini ed i Messapi tutti13. In questo secondo caso, è ricordato il mito di Diomede che, di ritorno ad Argo dalle imprese compiute a Troia, viene a sapere dell’infedeltà della moglie Egialea, cosa che lo spinge a partire per l’Etolia. Qui giunto, dopo avervi compiuto l’impresa di rimettere sul trono il nonno Oineo, nel frattempo spodestato da Agrio, decide di ripartire per Argo. Una tempesta lo spinge però sulle terre dei Dauni ai quali dà appoggio nella guerra che stanno appunto sostenendo contro i Messapi, in cambio d’una parte del territorio che sarebbe stato conquistato14. Sbaragliati i nemici, Diomede riceve la terra promessa che distribuisce ai suoi compagni di viaggio15. Sicché più che da fondatore, Diomede si comporta da conquistatore ai danni dei Messapi e, quindi, dei Brindisini.

È da sottolineare che anche in questa occasione, i Brindisini parrebbero trovarsi fuori dal loro habitat usuale, perché occupano, all’arrivo dell’eroe greco, il territorio che in epoca storica era dei Peucezi, e non dei Messapi.

A parte questo, messi insieme i vari racconti, si può evidentemente desumere che Diomede strappò ai nostri concittadini parte del loro territorio, dove ebbero modo di stanziarsi gli Etoli che l’accompagnavano nelle sue peripezie; in seguito, tuttavia, i Brindisini si riappropriarono delle zone perdute riuscendo a scacciare gli invasori.

Molto più accreditato come fondatore appare così Teseo, sia per numero di testimonianze, sia per l’approccio che egli mostra d’avere con il territorio che intende colonizzare.

Il primo a parlarne è Strabone il quale ricorda che anche Brindisi, come altre città dell’allora Calabria, fu fondata dai Cretesi, solo che per essa giravano due diverse versioni: la prima rinviava a Cretesi giunti da Cnosso con Teseo; la seconda a quelli che ritornavano dalla sfortunata spedizione condotta da Minosse in Sicilia («Βρεντέσιον δ᾽ ἐποικῆσαι μὲν λέγονται Κρῆτες οἱ μετὰ Θησέως ἐπελθόντες ἐκ Κνωσσοῦ, εἴθ᾽ οἱ ἐκ τῆς Σικελίας ἀπηρκότες μετὰ τοῦ Ἰάπυγος (λέγεται γὰρ ἀμφοτέρως)»16). In entrambi i casi, però, questi Cretesi non rimanevano a Brindisi ma finivano per abbandonarla intenzionati a dirigersi verso la Bottiea («οὐ συμμεῖναι δέ φασιν αὐτούς, ἀλλ᾽ ἀπελθεῖν εἰς τὴν Βοττιαίαν»17).

In altra parte della sua opera Strabone precisa che non tutti, ma solo alcuni (τινὰς) di essi avevano poi raggiunto a piedi la Macedonia, dopo aver fatto il giro della costa adriatica, e si erano stabiliti lì assumendo il nome di Bottiei18.

In maniera molto più poetica il fatto è narrato anche da Lucano il quale, riferendosi a Brindisi, la dice «città un tempo posseduta dai coloni Dittei che, profughi da Creta, navi cecropie trasportarono attraverso il mare, quando le vele diedero la falsa notizia che Teseo era stato vinto» («urbs est Dictaeis olim possessa colonis, / quos Creta profugos vexere per aequora puppes / Cecropiae victum mentitis Thesea velis»19). Ora i Dittei, non sono altro che i Cretesi — Ditte è infatti l’antico nome di un monte di Creta — e, con la locuzione navi cecropie, il poeta intendeva indicare navi ateniesi, essendo Cecrope il mitico primo re di Atene. In pratica Lucano inserisce la fondazione di Brindisi da parte di Teseo all’interno della leggendaria impresa da questi compiuta per sconfiggere il Minotauro e, di conseguenza, liberare Atene dal tributo dovuto a Creta.

Più esplicito in tal senso è l’anonimo Secondo Mitografo Vaticano il quale narra20 che Atene, sconfitta da Minosse, era stata costretta a consegnare ogni anno ai Cretesi sette fanciulle e sette giovani perché fossero abbandonati nel labirinto di Cnosso e servire da pasto del Minotauro. Nel quarto anno, quando la nave che doveva trasportare le vittime era già pronta nel porto, Teseo, figlio del re ateniese Egeo, decise d’imbarcarsi a sua volta per risolvere la questione. Invano il padre cercò di dissuaderlo dall’impossibile impresa; ottenne solo di poter consegnare al nocchiero un nero vessillo da mettere sull’albero più alto della nave, con l’intesa, che qualora avessero sconfitto il Minotauro, sarebbe stato sostituito da una bandiera bianca. Teseo, con l’aiuto di Arianna, riuscì nell’impresa ma nessuno si ricordò di sostituire il vessillo, sicché, al loro ritorno, Egeo, trovandosi su un altissimo scoglio, vide sventolare la bandiera nera e, credendo che Teseo fosse stato ucciso dal Minotauro, per la disperazione si precipitò nel profondo del mare. Per questo quel mare prese da lui il nome di Egeo, e Teseo, a sua volta, «navigando via dalla patria venutagli ad odio, giunse in Italia e fondò Brindisi» («Theseus vero odio loci inde navigans; ad Italiam venit, et Brundusium condidit»21).

 

L’alleanza tra Brindisi ed Atene

L’aspetto più interessante da cogliersi nella versione inaugurata da Lucano è che la fondazione di Brindisi da parte dei Cretesi rende più esplicito il collegamento della città con Atene. Per tale motivo, è da ipotizzarsi che questa leggenda di fondazione faccia parte della propaganda ateniese per avanzare un qual certo diritto di possesso del luogo o, quantomeno, una priorità nell’uso del porto brindisino. Si deve infatti considerare che, almeno sino a quando le loro attenzioni non si volsero verso la Sicilia, gli interessi prevalenti ateniesi verso l’occidente erano i più remoti siti dell’Alto Adriatico che presupponevano, per giungervi, di poter fruire della ospitalità dei pochi scali certi che la costa occidentale dell’Adriatico offriva. La propaganda serviva inoltre a dare luce alla città di Brindisi, fiera antagonista di Taranto, a sua volta colonia di Sparta acerrima rivale di Atene, e darle un alone di nobiltà.

Il che manifesta in maniera evidente l’esistenza di un’alleanza tra Brindisini ed Ateniesi, avviata già in epoca arcaica, che con ogni probabilità permetteva a questi la certezza dell’uso dell’approdo brindisino nei loro viaggi commerciali verso l’estremo nord ed a quelli di godere, quando occorreva, dell’aiuto militare nello sforzo bellico compiuto per limitare l’espansione territoriale di Taranto e delle altre città italiote ad essa ostili.

Alleanza a livello istituzionale — occorre ricordarlo — per lo più negata dagli storici che, al massimo, la connettono a casuali accordi stipulati da qualche dinasta calabro, come avvenne nel caso di Artas, facente parte di una preziosa testimonianza tramandata da Tucidide nel contesto della spedizione decisa da Atene per soccorrere la propria armata impegnata con poca fortuna nell’assedio di Siracusa.

Siamo nel 413 a.C. quando Demostene e Eurimedonte conducono la flotta di soccorso raggiungendo le Cheradi, isole dette della Iapigia, dove imbarcano sulle navi centocinquanta lanciatori di giavellotto messapi, forniti appunto dal dinasta Artas, dopo aver «rinnovato un antico patto di amicizia» («ἀνανεωσάμενοί τινα παλαιὰν φιλίαν»)22.

Il passo di Tucidide ha dato origine ad un ampio dibattito esegetico e topografico, in particolare su come debba essere inquadrata cronologicamente la palaià philia (antica amicizia) citata nel testo, e sulla possibile identificazione delle citate isole Cheradi.

Per quest’ultimo aspetto, considerato che nella penisola salentina vi sono solo due gruppi di isole che fanno al caso nostro — o quello di fronte al Mar Grande di Taranto o le Pedagne di fronte al porto di Brindisi — non ci dovrebbe essere grande imbarazzo nella scelta che sembrerebbe obbligata per il piccolo arcipelago brindisino. Le isole tarantine si trovavano infatti in una zona preclusa sia agli Ateniesi sia ai Calabri di Artas, per le ovvie ragioni che la città ionica era nemica giurata di Brindisi e parimenti ostile ad Atene, in quanto colonia spartana e in più alleata a Siracusa. Pertanto le uniche isole adoperabili per l’incontro erano le attuali Pedagne, in territorio calabro. Al contrario gli storici, in maniera forse azzardata, valutano che l’abboccamento e l’accordo tra Artas e gli Ateniesi sia avvenuto in territorio dichiaratamente nemico, tanto è vero che, proprio in base a questa loro certezza, all’arcipelago tarantino è stato attribuito poi il nome di Cheradi. Appare, però, di fatto bizzarro che Artas e gli Ateniesi, pur disponendo di altri luoghi da utilizzare per avere un vertice, abbiano deciso di farlo proprio in territorio nemico. Ne consegue che parrebbe del tutto scontato che le isole citate da Tucidide non possano che essere le Pedagne.

Tale ipotesi è tra l’altro confermata dal fatto che, in un precedente passo, lo storico dichiara espressamente che Taranto e Locri non fecero entrare gli Ateniesi nel loro abitato, né accordarono loro acqua e ormeggio23, e in definitiva impedirono anche il semplice approdo nel territorio di loro competenza. A maggior ragione, appare improbabile che potessero consentire lo scalo ai Calabri di Artas, loro tradizionali nemici.

Altra strana interpretazione viene data in merito al termine “antica” adoperato da Tucidide nell’indicare il patto di amicizia in atto tra Ateniesi e Messapi. A tale termine non viene infatti assegnato il significato che gli è più proprio, vale a dire di qualcosa di avvenuto in epoca remota, quanto piuttosto in un periodo vicino ai fatti narrati. Di conseguenza gli storici sono per lo più categorici nel negare la possibilità che i patti richiamati fossero stati stipulati in un lontano passato. Eppure le poche prove di cui si è in possesso indurrebbero a credere esattamente il contrario.

È storicamente accertato che anche nei secoli precedenti Atene aveva interessi commerciali nelle città dell’Alto Adriatico e, quindi, la necessità di trovare sicura ospitalità nelle poche strutture portuali disponibili sulle coste del versante italiano. Ed in tale ottica grande importanza rivestiva appunto la costa salentina del Basso Adriatico, dove si arrivava dopo avere affrontato il mar aperto: l’impossibilità di fruire di approdi certi in quel luogo avrebbe potuto mettere a repentaglio una navigazione, allora prevalentemente basata sul cabotaggio, e costituire un rischio talmente elevato da precludere ogni possibile viaggio in quella zona. Per cui parrebbe evidente che gli Ateniesi si siano dovuti premunire esercitando un controllo di un qualche tipo sui principali approdi calabri ed in particolare su quello di Brindisi, essendo essenziale per la buona riuscita della loro attività mercantile. Dal momento poi che Brindisi e le località calabre e salentine con essa alleate, seppure influenzate dal mondo greco, non subivano egemonie politiche di sorta, un tale controllo poteva essere attuato solo venendo ad accordi pacifici con la gente del luogo. Per evitare infine brutte sorprese, è evidente che non poteva trattarsi di accordi presi di volta in volta, oppure lasciati al caso o alla volontà di singoli dinasti, quanto piuttosto di intese attuate in maniera organica ed a livello istituzionale.

Ci sono pure riscontri concreti che valorizzano una simile ipotesi.

L’intenso commercio avviato da Atene con Adria e Spina è già di per sé un importante dato di fatto, ma anche il ritrovamento nelle coste adriatiche del Salento e nelle zone limitrofe di ceramica protocorinzia e ionica, rende manifesta la penetrazione culturale greca nella zona e, al tempo stesso, è un chiaro indice di come gli intensi commerci nell’Alto Adriatico non potevano prescindere da una assidua frequentazione dei punti più strategici del Basso Adriatico. C’è poi da rilevare che Thurii, unica colonia della Magna Grecia di ispirazione ateniese, è anche la sola tra le città italiote ad essersi alleata formalmente con Brindisi, come attestato dal caduceo conservato al Museo Nazionale di Napoli. Il fatto che nel V secolo a.C. ci fosse un unico caduceo, e quindi uno stesso araldo, del δαμόσιον Θουρίων (popolo dei Turi) e del δαμόσιον Βρενδεσίνον (popolo brindisino) testimonia di come si fossero subito istaurati buoni rapporti tra le due comunità. In maniera talmente spontanea da lasciare intuire preesistenti e operativi accordi tra Brindisini ed Ateniesi.

In definitiva, i miti di fondazione collegati alla figura di Teseo, eroe di chiara matrice ateniese, rendono evidente come Brindisi ed Atene trovarono naturale allearsi tra loro, condividendo una evidente e comune inimicizia per il mondo spartano.

I miti di fondazione che si rifanno a Diomede fanno invece presagire che forse la storia arcaica di Brindisi vada in parte riscritta. Diversamente da quello che in genere si racconta, prima della colonizzazione greca, l’egemonia esercitata dalla città non si limitava alle località a sud dell’istmo che la unisce a Taranto ed i suoi possedimenti erano, con ogni probabilità, ben più consistenti. Cosa questa che analizzeremo in futuro rivalutando alcuni frammenti narrativi cui la critica storica ha concesso in passato poco credito o scarsa importanza, oppure li ha ritenuti talmente oscuri da alterarne i contenuti, emendandoli.

 

* Tratto da N. Valente, Brindisi sconosciuta, Grenzi editore, 2023 (in vendita su Amazon https://amzn.eu/d/gmSjIxJ)

 

 

Note

1 Erodoto (V secolo a.C.), Storie, VII 170.

2 Conone (I secolo a.C. – I secolo d.C.), fr. 1. XXV, apud fozio (IX secolo d.C.), Biblioteca, 186, 25.

Strabone (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, VI 3, 5.

4 Ateneo (II o III secolo d.C.), Deipnosofisti,  XII 24 523a.

5 Solino (III secolo d.C.), Raccolta di cose memorabili, 2, 10.

6 Varrone (II secolo a.C. – I secolo a.C.), Antiquitates rerum humanarum, III fr.VI Mirsch, apud ps –probo (…), in Vergilii Bucolica, VI 31.

7 Verrio Flacco (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Sul significato delle parole, fr. apud festo (II secolo d.C. – …), Sul significato delle parole libri XX, in Dacier, vol. II, Londra,  pp. 807-808.

8 Plutarco (I secolo d,C. – II secolo d.C.), Moralia, 298-299.

9 Nicandro di Colofone (…),fr. 47 Schneider, apud antonino liberale (…),  Metamorfosi, XXXI 1/3.

10 Stefano Bizantino (VI secolo d.C. – …), Ethnica, voce Brentesion.

11 Giustino (II secolo d.C.?), Epitome delle storie filippiche di PompeoTrogo, XII 2, 5/11.

12 Eraclide lembo (II secolo a.C.), Excerpta Politiarum, 27 ed. Polito.

13 Antonino liberale, Metamorfosi, XXXVII 1/3.

14 Ibidem, XXXVII 2.

15 Ibidem, XXXVII 3. Il mito prevede anche conclusioni meno a lieto fine: in una addirittura Dauno contravviene ai patti e, dopo aver consegnato la terra concordata, se la riprende. In questa versione Diomede muore, ucciso da Dauno, ed i suoi compagni vengono trasformati in uccelli simili ai cigni, in Tzetze (XII secolo d.C.), Scholia in Lycophronis Alexandram, vv. 594/632.

16 Strabone, Geografia, VI 3, 6.

17 Ibidem.

18 Ibidem, VI 3, 2.

19 Lucano (I secolo d.C.), La guerra civile, II vv. 610/612.

20 Secondo Mitografo Vaticano (tra il IX e il XIII secolo), II 124-125.

21 Ibidem, II 125.

22 Tucidide (V secolo a.C.),  La guerra del Peloponneso, VII 33, 3-4.

23 Ibidem, VI 44, 2.

 

Libri| Brindisi sconosciuta

 

Prefazione del volume

 

La rappresentazione del passato di Brindisi da parte dei cronisti locali avviene molto avanti nel tempo ed in un momento del tutto particolare.

Si è nel XVI secolo mentre è in corso un’accesa competizione con Oria per la rivendicazione della sede vescovile, allora cespite importantissimo per le economie comunali, e ne è antesignano un notaro brindisino, Giò Battista Casmiro, in aperta polemica con Quinto Mario Corrado, umanista oritano ben più accreditato di lui, che si trovava naturalmente schierato sul fronte opposto.

La prima diffusione delle tradizioni e dei culti cittadini, contenuta nella “Epistola Apologetica” del Casmiro, indirizzata nel 1567 appunto a Corrado, trova così spunto nel clima di rivalità che s’era allora creato con Oria nella contesa per il titolo vescovile e risente di conseguenza degli obiettivi che l’opera intende perseguire in difesa degli interessi di Brindisi. Più che ricreare uno scenario realistico, l’autore tende così a presentare quello più favorevole e sostenibile possibile, come un qualsiasi buon avvocato difensore farebbe a sostegno delle pretese del proprio assistito. In tale contesto, la storia di Brindisi viene pertanto redatta perché soddisfi ad una tesi preconfezionata, privata sin dall’inizio da tutti quegli elementi che possano far sorgere dubbi, creare fraintendimenti o appigli di replica. In aggiunta si esaltano i pregi, se del caso raschiando il barile, e si sminuiscono quelli che la controparte potrebbe utilizzare come difetti.

In tal senso Casmiro ha fatto scuola e molti dei successivi storici e cronisti locali non hanno saputo affrancarsi del tutto da questo modo di fare, industriandosi ad abbellire gli avvenimenti e configurandoli secondo un modello ideale di sviluppo che favorisse l’immagine della città, come se essa fosse in perenne competizione con le comunità vicine.

Parrà strano ma le conseguenze di questo modo di fare ha avuto degli effetti alquanto sconcertanti per il nostro passato: lo ha riempito di banalità, di luoghi comuni, di leggende metropolitane svuotandolo, nel contempo, delle sue pagine più interessanti e gloriose.

Proprio la scoperta di queste pagine nascoste di storia cittadina è lo scopo principale di questo libro.

Per conseguirlo, si dovrà necessariamente passare al setaccio le interpretazioni sinora date e, se del caso, rivederle togliendo le incrostazioni accumulatesi nel tempo. Un’operazione non del tutto simpatica perché bisognerà per forza mettere qualche puntino sulle i, correggere tutta una serie di false opinioni, smentire tradizioni, demolire leggende e tante fantasie spacciate sino ad ora per verità sacrosante.

La speranza è che il lettore non viva tutto questo come pedanteria fine a sé stessa ma, se possibile, in senso positivo, ritenendola necessaria se si vuole scoprire un passato credibile e non solo composto da forme stereotipate o da temi scontati e ricorrenti.

Un’altra avvertenza mi pare necessaria: questo libro si rivolge al lettore non specializzato e privilegerà pertanto un linguaggio semplice, senza però con questo indulgere in semplificazioni. Anzi, se necessario, si affronteranno temi controversi e divisivi, e si riporteranno interi brani in lingua latina e greca, sempre però accompagnandoli con una traduzione, per mettere in risalto come una ragionata rilettura delle fonti narrative antiche possa aiutare per far emergere aspetti sinora trascurati.

Non si rinuncerà neppure alle note ed alle citazioni. Anche in questo caso non tanto per fare sfoggio, quanto piuttosto per fornire a chi lo desideri gli strumenti utili per potersi creare una propria opinione.

Il tutto nella speranza di far riemergere pagine di storia rimaste per troppo tempo sconosciute.

 

Brindisi sconosciuta, di Nazareno Valente

Pagine: 458; formato: 21.59 x 2.64 x 27.94 cm

Acquistabile su Amazon (https://amzn.eu/d/gmSjIxJ) oppure presso la Claudio Grenzi sas  (info@claudiogrenzieditore.it).

 

Indice

Parte prima: Periodo preromano

1.1. La penisola salentina nelle fonti narrative antiche

1.2. Messapia: era davvero una terra tra due mari?

1.3. Quando arrivarono gli Elleni

1.4. Miti di fondazione

1.5. Prima dell’arrivo dei Parteni

 

Parte seconda: Periodo romano

2.1. Il bellum sallentinum ed il mistero della dea Pales

2.2. Penisola salentina romana

2.3. La colonia latina di Brindisi

2.4. La fondazioni della colonia latina di Brindisi (247-244 a.C.)

2.5. L’assedio di Brindisi: uno scontro mancato

2.6. Brindisi ai tempi di Cesare Ottaviano Augusto

 

Parte terza: La cristianizzazione ed il periodo del declino

3.1 Brindisi da metropoli a borgo desolato

3.2. Il manoscritto: la vita del divino Pelino vescovo e martire (traduzione di Armando Polito).

3.3. Altri inni per l’ufficio di san Pelino

 

Parte quarta: Li cunti, li culacchi e i luoghi d’una volta

4.1. Virgilio e Brindisi

4.2. Un antico proverbio

4.3. Brindisi e i brindisi

4.4. L’isola che non c’è più

4.5. Alla scoperta della fontana di Crisostomo

4.6. Abbasciu a la marina alla fine del Settecento

 

Parte quinta: Il porto di Brindisi nel periodo della decadenza

5.1. Una storia tutta da scrivere

 

La leggendaria casa di Virgilio

 

di Nazareno Valente

Le narrazioni ed i miti, partoriti a partire dal Basso Medioevo, associarono al Virgilio poeta un Virgilio dotato addirittura di poteri magici.

C’è infatti tutto un filone di leggende, ormai cadute in disuso per mancanza di anime candide disposte a crederci, che illustrava le opere di magia compiute dal poeta a beneficio dell’umanità, a cominciare da quella che l’aveva visto creare una prodigiosa mosca di bronzo in grado di liberare Napoli dal flagello delle mosche. Ma non solo: le stesse fognature di Napoli si tramandava fossero state fatte da Virgilio, così come una statua umana che, soffiando in una tromba, proteggeva il clima dagli effetti negativi del vento di Favonio, ed ancora altre meraviglie assortite. Tra le quali — pensate un po’ — anche un miracolo che risolverebbe la vexata quaestio su chi abbia effettivamente edificato le colonne romane posizionate sulla collinetta nord del porto Brindisino. Basterebbe infatti riabilitare il racconto popolare che ne attribuiva a Virgilio la costruzione, compiuta nello spazio d’una sola notte allo scopo di abbellire il luogo dove risiedeva, per avere la soluzione a portata di mano. Residenza anch’essa facente parte delle tante storielle generate dalla fervida fantasia della cronachistica locale, che hanno il loro apice appunto nella presunta casa di Virgilio.

Ed è infatti dalla leggendaria casa di Virgilio che s’inizia questo viaggio alla scoperta degli immaginosi racconti che legano il poeta alla città di Brindisi sperando che, così facendo, non si finisca per deludere coloro che li hanno ritenuti sino ad ora realistici.

Come già raccontava con la dovuta cautela Annibale de Leo, «poco lontana dal mare, ed in faccia all’imboccatura del porto interno, presso le due antiche colonne» si può vedere «un’antica casa … la quale per antica tradizione si dice essere stata la casa di Virgilio». Lo studioso brindisino era infatti troppo colto per dare un incondizionato credito alle dicerie popolari, cui lasciava spazio più per assecondare le certezze dei lettori che per effettivo coinvolgimento. Per questo preferiva riportare l’informazione accompagnandola con un «si dice» che lasciava indefinito, pur rendendolo implicito a chi avesse voluto intendere, il suo pensiero.

Alcuni secoli prima, meno circospetto s’era dimostrato Giovanni Battista Casmiro nel dare presenti nella nostra città i resti, non solo della casa di Virgilio, ma anche di quella di Pompeo. Altro però era il contesto: la sua “Epistola apologetica”, indirizzata nel 1567 a Quinto Mario Corrado, s’inseriva nell’accesa diatriba sorta con Oria per il titolo arcivescovile. Era quindi scontato che l’opera del notaro brindisino fosse ispirata al più radicale campanilismo ed in tale ottica vanno in parte interpretate le sue affermazioni.

 

Va per altro ricordato che la notorietà di cui godeva Virgilio nel periodo medievale era tale che la sua figura attirava fake news più di quanto il nettare sappia fare con le api. Non c’era infatti città, per quanto appena sfiorata dal poeta mantovano, che non sfornasse racconti incentrati sulla sua figura. Per questo motivo, fu tutto un fiorire di bufale che, come già riferito, fecero assumere a Virgilio addirittura le sembianze del mago, per fortuna benevolo.

Era quindi del tutto naturale che anche la città di Brindisi partecipasse a questo gioco creativo, sfruttando la favorevole circostanza d’aver ospitato il sommo poeta latino nei suoi ultimi istanti di vita. Quella della casa virgiliana vicina alle Colonne rappresenta certo la narrazione più radicata e la meno logorato dal tempo e che, rispetto alle altre dicerie, gode addirittura di maggiori consensi adesso che in passato. Forza della moderna cultura e delle innumerevoli fonti d’informazione alternativi ai polverosi libri.

Con ogni probabilità, la leggenda prese piede nel XIV secolo, vale a dire nel momento in cui la fama di Virgilio era al culmine, elaborata dalla cerchia di eruditi brindisini con l’evidente intento di risollevare il prestigio cittadino allora scaduto ai minimi storici dopo i fasti d’epoca romana. I primi riscontri oggettivi si hanno però agli inizi del XVI secolo, quando il racconto trovò ospitalità in un’operetta in distici elegiaci dell’ecclesiastico monopolitano Aurelio Serena attivo in quel periodo.

Nella “Descriptio portus Brundusii” (Descrizione del porto di Brindisi) il Serena ci riferisce che «è proprio certo che Virgilio abbia abitato a Brindisi, tant’è che i resti della sua casa si possono vedere tuttora», dando così per scontato sia che il poeta di Andes avesse vissuto a lungo nella nostra città, sia che la casa vicina alle colonne fosse stata davvero di sua proprietà. C’è però da tener presente che, pur considerando la duttilità dei letterati del tempo, il Serena era tuttavia un verseggiatore e la “Descripsio” un lavoro con intenti squisitamente poetici, sicché le argomentazioni storiche in esso contenute andrebbero valutate con la dovuta cautela, prima d’essere prese per buone.

Basterebbe osservare che, oltre alla chicca della casa virgiliana, il Serena tenti pure di far passare che il castello di Terra sia impresa del «potente Federico che prese nome dalla barba rossa», arrivando così a confondere Federico I Barbarossa con Federico II, per evidenziare come le sue conoscenze storiche non fossero davvero un granché.

In effetti l’edificio indicato dal poeta monopolitano pare improponibile come casa di Virgilio anche da un punto di vista strutturale. È infatti una costruzione che è già tanto se può considerarsi della fase di mezzo dell’Alto Medioevo, per cui bene che vada non sembra avere nemmeno la metà degli anni che gli si vorrebbero attribuire. La sua vecchiezza è talmente inadeguata allo scopo che può pure ipotizzarsi che il nucleo iniziale della leggenda riguardasse esclusivamente la zona dove si riteneva che Virgilio fosse morto e che, soltanto in seguito, si pensò di integrarla arruolando una casa in stile classico posizionata più o meno nei paraggi. In qualsiasi modo si sia evoluto il racconto, conviene ricordare che tra il Settecento e la prima metà del secolo scorso i più la indicavano come la “cosiddetta” casa di Virgilio, lasciando presagire che era il frutto d’una tradizione popolare e nulla più. Che questo fosse il pensiero ricorrente è comprovato dalla circostanza che, a differenza di quanto sarebbe dovuto avvenire con un reperto antico di quell’inestimabile valore, la casa sia sempre stata adibita ad esclusivo uso privato e, sempre per fini privati — per consentire un miglior utilizzo dei locali da parte dei suoi proprietari — si decise perfino che fosse incorporata in una nuova struttura, che è poi quella adesso visibile.

Ma, se anche l’edificio avesse i duemila anni che non ha, sarebbe comunque improbabile che Virgilio l’abbia mai potuta eleggere a sua dimora abituale. Il carattere del poeta, le consuetudini di quell’epoca, le caratteristiche della nostra città ed i riscontri storici inducono comunque a dubitarne.

La documentazione cita solo due circostanze in cui Virgilio passò per Brindisi: il famoso viaggio della primavera del 37 a.C., raccontato con dovizia di particolari dal poeta Orazio, e quello con destinazione Atene del 19 a.C. che si sarebbe dimostrato fatale. Il che non preclude che non vi possano essere state altre occasioni: Mecenate, cui il poeta era molto legato, gli chiedeva a volte di tenergli compagnia nei suoi frequenti viaggi, e non è detto che in alcuni di questi vi fosse Brindisi come fuggevole meta.

In ogni caso si trattava di viaggi di studio e di lavoro che non comportavano la necessità di avere una propria casa, anche perché in quelle occasioni era usuale fruire della generosa ospitalità di qualche danaroso amico. Proprio Brindisi fornisce un evidente esempio che così avveniva. Come sappiamo, Cicerone frequentò con ben maggiore assiduità la nostra città,  pur tuttavia non pensò mai di comprarsi una casa, perché ogni volta veniva ospitato da qualche amico brindisino. Figuriamoci Virgilio che la visitava al seguito di Mecenate che, ricco sfondato com’era, possedeva ville un po’ dappertutto.

Il poeta per altro non amava vivere nel caos delle grandi città, tanto è vero che, come ci racconta il suo biografo Elio Donato (IV secolo d.C.), soggiornava raramente pure nella stessa Roma («Romae, quo rarissime commeabat»). Lo storico Svetonio (I secolo d.C. – II secolo d.C.) ci fa in aggiunta sapere che, sebbene avesse a Roma una casa messagli a disposizione appunto da Mecenate, presso i suoi orti sull’Esquilino, se ne tenne per lo più distante preferendo risiedere in luoghi più tranquilli, lontano dalla gente, in Campania e in Sicilia («habuitque domum Romae Esquiliis iuxta hortos Maecenatianos; quamquam secessu Campaniae Siciliaeque plurimum uteretur»). Era poi così schivo e probo che a Napoli lo chiamavano «Parthenias», vale a dire il verginello. E proprio Napoli, dove divideva una villa con gli amici Vario e Tucca, in una zona isolata sulla via Puteolana, costituiva la sua residenza prediletta. Brindisi, che a quel tempo era una metropoli e che per certi versi assomigliava molto più a Roma che alla tranquilla periferia di Napoli, non rientrava di certo tra le città in cui il poeta avrebbe scelto di dimorare.

Di conseguenza si fa fatica a pensare che un tipo come Virgilio, così amante della quiete, abbia potuto decidersi a mettere su casa nelle vicinanze del porto brindisino che a quei tempi era uno dei posti più caotici e vivaci, percorso com’era dai continui rumori generati dalle innumerevoli tabernae, da vivaci lupanaria e da un arsenale sempre in piena attività. Avesse deciso di comprare casa dalle nostre parti, Virgilio avrebbe certamente preferito un posto più appartato, magari nella zona del Casale, dove non a caso dimorava l’establishment brindisino.

Deve aggiungersi che, per quanto casto e riservato, il nostro era abituato bene e non si sarebbe mai negato gli agi che le sue notevoli possibilità economiche gli consentivano. Ad ascoltare Svetonio, possedeva un patrimonio di quasi dieci milioni di sesterzi («Possedit prope centiens sestertium»), valutabili all’incirca in dieci milioni di euro, e quindi in grado di permettersi un’abitazione di ben altra collocazione e consistenza di quella che il Serena e la tradizione popolare gli hanno voluto assegnare. Si pensi poi che un viaggio sino a Brindisi, la cui durata allora non si calcolava in ore ma in parecchi giorni, non si faceva da soli e con un paio di valige: ci voleva quanto meno un amanuense che fungesse da segretario, quattro o cinque schiavi che pensassero ai bagagli ed agli altri bisogni quotidiani, e in più la compagnia di qualche fidato amico — tra i quali non potevano certamente mancare Vario e Tucca — con il loro rispettivo seguito di servitori. Pur prescindendo dall’effettiva epoca di costruzione, la modesta casa vicina alle colonne non avrebbe mai potuto soddisfare neppure alla lontana a tutte quelle necessità.

Al tirar delle somme, appare del tutto inverosimile che quella che viene detta la casa di Virgilio lo sia mai davvero stata.

 

È invece plausibile che, in quei pressi — ma io sarei propenso a credere molto più all’interno della città — Virgilio abbia trascorso gli ultimi istanti di vita, come per altro riportato sulla lapide eretta nel 1930 la quale per l’appunto non la indica come dimora del poeta ma unicamente come luogo dove egli «l’ultima volta salutò la Saturnia terra».

Come dire che c’era maggiore conoscenza degli avvenimenti passati, quando il progresso non aveva ancora reso possibile di connettersi in rete e di sfogliare Wikipedia, e si era pertanto costretti a consultare i tanto impervi libri custoditi nelle biblioteche.

 

Il porto di Brindisi: le tante favole inventate su Andrea Pigonati (II parte)

di Nazareno Valente

C’è tuttavia un disastro ambientale ben più consistente d’una semplice secca che viene addossato a Pigonati e riguarda addirittura la stessa ostruzione della foce del bacino d’accesso al porto interno. Infatti, a detta dello storico locale Giacomo Carito, «fino a prima dei lavori di Pigonati, le navi entravano sicuramente nel porto interno»29 e che, solo successivamente, questa possibilità fu loro negata. Come dire in altre parole che l’interrimento non esisteva neppure, o non aveva consistenza tale da impedire la navigazione, quando l’ingegnere siracusano tracciò il tanto discusso canale, e fu pertanto lui a generarlo sbagliando l’esecuzione dei lavori. Posta così la questione, si ha il sospetto che Carito rimanga in un qualche modo legato alla ormai datata visione di Ferrando Ascoli, convinto che i problemi del bacino brindisino fossero dovuti ad un errore tecnico compiuto da Pigonati. Mentre nella realtà è ormai assodato da un secolo e mezzo e più che l’insabbiamento era dovuto a fenomeni naturali, che i tecnici del tempo non seppero certo gestire ma che, in ogni caso, prescindevano da come il canale potesse essere scavato od orientato. In particolare, l’insabbiamento era conseguente allo stato delle coste e delle correnti, come Tommaso Mati riferì nel suo progetto presentato nel lontano 25 novembre 186130. L’ingegnere aretino, «dopo accurate visite lungo le coste esterne ed interne del golfo» appurò, che nella costa Guacina e, soprattutto, nella costa Morena — collocate rispettivamente a ponente ed a levante dell’allora porto esterno — «scorgevansi indizi di grandi corrosioni antiche e recenti» e si convinse che gli interrimenti erano dovuti «quasi esclusivamente dalle avvertite corrosioni e che bastava impedire queste per render possibile la conservazione dei fondali»31. Mati in definitiva provò coi fatti che l’insabbiamento era in maniera preponderante dovuto a fenomeni di erosioni cui erano soggette le coste, del tutto indipendenti da eventuali lavori realizzati nella zona. La foce, quindi, si ostruiva per un evento naturale di corrosione, probabilmente intensificatosi sempre più con il trascorrere degli anni, che l’ingegneria romana  era stata forse in grado di gestire con protezioni, poi rese inservibili dal tempo, oppure con normali interventi di manutenzione. In definitiva, salvo che Pigonati non avesse avuto anche poteri taumaturgici, tali da rendere friabili le coste al suo solo apparire, non poteva indurre un simile fenomeno, a prescindere dai possibili errori compiuti.

In poche parole, l’ipotesi dello storico brindisini appare basata già di per sé su premesse errate e presuppone in aggiunta che le proteste dei brindisini sullo stato del porto non avessero granché motivo d’essere se, come lui afferma, «le navi entravano sicuramente nel porto interno». Per cui non si capirebbe su cosa i nostri concittadini recriminavano, se la foce non era in effetti ostruita a tal punto da inibire le principali attività che si svolgono normalmente in un porto. Ebbene, per Carito, si trattava di semplice strategia del lamento: «come spesso si fa» in queste circostanze per ottenere qualcosa, si «descrive una situazione molto peggiore di quella che è in realtà»32. Peccato che lo storico non chiarisca quale fosse questa «realtà» e dove fosse il problema, se l’insabbiamento di cui ci si lamentava tanto era per lo più solo un pretesto, un modo per ingigantire il disagio e convincere le autorità ad intervenire in fretta. Verrebbe quasi da considerare che, se le cose stavano davvero così, i nostri amati concittadini se l’erano un po’ voluta, se poi l’interrimento era effettivamente arrivato, come il lupo della storiella, dopo le tante volte che lo si era evocato a sproposito.

Ma, a parte questo, sul versante lamentele andrebbe forse ricordato che le suppliche da rivolgere al sovrano non potevano certo essere fatte dal primo venuto, ma dovevano essere avanzate da persone autorevoli, di riconosciuto prestigio, oltre che titolate a rappresentare la città. Tutta gente che non avrebbe naturalmente messo in gioco la propria reputazione per questioni di poco conto o per recriminazioni in buona parte inventate. Senza poi contare che tali suppliche, prima di arrivare al sovrano,  passavano al vaglio di chissà quanti funzionari regi che verificavano se l’istanza era supportata dai fatti. Pertanto è già di per sé troppo semplicistico lo stare a credere che fosse sufficiente piangere di più, o con più calde lacrime, per ottenere qualcosa.

Ma a prescindere da tutte queste argomentazioni, che fanno già comprendere come l’ipotesi sia difficile da sostenere, vi sono testimonianze e documenti che permettono di affermare senza ombra di dubbio che il porto interno brindisino aveva grossi problemi ben prima che Pigonati comparisse all’orizzonte e che i Brindisini avevano valide ragioni per richiedere che s’intervenisse a mettere a posto le cose. In pratica si verificherà, anche per questa via, che l’ingegnere siracusano non creò di certo lui l’interrimento. Ribadito che, anche volendolo, non l’avrebbe potuto fare, se, come più volte ripetuto, era un evento del tutto naturale.

Per avere un’idea di qual era la situazione prima di Pigonati, sarà sufficiente prendere in considerazione la documentazione e le fonti più significative che danno informazioni sulle condizioni del porto brindisino dal Cinquecento in poi.

Partiamo così dalla testimonianza del Galateo, autore di grande affidabilità, che all’inizio del Cinquecento raccontava nel “De situ Iapygiae” che, ai suoi tempi, il canale del porto interno era attraversato dalle sole imbarcazioni di piccole dimensioni, a due o a tre ordini di remi («nunc non nisi  parvis navibus, et biremibus, et triremibus pateat»33). Quindi già all’inizio del XVI secolo i navigli d’una certa consistenza non potevano accedere nei seni interni del porto brindisino e, di conseguenza, la foce del canale di collegamento era parzialmente insabbiata.

Sebbene meno circostanziata, pure la relazione di Camillo Porzio, inviata nel 1575 al viceré Don Innico Lopez de Mendoza, va nello stesso senso sospettando per altro che l’interrimento fosse creato di proposito dalla gente del posto per impedire ai «Saracinidella comodità» di accedere nel porto interno34. Aspetto questo confermato dal nostro concittadino Giovanni Maria Moricino, il quale rilevava con malizia che la medesima ragione «ha mosso a’ tempi nostri il Re di Spagna a non consentire che s’apra, e si scavi quel tratto di mare che ormai diventa terra. Dovendo al suo Consiglio (dove la cosa più volte è stata proposta) che sia maggior sicurezza de la Città lo starsene così chiusi»35.

L’interrimento pare perdurare pure all’inizio del Seicento. Anzi si aggrava. A confermarlo un documento ufficiale redatto nel 1612 da un funzionario vicereale, probabilmente il visitatore generale delle fortezze, che riferiva sulla condizione dei castelli del regno. Parlando del castello Svevo («El Castillo de’ tierra dela ciudad de Brindez») collocato nel porto interno,  c’è l’esplicita annotazione che la bocca del porto «està ciega de manera que en menguando la mar apenas pueden entrar barquillas» («è cieca, sicché essendo lì il mare basso possono a malapena entrare le piccole barche»36). La quale affermazione già di per sé non dà adito ad altra possibile interpretazione. In più, trattando del castello di Mare, che chiama «castillo de Brindez»  (castello di Brindisi), lo stesso funzionario rileva un aspetto ancor più interessante. Sottolinea infatti che, insieme al forte, il castello presidia la zona del porto situata tra l’isola e la città, il cui altro suo porto tanto famoso ha l’entrata cieca («El fuerte y el Castillo de Brindez… sobrestan á un puerto muy capaz, que de su naturalezza se haze dentro la ysla, y la Ciudad, cuyo puerto tan famoso está ciego enla entrada»37). Lasciando così chiaramente intendere che il porto, quello «tanto famoso» che abbraccia la città, quindi in definitiva l’interno, è inutilizzato, sicché quello che si trova tra l’isola e la città, vale a dire il bacino portuale esterno, è divenuto il solo porto utilizzabile. Per cui nel 1612, non solo l’interrimento esisteva, causando l’inagibilità del porto interno, ma questa circostanza faceva sì che era la rada ad essere considerata il porto di Brindisi.

Uno dei punti di forza dell’ipotesi che prima di Pigonati i seni interni erano praticabili e che sia stato lui a causare la loro inagibilità, si collega alla guerra quasi personale che Pedro Téllez-Girón de Osuna, viceré di Napoli, aveva ingaggiato tra il 1617 ed il 1618 contro i Veneziani e che ebbe a volte, come teatro delle operazioni, proprio il porto di Brindisi. Carito afferma infatti che nel porto interno c’era normale attività tanto che «addirittura intorno al 1618, si concentrò qui tutta l’armata spagnola»38. A parte che lo storico confonde l’armata spagnola, che non c’entrava nulla con queste operazioni militari, con quella del vicereame napoletano, di gran lunga meno consistente, il fatto che la flotta fosse giunta a Brindisi non vuol necessariamente dire che fosse approdata nel porto interno. E, nella realtà, dove questa armata abbia effettivamente gettato l’ancora, ce lo fa sapere un testimone illustre, don Diego Duca di Estrada, protagonista di rilievo di quegli avvenimenti bellici. Nelle sue memorie racconta infatti che, giunto nel porto di Brindisi nel giugno del 1617 con una flottiglia di cinque galeoni, ormeggiò, insieme ad altri tredici galeoni, trenta galee e quattro brigantini, vicino a «una Fortaleza que está sobre un escollo grande» («vicino un forte che sta su un isolotto»39). Risulta pertanto del tutto evidente che l’armata vicereale non approdava nel porto interno, ma attraccava  vicino a Forte a Mare, se non proprio nella sua darsena. A dissipare ogni eventuale dubbio, don Diego spiega perché la flotta gettasse l’ancora così lontano dalla città, dichiarando che a Brindisi ci sono di fatto due porti: quello interno cieco («ciego»), le cui acque sono quasi morte («las aguas casi muertas»), e l’altro, appunto vicino alla fortezza, che invece ha la capacità di ospitare molte navi («hai capacitad para muchos bajeles»40). A confermare le parole di don Diego, un personaggio ancor più compromesso in quegli avvenimenti, vale a dire Francisco de Quevedo, famoso scrittore politicamente impegnato che, in quel periodo, era addirittura corresponsabile con il viceré di Napoli di quella strana guerra avviata contro i Veneziani, essendone  segretario delle finanze e condividendone l’odio per la Serenissima. Nel suo “Lince de Italia”,  de Quevedo decantava i seni interni del porto di Brindisi ritenendoli una risorsa inestimabile, potenzialmente in grado di far rivaleggiare lo scalo brindisino con quello di Venezia come postazione commerciale strategica con l’Oriente. Peccato però, soggiungeva papale papale che il porto interno di Brindisi «è cieco, come quelli che non vogliono disturbare Vostra Maestà per farlo pulire» («ciego, como los que no importunan a Vuestra Majestad que le limpié»), lasciandolo così in uno stato di totale abbandono41. Quindi testimonia anche lui che la foce del canale di accesso al porto interno era a quei tempi ostruita e che di conseguenza le armate potevano essere ospitate solo nel porto esterno.

C’è da aggiungere un’altra considerazione. Il fatto che si era costretti a svolgere le attività portuali nella zona esterna, limitava di certo il porto brindisino che però restava ugualmente una risorsa preziosa, per il semplice motivo che in quel particolare momento storico tutti i porti del regno erano in condizioni precarie e che c’era quindi penuria di approdi. E questo avveniva soprattutto sulla sponda adriatica, dove il vicereame poteva contare solo su due porti in grado di ospitare un consistente numero di navigli: quello di Manfredonia — pur esso mezzo insabbiato — e, innanzitutto, di Brindisi che, sebbene privato dei seni interni, aveva un bacino esterno molto ampio e protetto in cui le navi da guerra potevano essere proficuamente ospitate. In pratica ci si doveva accontentare di quello che passava il convento, ed il porto esterno brindisino, visto il contesto, svolgeva bene il suo compito soprattutto d’inverno, mentre d’estate la cattiva aria della città poneva, a detta dei cronisti del tempo, più d’un problema.

Era da un punto di vista commerciale che l’inagibilità del porto interno creava, invece, grosse complicazioni. Erano di fatto le operazioni di sbarco ed imbarco ad essere penalizzate, perché si dovevano usare le barchette, in grado di navigare nel canale, a mo’ di moderne navette per trasportare le merci dall’ormeggio delle navi vicino Forte a Mare ai moli interni, e viceversa. E questo comportava un aggravio non banale nei costi e nei tempi di svolgimento delle operazioni.

Che nel Seicento i galeoni, i brigantini e qualsiasi legno appena consistente non potesse ormeggiare nei seni interni è ribadito in aggiunta dai portolani o dalle carte che prevedevano questo specifico tipo di informazione, rappresentando le guide dei viaggiatori dell’epoca.

Significativa in questo senso è la pianta del 1650, firmata dall’ingegnere militare Onofrio Antonio Gisolfo (figura n. 8), dove nella legenda è esplicitato che nel porto di Brindisi si ormeggia solo nel porto esterno. In corrispondenza ad esso, è  infatti specificato: «mare grande dove danno fondo li vascelli et distante due miglia dalla città è il loco dove sta’ il forte et è tutto porto». Mentre nessun ancoraggio è previsto per il porto interno.

 

Ancor più chiara, quantomeno da un punto di vista visivo, l’indicazione contenuta nel portolano del cartografo olandese Johannes van Keulen, pubblicato nell’ultimo ventennio del Seicento nei volumi dell’atlante “De Nieuwe Groote Lichtende Zee-Fakkel” (figura n. 9): tutti i simboli delle ancore sono disegnati nel porto esterno, mentre quello interno ne risulta privo. Altro aspetto interessante i seni interni non fanno neppure più parte del porto brindisino, identificato in questo portolano dalla sola rada.

 

C’è quindi documentazione più che sufficiente per ritenere che il porto interno di Brindisi era nel Seicento negato ai bastimenti. Ed ancor più agevole dimostrare che questa situazione persisteva pure nel Settecento. Aiuta in questo senso una vivace disputa accademica, accesasi  agli inizi del Settecento, a cui partecipano tre intellettuali del tempo.

Il tutto ha inizio quando Nicolas Lenglet Du Fresnoy, un erudito pieno d’interessi e senza peli sulla lingua, tanto da incappare più volte nella censura ai tempi di Luigi XV ed in svariati periodi di prigionia anche alla Bastiglia, compone nel 1718 “Méthode pour étudier la geographie” in cui parla del regno di Napoli. Uno storico napoletano, Matteo Egizio, trova lo scritto del Lenglet lacunoso, così gli indirizza una lunghissima lettera polemica in cui gli contesta tutta una serie di errori, uno dei quali riguarda proprio il porto di Brindisi che l’abate francese aveva citato come uno dei più rinomati tra quelli esistenti. «Sarebbe uno dei più belli del Mediterraneo — lo riprende lo storico — se non fosse chiuso»42. Lenglet, che non si dà pensiero neppure del giudizio del re, figuriamoci se bada a quello d’un comune mortale, per cui non replica neppure. Interviene invece in sua difesa un geografo campano, Giuseppe Antonini, il quale fa presente ad Egizio che è vero, come lui afferma, che il porto di Brindisi «è guasto, o chiuso, o (come volgarmente diciamo) ciccato», però, «bisogna distinguere, e sapere, che i porti di Brindisi son due: l’interiore, ed il più vicino alla città, anzi che quasi tutta intorno la cinge, è quello, che capace d’un numero grandissimo di navi, ed a cui per istrettissima bocca si entra, è chiuso; l’esteriore, ed a l’uscir di questo primo, è formato, e coverto da un’isola, su di cui sta fabbricato un Forte con buon presidio. Questo porto è bello, grandissimo, ed intero, poiché per qualunque arte, e spesa non si può mai chiudere»43. In pratica è vero che il porto interno è chiuso, ma è aperto, e pienamente operativo, quello esterno. Per cui — per Antonini — è evidente che Lenglet si riferisca, pur non avendolo specificato, al porto esterno, visto che è risaputo che quello interno è “ciccato”.

In risposta Agezio ammette d’essere in torto, riconoscendo che, non essendoci stata precisazione, avrebbe dovuto capire che il Lenglet alludeva al porto «esteriore». In ogni caso, precisa: «So che Brindisi abbia due porti come Tolone, l’uno interiore, l’altro esteriore, e che l’interiore, che sarebbe più sicuro per una grande armata, sia chiuso per i vascelli grandi, e che perciò, l’area sia resa mal sana… Ne fui informato circa 30 anni addietro da D. Antonio di Felice, che ivi era stato giudice e governatore»44.

Così come era consuetudine negli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo di dare per scontato che, quando si parlava del porto, s’intendeva senza dubbio alcuno di quello interno, perché in quelli medio ed esterno non si svolgeva praticamente nessuna attività portuale, l’opposto avveniva nel Seicento e nel Settecento. Allora si dava per certo che, quando s’indicava il porto di Brindisi senza nessun’altra specificazione, ci si riferiva implicitamente al porto esterno. Pertanto è del tutto usuale trovare in scritti di quell’epoca la citazione generica del porto di Brindisi, ma questo non significa che si stia parlando del porto interno. Anzi sarebbe esattamente vero il contrario. Basterebbe, ad esempio, consultare la raccolta della “Colección de documentos inéditos para la historia de España”, contenenti i documenti sugli episodi bellici che coinvolsero negli anni 1617 e 1618  i Veneziani ed il viceré de Osuna. Come sappiamo dai racconti dei protagonisti Diego Duque de Estrada e Francisco de Quevedo in quegli anni il porto interno di Brindisi era inagibile e pertanto qualsiasi naviglio spagnolo ormeggiava nei pressi della «Fortaleza» (Forte a Mare). Ebbene nei documenti questa specificazione non viene molto spesso fatta, pur tuttavia, quando si tratta d’ormeggi, magari tra le righe, grazie a  qualche piccolo indizio, si desume che si tratta in ogni caso del porto esterno.

Ciò non toglie che vi possano essere stati dei periodi il cui la foce di collegamento venisse pulita rendendola per brevissimi intervalli di tempo navigabile per i navigli di limitata consistenza, che quindi potevano entrare nel porto interno. Di questi particolari periodi se ne conoscono sia dopo, sia prima l’intervento di Pigonati. Ad esempio, a seguito dell’operazione di spurgo del bacino progettato nel 1828 dall’ingegnere Lorenzo Turco, il canale scavato da Pigonati fu portato ad una profondità di 10-12 palmi (tra 2,63 e 3,15 metri circa) «onde vi passano i legni di 100 a 120 tonnellate; e prima non dava passaggio che a piccole barche»45, come ebbe a dichiarare Francesco Antonio Monticelli, nella terza memoria in difesa della città e del porto.  Allo stesso modo, quando verso la fine del periodo di dominazione austriaca, il viceré Giulio Borromeo Visconti tra il 1733 ed il 1734 tentò in ogni modo di non cedere il regno alla dinastia spagnola dei Borbone, vi furono analoghi lavori di pulitura della foce che portarono, quasi in una parata, a vedere navigare cinque feluche tra il molo di Porta Reale e Forte a Mare46. Situazione talmente particolare da essere ricordata nella “Cronaca dei Sindaci” la quale in genere parla anch’essa, nei fatti narrati per il Settecento, genericamente di porto di Brindisi, lasciando però facilmente intuire che si riferisce al porto esterno, in quanto se scende nei dettagli fornisce località che si trovano nell’attuale porto medio o nelle immediate vicinanze. In tal senso si ha più di un esempio. Il notaio Perrino, raccogliendo l’attestazione di un capitano di ventura nel 1703,  aggiunge, dopo aver parlato del porto di Brindisi, in località «le Calcinari»47, cioè un posto che si trovava dalle parti di Forte a Mare nel porto esterno. Un’altra volta, il 30 giugno 1734, per timore che «li Tedeschi non facessero qualche disbarco» nel porto, si presidiano le zone della «massaria di Pascale Blasi e tutta la marina di S. Leonardo»48, vale a dire zone vicine alla Cala della Navi che si trovava nel porto esterno. Oppure quando il 22 maggio 1741 arrivano nel porto delle tartane sbarcando attrezzi militari vicino alla masseria di Pascale Blasi49; o la volta in cui il 7 settembre 1742 tal Felice Chisiena approda con una tartana nel porto, scaricando un elefante a San Leonardo50. E, come già riportato, sia la masseria di Pascale Blasi, sia la marina di San Leonardo erano vicine alla Cala delle Navi che era l’approdo ufficiale. In definitiva si desume che, quando la “Cronaca” parla di sbarchi nel «porto di Brindisi», implicitamente dà per scontato che si tratti di ormeggi nella Cala delle Navi, in caso contrario indica in maniera esplicita la zona dove l’ancoraggio avviene. Infine qualora l’approdo non avviene nel porto esterno, tale circostanza viene evidenziata affermando che il porto di cui si parla è quello «interiore» oppure indicando l’ormeggio di Porta Reale.

Anche i portolani conosciuti del Settecento attestano, al pari di quelli del Seicento, che nel porto di Brindisi i bastimenti ed i velieri possono ormeggiare solo nella rada. Ne è un tipico esempio il portolano firmato da Roux nel 1764 (figura n, 10), dove le ancore, a simboleggiare gli approdi, sono disegnate tutte nel porto esterno, mentre quello interno ne è del tutto privo. Anche in questo portolano, lo scalo brindisino è limitato al solo porto esterno; quello interno, non avendo approdi, non è infatti più ritenuto un porto.

 

Già così ce ne sarebbe davanzo per non avere dubbi che, anche prima dei lavori di Pigonati, le navi non entravano nel porto interno e che, quindi, non fu lui ad ostruire la foce. Tuttavia c’è disponibilità di altra documentazione che discolpa Pigonati e, tanto per convincere anche i più indecisi, ci sono due preziosi documenti del 1762 e del 1763, collegati con l’intervento di Pigonati, che sgombrano il campo da ogni possibile equivoco.

Il primo l’abbiamo già in parte descritto in quanto riguarda le lamentele sulle condizioni critiche del porto interno brindisino esposte nel 1762 al sovrano dall’arcivescovo di Brindisi. Il secondo è la relazione del 1763 d’un funzionario governativo — redatta proprio a seguito della predetta supplica —  contenente le proposte di Giovanni Bompiede, ingegnere idraulico delegato a verificare lo stato dello scalo brindisino; l’elenco fatto dall’arcivescovo stesso dei fondi con cui il comune di Brindisi avrebbe potuto partecipare all’eventuale spesa ed il parere del capitano generale di marina sulle proposte avanzate da Bompiede.

Intanto, diversamente da quanto raccontato da Carito che anche in questo caso equivoca, l’arcivescovo che avanzò la supplica non fu Annibale de Leo51, allora ancora giovane canonico di belle speranze impegnato negli studi di diritto ecclesiastico a Roma e che, solo un trentennio e passa dopo (1798), avrebbe ricoperto quell’incarico. L’arcivescovo che si rivolse al sovrano è, come già riportato, Domenico Rovegno il quale scrisse a re Ferdinando IV quando ormai era consapevole di essere all’epilogo della sua esistenza — quindi in un momento in cui si fa ammenda delle bugie dette, e si cerca di non aggiungerne delle altre — per una malattia dovuta proprio a l’aria insalubre di Brindisi su cui l’arcivescovo si soffermò abbastanza per convincere Ferdinando IV ad intervenire. Allo stesso modo Rovegno si soffermò sull’altro aspetto critico che penalizzava la città, vale a dire la situazione precaria vissuta dal porto. «La negoziazione del mare poi è oltremodo difficile — segnalò con decisione — poiché alla bocca del porto interiore non possono accostare i legni grossi da carico, e l’imbarco dell’oglio, e d’altre derrate non può farsi che in due miglia di distanza dalla città, caricandosi prima su piccole barchette, che incagliando talora nello stretto, bisogna con grande stento tirar fuori con le funi, e per tal motivo un porto tanto rinomato si vede oggi abbandonato da tutti»52. L’arcivescovo faceva poi presente che questa condizione difficile avrebbe sollecitato le attenzioni de «l’Augusto Genitore Vostro», che sicuramente sarebbe intervenuto per aggiustare le cose, come fatto per i porti di Taranto e Cotrone53, «se ei non fosse andato a dimostrare la sua paterna Pietà a’ regni più ampî»54, in quanto aveva rinunciato al regno di Napoli, abdicando a favore del figlio Ferdinando, per succedere sul trono di Spagna. Per questo si rivolgeva a lui: «animato dalla clemenza della M.V. in nome del mio povero gregge umilmente la supplico ordinare gli espedienti più propri per l’apertura del porto predetto»55.

A sentire l’arcivescovo Rovegno, anche le barchette stentavano a passare il canale e dovevano essere trainate con le funi; i vascelli ormeggiavano così due miglia lontani dalla città e dovevano essere caricati e scaricati dalle merci al largo, proprio grazie al via vai delle barchette. Il che è in linea con quanto riscontrabile negli altri documenti dell’epoca, nei portolani ed anche nel più volte citato dipinto di Filippo Hackert.

La barchetta usata prevalentemente come navetta è infatti disegnata dal pittore nel momento in cui è impegnata in operazioni di scarico (n. 6 del dipinto). Si tratta di una chiatta che i brindisini chiamavano lontro, dal basso pescaggio e dalla forma piatta (in questo caso allargata) che ricorda le famose caudicarie impiegate dai romani per il trasporto fluviale mediante un sistema di alaggio. Lo si nota pure dagli scalmi presenti a poppa e a prua, ed invece assenti ai lati dove comunemente trovano posto i remi, la qual cosa chiarisce che l’imbarcazione era trainata a braccia con l’aiuto di una fune. D’altra parte era del tutto usuale, nei porti pugliesi con i fondali bassi o interriti, che le navi restassero ancorate al largo e che le operazioni di carico fossero svolte con barchette dallo scarso pescaggio, molto simili a quelle ancora in uso sui fiumi. C’è però da precisare che i lontri più comunemente usati dai brindisini erano molto simili alle canoe e, quindi, con una struttura ben più limitata di quella raffigurata da Hackert. In quei periodi di inagibilità, i navigli approdavano così esclusivamente nelle anse del porto esterno e l’ormeggio più favorevole si trovava sulla costa Guacina, nelle insenatura situate nei pressi delle Fontanelle, ed era di uso talmente comune che il suo toponimo, Cala delle Navi, veniva riportato nelle mappe e nei testi di navigazione.

Come però detto, Carito è convinto che l’arcivescovo esagerasse e che invece anche i grossi vascelli entravano nel porto interno. Ribadito che, non si comprenderebbe di cosa l’arcivescovo si doleva, se in realtà le attività portuali si potevano davvero svolgere nel porto interno, occorre aggiungere che la supplica era fatta con tono pacato e triste, più che a fosche tinte. Forse, a cercare il pelo nell’uovo, calcava un po’ la mano sulle questioni finanziarie in quanto a simili aspetti i burocrati incaricati dell’esame preliminare delle suppliche erano particolarmente sensibili, mettendo in rilievo che le molte difficoltà avrebbero potuto portare  il porto brindisino ad essere «abbandonato da tutti», con un costo economico non banale per la corona. Ma, a parte questa timida sottolinetura, non c’era nessuna esagerazione riguardo all’interrimento e l’arcivescovo brindisino riportava le cose come per davvero stavano: quando c’era bassa marea neanche le barchette riuscivano ad attraversare la foce. Figuriamoci se erano in grado di farlo i navigli.

E non era il solo a dichiararlo.

Lo affermava a chiare lettere pure Bompiede, l’ingegnere idraulico incaricato dal sovrano di verificare quali erano le condizioni reali del porto brindisino. E lo confermava il capitano generale di marina che era perfettamente a conoscenza della situazione critica in cui versava la struttura portuale.

Queste opinioni sono contenute nel secondo documento, sottoposto all’attenzione del sovrano da un funzionario deputato a raccogliere ed a riassumere i progetti e i pareri su un possibile intervento sullo scalo brindisino. Re Ferdinando IV, ricevuta la lamentela di Rovegno, aveva infatti ordinato un accertamento di cui era stato incaricato Giovanni Bompiede, un ingegnere di marina molto stimato, mentre, allo stesso tempo, era stato richiesto all’arcivescovo brindisino di quali possibili fondi disponeva il comune per un eventuale concorso alla spesa.

Nel dicembre del 1763, quando Rovegno era nel frattempo morto, il funzionario governativo stende appunto la sua relazione in maniera asettica  raccogliendo le opinioni di un tecnico, che non aveva nessun interesse a ingigantire le cose, e quelle di un politico, il capitano generale di marina, portato semmai a sminuirle per non essere accusato d’essere stato negligente. Ebbene il quadro che ne emerge non è per nulla meno fosco di quello tratteggiato dall’arcivescovo brindisino, tanto è vero che l’ingegnere Bompiede conferma appieno la condizione tragica in cui si trova il bacino interno dello scalo brindisino. Valutata infatti la situazione generale del porto interno di Brindisi, Bompiede sottolinea in maniera perentoria che: «tanto dalla parte di fuori dell’imboccatura, quanto internamente, essere un tal porto inservibile e pregiudiziale alla salute, ed al Commercio, perché in tempo di basso mare, oltre il non potervi passare nemmeno le barchette scariche, si rendono altresì li due bracci di mare, che ne formano l’interiore, privi di flusso e riflusso»56. Per questo «in tempo d’esta’, come da’ stagni ne derivano perniciose esalazioni, le quali crescono sempre più a caggione delle acque piovane, che mischiate co’ ristagni medesimi danno più materia all’infezione dell’aria e producono frequentemente nella città e luoghi vicini delle più pertinaci e mortali malattie, anche per caggione del limo con l’alga [alaga] infracidita che lasciasi steso sul suolo de’ suddetti due bracci dalle Sciabiche, che in tempo d’esta’ vi pescano»57.

Oltre alla curiosità che l’ingegnere Bompiede riteneva la pesca con le sciabiche nociva per lo stato delle acque dei seni interni e ne suggeriva il divieto58, l’aspetto che salta agli occhi è quindi il giudizio netto che lui dà sullo stato del porto interno stesso: «inservibile e pregiudiziale alla salute». Un parere che non ammette repliche e che riconosceva pertanto del tutto valide le lamentele esposte da Rovegno. Per migliorare le cose Bompiede prendeva in considerazione due possibili rimedi in alternativa tra loro: uno di basso profilo volto a «render l’imboccatura del porto navigabile alle barche ed alli schifi che tragittavano le botti dell’olio alli bastimenti»59;  l’altro di ampio respiro che rendeva possibile «il beneficio dell’entrata de’ bastimenti mercantili nel porto interiore»60. Per la prima soluzione che avrebbe mantenuto almeno «aperta la imboccatura del porto interiore necessaria alle barchette» e al «libero flusso e riflusso alle acque interiori con miglioramento dell’aria» era prevista una spesa dai 3.500 ai 4.000 ducati61. La seconda soluzione più radicale prevedeva che fosse scavato  un canale dove edificarvi «due moli paralleli di fabbrica; dovendo il primo verso ponente e per lungo palmi 1.800; ed il secondo verso levante di lunghezza maggiore»62, con un progetto quindi molto simile a quello poi adottato da Pigonati. La spesa però prevista da Bompiede era di gran lunga superiore, in quanto avrebbe potuto «ascendere a ducati centoottantanovemila»63, salvo imprevisti. Se si pensa, che Pigonati eseguì le stesse opere con una spesa di poco superiore a 54.000 ducati, quindi di neppure un terzo, occorre dire che l’ingegnere siracusano trattava i soldi pubblici con la stessa parsimonia di quanto avrebbe fatto con i propri. E fu, forse proprio questo suo voler essere a tutti i costi troppo sparagnino a fargli commettere gli errori più gravi: la mancata bonifica totale e la parziale fragilità delle sponde del canale. Tra questi però non si può annotare quello che gli addebita lo storico, cioè a dire l’aver creato lui i problemi di interrimento del bacino di accesso al porto interno, per il semplice motivo che questo era insabbiato da almeno un paio di secoli, come s’è potuto verificare nei documenti e nelle testimonianza appena elencati. L’ultima, quella del capitano generale di marina è, con ogni probabilità, la più composita ed esplicativa delle condizioni in cui, almeno dagli inizi del Seicento, versava il porto interno di Brindisi e del perché non si pensava di modificare le cose.

Il capitano generale di mare, pur riconoscendo a sua volta che i seni interni erano interdetti alla navigazione, fa intendere che era da così tanto tempo che si era in quella situazione da essersi ormai abituati ad utilizzare il porto esteriore per tutte le attività militari e commerciali, per cui riteneva eccessivo impegnarsi in un’impresa tanto costosa per ridare vita al porto interno del quale si faceva da molti decenni a meno senza eccessivi scompensi64. Mentre si dichiarava d’accordo per il progetto, volto a migliorare le condizioni ambientali ed a vietare la pesca «che si fa d’esta’ nei due bracci di detto porto con sciabiche», che avrebbe portato sollievo alle sofferenze della città65.

In conclusione, dieci anni prima dell’avvio dei lavori di Pigonati, il porto interno era, a detta di tutti, «inservibile», essendo la foce di comunicazione completamente ostruita, e paiono di conseguenza del tutto infondate le accuse rivolte all’ingegnere siracusano d’aver generato lui l’interrimento. Anzi, al contrario, occorrerebbe porre in rilievo che, sia pure per un periodo limitato di tempo, Pigonati rese possibile l’agibilità nei seni interni. Lo attestano Giovanni Monticelli e Benedetto Marzolla nella loro “Difesa della città e del porto di Brindisi” affermando che benché le opere del Pigonati «non furono ben dirette né durevoli, pur tutta volta qualche utilità portarono a quelle popolazioni… Intanto tornarono a vedersi nel porto interno legni da guerra e navi mercantili di qualunque portata sino al 1800»66.  Chiarendo quindi anch’essi — non certo estimatori di Pigonati — che prima del suo intervento il porto interno era precluso alla navigazione e che successivamente, sia pure per breve tempo dal 1778 al 1800, grazie ai lavori dell’ingegnere siracusano, poté ospitare navigli di ogni portata. Quanto riportato dai due illustri nostri concittadini trova conforto in un portolano dei primissimi anni dell’Ottocento nel quale, dopo due secoli e più, il simbolo dell’ancora compare anche nel porto interno (figura n. 11).

 

In conclusione, diversamente da quanto asserisce Carito, se c’è qualcosa di sicuro è che il porto interno era del tutto fuori uso ben prima dell’arrivo di Pigonati e che le navi erano di conseguenza costrette ad ormeggiare in quello «esteriore». Ed il suo pare un accanimento persino esagerato quando, in altra occasione,  ribadendo che Pigonati «sbagliò completamente i lavori», ritiene bizzarro che la foce abbia «il nome di colui che in effetti l’ha chiusa»67. Peccato che pure in questa circostanza lo storico si sia mantenuto sul generico, senza specificare in alcun modo quali siano stati questi errori e senza chiarire, in particolare, come essi avrebbero potuto comportare l’ostruzione della foce.

Pigonati non fu certo esente da colpe — sponde fragili, orientamento del canale non del tutto adeguato, mancata bonifica della valle di Ponte Grande e, soprattutto, l’invenzione della favola dei moli di Cesare che avevano, a sua detta, dato esca all’interrimento — malgrado ciò nessuno di questi suoi errori era in grado di far insabbiare la foce. Per il semplice motivo che tale fenomeno, come ampiamente spiegato dall’ingegnere Mati nel suo progetto del lontano 1861, era dovuto allo stato delle vicine coste ed al gioco delle correnti.

In fondo, sarebbe bastato perdere un po’ di tempo a leggere il progetto di Mati, per convincersi che Pigonati, pur non avendo saputo risolvere il problema che attanagliava da secoli il porto interno di Brindisi, non era di sicuro stato lui ad originarlo.

( 2 – fine)

 

Note

29 G. Carito, intervento webinar della presentazione del libro di G. Perri,  Pagine di storia brindisina, vol. II, Ottobre 2021, https://www.youtube.com/watch?v=sLyVzlJvPVI (visitato il 9 luglio 2022).

30 T. Mati, Lo zibaldone di casa Mati, A cura di l. salvestrini, Montaione.net, p. 145.

31 Ibidem, pp. 139 e 140.

32 G. Carito, Cit.

33 Galateo,  De Situ Iapygiae, per Petrum Pernam, Basileae 1558, p. 64.

34 Autori vari, Collezione di opere inedite o rare di storia napoletana, Officina tipografica, Napoli, 1839,  pp. 18 e 19.

35 G.M. Moricino, Dell’antichità e vicissitudine della città di Brindisi. Opera di Giovanni Maria Moricino filosofo, e medico dell’istessa città. Descritta dalla di lei origine sino all’anno 1604, manoscritto ms_D12, 1760-1761, Biblioteca pubblica arcivescovile “A. De Leo”, Brindisi, 233r.

36 Los Castillos del Reyno de Napoles Maniscrito, manoscritto n. 1933, Biblioteca Nazionale di Spagna, p. 27.

37 Ibidem, p. 29.

38 G. Carito, Cit.

39 D. De Estrada, Comentarios del desengañado, ó sea vida de d. Diego Duque de Estrada, escrita por él mismo, in Memorial Histórico Español, Imprenta Nacional, Madrid 1860, pp. 166 e 167.

40 Ibidem, p. 166.

41 F. De Quevedo villegas, Obras de Don Francisco de Quevedo Villegas, Tomo primero, colección completa, corregida, ordenada e ilustrada por Aureliano Fernández-Guerra y Orbe, M. Rivadeneyra, Madrid 1852, p. 244.

42 M. Egizio, Lettera amichevole di un napoletano al signor abate Langlet du Fresnoy, in g. antonini, La Lucania: discorsi di Giuseppe Antonini, parte III, Francesco Tomberli, Napoli 1797, p. 151.

43 G. Antonini, Lettera scritta al signor d. Matteo Egizio, in g. antonini, Cit., p. 188.

44 M. Egizio, risposta, in g. antonini, Cit., pp. 209-210.

45 F.A. Monticelli, Terza memoria della città e de’ porti di Brindisi, Gabinetto bibliografico e tipografico, Napoli 1833, p. 33.

46 P. Cagnes – N. Scalese, Cit., p. 296.

47 Ibidem, p. 153.

48 Ibidem, p. 308.

49 Ibidem, p. 357.

50 Ibidem, p. 361.

51 G. Carito, Cit.

52  D. Rovegno, Cit., 195v-195r.

53 Crotone.

54  D. Rovegno, Cit., 195v.

55 Ibidem.

56 Memoria sul porto di Brindisi 3 dicembre 1763, Casa reale antica, fascicolo 864, Archivio di Stato di Napoli, p. 2.

57 Ibidem.

58 Ibidem, p. 6.

59 Ibidem, pp. 2-4.

60 Ibidem.

61 Ibidem, p. 5.

62 Ibidem, p. 3.

63 Ibidem, p. 4.

64 Ibidem, pp. 8 e 9

65 Ibidem, p. 8.

66 G. Monticelli – b. marzolla, Difesa della città e del porto di Brindisi, II edizione, Gabinetto Bibliografico e Tipografico, Napoli 1832, p. 24.

67 G. Carito, Gli interventi sul porto: pillole di storia, History Digital Library https://www.youtube.com/watch?v=r9-vy1ZvTRQ Brindisi s.d., (visitato il 9 luglio 2022).

 

Per la prima parte:

Il porto di Brindisi: le tante favole inventate su Andrea Pigonati (I parte) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Il porto di Brindisi: le tante favole inventate su Andrea Pigonati (I parte)

di Nazareno Valente

 

«Brindisi è inoltre fornita di un buon porto: entro un’unica imboccatura sono racchiusi diversi seni tutti dalla forma sinuosa che li pone perfettamente al riparo dai flutti e che li fa rassomigliare alle corna d’un cervo» («Καὶ εὐλίμενον δὲ μᾶλλον τὸ Βρεντέσιον: ἑνὶ γὰρ στόματι πολλοὶ κλείονται λιμένες ἄκλυστοι, κόλπων ἀπολαμβανομένων ἐντός, ὥστ᾽ ἐοικέναι κέρασιν ἐλάφου τὸ σχῆμα»)1.

Questa la più antica descrizione pervenutaci del porto di Brindisi dovuta a Strabone, uno storico e geografo vissuto tra il I secolo a.C. ed il I secolo d.C., che pone in evidenza come lo scalo consentisse molteplici approdi, quasi fosse costituito da più porti. In particolare il geografo di Amasea rappresenta quello che per noi è il porto interno, vale a dire solo una parte dell’attuale complesso portuale brindisino, costituito com’è noto anche dal porto medio e dal porto esterno. In antichità il bacino che contiene i moderni porti medio ed esterno non era considerato un porto vero e proprio ma dai Romani una «statio» e da parte dei Greci un «ὅρμος» (ormos), perché consentiva unicamente di attraccare, mentre una struttura portuale — identificata rispettivamente con i termini di «portus» e di «λιμήν» (limén) — doveva permettere, oltre al semplice ormeggio, pure un’adeguata protezione dai venti e dai flutti, come riportato nella caratterizzazione di Strabone che utilizza appunto nel passo citato il vocabolo «λιμήν». A quei tempi, quando si parlava del porto di brindisi s’intendeva quindi il solo porto interno; il porto medio e quello esterno facevano invece parte della cosiddetta rada.

Che Strabone si riferisca al porto interno è chiarito anche da quell’unica imboccatura che ne consente l’accesso2 e che racchiudeva le varie insenature protette dai venti e dal mare aperto, allora composte dagli attuali seni di Ponente e di Levante e, con ogni probabilità, anche dal canale navigabile che scorreva nello spazio ora occupato da corso Garibaldi e dagli inizi di corso Roma.

I Greci caratterizzavano un porto di prestigio, in cui le navi trovavano un sicuro rifugio, con il termine «εὐλίμενος» (eulìmenos, buon porto), che è appunto la voce usata da Strabone per caratterizzare il porto brindisino che rimase di alto livello per secoli, almeno sino a “Lo Compasso de navegare”, un portolano del Duecento, ritenuto il più antico tra quelli conosciuti, dove viene presentato come «bom porto», per evidenziarne gli indubbi pregi ancora posseduti. Tuttavia, finiti i tempi in cui i grandi imperi (romano e bizantino) e le grandi monarchie (normanna, sveva, angioina, aragonese) presidiavano le rotte dell’Adriatico e ne proteggevano le coste, arrivarono periodi bui per Brindisi. Tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento s’incomincia ad aver timore ad allontanarsi dalla costa. Ed i motivi sono presto detti, ormai l’Adriatico è uno spazio governato da altre nazioni e «perciò i marinai, pescatori e legni, che usano in questo mare, escono quasi tutti dal dominio Veneziano»3 e, soprattutto, essendo Terra d’Otranto, la provincia in cui è inserita Brindisi, quella più prossima «allo stato del Turco, sta in maggior pericolo di ricever danno da lui che tutto il restante Regno»4. Non a caso le sue coste sono disseminate di fortezze e di torri; protette stabilmente da ben 2.543 fanti locali e presidiate «in tempo di sospizione di armata Turchesca» da armigeri reali5. Il mare non è più una finestra aperta sul mondo, ma un varco da tenere sbarrato perché da lì possono arrivare terrore e morte.

 

Brindisi, pertanto, non è più la porta d’accesso al ricco Oriente, quanto piuttosto un possibile cavallo di Troia di cui il «Saracino» potrà nella bisogna avvalersi per compiere le sue scorrerie. Il suo porto non è più una risorsa, ma un pericolo costante, e va pertanto interdetto. Così, sebbene ci siano già il Castello Alfonsino e Forte a Mare a vigilare sugli ingressi, a scanso di equivoci, si gettano sassi e terra nel canale di comunicazione con il porto interno perché sia «dal terreno in alcuna parte diminuito» e non consenta così l’ingresso delle grosse navi6.

Proprio a questa difesa passiva, seguita da una totale incuria, si devono i motivi principali del dilagare dell’ostruzione della foce del canale di comunicazione tra porto e rada che resero i due seni interni di fatto interdetti alla navigazione. Limitazione per lo scalo brindisino destinata a perdurare sino alla seconda metà dell’Ottocento tanto da farla diventare una caratteristica tipica della città, di cui si ricordava appunto il porto interno «ciccato» o «guasto».

Il mancato rinnovo delle acque del bacino interno creava in più degli stagni maleodoranti e un conseguente ambiente insalubre alimentato pure dalle paludi che, per colpa del mancato controllo del territorio e dei frequenti terremoti che ne avevano sconvolto l’assetto idrico, si andavano dilatando alle estremità dei seni dalle parti di Ponte Grande a ponente e di Ponte Piccolo a levante, e per l’appunto chiamate palude di Ponte Grande e palude di Ponte Piccolo o di Porta Lecce. Anche in questo caso, erano finiti i tempi in cui i Romani compivano una manutenzione maniacale dei corsi d’acqua. Quando i lavori di pulitura di porti e fiumi venivano fatti a regola d’arte, in modo che alvei e rive fossero resi liberi da qualsiasi pianta che potesse costituire causa d’impedimento o di pericolo per le navi che vi transitavano («ne quid aut morae aut periculi navibus in ea virgulta incidentibus fieret»7). Nell’ottica poi di «attenuare i danni di un’aria malsana» («quibus mitigetur pestifera lues»8), analoga attenzione si dava alla difesa dal paludismo ed al controllo delle acque reflue facendovi fronte con un corretto mantenimento e con regolari opere di bonifica.

Manutenzione e gestione del territorio che invece vennero a mancare con la caduta dell’impero romano con conseguente impaludamento dei canali — il Cillarese e il Palmarini-Patri, nelle vecchie mappe indicati rispettivamente con i nomi di Patrica e di Masina — che si riversavano nelle acque del porto interno nelle anse estreme di ponente e di levante. Un’altra palude, detta delle Torrette, s’era formata nella curva di entrata  del canale, dove si depositavano le alghe e vi stagnavano le acque piovane trattenute dal terriccio e dai cespugli che, soprattutto d’estate, producevano «orribile fetore»9. In più di fronte, dalle parti del molo di Porta Reale, si riversavano in mare gli scoli che confluivano nella depressione posta tra le collinette a nord e  a sud della città (di fatto l’attuale corso Garibaldi). Questo avvallamento che, come detto, in antichità era stato un terzo piccolo ramo del porto interno, diventava con l’aiuto dell’acqua piovana esso stesso un veicolo costante di trasporto di detriti, privo com’era di pavimentazione. Anche qui l’odore era così acre che la zona, pur centrale, era sgombra di abitazioni ed ospitava solo sparuti negozi collegati con le attività portuali. In definitiva contribuivano all’interrimento, alle paludi ed alla conseguente aria insalubre, balzane strategia di difesa, cause del tutto naturali ed una marcata inefficienza di fondo nella manutenzione e nella gestione del territorio.

Con il tempo i problemi si andarono accentuando, sicché i servizi portuali furono spostati prevalentemente sulla costa Guacina e nei presi di Forte a Mare, nell’attuale porto medio, e la rada incominciò ad essere chiamata «porto esteriore» mentre il porto storico, ormai ridotto alla semplice navigazione di barchette, assunse quello di «porto interiore» ed in molti portolani neppure più considerato un porto. All’arrivo della dinastia Borbone, la foce era più melma che mare ed i seni interni erano in una situazione precaria per altro non molto dissimile da tutti gli altri scali meridionali. C’era però un ritrovato interesse per i porti, diretta conseguenza questa della ripresa economica d’inizio Settecento che aveva impresso nuovi stimoli pure alle attività commerciali marittime. Non a caso sin dal 1734, anno di insediamento dell’amministrazione borbonica, il nuovo governo puntò subito a rinnovare le strutture portuali per adeguarle alle nuove esigenze.

Uno dei primi atti riguardanti Brindisi fu la decisione di costruirvi un lazzaretto — collocato a nord sull’isola di Sant’Andrea — che rendeva per certi versi evidente l’intenzione di Carlo di Borbone di riportare la città nella sua antica configurazione di porta per l’Oriente. Infatti la presenza del lazzaretto era allora condizione indispensabile per divenire uno dei possibili scali nei viaggi diretti a levante. Con ogni probabilità, in quell’occasione, la città si avvalse per la prima volta di una novità introdotta in campo finanziario dal regime borbonico. Riguardo alle spese concernenti le infrastrutture portuali, le comunità locali potevano infatti concorrere sia con propri fondi, sia istituendo delle apposite casse con fondi provenienti dalle rendite comunali, dai dazi e dalle gabelle derivanti dall’abolizione delle franchigie ecclesiastiche. E questo rendeva più agevole la possibilità di reperire liquidità per l’esecuzione di lavori d’interesse locale, senza intaccare quelli a bilancio. In pratica era un modo come un altro per la città di autotassarsi, qualora l’avesse ritenuto funzionale ai propri scopi.

Si iniziò pure nel concreto a pensare al restauro del porto. Ed è proprio di quegli anni un’accorata lettera dell’arcivescovo di Brindisi, Domenico Rovegno, indirizzata nel 1762 al re Ferdinando IV, che dà il segno della dolorosa condizione in cui versava la città di Brindisi.

Su ordine dei medici, l’arcivescovo si trova in convalescenza a Napoli, tuttavia il suo desiderio è di ritornare dal suo  «gregge» e per questo comunica che sta per ripartire per Brindisi con la consapevolezza, però, di «andare incontro alla morte»10. Il motivo della sua malattia «altro non è stato, che l’aere infetto della stessa città» che, «per la divisata cagione», è destinata alla rovina «se dalla M.V. non saranno presi gli opportuni rimedi»11. Gli abitanti sono infatti «oppressi da pericolose infermità, ed atterriti dalle mortalità continue, rilevandosi chiaramente da’ libri parrocchiali, che il numero dei morti in ogni anno è doppio di quello dei nati»12. E sarebbe già spopolata da tempo se, «mantenendo la città de’ singolari privilegi da passati sovrani di questo regno», non avesse potuto accogliere abitanti provenienti da altre zone13.

Il privilegio citato dall’arcivescovo riguardava l’esonero da qualunque gravame o vincolo feudale accordato a chi risiedeva a Brindisi per almeno cinque anni. Era questo il marchingegno utilizzato da secoli per mantenere in vita le zone depresse: piuttosto che intervenire sulla causa, si  concedevano bonus che, come al solito, erano un modo come un altro per rendersi graditi e lasciare però le cose al punto di partenza.

Per fortuna i tempi erano maturi per tentare di riportare a nuova vita il porto interno, e a non lasciarlo più ostaggio della poltiglia e degli odori nauseabondi. Anche se si dovette aspettare un’altra decina d’anni sopratutto a causa della grave crisi economica innescata dalla carestia del 1764. Era così il luglio del 1775 quando l’ingegnere Andrea Pigonati, direttore del Genio militare incaricato di progettare la riapertura del porto interiore, mise per la prima volta piede sul suolo brindisino. Fu il primo dei tanti tentativi non riusciti compiuti dai Borbone per risolvere i problemi d’una foce che, non appena ripulita, tornava senza scampo ad insabbiarsi nuovamente ma che, rispetto a tutti i successivi fallimenti, ha ottenuto gli onori della cronaca per il fatto che  sui lavori compiuti si sono addensate le spietate ed arbitrarie critiche degli storici e dei cronisti locali.

In sintesi, il progetto14 con cui l’ingegnere siracusano cercò di ridare funzionalità alla struttura portuale di Brindisi prevedeva la realizzazione di un canale, che mettesse in comunicazione il porto interiore col porto esteriore, e la bonifica delle principali paludi, vale a dire quella delle Torrette, che era nei pressi della foce del canale, e di quella di Porta Lecce o di Ponte Piccolo, che si trovava all’estremità nel seno di Levante. In questo modo Pigonati riteneva di rendere navigabile il porto interno e di risanare le condizioni ambientali della città. Quindi tutta una serie di lavori che l’ingegnere siracusano condusse con molto zelo tanto che, in poco più di due anni d’intensa attività, riuscì a far scavare un nuovo canale di collegamento (di fatto quello poi a lui intitolato); a colmare le principali paludi; a risanare il molo di porta Reale e, quel che più conta, ad aprire il cuore dei Brindisini alla speranza. Speranze che, come ben sappiamo, andarono ben presto deluse, ma, a differenza di quanto narrato nelle ricostruzioni approssimative di buona parte della cronachistica locale, non tutta la colpa dei successivi guasti è da ascriversi all’ingegnere borbonico, verificato che nei fatti concorse in maniera non banale la mancata manutenzione ordinaria da parte delle autorità locali15. Comunque sia, dopo nemmeno un decennio, il porto interno ripiombò nei suoi soliti problemi.

Il primo a lanciare specifiche accuse sull’operato di Pigonati fu Ferrando Ascoli che, riprendendo una critica fatta dall’ingegnere Tironi quando peraltro era già ritenuta priva di ogni fondamento, affermava in maniera categorica che Pigonati aveva commesso un errore colossale nell’orientare l’imboccatura del canale da lui scavato verso greco-levante, mentre avrebbe dovuto disporla nella direzione di greco «per metterla al riparo da ogni traversia e da ogni interrimento»16. Il che era in parte corretto per quanto riguarda le traversie, ma del tutto fantasioso riguardo all’interrimento che si era nel frattempo appurato non dipendeva dalla direzione del canale ma da cause del tutto naturali. Tuttavia, poiché questa storiella, diffusasi acriticamente da un cronista all’altro, passa ancora per buona, è tuttora convinzione comune che Ascoli avesse tutte le ragione del mondo ad incolpare Pigonati d’aver sbagliato i calcoli e che il canale s’insabbiasse proprio a causa dell’orientamento che lui gli aveva impresso. Per questo il buon Pigonati passa ancora adesso per un povero sprovveduto, mentre era un tecnico che gli stessi Brindisini, che avevano avuto modo di conoscerlo, apprezzavano soprattutto per la sua onestà17.

 

Nella realtà, era l’approccio al problema ad essere sbagliato, e quantomeno l’ingegnere siracusano, essendo il primo ad averlo affrontato, non poté contare su esperienze pregresse, a differenza di tutti gli altri che, sino a quando nel 1861 non si trovò la soluzione, perseverarono nel commettere gli stessi errori e non ottennero certo risultati migliori dei suoi. Ciò nonostante, Pigonati viene sempre presentato come l’unico responsabile di ottant’anni di insuccessi che, invece, accomunarono molti tecnici borbonici e non. Sarà magari stato per questa consuetudine a crederlo capace dei più banali errori che non c’è nefandezza, perpetrata in quel torno di tempo, che non gli venga inevitabilmente addossata.

Oltre all’errore della direzione del canale, di cui il lettore interessato potrà trovare tutti i dettagli in un mio precedente intervento18, Pigonati è accusato della demolizione di antiche costruzioni e di disastri ambientali.

Per quanto concerne i beni architettonici, in quegli anni sparirono infatti dallo scenario cittadino due antiche costruzioni: Porta Reale, che si trovava non molto lontana dai Giardinetti, e la chiesa di Santa Maria de Parvo ponte, che era dalle parti di Porta Lecce. Ebbene i più raccontano che Pigonati, avendo bisogno di pietre per mandare avanti i suoi lavori, se l’era procurate demolendo entrambi i monumenti. Non solo, sempre per lo stesso motivo, si dice avesse fatto abbattere una delle due torrette angioine, alle cui fondamenta si attribuisce la fantasiosa origine della secca, chiamata anch’essa angioina, che solo le mine riuscirono in seguito a distruggere; in questo caso, oltre a depauperare la città d’un bene artistico, Pigonati avrebbe causato anche un dissesto ambientale. Di malefatta in malefatta qualcuno è stato capace di narrare che persino ponte Grande, ancora in piedi quando l’ingegnere faceva da decenni parte del mondo dei più, fosse stato da lui demolito, quasi che anche da morto vagasse per le strade di Brindisi alla ricerca di pietre per il suo canale. Il che rientra nel nostro radicato vezzo di trovare un capro espiatorio a tutti i costi: capitò lo scorso secolo negli anni Cinquanta per la demolizione del parco della Rimembranza e del teatro Verdi (colpevole il “ciclone” che, in effetti, arrivò solo a proposito); negli anni Sessanta per gli scompensi edilizi e la mancata edificazione del nuovo teatro (colpevole un costruttore che i sussurri malevoli dicono abbia goduto di presunti privilegi per aver portato la locale squadra di calcio in serie B); in maniera simile, a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, l’Attila di turno fu appunto Pigonati. Eppure ci vorrà poco per dimostrare tutte queste accuse destituite di fondamento e scagionare così Pigonati dall’aver compiuto i disastri di cui lo si biasima senza ragione.

Iniziamo da porta Reale che, in effetti, scomparve in modo misterioso dallo scenario del porto brindisino insieme al suo molo proprio in quel periodo, tuttavia, i dati in nostro possesso discolpano del tutto l’ingegnere dell’amministrazione borbonica. L’ultima volta che un documento cita la famosa porta è nel riepilogo contenuto nella “Cronaca dei Sindaci di Brindisi” sui lavori fatti da Pigonati specificatamente su quelli realizzati sul canale e sui suoi argini, a conclusione di tutto l’intervento di ripristino del porto. Viene infatti riportato che i lavori, terminati con la posa dell’ultima pietra il 26 novembre 1778, erano stati iniziati sui moli del canale in maggio dello stesso anno con materiale (pietre) ricavato dalle case «della Corte, vicino la porta Reale»19. Quindi non solo qui è precisato dove Pigonati si era rifornito delle pietre necessarie «per il fabbrico del gran canale»20 ma è anche espressamente indicato che porta Reale era ancora bella e in piedi alla fine dei suoi lavori.

 

D’altra parte c’è il famoso dipinto di Jakob Philipp Hackert, “Baja e porto di Brindisi”del 1789 (figura n. 3), a confermarlo ritraendo il molo di porta Reale in piena attività, mentre le botti di olio vengono caricate sulle barche per poi essere trasportate sino alla Cala delle Navi nel porto esteriore dov’erano infine trasbordate sui bastimenti. La porta era così ancora in piedi ad oltre dieci anni dal compimento dei lavori di Pigonati. Da quel momento in poi della porta Reale non si ha più notizia ed è dalla mappa, ”Pianta della città, porto e rada di Brindisi” (figura n. 4), disegnata nel 1811 da Vincenzo Tironi, che il monumento ed il suo molo non vengono più citati. La demolizione avviene quindi tra il 1879 ed il 1811. Quando e perché, è difficile dirlo con precisione, non essendoci riscontri oggettivi. È però ugualmente possibile formulare un’ipotesi del tutto verosimile e coerente con il successivo svolgimento dei fatti.

 

Il tentativo di Pigonati non aveva sortito gli effetti sperati e già circa dieci anni dopo, mentre Hackert lavorava al dipinto, se ne  avviò uno nuovo di cui fu incaricato l’ingegnere Carlo Pollio. Ebbene, tra le opere realizzate da Pollio ci furono, nei pressi di porta Reale, la costruzione «della deputazione di sanità, che volle chiamare lazzaretto»; il riadattamento della strada del canale di scolo della Mena, poi rialzata sul livello delle acque del porto e che diede origine alla strada Carolina, poi divenuta corso Garibaldi, e l’edificazione d’un tratto di banchina «a cominciare dalla Sanità o lazzaretto verso ponte Grande per una lunghezza di canne 250»21. Con ogni probabilità il rialzamento del piano stradale della Mena, congiunto alla banchina costruita dalla Sanità verso ponente per più di 500 metri, dovette costare il sacrificio della porta Reale che si trovava appunto lungo le direttrici dei lavori. In merito, non ho potuto trovare documenti che l’attestino, tuttavia è questa l’ipotesi più plausibile, visto che è certo che porta Reale scompare tra il ritratto di Hackert e la mappa di Tironi e che, in quel ventennio, le uniche opere di rilievo effettuate su quella zona del porto sono quelle realizzate dal Pollio.

Secondo la cronachistica bene informata, nel corso del risanamento della palude che si trovava nell’estremo ramo di levante, sempre per penuria di materiale da costruzione, Pigonati abbatté poi attorno al 1777 la pregevole chiesa di Santa Maria de Parvo ponte. Questa  chiesa, che si trovava sulla strada che da porta Lecce conduceva fuori le mura della città a quello che era appunto il Ponte Piccolo (Parvo ponte), era stata edificata nel XII secolo grazie alle sovvenzioni del famoso ammiraglio Margarito da Brindisi. Già «diruta» ai tempi dei lavori dell’ingegnere siracusano è citata anch’essa nella “Cronaca dei Sindaci di Brindisi” quando si descrivono gli effetti benefici dei lavori di sanificazione compiuti nella zona dal «direttore del porto, d. Andrea Pigonati… fuori la porta di Lecce, e la chiesa nominata del Ponte, avendone avuto grande utile per l’aria la città»22. Quindi anche in questo caso è certificato che la struttura esisteva ancora, una volta colmata la palude che l’ospitava. In aggiunta la chiesa compare, sempre “diruta” circa trent’anni dopo nella mappa del Tironi (figura n. 5) e quindi non è stata certo smantellata da Pigonati.

 

Con ogni probabilità, la chiesa di Santa Maria de Parvo ponte fu demolita un poco alla volta, come avveniva a quei tempi per tutti gli edifici in rovina. Si deve infatti considerare che allora era usuale adoperare nelle costruzioni materiali di risulta, e che chi ne aveva bisogno faceva man bassa di pietre dalle costruzioni abbandonate perché in disfacimento.

 

Allo stesso modo, Pigonati è del tutto incolpevole anche per la distruzione di ponte Grande, non fosse altro perché in quella zona non ebbe neppure modo di operare. D’altra parte Ponte Grande risulta ancora in funzione nella mappa del Tironi e nella cartografia anche successiva, quantomeno sino alla carta di Benedetto Marzolla (figura n. 6) — redatta forse nei primi anni Quaranta dell’Ottocento — e rimase con ogni probabilità in piedi finché usato per superare la vallata omonima. Quando le acque e la palude di quella zona furono canalizzate (all’incirca tra il 1858 ed il 1862) e fu successivamente creato un nuovo invaso, non servendo più, il ponte fu con ogni probabilità demolito. Difficile poter dire con esattezza però quando e ad opera di chi. Dubito per altro che la sua struttura fosse, come taluni dicono, di epoca romana. In ogni caso sopravvisse molti decenni all’ingegnere siracusano.

Ai tempi dell’intervento di Pigonati, sulle opposte sponde del vecchio canale Angioino, si trovavano i resti delle due torrette costruite dagli Angioini nel lontano 1279 per impedire che la città fosse attaccata con truppe da sbarco dalla parte del mare. La più grande, fabbricata sulla riva di ponente, era originariamente collegata all’altra torretta con una catena che, in caso di bisogno, un congegno tendeva in modo da precludere l’accesso al porto interno. Con il passare del tempo simili metodi di difesa divennero anacronistici e le due torri subirono successivi riadattamenti, tant’è che Pigonati, all’iniziò dei suoi lavori, attesta ancora l’esistenza della maggiore — risistemata però per alloggiare le guardie della dogana — ed i soli «avanzi»23 di quella edificata a levante. Il dipinto di Hackert evidenzia l’integrità della torretta adattata a dogana e, sulla riva opposta, la presenza dei resti dell’altra torretta, ben un decennio dopo la conclusione delle opere del Pigonati. Questa testimonianza grafica può quindi essere usata per confutare una surreale ipotesi avanzata da Ferrando Ascoli, nell’ultimo ventennio dell’Ottocento.

Afferma appunto l’Ascoli che Pigonati, nel fabbricare il molo a ponente del canale, trovatosi in difficoltà per la penuria di materiale, «impiegò le pietre estratte dalla diruta casa della Torretta fabbricata dagli Angioini»24. E poi prosegue: «Di questa torretta rimasero le fondamenta che aperto il canale, furono intieramente ricoperte dalle acque, formarono col tempo una secca abbastanza estesa, chiamata secca Angioina»25. In definitiva, a detta dell’Ascoli, la secca, che sarebbe divenuta in effetti fonte di gravi alterazioni per l’agibilità del porto brindisino, era diretta conseguenza di uno dei tanti errori compiuti dal Pigonati, a cui doveva quindi addebitarsi anche questo ulteriore guasto.

Già lo stesso interessato aveva precisato d’aver sopperito alla mancanza di materiale con il «cavar pietre dall’isoletta»26, vale a dire dall’isola Angioina, ma le affermazioni dell’Ascoli sono come visto palesemente smentite pure dal dipinto di Hackert. La cosa ancor più curiosa è che tutti i successivi autori, ritenendo la supposizione dell’Ascoli credibile, l’hanno propagata sino a farla passare per una delle tante verità incontrovertibili.

Eppure, dovrebbe essere noto agli addetti ai lavori che il canale Angioino fu preservato da Pigonati non per il transito ma al solo fine di agevolare lo scorrimento delle acque e non sconvolgere il naturale flusso delle correnti. In pratica era stato solo ripulito ed aveva quindi un fondale basso per altro intervallato, dove cambiava direzione, da un rialto (n. 6, figura 2) che lo rendeva impraticabile anche alle barchette. Se poi si tiene conto che era il luogo più soggetto ad insabbiarsi, gli allagamenti erano in effetti un evento quasi del tutto impossibile. In ogni caso, il dipinto di Hackert smentirebbe già di per sé le supposizioni fantasiose dell’Ascoli ma, in merito, ancora più eloquente appare la documentazione disponibile.

 

La cartografia della seconda metà del XIX secolo ha infatti rappresentato in maniera chiara la situazione che s’era creata nel porto brindisino ed è pertanto sufficiente esaminare una qualsiasi pianta dell’epoca per ricavare che la secca Angioina, oltre ad essere molto estesa, si trovava proprio nel punto in cui sino a poco tempo prima era posizionata l’isola Angioina ed i suoi estesi bassi fondali (n. 7 della mappa di Tironi). È quanto emerge in tutta la sua evidenza in un particolare del “Piano generale del porto di Brindisi” del 1866 (figura n. 7): la secca ha due lati ampi più di cento metri ciascuno ed è disegnata proprio dove una volta c’era l’isoletta omonima. Appare a questo punto ovvio che le fondamenta di una torretta alta pochi metri non avrebbero mai potuto generare una secca di simile sviluppo, la cui origine era molto più semplicemente dovuta ai lavori per l’abbassamento dell’isola Angioina iniziati formalmente nel 184227 e conclusisi ben oltre il 1860. È infatti nelle mappe di quegli anni che nello scenario del porto brindisino la secca incominciò a prendere il posto dell’isoletta. Non fu quindi la mania demolitrice del Pigonati a crearla, per il semplice motivo che questa preesisteva, come si evidenzia pure dal disegno di Tironi, e fu in seguito ampliata dal «profondamento dell’isola Angioina», come si desume con precisione da una relazione di metà Ottocento28. Scavata quindi sino a restare poco al di sotto della superficie del mare, l’isola Angioina ed i bassi fondali vicini non potevano che trasformarsi in secca. Con buona pace della bizzarra versione dell’Ascoli che, anche in tempi recenti, trova numerose adesioni.

(1 – continua)

 

 

 

 

 

 

 

Note

1 Strabone (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, VI 3, 6.

2 Sino ad i lavori iniziati tra il 1863 ed il 1864, la rada aveva tre possibili ingressi: la Bocca di Puglia, spazio ora occupato dalla diga che congiunge la cala Materdomini all’isola di Sant’Andrea; lo spazio tra Forte a Mare e le Pedagne e il passaggio dei Trapanelli, anch’esso ora occupato da una diga.

3 C. Porzio, Relazione del regno di Napoli al marchese di Mondesciar, viceré di Napoli, tra il 1577 e 1579,  in Collezione di opere inedite o rare di storia napoletana, Officina tipografica, Napoli 1839,  pp. 17 e 18.

4 Ibidem, p. 18.

5 Ibidem, p. 19.

6 Ibidem, p. 19.

7 Gellio (II secolo d.C), Notti attiche, XI 17.

8 Columella (I secolo d.C), Res Rustica, I 4.

9 A. Pigonati, Memoria del riaprimento del porto di Brindisi sotto il Regno di Ferdinando IV, Michele Morelli, Napoli 1781, p. 12.

10  D. Rovegno, Rappresentanza dell’Arcivescovo di Brindisi al Re per l’apertura del porto, Manoscritto ms_L1, Miscellanearum Tomus I, Biblioteca pubblica arcivescovile “A. de Leo”, Brindisi, 193v.

11 Ibidem, 193r.

12 Ibidem, 194r.

13 Ibidem.

14 N. Valente, Quando Pigonati scavò il canale nel porto di Brindisi, “Il7 Magazine”, Brindisi 2022, n. 254, pp. 36-39.

15 N. Valente, Il porto di Brindisi: la favola di come il canale andava orientato, “Il7 Magazine”, Brindisi 2022, n. 255, pp. 30 e 31.

16 F. Ascoli, La storia di Brindisi, Forni editore, Sala Bolognese 1981, p. 371.

17 Anonimo, Sulle opere del porto di Brindisi eseguite sotto la direzione del tenente colonnello Albino Mayo, Brindisi s.d. In questo pamphlet dell’Ottocento, redatto da Brindisini inviperiti contro i tecnici borbonici per le ruberie da loro perpetrate, Pigonati viene presentato come uno dei pochi funzionari onesti.

18 N. Valente, Il porto di Brindisi: la favola di come il canale andava orientato, “Il7 Magazine”, Brindisi 2022, n. 255, p. 33; N. Valente, La lunga agonia del porto interno di Brindisi, “Il7 Magazine”, Brindisi 2022, n. 256, p. 34.

19 P. Cagnes – N. Scalese, Cronaca dei sindaci di Brindisi (1529 – 1787), A cura di R. Jurlaro, Amici della “A. De Leo”, Brindisi 1978, p. 460.

20 Ibidem.

 21 F. Ascoli, Cit., p. 373.

22 P. Cagnes – N. Scalese, Cit., pp. 459 e 460.

23 A. Pigonati, Cit, p. 12.

 24  F. Ascoli, Cit., p. 367.

25 Ibidem.

26 A. Pigonati, Cit, p. 72.

27 S. Morelli, Brindisi e Ferdinando II o il passato, il presente e l’avvenire di Brindisi, Del Vecchio, Lecce 1848, p. 118.

28 l. Giordano, Intorno alla struttura di un nuovo porto in Bar”, Fratelli Cannone, Bari 1853, p. 26.

A Brindisi non ci si va e non ci si ferma, si arriva e si parte

Porto di Brindisi: piroscafo della Valigia delle Indie – 1905

 

Brindisi: città ‘al limite’ e ‘città ‘limes

da meta ideale d’ogni fuga a frontiera verso l’immaginario

 

di Gianfranco Perri

Parecchi anni fa scrissi di Buenos Aires1 e raccontai di quella bella e interessante città sudamericana che in più occasioni ho avuto il piacere di visitare, sia per lavoro che per diletto. Il contesto di quel mio scritto mi portò a tentare un improbabile parallelismo tra Buenos Aires e Brindisi, che feci, in realtà, per segnalare una specifica ed in apparenza incongruente differenza tra le due città, pur entrambe portuali e pur entrambe – in senso geografico – estreme: Brindisi, con il suo porto intagliato presso l’estremità del tacco dello stivale italico propenso a sudest nel Mediterraneo a mo’ di spartiacque tra i due mari Adriatico e Ionio e Buenos Aires, con il suo porto anch’esso situato prossimo ad una estremità geografica, addirittura la punta dell’intero continente americano, propensa a sud a mo’ di spartiacque tra i due oceani Atlantico e Pacifico.

Ebbene, mente Buenos Aires è, in apparente pieno rispetto della logica, un luogo estremo dal quale non si passa, ma al quale si arriva di proposito, per fermarsi – non si va a Buenos Aires per poi proseguire il viaggio, o ci si ferma o si torna indietro – a Brindisi, invece, normalmente e storicamente parlando, non ci si va, non ci si ferma, a Brindisi si arriva e da Brindisi si parte.

Quale sarà, allora, la ragione di tale sostanziale differenza? Ebbene, la spiegazione è semplice e va ricercata nel fatto che, pur essendo geograficamente entrambe città luoghi ‘al limite’, solamente Brindisi è – anche – luogo ‘di limes’, cioè ‘di frontiera’: di separazione ossia tra due entità e, nel caso specifico, nientemeno che tra due mondi, Occidente e Oriente. Ed è proprio a tale singolarità, a tale doppia peculiarità, che Brindisi deve gran parte – nel bene e nel male – della sua plurimillenaria storia nonché della sua indiscussa fama nel mondo: essere una città di frontiera è attributo abbastanza comune, ma essere allo stesso tempo città sita all’estremo di una propaggine geografica, di fatto continentale, è invece attributo decisamente singolare, forse unico.

Molto probabilmente lo aveva ben scoperto anche Ernest Hemingway quando nel suo famoso ‘Addio alle armi’, nel dialogo tra Frederic – il giovane tenente medico volontario americano, protagonista del romanzo – e Gino, ufficiale medico italiano incontrato nelle retrovie del fronte del Carso, tra Gorizia e Caporetto nell’autunno del 1917, fa dire al secondo: «Tu cosa faresti se avessi una frontiera fatta di montagne?» E Frederic risponde: «Una volta gli austriaci venivano sempre bastonati nel Quadrilatero attorno a Verona, li lasciavano scendere in pianura e li bastonavano lì.» E Gino: «Ma i vincitori erano francesi, in casa d’altri è più facile risolvere i problemi militari.» E Frederic: «E già, quando si tratta del tuo paese non lo puoi usare così scientificamente.» E Gino: «Eppure i russi l’hanno fatto, per intrappolare Napoleone.» E Frederic: «Sì, ma quelli avevano un paese veramente enorme, se in Italia tentaste di ritirarvi per intrappolare Napoleone, vi ritrovereste a Brindisi! …» Quindi, come a voler significare “in Italia, il luogo più remoto dove si potrebbe pensar di andare per fuggire da un nemico, è Brindisi: un luogo sito all’estremo geografico ed in più, luogo di frontiera”.

Qualcuno ha finanche avanzato la suggestiva idea che Hemingway in quel suo romanzo scritto nel 1928 abbia prefigurato per Brindisi – città limite e città limes – la meta della fuga del re nel ’43 per da lì, come fecero i russi dalla Siberia con Napoleone, attendere pazientemente la ritirata degli invasori: intrigante l’ipotesi della prefigurazione e, comunque, una citazione certamente premonitrice.

Del resto, già ben prima del ’43, praticamente da sempre nel corso della storia, a Brindisi erano fuggiti – se pur con fughe dalle cause e dagli esiti dissimili – veramente in tanti: a cominciare da Falanto, Spartaco, Cicerone, Pompeo, per solo citare i primi tra quelli divenuti famosi, e via via molti altri. E anche proprio subito prima e subito dopo quel ’43 si registrarono alcune tra le più eclatanti fughe a Brindisi, con tanti arrivi e tante partenze: a cominciare dall’inverno del 1915-1916 con il biblico esodo dell’esercito serbo – con più di 270.000 tra soldati serbi, re Pietro I di Serbia e re Nicola I di Montenegro inclusi, profughi e prigionieri austroungarici – e continuando, nel 1945, con il continuo affluire a Brindisi dei profughi giuliani, fiumani, dalmati, e quindi degli ebrei che venivano dall’Europa orientale e dall’Africa settentrionale. E poi ancora, solo trenta anni fa nel 1991, con l’impressionante arrivo in massa di varie decine di migliaia di Albanesi.

E tra i primi fuggitivi a Brindisi sopra citati, vissuti prima di Cristo, e gli ultimi giunti in fuga a Brindisi, vissuti sul finire del secondo millennio, quanti altri più o meno famosi ce ne furono? Sarebbe certamente troppo lungo e troppo arduo poterli menzionare e pertanto: meglio rinunziare a farlo. Solamente provo ad accennare a quanto accadde a Brindisi, sempre in relazione a fughe arrivi e partenze, nel bel mezzo dei due estremi epocali sopra indicati, già entrato cioè il secondo millennio, nell’epopea delle crociate, fin dalla prima – nel 1100 Goffredo, signore normanno di Brindisi, accoglie i reduci della prima crociata e sposa sua figlia Sibilla al reduce Roberto Courteheuse, duca di Normandia, sfarzosamente dotandola grazie alle ricchezze che aveva accumulate proprio in Brindisi2 – e lo faccio alimentando il mio racconto con parte di quanto richiamato da Rosanna Alaggio in un suo interessante articolo sulle frontiere nell’occidente medievale3.

Risultano numerose, per tutta la durata del fenomeno crociato, le attestazioni di spostamenti che assegnano al porto di Brindisi il ruolo di terminale di scambio per le armate al seguito di alcuni dei più importanti membri dell’aristocrazia d’Oltralpe, oltre che di alcuni sovrani europei di ritorno da Gerusalemme, di dignitari e di alti prelati – forse mai si era verificata un’affluenza numericamente paragonabile a quella che la spedizione federiciana del 1227, la sesta crociata, riuscì a coinvolgere. Per tutti quei tempi, tra la fine dell’XI secolo e il XIV infatti, numerose testimonianze pervenute attribuiscono a Brindisi una importante funzione negli spostamenti degli eserciti cristiani per e dalla Terra Santa, che comportarono un gran numero di transiti, imbarchi e sbarchi, anche di nobili, dignitari e membri delle più importanti dinastie regnanti europee con il loro seguito armato, o comunque di soggetti spesso rappresentanti di istituzioni aventi a diversi livelli rapporti – compresi intricati legami familiari – con la monarchia normanno-sveva, cui Brindisi apparteneva.

L’eco delle loro imprese, diffusa in tutta Europa dai tanti racconti dei protagonisti e dai resoconti di cronisti che molte volte erano loro stessi membri delle spedizioni, contribuì in buona misura a consolidare nella coscienza collettiva della civiltà occidentale la percezione di Brindisi quale avamposto di una frontiera, e non solo in termini meramente geografici. Brindisi inoltre, allo stesso tempo, con il suo porto divenne base strategica fondamentale per tutti i principali potenti ordini monastico cavallereschi, quali giovanniti teutonici e templari: vi svernavano le flotte dei monaci guerrieri e mentre nei cantieri navali si dava corso alle necessarie riparazioni, in città si producevano contatti e incontri tra personaggi di prim’ordine, provenienti da tutta Europa e dal vicino e lontano Oriente.

Rosanna Alaggio riferisce del grandissimo numero di citazioni ricevute dalla città di Brindisi proprio a proposito della sua duplice condizione di ‘città estrema’ e di ‘città limes’: “Brindisi si trova menzionata in diciotto opere, tra romanzi e cronache redatte in antico francese e in altre lingue romanze, e in ben ventiquattro Chanson de Geste.” E anche se i rimandi a Brindisi nella maggioranza dei casi sono citati in relazione a postazioni di transito e d’imbarco per le imprese crociate di protagonisti eroici e temerari, spesso sono utilizzati anche come termine di riferimento per voler esplicitamente esprimere per quella Brindisi “la dimensione di una distanza ai limiti del raggiungibile e del conosciuto”. Un’immagine che non necessariamente derivava da una conoscenza diretta, ma che piuttosto risentiva dell’influenza di proiezioni fantastiche e che per tal motivo in certi casi aggiungeva alla realtà accenti suggestivi di una dimensione addirittura esotica, enfatizzando i parametri che ne mettevano maggiormente in risalto le caratteristiche proprie di una terra di frontiera – la Puglia – elaborata dall’immaginario collettivo come limite estremo di un’intera civiltà: il luogo della separazione che diventava anche momento di coesistenza tra il reale, la consuetudine e l’ideale:

«Nel Galeran de Brertagne l’eroina protagonista è descritta come la più bella che si possa trovare fino a Brindisi, e nel Tournoi Chauvency viene fatta menzione di un uomo come il migliore che possa esistere fino a Brindisi. Nell’Ugo Capeto si cita Brindisi per ben tre volte: non è possibile trovare cavalieri valenti come Beuve de Tarse fino al porto di Brindisi; un figlio di Brabante si vanta dell’opulenza della casa di suo padre che non ha pari in tutta la Francia e neppure a Brindisi; e, infine, lo stesso Hugo Capeto è un cavaliere che non ha pari fino al porto di Brindisi. Nel Le Batard de Bouillon la regina Margalie è la più bella che esiste fino al porto di Brindisi. Nell’Enfances Renier il porto di Brindisi è menzionato come riferimento per esprimere una distanza enorme. Nel Lion de Bourges si fa riferimento all’oro di Brindisi. Nel Garin de Loheren un elmo di notevole fattura proviene da Brindisi. Nell’Elie de Sant Gilles Brindisi è una città pagana. L’Ipodemon è ambientato nella Brindisi medievale. E Brindisi, infine, nel Roman du Chastelain de Coucy et de la dame de Fayel, viene scelta come città in cui si spegne e viene seppellito il Castellano de Coucy, verosimilmente Guy de Ponciaus, morto in Terra Santa al seguito di Riccardo Cuor di Leone: un’ambientazione, quella a Brindisi, privilegiata per la descrizione della morte di un valoroso cavaliere cristiano al ritorno dalla Terra Santa.»3

Riavvicinandosi poi, a poco a poco ai tempi nostri, si scopre che tra fine 800 e inizi 900, proprio mentre si inaugurava il canale di Suez, da Brindisi il visionario professor Sapeto e l’ammiraglio Acton il 12 ottobre 1869 salpavano verso la baia di Assab in Eritrea, muovendo il primo passo dell’avventura coloniale italiana, e poco dopo «…con lo scalo dei grandi piroscafi della Valigia delle Indie, Brindisi ritorna nell’immaginario europeo non più, come era stato nei secoli immediatamente precedenti, quale limes della cristianità innanzi al turco, ma nuovamente quale porta verso l’esotico. Fogg, per compiere il suo Giro del mondo in ottanta giorni è verso Brindisi che deve muovere, come del resto lo fanno anche molti personaggi creati da Agata Christie o da Gide. Sulle banchine del porto per mesi, prima d’essere coattivamente rimpatriato, s’aggirò Rimbaud [in realtà non vi giunse perché in camino da Milano a Brindisi, nel 1875, fu colto da un’insolazione che gli impedì raggiungere la meta]. E qui sarebbe sbarcato Tagore che riconobbe in una appena intravista ragazza di Brindisi il volto giovane dell’Europa. Finanche Emilio Salgari, l’idea del suo oriente immaginario è possibile l’abbia colta a Brindisi, capolinea, con Venezia, dell’unica tratta di mare che si sa da lui percorsa. La storia della città, del resto, può riassumersi in quella delle fortune del suo porto e intendersi nel più generale quadro di riferimento offerto dall’evoluzione dei rapporti fra gli stati rivieraschi del Mediterraneo e dei grandi itinerari saldanti Europa, Africa e Asia.»4

Ed eccomi di ritorno al mio articolo su Buenos Aires; iniziava con queste esatte parole:

«Caro direttore Gianmarco, nel mio andare per il mondo avrò incontrato forse un centinaio, e anzi molte più, di persone che di fronte alla mia affermazione di essere di Brindisi rispondendo alla naturale domanda che tra conoscenti circostanziali ci si scambia sul rispettivo luogo di provenienza, mi hanno replicato con decisione: certo Brindisi, io la conosco, ci son stato per andare in… ‘oriente’ via mare, un bellissimo porto!»1

Naturalmente quel mio “andare per il mio mondo” si riferiva ad anni che ormai son trascorsi da parecchio, quanto meno, naturalmente, ad anni precedenti la data – 2011 – dell’articolo. Anni, comunque, in cui non imperversavano ancora i voli low cost, anni in cui per andare dall’Europa in Oriente, in Grecia, Albania, Turchia, Egitto, India, eccetera, generalmente si ‘prendeva’ una nave e molto spesso la si prendeva proprio da Brindisi.

E adesso? Certo, Brindisi continua ad esistere nella sua posizione geografica di sempre, quindi di ‘città al limite’. Ma continua ad essere città limes? Probabilmente sempre meno, in un mondo che sembra voler tendere, pur tra tanti ostacoli, all’eliminazione delle frontiere, anche se per ancora un po’ ci si dovrà accontentare d’averne solo spostato più in là alcune avendone eliminato alcune altre: Dubrovnik, Durazzo, Vallona, Corfù, Pireo e tanti altri posti per Brindisi non sono più dall’altro lato del limes. Un percorso ancora lungo e accidentato che sull’altra sponda del limes vede tuttora rimaste la Turchia, l’Egitto, l’India, eccetera. In entrambi i casi però, si tratta pur sempre di luoghi, vicini o lontani che siano, che oggi di fatto si raggiungono tutti con l’aereo. E anche se Brindisi ha il suo bell’aeroporto, non è assolutamente la stessa cosa!

Porto di Brindisi: – 1910

 

Dubito fortemente – con un poco di malinconia – che i miei figli, e ancor più i miei nipoti, al comunicare le loro origini brindisine ad un qualche interlocutore incontrato circostanzialmente, si possano sentir rispondere: “Ah! Brindisi, io la conosco, ci son stato per andare a…” Ma, magari e spero, mi sbaglio.

Porto di Brindisi: faro isola Traversa delle Pedagne – costruito nel 1859

 

BIBLIOGRAFIA

  • Perri Gianfranco Brindisi, perla in un pianeta di bellezze – Senzacolonne dell’11 novembre 2011
  • Ordericus Vitalis Historia Ecclesiastica – Patrologia Latina, Parigi 1835
  • Rosanna Alaggio “Finis est Europae contra meridiem” Immagini da una frontiera dell’Occidente medievale – Incontri di studio del Mæs, 2005

Penisola salentina romana

di Nazareno Valente

Ogni moneta ha facce antitetiche, ciascuna tuttavia legata in maniera inscindibile all’altra ed utile nell’insieme a caratterizzarne il valore. Così anche la rete, tanto ricca di notizie da saper informare su qualsiasi questione si voglia, è duplice e contrapposta, avendo anch’essa il rovescio di questa sua medaglia. Per una naturale questione di copyright, sul web girano infatti per lo più testi ed articoli datati che presentano una preziosa visione di come si siano evolute le conoscenze di uno specifico settore ma che rischiano, se letti senza considerare che moltissima acqua è passata sotto i ponti, di prendere per buoni concetti ed ipotesi ormai vecchi e superati. E ciò risulta particolarmente vero per le antichità, dove i lavori recenti e specialistici consultabili in rete sono quasi del tutto assenti ed abbondano, invece, quelli dei secoli scorsi che, se assorbiti senza spirito critico, rischiano di far aderire a teorie a cui gli studiosi non credono più da tempo.

 

Le teorie obsolete rivitalizzate da Wikipedia

Un significativo riscontro di come si possa essere portatori di posizioni ormai demodé, si ha leggendo alcune schede sull’antichità di Wikipedia nelle quali, ad esempio, è riportato che il Salento faceva parte della Magna Grecia, come si riteneva un paio, ed anche più, di secoli fa, oppure non ci si è neppure aggiornati sul fatto che a Brindisi, conquistata dai Romani,  fu dedotta una colonia latina.

Questo modo antiquato di valutare le cose, si aggiunge a certe inveterate abitudini culturali che fanno fatica a non avere una visione del mondo se non alla talebana. Ovverosia a vederlo o tutto bianco o tutto nero, senza la neppure più lontana parvenza di sfumature di grigio, oppure ripartito tra cattivi, sino all’ultima nascosta piuma, e buoni, in maniera tale da fare persino concorrenza ai santi. Non per niente, qualsiasi cosa facessero i Romani e, soprattutto, i Greci era considerata giusta e sacrosanta; ed ogni loro pur impalpabile vezzo rientrava nel disegno più generale tracciato dall’inviolabile progresso. Sicché, per indicare chi o ciò che era diverso dall’essere greco, s’adoperavano termini negativi, ed ancora adesso si parla di lingue anelleniche, di ambiti anellenici, di popolazioni anelleniche, dove quindi quel che è indigeno è caratterizzato dal fatto di non essere greco.

Sarà per questo spontaneo innamoramento per i popoli alla moda che molti preferirebbero tuttora essere gli epigoni dell’ultimo dei Mohicani, e quindi posizionarsi tra i collaborazionisti — in pratica sentirsi dire che il Salento era Greco trovandosi in Magna Grecia — piuttosto che gli eredi del cattivo Magua il quale, invece, lottò per salvaguardare le proprie radici, come agli effetti pratici fecero i nostri antichi concittadini brindisini ed i Salentini tutti che si opposero con parziale e sostanziale successo alla colonizzazione greca, difendendo la propria identità culturale. Quello stesso successo che, invece, non arrise quando toccò ai Romani di venire a pretendere le nostre terre.

Allo stesso modo, internet e certa parte della cronachistica delle nostre parti trasudano amore per la colonizzazione greca e, di conseguenza, per l’arrivo dell’aquila romana, sicché, se qualcuno volesse informarsi ad esempio sulla cittadinanza romana, scoprirebbe che essa è quasi sempre qualificata per “prestigiosa” o con altra espressione enfatica che rinvia immancabilmente agli stereotipi imposti dal periodo fascista, dove la romanità faceva tendenza. Tanto per ricollegarsi alle teorie, valide nei secoli scorsi, che la rete fa recuperare e, complice la nostra passività nell’analisi, fa credere ancora attuali e degne d’un qualche credito.

 

Non sempre la cittadinanza romana fu ritenuta “prestigiosa”

Se invece di dipendere solo da Wikipedia, si volesse talvolta dare un’occhiatina pure alle opere degli autori antichi, magari qualche dubbio sul prestigio incondizionato posseduto in antichità dalla cittadinanza romana potrebbe sorgere. Ad esempio Livio che, pur essendo un grande estimatore del mondo latino, riferisce un episodio alquanto curioso accaduto nel corso della seconda guerra punica (218-202 a.C.). Annibale sta prendendo il sopravvento, sobillando le città Italiche,  e Roma è in grossa difficoltà, quando  all’assedio di Casilinum (216 a.C.) i Prenestini si rendono protagonisti d’un valoroso gesto di fedeltà alla causa romana, arrendendosi ai Cartaginesi solo dopo aver combattuto sino allo stremo delle forze. Il senato romano per ricompensarli decreta doppio stipendio («Praenestinis militibus senatus Romanus duplex stipendium… decrevit»1) e offre loro la cittadinanza romano per le virtù dimostrate («civitate cum donarentur ob virtutem»2); i Prenestini accettano il denaro, rifiutando però compatti l’altra gratificazione: alla cittadinanza romana preferiscono la propria che, infatti, non ci pensano nemmeno di modificare («non mutaverunt»3). Ed i Prenestini non furono certo gli unici a mostrare poco interesse per un simile dono, tant’è che, a detta di Diodoro Siculo, un Cretese fece anche di peggio. Non solo respinse l’offerta fattagli della cittadinanza romana ma, per sovrappiù,  la derise dichiarando in maniera perentoria che i Cretesi consideravano la cittadinanza romana una solenne baggianata, cui essi preferivano di gran lunga qualcosa di più utile («Πολιτεία, φησί, παρὰ Κρησὶν εὐφημούμενός ἐστι λῆρος. τοξεύομεν γὰρ ἡμεῖς ἐπὶ τὸ κέρδος»4).

Va a questo punto ricordato che i Cretesi erano famosi per la dubbia moralità e per l’attaccamento al soldo, come per altro non si può negare che l’essere Romani comportasse indubbi benefici che rendevano una simile condizione giuridica a volte appetibile. Ma non sempre. E certo non era proprio così, quando l’Urbe intraprese la sua politica espansionistica.

 

Come Roma strutturava le comunità vinte

Inizialmente Roma era solita incorporare i territori dei popoli vinti qualificandoli giuridicamente come ager pubblicus (agro pubblico), vale a dire come suolo appartenente allo Stato da destinare a vari scopi ma che non poteva divenire di proprietà privata, salvo espressa disposizione legislativa. Successivamente adoperò strumenti giuridici che non obbedivano a schemi rigidi ma valutati, caso per caso, in maniera pragmatica secondo gli interessi del momento.

Riguardo al territorio italico che si andava acquisendo, si seguirono fondamentalmente tre vie: l’incorporamento nello Stato romano, dopo aver privato le comunità preesistenti dell’autonomia politica (municipia); l’insediamento di comunità cittadine con la fondazione di una nuova città (coloniae); la stipula di accordi (foedera) che rendevano le comunità preesistenti alleate dell’Urbe entrando esse a far parte d’una specie di stato federativo.

Quest’ultimo era il sistema maggiormente impiegato nel periodo in cui la Calabria — così i nostri antichi corregionali chiamavano la terra da noi denominata  Salento — fu conquistata (266 a.C.) e che fu appunto adoperato per tutte le città salentine le quali infatti stipularono con Roma un accordo (foedus). L’unica eccezione riguardò Brindisi per la quale fu scelta la deduzione di una colonia di diritto latino.

 

Ciascuno dei sistemi indicati aveva vantaggi e svantaggi, inoltre, all’interno dello schema generale, ogni comunità poteva vedersi accordati minori o maggiori benefici. Tutto dipendeva da come si era comportato il popolo conquistato nei confronti dei Romani. In linea di principio, più ci si era opposti alla conquista e maggiori erano gli oneri imposti alla comunità; viceversa chi aveva accettato senza reagire il potere romano, riusciva a spuntare condizioni migliori.

Così, ad esempio, se organizzati in municipia, che dava luogo alla perdita dell’autonomia ma alla concessione della cittadinanza romana, nel primo caso questa la si otteneva svuotata degli effetti politici in quanto senza titolo a votare e ad aspirare alle cariche pubbliche (sine suffragio et iure honorem); nel secondo la si conseguiva a pieno titolo, al pari di un qualsiasi abitante dell’Urbe (cives optimo iure). E certamente la prima, quindi quella priva dei diritti politici, sarebbe stata la formula adottata nei confronti dei nostri antichi corregionali, qualora fossero stati inquadrati nei municipia, per il semplice fatto che non si erano sottomessi senza combattere. D’altra parte anche se avessero ottenuto la cittadinanza a pieno titolo, avrebbero avuto grande difficoltà ad esercitare i diritti politici, visto che si votava a Roma ed un viaggio di andata e ritorno richiedeva quasi un mese per essere completato, e che sarebbero dovuti comunque andare a Roma in occasione dei censimenti predisposti con scadenza quinquennale. Per cui essere organizzati in municipia5, con una cittadinanza limitata in ogni caso nei suoi principali contenuti, avrebbe voluto dire farsi carico dei soli svantaggi derivanti da una simile organizzazione. In pratica, a nessun nostro corregionale sarebbe venuto in mente di diventare allora cittadino romano, per il semplice motivo che un tale stato giuridico avrebbe comportato solo oneri e scarsi benefici pratici. In conclusione il foedus era con ogni probabilità una soluzione di gran lunga migliore.

Ma, come già detto, c’erano diversi tipi di foedera. Gli storici dell’antichità, in genere di parte romana,  qualificano unicamente quelli vantaggiosi con i termini di aequa, come l’accordo stipulato con Napoli; aequissima, quello riguardante Camerino e, aequissimum et prope singulari, cioè a dire particolarmente favorevole di cui aveva fruito Eraclea. Tuttavia, nella loro stragrande maggioranza, tali accordi non erano poi tanto “equi” e salvaguardavano prevalentemente gli interessi romani. Per quanto le fonti narrative non li caratterizzano, ci hanno pensato gli studiosi a parlare di  foedera iniqua, con cui per lo più Roma imponeva un limite alla sovranità delle città conquistate i cui cittadini divenivano così alleati (socii o foederati) dell’Urbe, in condizione però subordinata.

Il foedus nondimeno consentiva alle comunità di conservare la propria cittadinanza, le proprie leggi ed i propri ordinamenti, oltre ad una estesa autonomia di carattere amministrativo-finanziario, essendo loro lasciata l’autorità di battere moneta. Rinunciavano però — e questa era la parte iniqua — a svolgere una propria politica estera (ius belli ac pacis) rimettendosi così del tutto alle decisioni prese in merito dai Romani (servare maiestatem populi Romani). In pratica si acquisivano gli amici dell’Urbe, insieme ai loro nemici e non se ne potevano avere di propri. Nel caso dell’insorgere d’un conflitto, che solo Roma poteva avviare, c’era poi l’obbligo di fornire un contingente di truppe prefissato che operava, in posizione subalterna, nei reparti ausiliari dell’esercito romano.

Erano questi gli accordi più usuali che s’imponevano ai socii, e a queste clausole si conformarono, con le inevitabili varianti del caso quelli firmati dalle città salentine6.

Come già ricordato, l’unica che non si federò con Roma fu Brindisi, dove fu dedotta una colonia di diritto latino. Ed era questa la formula giuridica probabilmente più vantaggiosa a quell’epoca. La città ottenne questa posizione di privilegio, grazie al suo porto ed alla sua collocazione strategica, ma pure per questioni che non è qui il caso d’indagare.

Le colonie, la cui funzione prevalente era di carattere militare, ma pure un modo per diffondere la romanità, erano di due tipi: quelle romane (coloniae civium romanorum), dove chi partecipava conservava la cittadinanza romana, e quelle di diritto latino (coloniae latinae), dove i Romani che vi partecipavano dovevano espressamente richiedere di diventare Latini e registrarvi il proprio nome («qui cives Romani in colonias Latinas proficiscebantur fieri non poterant Latini, nisi erant auctores facti nomenque dederant»7), perdendo così la cittadinanza romana.

Le colonie romane erano dedotte con lo scopo principale di creare dei presidi sulle coste prossime al territorio romano; quelle latine per controllare i punti di maggiore rilevanza strategica in zone da poco conquistate e magari ancora non del tutto pacificate. Le diversità si riflettevano nei rispettivi assetti: i coloni romani, facendo parte d’un presidio cittadino, non potevano allontanarsi dalla colonia, se non per periodi limitati, non erano soggetti alla leva, non potevano emettere moneta ed avevano un’organizzazione istituzionale che si rifaceva a quella dell’Urbe; i coloni latini avevano, al pari dei socii Italici, l’obbligo di fornire un contingente militare quando Roma lo richiedeva, secondo l’elenco dei togati (formula togatorum8, vale a dire degli uomini in età per compiere il servizio militare) e di non stipulare accordi con altre città. Le colonie latine avevano, però, la particolarità di beneficiare di un’ampia autonomia interna che consentiva loro anche l’attività giurisdizionale, oltre all’adozione  d’un proprio statuto, di propri organi ed alla possibilità di battere moneta. Il diritto latino consentiva inoltre di contrarre iustae nuptiae con i cittadini romani (ius connubii, il che garantiva alla prole la fruizione dei diritti civili) e di commerciare con essi (ius commercii, per cui erano titolati a ricorrere al pretore, per tutelare i propri atti negoziali); probabilmente di acquisire la cittadinanza romana previo trasferimento a Roma (ius migrandi) ma con l’obbligo di lasciare nella città d’origine un figlio per non depauperare la colonia; di votare, se ci si trovava in quel momento a Roma, con la tribù che veniva di volta in volta sorteggiata («sitellaque lata est ut sortirentur ubi Latini suffragium ferrent»9). Non consentiva invece, almeno in quel periodo, lo ius honorum, vale a dire la possibilità di concorrere per le magistrature romane. Al pari delle città federate, anche le colonie non potevano svolgere atti di politica estera e avevano l’obbligo di  assistere Roma in qualsiasi attività militare questa intendesse avviare, fornendo, come già riportato, il contingente di truppe richiesto.

Con tutti gli indubbi problemi iniziali che la deduzione a colonia latina comportava sia per i Romani, costretti a rinunciare alla cittadinanza romana in quanto si acquisiva quella latina, sia per i locali, a causa della preliminare ristrutturazione della città che comportava una ridefinizione delle proprietà, essa rappresentava in ogni caso la soluzioni con le migliori prospettive future. Prospettive che Brindisi sfruttò appieno divenendo, proprio grazie alla configurazione giuridica allora adottata, dapprima uno dei più importanti centri della Repubblica romana e poi una delle maggiori metropoli nel periodo imperiale.

Sarà in aggiunta che i Romani non si fidavano troppo dei Tarantini ma il porto di Brindisi soppiantò del tutto quello di Taranto nelle funzioni militari e commerciali, divenendo di fatto il tramite privilegiato per l’Oriente. Taranto seppe però conservare la reputazione di città culturale e divenne un centro residenziale ambito dalle classi intellettuali agiate che vi costruirono case e ville signorili.

In definitiva a Brindisi andò di lusso e non andò male neppure alle altre città salentine: in fondo Roma si atteggiava come il buon pastore che tosa le sue pecore con riguardo, sapendo che, se le scorticasse, sarebbe il primo a perderci. Per questo motivo, ove possibile, i Romani sceglievano il tipo di organizzazione più congeniale agli interessi propri ma anche a quelli della comunità assoggettata.

 

A lungo andare gli alleati divennero sempre più dei sudditi

Questa organizzazione rispettosa delle comunità conquistate andò comunque di lì a poco in crisi e, di conseguenza, le cose incominciarono a cambiare in peggio, soprattutto a causa di una circostanza del tutto straordinaria che si concretizzò una cinquantina di anni dopo, quando Annibale invase l’Italia nell’autunno del 218 a.C.

L’arrivo e gli iniziali successi del Cartaginese riaccesero le aspirazioni di indipendenza di quasi tutte le ex colonie greche e di molti popoli italici i quali, convinti che i Romani stessero ormai per soccombere, defezionarono schierandosi con i Punici. Tra i defezionisti Livio elenca i Campani, gli Atellani, i Calatini, gli Irpini, parte degli Apuli, tutti i Sanniti tranne i Pentri, i Bruzii, i Lucani e, oltre a questi, gli Uzentini e pressoché tutti i Greci della costa, tra i quali i Tarantini («Defecere autem ad Poenos hi populi: Atellani, Calatini, Hirpini, Apulorum pars, Samnites praeter Pentros, Bruttii omnes, Lucani, praeter hos Uzentini, et Graecorum omnis ferme ora, Tarentini…»10). La ribellione di Ugento è però molto incerta, essendo la sua inclusione nella lista dei rivoltosi quasi certamente dovuta ad un errore da parte d’un amanuense che ha sostituito gli Uzentini ai molto più probabili Surrentini, i quali, non a caso, sono indicati in altri manoscritti. Comunque sia, subito dopo, a Taranto s’accodarono altri centri salentini che, però, Livio non specifica indicandoli con disprezzo città insignificanti («Sallentinorum ignobiles urbes»11), senza lasciar capire se il tono usato fosse per minimizzare l’accaduto oppure per rimarcare il loro infedele comportamento.

È invece certo che Brindisi rimase fedele a Roma e si oppose con forza ad Annibale, tanto da essere espressamente citata tra le diciotto colonie il cui aiuto consentì di far restare saldo il dominio romano e che, per questo, ricevettero il plauso ed i ringraziamenti in Senato e presso il popolo («Harum coloniarum subsidio tum imperium populi Romani stetit, iisque gratiae in senatu et apud populum actae»12).

Altra cosa certa è che l’Urbe, passata la buriana, e ripreso il controllo della situazione, si vendicò del torto subito e usò la mano pesante nei riguardi degli alleati che avevano violato i patti, imponendo clausole ancor più restrittive nei foedera stipulati. In particolare Taranto, pur riuscendo ancora una volta a limitare i danni, si vide costretta a cedere parte del suo territorio. Qui, a nord della città, in una zona strategica dell’antica periferia greca che dava diretto accesso al porto del Mar Piccolo, Roma fondò nel 123 a.C., con plebiscito proposto da Caio Gracco, Neptunia, una colonia di diritto romano con l’intento di attuare un controllo più diffuso sulla cittadina ionica.

Allo stesso tempo il possesso della cittadinanza romana incominciò a far maturare benefici economici e fiscali ai suoi possessori, discriminando sempre più gli alleati. E tale disparità di trattamento risaltava con grande evidenza in un’attività, come quella bellica, in cui i Romani e gli alleati operavano fianco a fianco. Pur partecipando attivamente alle azioni militari ed a tutti gli altri obblighi, gli alleati non godevano degli stessi vantaggi goduti dai commilitoni romani, proprio perché non fruivano della medesima cittadinanza. La disuguaglianza s’era andata accentuando già dal 167 a.C. quando, grazie al bottino ottenuto con la terza guerra macedonica, il tributum per mantenere l’esercito non fu più richiesto13 e, pertanto, i cittadini romani iniziarono a godere dell’immunità finanziaria14 mentre i socii e le colonie di diritto latino continuarono a dover sostenere le spese per l’arruolamento delle truppe che fornivano a Roma.

E le sperequazioni non erano solo di carattere monetario riguardando anche altri aspetti. Gli alleati erano ad esempio confinati nei reparti ausiliari, assoggettati a norme capestro, correndo anche il rischio d’essere condannati a morte dal console romano per un qualsiasi atto di insubordinazione, mentre, in analoghe situazioni, il legionario non poteva essere neppure sfiorato dalla frusta. Eppure il loro apporto andava aumentando: alla meta del II secolo a.C. i loro contingenti, uniti alle truppe fornite dalle colonie latine, erano in quantità pari a quello delle legioni romane; verso la fine dello stesso secolo erano addirittura corrispondenti al doppio. Ciononostante, sebbene il peso delle azioni belliche fosse sempre più addossato sugli alleati, questi si vedevano preclusa ogni possibilità di fare carriera nei ranghi dell’esercito romano e di avere al termine della ferma l’assegnazione di terre, come qualsiasi altro veterano romano.

La situazione s’inasprì ulteriormente con l’avvio, alla fine del II secolo a.C., della riforma dell’esercito che aveva come punto qualificante quello di far accedere alla carriera militare i capite censi (i nullatenenti). Una vera e propria rivoluzione in quanto, per la prima volta, le classi più umili si vedevano aperta la via all’arruolamento nell’esercito romano e, quindi, alla possibilità di partecipare al soldo ed ai vitalizi militari. Era questa un’opportunità unica di avanzamento sociale ed economico che, sino ad allora, era stata di esclusivo appannaggio della media borghesia. Tuttavia ne poterono beneficiare solo i cittadini romani, mentre gli Italici si videro preclusa anche questa occasione di sviluppo.

Di fatto, più passava il tempo e più gli alleati italici venivano trattati da sudditi, e questo alla lunga esacerbò gli animi creando una situazione esplosiva.

 

La guerra sociale

A dare fuoco alla miccia, fu un ulteriore episodio compiuto a danno degli alleati: Druso, il tribuno della plebe che aveva proposto di estendere la cittadinanza romana a tutta l’Italia15ad dandam civitatem Italiae»16), venne trovato ucciso il giorno stesso in cui il provvedimento doveva essere votato, proprio per impedire che l’iter legislativo giungesse a compimento. In precedenza anche il console M. Fulvio Flacco (125 a.C.) e poco dopo Gaio Sempronio Gracco avevano proposto invano l’estensione della cittadinanza romana alle città italiche federate ed alle colonie latine. Ma pure in quelle circostanze l’oligarchia romana s’era messa di traverso ostentando le maniere forti.

A questo punto molte delle città federate si resero conto di non avere altra scelta se non quella di prendere le armi e di muovere guerra a Roma.

In pratica, la cittadinanza romana, inizialmente con poche attrattive e quasi vissuta dagli Italici come un limite alla propria autonomia, divenne talmente ambita da spingere all’uso dei mezzi più estremi pur di ottenerla. Iniziò così nel 91 a.C. la sanguinosa rivolta, passata alla storia con il nome di “guerra sociale” perché, ad esservi coinvolti furono principalmente gli italici federati con Roma, i cosiddetti socii di Roma. I municipi che godevano già della cittadinanza romana — e che tra l’altro non avevano un proprio esercito — non avevano infatti  nessun interesse a prendervi parte. E allo stesso modo le colonie latine, con l’eccezione di Venusia, non aderirono alla rivolta e preferirono stare dalla parte dell’Urbe, il che testimonia che il regime giuridico fruito andava loro più che bene. Anche perché — va ricordato — i notabili delle colonie latine erano già stati per certi versi accontentati con la concessione dello ius adipiscendae civitatis Romanae per magistratum che consentiva di acquisire la cittadinanza romana a chi aveva ricoperto una magistratura locale17 e che, quindi, accordava loro questo beneficio per altra via.

Brindisi si schierò pertanto con Roma, e questo fu forse uno dei motivi che consiglio le altre  comunità salentine a fare altrettanto. Fa parte infatti delle fantasie «l’ultima grande ribellione guidata da Taranto nell’80 a.C.»18 di cui ci dà menzione Wikipedia in una delle sue schede più creative. Neppure Taranto osò infatti ribellarsi. Né poteva essere diversamente, considerato che di fatto aveva in casa un presidio romano, la già citata colonia romana Neptunia, pronto ad intervenire senza tante sottigliezze al minimo accenno di sollevazione.

La guerra sociale fu la prima occasione in cui trovò spazio il concetto di “Italia”, sia pur solamente inteso come comunità dei suoi abitanti. Infatti i rivoltosi, sebbene di etnie diverse, si autoidentificarono in questo nome e adottarono come proprio simbolo la figura del vitello/toro associato al nome dell’Italia. E questo emblema fu vissuto in funzione antiromana, come emerge con chiarezza nelle loro emissioni monetali in cui il toro assale e sconfigge la lupa, raffigurazione di Roma.

 

Dopo un anno in cui i risultati sul campo erano stati poco più che mediocri, mentre i dissapori interni, tra chi era favorevole a fare delle concessioni ai rivoltosi e chi considerava tale posizione un modo come un altro per sobillare ancor più gli Italici, aumentavano, comportando una pericolosa instabilità poi sfociata nella guerra civile, i Romani decisero che era meglio venire a più miti consigli. Approvarono pertanto la lex Iulia de civitate latinis (et sociis) danda (90 a.C.) con cui si concedeva la cittadinanza romana, non solo ai Latini ed agli alleati che non avevano preso le armi, ma anche a chi le avesse deposte entro un prefissato termine di tempo.

Questo dissuase le popolazioni incerte dall’entrare in lotta e creò dissensi tra gli stessi insorti.

Usando al tempo stesso carota (altri provvedimenti simili alla lex Iulia) e bastone (la spietata determinazione di Silla) si venne a capo della situazione e, di lì a breve, si riuscì a domare la sollevazione e tutte le popolazioni dell’Italia a sud della regione gallica cisalpina finirono per acquisire la cittadinanza romana.

Brindisi e le altre collettività salentine, che s’erano mantenute fedeli a Roma,  si videro pertanto assegnare la cittadinanza romana già nel 90 a. C. Questo avvenne certo a livello formale, mentre l’effettivo conferimento ebbe luogo solo qualche anno dopo (probabilmente nell’83 a.C.) in quanto, anche ai tempi dei romani, non si era del tutto liberi dalle pratiche burocratiche. Occorreva infatti censire i nuovi cittadini e ascriverli alle tribù esistenti, e questo portava via tempo.

Oltre ad integrare i nuovi cittadini nel corpo civile romano, la concessione della cittadinanza comportava anche il dover riorganizzare le città federate e le colonie latine in municipi, in quanto divenivano territorio romano. Bisognava quindi stabilire quali comunità avevano titolo ad essere elevate al rango municipale e quali a farvi parte in ruolo subordinato. Aspetto questo non certo banale — di cui si parlerà nel prosieguo soffermandosi sulle decisioni prese per le città salentine — perché i nuovi municipi avrebbero fruito di fondi per meglio garantire la loro urbanizzazione quando le altre località rischiavano, come di fatto per lo più avvenne, di essere confinate a restare zone tipicamente rurali. In questa trasformazione, c’era infine da decidere la caratterizzazione istituzionale dei nuovi municipi: magistrature, senati, assemblee cittadine e ripartizione delle relative competenze.

Proprio nell’espletamento di questi adempimenti di così varia natura, l’Urbe cercò di annacquare in una qual certa misura le concessioni fatte e di trarre comunque vantaggio da questa nuova situazione.

 

Eppure non tutti furono contenti di diventare romani

Tutti aspetti importanti, quelli appena enunciati, che per il momento però si tralasceranno per soffermarsi su una avvenimento, per certi versi curioso, a cui in genere non si dà peso e che invece merita d’essere riportato, non fosse altro per avere un quadro più realistico delle diverse posizioni assunte in merito dalle comunità coinvolte.

Come visto, la cittadinanza romana fu accordata a tutti: sia a chi aveva combattuto per ottenerla, sia a chi non l’aveva di fatto neppure richiesta. Questa circostanza viene sempre valutata nel senso che Roma, dopo aver concesso questo alto privilegio a chi aveva avviato la rivolta, non poteva non riconoscerlo anche a chi s’era mantenuto fedele, dando così per scontato che tutte le comunità avessero preferito questo nuovo stato giuridico a quello precedentemente goduto.

In effetti così non fu: alcune città, che non avevano partecipato alla rivolta, avrebbero preferito piuttosto continuare a mantenersi autonome che divenire cittadini romani inquadrati in un municipium. Naturalmente di questo coro dissenziente fecero parte le cittadine che fruivano di foedera o di statuti particolarmente vantaggiosi, tra le quali non è detto che non fosse pure compresa Brindisi.

Spulciando bene le fonti narrative antiche, si scopre infatti che le lamentele ci furono, ed anche accese. Ce ne parla Cicerone facendoci sapere che a riguardo ci fu ampia disputa a Eraclea e a Napoli, perché la gran parte della popolazione preferiva alla cittadinanza romana la libertà garantita dal trattato in precedenza stipulato («In quo magna contentio Heracliensium et Neapolitanorum fuit, cum magna pars in iis civitatibus foederis sui libertatem civitati anteferret»19). Come questa maggioranza sia poi diventata minoranza, visto che alla fine le due città si adeguarono, non è dato di sapere, sebbene sia facile immaginare che Roma abbia attuato qualche fattiva opera di convincimento, soprattutto tra le classi più umili, poco sensibili ai benefici politici concessi dall’autonomia e molto più convinti da quelli pratici conseguibili con la cittadinanza romana. D’altra parte, Cicerone ci parla incidentalmente della questione delle due città, proprio perché rappresentavano i casi più eclatanti, il che fa ragionevolmente presupporre che non furono quelle le sole comunità che espressero dissenso. E, come già riportato, magari anche Brindisi fu tra queste. Le fonti offrono appunto qualche spunto che indurrebbero a credere che la città si conformò alla soluzione imposta da Roma, ma probabilmente non tanto di buon grado.

Primo indizio. In un famoso passo, Cicerone ci racconta che nel 57 a.C., cioè a dire a distanza di quasi trent’anni dalla costituzione del municipium, i Brindisini festeggiavano ancora con grande calore il giorno natale della colonia latina20. Un evidente segno questo di grande nostalgia per il passato coloniale.

Altro indizio. Silla — che non era molto ben disponibile a concedere la cittadinanza romana alle città federate ed alle colonie latine — è nell’ 83 a.C. di ritorno dall’Oriente. Si vocifera che voglia rimettere in discussione i diritti politici già concessi dalla lex Iulia, per cui molte comunità non vogliono aprirgli le porte oppure lo accolgono a muso duro. Eppure sbarca a Brindisi in tutta tranquillità. E non solo, riceve un’accoglienza talmente entusiasta  che, in cambio, si sente in obbligo di gratificare la città dall’esenzione delle tasse («Δεξαμένων δ’ αὐτὸν ἀμαχεὶ τῶν Βρεντεσίων, τοῖσδε μὲν ὕστερον ἔδωκεν ἀτέλειανviene»21).

Un atteggiamento in apparenza strano in chi, aspirando alla cittadinanza, avrebbe dovuto parteggiare per la fazione opposto o, quantomeno, mostrare meno entusiasmo per Silla, ma che rientra nella normalità delle cose, se si pensa che la classe dirigente brindisina aveva tutto da perdere e nulla da guadagnare dal cambiamento istituzionale. I magistrati locali avevano già ottenuto la cittadinanza romana in forza dello ius adipiscendae civitatis per magistratum e le novità toglievano loro buona parte del potere organizzativo, oltre a vedersi sottratta la possibilità — questione questa non certo di poco conto — di battere moneta, in quanto competenza preclusa ad un municipium.

Ultimo indizio. Ci si è sempre chiesti come mai i Brindisini, che pure erano sempre stati fedeli alleati dell’Urbe, furono gli unici tra i salentini ad essere iscritti nella tribù Maecia, che era allora un modo evidente per isolarli, quasi avessero commesso una qualche colpa. Quale fosse la loro mancanza lo si può forse ricavare dal fatto che nella stessa tribù fu inserita Napoli, vale a dire proprio una delle città che più s’erano opposte ad accettare lo statuto municipale. Il che fa sospettare che pure Brindisi avesse manifestato, più o meno vivacemente, le medesime perplessità, e che, per questo, fosse stata anch’essa in un qual certo modo punita.

Comunque siano andate le cose, c’è motivo per ritenere che un qualche rimpianto per il passato ebbe forse modo di  palesarsi e, al tempo stesso, non fu certo facile per i Brindisini metabolizzare la perdita dell’autonomia che, per quanto formale, rappresentava tuttavia un tratto distintivo della vita cittadina.

In ogni caso, certo è che in quel lontano 83 a.C. la gloriosa colonia di diritto latino di Brindisi chiuse per sempre i battenti.

E, qualunque cosa ne possano pensare gli estimatori della “pregevole” cittadinanza romana, non fu certo un giorno da segnare, come avrebbe detto Catullo, con una piccola pietra più bianca delle altre.

 

I passaggi burocratici per divenire municipium

Come anticipato, Brindisi, Taranto e le altre comunità della Calabria divennero in linea teorica territorio romano nel 90 a. C., tuttavia per la concreta fruizione della cittadinanza romana la lex Iulia prevedeva, oltre alla clausola di non essere in guerra con Roma, quella del fundus fieri. Questa formula, per quanto letteralmente indecifrabile, considerato che la sua traduzione letterale, “farsi fondo”, risulta del tutto incomprensibile, non pone dubbi interpretativi sul perché fosse stata inserita nella norma. Roma si vedeva costretta a concedere ai rivoltosi la cittadinanza romana e, naturalmente, era forzata a farlo anche con le altre città che le erano rimaste fedeli. Tuttavia, da un punto di vista formale, le autorità romane non volevano che fosse considerata come un obbligo cui loro sottostavano, quanto piuttosto una graziosa elargizione da loro fatta alle comunità italiche. In aggiunta, da  un punto di vista sostanziale, tale concessione non poteva essere fatta lasciando in vita i precedenti statuti in quanto, in taluni casi, essi consentivano un’autonomia che rischiava di confliggere con il nuovo tipo di rapporto che si stava venendo ad instaurare. Era evidente che la cittadinanza poteva essere concessa solo se le comunità avessero recepito, preliminarmente ed in toto, il diritto romano rinunciando così al diritto locale. In definitiva, in cambio della cittadinanza, le comunità dovevano preliminarmente aderire alla totalità delle norme municipali e, più in generale, a quelle del diritto romano («iura populi romani»), rinunciando così alla formale autonomia che i trattati precedenti avevano conferito loro. Ed è proprio in tale fase che certamente Napoli ed Eraclea — e forse Brindisi e qualche altra città — tentarono di mantenere i loro antichi privilegi, senza però, come visto, riuscirci.

Dopo l’accettazione del fundus fieri, c’erano poi un paio di passaggi burocratici da superare: il censimento e l’assegnazione ad una delle tribù romane.

Non è dato di sapere quando questi adempimenti siano stati fatti  perché, quasi insieme alla guerra sociale, era scoppiata la guerra civile che vedeva coinvolti Silla da una parte e Mario – e poi Cinna – dall’altra, ed in questo periodo turbolento le fazioni in lotta si alternavano al potere, facendo e disfacendo le cose in così rapida successione da rendere difficile una puntuale datazione dei singoli avvenimenti. C’era infatti un’importante questione da dirimere in via preliminare, vale a dire il peso politico da dare a questi nuovi cittadini. La parte elitaria degli optimates (ottimati, testualmente i migliori) sostenitrice di Silla, non voleva che l’alto numero dei nuovi cittadini facesse prendere loro il sopravvento nelle decisioni politiche; la fazione populares (popolari, in quanto difensori delle istanze del popolo), capeggiata da Mario e Cinna, intendeva invece mettere tutti i cittadini, vecchi e nuovi, sullo stesso piano.

Per comprendere meglio il motivo del contendere, ci si deve soffermare, sia pure semplificando al massimo, sulle sedi e sulle modalità di espressione del potere popolare previste dalla legislazione romana.

I cittadini romani contribuivano alla gestione dello Stato svolgendo funzioni legislative, elettorali e giurisdizionali nelle assemblee (comitia e concilia) le principali delle quali erano, nel periodo trattato, i comitia centuriata (comizi centuriati), i comitia tributa (comizi tributi) ed i concilia plebis (concili della plebe). Nei comizi tributi e nelle assemblee della plebe il popolo era ripartito per tribù, termine questo che non va inteso in senso moderno, come gruppo etnico che costituisce un organismo sociale ben determinato, ma in senso storico che, riguardo alle antichità romane, caratterizzava nello specifico la suddivisione amministrativa e territoriale dello stato romano. Nell’ambito dell’organizzazione amministrativa dell’Urbe, le tribù rappresentavano le circoscrizioni territoriali entro cui venivano ripartiti i cittadini romani per effettuare i censimenti, le leve militari e fissare il relativo tributo22. In seguito, quando con la professionalizzazione dell’esercito le leve non furono più fatte ed il tributo non più richiesto, le tribù finirono per identificarsi con i distretti elettorali per l’esercizio dei diritti politici. Ed era proprio per motivi collegati all’espressione del voto che ogni cittadino romano era allora assegnato ad una tribù.

C’è da aggiungere inoltre che per gli esiti delle votazioni delle assemblee popolari non si teneva conto dei voti espressi dai singoli cittadini ma di quelli espressi dalle tribù, ciascuna considerata nel suo complesso. Infatti le unità votanti non erano i cittadini ma le tribù, sicché si votava per tribù ed il voto della tribù era quello espresso dalla maggioranza dei suoi componenti. In definitiva, dal momento che le tribù previste erano allora 35, bastava che 18 di esse si esprimessero in senso favorevole perché un provvedimento fosse approvato.

Gli Ottimati, in considerazione del numero abbondantemente superiore dei nuovi cittadini rispetto ai veteres cives (vecchi cittadini), temevano che essi avrebbero potuto imporre il proprio volere all’interno delle singole tribù, condizionando a loro favore le votazioni. Per questo, per contenere il loro peso politico li fecero inizialmente distribuire in otto (o, al massimo, dieci23) tribù, per altro soprannumerarie e destinate a votare dopo le altre trentacinque tribù affinché il loro voto risultasse meno influente24. Tale decisione, che creò più d’un malumore, fu però poi modificata dai Popolari che, per garantire uguali diritti a tutti, riuscirono a far approvare che i nuovi cittadini fossero ripartiti in tutte le trentacinque tribù già esistenti. E fu questa la decisione definitiva, adottata presumibilmente non prima dell’83 a.C.

 

I criteri di scelta dei municipia

C’era inoltre un altro problema gestionale di non poco conto da risolvere, vale a dire quali città meritassero d’essere elevare al rango di municipio e quali no. Le comunità da municipalizzare erano infatti diversamente organizzate essendoci, nel vasto territorio degli ex-alleati, insediamenti di differente natura. C’erano zone dove si trovavano stanziamenti aventi già una configurazione da città-stato (ad esempio le aree etrusche e quelle delle ex-colonie greche), in cui la scelta era in pratica obbligata, ed altre (le aree italiche tra le quali quelle della penisola salentina) che avevano rari centri con uno sviluppo urbano equiparabile ad una città e che, pertanto, non potevano per lo più contare su una struttura politico-amministrativa autonoma, tanto da essere considerati delle borgate (vici) o delle semplici compagini rurali (pagi), tra i quali la scelta non era per niente pacifica. Nel primo caso, si trovavano infatti già presenti le strutture fondamentali per ospitare il costituendo municipium; nel secondo, invece occorreva scegliere quali centri dovessero divenire municipio — e, nel contempo, prevedere gli interventi necessari per adattarli alle nuove esigenze — e quali dovessero essere relegati ad un ruolo secondario, inglobati nei costituendi municipi magari come zone rurali che ne avrebbero irrimediabilmente condizionato lo sviluppo futuro. In quest’ultima condizione si trovavano, come già anticipato, le zone italiche e, tra queste, a parte Brindisi e Taranto, le comunità della penisola salentina.

Non esiste documentazione da cui desumere quali siano stati i reali criteri adottati per fare una simile scelta, sebbene si possa  ipotizzare che le località furono valutate in base al livello di urbanizzazione già in atto, all’importanza da tempo acquisita e, come avveniva di solito in queste circostanze, ai comportamenti tenuti in passato nei confronti di Roma.

Non è d’altra parte questo il solo punto oscuro. Restano infatti dibattuti altri aspetti giuridici, tra i quali quello di maggior rilievo riguarda le modalità con cui la riorganizzazione dei territori fu compiuta, in particolare se si cercò di normalizzare i nuovi municipi, imponendo dall’alto un modello statutario, oppure no. In altre parole, se il processo di municipalizzazione avvenne riproducendo, sia pure in scala ridotta, il sistema costituzionale operante nell’Urbe o se avvenne, come accaduto nei periodi precedenti la guerra sociale, lasciando alle singole comunità margini di scelta. Qualunque sia stata la decisione assunta in merito, certo è che, verificando gli effettivi esiti della municipalizzazione, si ha un quadro quasi uniformemente diffuso riguardo alle magistrature di maggior peso e alla composizione dei senati e delle assemblee dei nuovi municipi. Una uniformità che si otterrebbe ben difficilmente per spontanea adesione, e che fa quindi presupporre l’esistenza e la realizzazione d’un piano ben preciso ideato in sede centrale. D’altra parte il fatto stesso della presenza della clausola del fundus fieri, la quale come visto prevedeva la formale accettazione del diritto romano, farebbe propendere per l’adozione di statuti, in un certo qual modo, standardizzati.

Comunque sia andata, vediamo cosa presumibilmente fu deciso per le comunità salentine, cioè a dire quali furono i possibili centri elevati al rango di municipium, le tribù cui essi furono assegnati e quali gli assetti istituzionali assunti.

 

I municipi romani istituiti nella penisola salentina

Nel nord della Calabria, divennero di certo municipi le città di Brindisi, Oria e Taranto, mentre non ottennero tale rango località di pur antica tradizione in quanto decaduti, quali Manduria, Mesagne, Muro Tenente e Valesio. Manduria fece certo parte, insieme a Li Castelli, del municipio di Oria; Mesagne, insieme a Muro Maurizio e Valesio, di quello di Brindisi; dubbia la destinazione di Muro Tenente, che molti ipotizzano aggregata a Brindisi mentre io vedrei piuttosto associata ad Oria. Nel Centro, la scelta cadde su Rudiae e Lecce. Nel Sud, con ogni probabilità, su Nardò, Otranto, Gallipoli, Alezio, Ugento e Vereto.

La ricostruzione da me compiuta si basa sulla consistenza ipotizzabile in base alle ricognizioni archeologiche e all’importanza degli insediamenti desumibile dagli scritti dei geografi e naturalisti dell’antichità, oltre che alla loro collocazione rispetto alla rete viaria del tempo. Se certamente su Brindisi e Taranto non c’è discussione, lo stesso dovrebbe essere per Oria e Rudiae (sia per la consistenza, sia per la posizione), per Nardò e Ugento (in questi casi soprattutto per la consistenza), per Lecce, Alezio e Vereto (in prevalenza per la collocazione). Qualche dubbio ci sarebbe per Gallipoli e Otranto, però posizionate in punti troppo strategici perché i Romani non ne abbiano voluto favorire la crescita prevedendo l’istituzione d’un municipium, magari in un momento immediatamente successivo.

Per quanto riguarda le tribù di assegnazione, è possibile formulare ipotesi certe solo su Brindisi (tribù Maecia), Taranto (Claudia), Rudiae (Fabia), Lecce (Camilia), Gallipoli (Fabia) e Vereto (Fabia). Forse anche Alezio fu aggregata alla tribù Fabia, mentre per Oria, Nardò, Otranto e Ugento non esiste il più lontano indizio di quale possa essere stata la tribù di destinazione. A tali conclusioni portano soprattutto le fonti epigrafiche.

 

Gli organi dei municipia salentini

Passando all’organizzazione statutaria, occorre ricordare che la tradizione repubblicana osteggiava l’uomo solo al comando, sicché l’unico organo monocratico previsto dall’ordinamento romano era il dictator (dittatore), per altro magistratura straordinaria, utilizzata quindi eccezionalmente e per periodi limitati nei soli momenti di grave pericolo. Per il resto la costituzione romana si affidava in maniera esclusiva agli organi collegiali. Per lo stesso motivo i municipi romani non avevano un corrispettivo del nostro sindaco ma un istituto collegiale responsabile della gestione amministrativa della città. Nei municipi salentini il collegio dei massimi magistrati cittadini fu composto da quattro membri (quattuorviri)25, ripartiti in due coppie: i due quattuorviri iure dicundo ed i due quattuorviri aedilicia potestate. La prima coppia aveva un ruolo prioritario, assimilabile a quello svolto a Roma dai consoli.

A questi due magistrati — chiamati per semplicità giusdicenti, perché esercitavano tra le altre funzioni la giurisdizione civile e penale — spettava anche l’eponimia in ambito cittadino, presiedere e convocare il consiglio comunale e le assemblee popolari, sovrintendere alle responsabilità di culto e ad amministrare le finanze comunali. Nell’ambito delle loro prerogative, godevano di un’ampia autonomia organizzativa, però rispondevano personalmente di eventuali problemi di carattere economico e dovevano risarcire il municipio per qualsiasi dissesto finanziario conseguente ad una loro decisioni. Per questo, all’assunzione dell’incarico dovevano versare una cifra consistente, denominata summa honoraria, utile a coprire ammanchi di vario genere. Di conseguenza potevano aspirare ad un simile incarico solo i cittadini particolarmente danarosi.

Anche la seconda coppia, quella dei due quattuorviri aedilicia potestate, doveva essere finanziariamente ben attrezzata. La locuzione aedilicia potestate racchiudeva infatti funzioni riguardanti il mantenimento dell’agibilità delle strade, degli edifici pubblici e dei templi ma pure l’approvvigionamento della città e il garantire una vita pubblica regolata tramite il corpo di polizia urbana. Nello svolgimento di tale incarico non si potevano accampare scuse di bilancio: se una strada era dissestata, bisognava aggiustarla, magari in parte o in toto a proprie spese, e non limitarsi, come avviene ora, a mettere un cartello avvisando di fare attenzione perché la strada è danneggiata.

Dai magistrati si pretendeva la diligentia, vale a dire l’essere scrupolosi nell’adempimento dell’incarico ed un atteggiamento solerte e sincero (sine dolo malo) non fingendo quindi una cosa per poi farne un’altra. Pulizia d’animo che dovevano manifestare sin dal momento in cui proponevano il proprio nome nelle riunioni (contiones) delle assemblee (comitia) popolari, vestiti con una toga sbiancata in modo da essere candida, circostanza questa che diede origine al termine “candidato”.

Da un punto di vista politico, il ruolo dei due quattuorviri iure dicundo era quello più prestigioso e costituiva di fatto l’apice delle cariche magistratuali previste dal cursus honorum (letteralmente, corso degli onori, nel senso di sequenza delle cariche pubbliche) municipale. Ed erano infatti loro a ricoprire, a scadenza quinquennale, il ruolo di quinquennales, cioè a dire di censori, che aveva un valore davvero speciale in antichità, in quanto conferiva il compito di stabilire il “censo” di ciascun cittadino, fissandone così la relativa posizione sociale, ma pure di valutare la loro condotta morale. Una bocciatura da parte dei censori incideva di fatto sul bene allora più tenuto in considerazione, il buon nome, e conduceva inevitabilmente all’emarginazione sociale e politica. La nota censoria, con cui i censori riprendevano un cittadino, era una vera e propria sanzione politica comminata a chi s’era macchiato di comportamenti indegni, che comportava  l’espulsione dal decurionato, dall’ordine equestre e, per il semplice cittadino, dalla tribù.

I quattuorviri duravano in carica un anno ed erano eletti dal populus, composto dai cives  (cittadini di pieno diritto del municipio) e dagli incolae (per lo più forestieri che avevano ottenuto di risiedere nel territorio municipale), ripartiti in distretti politico-amministrativi chiamati curie.

Come gli attuali comuni, anche i municipi salentini prevedevano un organo collegiale di base, assimilabile al nostro consiglio comunale, con funzioni normative, finanziarie e di controllo. A quel tempo un simile ente era denominato ordo decurionum, sicché i consiglieri comunali erano chiamati decuriones o, meno spesso, curiales, perché le loro riunioni avvenivano nelle curie.

Le regole per diventare decuriones erano per certi versi molto più rigide rispetto a quelle attuali per diventare consigliere comunale. L’ufficio era vitalizio e la composizione era decisa dai censori che ogni cinque anni stabilivano, nella cosiddetta lectio senatus (letteralmente, scelta del senato), inserimenti, subentri e decadenze, in base a criteri che tenevano conto del censo, dell’età, della residenza, della onorabilità e della stima goduta dai designabili. Per ambire alla carica di decurione, bisognava infatti godere: dei diritti politici, di un reddito annuale di almeno 100.000 sesterzi (all’incirca 400.000 € attuali) e d’una età non inferiore ai trent’anni. In aggiunta occorreva: essere domiciliati nella città da almeno cinque anni; essersi comportati sempre in maniera inappuntabile e, infine, di non aver mai esercitato mestieri infamanti (in pratica, non aver mai fatto l’attore, il banditore, il tenutario di case di tolleranza, l’impresario di pompe funebri ed il gladiatore). Erano questi i requisiti ritenuti essenziali per accedere e svolgere nel migliore dei modi gli honores, termine con cui venivano appunto caratterizzate le massime magistrature statali, in quanto tali incarichi davano l’onore di adempiere un officium (un obbligo) e non utili monetari o di altra natura. Pertanto, al pari dei quattuorviri, la carica di decurione non comportava l’accredito di assegni mensili o vitalizi ma, al contrario, il dover spesso far fronte di tasca propria a spese di utilità pubblica, fossero esse correnti oppure straordinarie.

Se qualcuno a questo punto avesse modo di chiedere loro chi glielo faceva fare, si sentirebbe rispondere con una semplice parola: existimatio, come dire per la stima ed il credito che tali compiti, svolti nel migliore dei modi, consentivano di ottenere presso i concittadini.

Fare politica ad un certo livello era in definitiva un punto d’onore e, al tempo stesso, motivo di prestigio e di riconoscimento.

 

Note

1 Livio (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Dalla fondazione di Roma, XXIII 20, 2.

2 Ibidem, XXIII 20, 2.

3 Ibidem, XXIII 20, 2.

4 Diiodoro siculo (I secolo a.C.),  Biblioteca Storica, XXXVII 18.

5 Il municipium era in origine una città privata dell’autonomia politica e soggetta ad oneri, come si evince dal termine stesso che riflette la condizione di dover sopportare (capere) obblighi (munera), e rappresentava il sistema organizzativo con cui Roma annetteva un territorio conquistato.

6 Le colonie greche avevano con ogni probabilità maggiore capacità contrattuale delle comunità italiche, sicché riuscivano a strappare condizioni  in genere più vantaggiose. Così almeno avvenne per Taranto rispetto a tutte le altre città salentine, fatta eccezione di Brindisi, dove venne dedotta una colonia.

7 Cicerone (II secolo a.C. – I secolo a.C.),  De domo sua, 77.

8 Nella lex agraria epigrafica del 111 a.C. figura l’antica locuzione «socii nominisve latini, quibus milites ex formula togatorum inperare solent» (gli alleati ossia il nome latino, ai quali [i Romani] comandano di fornire i soldati sulla base della formula dei togati).

9 Livio, Cit., XXV 3, 16.

10 Ibidem, XXII 61, 11-12.

11 Ibidem, XXV 1, 1.

12 Ibidem., XXVII 10, 7-9.

13 Cicerone, De Officiis, II 22, 76. «Paulus tantum in aerarium pecuniae invexit, ut unius imperatoris praeda finem attulerit tributorum» (Emilio Paolo riempì così tanto l’erario di denaro che il bottino d’un solo generale fu sufficiente a porre fine alle tasse).

14 I cittadini romani erano inoltre esentati da qualsiasi imposta fondiaria sui possessi in Italia.

15 In quel periodo s’intendeva per Italia la parte di penisola a sud della regione gallica cisalpina.

16 Velleio patercolo (I secolo a.C.– I secolo d.C.), Historiae Romanae, II 14, 1.

17 Asconio (… – II secolo d.C.), In Pisonem, A.C. CLARK, 1907, p. 3. Incerta la datazione del provvedimento che viene comunque fissata per gli ultimi decenni del II secolo a.C.

18 Per consultare la scheda,  https://it.wikipedia.org/wiki/Salento#Storia (consultata il 23.03.2022).

19 Cicerone, Pro Balbo, VIII 21.

20 Cicerone, Lettere ad Attico, IV 1, 4.

21 Appiano (I secolo d.C. – II secolo d.C.), Le guerre civili, I 9, 79.

22 Non a caso, il termine tributum derivava appunto da tribus.

23 Velleio patercolo, Cit., II 20, 2, parla di otto tribù; appiano, Cit., I 49, di dieci.

24 C’è da rammentare che le tribù non votavano in contemporanea ma in sequenza, sicché c’era il rischio che quelle scelte a votare per prime potessero con il loro voto influenzare le altre. Per evitare ché le fazioni  utilizzassero  l’ordine con cui le tribù votavano per condizionare a proprio favore il voto, da un certo momento in poi si ricorse al sorteggio. S’aggiunge che le votazioni venivano dichiarate concluse quando diciotto tribù s’erano espresse allo stesso modo, essendosi ottenuta la maggioranza prevista.

25 Qualche decennio dopo, a metà circa del I secolo a.C., Taranto adottò, in luogo del quattuorvirato, il duovirato, come testimoniato dall’epigrafe bronzea riportante alcune parti dello statuto tarantino (lex municipii Tarentini).

Libri| El italiano, di Arturo Pérez-Reverte

EL ITALIANO’ il romanzo storico dello scrittore spagnolo Arturo Pérez-Reverte che racconta con estro gli attacchi a Gibilterra condotti dai ‘Siluri a Lenta Corsa’ discendenti diretti di quei MAS che da Brindisi avevano iniziato la loro serie di successi strepitosi

di Gianfranco Perri

L’anno scorso a settembre ero di nuovo a Madrid, mese perfetto per un soggiorno che definir piacevole sarebbe probabilmente riduttivo. Lo scorso anno poi, grazie – si fa per dire – alla pandemia, il settembre ‘madrilegno’ si è arricchito di un evento generalmente destinato a svolgersi in primavera: la fiera del libro, giunta per l’occasione alla sua ottantesima edizione. Un evento culturalmente – e non solo – importantissimo per la voluminosa e prestigiosa letteratura spagnola, anzi di lingua spagnola, comprendente quindi anche tutta quella, per molti versi interessante, sudamericana. L’anno scorso, nonostante la pandemia, allestita nel magnifico scenario offerto dal ‘Parque El retiro’ ha contato con 320 stands – tra editori, librai, distributori e istituzioni – e si è svolta durante diciassette giorni: dal 10 al 26 settembre, accogliendo l’incredibile numero di 380.000 visitatori, in media più di 22.000 al giorno.

Ebbene, inevitabile – finanche per un visitante distratto – notare, già ai primissimi approcci con gli stands, la presenza discreta ma insistente di un libro dal titolo, per essere in Spagna, un po’ insolito, dalla copertina in bianconero, anzi in bruno-bianconero, con in primo piano una figura d’uomo vestito da palombaro camminando con l’acqua alle ginocchia tenendo la maschera con la mano sinistra e in atteggiamento tra l’assorto e il preoccupato, ma comunque tranquillo e sicuro di sé. Il titolo del libro? «El italiano» di Arturo Pérez-Reverte.

Con quel titolo, naturalmente, non poteva che richiamare d’immediato tutta la mia attenzione, e così, già al secondo stand lo stavo sfogliando, e già al terzo stand lo stavo comprando:

«Ultimi giorni del 1942: Elena, libraia ventisettenne, mentre all’alba passeggia sulla spiaggia vicina alla sua casa in Algeciras – sulla costa spagnola di fronte allo sperone di Gibilterra – s’imbatte nella figura evanescente d’un uomo giovane riverso tra la sabbia e l’acqua, indossando una muta da sommozzatore e dall’inoccultabile espressione ancora svanita. Più o meno conscia di quel che quell’uomo possa essere e possa rappresentare, lo soccorre, ignorando che quella determinazione cambierà la sua vita e che l’amore sarà solo parte di un’avventura molto pericolosa…»

Ovviamente, ho da subito inteso di cosa si parlava; troppi e molto chiari gli indizi in quelle poche righe che, infatti, così proseguivano: «’El italiano’ relata una impressionante storia di amore, mare e guerra. Negli anni 1942 e 1943, durante la Seconda guerra mondiale, incursori subacquei italiani, con una serie di missioni affondarono o danneggiarono seriamente ben quattordici mezzi navali alleati presenti nella base navale di Gibilterra nella baia di Algeciras. In questo romanzo, ispirato a fatti realmente accaduti, sono immaginari solamente alcuni dei personaggi così come alcune delle situazioni.»

Il romanzo – di uno scrittore già di fama notevole in Spagna e già autore di altri numerosi romanzi storici di successo – con le sue quattrocento pagine, lette quasi tutto d’un fiato, mi è piaciuto molto e spero possa essere presto editato anche in lingua italiana affinché molti altri italiani possano, ne son certo, apprezzarlo. È anche il caso di segnalare che ‘El italiano’ è stato il libro più venduto tra le migliaia di libri presenti nella Fiera del libro di Madrid 2021.

Arturo Pérez-Reverte è nato a Cartagena, in Spagna, a fine 1951. È stato giornalista di guerra per più di vent’anni, coprendo da reporter numerosi conflitti armati in Africa, America ed Europa, per giornali, radio e televisione. A Cipro, in Libano, in Eritrea, nel Sahara, alle Falkland, in El Salvador, in Nicaragua, in Ciad, in Libia, in Sudan, in Mozambico, in Angola, nel Golfo, in Tunisia, in Romania, in Croazia e in Bosnia. Con oltre venti milioni di lettori in tutto il mondo, alcuni dei suoi romanzi sono anche stati trasformati in film. I suoi numerosi titoli permangono presenti sugli scaffali bestseller delle librerie, anche oltre i confini spagnoli. Ha ricevuto infatti importanti riconoscimenti letterari internazionali ed è stato tradotto in più di 40 lingue. Oggi si dedica esclusivamente alla letteratura e condivide la sua vita tra letteratura, mare e navigazione: le sue passioni.

Ma torniamo a “El italiano” e facciamolo con parole dell’autore, con alcune delle cose dette in occasione della presentazione di questo suo ultimo romanzo, il 21 settembre 2021, proprio a Gibilterra, sullo scenario del libro, quello di un dramma quasi incredibile e pur verissimo.

« Quando avevo undici anni, mio padre mi portò al cinema a vedere ‘I due nemici’ con David Niven e Alberto Sordi. E all’uscita mi disse: “Non credere che gli italiani fossero tutti come Alberto Sordi nel film; hanno fatto anche cose molto coraggiose” e mi raccontò della X Mas. Perciò ho da sempre voluto scrivere quella storia e così ho continuato per anni ad accumulare documentazione ed ho anche visto qualche “maiale” nei musei di Venezia e La Spezia. Il romanzo è andato maturando per anni nella mia testa, perché un romanziere è ciò che legge, ciò che ricorda e ciò che immagina. Tra le mie letture sull’argomento, il classico ‘Suicide Ships’ di Luis de la Sierra, e i più moderni ‘Le scorribande della Decima flottiglia Mas’ e ‘Platea’ di Esteban Pérez Bolívar. Ricordo anche il film ‘The Silent enemy’ di William Fairchild. E ricordo bene il vecchio coltello di un sommozzatore italiano che un amico giornalista di Gibilterra, Eddie Campello – sì, lo stesso nome che compare nel romanzo – una volta mi mostrò…»

Poi, segnalando verso ovest, verso il mare e Algeciras: « Ecco da dove vennero, nel secondo molo che da qui si può vedere in lontananza era ancorata l’Olterra, il cavallo di Troia, la nave mercantile italiana presumibilmente in riparazione che nascondeva la base dei “maiali” e da cui attraverso una botola partì il gruppo dell’Orsa Maggiore per andare all’attacco. Vennero con i loro siluri come fossero sedili, con l’acqua fino al petto, e quando raggiunsero il varco si immersero per superare le reti di difesa per poi attaccare e affondare alcune delle navi ormeggiate. Immaginate come deve essere stato attraversare quello spazio di mare sporco e pericoloso, di notte, con il freddo e con il nemico in guardia. Bisognava essere di pasta molto speciale – e fu il loro grande vantaggio – per poter fare quelle cose che gli inglesi non si potevano nemmeno immaginare. A Gibilterra affondarono ben quattordici navi alleate e alcuni di quei sommozzatori d’assalto italiani rimasero uccisi. Ebbene, tutto questo è ciò che io ho voluto tradurre in romanzo. Però, le azioni condotte e le circostanze narrate, gli episodi storici raccontati insomma, sono stati la realtà (*). Una realtà così spettacolare da lasciare ognuno stupefatto e, infatti, il mio romanzo è stato anche frutto del mio stupore…

Laggiù c’è anche la spiaggia dove all’inizio della storia, la protagonista – Elena Arbués – trova il sommozzatore – il sottufficiale italiano Teseo Lombardi – steso sulla sabbia: una donna sulla spiaggia, un uomo esausto in tuta di gomma restituito dal mare e una nave in fiamme in lontananza. Elena, donna di grande cultura classica, ha una libreria che si chiama Circe; Teseo, non è il tipico eroe che ha sangue sulle unghie e nella sua memoria, ma, invece, è primitivo, puro, non malevolo, persino ingenuo, non parla e non legge. Ed è, infatti, proprio la protagonista, col suo sguardo allenato alla lettura, in Omero, in Tucidide, in Senofonte, in Virgilio, che fa di lui un eroe. Ed alla fine, lei sarà più audace, eroica, avventurosa di lui…

Nel mio romanzo c’è il Mediterraneo come patria culturale, il luogo da cui provengono gli eroi che son rimasti ben saldi nella nostra testa. La mia storia è un omaggio al Mediterraneo classico, alla cultura della memoria del nostro mare, e una rivendicazione di tutti quegli eroi. Un atto di giustizia per ridare dignità a quegli audaci sommozzatori della X Mas e, per inciso, ai combattenti italiani della seconda guerra mondiale, spesso vituperati e ingiustamente sottovalutati, specialmente dagli anglosassoni, E poi c’è Gibilterra, un confine, e le cose importanti succedono ai confini, dove si trova sempre una grande ricchezza di personaggi e di situazioni, un palinsesto di tante storie ed imprese umane.»

Così, invece, il giornalista Jacinto Antón del quotidiano El Pais intitolò quella presentazione: «Arturo Pérez-Reverte s’immerge con una storia d’amore nella grande avventura dei sommozzatori italiani della seconda guerra mondiale: ‘El italiano’ un romanzo sugli audaci attacchi dei siluri guidati dagli uomini della Decima Flottiglia Mas alla base britannica di Gibilterra. Le gesta belliche dei mitici incursori della X Mas del principe nero Junio Valerio Borghese, un’élite di nuotatori d’assalto, antecedenti italiani dei ‘navy seals americani’ che, cavalcando i loro instabili e pericolosi “maiali” – come chiamavano i loro mezzi di trasporto, le loro armi, i “Siluri a Lenta Corsa” – s’infiltrarono più volte nei porti britannici del Mediterraneo ed affondarono le navi da guerra alleate. Missioni quasi suicide che suscitarono lodi da parte dello stesso Churchill e l’invidia dei tedeschi. Gli attacchi ad Alessandria, a Creta, a Malta e a Gibilterra, rivendicarono per sempre, nonostante i luoghi comuni, gli italiani come guerrieri di prima classe.»

Lo scrittore spagnolo Arturo Pérez-Reverte, che non disdegna certo la sana polemica, ha anche voluto cogliere l’occasione della presentazione di questo suo recente romanzo per deplorare “la terribile tendenza molto spagnola a non riconoscere il valore dei nemici politici”. Sottolineando in proposito, che “si può riconoscere che Franco è stato un coraggioso comandante della Legione, senza con ciò dover  negare che fosse un sinistro dittatore”.

In Italia, invece, da parte di alcuni si fa anche di peggio: si ha la tendenza a non riconoscere il valore, e finanche a nascondere l’eroismo, di uomini “aprioristicamente e subdolamente” supposti essere nemici “ideologici” sol perché agirono in uniforme militare, durante un periodo storico in cui lo Stato di turno meritò poi di essere esecrato. E gli esempli sono tanti. Non ancora proprio una ‘italian cancel culture’, quanto una specie di ‘damnatio memoriae’.

Arturo Pérez-Reverte: sullo sfondo la baia di Algeciras

 

La motonave “Olterra”

 

L’incursore “Gamma”

 

Due incursori su un SLC

 

 

Dal romanzo alla realtà

Anche se, come del resto è normale e giusto che sia, l’autore ha introdotto alcuni elementi e personaggi immaginari nel suo racconto – “con la certezza che, paradossalmente, la finzione permette penetrare ancor più nell’accaduto che il semplice relato dei fatti” – la realtà storica delle vicende di questo romanzo non è certo rimasta mistificata, anzi, tutt’altro. Le missioni degli intrepidi sommozzatori italiani della X Mas condotte contro la base britannica di Gibilterra furono parecchie, nove per l’esattezza, alcune di esse con esito positivo altre negativo, alcune con caduti e prigionieri altre senza soffrire perdite. Ebbene, furono le ultime tre – la B.G.5 la B.G.6 e la B.G.7 – quelle che, partite dalle viscere della motonave Olterra, se pur intrecciate in una specie di compendio, fanno da sottofondo alle pagine di ‘El italiano’. La B.G.5 fu eseguita nella notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1942 da sei incursori su tre Siluri a Lenta Corsa – SLC – al comando del Tenente di Vascello Licio Visintini, capo di quella Squadriglia dell’Orsa Maggiore da lui stesso ideata e meticolosamente addestrata al riparo della motonave Olterra da cui partirono i tre “maiali” alla volta della rocca: fu quella la prima,  e l’unica con esito negativo e tragico, delle tre operazioni intraprese dall’Olterra. Seguirono le altre due missioni, condotte rispettivamente l’8 maggio e il 4 agosto 1943, entrambe con tre SLC e con esito positivo: rientro indenne dei rispettivi sei incursori e tre obiettivi colpiti ogni volta per un totale di 42.782 tonnellate di navi nemiche affondate.

Discendenti in primo grado dalla Torpedine Semovente Rossetti, nota come “mignatta” a sua volta variante dei famosi MAS, gli SLC – Siluri a Lenta Corsa – più popolarmente chiamati “maiali”, durante la seconda guerra mondiale portarono a segno numerose azioni contro la flotta alleata, penetrando nelle più importanti basi navali nemiche, strategicamente ubicate nel Mediterraneo. Seguendo quindi le orme di quei MAS che già nella prima guerra mondiale si erano superati in valore e gloria, attaccando e abbattendo la potente flotta austro-ungarica schierata nell’Adriatico, fino ad affondarne anche la nave ammiraglia, la corazzata Szent István il 10 giugno 1918 nell’impresa di Premuda al comando di Luigi Rizzo.

MAS che avevano già portato a segno numerose azioni vincenti: le prime, il 7 e il 26 giugno 1916 con i MAS 5 e 7, che partendo dalla loro base di Brindisi, al comando di Vincenzo Berardinelli e Gennaro Pagano di Melito, penetrarono la rada di Durazzo, affondando il piroscafi austriaci Lokrum e Sarajevo. Poi, nell’Alto Adriatico, nel dicembre del 1917 i MAS 9 e 13, al comando di Luigi Rizzo e Andrea Ferrarini, affondarono nella rada di Trieste la corazzata austro-ungarica Wien e danneggiarono la Budapest. Nella notte tra il 10 e l’11 febbraio 1918, i tre MAS 94, 95 e 96, con Luigi Rizzo Costanzo Ciano e Gabriele D’Annunzio, penetrarono nella baia di Buccari, a sud di Trieste, per eseguire quella che doveva essere ricordata come la ‘Beffa di Buccari’. Il 13 maggio 1918, di nuovo dalla base di Brindisi, i MAS 99 e 100 comandati da Pagano e Mario Azzi, affondarono il piroscafo austriaco Bregenz. La “mignatta” di Raffaele Rossetti, infine, penetrata al suo comando nel porto di Pola, il 1º novembre 1918 avrebbe affondato la corazzata austriaca Viribus Unitis.

Il Siluro a Lenta Corsa fu ideato dal maggiore Teseo Tesei assieme  al maggiore Elios Toschi: un mezzo subacqueo – prototipo 1936 – che trasportava una carica esplosiva da oltre 200 Kg, in grado di muoversi sottacqua portando a cavallo due operatori subacquei che lo guidavano. Il primo reparto nella Marina militare italiana denominato “Comando dei mezzi d’assalto” venne costituito a La Spezia nel 1938 e il 1º luglio 1939, al comando del capitano di fregata Paolo Aloisi, fu costituita la I Flottiglia MAS il cui nominativo nel 1941 fu cambiato in X Flottiglia MAS. Il sommergibile Ametista, al comando del tenente di vascello Junio Valerio Borghese, venne destinato come trasportatore dei “maiali” inquadrati nella I Flottiglia MAS.

Attacco alla base di Gibilterra

 

Nella base britannica di Gibilterra, all’inizio di dicembre 1942, erano entrate un buon numero di unità della rinnovata squadra navale inglese. Gli Inglesi perciò, erano all’erta e, forti delle conoscenze acquisite sulle metodiche di attacco degli italiani, avevano potenziato le difese nel tentativo di impedire il minareto delle navi. Le reti a protezione del porto e delle navi erano state rafforzate impiegando delle ostruzioni che avevano un lungo imbando che si distendeva sul fondo, esse variavano nel numero, ma non erano mai inferiori a tre e la loro apertura non avveniva mai contemporaneamente. Inoltre, cariche esplosive subacquee venivano lanciate ad intervalli di circa dieci minuti. Riflettori posizionati in punti strategici illuminavano a giorno lo specchio d’acqua interessato. E il tenente di vascello Licio Visintini, comandante della “Squadriglia dell’Orsa Maggiore”, sapeva tutto questo grazie ad un osservatorio sistemato dietro ad un oblò dell’Olterra, da cui, con cronometrica assiduità, spiava tutto ciò che avveniva nella baia e nel porto di fronte, per così imparare le abitudini dei nemici.

I tre equipaggi uscirono con ritardo e separati tra loro per cause banali e per piccole avarie. La coppia Visintini-Magro uscì alle 23.15, procedendo verso le ostruzioni battute dal fascio dei proiettori e sotto gli schianti delle bombe di profondità, lanciate a brevissimi intervalli. Giunse alle ostruzioni e le superò. Un rapporto britannico, diretto all’ufficio storico, riferisce: una coppia entrò nel porto, ma poi perì in seguito ad attacchi di bombe di profondità. Non poteva che essere la coppia Visintini-Magro. La seconda coppia, Manisco-Varini, uscì alle 24.15 e, sempre secondo il rapporto britannico, fu avvistata da una sentinella, illuminata e attaccata dai colpi di un cannone e di bombe di profondità. I due incursori furono recuperati da una nave mercantile e quindi fatti prigionieri. Interrogati i prigionieri, gli inglesi ritennero che fossero giunti con il sommergibile Ambra. La terza coppia, Cella-Leone, anch’essi attardati per alcune avarie, uscirono dall’Olterra alle 01.40, quando l’allarme era già scattato. Solo Cella riuscì a rientrare alla base, mentre andò perso il suo secondo, probabilmente ucciso da una carica, dopo essere stato sbalzato fuori dal seggiolino del suo SLC.

Le operazioni B.G.6 e B.G.7 furono comandate entrambe dal Tenente Ernesto Notari e gli altri cinque incursori partecipanti furono: Vittorio Cella – l’unico che era rientrato dalla B.G.5 – Camillo Tadini, Eusebio Montalenti, Salvatore Mattera e Ario Lazzari – sostituito nella B.G.7 da Andrea Gianoli.

In conclusione, alcune cifre, aride come inevitabilmente lo sono tutte le cifre, ma che in questo caso rendono chiaramente l’idea di quello che, per l’Italia e in particolare per la marina italiana nella seconda guerra mondiale, rappresentarono gli incursori della X Squadriglia Mas e di quale fu il loro professionalismo, il loro coraggio e la loro eroicità:

« I poco più di 200 uomini che servivano nei mezzi d’assalto subacquei e di superficie, affondarono il 38% del naviglio militare nemico distrutto dalla nostra marina militare nella seconda guerra mondiale, ed il 15% di quello mercantile. E ciò avvenne – in numerosi scenari tra cui, Gibilterra, Suda, Malta e Alessandria d’Egitto – con atti di grande valore che furono riconosciuti anche dagli avversari, in particolare dal Primo ministro Winston Churchill nella Camera dei Comuni di quella coraggiosa nazione, che ci fu avversaria, di Gran Bretagna…» [Dal discorso del presidente della Repubblica Francesco Cossiga a La Spezia, 9 giugno 1991]

Più precisamente, furono colpiti mezzi navali nemici per più di 200.000 tonnellate tra cui due navi da battaglia, due incrociatori e un cacciatorpediniere. Furono effettuate 38 operazioni d’assalto e furono impiegati 238 uomini: 20 caduti, 53 prigionieri e 165 rientrati incolumi. Furono assegnate in totale, alcune volte allo stesso militare partecipante a operazioni diverse, 200 medaglie: 50 di bronzo, 117 d’Argento e ben 33 Medaglie d’Oro al Valor Militare.

Brindisi e i brindisi

di Nazareno Valente

 

 Sono sempre più convinto che le fake sono come i grandi amori: finiscono, senza morire mai. Magari rimangono per anni sopite sotto la cenere ma basta un opportuno alito di vento perché riprendano vita, divampando poi con rinnovato vigore.

È appunto accaduto così per una delle più affascinanti dicerie costruite sul nome della nostra città, riesumata per l’occasione dal sito “Romano Impero”. Dopo aver definito brevemente il gesto conviviale del brindisi, l’autore del pezzo ci fa infatti sapere che sull’origine di tale termine vi sono varie interpretazioni ma che «la più plausibile potrebbe essere questa. Nel periodo di massimo splendore di Roma, Brindisi era forse il porto più importante. Quando i marinai attraversavano i mari impervi dell’Adriatico, di ritorno verso Brindisi, aspettavano con ansia l’avvistamento della terra ferma, del porto più vicino. Quindi al vedere la terra ferma, probabilmente gridavano “Brindisium”, dando il via alle libagioni di vino per la contentezza»1.

Il che, di là dell’ipotesi in sé, ci fa capire che, sebbene il latino, quello per intenderci di quando Roma era al suo massimo splendore, sia una lingua morta, il latinorun è invece un linguaggio tuttora vivo e vegeto, se sforna termini — in questa occasione, Brindisium — mai attestati nel periodo antico e tardo antico.

Naturalmente la notizia non è passata sotto silenzio e la parte dei “navigatori” più sensibili alle novità l’ha recepita come tale, dandole grande risalto e diffusione, a volte spacciandola pure per una primizia. Così, dopo anni di silenzio, è ritornata in voga la storia che il termine con cui si definiscono le bevute alla salute, vale a dire i brindisi, sia diretta derivazione del nome della nostra città.

Per ricostruirne la genesi, occorre riandare ai tempi eroici del Grand Tour (XVII – XIX secolo) quando appunto una simile ipotesi iniziò a circolare. Come sappiamo il Grand Tour era una specie di turismo d’elite che gli aristocratici europei intraprendevano per perfezionare la loro formazione culturale frequentando i luoghi più ricchi di opere artistiche. Tappa obbligata di questi lunghi viaggi era l’Italia, in cui si potevano anche riscoprire le tracce delle antiche civiltà, e quelle città che nel periodo classico avevano rivestito un ruolo di prestigio. Qui i sofisticati viaggiatori trovavano i loro agganci, ed i possibili ciceroni, negli ambienti eruditi cittadini dai cui racconti traevano spunto per i loro resoconti di viaggio che redigevano al termine del Tour e che, per lo più, riguardavano la storia, le tradizioni e le curiosità locali.

Sebbene a quei tempi non fosse neppure un pallidissimo ricordo dello splendido passato, Brindisi era spesso inserita nell’itinerario, tant’è che, sia pure un po’ di sfuggita, in un giorno di fine maggio del 1767 vi giunge il barone Johann Hermann von Riedesel  impegnato da un anno nel suo viaggio di studio. Con ogni probabilità fu questa una novità. Infatti, per quello che è dato di sapere, è il primo viaggiatore straniero che abbia visitato la nostra città in epoca moderna, mentre era impegnato a percorrere i centri della Magna Grecia o i paesi ad essa collegati, su consiglio di Johann Joachim Winckelmann, un colto e rinomato antiquario del Settecento,.

L’illustre ospite ebbe subito modo di constatare che la tanto celebrata Brundisium «non è più che un piccolo, e molto insalubre luogo, di circa nove mila anime, il di cui porto non può più dar ricetto che a barche di pescatori»2, in aggiunta impoverita dalla perdita di tutti i suoi monumenti antichi. Esaurita la descrizione della città di cui sottolineò per lo più la desolata situazione, causata dall’aria «cattivissima per tutto l’anno, ma principalmente in està» quando «essa è la più dannosa di tutta l’Italia»3, si lasciò andare ad una breve digressione su questioni secondarie. Incuriosito dalla parola «brindisi, adottata… per annunciare che una persona beve alla salute di un’altra»4,  desiderò  conoscerne le origini e, allo scopo, interpellò una persona del luogo «molto versata nelle antichità»5, don Ortensio de Leo, zio del più celebre Annibale de Leo.

Ebbene è proprio Ortensio de Leo ad associare per la prima volta il termine “brindisi” al nome della nostra città. A suo parere infatti, dalle frequenti partenze dei Romani da Brundisium per la Grecia, dall’uso che si aveva di accompagnare i propri amici e i propri parenti sino a questo porto, o di venir loro incontro, «dal nome di questo luogo ove faceansi gli addii ed i voti per la prosperità del viaggio»6, s’è formata l’espressione «brindisi… che si è perpetuata sino ai nostri giorni per denotare i desideri che si è nell’abitudine di fare, bevendo alla salute delle persone  che ci circondano»7.

Analoga versione sempre accreditata ad Ortensio de Leo, sia pure solo in forma anonima, si ritrova nell’ottava lettera datata 20 agosto 1797 del resoconto “Lettres sur L’Italie” di un altro celebre viaggiatore, il francese Antoine Laurent Castellan. Anche se, nell’occasione, il Castellan ci aggiunge qualcosa di suo ed in nota ci fa sapere che  «Gli Italiani pensano che l’abitudine del dire “far brindisi”, bevendo alla salute di qualcuno, equivalga all’espressione “arrivederci a Brindisi” che si pronunciava lasciandosi»8. Egli ritenne invece che l’espressione “far brindisi” non potesse essere in uso in antichità in quanto il nome posseduto dalla città a quel tempo — appunto Brundisium, e non Brindisium — non avrebbe giustificato una simile locuzione. Concludeva che il modo di dire dovesse piuttosto aver avuto origine ai tempi dei crociati, i quali «consideravano il porto di Brindisi, come il luogo in cui avveniva il raduno generale»9, cioè a dire quando il nome della città s’era volgarizzato in quello attuale.

 

La questione venne ripresa più d’un secolo dopo dal canonico Pasquale Camassa, il quale animato da grande affetto per la  città di Brindisi non lesinava mezzi, anche quelli meno scientifici, per porla in tutti i modi al centro dell’attenzione. Per questo le sue argomentazioni erano talvolta viziate e piegate all’intendimento di portare acqua alla causa della nostra città, anche se occorre ricordare che c’erano anche motivi di opportunità che lo esortavano ad assumere una posizione del genere. In quel periodo si vivevano situazioni particolari e, tanto per citarne una, la “romanità” faceva tendenza. Sicché rientrava nella normalità che le città ripassassero le proprie antichità romane alla ricerca di storie e spunti per poter mostrare qualche quarto di nobiltà. Chi era stato «potente al tempo dell’Impero Romano» poteva infatti sperare di ottenere qualche spintarella, perché il ritorno «al suo antico splendore» era necessariamente scritto nel suo destino.. Questo era il messaggio, cui giocoforza ci si adattava e, il saper enfatizzare nelle giuste forme la propria passata romanità, finiva per essere un meccanismo utile per portare vantaggi alla propria città. Quindi c’erano ragioni più che valide per non formalizzarsi troppo ed introdurre, qualora necessario, espedienti narrativi utili ad aumentare il fascino delle antichità cittadine.

Così facevano un po’ tutti i cronisti. Non solo quelli brindisini.

Camassa, uomo di cultura, lo sapeva fare con pennellate fantasiose di classe. E non a caso, proprio per questo suo porsi sempre e comunque a tutela degli interessi di Brindisi che a noi brindisini piace citarlo, non già con il suo nome, quanto piuttosto con il nomignolo confezionato di proposito per lui, vale a dire papa Pascalinu.

In questo suo ruolo era certo avvantaggiato, visto che, all’ombra di Roma, Brindisi aveva vissuto i principali avvenimenti storici e godeva quindi di una posizione di privilegio, ma ciononostante, a scanso di equivoci e per non  lasciare nulla di intentato, ci metteva tutta la sua creatività per adornare con i dovuti fiocchetti i suoi racconti. L’estro lo accompagnò pure quando si mise a parlare dei brindisi conviviali creando, anche in questa circostanza, un ispirato quadretto.

«Crediamo opportuno investigare se il nome “brindisi”, che si dà al saluto od augurio, che suol farsi alzando e vuotando i calici nella letizia conviviale, … abbia potuto trarre origine dal nome di questa città»10. Così esordì il canonico, per poi nel seguito proseguire: «dal suo magnifico porto salpavano tutti coloro che si recavano in Oriente» e  «tutti i giovani patrizi romani [che] andavano per istudio in Atene», accompagnati al luogo dell’imbarco da amici, parenti e liberti11. E costoro, «prima di separarsi facevano auguri e libazioni alla buona fortuna del novello viaggiatore, il quale, alla sua volta beveva, ben augurando a coloro che restavano»12. Una volta vuotati i calici ed espresse le formule di rito, tutti «soggiungevano a coro: che gli Dei ci facciano rivedere qui a Brindisi, per rinnovare lietamente queste libazioni»13.

Senza dichiararlo espressamente, papa Pascalinu prese anche in considerazione il rilievo di Castellan: «È vero — egli afferma — che allora la città si chiamava Brundusium; ma la memoria di quella costumanza, col passare alle età moderne, ha potuto anche acquistare il nome moderno del luogo. E ciò dovette avvenire particolarmente in quel periodo, in cui la lingua del Lazio cominciava a sostituirsi al volgare»14.  Non negava però che c’erano eruditi che «vorrebbero dare un’altra origine alla parola “brindisi”»; malgrado ciò, lui ne ribadiva la puntuale provenienza «dai bacchici auguri, che frequentemente all’epoca romana in questa città [Brindisi] si scambiavano»15. E, a decisivo sostegno della sua tesi, citava l’autorità di Francesco Redi ed i versi del suo famoso ditirambo in cui Bacco è in viaggio verso Brindisi con la moglie Arianna16:

«Voga, voga, arranca, arranca;

Ché la ciurma non si stanca,

Anzi lieta si rinfranca,

Quando arranca verso Brindisi:

Arianna, brindis, Brindisi»17.

I quali versi, valutati di per sé, ponevano un evidente collegamento tra «brindis» e Brindisi chiarendo che, nello specifico contesto dei festeggiamenti augurali, i due vocaboli avevano lo stesso significato. E quindi in definitiva che Brindisi, oltre ad essere un nome di città, identificava anche i brindisi, al pari della voce spagnola «brindis».

Considerate le competenze linguistiche del Redi, personalità tra le più autorevoli del suo tempo e tra i principali artefici della terza edizione del celebre “Vocabolario della Crusca”, sarebbe quasi bestemmiare a non tener conto del suo illustre parere.

Ci sono però altri punti della narrazione del canonico che meritano d’essere commentati.

In particolare, andrebbe ricordato che in epoca romana un viaggio di andata e ritorno da Roma a Brindisi durava dalle tre alle quattro settimane, ed era cosa talmente poco banale che i più, prima di mettersi in cammino, facevano addirittura testamento, temendo di non poter ritornare a casa incolumi. Pertanto non dovevano essere molti i parenti, gli amici ed liberti disposti a sprecare così tanto tempo, e soprattutto a mettere a repentaglio la propria vita, per una semplice bevuta ed un saluto da dare al patrizio impegnato a partire da Brindisi per il suo viaggio di studio.

C’è da aggiungere che dalle fonti letterarie dell’epoca sono facilmente desumibili le forme augurali utilizzate nel bere alla salute di qualcuno18, e in nessuna di queste è possibile rintracciare, nemmeno alla lontana, il coro ricordato dal Camassa che rimetteva agli dèi la possibilità di rivedersi a Brindisi.

 

Considerazioni ancor più interessanti sono ricavabili da una breve analisi dell’evoluzione subita dal toponimo usato per identificare la nostra città, per individuare quando esso s’è volgarizzato nell’attuale denominazione.

In epoca romana il nome più ricorrente era Brundisium e, in alternativa, Brundusium, che fu forse quello in origine assegnato al momento della fondazione della colonia latina. Nome che subì in seguito molte varianti, influenzate sia dalla pronuncia in uso nel latino tardo e medievale, sia dalle trasformazioni subite dalle lingue sviluppatesi dal latino. Tutto questo comportò che dal medioevo in poi siano state coniate diverse denominazioni per individuare la nostra città. All’inizio del Basso Medioevo andarono affermandosi, quali modifiche alle voci tradizionali, Brandisium, Brandosium e Brandusium. Termini che, forse a causa del dominio instaurato nella nostra città dapprima dai Normanni e poi dagli Angioini, furono successivamente volgarizzati in una sequenza di nomi di ispirazione gallica. I più ricorrenti dei quali nel XII e XIII secolo risultano essere: Brandisi19, Brandiz20, Brandis21Brandizia22, sino ad arrivare a Brandizio. Fu appunto Brandizio — termine peraltro utilizzato anche da Dante nel celebre passo in cui il sommo poeta fa esclamare a Virgilio: «Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto», e da Boccaccio nella quarta novella della seconda giornata del Decamerone, quando Landolfo Rufolo «montato sopra una barca, passò a Brandizio» — a prevalere sino a tutto il XIV secolo. Sebbene con minore diffusione, è riscontrata la contestuale presenza di altri nomi, quali ad esempio: Blandizo23, Brandizo24, Brundisia25 e Brandiço26. Nella seconda metà del secolo XV apparvero Brindese e Brindise, e poi finalmente Brindisi, la cui prima attestazione ritrovo nell’edizione del 1494 dell’opera “L’aquila volante” attribuita forse erroneamente a Leonardo Bruni. Tale toponimo però non prese subito tutta la scena, tant’è che la condivise per un secolo e più con Brindesi27.

Seguendo questo filone d’indagine, sembrerebbe pertanto alquanto improbabile che un termine, coniato non prima del XV secolo e affermatosi molto tempo dopo, abbia potuto influire sui modi di dire degli antichi romani e sul loro gergo. C’è quindi da capire la posizione degli etimologi che, non prendendo neppure in considerazione l’ipotesi cara ai nostri due studiosi, sono concordi nel credere che il termine brindisi, inteso come invito a bere alla salute, derivi dal ben più antico «bring dir’s» (“lo porgo a te”) di origine tedesca e che sia successivamente giunto a noi attraverso il vocabolo spagnolo «brindis». In altre parole, il vocabolo “brindisi” è un prestito linguistico e quindi, traendo origine da altra lingua, non può derivare dal nome assegnato alla nostra città.

Non è questo l’unico motivo che renderebbe evidente come da un punto di vista etimologico non ci sia storia: ci sono Brindisi e brindisi, e non c’è alcuna relazione tra i significati dei due termini. Tra le varie ragioni ce n’è una davvero sorprendente che, non essendo mai stata prima notata, rappresenta al tempo stesso una vera e propria curiosità, Nessuno infatti  s’era sinora accorto che il nome della città, coinvolto appunto da alcuni scrittori in una falsa etimologia con vocaboli che richiamavano le bevute, venne utilizzato in un stile comico di verseggiare sviluppatosi con successo nel Seicento.

Prima di affrontare questo nuovo ed originale aspetto, riepiloghiamo i termini della questione.

Ci sono ragioni più contro, che a favore, all’ipotesi che i brindisi fatti alzando i calici c’entrino qualcosa con il nome della nostra città.

L’unico punto di forza della tesi che pone un collegamento tra i due termini è costituito dai versi del Redi che associano a Brindisi la voce spagnola “brindis”, adottata appunto per quando si beve alla salute di qualcuno. Tutto il resto si pone  a sfavore, a partire dalla poco credibile processione di parenti, amici e liberti, intenti a sprecare tempo ed a mettere a repentaglio la propria vita per una bevuta ed un augurio, e dal fatto incontestabile che nessuna fonte letteraria primaria citi in alcun modo le formule proposte dagli eruditi brindisini. Senza contare quella ancor più consistente, basata sulla circostanza che solo dalla fine del XV secolo la nostra città incominciò ad essere identificata con l’attuale nome, che risulta quindi di certo non precedente ai vocaboli «bring dir’s» e «brindis» usati rispettivamente dalla lingua tedesca e spagnola per caratterizzare i brindisi.

A queste vanno aggiunte altre considerazioni.

La prima riguarda i significati dei vari termini utilizzati, i quali non sempre riproducono esattamente il concetto originario.

Quando nei contesti privati, invitiamo a “fare un brindisi”, di fatto chiediamo a tutti i presenti di alzare il calice per bere alla salute di qualcuno. In antichità il rituale era invece diverso. Chi invitava al brindisi, dopo aver bevuto dalla coppa, porgeva la stessa al solo festeggiato perché bevesse a sua volta. Infatti il «προπίνω» (propìno) greco, che è l’antesignano del nostro brindare, è in genere tradotto con “bere prima di un altro a cui si passa il calice” quindi più in linea con il «bring dir’s» tedesco che, infatti, è reso in italiano con “lo porgo a te”, sottinteso il bicchiere. Di fatto, salvo non fosse dedicata agli dèi  o ad un personaggio pubblico — ma in questi casi si parla più di libagioni che di brindisi — la «propinatio» (il brindisi) non coinvolgeva in genere tutti, ma solo il commensale alla cui salute di volta in volta si beveva. In aggiunta, ad ulteriore variante, il commensale era obbligato a bere il contenuto del calice che gli veniva passato, sino all’ultima goccia. Era quindi un gesto di grande affetto e simpatia che, non a caso, i greci chiamavano «φιλοτησία πόσις» (filotesia posis: bevanda che crea amicizia o che fa parte dell’amicizia)  o più semplicemente «φιλοτησία», ma che, visto in altra ottica, poteva anche essere un modo per far ubriacare qualcuno. In tal senso, celebre il brindisi fatto alla salute di Polifemo con cui Ulisse, forte del fatto che questi non poteva esimersi dall’accettare l’invito a bere, riuscì a far perdere il lume della ragione al ciclope.

In definitiva, l’espressione “far brindisi” non rispecchia in tutto e per tutto il rituale antico che era piuttosto un “invito a bere”, e questo aspetto è sottolineato da tutti gli autori dell’età moderna. Ad esempio il Sarnelli28 ed in particolare il Menochio quando riferisce appunto che «l’uso d’invitar a bere, che volgarmente diciamo far brindisi, è antico assai»29, intendendo con ciò che le due locuzioni non presupponevano immagini coincidenti. Una cosa è infatti il brindisi, in cui si beve insieme alla salute di qualcuno, senza però essere obbligati a farlo se non nella misura in cui si desidera, elevando e facendo tintinnare i calici; altro l’invito a bere rivolto al solo festeggiato che, tra l’altro, non aveva possibilità di rifiutarsi di brindare. Da questa constatazione è verosimile desumere che le due espressioni danno anche ragione dell’evoluzione che il rituale del brindare ha subito nel corso del tempo e, conseguentemente, che “far brindisi” o, in generale, i “brindisi” fanno riferimento ad una pratica privata più tarda. Esattamente per questo motivo tali formulazioni, essendo più recenti e del tutto estranee alle occasioni conviviali svolte in antichità, non sono rintracciabili nei resoconti letterari del tempo.

Altra possibile considerazione è che, a metà tra il termine antico (propìno), che caratterizza il classico “invito a bere”, e la locuzione “far brindisi”, che invece descrive meglio il nostro collettivo bere alla salute, c’è proprio il vocabolo tedesco «bring dir’s» (lo porgo a te) che dà ancora interpretazione di quel passaggio della coppa da chi avviava il festeggiamento a chi era festeggiato. Il che in altri termini fa capire che il nostro termine è successivo a quello tedesco che l’ha quindi necessariamente influenzato.

Menochio si sofferma con dovizia di particolari pure sulle ripercussioni negative dell’obbligo insito in questo rituale «che — come egli ricorda — anco oggidì prevale in molti luoghi, che l’invitato a bere sia tenuto a corrispondere all’invitante con la medesima misura, ancorché non ne habbia né voglia, né bisogno»30. In antichità, in effetti, era cosa disdicevole rifiutare l’invito a bere: aderirvi faceva parte del gioco di un qualsiasi banchetto. Ce lo riferisce Cicerone che, nelle Tusculane, riporta l’iscrizione che i Greci ponevano nelle loro sale da pranzo: «Aut bibas, aut abeas» (O bevi, o vattene). Come dire, se non hai intenzione di bere, tanto vale che non partecipi al banchetto.

Nelle peggiori evenienze, questi festeggiamenti potevano pertanto sfociare in veri e propri incitamenti ad alzare troppo il gomito. Se poi si pensa che c’era sempre un re del banchetto (simposiarca) che dirigeva il tutto, le bevute alla salute d’una volta assumevano, sia pure alla lontana, le sembianze d’un vecchio gioco brindisino parecchio biasimato, “la Calabbrisella”, che si praticava con l’intendimento di mandare a casa «‘ncilunatu» qualcuno lasciando al tempo stesso a «l’urmu» qualche altro. Cosa quindi alquanto diversa da un semplice brindisi.

Proprio a causa di queste possibili degenerazioni, il cristianesimo non vedeva di buon occhio la consuetudine dell’invito a bere e cercò in tutti i modi di ostacolarlo. Sebbene non ne sradicò l’uso, riuscì comunque a contenerne gli effetti in particolare nelle zone in cui poteva esercitare una maggiore influenza.

I Paesi dell’Europa settentrionale rimasero più legati alla tradizione e tra i Tedeschi il rituale privato dell’invito a bere rimase parecchio diffuso.

Diversa la situazione dalle nostre parti.

Monsignor Della Casa, massima autorità nel campo dei costumi e delle buone maniere, nel suo manuale redatto nel Cinquecento (il celebre Galateo) in cui codificò le norme comportamentali nella vita di relazione, riferisce che «l’invitare a bere… nelle nostre contrade non è ancora venuto in uso»31. Fornisce inoltre un’informazione per noi molto preziosa, vale a dire che, trattandosi di usanza inusuale nel nostro Paese, la «nominiamo con vocabolo forestiero, cioè “far brindisi”»32. Il fatto che un autore del Cinquecento affermi che l’espressione “far brindisi” era di evidente estrazione straniera, preclude la possibilità che derivi dal nome attuale della nostra città che, per altro, solo in quello stesso periodo incominciava a prendere piede. Al contrario, presupporrebbe che i “brindisi” esistevano ben prima dell’odierno toponimo.

In definitiva l’ipotesi degli etimologi prende sempre più spazio e, a mettersi di traverso, restano solo i versi di Francesco Redi, lì dove l’autore mette in evidenza il collegamento tra Brindisi e l’analogo vocabolo spagnolo «brindis». Considerato lo spessore del personaggio — arciconsolo dell’Accademia della Crusca e sempre impegnato a diffondere ed a salvaguardare il volgare toscano — desta grande stupore che abbia potuto propendere per una tesi così palesemente errata. Il che, a questo punto, fa sorgere il sospetto che sia stato papa Pascalinu a travisarne il pensiero, magari citandolo a sproposito.

In effetti una cosa è prendere in esame uno specifico passo di una opera staccandolo dal suo contesto; altro analizzarla nel suo complesso, valutandone anche la genesi.

Ebbene nel Seicento gli accademici della Crusca, da vere persone di cultura, non si prendevano sempre sul serio e, di tanto in tanto, trovavano l’occasione per accantonare la greve e imponente veste di custodi della lingua, per trasformarsi in festaioli scanzonati. Questo avveniva in occasione dei pranzi collegiali di rinnovo delle cariche direttive e di elezione di nuovi membri, chiamati stravizzi, dove lo spreco di buone pietanze e di buon vino si mescolava a composizioni poetiche inventate lì sul momento per accentuare il tono ludico della riunione.

Nello stravizzo della Crusca del 12 settembre 1666, alla presenza dei principi Leopoldo e Mattias de’ Medici, accadde qualcosa di speciale che entrò a far parte della storia letteraria nazionale. Mentre si brindava allegramente, in risposta ad una spiritosa composizione d’un partecipante che assegnava al vino, e non all’amore, il potere di far girare il mondo, Redi confezionò un ditirambo di quarantaquattro versi di sperticato encomio del vino toscano. Questi pochi versi, divenuti subito famosi tra i circoli esclusivi cittadini, originarono le novecentottanta righe finali del celebre “Bacco in Toscana” che Redi completò dopo un lavoro di cesello durato quasi vent’anni.

C’è da ricordare che l’allora segretario della Crusca era un medico affermato, tra l’altro salutista e (pare) astemio, che però in quella particolare occasione festosa, nelle vesti di poeta, assunse le difese del vino opponendosi alle stesse terapie che da scienziato usualmente consigliava. È quindi scontato che i versi del ditirambo non vanno presi alla lettera ma considerati dopo aver fatto la giusta tara. In essi, Redi racconta che Bacco, il dio del vino, nel corso d’un suo viaggio con la moglie Arianna, viene ospitato nella villa medicea di Poggio Imperiale, dove ha l’occasione di passare in rassegna tutti i principali vini toscani e italiani del tempo e, naturalmente, di servirsene in abbondanza. Inizia così un marcato elogio per il buon vino, al quale si contrappone la disapprovazione totale per le bevande allora esotiche, «l’amaro e reo caffè»33, il «cioccolatte»34, il «»35 e, soprattutto, l’acqua con cui «certi magri mediconzoli… ogni mal pensan di espellere»36. In definitiva, per stare bene, non bisogna seguire i consigli dei medici, ma «vino, vino a ciascun bever bisogna,/Se fuggir vuole ogni danno»37. Evidente il divertimento che l’autore si concede verseggiando in allegria con consumato virtuosismo linguistico, evidenziato ancor più nella parte conclusiva del ditirambo. Quella non a caso più celebre, e che vede Bacco impegnato a veleggiare verso la nostra Brindisi.

Anzi proprio in questi brani il tono scherzoso si accentua perché, come raccontava lo stesso Redi, Bacco «comincia ad essere briaco, o per dir meglio è tutto briaco»38. Per cui più che navigare realmente verso la nostra città, Bacco immagina di farlo, visto che l’ebbrezza lo rende poco saldo sulle gambe, quasi fosse su una nave scossa dalla tempesta. E si deve a questo suo particolare stato se il dio finisce per bisticciare con i termini “brindis” e Brindisi, assegnando loro lo stesso significato, mentre in realtà si riferiscono ad entità ben distinte: quello al vino; questo ad una città. C’è così l’aspetto comico che accomuna il “brindis” avvinazzato, generato dal vino, ad un vocabolo quasi con lo stesso suono — la città di Brindisi — che niente ha in comune in termini concettuali. In definitiva, i linguisti lo chiamerebbero un gioco paretimologico, in cui il termine Brindisi viene reinterpretato sulla base  della sua somiglianza formale con “brindis” assumendo un valore diverso da quello suo originale. E dando in pratica luogo ad una falsa etimologia.

Il bisticcio scherzoso che l’alto esponente dell’Accademia della Crusca con quel suo «brindis, Brindisi» desiderava creare, male interpretato, trascinò nell’equivoco il nostro papa Pascalinu. Al tirar delle fila, non ci furono mai amici, parenti e liberti convenuti nel nostro porto a bere alla salute dei viaggiatori,  gridando in coro: «che gli Dei ci facciano rivedere qui a Brindisi, per rinnovare lietamente queste libazioni»39. Anche perché, a quei tempi, la nostra città aveva ben altro di più consistente da offrire d’una banale bevuta.

Ma c’è di più. Occorre infatti rilevare che Francesco Redi non è stato il primo ad accostare, per gioco, manifestazioni ludiche al nome della nostra città. La primogenitura, per quello che mi è stato possibile appurare, va assegnata a Giovan Battista Lalli che qualche decennio prima, nel suo poema scherzoso “La Moscheide,  overo Domiziano il moschicida” — e già il titolo è tutto un programma — fa risalire appunto l’origine della locuzione far brindisi a Brindisi, sia pure per motivi ancor più esilaranti.

Siamo presumibilmente attorno al primo ventennio del Seicento, quando la nostra città non ha ancora assunto il suo nome definitivo e viene chiamata in vari modi. Nel suo poema Lalli la chiama Brindesi e la presenta come un porto franco, dove chi vi risiede non subisce le attenzioni del fisco o dei creditori.

 

«Brindesi già Brandizio, ov’hor volando

Concorron genti addolorate, e meste,

Mentre le pon dalla lor Patria in bando

Il creditor con cedule funeste

O dolce asilo, o porto venerando

Delle birresche orribili tempeste,

 Ov’huom per privilegio siede,

E perso ottien vittoria, a nessun cede»40.

Per questo, i brindisi, intesi come bevute, traggono il loro nome dalla città di Brindesi perché “far Brindisi” è un invito ad andarvi ad abitare per non avere più pensieri di carattere fiscale.

 

«Brindesi bella, s’io m’appongo al vero,

Da te son messi i Brindisi in usanza,

Quasi l’uom dica: Lascia ogni pensiero,

Beviamo allegri e rinfreschiam la panza:

Che se poi il creditor duro e severo

Ci fa da i birri apparecchiar la stanza,

Brindisi habbiamo, Brindesi diletta,

Che quanto più si bee, via più n’alletta»41.

Quindi i giochi burleschi impiantati sul nome della nostra città non erano inusuali nel Seicento, e vertevano sempre sulla sua assonanza con il termine usato per le occasioni gioiose delle bevute alla salute. Ed ai momenti d’ebbrezza che ne seguivano.

Questo alternare termini di diverso significato, che iniziavano però con le stesse lettere ed a cui si dava pur tuttavia lo stesso contenuto semantico — nel caso del “Bacco in Toscana”, brindis e Brindisi; in quello della “Moscheide”, Brindesi e Brindisi — era un modo di parlare scherzoso, detto ionadattico. Un marchingegno poetico allora in voga che rappresentava una vera e propria esperienza letteraria. Il che fa capire che il collegamento tra i brindisi e Brindisi era un espediente letterario alla moda, adottato per riscuotere credito tra i lettori amanti di quel genere.

A questo punto, si potrebbe dare per certo che ci sono brindisi e Brindisi.

Il condizionale è però d’obbligo.

Dicono infatti che una fake, quand’è più d’un semplice “tarocco”, è come un grande amore non corrisposto.

Non ha capo, né coda.

Eppure è difficile da abbandonare, e farsene una ragione.

 

Note

[1] https://www.romanoimpero.com/2019/03/il-brindisi-romano.html (consultato il 4 novembre 2021)

2 RIEDESEL J. H. von (1740 – 1785), Viaggio in Sicilia del signor barone di Riedesel diretto dall’autore al celebre signor Winkelmann, Tipografia Francesco Abate, Palermo 1821, p. 159.

3 Ibidem, pp. 162-163.

4 Ibidem, p. 163.

5 Ibidem, p. 162.

6 Ibidem, p. 163.

7 Ibidem, p. 164.

8 CASTELLAN A. L. (1772 – 1838), Lettres sur L’Italie, Nepveu, Parigi 1819, p. 67.

9 Ibidem, p. 68.

10 CAMASSA P. (1858 – 1941), La Romanità di Brindisi attraverso la sua storia e i suoi avanzi monumentale, Tipografia Vincenzo Ragione, Brindisi 1934, p. 129.

11 Ibidem, p. 130.

12 Ibidem.

13 Ibidem.

14 Ibidem, p. 131.

15 Ibidem.

16 Ibidem.

17 Ibidem, p. 132.

18 Una delle formule più usuale era: «bene vos, bene nos, bene te, bene me», PLAUTO (III secolo a.C. – II secolo a.C.), Stichus, v. 709.

19 Carta Pisana (XIII secolo).

20 Chronica magistri Rogeri de Houedene (fine XII secolo).

21 Le chevalier au cygne et Godefroid de Bouillon (XIV secolo); Ex Historiis ducum Normanniae et regum Angliae (XIII secolo).

22 Libro Fiesolano (tra il XIII e XIV secolo).

23 VESCONTE P., Carta Nautica (XIV secolo).

24 VESCONTE P., Atlante (XIV secolo).

25 Volgarizzamento dell’imago mundi (XIV secolo).

26 Manoscritto mercantile  (XV secolo).

27 BUONACCIOLI A., La prima parte della Geografia di Strabone, tradotta in volgare italiano, Francesco Senese, Venezia 1562.

28 SARNELLI P. (1649 – 1724), Lettere ecclesiastiche di monsignor Pompeo Sarnelli vescovo di Biseglia, tomo VII, Bortoli, Venezia 1716, p. 17.

29 MENOCHIO G.S. (1575 – 1655),  Dell’uso antico e moderno d’invitare a bere che volgarmente diciamo far brindisi, in Stuore, III, Roma 1689, p. 485.

30 Ibidem.

31 DELLA CASA G. (1503 – 1556), Il Galateo, Francesco Andr, Venezia 1795, p. 75.

32 Ibidem.

33 REDI F. (1626 – 1698), Bacco in Toscana, v. 190.

34 Ibidem, v. 184.

35 Ibidem, v. 185.

36 Ibidem, vv. 763-764.

37 Ibidem, vv. 792-793.

38 Lettera a Egidio Menagio del 6/1/1684.

39 CAMASSA P., Cit., p. 130.

40 LALLI G.B. (1572 – 1637), La Moscheide,  overo Domiziano il moschicida, G.B. Bid, Milano 1626, I 59, p. 28.

41 Ibidem, I 61, p. 29.

Brindisi nel periodo bizantino e sino all’arrivo dei Longobardi

di Nazareno Valente

 

A parte le eccezioni, che si sa confermano la regola, c’è un’abitudine di origine antica che pare indirizzare l’opera dei cronisti brindisini sin da quando Giovanni Battista Casmiro incominciò a ricostruire le vicende della nostra città: quello di essere più fedeli al campanile che alla storia. In effetti il nostro notaro Casmiro ne aveva motivo, perché altro era il contesto nel 1567 mentre redigeva la sua “Epistola apologetica” in risposta a Quinto Mario Corrado. C’era da difendere il titolo arcivescovile contesoci da Oria, che non era certo una questione soltanto spirituale ma di sostanza, trattandosi di uno dei cespiti più consistenti dell’economia cittadina. Per questo qualche compromesso era più che giustificato.

Dissolta la necessità e la ragion di stato, il vezzo è rimasto, radicandosi insieme ad un certo occhieggiare al lavoro altrui. Ne diede un bell’esempio pochi anni dopo il Moricino, che infatti tanti debiti contrasse dagli scritti del Casmiro e che a sua volta subì un indecente saccheggio dal Della Monica, la cui opera non a caso tutti ritengono un vero e proprio plagio. In base al principio che la moneta cattiva scaccia quella buona, il Della Monaca ha fatto scuola: in un’epoca ossessionata a parole dal cambiamento, si preferisce tuttora di ritrovare la familiarità di certi temi consueti, nei quali è più facile riconoscersi, piuttosto che avventurarsi nella lettura di eventi poco conosciuti, o peggio, di rivisitarli in senso critico.

Sarà per questo che restano nell’ombra interi pezzi del nostro passato, come i secoli che modificarono completamente il tessuto sociale di Brindisi facendola decadere da metropoli dell’impero a sperduto borgo abbandonato da tutti.

Il cammino che portò la città a sparire dalla storia è stato per lo più appena abbozzato e, soprattutto, non si sono indagate le cause che portarono a questo triste epilogo. Epilogo che ci riporta alla polemica avviata tra Brindisi ed Oria per il titolo vescovile, che Casmiro e Corrado coltivavano in maniera comunque accademica, mentre i rispettivi abitanti affrontavano con vivacità e con argomenti ben più spicci.

La diocesi, che risiedeva a Brindisi sin da quando il cristianesimo  era divenuto religione di stato, d’un tratto si trasferì ad Oria rimanendovi sino all’XI secolo. I cronisti e gli storici brindisini danno per scontato — più per carità di patria che per convinzione conseguente a dati di fatto — che lo spostamento di sede fu dovuto al sopraggiungere dei Longobardi. Si narra appunto che i Longobardi conquistarono la nostra città nel 674, decidendo poi di devastarla. Come tragica conseguenza, fuggirono tutti, vescovo compreso, e Brindisi rimase un deserto abitato da qualche sparuto gruppo di cittadini, convenzionalmente stabilitisi attorno al martyrium di San Leucio, e da un piccolo nucleo di Ebrei che gestivano lo scalo marittimo per conto di Oria. Per colmo di sfortuna il vescovo, di nome Prezioso, nel corso della fuga, morì, sicché fu frettolosamente sepolto in contrada Paradiso, lì dove fu poi ritrovata l’epigrafe del suo sepolcro, che però chiarisce1 senza dubbio alcuno che egli era salito in cielo più d’un secolo prima di quanto nei desideri dei nostri cronisti che, per loro comodità cronologica, lo vorrebbero appunto morto nel 680.

Una ricostruzione seducente ma del pari fantasiosa, in quanto il contesto storico narra tutta un’altra storia. Vediamo di darne una diversa lettura partendo dalla Brindisi di quel tempo.

Alla metà del VI secolo, la nostra città era uscita malconcia dalla guerra gotica, essendo rimasta per lungo tempo alla mercé dei frequenti raid di entrambi i contendenti, Goti o Bizantini che fossero. In più, chi aveva sperato nei Bizantini aveva avuto modo di ricredersi e di rimpiangere i Goti che l’avevano in precedenza governata. Questi erano sì scontrosi e di poche parole ma, nella sostanza, con l’animo del buon pastore che tosa il proprio gregge senza però scorticarlo troppo. I Bizantini, invece, si turbavano meno per simili minuzie ed avevano l’ossessione del gettito fiscale che, pur di mantenere ai livelli voluti, non disdegnava l’uso dei mezzi più estremi, tipo l’epibolè,  una imposta fondiaria che tassava i campi in base alle loro potenzialità, e non alla effettiva produzione, e addossava ai vicini la responsabilità tributaria d’un eventuale contribuente insolvente. Un po’ come avviene per le attuali bollette della luce che, chi paga, deve farlo anche per chi è moroso, non volesse mai il cielo che le lobby rischino di non guadagnarsi il companatico.

Evidente che una politica fiscale così iniqua non poteva che risultare dannosa per le economie cittadine, soprattutto in quelle zone, come la nostra Brindisi, dove l’agricoltura era una delle principali risorse. L’ingiustizia fiscale era poi aggravata dal fatto che vi erano categorie, in particolare il clero, che erano esentate da qualsiasi tributo, ed altre, i curiali (assimilabili ai nostri consiglieri comunali) che, oltre a pagare le normali tasse, dovevano pure farsi carico delle spese di gestione e di costruzione degli immobili cittadini. Sino a quando queste due categorie non finirono, come ai nostri tempi, di assidersi sullo stesso privilegiato desco, ci fu un difetto di vocazioni in campo politico — manco a dirlo, nessuno aspirava a fare il curiale — ed un surplus di predisposizioni religiose, in quanto tutti volevano intraprendere la carriera ecclesiastica. Questa divenne ad un certo punto talmente allettante che, per frenare queste poco spontanee vocazioni, fu istituito una specie di numero chiuso, in base al quale, per accedere al sacerdozio, occorreva attendere che si rendesse libero un posto, in genere a seguito di chiamata celeste.

Quando poi nel primo ventennio del VII secolo i Bizantini persero il controllo dei porti italiani della costa adriatica, di Durazzo e della via Egnazia che avevano tutti come terminale Brindisi, il disastro per la nostra città fu completo. Il porto, da fonte delle nostre fortune, si tramutò addirittura in un pericolo: una specie di cavallo di Troia per il cui tramite i Saraceni avrebbero potuto insinuarsi nella penisola.

Il collasso delle attività più redditizie coinvolse anche le autorità religiose che, essendo di per sé improduttive, dovevano necessariamente contare per la loro sussistenza su un eccesso di produzione sul consumo che la città non era più in grado di realizzare. Il disagio del clero brindisino era inoltre accentuato dalle politiche dei Bizantini «basate sul principio di promuovere a posizione ecclesiastiche di rilievo soltanto sudditi leali dell’imperatore»2. In pratica per i Bizantini era meglio affidare più diocesi ad un vescovo fedele che rischiare di avere a che fare con un presule che si opponesse alle loro politiche. Fu certo dovuto anche a questa gestione delle cariche ecclesiastiche se la diocesi brindisina restò vacante dalla metà del VI secolo e per tutto il VII secolo. È quanto emerge in maniera inequivocabile dai dati documentali, di là dai vani tentativi degli storici locali di collocare in maniera coatta nel VII secolo alcuni vescovi di epoche precedenti, vale a dire Aproculo, Pelino, Ciprio e Prezioso, in modo da colmare la cronotassi di quel periodo e avvalorare così l’ipotesi che il trasferimento della diocesi brindisina fosse stata determinata dai longobardi, e non da logiche interne alla diocesi3.

I longobardi, immagine tratta da internet (rielaborazione grafica di Eugenio Corsa)

 

 

In definitiva, non ci fu certo bisogno dell’arrivo dei Longobardi per convincere le autorità religiose che era preferibile trasferirsi altrove; né era inusuale che un tale fatto accadeva. Ce ne dà un chiaro avviso sant’Agostino quando lamenta che alcuni vescovi erano troppo propensi ad abbandonare le proprie sedi vescovili, non appena le cose prendevano una brutta piega. Per questo ricordava loro che, anche nei momenti difficili, il dovere di un vescovo era quello di stare con i suoi fedeli4. Richiamo questo che, almeno nella nostra città, risultò del tutto inascoltato.

Quando Romualdo con i suoi Longobardi di Benevento arrivò a Brindisi poté così constatare che le preoccupazioni di sant’Agostino non erano infondate: il clero aveva abbandonato da tempo la nostra città, poco sicura e soggetta alle scorrerie dei Saraceni, preferendo la tranquillità dell’entroterra oritano. Avesse trovato un’autorità religiosa capace di mantenere in vita un episcopato, il duca l’avrebbe senz’altro sfruttata per puntellare la conquista e consolidarla. Non c’era infatti struttura burocratica a quel tempo meglio organizzata di quella clericale, e tutti i governanti se ne servivano per gestire e controllare il territorio.

Va poi ricordato che a quel tempo i Longobardi non erano maldisposti nei confronti della chiesa cattolica, né erano quei mangiapreti che certa letteratura vuol far credere: Teuderata, moglie di Romualdo, passava addirittura per una fervente cattolica che aveva fatto costruire una basilica ed un cenobio, appena fuori Benevento5. E lo stesso Romualdo aveva sempre cercato soluzioni gradite al papato.

In effetti, nelle ricostruzioni dei cronisti locali, i Longobardi scontano la visione alquanto faziosa del teologo Di Meo, insigne erudito del XVIII secolo che, pur di sollevare la Chiesa da ogni possibile colpa, non disdegnava di alzare i toni narrando di città «barbaramente sterminate da’ Longobardi»6  oppure che al pari di Brindisi «contarono i loro vescovi, finché divennero preda de’ Longobardi»7. Nelle prime fasi dell’invasione ci furono di sicuro distruzioni ed azioni contro i vescovi cattolici ma, a lungo andare, le cose cambiarono per cui l’immagine del feroce longobardo fa parte dei tanti stereotipi di comodo.

Non direi quindi che la conquista longobarda comportò la distruzione della città, che pare una soluzione poco credibile in quanto palesemente costruita a tavolino per giustificare le mancanze dell’apparato clericale. Con molta più probabilità i Longobardi, constatato che Brindisi era indifendibile, resero inagibile il porto per evitare pericoli esterni e,  di conseguenza, spostarono il baricentro della città all’interno, in modo da allontanarla dalla costa e porla al riparo dalle scorrerie dei Saraceni.

Comunque siano andate le cose, pare evidente che non furono i Longobardi la causa del declino e dello spopolamento della nostra città. I loro atti rappresentarono solo l’epilogo d’un processo, da tempo avviato, che aveva visto come principale protagonista il clero, in questo caso, molto più propenso a salvaguardare il proprio tornaconto che l’interesse dei credenti.

 

Note

1 N. Valente, “Prezioso l’ultimo vescovo di Pietro”, “IL 7Magazine”, n. 92, pp. 22-23, Brindisi 2019.

2 V. von Falkenhausen, “La dominazione bizantina nell’Italia meridionale dal IX al XI secolo”, Ecumenica editrice, Bari 1978, p. 168.

3 N. Valente, “Brindisi tra Longobardi e Bizantini”, https://www.academia.edu/38471510/Brindisi_tra_Longobardi_e_Bizantini).

4 A. Cameron, “Il tardo impero romano”, Il Mulino, Bologna 1995, p. 239.

5 Paolo Diacono (VIII secolo d.C.), “Storia dei Longobardi”, VI 1

6 A. Di Meo, “Annali Critico-Diplomatici Del Regno Di Napoli Della Mezzana Età”, Volume 1, Stamperia Simoniana, Napoli 1795, p. 70.

7 Ibidem.

Quando Brindisi salutò il nuovo Cesare (parte prima)

di Nazareno Valente

 

Se è scontato che tutte le strade portano a Roma, è anche vero che in antichità quelle che andavano, o venivano, dall’Oriente passavano immancabilmente per Brindisi.

A quei tempi la nostra città aveva poche uguali ed era celebrata da letterati, poeti e storici tanto è vero che, se a qualcuno venisse la briga di censire i testi antichi, scoprirebbe che, a parte Roma, nessuna metropoli dell’Occidente romano vanta un così consistente numero di citazioni. Sono infatti rari gli avvenimenti d’un certo significato storico, in particolare se accaduti sul Mediterraneo, da cui Brindisi fu esclusa, non solo per la sua importanza strategica, ma anche in virtù del suo peso economico. E questo si verificava in maniera puntuale nei momenti di evidente tensione sociale, come accaduto nel I secolo a.C. quando l’Urbe attraversò un periodo assai agitato, lacerata com’era da violenti dispute interne.

Abbiamo già visto come la nostra città abbia fatto da scenario al primo significativo scontro della guerra civile, che permise poi a Cesare di avere il sopravvento su Pompeo (11 e 12 ottobre 2017). Al termine della contesa, il vincitore debellò l’avversario dando al contempo pure la spallata conclusiva alle istituzioni repubblicane, che avevano già mostrato palesi crepe nelle lotte cittadine precedenti. Sebbene Cesare non fosse divenuto formalmente un re, lo era nondimeno nella sostanza, essendosi sostituito al Senato ed al popolo nell’esercizio dei principali poteri statali. Era di fatto lui che decideva sulla pace e sulla guerra; aveva facoltà di servirsi degli eserciti; disponeva delle finanze; proponeva gran parte dei magistrati; stabiliva i governatori provinciali ed aveva finanche il potere di creare nuovi patrizi. E tutto ciò lo faceva in forza di quelli che lo storico Svetonio chiamava gli «onori eccessivi» («nimios honores») che gli erano stati di volta in volta conferiti. Vale a dire, il consolato a vita, la dittatura perpetua, il soprannome di “padre della Patria” e la «sacrosanctitas», che lo rendeva inviolabile prevedendo addirittura la pena capitale per chi gli avesse arrecato danno.

Per andare dietro a tutto, il dittatore s’era creato un gruppo composto da persone di sua fiducia, scelti dalla nobiltà provinciale ma pure da suoi liberti e servi personali. A sentire Svetonio, Cesare aveva affidato il Tesoro statale e la cura della finanza pubblica a suoi schiavi; il comando delle tre legioni di stanza ad Alessandria al figlio d’un suo liberto e la gestione amministrativa delle province a magistrati di sua esclusiva nomina. E, pure quand’era assente, non mancava di gestire il governo dell’Urbe tramite suoi uomini di fiducia che firmavano i decreti a suo nome, dopo aver ricevuto istruzioni con lettere che facevano uso di un codice segreto basato su errori grammaticali inseriti di proposito nello scritto.

Non c’è quindi da sorprendersi se c’erano velati mugugni dovuti anche al fatto che, da un punto di vista formale, le istituzioni repubblicane sussistevano ancora, per quanto del tutto svuotate delle loro peculiari caratteristiche. Sebbene lo spirito repubblicano s’andava spegnendo sempre più, c’era comunque chi rimaneva ancorato agli ideali passati e viveva con sofferenza l’affermarsi d’un potere personale eccessivamente opprimente. Ed è su questi idealisti che l’oligarchia senatoria fece leva per modificare la situazione politica, non tanto perché desiderosa di tornare alle antiche virtù repubblicane, quanto piuttosto per riappropriarsi del potere perduto.

La congiura unì nemici a persone che avevano ottenuto da Cesare onori e cariche e si compì alle idi di marzo (15 marzo) del 44 a.C. all’apertura della riunione del Senato. Mentre Antonio, ritenuto il braccio destro del dittatore, veniva tenuto lontano dalla scena da Trebonio, un altro cospiratore, Servilio Casca, sferrava la prima delle ventitré pugnalate che uccisero Cesare. Ironia della sorte, sia Trebonio, sia Casca avevano beneficiato dei favori e della clemenza di chi stavano pugnalando. Ma non erano gli unici che avevano un debito di riconoscenza con lui, sicché non destò meraviglia che, nel corso del funerale del dittatore, un cantore, impersonando il morto, gridasse agli astanti: li ho quindi salvati perché divenissero i miei carnefici? («men servasse, ut essent qui me perderent?»).

Era questo un verso d’una famosa tragedia (“Il giudizio delle armi”) composta da un nostro illustre concittadino, Marco Pacuvio, che concorse ad alimentare lo sdegno dei presenti.

Il 18 marzo, due giorni prima del funerale, il Senato aveva aderito alla richiesta di Pisone Cesonino di dare esecuzione al testamento che Cesare aveva consegnato in custodia alle Vestali. L’apertura del documento riservò più d’una sorpresa: i nove dodicesimi dell’asse ereditario andavano al pronipote Gaio Ottavio, il futuro Augusto, che in aggiunta veniva adottato dal dittatore. L’erede, poco più che diciottenne, si trovava in quel momento ad Apollonia (una città a sud di Durazzo) mandatovi proprio da Cesare per fargli fare esperienza di vita militare al suo seguito nella programmata spedizione contro i Parti. Ed è qui che Ottavio riceve il messaggio, mandatogli in tutta fretta dalla madre Azia, che gli annuncia unicamente l’uccisione di Cesare.

Dopo essersi consultato con Vipsanio Agrippa e Salvidieno Rufo, i suoi amici più fidati, il giovane decide di rientrare in Italia: ignora cos’era avvenuto dopo il cesaricidio e, soprattutto d’essere stato adottato dal dittatore, nonostante ciò preferisce attraversare lo Ionio evitando di fare rotta per Brindisi, nel timore che i congiurati abbiano preso il sopravvento e che possano aver predisposto qualche trappola a suo danno. Approda così, per prudenza, in una località a sud della nostra città per poi dirigersi “fuori della via battuta” verso “Lupie” (Lecce). Qui fa base, sino a quando non gli arrivano informazioni più precise sugli avvenimenti e non riceve copia del testamento. Solo allora, dopo aver per altro appurato che i cesaricidi non stanno tramando nulla contro di lui, si convince infine di avviarsi verso Brindisi.

Questa la narrazione di Nicolao di Damasco e di Appiano che, però, lascia spazio ad una banale domanda: se non sapeva d’essere stato adottato da Cesare, che motivo aveva Ottavio per temere che i congiurati potessero avercela con lui? Di conseguenza appare del tutto ingiustificata la circospezione che l’aveva indotto a preferire un tragitto più tortuoso e lungo rispetto a quello che l’avrebbe condotto a Brindisi. S’aggiunga inoltre che i mezzi di locomozione d’allora non consentivano di spostarsi in tempi neppure lontanamente comparabili con quelli attuali: un tratto — ad esempio, da Roma a Brindisi — per il quale noi sprechiamo poche ore, veniva comunemente fatto in un paio di settimane, per cui anche la minima deviazione comportava un aggravio ed una grossa perdita di tempo. Quel tempo che in effetti il futuro Augusto non sembra d’aver perso in inutili esitazioni nel suo viaggio di avvicinamento a Roma, se Cicerone, in una lettera ad Attico, lo dà per arrivato in Campania già alla metà di aprile. Il che rende improbabile, pure in base ai tempi di percorrenza, il tortuoso cammino prospettato dai due storici. Quella di Nicolao e di Appiano sembra pertanto la classica ricostruzione compiuta con il senno del poi, magari condizionata dalla propaganda augustea intesa ovviamente a valorizzare le doti strategiche possedute già in età giovanile da Ottavio ed a far credere che, sin dal suo esordio politico, incuteva rispetto e timore nei suoi avversari.

Per questo, appare di gran lunga più attendibile la versione di Cassio Dione che, proprio basandosi sul fatto che i contenuti del testamento di Cesare erano ancora ignoti, dava per scontato che Ottavio si fosse diretto subito verso Brindisi, senza quindi ritenere necessaria la prudenziale tappa intermedia di Lecce. In tale ipotesi, è quindi nella nostra città che Ottavio riceve copia del testamento, venendo così a conoscenza d’essere stato adottato dal dittatore.

Comunque sia andata, su un punto, invece, i tre storici antichi si trovano d’accordo: fu a Brindisi che Ottavio abbandonò il suo nome e assunse quello del padre adottivo, facendosi chiamare da allora in poi Cesare. I suoi avversari politici, ma anche ad esempio Cicerone, continuarono almeno per il momento a chiamarlo Ottavio, e non solo per un aspetto formale: la procedura per l’adozione, che prevedeva l’accettazione dinanzi al pretore urbano e l’approvazione dei comizi tributi, non era stata neppure avviata. Per i patrizi romani era un modo spocchioso per distinguersi dai parvenu, in genere incuranti delle antiche tradizioni repubblicane.

E, nella prossima puntata, vedremo meglio perché.

(1 – continua)

 

Brindisi, municipio romano (quarta parte)

di Nazareno Valente

 

 

Meno rilevante il ruolo dei due quattuorviri aedilicia potestate che, però, avevano un compito esecutivo di gran lunga più gravoso perché dovevano sovraintendere al buon funzionamento delle strade, degli edifici pubblici, delle cerimonie religiose e degli spettacoli pubblici. Soprattutto questi ultimi rappresentavano forme di svago di cui tutto il mondo romano era oltre misura appassionato. Basterebbe ricordare la famosa frase di Giovenale panem et circenses (pane e giochi da circo) per rendersene conto. Erano di fatto una delle poche forme di svago che, al pari dei Romani, neppure i nostri antichi concittadini avrebbero mai fatto a meno. I magistrati che dovevano allestirli a volte si svenavano per andare incontro ai favori della gente, tant’è che la storia ricorda casi a Roma di celebri personaggi (e Cesare fra questi) che s’erano indebitati sino al collo quando ricoprivano la carica di edile.

Non c’è motivo di credere che a Brindisi fosse diverso perché lo spettacolo era connaturato anche allo spirito religioso del tempo. Ce n’era per tutti i gusti ma quelli che appassionavano di più erano i giochi circensi, soprattutto se cruenti. Anche il cinema moderno ha rappresentato la vita dei gladiatori e i loro combattimenti, a volte sino all’ultimo sangue. Su di loro ne sappiamo già abbastanza, per cui basta ricordare che, fatte le debite proporzioni, c’erano gladiatori osannati e famosi quasi – se non più – di idoli moderni come Messi e Ronaldo. E bastava la loro apparizione nell’arena per scatenare il boato della folla.

Molto meno conosciute – ma non certo meno gradite agli spettatori del tempo – erano gli allestimenti teatrali in cui dei criminali comuni interpretavano le parti di eroi mitici. Queste rappresentazioni avevano infatti la particolarità d’essere realiste sino alle più estreme conseguenze, tant’è che c’erano attori costretti a recitare scene il cui culmine era la loro stessa morte. In pratica venivano così eseguite pene capitali: invece del patibolo, il condannato sosteneva il ruolo d’un personaggio storico destinato a morire nel corso dello spettacolo teatrale. In definitiva erano esibizioni in cui non c’era bisogno di fingere. La paura, il dolore, i gemiti, le agonie erano reali, ed era questo che eccitava la platea.

Chi organizzava spettacoli apprezzati dal popolo poteva poi vivere di rendita; guai, però, a deludere, si rischiava d’essere bruciati e di dire addio ad ogni aspirazione politica.

Le epigrafi salvatesi dal tempo ci regalano i nomi di alcuni brindisini che ricoprirono tali alti incarichi municipali. Ad esempio i quattuorviri Gaio Falerio Nigro, Tito Aulio Aper, Lucio Cassio Flaviano, Lucio Audio e Lucio Graeceio, questi ultimi due anche quinquinnales, Caio Antonio Achaico, pure censore.

E possiamo immaginarceli mentre si aggiravano per le strade della città in toga praetexta — vale a dire la toga fregiata con un orlo di lana purpurea — che, insieme alla sella curule, faceva parte dei loro signa (segni distintivi).

Di sera passavano tra la folla accompagnati da torce (funalia) e candele (cereos) però solo i quattuorviri iure dicundo erano seguiti dai littori (lictores), muniti di verghe (fasces) ma senza le scuri (securibus), ad indicare che la loro magistratura non era insignita d’imperium1.

Per adempiere all’obbligo (officium) derivante dalla carica politica assunta, i magistrati municipali potevano contare sugli apparitores, personale subalterno che, pagato dal municipium, faceva parte dei cosiddetti officia. Questi erano composti con un numero fisso di addetti e dovevano comportare una spesa prestabilita anche nei rapporti tra magistrati: quelli a disposizione dei due giusdicenti prevedevano una spesa due volte e mezzo superiore a quella destinata ai collaboratori degli edili. Ed anche questo era indice del diverso peso politico e sociale dato ai quattuorviri iure dicundo rispetto ai quattuorviri aedilicia potestate.

Allora, bello o brutto che possa apparire, gli appiattimenti sociali non erano consentiti, e tutto andava graduato e collocato in una scala di valori ben delineati.

I due iure dicundo disponevano probabilmente del seguente personale: due lictores (littori), un accensus (usciere, aiutante), due scribae (segretari), due viatores (messi), un librarius (archivista), un praeco (banditore), un haruspex (aruspice) — che cercava di cogliere il volere degli dèi prima dell’avvio di una seduta o di una attività pubblica — un tibicen (flautista).

I due edili, invece, uno scriba, un praeco, un haruspex, un tibicen e dei servi pubblici che li assistevano nelle funzioni di carattere sacro, tipo nei sacrifici.

Quelli che godevano dello stipendio più alto erano gli scriba, tra l’altro obbligati a giurare che avrebbero svolto le mansioni con diligenza e facendo i conti senza dolo e senza tentare di appropriarsi dei soldi del municipium. Neanche a dirlo, e tipico d’una società meritocratica, gli scribae che lavoravano con gli iure dicundo percepivano un salario più alto.

Come per i magistrati, il loro incarico durava un anno.

Alle funzioni religiose (cura sacrorum) erano preposti a Brindisi i pontefici e gli auguri, eletti nei comizi con carica vitalizia.

Occorre rilevare che in ambito religioso avevano competenza anche gli iure dicundo che, oltre ad officiare molte cerimonie sacre, presentavano, per l’approvazione del consiglio dei decurioni, il calendario festivo (dies festi), vale a dire dei giorni in cui si celebravano cerimonie religiose in onore di divinità o per ricorrenze di carattere civile d’interesse locale. Questi erano decisi annualmente dai magistrati, che così fissavano appunto i giorni festivi d’interesse locale e quelli lavorativi (dies profesti) dell’anno in cui erano in carica. Ai giorni festivi, si dovevano aggiungere le feriae (festività) determinate a livello centrale dall’Urbe e che rappresentavano le feste in vigore per tutte le comunità romane.

Con ogni probabilità, a Brindisi, i pontefici e gli auguri erano raggruppati nei conlegia pontificum augurumque (collegi dei pontefici e degli auguri), i quali erano composti da non più di 3 sacerdoti ciascuno.

Al pontefice spettava la sorveglianza del culto e delle cerimonie pubbliche nei loro vari aspetti, oltre al compito specifico di sovrintendere ai sacra municipalia, ossia ai riti riguardanti divinità

onorate prima che Brindisi diventasse città romana. L’unica divinità indigena di cui è rimasta traccia, ma con il nome assegnatole dai Romani, è Pales2 che fu evocata da Attilio Regolo durante l’assedio di Brindisi.

L’augure, oltre a partecipare a tutte le funzioni sacre, aveva competenza esclusiva negli auspicia che erano delle forme d’investigazione del volere divino. Dal volo degli uccelli (da cui, auspicia da aves specere, osservare gli uccelli) che era il modo più antico d’indagine, dall’osservazione dei tuoni (tonitrua), delle saette (fulmina) e dei lampi (fulgura), vale a dire dagli auspicia caelestia (dai segni del cielo), e dal modo di mangiare dei polli sacri (auguria pullaria) gli auguri interpretavano la volontà degli dèi. Vale a dire se gli dèi erano consenzienti all’azione che s’era in procinto di fare.

In definitiva non si voleva conoscere l’avvenire ma sapere solo che quanto si stava per intraprendere non violasse il patto stipulato con gli dei, la cosiddetta pax deorum.

Tra i privilegi goduti, i pontifici e gli auguri — come per altro i loro figli — erano esentati dall’essere arruolati nella milizia e da obblighi pubblici (munera publica), in più, come i tribuni della plebe, erano inviolabili (sacro sanctius), nel senso che nessuno poteva arrecar loro anche il minimo danno fisico. Il solo toccarli, era infatti punibile con la pena capitale.

Avevano inoltre il diritto di partecipare alle cerimonie indossando la toga praetexta e prendendo posto tra i decurioni, quando c’era d’assistere ai ludi ed agli altri spettacoli che si svolgevano a Brindisi.

Durante le cerimonie sacre, i sacerdoti municipali erano assistiti da personale subalterno, quali i camilli (paragonabili agli attuali chierichetti), il tibicen (flautista), ed i victimarii, personale incaricato di uccidere l’animale vittima nei sacrifici.

Pare che a queste celebrazioni potessero partecipare officianti di altri specifici culti, come, ad esempio, Lucio Pacilio Tauro e Flavia Cypare, rispettivamente sacerdote e sacerdotessa della Magna Mater Cibele e della dea Syriae presso il municipio brindisino, i cui nomi sono stati preservati da due antiche epigrafi.

 

 

(3 – continua)

Per la prima parte:

Brindisi, municipio romano (prima parte)

Per la seconda parte:

Brindisi, municipio romano (seconda parte)

Per la terza parte:

Brindisi, municipio romano (terza parte)

Brindisi, municipio romano (terza parte)

di Nazareno Valente

 

 

 

Una delle caratteristiche dei municipi romani – tradizione questa risalente al periodo repubblicano – era l’assenza di organi monocratici, per questo non esisteva il corrispettivo del nostro sindaco ma un istituto collegiale responsabile della gestione amministrativa della città. A Brindisi il collegio dei massimi magistrati cittadini si componeva di quattro membri (quattuorviri), ripartiti in due coppie: i due quattuorviri iure dicundo ed i due quattuorviri aedilicia potestate.

La prima coppia aveva un ruolo preminente, assimilabile a quello svolto a Roma dai consoli. A questi due magistrati — chiamati per semplicità giusdicenti, perché esercitavano tra le altre cose la giurisdizione civile e penale — spettava anche l’eponimia in ambito cittadino, presiedere e convocare il consiglio comunale e le assemblee popolari, sovrintendere alle funzioni di culto ed amministrare le finanze comunali.

Nell’ambito delle loro prerogative, godevano di un’ampia autonomia organizzativa, però rispondevano personalmente di eventuali problemi di carattere economico e dovevano risarcire il municipio brindisino per qualsiasi dissesto finanziario conseguente ad una loro decisioni. Per questo la summa honoraria che dovevano versare per assumere l’incarico era particolarmente onerosa. Di conseguenza solo i Brindisini particolarmente danarosi potevano aspirare ad un simile incarico.

Anche la seconda coppia, quella dei due quattuorviri aedilicia potestate, doveva essere finanziariamente ben attrezzata. La locuzione aedilicia potestate racchiudeva infatti tutte le funzioni amministrative riguardanti l’approvvigionamento della città, il mantenimento dell’agibilità delle strade, degli edifici pubblici e dei templi ma pure funzioni di polizia urbana che dovevano consentire una vita pubblica regolata.

Rispetto al presente, però, chi aveva “poteri edili” non poteva accampare scuse di bilancio se c’era, ad esempio, una strada brindisina dissestata, né allargare le braccia per esprimere impotenza. Era costretto a cercare di trovare i soldi necessari allo scopo, magari mettendo mano al portafoglio ed a provvedere in parte a sue spese. Non l’avesse fatto, avrebbe visto evaporare la stima di cui godeva e nessun concittadino sarebbe stato più disponibile a dargli il voto in un’altra occasione. I quattuorviri duravano infatti in carica un solo anno ed erano i comitia, le assemblee cittadine, ad eleggerli. Sicché, chi si era dimostrato in un qualche frangente troppo sparagnino o incapace, non aveva molto tempo a disposizione per far dimenticare la brutta figura fatta. Senza poi contare che non si godeva dell’appoggio di partiti politici compiacenti — in quanto allora inesistenti — in grado di sostenere una diversa, e più favorevole, versione degli avvenimenti. Esistevano sì le fazioni (optimates e populares), naturalmente impegnate ad indirizzare la politica cittadina nel senso desiderato, ma nessun apparato burocratico funzionante a sostegno delle varie candidature. Chi si dava alla politica doveva pertanto contare quasi esclusivamente sulle sue specifiche qualità e sulla cerchia di amici e di clientes per emergere e sui suoi mezzi per mantenersi a galla.

Dai magistrati si pretendeva la diligentia (da dis e lego, vale a dire di scegliere con discernimento) quindi un comportamento scrupoloso nell’adempimento dell’incarico e di non fingere una cosa facendone un’altra (sine dolo malo). E questo atteggiamento solerte e sincero lo dovevano assumere sin dal momento della candidatura che essi presentavano durante la contio. Le contiones erano riunioni dei comitia a carattere consultivo in cui gli aspiranti candidati presentavano il proprio programma politico facendosi propaganda. Ed era proprio in queste occasioni che i cittadini li accettavano come candidati. Da questo momento in poi iniziava il loro andare intorno (ambire da cui il termine ambitus, poi utilizzato ad indicare il reato di propaganda elettorale illecita) nel foro cercando di convincere i Brindisini a concedergli il proprio voto.

 

 

Le campagne elettorali soggiacevano a precise norme – dette appunto de ambitu – per evitare che il candidato adottasse forme illecite nell’ottenimento dei suffragi. Come dire che anche allora c’era il sospetto che avvenissero pratiche spregiudicate, tipo il voto di scambio, solo che in antichità prendevano le leggi un po’ più sul serio.

Le norme prevedevano che in un periodo, variabile da uno a due anni1, i candidati non potessero organizzare oppure invitare qualcuno a cena per questioni collegate alla sua candidatura. Né potevano fare doni o regali per lo stesso motivo. E lo stesso valeva per i loro sostenitori, sia che lo facessero perché spinti dal candidato, sia di loro spontanea volontà. Nel caso, erano puniti allo stesso modo candidato e suoi fautori, e la condotta fraudolenta poteva essere evidenziata e perseguita da chiunque (cui volet).

Il ruolo dei due quattuorviri iure dicundo era di sicuro quello più prestigioso e più impegnativo da un punto di vista politico. In pratica, l’apice delle cariche magistratuali previste dal cursus honorum (letteralmente, corso degli onori, intesi appunto come sequenza delle cariche pubbliche) a livello municipale, anche perché erano loro che, a scadenza quinquennale, diventavano i quinquennales incaricati, come già detto, della lectio senatus. Era questa una carica che aveva un valore speciale per l’antichità, perché collegato a quello che era il bene che più si teneva in considerazione: il proprio buon nome.

A Roma li chiamavano censori, e la magistratura che svolgevano era detta censura, termine che derivava da censeo (valuto ovvero stimo). Pur non avendo poteri militari, giuridici e comunque coercitivi – quelli derivanti dall’avere una carica dotata di imperium – i censori nell’Urbe, ed i quinquennales a Brindisi potevano incidere sulla sfera sociale di ciascun cittadino, decretandone di fatto l’emarginazione. Infatti il loro compito principale era fare i censimenti che, a quel tempo, non avevano scopi puramente statistici quanto piuttosto di stabilire il censo di ciascun cittadino. Di fatto ogni cittadino veniva incasellato socialmente per fissare, in base ai beni da ciascuno posseduti, le tasse da pagare.

Se queste operazioni fossero svolte ancora ai nostri tempi, ci dichiareremmo tutti (o quasi tutti) capite census vale a dire tra chi, non avendo beni di sorta, doveva essere censito solo per la propria persona, sicché non era tenuto a pagare alcuna tassa dovendo essere inserito nel censo minimo,.

Allora invece era motivo d’onore avere proprietà ed essere inseriti nel censo più elevato possibile perché di fatto ne determinava il peso sociale. Così come un decurione ci teneva a non essere degradato, lo stesso valeva per gli equites (cavalieri o equestri), i magnati del tempo, così come per qualsiasi abitante della città, anche il meno abbiente. Il censimento ricollocava pertanto ogni Brindisino nella classe di reddito di spettanza stabilendo il carico fiscale e la consistenza sociale da ciascuno posseduta nell’ambito cittadino.

Di là dall’inserire ciascun cittadino nella fascia socio-economica di competenza, i quinquennales avevano il potere di esercitare la nota censoria, una vera e propria sanzione politica comminata a chi s’era macchiato di comportamenti indegni, che comportava l’espulsione dal decurionato, dall’ordine equestre e, per il semplice cittadino, dalla tribù. Una specie di disistima sociale o ignominia che accompagnava gli ignominiosi (così venivano identificati) per i cinque anni successivi, sino cioè al successivo censimento.

Serve ricordare, per curiosità, che anche in antichità sorgevano dispute se questo potere sanzionatorio dovesse essere assoluto o subire un controllo. Sicché, così come ai nostri tempi si discute se sia sufficiente l’incriminazione o la condanna in primo grado o più, per considerare un parlamentare indegno di svolgere l’incarico, allora si litigava se alla base della nota censoria ci dovesse essere o no una condanna che avesse comportato di già la perdita di alcuni diritti civili (deminutio capitis). Ed anche allora c’erano giustizialisti e garantisti. Tra i secondi è ricordato Clodio, fratello di Clodia, meglio nota come Lesbia negli immortali canti di Catullo, che fece passare una legge (lex Clodia de censoria notione) che limitava nel 58 a.C. il potere dei censori ai soli casi in cui ci fosse stata in precedenza una condanna.

Non si conosce — essendo una di quelle questioni sulle quali gli storici non si trovano tuttora d’accordo — per quanto tempo tale norma sia poi rimasta in vigore nell’ordinamento giuridico, certo fu motivo di controversia anche nei secoli successivi.

 

(3 – continua)

Per la prima parte:

Brindisi, municipio romano (prima parte)

Per la seconda parte:

Brindisi, municipio romano (seconda parte)

Brindisi, municipio romano (seconda parte)

di Nazareno Valente

In base ai dati desumibili dai ritrovamenti archeologici, si è portati a credere che il foro brindisino si posizionasse lì dove ora c’è piazza Mercato. In quello spazio si riunivano i comitia, le assemblee del tempo, composte dai cives e dagli incolae che nel complesso costituivano il populus, vale a dire chi, sia pure in diversa forma, era in possesso dei diritti civili e politici.

I cives erano cittadini di pieno diritto del municipio e, in quanto tali, iscritti alla tribù cui apparteneva la città. Le tribù – 35 nel complesso – non avevano alcun rilievo di carattere etnico, essendo dei puri e semplici distretti elettorali nei quali i cittadini romani erano ripartiti. Per la cronaca, Brindisi faceva parte della tribù Maecia, insieme a Napoli, Paestum, Hadria e Libarna.

Gli incolae erano invece per lo più forestieri che avevano richiesto ed ottenuto di risiedere nel territorio cittadino, oltre ad uno sparuto numero di brindisini cui non era stato riconosciuto il diritto latino nel periodo coloniale. Il populus così composto era ripartito in distretti politico-amministrativi, chiamati «curie», e partecipava alla vita pubblica prendendo appunto parte alle assemblee cittadine che, in prevalenza, avevano scopi elettorali ma anche di controllo delle attività finanziarie del municipio.

Così come per gli attuali comuni, anche i municipi romani avevano un organo collegiale di base, assimilabile ai consigli comunali, con funzioni quindi normative, finanziarie e di controllo. A quel tempo un simile organo era denominato ordo decurionum, sicché i consiglieri comunali erano chiamati decuriones o, meno spesso, curiales.

Le regole per diventare decuriones erano molto più rigide rispetto alle attuali. Intanto bisognava essere cives, il che presupponeva il possesso dei pieni diritti civili e politici; avere un’età non inferiore ai 25-30 anni; avere il domicilio in città da almeno cinque anni; godere degli honores (vale a dire il poter accedere alle magistrature); essersi sempre comportati in maniera inappuntabile e non aver mai esercitato mestieri infamanti. Di fatto gli attori, i banditori, i tenutari di case di tolleranza, gli impresari di pompe funebri ed i gladiatori – tutti mestieri allora ritenuti disonorevoli – non potevano aspirare al decurionato.

Le prescrizioni però non si fermavano a quelle elencate, perché occorreva avere un ben determinato censo, il cui ammontare in genere non doveva essere inferiore ai 100.000 sesterzi, vale a dire fruire d’un reddito quantificabile a spanne sui 400.000 € annui. Ed il motivo è del tutto comprensibile: i decurioni, non solo non percepivano, come avviene adesso, assegni mensili, né tantomeno vitalizi oppure vantaggi economici di vario tipo, ma erano pure soggetti a versare una cifra annuale (summa honoraria) necessaria a coprire spese ed eventuali ammanchi nel bilancio annuale del municipio. Il che spiega anche come mai i decurioni eleggibili fossero in numero molto elevato (in genere, cento); era infatti questa la migliore strategia per diluire gli oneri comunali tra quanti più cittadini facoltosi era possibile.

A questo punto, una domanda sorge però spontanea: come si riusciva a trovare tanti possidenti disponibili ad assumere un incarico gratuito, che in aggiunta comportava oneri monetari consistenti?

Parrà strano, per la nostra mentalità tutta volta al profitto, eppure allora c’era la fila di aspiranti decurioni.

Potessero rispondere direttamente gli interessati, con ogni probabilità racchiuderebbero il tutto con una semplice espressione: existimatio, vale a dire la buona fama. Diversamente da quel che avviene adesso, in antichità, la stima goduta valeva ben più della stessa ricchezza. In definitiva per i benestanti Brindisini il poter governare la città costituiva lo strumento più idoneo per alimentare la reputazione di cui godevano presso il resto della cittadinanza e, per un tale scopo, erano pronti a sobbarcarsi qualsiasi onere.

Fare politica ad un certo livello, era un punto d’onore per i possidenti e, al tempo stesso, motivo di prestigio e di riconoscimento. Non c’erano riscontri monetari, tuttavia le gratificazioni riguardavano la considerazione e le attenzioni che il resto dei Brindisini riservava loro. Negli spettacoli, nei giochi, nei banchetti che seguivano i sacrifici ed in ogni altra manifestazione, fruivano di posti riservati, e avanzavano di posizione in conformità al proprio impegno civico. Come dire che più spendevano a favore della comunità, più si avvicinavano alle poltrone di prima fila.

Non a caso, le magistrature erano indicate con il termine honores, proprio a precisare che conferivano prestigio, non una retribuzione.

Era questo il meccanismo su cui le società antiche operavano maggiormente per attuare una qualche forma di ridistribuire del reddito e, vista in altra ottica, costituiva una vera e propria patrimoniale con un ritorno rappresentato dal credito che si acquisiva. Non a caso, quando con l’avvento del cristianesimo il clero assunse nella tarda antichità una posizione politica preminente ed il valore onorario della carica di decurione decadde ai minimi termini, nessuno più fu disponibile a svolgere un tale incarico. Tant’è che fu imposto ai ricchi per obbligo di legge; obbligo che tutti naturalmente cercavano di eludere.

Ironia della sorte, uno dei mezzi più utilizzati per esserne esonerati fu proprio quello d’intraprendere la carriera ecclesiastica, allora per altro non ancora esaltata dalla castità. Dal IV secolo in poi, il clero era stato infatti esentato dall’assumere cariche amministrative, in quanto il servizio religioso era già di per sé una prestazione considerata di pubblica utilità. All’incirca come adesso, a distanza di millenni, sono esenti dalle imposte sugli immobili le proprietà della Chiesa, perché ritenute comunque destinate ad attività di culto ed alla cura delle anime. Fu questo uno dei motivi, non certo marginale, che rese le istituzioni estranee al popolo, troncando quel processo d’identificazione comunemente operante nel periodo pagano che aveva reso solida la comunità romana.

L’ufficio era vitalizio, tuttavia la condotta dei decurioni era soggetta a verifiche periodiche (lectio senatus) che ne potevano stabilire la decadenza dalla carica. Ogni cinque anni infatti i quinquennales, così denominati perché la lectio senatus era fatta ogni cinque anni, potevano radiare i decurioni che si fossero macchiati di colpe riprovevoli che li rendevano indegni di far parte del collegio (indignitas ordinis) oppure estrometterli perché non avevano più il censo previsto per svolgere l’incarico o per aver perso il domicilio.

Va sottolineato che, in linea teorica, il diritto di promuovere l’accusa di indignitas nei riguardi d’un decurione spettava a qualsiasi Brindisino che, nel caso il magistrato giusdicente ne avesse accolto il ricorso, acquisiva il diritto di entrare nel collegio al posto del decurione condannato.

Ma oltre alla conferma di chi era in carica ed alla destituzione dei componenti indegni, i quinquennales procedevano anche alla scelta dei Brindisini degni di ricoprire l’incarico, basata sui meriti acquisiti proprio in campo politico. Non era però questo l’unico criterio. Poiché tutto il mondo è paese, capitava pure che il reclutamento soggiacesse, sia pure in via eccezionale, a pressioni e raccomandazioni di qualche personaggio importante, non escluso lo stesso imperatore.

I magistrati incaricati della lectio senatus predisponevano anche una lista dei Brindisini in possesso dei requisiti legali (sublectio) che servisse a colmare eventuali vuoti che si sarebbero creati nel corso del quinquennio, a seguito di decessi o di estromissioni. Infatti la diminuzione dei componenti in carica poteva comportare problemi sia per le decisioni da assumere – a volte erano previste maggioranze qualificate per le deliberazioni – sia per le casse comunali, perché si venivano a perdere le quote annuali (la più volte citata, summa honoraria) dei componenti decaduti.

L’ordo decurionum si radunava nella curia, corrispondente all’odierno palazzo comunale, oppure in un edificio pubblico, di solito un tempio o altro luogo sacro. La curia, da cui deriva il nome alternativo di curiales attribuito ai decurioni, si trovava nel foro brindisino che, come già detto, era collocato all’incirca dalle parti dell’attuale piazza Mercato.

In pratica questo organo ripeteva, a livello brindisino, quello che per Roma era il senato; per questo motivo, era pure chiamato senatus. Difatti le sue competenze spaziavano in tutti i campi della vita amministrativa cittadina. I decurioni avevano così il potere di determinare i giorni delle feste religiose; sovrintendere ai giochi svolti a Brindisi in omaggio a divinità; fissare a quali Brindisini concedere i posti privilegiati negli spettacoli; scegliere i sacerdoti. Erano inoltre competenti in materia finanziaria e patrimoniale, per cui decidevano sulle cessioni di immobili della città o sulla concessione di spazi demaniali per edificare statue da dedicare agli dèi o sepulchra (monumenti funebri) intitolati a Brindisini di particolare spicco; sull’esecuzione e sulle demolizioni di edifici pubblici; sull’uso degli acquedotti comunali e sull’accettazione di donazione e lasciti a favore del municipio.

Le delibere del consiglio dei decurioni, chiamate decreta, venivano conservate nell’archivio (tabularium) della curia, trascritte su tavolette lignee (tabulae).

Per la validità della seduta era talora previsto l’obbligo della presenza d’un numero minimo di decurioni (quorum praesentia sufficit), quindi di quelli la cui presenza è sufficiente. Questo avveniva, ad esempio, per ascoltare la relazione sul calendario annuale dei giorni festivi e quella sul piano finanziario delle spese ai sacra, oppure per l’approvazione dei decreti riguardanti le opere pubbliche o l’organizzazione delle rappresentazioni teatrali (ludi scaenici).

I decurioni decidevano a maggioranza. In alcuni casi era richiesta una procedura speciale di votazione in cui essi esplicitavano il voto scrivendolo su una tavoletta (tabella), e per questo detta procedura per tabellam. Si votava per tabellam nelle occasioni più importanti, tipo quando si doveva decidere sull’hospitalitas nel municipium, ovvero sulla concessione del diritto all’abitazione ed al vitto ad un ospite che poteva anche essere un intero esercito in armi.

(2 – continua)

 

Per la prima parte clicca qui:

Brindisi, municipio romano (prima parte)

Brindisi, municipio romano (prima parte)

di Nazareno Valente

 

C’è più d’un motivo per sospettare che soprattutto le classi più abbienti brindisine non furono per nulla soddisfatte dalla legge Iulia de civitate latinis (et sociis) danda, con cui nel 90 a.C. Roma concedeva la cittadinanza romana alle comunità dell’allora Italia peninsulare. La modifica istituzionale che tramutava la precedente autorevole colonia latina di Brindisi in un municipio romano comportava per la classe dirigente, e per quella equestre, una indubbia perdita di potere non del tutto controbilanciata dai benefici che s’acquisivano. Da un punto di vista formale la norma non implicava un obbligo, in quanto le città avrebbero potuto in teoria non avvalersi del nuovo stato giuridico e permanere in quello precedente. Tuttavia nella sostanza l’Urbe attuò tutti gli strumenti a sua disposizione per piegare la volontà anche delle comunità più riottose, magari usando bastone e carota insieme, al fine di arrivare ad una situazione di totale equiparazione istituzionale.

Silla — peraltro grato ai Brindisini che l’avevano accolto e sostenuto nella lotta contro Mario e Cinna — accordò, appena divenuto dittatore, al futuro municipio l’ateleia1, vale a dire la franchigia per tutte le merci trattate nel porto, e questo beneficio fu sufficiente a placare ogni possibile mal di pancia. Brindisi perse in tal modo potere politico, finendo per divenire un anonimo municipio, acquisì però un notevole impulso economico.

La scelta si rivelò azzeccata soprattutto successivamente al periodo tormentato delle guerre civili in cui la città salentina si trovò, quale punto strategico di rilevo, sempre in prima linea, con inevitabili conseguenze negative per le normali attività urbane. Passata la buriana, la pace instaurata da Augusto dopo Azio (31 a.C.) e le mutate mire espansionistiche dell’Urbe — indirizzate ormai verso il nordest dell’Europa — oscurarono l’importanza militare del porto brindisino, superato in tal senso da Ravenna e Miseno, nel frattempo scelte ad ospitare la flotta imperiale.

Le nuove strategie tolsero sì la ribalta alla città — che infatti nel prosieguo sarà meno citata dagli storici — ma ebbero l’effetto salutare di preservarla dai contraccolpi negativi che il coinvolgimento nelle attività belliche implicava, primo fra tutti quello di non dover più avere a che fare con i legionari, le cui frequenti prepotenze erano causa di grave imbarazzo per la popolazione civile.

Brindisi si mise alle spalle le pericolose glorie del passato e inaugurò il suo periodo più redditizio, la cui durata andò ben oltre le radicali riforme di Diocleziano avviate alla fine del III secolo dell’era cristiana. Fu così possibile sfruttare il porto in senso commerciale e ciò procurò notevoli vantaggi economici perché permise, grazie innanzitutto alle agevolazioni fiscali fruite, di imporre i prodotti brindisini al ricco mondo orientale. Alle produzioni di nicchia, tra le quali la più famosa riguardava le ostriche, coltivate, diversamente da quello che si narra2, nei bacini del porto interno dove le acque erano meno soggette alle correnti e non c’era pericolo che le larve venissero disperse, si aggiungevano quelle intensive riguardanti il vino e l’olio. Prodotti questi ultimi che raggiunsero anche i più sperduti mercati delle province romane. Brindisi seppe così sfruttare gli effetti positivi conseguenti all’essere stata inserita in un organismo statale di ampio respiro che consentiva contatti internazionali sino ad allora negati alla struttura coloniale.

Esamineremo magari in futuro questo boom economico che la rese una delle più ricche comunità dell’impero. In questa occasione ci soffermeremo sull’ordinamento istituzionale del municipio brindisino, aspetto questo sinora del tutto trascurato dalla storiografia locale.

Le fonti non ci forniscono una data certa di quando Brindisi fu eretta a municipio, sebbene vari indizi inducono a ritenere che nell’83 a.C. l’iter giuridico previsto fosse ormai stato definito e che, quindi, all’incirca in quell’anno iniziarono ad operare le cariche municipali. Va qui inoltre ricordato che l’etimologia del termine municipium traeva origine da munus capere (assumere un onere) indicativo della circostanza che, in cambio della cittadinanza romana, le comunità si assoggettavano ad oneri di vario tipo, determinati nello specifico dall’atto costitutivo del municipio che fissava inoltre i limiti dell’autonomia comunale. Di fatto gli abitanti dei municipia optimo iure, come quello brindisino, avevano gli stessi diritti ed i medesimi doveri dei romani originari, mentre la loro vita cittadina era regolata dai singoli ordinamenti.

Dello statuto che disciplinava la vita municipale della città non è rimasta neppure la più esigua traccia, per cui la struttura amministrativa è ricostruibile solo attraverso i testi epigrafici o le sparse informazioni disseminate nei resoconti degli autori antichi che, in genere, si soffermavano poco su questi aspetti dando per scontato che i loro lettori ne fossero a perfetta conoscenza. L’ordinamento di Brindisi non può pertanto essere completamente delineato perché esso presentava aspetti particolari sui quali, data la limitatezza delle notizie concesse dalle fonti, è possibile solo formulare delle ipotesi. Pur tuttavia poiché la riorganizzazione delle comunità italiche in municipi avvenne seguendo uno scenario legislativo comune, è possibile integrare le nostre conoscenze con quanto si è in grado di desumere, per analogia, dagli ordinamenti delle altre città coinvolte nella medesima riforma.

Brindisi. Santa Maria del Casale e l’affresco di Goffredo I di Charny, il Cavaliere della Sindone

di Marcello Gaballo

Il Salento è una terra ricca di tesori nascosti che attendono ancora di essere svelati e valorizzati. È quindi con grande piacere che riferiamo di una importante scoperta, fatta di recente dal nostro collaboratore Marcello Semeraro, studioso di araldica e sigillografia medievali, nella chiesa di Santa Maria del Casale in Brindisi.

In un corposo articolo che sarà pubblicato sul prossimo numero, di imminente uscita, della qualificata Rivista di storia della Chiesa in Italia, lo studioso oritano analizza e attribuisce una parata di stemmi cavallereschi affrescata sulla parete meridionale del santuario brindisino, rimasta fino ad ora anonima (fig. 1).

Santa Maria del Casale, Charny
fig. 1

 

L’ipotesi avanzata da Marcello Semeraro, supportata da una serie di riscontri storici e araldici, è quella di un affresco votivo commissionato dal cavaliere francese Goffredo I di Charny – considerato il primo possessore dell’attuale Sindone di Torino – e dai suoi compagni d’armi in occasione della tappa brindisina del viaggio di andata o di ritorno dalla crociata di Smirne (figg. seguenti).

 Santa Maria del Casale e l’affresco di Goffredo I di Charny

 Santa Maria del Casale e l’affresco di Goffredo I di Charny

L’esame incrociato dei dati ricavati dalle testimonianze araldiche (stemmari e sigilli medievali) e dalle fonti storiche relative alla crociata smirniota consente, inoltre, all’autore non solo di ricostruire il contesto politico e devozionale della committenza, ma anche di circoscriverne cronologicamente l’esecuzione agli anni 1344-1346, a ulteriore dimostrazione dell’importanza dell’araldica quale scienza documentaria della storia.

Nella sua accurata indagine, alla quale ovviamente si rimanda per maggiori dettagli, lo studioso si dimostra abile nel tenersi alla larga da ogni scivolone nel quale sarebbe stato facile incorrere quando si tratta di Geoffroy de Charny, la cui storia personale è molto spesso mal raccontata in pubblicazioni dedicate principalmente alla Sindone di Torino, che qui rimane opportunamente sullo sfondo, sebbene non manchi chi, fra i sostenitori di una provenienza orientale della reliquia, ipotizza che il cavaliere francese l’abbia trovata proprio a Smirne, attraverso percorsi su cui esiste poca concordia e nessun elemento di certezza.

 Santa Maria del Casale e l’affresco di Goffredo I di Charny

Il contributo di Semeraro – che si avvale, fra l’altro, della collaborazione di Andrea Nicolotti (fra i massimi studiosi della Sindone) e di alcuni fra i maggiori araldisti europei – mette insomma in luce un singolare aspetto della natura storica del Sud Italia in quanto snodo fondamentale della circolazione europea di uomini e idee, e cerniera tra Mediterraneo occidentale e orientale.

Sullo sfondo campeggiano la città di Brindisi, il suo porto e il santuario mariano costiero di Santa Maria del Casale, uno straordinario monumento tutt’altro che provinciale, la cui fortuna si giocò soprattutto nel più ampio contesto della politica euro-mediterranea del Trecento e delle ambizioni, mai realizzate fino in fondo, di conquista dell’Oriente da parte dei sovrani della dinastia angioino-napoletana e dei principi del ramo tarantino.

 Santa Maria del Casale e l’affresco di Goffredo I di Charny

L’auspicio, pertanto, è che questa importante scoperta possa offrire alla ricerca storica sul «cavaliere della Sindone» e sulla chiesa di Santa Maria del Casale un solido terreno per futuri e auspicabili approfondimenti.

Brindisi nella guerra greco-gotica (seconda parte)

Totila incontra san Benedetto. Affresco di Spinello Aretino in San Miniato al Monte, Firenze

 

di Gianfranco Perri

Nella primavera del 547, sorpresivamente Belisario riprese Roma, che era rimasta sguarnita di truppe gotiche e, per poter proseguire la guerra, richiese insistentemente nuovi rinforzi a Costantinopoli, da cui finalmente partirono alcuni contingenti alla volta dell’Italia, seguendo la rotta più breve che portava direttamente a Otranto. Un primo rinforzo, che giunse costituito da trecento Eruli comandati da Vero, appena sbarcato si diresse su Brindisi, accampandosi nelle vicinanze della città.

«Vero doveva essere un poco di buono; Procopio dice che oltre a non essere una persona seria, era anche un formidabile beone: il vino lo rendeva temerario fino all’inverosimile e quando Totila lo attaccò, massacrò molti dei suoi soldati e lui si salvò in estremis solo grazie all’arrivo di una flotta imperiale, forte di ottocento uomini comandati dall’armeno Varazze, diretta a Taranto [per unirsi alle forze di Giovanni].»1

Il Salento, per la sua strategica posizione, in quel frangente della guerra si trovò di fatto al centro del conflitto e Totila impegnò le sue forze a prendere Taranto – che nel mentre era stata fortificata da Giovanni – per poter meglio ostruire la via ai rinforzi imperiali richiesti da Belisario che li aspettava asserragliato dentro Roma. Dopo aver conquistato Taranto, infatti, Totila tentò di riprendersi Roma, ma non ebbe successo giacchè Belisario riuscì a respingere i suoi tre attacchi. Seguirono due anni in sostanziale situazione di stasi, finchè, nell’autunno del 549 Totila pose nuovamente l’assedio a Roma. Si trattò anche questa volta di un lungo assedio, nel mezzo del quale Belisario vanamente tentò di farsi mandare rinforzi dall’imperatore Giustiniano, inviando persino la propria moglie a Costantinopoli a perorare le sue richieste, ma questa solo ottenne che il marito potesse ritornare a casa. Poi, nuovamente, gli Isaurici tradirono aprendo la Porta di San Paolo al nemico e Totila entrò di nuovo a Roma, dove, con il Senato già trasferito quasi al completo a Costantinopoli, restavano ormai solo pochi sopravvissuti dei duecentomila cittadini che vi abitavano prima della guerra. E con Roma, i Goti di Totila consolidarono il loro dominio su gran parte dei territori italiani, con la sola eccezione di alcune poche città, tra cui Otranto.

Nel 552, Giustiniano – spinto anche dal papa Vigilio, dai senatori e dagli altri esuli italiani con lui rifugiatisi a Costantinopoli – decise di ravvivare la guerra e ne affidò il comando a Narsete, comes sacri erari, ministro del tesoro e prepositus sacri cubiculi, gran ciambellano di corte, eunuco armeno, ultrasettantenne, grande organizzatore e grande politico, il quale si rivelò essere anche uno straordinario e vincente stratega militare. Narsete, con un nutrito ed eterogeneo esercito entrò in Italia dal Veneto, spostando così nuovamente il teatro delle operazioni della guerra nelle regioni centro-settentrionali e, muovendosi verso Sud lungo la costa, raggiunse rapidamente Ravenna, evitando le forze del giovane comandante goto Teia, che si erano appostate a Verona per inteccertarlo. Totila quindi abbandonò Roma, ma raggiunto, fu sconfitto nella ‘battaglia dei giganti’ a Tagina, tra Gubbio e Gualdo Tadino, dove cadde ucciso alla fine di giugno 552, dopo aver regnato per undici anni. Nel 553 Narsete con i suoi soldati entrò a Roma accolto come un eroe. Poi, anche Teia, il giovane successore di Totila, proclamato a Pavia ultimo re dei Goti, che si era diretto a Sud, fu intercettato assediato e sconfitto, e dopo aver combattuto strenuamente fu ucciso tra i monti Lattari, presso il Vesuvio nel marzo del 553, mentre il resto dei caposaldi gotici rimasti nel Meridione, si arrese in rapida successione alle truppe imperiali.

La guerra greco-gotica era, in principio, finita e gli imperiali bizantini di Giustiniano avevano sconfitto i Goti, il cui regno d’Italia era stato definitivamente cancellato. Restavano comunque alcune sacche di resistenza e di rivendicazione gotica, una delle quali, presso i confini nordici dei territori veneti, faceva in qualche modo riferimento al regno di Teodebaldo, re dei Franchi d’Austrasia, presso il quale chiesero aiuto i Goti d’oltre Po, mostrandosi disposti a compensarlo lautamente. Teobaldo, in posizione di formale neutralità rifiutò, ma favorì l’entrata in campo di due Alemanni Suavi, fratelli e condottieri inescrupolosi, Leutari e Boccellino, disposti a fornire “a titolo personale” l’aiuto militare richiesto. I due Alemanni predisposero con la massima celerità una spedizione militare, che nella primavera del 553 attraversò le Alpi, entrò in Italia e si diresse rapidamente verso il fiume Po.

«All’ingresso dei due duchi in Italia, l’assetto della penisola era parecchio instabile: alcune città o fortezze erano tenute da Goti passati all’ossequio dell’Impero, altre da Goti indipendentisti, certe altre erano ancora sotto attacco o assedio romaico. Alle prime favorevoli manovre dell’esercito franco-alamanno, qualche roccaforte ostrogota della Tuscia che si era già arresa insorse, col proposito di riunirsi ai connazionali transpadani e forze d’invasione.»4

«L’attacco franco-alemanno si rivelò da subito potenzialmente assai insidioso, anche perché molti Goti sbandati della Liguria e dell’Emilia vi si unirono: da Parma la spedizione toccò l’Etruria e nella primavera del 554 si spinse verso Roma, oltrepassata la quale, nel Sannio, gli invasori si divisero in due colonne d’attacco, ciascuna capitanata da uno dei fratelli: Buccelino guidò una scorreria lungo la Campania, la Lucania e il Bruzzio, fino allo stretto di Messina.»5

«Leutari, con l’altra schiera infestava l’Apulia e le terre Calabre; e dopo che [essendo di certo passato anche da Brindisi] giunse a Otranto, che è proprio al confine del mare di Adria e dello Ionio, tutti quelli che c’erano della stirpe dei Franchi, con grande religiosità e riverenza risparmiavano gli edifici sacri per ubbidire alle giuste e rette volontà divine; anche perché – scrive Agazia – essi avevano sulla fede le stesse convinzioni religiose dei Romani.»4

«La colonna di Leutari, che aveva intrapreso l’itinerario costiero adriatico, [sulla via del ritorno in piena estate del 554] si scontrò duramente con la piccola ma ben guidata guarnigione bizantina di Pesaro, perdendo in quella circostanza buona parte di quel bottino che cercava di mettere in salvo in territorio sotto controllo Franco e, attraversato in qualche modo il Po, si diresse in cerca di rifugio nella Venetia, accampando nel castrum di Ceneda, dove fu colta da una mortale epidemia in seguito alla quale morì lo stesso Leutari… Narsete, intercettato e inseguito Buccelino, [in autunno] ne aveva rovinosamente sconfitte le schiere nei pressi del Volturno, dove cadde ucciso in combattimento lo stesso Buccellino.»5

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Anche se la lunga ed articolata guerra greco-gotica coinvolse tutta l’Italia, dal Veneto alla Sicilia, e danneggiò seriamente la maggior parte della penisola, lo fece comunque con intensità e modalità diverse a seconda delle aree che interessò nei differenti momenti del suo percorso, non dovendosi pertanto necessariamente accettare del tutto la pur stereotipata lettura di un’Italia uscita completamente distrutta dal conflitto, con le campagne devastate e le città rase al suolo, la popolazione immiserita e deportata, quando non uccisa o decimata dalle epidemie.

Brindisi, nel lungo De bello Ghotico di Procopio di Cesarea completato da Agazia di Mirina, è citata pochissime volte, meno che le dita di una sola mano e ciò, in tale circostanza, potrebbe forse assumere un significato positivo, nella misura in cui “a meno fatti di guerra da raccontare, meno morti e meno distruzioni da contabilizzare”.

«Durante il ventennale conflitto greco-gotico, Brndisi fu occupata in varie occasioni dai contendenti, ma i fatti si svolsero senza colpo ferire… Sembra che durante il conflitto fra Goti e Bizantini, i Brindisini, per proteggere i loro interessi economici, abbiano seguito una politica ambigua parteggiando, di volta in volta, per l’occupante di turno, consentendo alla città di uscire dalla guerra col minimo dei danni… Si sa che i danni più considerevoli la guerra li arrecò con la devastazione delle campagne, battute dagli opposti eserciti. Tale devastazione dovette provocare, di riflesso, squilibrio nell’economia brindisina che contava molto, allora, sull’esportazione dei prodotti agricoli.»3

In effetti, dall’analisi delle fonti pervenute, sembrerebbe che le azioni di guerra abbiano interessato più direttamente da vicino il territorio del brindisino e meno la propria città e comunque, di fatto, solo durante la seconda fase della guerra, quella corrispondente al regno goto di Totila e del suo effimero successore Teia, a partire dal ritorno in Italia di Belisario nell’estate del 544, e quindi per circa un decennio.

«Possiamo chiederci quale fosse l’atteggiamento delle popolazioni meridionali: sappiamo che durante la campagna di Belisario – prima fase della gerra – Bruzi e Calabri in particolare, non avendo truppe gotiche nel loro paese, volentieri patteggiavano per il generale bizantino. Ma – nella seconda fase della guerra – con la situazione militare cambiata, forse, è legittimo pensare che anche l’atteggiamento di quelle popolazioni cambiasse e si volgesse a favore dei Goti… In conclusione, gli atteggiamenti delle popolazioni furono determinati di volta in volta dal variare delle circostanze e a seconda dell’opportuntà del momento.»1

Se dunque la causa dell’indubbio profondo e prolungato decadimento che soffrì Brindisi nei secoli che seguirono a quell’evento bellico6 non fu tutta semplice e diretta conseguenza della guerra, e se inoltre – come è ben documentato anche da Cassiodoro – quel decadimento non si era manifestato prima dell’evento e forse – como farebbe presumerlo la Pragmatica Sanctio emanata da Giustiniano alla fine della guerra – neanche immediatamente dopo, allora cosa realmente lo determinò? Quale ne fu la reale causa? Molto probabilmente, la spiegazione è da ricercare direttamente nel cambiamento indotto dal risultato della guerra, determinato cioè dalla sconfitta dei Goti e dalla vittoria dei Greci, in definitiva, dalla nuova conduzione politica e amministrativa: quella bizantina dei vincitori, i Greci, nuovi dominatori della regione.

«Vi contribuirono l’errata politica economica dei successori di Giustiniano, il precario stato di sicurezza delle vie di comunicazione terrestri ed infine una serie di catastrofi naturali… Lo spopolanento delle campagne, le inumane condizioni di vita dei contadini ed il fiscalismo eccessivo furono le cause della depressione che, iniziatasi in questo periodo, sarà costante per Brindisi fino alla fine del primo millennio… Con il declassamento del porto di Brindisi e la rivalutazione di quello otrantino, Brindisi perde il ruolo che aveva esercitato nella regione sin dall’età messapica… E sotto Costante II, la pressione fiscale esercitata dai Bizantini divenne insostenibile…»3

 

Note

1 O. Giordano, La Guerra Greco-Gotica nel Salento in “Brundisii Res” – 1974

3 G. Carito, Lo stato politico economico di Brindisi dagli Inizi del IV Secolo all’anno 670 in “Brundisii Res” – 1976

4 G. Arnosti, Goti e Franchi Merovingi Nella Venetia aa. 450-565 – 2015

5 M. Gusso, Franchi Austrasiani nella Venetia del VI Secolo dC – 2002

6 G. Perri, Brindisi bizantina nei cinquecento anni più bui della sua storia http://www.brindisiweb.it/storia/brindisi_bizantina.asp

 

Per la prima parte:

Brindisi nella guerra greco-gotica, una lunga guerra poco nota ma dalle conseguenze epocali (prima parte)

 

Brindisi nella guerra greco-gotica, una lunga guerra poco nota ma dalle conseguenze epocali (prima parte)

Giustiniano e la sua corte. Mosaico nella chiesa di San Vitale a Ravenna

 

di Gianfranco Perri

La storiografia classica colloca convenzionalmente il passaggio dal Tardoantico al Medioevo in coincidenza con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, a sua volta associata alla deposizione dell’ultimo imperatore, Romulo Augustulo, per mano del generale romano di origini unne Odoacre, nel 476 dC., estromesso dopo tredici anni dal goto Teodorico e da questi ucciso nel 493. Da qualche tempo però, gli storici hanno messo in discussione tale convenzione, osservando che più significativo che l’individuazione di una data precisa in cui collocare il trapasso, sia l’individuare la fine della persistenza dell’antico, cosa che si traduce inevitabilmente in accettare una transizione più o meno lenta e solo eventualmente più o meno legata a un qualche specifico accadimento, in sostituire quindi a una data un periodo e infine, in considerare un passaggio non unico ma diverso da luogo o regione a regione.

In questo ordine di idee, per Brindisi e per la sua regione salentina, probabilmente lo spartiacque tra il Tardo Antico e l’Alto Medio, potrebbe averlo costituito la ventennale guerra greco-gotica iniziata nel 535, una sessantina d’anni dopo la fine dell’Impero Romano d’Occidente. Infatti, anche se le fonti sul corso della guerra intorno a Brindisi non sono molto prodighe di notizie e sono comunque sufficienti a poter determinare la ‘non occorrenza’ di un evento dalla portata emblematica di un cataclisma epocale, è indubbio che l’avvento del dominio bizantino conseguente al risultato di quella lunga guerra – che vide finalmente sconfitti i Goti – costituì certamente un cambio profondo e una interruzione drastica per un sistema socioeconomico e politico che, se pur in graduale e oscillante evoluzione, con i Goti si era mantenuto in sostanziale continuità con il trascorso Basso Impero.

Le Variae di Caissiodoro Flavius Magnus Aurelius (~486-560) costitiscono la fonte più diretta circa il cinquantennale periodo del dominio gotico in Italia, con il re Teodorico, Amalasunta sua figlia reggente del fratello Atalarico, e il re Teodato cugino marito e omicida di lei. Mentre numerosi ed interessanti dettagli sono riportati nello “Stato politico economico di Brindisi dagli Inizi del IV Secolo all’anno 670” di Giacomo Carito in Brundisii Res, 1976 e “Sulle Condizioni Economiche della Puglia dal IV al VII Secolo dC” di Francesco M. De Robertis, 1951 in “Archivio Storico Pugliese”.

Fonte principale della guerra gotica è, invece, il De bello Gothico di Procopio di Cesarea (~495-565), storico greco, segretario e consigliere al seguito del comandante bizantino Flavio Belisario, in parte – fino al 540 – testimone diretto e privilegiato degli eventi che si susseguirono in Italia fin dallo sbarco in Sicilia degli eserciti bizantini inviati dall’imperatore Giustiniano – l’ultimo imperatore con origini romane – completato dagli scritti di Agazia di Mirina (~536-582), un altro storico bizantino considerato il continuatore di Procopio, che iniziò la sua narrazione della guerra dal punto – circa il 550 – in cui l’interruppe Procopio, descrivendone di fatto le fasi finali con le campagne di Narsete, il generale bizantino eunuco e grande stratega, che rilevò Belisario dal comando fino a culminare vittoriosamente la guerra.

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La lunga guerra si sviluppò in due fasi ben separate tra di esse. La prima vide una relativamente rapida vittoria dei Bizantini di Belisario che, sbarcato nel luglio del 536 in Sicilia e conquistatala, varcò lo stretto e attraverso la Calabria si diresse a Napoli che, assediata e conquistata in soli venti giorni, fu sacchegiata indiscriminatamente. In seguito, lo sconfitto re goto Teodato venne sacrificato dai suoi ed al suo posto fu eletto Vitige, il quale dalla capitale del regno, Ravenna, si dispose a organizzare la reazione gotica, mentre Roma senza resistere si arrendeva a Belisario il 10 dicembre del 536. Quindi, Vitige tentò la riconquista di Roma assediandola con un numeroso esercito, ma vanamente e dopo un anno ripiegò nuovamente su Ravenna. Poi, trascorso qualche altro anno di alterne vicende belliche – che nel 537 videro lo sbarco a Otranto di un contingente fresco di mille soldati e di ottocento cavalieri comandati dal generale bizantino Giovanni – fu Belisario a porre l’assedio a Ravenna, che resistette a lungo finchè un vorace icendio, probabilmente doloso, distrusse tutte le scorte di grano. Vitige allora, nella primavera del 540, decise di capitolare e, al seguito di Belisario, fu portato come trofeo a Costantinopoli, dove poi rimase in esilio dorato.

La prima fase della guerra, conclusasi a favore dei Greci, aveva avuto come teatro delle operazioni essenzialmente Roma e le regioni del centro e del nord’Italia e i Goti, in seguito alla capitolazione di Vitige, nel settembre-ottobre del 541 elessero re Baduila, detto Totila che vuol dire ‘immortale’, dopo il breve regno di Ildibald, uno zio di Baduila che presto era rimasto ucciso e dopo Erarico, eletto re ma poi contrastato ed ucciso dopo soli cinque mesi di regno.

«Il ritorno di Belisario a Costantinpoli aveva lasciato l’Italia in mano ai comandanti militari [capeggiati da un debole Costanziano] inesperti di amministrazione, e agli esattori delle tasse, espertissimi ed inesorabili nello spremere denaro anche là dove l’indigenza e la miseria rendevano precaria la stessa vita quotidiana. Le popolazioni esasperate cominciavano già a rimpiangere il governo del Goti.»1

Totila – che da subito applicò una politica intelligente, seguendo l’esempio del suo antecessore Teodorico, facendo il contrario dei Bizantini e gravando i grandi proprietari e favorendo contadini e coloni – organizzata la riscossa, con anche il favore delle popolazioni, procedette a riconquistare gradualmente i territori controllati dai Bizantini e a rioccupare le regioni più meridionali del regno, che non avendo subito le devastazioni della guerra costituivano territori ottimi per i rifornimenti di vettovaglie.

«E poiché niun nemico veniagli contro, sempre mandando attorno piccoli drappelli di truppe, [Totila] operò fatti di gran rilievo. Sottomise l’Abbruzzo e la Lucania e s’impossessò delle Puglie e della Calabria, e i pubblici tributi egli riscosse, e i frutti degli averi si appropriò in luogo dei possessori dei terreni, e di ogni altra cosa dispose come signore d’Italia.»2

Era così iniziata la seconda fase della guerra, fase questa che coinvolse da vicino anche la Puglia, il Salento – cioè l’antica Calabria – e quindi Brindisi. Presa Napoli, nell’aprile del 543, Totila si diresse ad assediare Roma e al contempo inviò una parte dell’esercito verso Sud, su Otranto, sapendo che quella città con Brindisi e Taranto costituiva un triangolo chiaramente strategico per la logistica bizantina, che da quei tre porti dipendeva primordialmente per mantenere attivi ed agili gli indispensabili collegamenti militari e mercantili con la capitale e con il resto dell’impero.

A quel punto, Giustiniano, preoccupato per il precipitare degli eventi, nell’estate del 544 rispedì Belisario in Italia, e questi, in attesa dei rinforzi da destinare alla difesa di Roma, raggiunse Otranto evitandone giusto in tempo la resa e inducendo i Goti, resi timorosi dalla sua presenza, ad abbandonare l’assedio e a recarsi a Brindisi.

«Saputo di ciò, i Goti che stavano ad assediare quel castello, tolto subito l’assedio, recaronsi a Brindisi che dista da Otranto due giorni di cammino, ed è situata sulla riva del golfo e sprovvista di mura.»2

«Procopio afferma che la città era priva di mura, ma non specifica se le stesse erano state demolite o abbattute per sguarnirla della sua fortificazione o per conquistarla in fase di guerra. Nella circostanza appare probabile che le mura fossero ormai vecchie e cadenti, dato che l’esame della superstite muraglia romana, o meglio terrapieno, che è sul seno di Ponente del porto, nei pressi di corte Capozziello, di fronte a quello che doveva essere l’approdo del porto, dimostra che i Romani si limitarono ad accomodare le preesistenti mura messapiche non costruendone di nuove, almeno da quel lato. Inoltre, non risultano esserci stati assedi o scontri armati dal tempo di Antonio e Ottaviano fino alla guerra gotica. È probabile quindi, che nei cinque secoli intercorsi tra i due eventi, le mura siano state superate dallo sviluppo urbanistico, o che fossero in rovina durante la guerra per essere ormai vecchie.»3

Salpando da Otranto, Belisario si diresse con un ridotto esercito alla volta di Roma assediata dai Goti, mentre Giovanni, l’altro generale bizantino, preferendo spostarsi verso Roma per via terrestre, si attardò con i suoi soldati in Calabria e riuscì a sorprendere i Goti che custodivano Brindisi, attaccandoli di sorpresa grazie alla cattura e al tradimento di uno di loro e obbligandoli a fuggire dalla città.

«A Giovanni, che l’interrogava in che modo lasciandolo vivo potrebbe giovare ai Romani ed a lui, questi rispose che lo avrebbe fatto piombar sui Goti mentre men se l’aspettavano. Giovanni disse che quanto chiedeva non gli sarebbe negato, ma che prima ei doveva mostrargli i pascoli dei cavalli [dei Goti che custodivano Brindisi]; ed avendo anche in ciò acconsentito il barbaro, andò egli con lui, e dapprima trovati i cavalli de’ nemici che pascolavano, saltaron su di essi tutti quelli di loro che trovavansi a piedi, ed erano molti e valorosi, quindi di galoppo corsero contro il campo nemico. I barbari, trovandosi senz’armi, del tutto impreparati e stupefatti pel subitaneo attacco, senza dar niuna prova di coraggio, furono in gran parte uccisi e alcuni pochi scampati recaronsi presso Totila. Giovanni con esortazioni e blandizie cercò di rendere tutti i Calabri bene affetti all’imperatore, promettendo loro grandi beni per parte dell’imperatore stesso e dell’esercito romano. Sollecitamente poi partitosi da Brindisi occupò la città chiamata Canosa, che trovasi nel centro delle Puglie e dista da Brindisi cinque giorni di cammino per chi vada verso l’occaso e verso Roma.»2

Belisario non riuscì a liberare Roma dall’assedio di Totila e questi il 17 dicembre del 546 – corrotte le sentinelle della Porta Asinaria – penetrò in città mentre i Greci già stremati dall’assedio, imprendevano una disordinata fuga. Quindi, lasciato in Roma un limitato contingente di forze, Totila si diresse verso Sud per affrontare le forze del generale Giovanni. Questi, saputolo, pensò bene di non affrontarlo e, rinunciando di fatto a raggiungere Roma ancora assediata dai Goti, preferì tornare a rifugiarsi a Otranto. E così tutto il paese ‘al di qua del golfo’, ad eccezione di Otranto, tornò nuovamente sotto i Goti di Totila.

 

Note

1 O. Giordano, La Guerra Greco-Gotica nel Salento in Brundisii Res – 1974

2 Procopio Di Cesarea, La guerra Gotica. Testo greco emendato sui manscritti con traduzione italiana a cura di Domenico Comparetti – 1895

3 G. Carito, Lo stato politico economico di Brindisi dagli Inizi del IV Secolo all’anno 670 in “Brundisii Res” – 1976.

Brindisi tra IX e X secolo in balia del ‘tutti contro tutti’ (parte seconda)

Dopo un primo arrivo dei Saraceni a Brindisi – nell’838 – per due secoli

intorno alla città non ci fu null’altro che un desolante ‘tutti contro tutti’

 

di Gianfranco Perri  

Dopo qualche anno dallo screzio seguito al mancato matrimonio dei figli, tra i due imperatori romani, Ludovico II e Basilio I, si ristabilì una certa collaborazione e così Ludovico II poté puntare su Bari, conquistandola finalmente il 3 febbraio dell’871, liberandola dal trentennale dominio arabo e facendo prigioniero l’emiro Sawdan, che fu portato dal principe Adelchi a Benevento, dove rimase incarcerato per anni.

Quindi, già morto – nell’875 – l’ormai vecchio imperatore Ludovico II, i Bizantini dell’imperatore Basilio I nell’876 sottrassero Bari all’influenza del longobardo Adelchi e, finalmente – nell’880 – riuscirono anche a liberare Taranto dai Saraceni nel corso della campagna di riconquista condotta dallo stratega Niceforo Foca.

Partendo dalla punta dello stivale, Niceforo Foca estese la controffensiva bizantina su quasi tutto il Meridione continentale, riconquistando sia le città rimaste in mano araba e sia la maggior parte dei territori occupati dai principi longobardi. I limiti territoriali della conquista non sono definiti con esattezza nelle fonti, ma è verosimile che i Bizantini abbiano rioccupato tutta la regione che si estende dalla valle del Crati a Taranto e la Lucania orientale con le vallate del Sinni e del Bradano, nonché la costa salentina, mentre è più arduo definire dove essi siano arrivati a nordovest di Bari.

E quindi, fu nel contesto di quella lunga campagna condotta contro Longobardi e Arabi che, dopo Taranto, anche Brindisi intorno all’885 tornò sotto il formale controllo dei Bizantini, i quali, naturalmente, la incontrarono praticamente tutta in macerie: “macerie longobarde del 674, macerie saracene dell’838 e macerie imperiali dell’867”.

Nell’886 morì l’imperatore Basilio I e gli succedette il figlio Leone VI, il quale richiamò il vittorioso generale Niceforo Foca nominandolo comandante supremo dell’esercito imperiale e questi s’imbarcò da Brindisi alla volta di Costantinopoli con gran parte del suo esercito e lasciando alla città tutti i prigionieri longobardi, sottraendoli magnanimamente alla schiavitù e rendendoli così potenzialmente utili alla eventuale ricostruzione cittadina.

Il ritorno dei Bizantini a Brindisi, infatti, fu seguito da timidi e presto interrotti segnali di rinascita quando, alla fine di quel secolo IX, si iniziò la ricostruzione della chiesa di San Leucio, impulsata dal vescovo oritano Teodosio in occasione del ritorno in città di una parte delle reliquie sottratte dai Tranesi. E negli anni a seguire, la popolazione di sua iniziativa, intraprese anche la costruzione di un’altra chiesa, che fu edificata di fronte all’imboccatura del porto interno, sulla cresta della collina di ponente e con annessa un’alta torre – una specie di faro per i naviganti – in omaggio e gratitudine allo stratega greco Niceforo Foca.

«L’edificio può essere presumibilmente identificato nella chiesa di San Basilio, che fungeva anche da faro grazie ad un’alta torre che la sovrastava. Essa, eretta secondo tradizione locale al ritorno bizantino, era ancora visibile nel XVII secolo, come testimonia Giovanni Battista Casimiro, e in seguito andò distrutta per lasciare il posto ad abitazioni civili»3.

Il 18 ottobre 891 i Bizantini fondarono il Thema di Langobardia con capitale Bari, che affiancò quello di Calabria con capitale Reggio e che con quella riorganizzazione non comprese più l’antica Calabria, ossia l’odierno Salento, che invece fu parte del nuovo Thema di Langobardia. La denominazione di Calabria, infatti, dopo essere stata estesa al Bruzio, a quell’epoca aveva già finito con l’abbandonare del tutto il suo originale territorio salentino.

Con l’avvento del secolo seguente, il X, le coste adriatiche ritornarono ad essere ripetutamente preda dei pirati saraceni, ai quali si alternarono con frequenza quelli slavi, che nel 922 assaltarono per la prima volta Brindisi e vi ritornarono nel 926, dopo aver occupato Siponto; e poi, nel 929, giunsero anche gli Schiavoni di Ṣābir, che dopo aver – il 17 agosto 928 – preso Otranto, risalirono la costa fino a Termoli.

«I Saraceni impiegarono ampiamente schiavi e mercenari slavi sulle loro navi e molti assursero anche a posizioni di comando e prestigio. Tra il 922 e il 924, lo slavo Mas‘ūd, a capo di venti navi saccheggiò la rocca di Sant’Agata. Poi, il 10 luglio 926 “comprendit, Michael rex Sclavorum, civitatem Sipontum”: un’irruzione slava il dì di santa Felicita, ch’ebbe a condottiere Iataches, che assaltò e prese la città di Siponto, estendendo le scorrerie anche più a sud. Tra il 927 e il 930, Ṣābir lo schiavone, si apprestò con una grande flotta alle coste dell’Italia meridionale, dove con tre incursioni, ripetute a poca distanza l’una dall’altra, saccheggiò varie città [da Otranto a Termoli] e catturò molti prigionieri»4.

«Non cessa, però, la minaccia saracena e le incursioni ed i saccheggi continuano sulle coste calabresi e su quelle pugliesi. E ai Mussulmani si aggiungono ancora una volta gli Slavi: dopo aver perduto Siponto nel 936, tornano nel 939 e con loro Ungari e Schiavoni minacciando le coste e spingendosi all’interno della Capitanata e nell’entroterra tarantino e, ancora nel 947, assediando Conversano e Otranto»5.

Nel 970 il Thema di Calabria e quello di Langobardia furono integrati per formare il Catapanato d’Italia e nel 976, successo a Giovanni Zimisce, l’imperatore bizantino Basilio II si trovò a dover gestire più urgentemente i fronti dell’Asia Minore e non ebbe disponibilità di truppe per stanziare contingenti di rinforzo a guardia dell’Italia meridionale e così, gli Arabi di Sicilia dell’emiro Abu Al-Kasim, ripresero a vessare le popolazioni della Calabria e della Puglia, che non riuscivano a garantirsi una buona difesa militare con le sole guarnigioni cittadine, insufficienti a proteggere le roccaforti.

In quell’anno 976, gli Arabi risalirono la Calabria, giunsero alla Valle del Crati e assediarono Cosenza, che fu costretta al pagamento di un tributo. Poi, nell’agosto del 977, con gli eserciti di Al Kasim, giunsero a Taranto perseguendo lo stesso obiettivo, ma trovarono la città abbandonata dai suoi abitanti e la distrussero. Quindi saccheggiarono nuovamente la vicina Oria bizantina e altri paesi del Capo. Poi, anche negli anni successivi, fino al 981, gli stessi Arabi misero ripetutamente a ferro e fuoco sia la Calabria che la Puglia, arrivando spesso a ridosso dei territori longobardi.

In reazione, nel 982, il sacro romano imperatore Ottone II decise una spedizione punitiva contro i Saraceni di Sicilia e, sceso nel Mezzogiorno, provò prima a ridurre la potenza bizantina nella regione costringendo all’obbedienza i piccoli stati della Campania della Lucania e della Puglia, fino a Oria, Taranto e Bari, dove però il 13 luglio fu battuto dai Bizantini. Quindi l’imperatore si diresse verso la Calabria e la Sicilia, giungendo in quell’occasione ad un passo dalla vittoria contro gli Arabi, ma nella battaglia di Capo delle Colonne subì una completa disfatta con almeno quattromila morti. Ottone II morì l’anno seguente e per qualche decennio sullo scenario del Meridione italiano, anche l’azione militare antiaraba dell’impero di Occidente – allo stesso modo che quella dell’impero d’Oriente – praticamente scomparve.

Nel 986 gli Arabi di Abu Said ripresero le ostilità contro la Calabria ritornando a Cosenza, di cui distrussero le mura per poi dilagare fino in Puglia: a Bari nel 988, dove i sobborghi furono saccheggiati con gran traffico di prigionieri verso la Sicilia.

Con il nuovo secolo e il nuovo millennio, le incursioni piratesche non diminuirono e interessarono sia la Puglia, per lo più Bari, e sia in Calabria, la Valle del Crati e Cosenza.

Tra la fine del primo millennio e l’inizio del secondo, insomma, la situazione generale delle coste e dell’entroterra nel tribolato Meridione italiano, di nuovo, non poté essere più disperata:

«Assente l’impero bizantino nella lotta intrapresa dalle città pugliesi contro la pressione araba; impotenti ad intervenire i Longobardi di Benevento e Capua, coinvolti in guerre intestine e quelli di Salerno timorosi della crescente potenza amalfitana; ormai in fase di decadenza Gaeta, Napoli e Sorrento; inefficace la rapida apparizione del sacro imperatore Ottone III; le uniche forze in grado di opporsi ai Saraceni furono le repubbliche marinare, le quali si andavano affermando sul Tirreno con Pisa e, soprattutto, con Venezia sull’Adriatico»5.

Nella prima metà dell’XI secolo, dopo che nel 1005 l’esercito bizantino riconquistò le coste dalmate, Brindisi riacquistò immediatamente l’antica strategicità – con il suo porto dirimpettaio a quello di Durazzo da cui partiva la via Egnazia che lo collegava alla capitale dell’impero – e i Bizantini ne intrapresero presto la ricostruzione.

«La portata dell’investimento bizantino è valutabile grazie al testo dell’epigrafe datata alla prima metà dell’XI secolo, scolpita sul basamento di una [quella superstite] delle due colonne che dal promontorio di ponente guardavano proprio l’imboccatura del porto interno: Illustris pius actibus atque refulgens Protospatha Lupus urbem hanc struxit ab imo. Una formula che attribuisce al programma imperiale il valore di una vera e propria fondazione»6.

Al contempo, il secolare arricchimento accumulato nell’isola aveva finito con indurre gli Arabi di Sicilia a non occuparsi più tanto di guerreggiare né di consolidarsi sul continente, quanto a godere dei tanti notevoli agi acquisiti. Un atteggiamento questo, che nei primi decenni dell’XI secolo permise alle forze bizantine di riprendere i territori dell’Italia peninsulare e di dedicarsi a controllare le rivolte filoimperiali interne che in essi via via andavano scoppiando.

Così, nel 1038 – quindi duecento anni dopo quella prima incursione saracena a Brindisi – le forze bizantine sbarcarono a Messina e si diressero verso Siracusa, ponendo l’assedio alla città. I Musulmani di Sicilia non riuscirono a rispondere per molto tempo alle forze greche e così, in quella prima metà dell’XI secolo, ebbe inizio la fine della storia islamica nell’isola e di conseguenza anche di quella nella penisola, lasciando lo scenario sgombro all’arrivo dei nuovi conquistatori: i Normanni.

 

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3 G. Carito-S. Barone Brindisi cristiana dalle origini ai Normanni Brindisi – 1981

4 M. Loffredo Presenze slave in Italia meridionale (Secoli VI-XI) in “Annali della Schola Salernitana” – 2015

5 T. Pedio La Chiesa di Brindisi dai Longobardi ai Normanni in “Archivio Storico Pugliese” – 1976

6 R. Alaggio Il medioevo delle città italiane: Brindisi – 2015

 

Per la prima parte:

Brindisi tra IX e X secolo in balia del ‘tutti contro tutti’ (parte prima)

Brindisi tra IX e X secolo in balia del ‘tutti contro tutti’ (parte prima)

Dopo un primo arrivo dei Saraceni a Brindisi – nell’838 – per due secoli

intorno alla città non ci fu null’altro che un desolante ‘tutti contro tutti’

 

di Gianfranco Perri 

Le fonti relative alla storia di Brindisi tra il VI e il X secolo inclusi, sono molto avare, particolarmente avare, costituendo tale carenza quasi assoluta un forte indizio della effettiva mancanza di eventi, circostanze e personaggi da riferire in relazione alla città, un indizio quindi di marcata decadenza, associata, anche e certamente, ad un progressivo accentuato processo di depopolamento ed alla conseguente perdita della stessa fisionomia urbana della città.

Esula dal proposito di questo scritto il trattare delle possibili cause di tale situazione e basti solo accennare che, eventualmente, la prolungata guerra greco-gotica prima, l’esosa occupazione bizantina dopo, una serie di catastrofi naturali e finalmente, l’approssimarsi dei Longobardi ed il susseguirsi delle prime devastanti incursioni saracene, furono tutti eventi che più o meno in successione, per secoli affossarono completamente la città, la sua economia e la sua popolazione. Fino a quando, dopo che nel 1005 Durazzo ritornò sotto il controllo di Costantinopoli, Brindisi fu chiamata a rinascere per svolgere di nuovo una funzione di primo piano nel contesto di un rinnovato e più vasto orizzonte politico di Bisanzio. Una rinascita rimasta incipiente, che però, poco dopo, fu impulsata con decisione dai nuovi arrivati: i Normanni.

Dopo la rovinosa ventennale guerra greco-gotica conclusa nel 553 e dopo la distruttiva conquista longobarda – che per Brindisi si materializzò ai danni dei Bizantini intorno al 680 ad opera di Romualdo I duca Benevento – la città rimase semidistrutta, stremata e ridotta a poco più che un’espressione geografica quasi spopolata, anche se non del tutto abbandonata.

«La documentazione epigrafica indica che ai margini della città rimasero, sia alcuni gruppi di Ebrei – parte stabiliti presso il seno di levante del porto interno e parte presso l’attuale via Tor Pisana, dove vi fu anche un loro sepolcro – e sia qualche altro sparuto gruppo di cittadini stabiliti intorno al vecchio martyrium di San Leucio»1.

«Per il X secolo si hanno rade se non nulle notizie di transiti o approdi, reali o leggendari che siano, nella rada di Brindisi, eccezion fatta, il 908, per le reliquie di Santa Marina o Margherita d’Antiochia che il monaco benedettino pavese Agostino trasferì da Costantinopoli, ove erano conservate nella chiesa della Madonna del Mare, in Italia»2.

Dunque, alla fine del VII secolo, Brindisi, sottratta al controllo bizantino, divenne longobarda e poi per circa un secolo e mezzo di essa non se ne parla più, né se ne sa praticamente nulla, con eccezione – forse la sola – della citazione che ne fa l’anonimo tranese, descrivendola “eversa vero atque diruta” nel suo racconto del trafugamento delle spoglie del protovescovo brindisino San Leucio, effettuato nottetempo da un gruppo di Tranesi ad ulteriore riprova dell’estrema debolezza sociale, oltreché politica ed economica, in cui versava la città con i suoi superstiti abitanti.

Città quindi formalmente longobarda, Brindisi restò tale anche dopo l’arrivo dei Franchi di Carlo Magno che, sceso in Italia nel 771 chiamato dal papa Stefano III e sconfitti i Longobardi nel 774, rinunciò ad estendere il proprio controllo sulle longobarde terre beneventane. Quando poi, nel 787, Carlo decise di compiere una sortita all’interno di quei confini, ottenuta una formale sottomissione del duca Arechi II alla propria autorità, lo elevò a principe. Probabilmente, il re Carlo preferì mantenere in vita quello stato longobardo in un certo qual modo a lui sottomesso, piuttosto che intraprendere impegnative campagne militari che avrebbero potuto attivare pericolose frizioni con il confinante – in quel sud italiano – impero bizantino, nonché stimolare imbarazzanti richieste di ampliamento territoriale verso sud da parte pontificia.

Se ne riparla – di Brindisi – solo nell’838 e se ne riparla perché sullo scenario del Meridione continentale d’Italia è apparso un terzo litigante ad affiancare i due precedenti e già secolari contendenti longobardi e bizantini. Si tratta degli Arabi originari del nord Africa, poi più comunemente detti Saraceni, provenienti dalla loro nuova vicina base, la Sicilia, che da poco più di una decina d’anni – dall’827 – avevano gradualmente cominciato ad occupare (Palermo sarebbe caduta nell’831 e, ultima, Siracusa nell’878) sottraendola ai Bizantini. E perché mai e come mai, i Saraceni provenienti dalla Sicilia giunsero fino a Brindisi?

Accadde semplicemente che, una volta sbarcati e ben insediati nella Sicilia, fu naturale che gli Arabi guardassero all’Italia peninsulare come ad una meta di conquiste e, soprattutto, di scorrerie. Le incursioni e le loro azioni offensive verificatesi nel Meridione d’Italia, infatti, per lo più contrastarono con la stabilità propria dell’insediamento musulmano insulare della Sicilia, dove da subito si manifestarono il desiderio di una durevole conquista e la volontà di includerla nel dominio islamico.

Nel territorio peninsulare, invece, i pochi isolati episodi di conquista, come quelli di Bari e Taranto o sul Garigliano a sud di Gaeta, si estinsero nel giro di due o tre decenni al massimo; mentre per ben due secoli, il IX e il X, quasi l’intero Mezzogiorno visse la presenza musulmana come un endemico flagello di guerra e di rapina, continuamente combattuto – da Bizantini, Veneziani, Longobardi, Pontifici, Franchi – e mai debellato.

E tutto ciò durò così a lungo, anche perché gli Arabi furono abili a inserirsi nelle vicende della tribolata storia altomedievale del Meridione italiano, proprio come avvenne in quella loro prima incursione dell’836 e 837, quando fu lo stesso duca di Napoli, il console Andrea, che li chiamò in suo soccorso contro Sicardo, il principe longobardo di Benevento, che lo aveva assediato.

Da lì in avanti il prosieguo fu inevitabile e, solo un anno dopo, gli Arabi di Sicilia comparvero nelle acque dell’Adriatico e s’impadronirono indisturbati di Brindisi.

«Per idem tempus Agarenorum gens, cum iam Siculorum provinciam aliquos tenuerunt per annos pervasam, iam fretum conabantur transire Italiam occupandam. Dum vero cum multitudine navium fretunque ille transmeassent, sine mora Brindisim civitatem pugnando ceperunt (Chronicon Salernitanum)»

Il duca Sicardo, appena saputolo, accorse da Benevento con numerose forze a cavallo per respingerli, ma la sua corsa si bloccò per un banale tranello: gli assalitori, scavata una lunga e profonda trincera in prossimità dell’ingresso alla città, la ricoprirono con rami e con zolle di terra; quindi vi attirarono l’ingenuo nemico che cadde nella trappola subendo gravissime perdite, e Sicardo riuscì solo fortunosamente a salvarsi.

Quegli Arabi giunti fino a Brindisi, probabilmente in pochi, avuta notizia che dopo lo scacco il duca-principe Sicardo stava facendo grandi preparativi per la rivincita, non esitarono a dar fuoco alla città e a ritirarsi, non senza averla depredata del poco ancora depredabile. Eventualmente, fu anche opera loro la distruzione del monastero bizantino di Santa Maria Veterana [a meno che tale monastero non sia invece stato edificato a fine secolo, in concomitanza con il primo avvio – poi presto interrotto – della ricostruzione bizantina della citta seguita alla riconquista di Niceforo Foca, e sia stato quindi distrutto in una delle successive incursioni saraceno-slave].

Poi, abbandonata momentaneamente Brindisi, alcuni Saraceni si stabilirono una quindicina di chilometri più a nord, nella strategica e protetta baia di Guaceto, ove costruirono un campo trincerato – denominato “ribat” del quale fino a tutto il XVI secolo si scorgevano ancora le rovine – che servì loro come base da cui dedicarsi, a lungo e indisturbati, a organizzare scorrerie per mare e per terra.

I Saraceni, che con l’intervento a favore di Napoli prima e con la presa di Brindisi poi, avevano sperimentato la debolezza del ducato beneventano, nell’840 risalirono le coste della Calabria ed occuparono Taranto e subito dopo, nell’841, riattaccarono la costa adriatica con un primo assalto fallito alla città di Bari, che finalmente fu stabilmente occupata l’anno dopo. Così, oltre che dalla Sicilia, anche da Taranto e soprattutto da Bari – città che divennero sedi di emirati – partirono per anni le incursioni arabe, sempre più penetranti e più incisive, dirette sulle città e sui territori adiacenti appartenenti ai domini bizantini residui in Italia, nonché a quelli longobardi.

La situazione di instabilità causata dalla presenza araba nell’Italia meridionale cominciò finalmente a preoccupare seriamente anche il papa e quegli stessi principi che avevano in qualche modo flirtato con gli Arabi di Sicilia, i quali pensarono bene di richiedere l’aiuto dell’impero, quello dei Franchi – il quarto contendente nello scacchiere dei “tutti contro tutti” – e così, eletto sacro romano imperatore nell’850, Ludovico II nipote di Carlo Magno, nell’852 fu sollecitato a scendere nel sud d’Italia, nel tentativo di liberare le città pugliesi – Bari in primis – dal giogo arabo, ma fallì nell’intento a causa dei contrasti ben presto sorti con i principi longobardi, primordialmente interessati a conservare la propria autonomia.

Fu Venezia poi, con il suo Doge Orso, che nell’864 inviò una flotta di quaranta navi e finalmente batté i Saraceni e permise per qualche anno la restaurazione del dominio bizantino su Taranto. Ciò però, non impedì ai Saraceni di resistere di nuovo allo stesso sacro romano imperatore, il franco Ludovico II, il quale, ridisceso a sud nell’866, in Puglia nell’868 solo riuscì a liberare dall’occupazione araba Matera Canosa e Oria, giacché l’enorme flotta di ben quattrocento navi – comandata dal patrizio Niceta Orifa inviatagli dall’imperatore bizantino nell’869 per supportare l’attacco terrestre a Bari – si ritirò a Corinto e lo lasciò impotente. Ludovico II, infatti, nel mezzo di una disputa ideologica con l’imperatore d’Oriente Basilio I, si era rifiutato di acconsentire al già accordato matrimonio di sua figlia, Ermengarda, con Costantino, figlio di Basilio I.

Nel trascorso di quella campagna, con lo strategico obiettivo di colpire i Saraceni del vicino emirato barese, i Franchi di Ludovico II assediarono e quindi assaltarono e presero – 867 circa – anche Brindisi, che nel frattempo era stata rioccupata dagli Arabi.

«Due reperti archeologici testimoniano l’influenza franca sul territorio brindisino tra fine VIII secolo e inizi del IX. Si tratta di una vera di pozzo e di uno stampo con il nome di santa Petronilla, patrona dei Franchi, che potrebbero essere appartenuti al monastero di Santa Maria Veterana, dai Normanni ricostruito nell’XI secolo per ospitare le suore benedettine – unico edificio religioso documentato in Brindisi per il secolo VIII, nell’ambito della vecchia città»1.

 

1 G. Carito Lo stato politico economico della città di Brindisi dagli inizi del IV secolo all’anno 670 – 1976

2 G. Carito Brindisi nell’XI secolo: da espressione geografica a civitas restituita – 2013

Brindisi tra Longobardi e Bizantini. Il diavolo fa le pentole, non i coperchi

  San Pelino

di Nazareno Valente

 

Come tanti altri brindisini, sapevo appena dell’esistenza di san Pelino che neppure immaginavo fosse stato uno dei primi patroni della mia città. Di là dalla mia ignoranza su questi temi, pare tuttavia che sia un santo, se così si può dire, minore, sicché più d’uno dubita tuttora che possa essere davvero esistito, sebbene le autorità ecclesiastiche ne abbiano da tempo certificato in maniera solenne la trascorsa vita terrena. In effetti di lui è rimasta una sola flebile traccia, rappresentata da un vecchio manoscritto1 che ha la particolarità d’essere uno di quei testo di cui, anche i pochi che ne parlano, danno la sensazione di aver conosciuto solo tramite i brevi riassunti riportati in opere che trattano di cose sante. Non per niente il codice ha tuttora una diffusione molto limitata, forse anche a causa del fatto che nessuno ha mai pensato di curarne una traduzione dell’originale redatto in latino.

La “Vita vel passio b. Pelini episcopi et martyris” — questo è il nome dato al testo conservato dalla biblioteca Apostolica Vaticana — fa infatti parte delle agiografie che hanno ricostruito e tramandato appunto le vite, i miracoli ed i martiri dei santi della Chiesa cattolica, il cui interesse è circoscritto per lo più agli addetti ai lavori. Non desta quindi stupore se, nel caso della Vita di Pelino, si abbiano rari riscontri di interventi specifici tra i quali spicca quello dello storico Giacomo Carito che, in un originale ed apprezzabile articolo2, ne ha tratto spunto per caratterizzare un’intrigante pagina di storia cittadina collegata con la sede vescovile.

Analizzando appunto la Vita di san Pelino, lo storico ricava elementi utili per stabilire una diversa cronotassi dei vescovi della diocesi brindisina, nel periodo che va dalla sua istituzione al trasferimento ad Oria, vale a dire dal III secolo all’inizio dell’ultimo ventennio del VII secolo. Nel concreto Carito perviene ad una diversa collocazione cronologica di alcuni presuli (Leucio, Aproculo, Pelino e Ciprio), rispetto a quella fissata dalla tradizione ecclesiastica, finendo pure per dare una personale interpretazione ad alcuni tragici avvenimenti di quell’epoca. In particolare sulla conquista di Brindisi da parte dei Longobardi e sul trasferimento ad Oria dell’episcopato.

Senza entrare nel dettaglio delle due sequenze proposte, vediamone gli aspetti essenziali.

Innanzitutto entrambe concordano che la dislocazione temporanea della diocesi ad Oria — dove rimase sino all’XI secolo — avvenne attorno al 680, subito dopo la conquista e l’eventuale devastazione longobarda di Brindisi; condividono inoltre che il vescovo Prezioso, la cui morte fissano sempre al 680, chiuda la sequenza dei prelati di quel periodo. Di quest’ultima informazione non si terrà però per ora conto, in quanto il vescovado di Prezioso, come chiariremo a tempo debito, va anticipato di almeno un secolo e non ha diretta attinenza con le considerazioni che faremo nell’immediato.

Per quanto riguarda le divergenze, basterà invece citare solo la diversa collocazione nella sequenza di Aproculo, Pelino e Ciprio: l’ipotesi ufficiale li considera vescovi del IV secolo; quella di Carito li considera consacrati tre secoli dopo. Agli effetti pratici, mentre Carito fornisce una lista di prelati per il periodo che va dal 601 al 680, cioè a dire fino alla probabile data del trasferimento ad Oria, l’altra tesi, pur dando per scontato che la diocesi sia comunque rimasta in funzione, non è in grado di fornire nessuno nominativo dei vescovi che ne guidarono le attività.

Conseguenza interessante per la storia di Brindisi è che, dando per buona l’ipotesi di Carito, diviene credibile anche quella che giudica il trasferimento dell’episcopato brindisino effetto dell’occupazione longobarda. Se, viceversa, fosse valida la versione ufficiale che, come già riportato, dà per certa, senza tuttavia provare, l’operatività della sede episcopale nel VII secolo, nulla vieterebbe di pensare che il trasferimento sia avvenuto prima della conquista longobarda e, soprattutto, che esso sia stato effettuato per libera scelta del clero. Sarebbe in altre parole possibile che l’apparato ecclesiastico, preferendo la più sicura e tranquilla Oria, abbia deciso di abbandonare Brindisi al suo destino, comportando con questa scelta uno svuotamento dell’apparato gestionale della città che ha poi indotto i Longobardi a devastarla, avendola stimata indifendibile.

Poiché va da sé che, se Carito è nel giusto, il dubbio non si pone neppure, per dirimere la questione, sarà sufficiente verificare la bontà della sua tesi, cioè a dire se Aproculo, Pelino e Ciprio siano davvero vissuti nel VII secolo, come da lui affermato.

Anche per Aproculo e Ciprio, come per Pelino, il manoscritto riguardante la Vita del santo costituisce l’unica testimonianza scritta che ci dà menzione della loro esistenza sicché, senza l’aiuto di questo documento, non avremmo potuto mantenere memoria di nessuno di questi tre illustri vescovi di Brindisi.

Narra la Vita che Pelino nacque a Durazzo e che sin da giovane s’avviò lungo la via che l’avrebbe portato alla santità, a ciò instradato dagli insegnamenti di san Basilio. Tra i suoi più assidui seguaci si segnalarono subito i “letterati” Sebastio e Gorgone mentre Ciprio, pur «puerulus» (poco più che un infante), era il suo discepolo prediletto. A seguito delle persecuzioni dell’imperatore Giuliano, che intendeva riportare i riti pagani ai loro antichi fasti, i quattro dovettero emigrare e cercare riparo nella nostra città. Qui era vescovo il beato Aproculo il quale prese a cuore le sorti dei profughi, accogliendo Pelino nel clero brindisino ed impiegando Sebastio e Gorgone nella biblioteca vescovile.

Giunto a vecchiaia, Aproculo fece in modo che alla sua morte gli potesse subentrare Pelino, certo che questa scelta avrebbe rafforzato l’episcopato e fatto guadagnare alla causa cristiana molte anime pagane. Proprio l’opera di proselitismo condotta dal neo vescovo lo rese famoso tra la gente ma anche inviso all’imperatore Giuliano, che decise di farlo incarcerare. Dopo due tentativi risultati vani — dai quali Pelino si salvò grazie ai suoi poteri straordinari — il terzo andò ad effetto e lo consegnò al martirio. Condotto infatti a Corfinio, paese dei Peligni, fu ancora capace di far crollare, con la sola forza della sua eloquenza, l’empio tempio di Marte ma, infine, battuto selvaggiamente, morì oppresso da ottantacinque ferite.

Sebastio e Gorgonio seguirono la sua stessa sorte, mentre Ciprio, risparmiato per la giovane età, poté tornare a Brindisi dove, dopo breve tempo, fu nominato a sua volta vescovo. L’agiografia si conclude qui, ribadendo che il martirio era avvenuto il 5 dicembre («nonis decembris») a Corfinio, per mano del corniculario a capo del presidio, nel periodo in cui era imperatore Giuliano.

Il riferimento costante all’imperatore Giuliano, che ricordiamo regnò tra il 361 ed il 363, colloca pertanto la passione di Pelino in maniera inequivocabile al IV secolo, e, a tutta prima, parrebbe smentire la tesi di Carito che, invece, l’ha voluta spostare di tre secoli in avanti. Lo storico, però, suppone che la Vita sia stata originariamente redatta nel VII secolo — ancor prima della distruzione longobarda della città — e «in seguito interpolata espungendo il nome dell’imperatore Costante II e retrodatando la vicenda al IV secolo»3. Presume inoltre «che ciò possa essere stato possibile nel IX secolo [ndr. credo si tratti d’un refuso e che si debba leggere XI secolo] quando la rinnovata influenza di Costantinopoli su quest’area poté indurre a reinterpretazioni che chiudessero con dolorose pagine del passato»4.

Quindi, a giudizio dello storico, l’effettivo colpevole del martirio è Costante II, imperatore dal 641 al 668, che un’opportuna “manina” ha espunto dal testo originario sostituendolo con Giuliano l’Apostata, in modo da porre fine ad una dolorosa vicenda protrattasi per secoli.

In effetti Costante II aveva adottato provvedimenti restrittivi promulgando nel 648 l’editto dogmatico, noto come il «Tipo», con l’intento di porre fine alle controversie religiose sulla natura di Cristo, che minavano gli equilibri interni in un momento in cui l’impero era impegnato a difendersi dalle invasioni arabe e longobarde. L’editto vietava infatti alle autorità ecclesiastiche di dibattere sui temi dottrinari e cristologici, pena l’allontanamento dalle cariche ricoperte, ed ai privati cittadini di poterne discutere in pubblico, pena la fustigazione e la confisca dei beni. Sebbene avesse evidenti risvolti religiosi, era un atto in prevalenza politico con cui, dando un tacito assenso all’eresia, si voleva favorire la componente eretica che, concentrata per lo più nelle estreme periferie orientali, rappresentava l’unico argine consistente all’avanzata mussulmana.

Naturalmente questa implicita accettazione dell’eresia sollevò le proteste del papato che di lì a poco avviò un vero e proprio braccio di ferro con Costante II. Difatti, nel luglio del 649, appena eletto papa, Martino I procedette all’insediamento senza attendere il prescritto riconoscimento ufficiale («iussio») da parte dell’imperatore e, in rapida successione, convocò un sinodo che, nel riaffermare le due volontà in Cristo, quella divina e quella umana, rigettava le tesi eretiche e l’editto che ne vietava la discussione. A questo punto, Costante II si ritenne sfidato e reagì con violenza, ordinando l’arresto del papa con l’accusa di alto tradimento.

Senza voler sminuire la portata delle persecuzioni compiute, va precisato che esse ebbero il loro apice con la destituzione e la condanna del papa all’esilio e con le torture inflitte a san Massimo il Confessore, che dell’ortodossia era stato il più strenuo difensore. In periodi in cui anche il non pagar le tasse faceva meritare la fustigazione, erano pene che non sollevavano eccessivo scalpore, tanto è vero che, poco tempo dopo, Roma accolse con entusiasmo Costante II in visita della città, Né si dimostrò a lui ostile lo stesso papato, che lo ospitò con grande deferenza. Ma quel che più conta è che l’editto ebbe vita breve: le periferie orientali caddero sotto il domino arabo e la materia del contendere si esaurì. Nel concilio ecumenico del 680, convocato da Agatone, d’intesa con Costantino IV, l’ortodossia fu ribadita quasi all’unanimità. Come dire che la controversia era stata del tutto appianata e non lasciava questioni irrisolte in eredità.

Era stata una pagina dolorosa ma circoscritta sia nei suoi effetti, sia nel tempo: Costante II non era un colpevole scomodo e, anche fosse stato il promotore del martirio di san Pelino, non avrebbe suscitato sentimenti tali dal richiedere l’intervento d’un sostituto di comodo per attenuarne gli effetti. In definitiva, non c’era nessuna necessità di manipolare il testo della Vita, come presunto da Carito.

Il che fa credere che il vero colpevole sia stato Giuliano e che, di conseguenza, Aproculo, San Pelino e Ciprio siano vissuti nel IV secolo, come vuole la tradizione. Ma non è questo l’unico elemento che fa propendere per l’ipotesi tradizionale.

Nella sua ricostruzione, Carito fornisce una possibile cronologia degli avvenimenti che ha il pregio di porre in luce i momenti principali della storia. A suo giudizio: san Pelino viene martirizzato a Corfinio, all’incirca nel 662; Ciprio erige una chiesa in suo onore, tra il 668 ed il 674; Brindisi viene presa e distrutta dai Longobardi nel 674, per essere infine abbandonata, alla morte del vescovo Prezioso, dal clero che trasferisce la sede episcopale ad Oria verso il 680. Suppone inoltre che la vita del santo sia stata scritta da un Brindisino, in concomitanza con la costruzione della «chiesa» a lui dedicata su iniziativa di Ciprio, quindi nel VII secolo, prima dell’avvento del Longobardi. Lo storico desume tale datazione dal fatto che l’estensore colloca la costruzione «così come poteva esserlo solo da chi aveva conosciuto la città tardo-antica»5.

Ipotesi suggestiva ma che presenta evidenti limiti sotto ogni punto di vista. Intanto, edificare una chiesa era un’attività di per sé dispendiosa, probabilmente non alla portata delle tasche dei Brindisini del VII secolo, che avevano già difficoltà a tirare a campare. Figuriamoci poi ad avere le risorse necessarie per riuscire nell’impresa di realizzarla in sei anni scarsi.

Agli ostacoli di natura economica, si aggiungono poi quelli di carattere letterario. La struttura della Vita è infatti tipica delle agiografie compilate tra il X e l’XI secolo: in precedenza, tali opere, non solo erano molto più scarne, ma si limitavano in genere a trattare un solo aspetto alla volta, ad esempio: il martirio subìto oppure i miracoli compiuti, o l’opera di proselitismo. Per cui, salvo che l’autore brindisino in questione non sia stato un agiografo ante litteram, è alquanto difficile anche immaginare che abbia saputo precorrere i tempi con così largo anticipo. C’è poi l’aspetto dell’ubicazione, che merita un discorso a parte.

Bisogna intanto premettere che nel testo originale della “Vita” si parla di «basilicam»6, quindi di una basilica che, però, diventa chiesa in un passo apocrifo, aggiunto nel XVI secolo, di cui parleremo più diffusamente in seguito. La basilica appunto è detta situata non lontano dalla porta urbica, nei pressi della chiesa della “Beata Maria”(«haud longe a porta civitatis iuxta ecclesiam Beatae Mariae»7). Tuttavia la cinta muraria, e con essa la porta della città, è già data per inesistente alla metà del VI secolo da Procopio, che rappresenta infatti Brindisi “non cinta da mura” («ἀτείχιστον οὖσαν», «ateìchiston ousan»8), e pertanto non poteva far parte dello scenario cittadino cent’anni dopo. La porta urbica era invece presente nel IV secolo, quando c’erano pure le condizioni economiche per edificare una basilica (o una chiesa) da intitolare a san Pelino. Per cui la circostanza finisce per avvalorare la tesi tradizionale che fissa gli episcopati di Aproculo, Pelino e Ciprio nel IV secolo.

Altro motivo su cui Carito ha basato la propria ipotesi è «la complessità che mostra la struttura ecclesiale nella Vita»9 poco coerente, quindi, con quella più essenziale del periodo di tardo impero. A mo’ d’esempio riporta le modalità seguite da Aproculo nel designare Pelino suo successore. Rifacendosi al sunto della “Vita” presente negli “Officia propria” per i santi patroni di Brindisi, lo storico ricava che la nomina di Pelino fu fatta in tutta autonomia da Aproculo che però, per il problema che «i sinodi avevano… costantemente contrastato»10 un tale modo di procedere, fu costretto a richiedere l’autorizzazione papale.

L’appunto di Carito è in linea di principio condivisibile: il divieto per il vescovo di designarsi il successore divenne operante successivamente al IV secolo, tuttavia la procedura indicata nel testo originale della “Vita” è ben diversa da quella da lui indicata. Difatti Aproculo non aveva agito in maniera autonoma nella nomina del suo successore. Per l’occasione, aveva invece riunito il clero («cunctum clerum»11) e tutti i cittadini illustri («omnes illustres»11), i quali all’unanimità elessero poi Pelino vescovo («Episcopatus elegerunt»11). A grandi linee era questa la normale procedura in vigore nella seconda metà del IV secolo, che demandava la scelta del vescovo al clero ed ai cittadini rinomati, modificata in epoca successiva, giusto per garantire che non ci fossero abusi. Va infine osservato che l’autorizzazione del vescovo di Roma, raramente contemplata dalla prassi, non era di norma prevista a sanatoria e, nel caso concreto, è inserita nel racconto solo per dare enfasi all’elezione di Pelino.

In effetti, contare sui compendi non è il modo migliore per evitare errate valutazioni, anche perché nei sunti l’ambientazione è sempre ridotta all’osso e ciò rende vago il contesto storico che, al contrario, nel testo autentico risulta ben definito. Se si fa ricorso al codice originario, non c’è invece nessuna possibilità di ambiguità e, a chi vorrà farlo, apparirà sin dalle prime pagine evidente che il racconto si svolge in uno scenario tipico del primo periodo del tardo impero, vale a dire in un IV secolo facilmente riconoscibile. Lo si deduce dai nomi dei personaggi storici che agiscono, Costantino, Liberio, Basilio, Giuliano, Gioviano; dai numerosi templi pagani ancora esistenti, e che nel VII secolo erano ormai destinati ad usi profani; dalla moltitudine di pagani (anche questi ultimi di fatto inesistenti nel VII secolo) che, convinti dalla santità di Pelino, chiedono di convertirsi al cristianesimo; dagli stessi titoli assegnati ai funzionari che fanno da contorno al racconto. Emerge poi in maniera chiara che il dissidio tra i nostri eroi ed il potere costituito non è dovuto ad una disputa cristologica ma deriva da motivi ben più profondi, collegati al modo completamente diverso con cui i cristiani ed i pagani concepivano la religione.

Anche i brevi schizzi utilizzati per descrivere le varie località ci consegnano un quadro di gran lunga più coerente con il IV secolo. Un esempio tipico è costituito proprio dalla rappresentazione di Brindisi che, in quel periodo, viveva uno dei suoi momenti più floridi, lontani anni luce dalla tormentata e misera condizione in cui si sarebbe dibattuta nel VII secolo. L’anonimo autore ci racconta infatti che era noto a tutti quanto Brindisi si distinguesse dalle altre città, grazie ai suoi indiscutibili pregi: ben costruita, abitata da un buon numero di cittadini, piena di opportunità e di ricchezze d’ogni genere («civitas enim haec mirae fortitudinis esse dignoscebatur, et magna frequentia civium incolebatur, divitiis plena, terrenis commodis feliciter rutilabat»12).

Uno sguardo d’assieme è sufficiente poi per rendersi conto che il manoscritto non mostra nomi espunti o sostituiti, né manipolazioni o modifiche del testo, come supposto da Carito: le uniche annotazioni presenti — probabilmente effettuate nel XVI secolo — hanno quasi sempre valore esplicativo. Gli aspetti tecnici e storici chiariscono poi, senza dubbio alcuno, che non fu un Brindisino del VII secolo a curarne la redazione. Da un punto di vista paleografico, gli esperti affermano infatti che sia stato realizzato da mano esperta con scrittura beneventana, probabilmente a Montecassino nell’XI secolo13.

Il codice ha anche una sua particolare storia che merita di essere in parte raccontata. Custodito nell’archivio della Cattedrale di san Pelino a Corfinio sin dal XII secolo, fu regalato nel 1579 alla biblioteca Apostolica Vaticana per il timore che potesse essere «squinternato et arrobbato»14, com’era capitato ad altri testi lì conservati. Si narra anche che l’allora arcivescovo di Brindisi, venuto a conoscenza dell’esistenza del manoscritto, fece « gran instantia di haverla autentica»15 e ne ottenne una copia nel 1580.

Proprio la vana ricerca di questa copia inviata a Brindisi mi ha consentito di scoprire un fatto che colora un po’ di giallo tutta la questione. Qualche anno prima che il manoscritto fosse donato alla biblioteca Vaticana, Bernardino Fumarelli, vescovo di Valva, l’aveva fatto trascrivere e, in un secondo tempo, aveva incaricato tale Francesco Arola, maestro di teologia, di curarne una pubblicazione a stampa.

Ebbene in questa Vita sancti Pelini Episcopi Brundusini Et Martyris Christi, edita a Venezia nel 1543, ho trovato un lungo passo, non presente nel codice, presumibilmente aggiunto al momento della trascrizione o della prima edizione a stampa. Essendo del tutto improbabile che siano stati l’amanuense oppure il teologo gli artefici del falso, pare scontato che la spinta al destino l’abbia data il vescovo Fumarelli, anche perché la parte aggiunta di fatto “invecchiava” la sua diocesi. In altre parole, si ha motivo di sospettare che il prelato abbia funzionalmente integrato la Vita, in modo da avvalorare la dignità vescovile di Valva — che, vedremo meglio in seguito, era un sobborgo periferico di Corfinio — a tutto danno della vicina Sulmona che le contendeva in quel periodo la cattedra episcopale.

A parte questa nota di colore, l’analisi del manoscritto chiarisce ancor più che Aproculo, Pelino e Ciprio non possono aver retto la diocesi della nostra città nel VII secolo, come ipotizzato da Carito. Dobbiamo pertanto accettare l’idea che, all’arrivo dei Longobardi, la sede vescovile brindisina fosse quantomeno vacante, se non addirittura da tempo emigrata in più sicuri lidi.

Se ci fossero ancora dubbi, alcuni dati di fatto serviranno a fugarli del tutto.

Dalla ricostruzione di Carito si evince che Pelino ed i suoi discepoli giungono a Brindisi, provenienti da Durazzo, tra la data di emanazione del Tipo (648) e quella del suo martirio (662), perché perseguitati da Costante II. Ebbene in quel periodo, i Bizantini, a causa degli attacchi degli Slavi che avevano reso impraticabile la via Egnazia, non presidiavano più la città albanese che, pur formalmente bizantina, di fatto era lasciata a sé stessa e godeva di un’ampia autonomia. È pertanto pacifico che eventuali dissidenti lì residenti non avevano motivo di temere per la propria incolumità, considerato che l’imperatore, anche se l’avesse voluto, non era certo nelle condizioni di poter loro nuocere. Non c’era pertanto necessità di affrontare un pericoloso tratto di mare, soggetto alle scorrerie dei Saraceni proprio perché non più controllato dal potere centrale, per arrivare a Brindisi, città allora senza grandi prospettive e con l’aggravante d’essere presidiata dai Bizantini. In pratica sarebbe stato come andare in cerca di guai.

Supponendo per un istante che un aspirante santo possa vedere motivi validi anche lì dove un comune mortale non ci riuscirebbe mai, ci sarebbe un’altra circostanza che rende la ricostruzione improponibile: la deportazione e il successivo martirio subìto a Corfinio da Pelino, Gorgonio e Sebastio.

Attorno al 662, periodo in cui a giudizio di Carito si sarebbero svolti i fatti, si dà per certo che Corfinio fosse una specie di deserto, i cui resti sopravvivevano in un suo quartiere marginale, Valva, che in antichità dava nome alla zona periferica sud orientale. Lo slittamento del baricentro urbano della città romana, avviatosi già dalla fine del IV secolo, era dovuto, oltre a nuove necessità difensive, all’introduzione del cristianesimo ed allo sviluppo in quella zona di un’area funeraria collegata proprio al culto di san Pelino. Questa convergenza di funzioni conferì un’importanza sempre più accentuata alla zona periferica rispetto al resto dell’abitato che, alla lunga, determinò una distinzione anche a livello toponomastico. Il toponimo di Valva prese sempre più piede, grazie alle funzioni laiche e religiose che lì si svolgevano, sino a soppiantare quello storico di Corfinio, che restò confinato ad indicare l’antico municipium romano, sino a quando poi, in epoca moderna, fu richiamato in vita. Il manoscritto, se ambientato nel VII secolo, avrebbe quindi dovuto probabilmente usare il nuovo toponimo e non quello della tarda antichità. Ma questo è niente: nel 662, Corfinio, o Valva che dir si voglia, era ormai da qualche decennio in mano ai Longobardi e faceva parte del ducato di Spoleto. In pratica era un dominio dei nemici giurati dei Bizantini e costituiva una zona ovviamente off limits per loro, in più talmente lontana dai loro possedimenti che, per arrivarci, avrebbero dovuto attraversare un altro territorio nemico, il ducato di Benevento. Appare perciò impensabile che, con tutto un impero a disposizione, i Bizantini abbiano potuto decidere di deportare e processare dei dissidenti religiosi in una città presidiata dai Longobardi. Come se, di questi tempi, gli Statunitensi decidessero di giudicare propri connazionali in tribunali costituiti in Corea del Nord o in Russia.

A questo punto è del tutto scontato che la vicenda di Pelino non può essersi svolta nel VII secolo e, di conseguenza, non si può neppure ipotizzare che in quel secolo Aproculo, Pelino e Ciprio siano stati consacrati vescovi di Brindisi.

In definitiva, se nel periodo che va dal 601 al 680 la diocesi brindisina ebbe vescovi, non è dato di conoscerne il nome, tranne quello eventuale di Prezioso sul quale s’era sino ad adesso sospeso ogni giudizio.

A prima vista, la posizione di Prezioso sembra pacifica: tutti sono d’accordo nel considerarlo l’ultimo vescovo brindisino, morto nel 680, appunto poco prima del trasferimento della sede ad Oria. Eppure, su quest’ultimo aspetto, verrebbe da dire che non sia tanto un convincimento, quanto piuttosto un taciuto desiderio dei cronisti di vederlo morto in quell’anno, e vedremo subito perché.

In realtà di lui abbiamo ben poco: un titolo sepolcrale scoperto nel 1876 in contrada Paradiso16, zona periferica brindisina, attribuibile al VI secolo o, con più d’una forzatura di comodo, al VII secolo. Quale sia la datazione esatta e, quindi, in quale periodo Prezioso sia effettivamente vissuto lo sa solo il cielo, ed è per l’appunto questa circostanza che — sospetto — lo ha reso, agli occhi della cronachistica cittadina, perfetto per svolgere il ruolo di vescovo del VII secolo e avvalorare così l’ipotesi che furono i Longobardi a causare il trasferimento dell’episcopato brindisino.

Infatti il luogo dove Prezioso è stato sepolto, ben lontano dalla necropoli cittadina, può giustificare la pretesa che la cerimonia funebre sia stata fatta in fretta e furia, cioè a dire, mentre i cittadini erano in fuga, pressati da un pericolo imminente; pericolo che i commentatori identificano, pur senza nessun indizio a supporto, con l’arrivo dei Longobardi. Tale sensazione viene poi accentuata dal fatto che il testo dell’epigrafe con la formula «aepescopus aecletiae cattolicae» (vescovo della chiesa cattolica) sottolinea la cattolicità del vescovo, quale rappresentante della santa chiesa ortodossa, in contrapposizione ad una chiesa giudicata eretica perché devota ad una diversa dottrina17. Quale sia questa dottrina, l’epigrafe funeraria non lo specifica ma, anche in questo caso, c’è consenso nel collegarla con l’arianesimo professato dai Longobardi.

Il ragionamento pare in effetti funzionalmente congegnato per provare la tesi preconcetta che il trasferimento da Brindisi fu causato, e non una libera scelta della curia, ed a questa evenienza la data di morte di Prezioso è obbligata a conformarsi. Essendo vincolato alla devastazione longobarda, che si dà per compiuta nel 674, il triste avvenimento non poteva che avvenire successivamente. In definitiva, il 680 è scelto perché il più indicato a soddisfare questo gioco ad incastro. In quell’anno s’era infatti svolto un concilio ecumenico, convocato dal papa Agatone, d’intesa con l’imperatore, che rappresentava una di quelle occasioni a cui non si poteva assolutamente mancare. Erano così presenti tutti i vescovi del mondo cristiano, anche perché Costantino IV, com’era tradizione, per evitare assenze, aveva impegnato il suo potente apparato burocratico nell’organizzare le trasferte dei prelati, che si svolgevano a totale carico del potere secolare. Eppure, mentre Otranto e Taranto furono in quella circostanza rappresentate, la diocesi brindisina non lo fu. Il che potrebbe far credere che il ministero fosse in quel periodo vacante, ed è proprio per non alimentare un simile sospetto che, a giustificazione dell’assenza, si vuol far credere che Prezioso sia passato in quei frangenti a miglior vita. Ecco perché la cronotassi dei vescovi brindisini prevede che Prezioso sia morto esattamente nel 680.

Il diavolo, però, fa le pentole e non i coperchi, tant’è che, pure in questa circostanza, la piccola astuzia adottata risulta appunto priva dell’indispensabile coperchio capace di occultarla. Caso vuole infatti che il testo dell’epitaffio, pur omettendo l’anno, riporti il giorno della settimana, quello del mese ed il mese della sepoltura del nostro Prezioso: venerdì («sexta feria») 18 agosto («XV kalendas Septembris»). Ebbene il 18 agosto 680 non cadde di venerdì, il che rende impossibile che Prezioso sia morto in quell’anno e, di conseguenza, fa crollare tutta la cronologia così meticolosamente messa in piedi.

A questo incontrovertibile dato di fatto, si aggiunge poi la stranezza che il vescovo di Taranto, città conquistata — e, a detta dei cronisti, devastata — dai Longobardi nello stesso periodo di Brindisi, invece di essere fuggiasco come Prezioso, partecipasse senza problemi al concilio di Costantinopoli.

Se si ricorda, infine, che il testo dell’epigrafe è molto più affine alle scritte funerarie del V e VI secolo, una soluzione che colloca Prezioso tra i vescovi del VI secolo sembra a questo punto più probabile. Una simile datazione potrebbe in aggiunta fornirci qualche appiglio attendibile per spiegare da chi, e perché, i Brindisini fuggissero talmente in fretta da essere costretti a seppellire il loro vescovo in un luogo così lontano da quello usuale.

Narra Procopio che la nostra città, dopo essere stata per i primi dieci anni risparmiata dal conflitto che impegnava i Bizantini ed i Goti, ne venne investita pesantemente. Il problema è che Brindisi non aveva cinta murarie a protezione e, risultando indifendibile, era di fatto soggetta alle frequenti scorrerie dei contendenti. C’è un passo poco conosciuto della Guerra gotica18 che sintetizza in maniera eclatante tale stato di cose. All’incirca nel 545 i Bizantini, da tempo impossessatisi senza colpo ferire della penisola salentina, subiscono il contrattacco dei Goti.

Trinceratisi ad Otranto, i Bizantini non osano accettare lo scambio in campo aperto, tranne tal Vero che Procopio dipinge «temerario, perché dedito all’ubriachezza»19. Questi lascia infatti Otranto ed arriva nella nostra città. I Goti, accortisi della manovra, pensano che sia un pazzo oppure che abbia con sé un esercito talmente numeroso da poter garantire le difese di una postazione, come Brindisi, priva di fortificazioni. Venuti a sapere che era in effetti una decisione avventata, attaccano decisi; Vero ed i Bizantini, appena li vedono comparire, non potendosi in alcun modo proteggere, se la danno a gambe, nascondendosi in una selva20.

Se pure un plotone armato di tutto punto stimava meglio darsi alla fuga, figuriamoci una cittadinanza inerme. Il racconto è così una chiara testimonianza di come i Brindisini si trovassero, indifesi, in balìa di entrambe le parti in lotta. In una simile situazione, non c’è da stupirsi se la fuga rappresentava l’unica possibile ancora di salvezza. Può quindi essere avvenuto che, in un frangente simile, si siano trovati costretti a seppellire il loro vescovo, e siano pertanto i Goti, anch’essi ariani al pari dei Longobardi, il possibile riferimento dell’epigrafe. Se s’aggiunge poi che il 18 agosto 545 capitò giustappunto di venerdì, si ha un altro piccolo tassello favorevole. Non è certo molto, ma comunque qualcosa rispetto al nulla su cui può contare l’ipotesi che fa dei Longobardi i sicuri inseguitori del fuggiasco Prezioso.

Con Prezioso cade anche l’ultimo sostegno alla tesi che prevede l’esistenza a Brindisi di una qualsivoglia funzione vescovile per tutto il periodo che va dall’episodio appena narrato all’arrivo dei Longobardi di Benevento che, a detta di Carito, conquistano la città «circa il 674»21 e la distruggono nello stesso anno22. Anche in questo caso non ci sono riscontri oggettivi che confortano una simile datazione, che pare anch’essa calcolata per dare supporto all’ipotesi formulata.

Infatti, l’unica fonte letteraria disponibile riporta gli avvenimenti in maniera generica, senza datare l’occupazione della città: Romualdo, duca di Benevento, messo insieme un grande esercito, espugnò Taranto e, nello stesso modo, prese Brindisi («Romualdus Beneventanorum dux, congregata exercitus multitudine, Tarentum expugnavit et cepit, parique modo Brundisium»23). Questo lo stringato racconto di Paolo Diacono da cui è desumibile solo che i fatti avvennero tra il 671 ed il 687, quando Romualdo I, reggendo le sorti del ducato di Benevento, poteva intraprendere simili imprese.

Nel passo citato non c’è in aggiunta nessuna menzione della presunta devastazione delle città conquistate, che pare far parte più d’una elaborazione successiva che della realtà storica. Anzi, nel seguito dello stesso brano, passando ad un argomento completamente diverso, Paolo Diacono dà un importante indizio per una descrizione dei fatti in netta controtendenza. Precisa difatti che Teuderata, moglie di Romualdo, è una fervente cattolica tanto che, nello stesso intervallo di tempo, ha fatto costruire una basilica ed un cenobio, appena fuori Benevento («Coniux quoque eius Theuderata eodem tempore foras muros Beneventanae civitatis basilicam in honore beati Petri apostoli construxit; quo in loco multarum ancillarum Dei coenobium instituit»24). Come dire che, a quell’epoca, i Longobardi non erano quei mangia cattolici che fa comodo lasciar credere.

In effetti, nella ricostruzione dei fatti, i Longobardi paiono confinati alla visione alquanto faziosa del teologo Di Meo, insigne erudito del XVIII secolo che, pur di sollevare la Chiesa da ogni possibile colpa, non disdegnava di alzare i toni narrando di città «barbaramente sterminate da’ Longobardi»25 oppure che al pari di Brindisi «contarono i loro vescovi, finché divennero preda de’ Longobardi»26. In realtà nelle prime fasi dell’invasione ci furono distruzioni ed azioni contro i vescovi cattolici ma, a lungo andare, le cose cambiarono per cui l’immagine dei Longobardi sterminatori è uno stereotipo di comodo. Tanto è vero che, quando si apprestavano ad espugnare Brindisi, l’atteggiamento dei Longobardi di Benevento nei riguardi della chiesa cattolica era di fatto diverso, grazie alle numerose conversioni avvenute tra le loro fila e, soprattutto, alla politica distensiva attuata da Romualdo.

Lo stesso Romualdo pare avesse imboccato la via del cattolicesimo, anche se i contorni di questo suo cambiamento di fede sono riportati in un’opera agiografica, la Vita Barbati episcopi beneventani (Vita di san Barbato, vescovo di Benevento), le cui informazioni vanno quindi accolte con le dovute cautele. Fatta la dovuta tara, emerge tuttavia evidente l’influenza esercitata da san Barbato sul duca di Benevento che, d’altra parte, ne aveva accettato l’insediamento nella diocesi beneventana sin dal 664, quand’era ancora reggente. Nella Vita Barbati è in vario modo descritta l’assidua opera compiuta dal presule per rimuovere i culti pagani, ancora vivi tra i Longobardi del Sannio, allo scopo di affrancarli dalle loro innate credenze. In questo contesto, particolare risonanza assunse l’abbattimento dell’albero di noce, posto sulle rive del fiume Sabato, che rappresentava il simulacro del rito pagano della vipera a due teste a cui erano particolarmente legati i guerrieri del ducato. Con questo atto, imposto da Barbato, Romualdo prese le distanze dall’arianesimo e avviò, almeno dal punto di vista formale, il percorso di avvicinamento al cattolicesimo. Di là dagli aspetti di colore, la circostanza è rivelatrice dei tentativi compiuti dal duca per superare i contrasti con la popolazione latina e, al tempo stesso, instaurare relazioni pacifiche con il clero. Per tutto il periodo del suo ducato i suoi comportamenti furono pertanto ispirati ad una politica di conciliazione con la chiesa romana, anche perché sollecitato in ciò da san Barbato e dalla moglie Teuderata.

È per altro evidente che sarebbe stato impossibile mantenere rapporti amichevoli con il papato, rendendosi insieme protagonisti di azioni violente nei confronti dall’apparato ecclesiastico. Probabilmente Romualdo, quando conquistò Brindisi, non aveva ancora abbandonato la fede ariana ma la questione ha scarso rilievo pratico perché erano gli obiettivi politici che intendeva conseguire ad essere preminenti, e questi erano indubbiamente indirizzati ad un intesa sempre più stretta con le autorità ecclesiastiche. Stando così le cose, appare del tutto scontato che il duca non aveva nessun motivo logico, né alcun tornaconto, ad inimicarsi la curia vescovile brindisina. Anzi, al contrario, avrebbe avuto tutto l’interesse a farsela amica ed a sfruttarla per i propri fini. Fosse esistito in quel momento a Brindisi un clero capace di mantenere in vita un episcopato, Romualdo se ne sarebbe di certo servito per puntellare la conquista e consolidarla. Non c’era infatti struttura burocratica a quel tempo meglio organizzata di quella clericale, e tutti i governanti, quand’era possibile, se ne servivano per gestire e controllare il territorio. Il problema fu piuttosto che il clero s’era già da tempo trasferito, seguendo una logica d’interessi interni alla diocesi, e questa fuga rappresentò un costo elevato per la città in termini demografici e di risorse. I religiosi furono infatti seguiti dai loro clienti e la scelta da loro fatta condizionò le successive decisioni dei maggiorenti brindisini. In più, alla mancanza d’una classe dirigente in grado di gestirla, si aggiungeva un porto ormai in netto disarmo, neanche più collegato con le rotte per l’altra sponda dell’Adriatico e per le coste del nord Italia. Un porto diventato addirittura un pericolo: una specie di cavallo di Troia per il cui tramite i Saraceni avrebbero potuto insinuarsi nella penisola.

Non direi quindi che la conquista longobarda comportò la distruzione della città, che pare invece una soluzione costruita a tavolino, non del tutto corrispondente alla realtà dei fatti. Sarei piuttosto propenso a credere che i Longobardi, magari d’intesa con i Bizantini, resero inagibile il porto per evitare pericoli esterni e spostarono il baricentro della città, in modo da allontanarla dalla costa e porla al riparo dalle scorrerie dei Saraceni.

Comunque siano andate le cose, pare evidente che non furono i Longobardi la causa del declino e dello spopolamento della nostra città, come certa cronachistica vuol far credere. Gli atti da essi compiuti rappresentarono l’epilogo d’un processo, già da tempo avviato, che aveva visto come principale protagonista il clero, in questo caso, molto più propenso a salvaguardare il proprio tornaconto che l’interesse dei fedeli. E che ci fossero vescovi inclini ad abbandonare le proprie sedi vescovili per motivi di sicurezza, ce lo svela un fermo monito di Sant’Agostino che aveva ricordato loro che il dovere di un vescovo era sempre quello di stare con i suoi fedeli27.

Ma, a quanto sembra, a Brindisi, il santo consiglio non trovò molto ascolto.

 

 

 

 

 

 

1 Il Vat. lat. 1197, contenente Passiones et Legendae Sanctorum tra cui è compresa nelle cc. 1v-9v la Vita vel passio b. Pelini episcopi et martyris, nelle cc. 9v-13r Miracula s. Pelini episcopi e nella prima colonna di c. 13v un Carmen de s. Pelino.

2 G. Carito, Gli arcivescovi di Brindisi sino al 674, in Parola e storia, I, n. 2/ 2007, pp. 197-225. Nel prosieguo il testo cui si farà riferimento è quello riportato sul sito Academia.edu.

3 Ibidem, p. 19.

4 Ibidem.

5 Ibidem.

6 Vat. lat. 1197, Vita vel passio b. Pelini episcopi et martyris, c. 8v.

7 Ibidem.

8 Procopio di Cesarea (V secolo d.C. – VI secolo d.C.), La guerra gotica, II 18.

9 G. Carito, Cit., p. 19.

10 Ibidem, p. 18.

11 Vat. lat. 1197, Cit., c. 4r.

12 Ibidem, c. 3r.

13 P. Orsini, Cultura grafica tra l’XI e il XIII secolo a Sulmona, in Scripta et scripturae. Contributi per la storia di Sulmona, a c. di Ezio Mattiocco, Editrice itinerari, Lanciano 2002, pp. 143-178.

14 P. Orsini (a cura di), Archivio capitolare della cattedrale di san Pelino a Corfinio: inventario, Diocesi di Sulmona, Valva Sulmona 2005, p. 10.

15 Ibidem, p. 29.

16 PRETIOSUS AEPESCOPUS | AECLETIAE CATOLICAE SANC | TE BRYNDISINE DEPOSITUS | SEXTA FERIA QUOD EST | XV KAL SEPTEMBRIS REQUIEBIT | IN SOMNO PACIS | (II vescovo Prezioso, della santa Chiesa cattolica di Brindisi, sepolto venerdì 18 agosto, si è addormentato nel sonno della pace). Da R. Jurlaro, Problemi di epigrafia paleocristiana nel Salento, in Atti del III Congresso di Archeologia Cristiana, Aquileia 1972, p. 410.

17 Ibidem, p. 411.

18 Procopio di Cesarea, Cit., III 27.

19 Ibidem.

20 Ibidem.

21 G. Carito, Cit., p. 18.

22 G. Carito, Cit., p. 22.

23 Paolo Diacono (VIII secolo d.C.), Storia dei Longobardi, VI 1.

24 Ibidem.

25 A. Di Meo, Annali critico-diplomatici del regno di Napoli, Stamperia Simoniana, Napoli 1795, volume I, p. 70.

26 Ibidem.

27 A. Cameron, Il tardo impero romano, Società editrice il Mulino, Bologna 1995, p. 239.

 

 

La Terra d’Otranto in immagini ultracentenarie (2/7): Brindisi

di Armando Polito

Veduta dal mare
Rovine di S. Giovanni

Chiesa del Casale

 

Il bagno penale
Corso Garibaldi
Piazza delle vettovaglie

 

 

Per la prima parte (Ostuni e Carovigno): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/19/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-1-7-ostuni-e-carovigno/

Per la terza  parte (Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/03/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-3-7-lecce/

Per la quarta parte (S. Maria di Leuca e Otranto): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/09/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-4-7-s-maria-di-leuca-e-otranto/

Per la quinta parte (Maglie, Gallipoli, Galatina, Soleto, Copertino e Leverano):  https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/18/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-5-7maglie-gallipoli-galatina-soleto-copertino-e-leverano/

Per la sesta parte (Oria e Francavilla Fontana): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/26/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-6-7-oria-e-francavilla-fontana/

Per la settima parte (Taranto e Catellaneta): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/01/03/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-7-7-taranto-e-castellaneta/

Brindisi: l’epigrafe del mercante e i suoi misteri

di Armando Polito

Per una volta tanto rinuncerò al consueto tono colloquiale e tratterò l’argomento per sezioni, nella speranza di essere il più esauriente e chiaro possibile nel minor tempo e nel minor spazio.

NOTIZIE STORICHE

Datata tra la fine del I secolo e l’inizio del secondo, risulta costituita da due parti rinvenute nel porto di Brindisi, La prima nel 1869, la seconda due anni dopo. È registrata in diverse raccolte (CIL, IX, 60; CLE,  1533 e AE, 2005, 161). Dato il luogo del ritrovamento, non è detto che la sua provenienza o la sua meta finale fosse proprio Brindisi, ma questo è un dettaglio sul quale tornerò alla fine. Va ricordato che la prima registrazione in cataloghi (quella nel tomo nono del CIL uscito nel 1883)  fu merito di Giovanni Tarantini (Brindisi 1805-Brindisi 1889) che la trasmise, insieme con altre al Mommsen.

Ecco la scheda tratta dal citato tomo del CIL:

Tuttavia la sua prima pubblicazione era avvenuta nel Bullettino di corrispondenza archeologica, per l’anno 1872, Salviucci, Roma, 1872, p. 30, a cura di Wilhelm Henzen. Mi piace riportare la parte iniziale del suo contributo perché è una testimonianza dell’autorevolezza e dell’acribia dell’archeologo brindisino pronto a riconoscere di aver tratto conclusioni azzardate (però nessuno ne aveva avanzato altre …) al ritrovamento del primo frammento, ma felice di poter formulare il giudizio definitivo, nonché la conferma che nelle piccole e grandi scoperte poca o tanta fortuna non guasta.

Scrive l’Henzen: Il nostro socio corrispondente, sig. arcidiacono Gio. Tarantini direttore della biblioteca di Brindisi, ci scrisse nell’autunno dell’anno scorso: “Nel 1869, partendo da alcuni dati storici, avventurai un’opinione su di quattro versi latini che aveva trovati incisi su di una mezza tavola di marmo che era stata allora estratta dal fondo di questo porto. La mancanza de’ versi precedenti, che trovar si dovevano nell’altra metà superiore della tavola, rendeva ben difficile l’indovinare chi parlasse in quelli versi. Ora debbo confessare che andai ben lungi dal vero nelle mie conghietture. Non poteva allora certamente augurarmi che un giorno tra i milioni di metri cubici di fango e macerie che si estraevano dal porto, avesse potuto rinvenirsi l’altra mezza lapide. Dopo due anni però è avvenuto quel che era affatto fuori delle mie speranze. In questi giorni esaminando alcuni rottami che fortunatamente non erano stati trasportati per esser gittati in alto mare, ho tosto riconosciuto l’altra mezza lapide che, unita alla prima, misura m. 0,65 di altezza e m. 0,5 di largo, e vi ho letto altri otto versi. Ecco ora tutta intiera l’iscrizione …

 

Segue la datazione, stabilita in base alla scrittura, proposta dall’Henzen in collaborazione col collega G. B. De Rossi, da allora unanimemente accettata e che ho indicato all’inizio. W. Henzen, G. B. De Rossi, Georg Kaibel [in calce alla scheda del CIL a destra si legge: recognovit Kaibel (la emendò Kaibel); chiunque può notare, ad onor del vero, come l’emendatio di Kaibel si limitò all’aggiunta della punteggiatura] e, per finire, Theodor Mommsen: un quartetto di luminari di fronte al quale il Tarantini non solo superò brillantemente l’esame ma che con loro avrebbe potuto metter su un bel quintetto …

Attualmente l’epigrafe è custodita nella città in cui fu rinvenuta nel Museo archeologico Ribezzo

TRASCRIZIONE E TRADUZIONE

1   Si non molestum est, hospes, consiste et lege!

2   Navibus velivolis magnum mare saepe cucurri,

3   accessi terras complures. Terminus hicc est

4   quem mihi nascenti quondam Parcae cecinere.

5   Hic meas deposui curas omnesque labores.

6   Sidera non timeo hic nec nimbos nec mare saevom

7   nec metuo sumptus ne quaestum vincere possit.

8   Alma Fides, tibi ago grates, sanctissima diva:

9   fortuna infracta ter me fessum recreasti;

10 tu digna es quam mortales optent sibi cuncti.

11 Hospes, vive, vale! In sumptum superet tibi semper

12 qua non sprevisti hunc lapidem dignumq(ue) dicasti!

 

Se non ti è di fastidio, o forestiero, fermati e leggi!

Ho corso spesso il grande mare con le navi che volano con le vele,

sono entrato in molte terre. Proprio questo è il punto d’arrivo

che a me che nascevo le Parche un tempo annunziarono.

Qui ho deposto le mie preoccupazioni ed ogni fatica.

Qui non ho paura del clima, né dei temporali, né del mare crudele,

non ho paura neppure che il guadagno non superi le spese.

Fede alimentatrice, santissima dea, rendo a te grazie:

tre volte hai rinfrancato me provato dalla infranta fortuna;

tu sei degna che tutti i mortali  ti desiderino per sé.

Forestiero, vivi e sta’ bene! Ti avanzi sempre qualcosa da spendere,

in quanto non hai disprezzato questa pietra e (le) hai dedicato qualcosa di degno.

OSSERVAZIONI TESTUALI

Va osservata sul piano grammaticale la forma HICC nella linea 3, intermedia tra la normale HIC (che ricorre, come avverbio e non come pronome, alla linea 5) e la rafforzata HICCE.

Sul piano lessicale vanno segnalati alcuni ricalchi letterari, tenendo conto, però, che certi lemmi e certe locuzioni erano di uso corrente.

Linea 1: Si non molestum est, hospes, consiste et lege!

Formula abbastanza frequente,  con alternanza tra hospes (forestiero) e viator (viandante), nelle epigrafi funerarie. Ne fornisco qualche esempio sottolineando la parte che interessa ai fini della trattazione: AE 1996, 00453 (da Lucera): Sic iter hoc felix tibi sit / consiste v(i)ator et me(a) fata / brevi percipe notitia / Propasi fuerat mihi nomen / flore iu(v)entae erepta ex / oc(u)lis morte gravi teneor / nam mihi bis quaternos / aetas compl(e)verat annos / amissa vita lugent ut(e)rque / parens multa queri pos(sis) / si mora grata foret …  (Così questo viaggio ti sia felice, o viandante, e apprendi con poche parole il mio destino. Propasi era stato il mio nome. Mi trovo rapita alla vista dalla pesante morte nel fiore della gioventù. L’età non aveva ancora compiuto per me otto anni. Per la vita perduta piangono entrambi i genitori. Possa tu dolertene molto se la sosta ti fosse gradita …; : CIL II, 3475 (da Cartagena): C(aius) Licinius C(ai) f(ilius) Torax / hospes consiste et Thoracis perlege nomen …(Caio Licinio Torace figlio di Caio. Forestiero, fermati e leggi il nome di Torace …); CIL XI,; RIU-06, 1554a (da Gorsium, in Pannonia): D(is) M(anibus) / tu qui festinas pe/dibus consiste vi/ator et lege quam / [dur]e sit data vita mihi [ … (Agli Dei Mani. Tu, o viandante, che ti affretti ferma il tuo piede e leggi quale dura vita mi è stata data […).

Linea 2: Navibus velivolis magnum mare saepe cucurri

Ogni possibilità di interpretare magnum mare (grande mare) come equivalente di mare magnum, nesso con il quale (oltre a mare nostrum e a mare internum) i Romani indicavano il Mediterraneo, è esclusa dal fatto che con entrambi i nessi l’esametro sarebbe stato perfetto, per cui, se l’autore avesse voluto alludere al Mediterraneo e non al concetto generico della vastità del mare avrebbe senz’altro usato mare magnum. Di seguito le due possibilità di scansione che dimostrano quanto ho appena finito di dire:

Nāvĭbŭs I vēlĭvŏIlīs II māgnūm mărĕ I saepĕ cŭIcūrrī

Nāvĭbŭs I vēlĭvŏIlīs II mărĕ I māgnūm I saepĕ cŭIcūrrī 

Per quanto riguarda navibus velivolis:

Macrobio (V secolo d. C.) in Saturnalia (VI, 5) ci ha tramandato due frammenti di Ennio (III-II secolo a. C.). Il primo è tratto dal libro XIV degli Annales: … quom procul aspiciunt hostes accedere ventis/navibus velivolis(… quando da lontano scorgono i nemici accostarsi grazie al favore del vento con le navi volanti con le vele) ; il secondo dalla tragedia Andromacha: … rapit ex alto naves velivolas(… ghermisce in alto mare  le navi volanti con le vele …) vele..                                                                                             

Lucrezio (I secolo a. C.), De rerum natura, V, 1442: tum mare velivolis florebat navibus ponti (allora la superficie del mare pullulava di navi volanti con le vele).

Cicerone (I secolo a. C.) nel De divinatione I, 31 riporta un frammento di Ennio (III-II secolo a. C.) dalla tragedia Alexander: Iamque mari magno classis cita/texitur; exitium  examen rapit/adveniet fera velivolantibus/navibus, complebit manus litora (E già per il vasto mare una flotta veloce vien costruita; essa trascina uno sciame di disgrazie,  arriverà crudele; un esercito su navi volanti con le vele occuperài nostri lidi). Qui, invece dell’aggettivo velivolus/velivola/velivolum è usata la variante deverbale (participio presente di velivolare) velivolans/velivolantis.

Ovidio (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Epistulae ex Ponto IV, 5, 42: et freta velivolas non habitura rates (e le onde non destinate ad avere le navi che volano con le vele).

Linee 3-4: …. Terminus hicc est/quem mihi nascenti quondam Parcae cecinere

Orazio, Carmen saeculare, vv. 25-28: Vosque, veraces cecinisse Parcae,/ quod semel dictum est stabilisque rerum/terminus servet, bona iam peractis/iungite fata (E voi, Parche veritiere, avete cantato; perché lo stabile confine delle cose conservi ciò che una sola volta fu detto, aggiungete un destino favorevole a ciò che si è compiuto).

Linea 5: Hic meas deposui curas omnesque labores

Virgilio, Georgiche, IV, 531: Nate, licet tristis animo deponere curas (O figlio, è possibile allontanare dall’animo le tristi preoccupazioni); Ovidio, Rimedi d’amore, 259: Nulla incantatas deponent pectora curas (Nessun cuore allontanerà le incantevoli preoccupazioni);  

Linea 6: Sidera non timeo hic nec nimbos nec mare saevom

Da notare anzitutto la forma arcaica saevom invece della classica saevum, a impreziosire il testo di una patina di antica solennità.

Il nesso mare saevum è ricorrente negli autori latini a partire da Livio Andronico (III secolo a. C.) in un frammento della sua traduzione dell’Odissea: Namque nullum peius macerat humanum/quamde mare saevom (E infatti nulla di peggiore logora l’uomo del mare crudele). Da notare come mare saevum (mare crudele) costituisce uno sviluppo del precedente magnum mare (la crudeltà rende ancor più probabili i rischi legati alla vastità).

Linea 8: Alma Fides, tibi ago grates, sanctissima diva 

Alma Fides è un nesso tipico della produzione colta:

Ennio, citato da Cicerone, nel De officiis, III, 29: O Fides alma apta pinnis … (O alma fede dotata di ali);

Stazio (I secolo d. C.), Tebaide, XI, 98: Tu mihi perplexis quaesitam erroribus ultro/advehis alma fidem, veterisque exordia fati/detegis, assistas operi, tuaque omina firmes (Tu [rivolto alla notte, qui dettaglio astronomico ma che nell’epigrafe potrebbe essersi trasfigurato nell’idea della morte], alma, mi porti nel groviglio delle incertezze la fede richiesta, sveli le origini del vecchio destino, dai aiuto all’opera e confermi tutti i tuoi presagi).

Silio Italico (I secolo d. C.), Punica, VI, 131-132: in egregio cuius sibi pectore sedem/ceperat alma Fides mentemque amplexa tenebat (… nel suo nobile cuore l’alma fede aveva preso posto per sé e dopo aver avvinto la mente la teneva salda).

Ricorre pure in altre epigrafi funerarie (CIL V, p 623,15; CIL IX, 60; CIL XII, 2115; CIL XIII, 3098; AE 1976, 243; AE 1902, 245; EDCS-42700150; EDCS-33900311; EDCS-30300366; EDCS-38700126; EDCS-30200094 E, in particolare, in riferimento alla mercatura, CIL XI, 382:  … hos non imbelli pretio mercatus honores/sed pretio maius detulit alma fides … ( … l’alma fede non recò questi onori della mercatura a buon prezzo ma cosa maggiore del prezzo). Il nesso, poi, diventerà obbligato a partire dal IV secolo, soprattutto con la letteratura cristiana. 

Linea 9: fortuna infracta ter me fessum recreasti

Difficile dire se il riferimento è l’essere sfuggito tre volte ad un naufragio o al fallimento. Fortuna infracta ricorda vagamente Valerio Massimo (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Factorum et dictorum memorabilium libri,  IV, 7: Accedit huc quod infractae fortunae homines magis amicorum studia desiderant (A questo si aggiunge il fatto che gli uomini dal destino infelice desiderano di più le attenzioni degli amici).

STRUTTURA COMPOSITIVA

il testo dell’epigrafe può essere schematicamente suddiviso in tre sezioni: la prima (riga 1) contenente l’invito a fermarsi e a leggere rivolto al passante, la seconda (righe 2-10) contenente la biografia, la terza (righe 11-12) contenente il congedo e il ringraziamento. Mi pare importante rilevare l’andamento circolare del testo, che si apre e chiude con lo stesso concetto (imperniato nella parola-chiave hospes) declinato al futuro nella prima sezione (invito a fermarsi e a leggere) e al passato/presente nella terza (ringraziamento per essersi fermato e aver letto). Per quanto appena detto non condivido minimamente quanto leggo in Antonio La Penna, Fra teatro, poesia e politica romana, Einaudi, Torino, 1979, p. 48: La chiusa è in tono minore, e può essere ritenuta anche non del tutto degna del bellissimo carme. Se qualche appunto va mosso, esso potrebbe riguardare solo la metrica e precisamente la cesura, peraltro obbligara, del verso 9 che crea una frattura tra la preposizione in e il sumptum da essa retto. Può darsi, però, che lo scarso gradimento del finale per La Penna sia dovuto al carattere materialistico di in sumptum superet tibi semper (ti avanzi sempre qualcosa da spendere); faccio notare, però, come tale verso  sia la ripresa di nec metuo sumptus ne quaestum vincere possit (né temo che la spesa possa superare il guadagno), trasformato, ora che la morte lo ha escluso da ogni rischio, in augurioper chi resta.D’altra parte, cosa poteva augurare un mercante condizionato per definizione, per quanto idealista fosse, dalla legge economica della domanda e dell’offerta? E non voglio azzardarmi ad affermare che quel vive et vale sia stato ispirato per contrasto dall’Ego abeo. Male vive et vale (Io me ne vado. Vivi malamente e addio!) con cui Sicofante (il nome è tutto un programma …)  nella scena II dell’atto IV della commedia Trinummus di Plauto (III-II secolo a. C.) liquida bruscamente Carmide, con cui ha un conto economico in sospeso. Più probabile, invece, il calco da Orazio, Satire, II, 5, 109-110 (è Tiresia che parla ad Odisseo): Sed me/imperiosa trahit Proserpina. Vive valeque! (Ma la dominatrice Proserpina mi trascina [nel regno delle ombre]. Vivi e addio!).

STRUTTURA METRICA

È, a parer mio, quella che rende singolare l’epigrafe. Essa consta, infatti, di dodici versi, dei quali il primo è un senario giambico, i rimanenti esametri. È un dato di fatto che la poesia antica risponde a criteri rigidi, non tanto nella struttura dei singoli versi (in cui lo schema prevede alcune varianti) quanto nella loro alternanza. Mi spiego; a livello scolastico: quando si studiava (oggi non so …) l’Eneide con la sua sequenza di esametri, si acquisiva il dato provvisorio che non ci fosse altro modello compositivo; poi lo studio dei cosiddetti poeti elegiaci faceva capire che accanto ai componimenti costituiti da una sequenza di esametri ve n’erano altri formati da distici elegiaci (esametro+pentametro); quando si passava ad Orazio si scopriva che la varietà compositiva coinvolgeva pure altri tipi di verso. Così l’epodo XVI (si capirà dopo perché ho scelto questo) risulta costituito dall’alternarsi di distici costituiti da un esametro e da un senario giambico. Com’è noto, la liberazione della stessa poesia italiana dalle pastoie della rima prima e della metrica (quella tradizionale) poi risale ad un’epoca relativamente recente. L’unicità della nostra iscrizione riguarda proprio la sua struttura (ripeto: inizlale senario giambico seguito da undici esametri, quasi un misto tra la composizione virgiliana (come ho detto tutta in esametri) e quella del canto indicato di Orazio, ma con l’inversione nell’ordine dei primi due versi (lì esametro+senario giambico, qui  senario giambico+esametro). Questo fenomeno di struttura metricamente composita non è delle epigrafi funerarie (ma dubito, per quanto dirò alla fine, che la nostra lo sia) e, a quanto ne so, la nostra, se lo fosse,  ne costituirebbe l’unico esempio, non facendo testo, perché non presente nella metrica classica, la composizione (però tutta in pentametri, dunque da considerare strutturalmente uniforme, anche se tale sequenza mai s’incontra in letteratura) di CIL IV, 9123 (Nihil durare potest tempore perpetuo/cum bene sol nituit redditur Oceano/decrescit Phoebe quae modo plena fuit/ven[to]rum feritas saepe fit aura l[e]vis).

Nella nostra epigrafe al ritmo più serrato del senario giambico contenente l’invito a fermarsi ed a leggere segue quello più disteso degli esametri, adatto al carattere narrativo del contenuto. Faccio notare, ai fini della caratterizzazione funeraria o meno dell’epigrafe, che la formula rituale del primo verso in altre epigrafi senza dubbio funerarie (vedi sopra nel commento a Linea 1) è costantemente un esametro.

Ecco la scansione del nostro verso:

Sῑ nōn I mŏlēIstum ēst, IIIspēs, cōnIsīste ēt I lěgě

Faccio notare che anche questo verso sarebbe stato un perfetto esametro se l’ultimo piede fosse stato non un dibraco o pirrichio (∪ ∪ ) ma uno spondeo (— ∪) oppure  un trocheo (— ∪), applicando, inoltre, la correptio iambica nel secondo piede (∪—>——).

Per il resto segnalo la consueta sinalefe nei versi 1 (molestum est e siste et),   6 (timeo hic), 8 (tibi ago), 9 (fortuna infracta), 10 (digna es), 11(vale In) e 12 (sprevisti hunc), la sinizesi nel verso 5 (meas)2 e la correptio iambica nel verso 2 (Nāvĭbŭs invece di Nāvĭbūs). 

Di seguito la scansione di tutti i versi.

1   Sī nōn I mŏlēIstum ēst,IIIspēs, cōnIsīste ēt I lege!

2   Nāvĭbŭs I vēlĭvŏllīs IIIgnūm mărĕ I saepĕ cŭIcūrrī,

3  āccēsIsī tērIrās II cōmIplūrēs.ITērmĭnŭs I hīcc ēst

4   quēm mĭhĭ I nāscēnIII quōnIdām PārIcae cĕcĭInērē.

5   Hīc mĕăs I dēpŏsŭIī II Irās ōmInēsquĕ lăIbōrēs.

6   Sīdĕră I  nōn tĭmĕo I hīc II nēc I nīmbōs I nēc mărĕ I saevōm

7   nēc mĕtŭIō sūmIptūs III quaestūm I vīncĕrĕ I pōssĭt.

8   Ālmă FĭIdēs, tĭbi ăIII grāItēs, sāncItīssĭmă I dīvă:

9   fōrtūIna īnfrāIctā II tēr I mē fēsIsūm rĕcrĕIāstī;

10 tū dīgna I ēs II quām I  mōrIllēs II ōpItēnt sĭbĭ I cūnctī.

11 Hōspēs, I vīvĕ, văIle! Īn II sūmpItūm sŭpĕIrēt tĭbĭ I sēmpĕr

12 quā nōn I sprēvīIsti hūnc II lăpĭIdēm dīIgnūmq(uĕ) dīIcāstī!

 

CONCLUSIONI

Si riferiscono, più che altro, a quei suoi misteri presenti nel titolo, concetto, invero, scontato quando si studia una testimonianza non solo del passato ma anche del presente, anche se può far sorgere il sospetto che abbia usato quella  voce per assicurarmi qualche lettore in più, espediente gemello dei titoli sparati dei giornali o, peggio ancora, della spettacolarizzazione che contraddistingue tante trasmissioni televisive di carattere scientifico-divulgativo.

Nel nostro caso il mistero principale riguarda, secondo me, la funzione dell’epigrafe.

Escluderei quella funeraria, almeno nell’immediato, non solo per la disomogeneità metrica ma anche, e soprattutto, perché manca il nome del defunto.1 Ho scritto nell’immediato, nel senso che si può ipotizzare che la lastra non fosse stata ancora collocata al suo posto, ma era in fieri, destinata ad essere completata (notevole è nella parte inferiore lo spazio vuoto rimasto) dopo la morte del mercante (nulla vieta che ne fosse lui direttamente il committente). Credo, poi, eccessivamente campanilistico identificare l’hic (qui) della riga 5 come Brindisi, perché la lastra poteva benissimo essere a bordo di una nave naufragata nel porto di Brindisi ma con destinazione diversa e commissionata da un destinatario che sarebbe morto chissà dove. In alternativa, escludendo, questa volta,  non solo nell’immediato la funzione funeraria, si potrebbe pensare che fosse parte di una sorta di monumento al mercante (così come oggi, per restare a Brindisi,  il monumento  al Marinaio d’Italia), degno di trovare ospitalità in qualsiasi porto, non solo a Brindisi. E la funzione celebrativa finirebbe per confondersi con quella turistico-pubblicitaria, rendendo plausibile, anche grazie alla raffinatezza del testo, che per un compito quasi di rappresentanza fosse stata commissionata non da un privato ma da un’istituzione ufficiale.

Bibliografia

Alessandro Franzoi, Saggezza di mercante, in Rivista di cultura classica e medioevale, vol. 46, n° 2 (Luglio-dicembre 2004), pp. 257-263.

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1 Che, invece, compare in epigrafi senza dubbio funerarie e, fra l’altro,  riconducibili alla sfera del commercio.

Podgorica/Doclea (Dalmazia) AE 1993, 01251 C(aius) Utius Sp(uri) f(ilius) testament(o) / fieri iussit sibi et / P(ublio) Utio [f]ratri suo et Clodia(e) / F[au]stae concubinae suae / mult[a per]agratus ego terraque marique / debit[um re]ddidi in patria nunc situs hic iaceo / stat l[apis e]t nomen vestigia nulla (Caiio Uzio figlio di Spuro ordinò che fosse fatto a ricordo di sé, di Publio Uzio suo fratello e di Clodia Fausta sua concubina. Io dopo aver errato a lungo per ierra e per mare resi il dovuto in patria. Ora giaccio posto qui; ci sono la lapide ed il nome, non c’è nessun resto).

Pescara CIL 09, 03337 L(ucio) Cassio Hermo/doro nauclero / qui erat in colleg(io) / Serapis Salon(itano) per / freta per maria tra/iectus saepe per und(as) / qui non debuerat / obitus remanere / in a(e)tern(o) sed mecum / coniunx si vivere / nolueras at Styga / perpetua vel rate / funerea utinam / tecu(m) comitata / fuissem Ulpia Candi/da domu Salon(itana) co(n)i(ugi) / b(ene) m(erenti) p(osuit (All’armatore Lucio Cassio Ermodoro che era nel collegio di Serapide a Salona. Sballottato per gorghi, per mari, spesso tra le onde che non sarebbe dovuto morire in eterno ma con me compagno se tu non avevi voluto vivere. Piuttosto avesse voluto il cielo che io fossi stata accompagnata con te dallo stige o dalla barca funerea! Ulpia Candida di famiglia di Salona pose al marito benemerito).

2 Ma si può considerare pure la presenza di correptio iambica (mĕās>mĕăs). Nella scansione che segue si è privilegiata questa soluzione, non essendo possibile rappresentarle entrambe contemporaneamente. Se si fosse privilegiata la sinizesi nello schema non avremmo avuto mĕăs bisillabo ma unica sillaba lunga).

Gli antichi toponimi dell’isola di Sant’Andrea a Brindisi

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Nazareno Valente, Gli antichi toponimi dell’isola di Sant’Andrea

n Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 445-452

 

 

ITALIANO

Da quando una diga l’ha collegata alla terraferma, l’isola di Sant’Andrea non compare quasi più nelle carte geografiche. Eppure nell’antichità godeva di giusta notorietà, in quanto costituiva l’elemento essenziale che consentiva all’approdo di Brindisi d’essere considerato uno dei porti più rinomati e sicuri al mondo. Nell’immaginario comune una struttura portuale, per essere tale, doveva infatti fruire di un antemurale che la proteggesse dai venti, e si valutava che non ci fosse salvaguardia migliore di un’isola posta di fronte all’imboccatura dello scalo. Partendo da tale dato di fatto, viene riesaminato un passo di Pomponio Mela, la cui interpretazione data dagli storici moderni pare poco convincente perché basata sulla ingannevole considerazione che il presente sia specchio per lo più fedele del passato, quando per l’isola di Sant’Andrea così non è, essendo il contesto ai tempi del geografo della Betica molto diverso dall’attuale. Si perviene così alla sorprendente conclusione che tra i toponimi antichi riportati dalle fonti il più verosimile è proprio quello sinora rifiutato.

 

ENGLISH

Since when a dyke has connected it to the dry land, St.Andrew’s island hardly ever appears on the maps. In the past, it had the right reputation because it was the essential element that allowed the Brindisi landing to be considered one of the most famous and safe landing in the world. In the common imagination, a harbor to be so had to benefit from a breakwater that sheltered it from winds, and nothing was better than an island situated opposite the entrance of the dock. Starting from this fact, it is re-examined one of Pomponio Mela’s passages whose interpretation given by modern historians seems not very convincing because it is based on the illusory consideration that the present is for the most part a faithful mirror of the past, when it is not true for St. Andrew’s island because in Betica geographer’s times the context was very different from the present context. So, we reach the astonishing conclusion that among the old toponyms reported by the sources the most plausible is that refused up to more.

 

Keyword

Nazareno Valente, Brindisi, Isola di Sant’Andrea, Pomponio Mela

Santa Maria del Casale di Brindisi. Le aureole medievali ritrovate

Un “miracolo” a Santa Maria del Casale di Brindisi

Il ritrovamento delle aureole d’argento del XIV secolo

di Giovanni Boraccesi

Inaspettata e quanto mai gradita è la ricomparsa sulla scena artistica pugliese, dopo novantatré anni dalla sparizione, di due preziosissime aureole d’argento in principio sistemate sull’icona della Madonna col Bambino, del tipo Hodeghitria, conservata nella chiesa di Santa Maria del Casale di Brindisi, un edificio eretto dal principe Filippo I d’Angiò di Taranto (1294-1331) tra la fine del Duecento e gli albori del Trecento. Nel 1924 le aureole di questa immagine mariana, un affresco a suo tempo quasi certamente rimosso con la tecnica dello stacco a massello per essere sistemato su un più sontuoso altare marmoreo di gusto barocco e verosimilmente sbriciolatosi nell’ultima rimozione, furono trasferite nel Museo Archeologico di Taranto da dove si persero le tracce.

È stata l’occasione dell’inaugurazione delle nuove sale espositive del castello svevo di Bari, il 3 ottobre scorso alla presenza del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo Dario Franceschini, a portare alla conoscenza del pubblico e alla visione dei visitatori le preziose aureole, nel frattempo finite nella cassaforte della Soprintendenza tarantina. Proprio in una sala del maniero barese, in ragione di un pannello illustrativo, se ne ricostruisce l’incredibile vicenda.

Le aureole brindisine, assieme ad altri perduti elementi anch’essi d’argento come il rotulum e le mani degli effigiati, costituivano una sorta di riza soprammessa alla sacra immagine. Lavorate a sbalzo e a incisione, presentano una ricchezza e varietà di ornati fitomorfi, in particolare foglie e girali, che a suo tempo ebbi modo di confrontare con altri reperti dell’Italia settentrionale, in particolare la Copertura di evangeliario del Tesoro di San Marco a Venezia, ma anche il Reliquiario del Sacro Chiodo, sempre nel Tesoro di San Marco; la cornice di due rilievi della Pala d’oro del duomo di Caorle; il frammento di cornice della Cassetta reliquiario dei Santi Senesio e Teopompo dell’abbazia di Nonantola. Proprio la citata Copertura di evangeliario, elaborata a Tournai tra il 1230 e il 1240 e giunta nella città lagunare già nel XIII secolo, divenne subito notissima e fonte di ispirazione di molti orafi del luogo, che in particolare ne imitarono gli squisiti motivi decorativi.

L’aureola del Bambino, inoltre, si arricchisce di otto identici clipei che racchiudono due pavoni affrontati all’Arbor Vitae, a loro volta circondati da un’iscrizione che solo ora, da una visione diretta del manufatto, si riesce meglio a leggere: A QVI FLOREM TENENT, evidentemente da interpretare come allusione al fiore di giglio di casa d’Angiò, dunque al suo probabile committente Filippo principe di Taranto. Entrambe le aureole si presentano oggi piuttosto malandate, ragion per cui se ne chiede un appropriato intervento di restauro.

Sotto quest’aspetto dei recuperi delle opere d’arte, la Puglia è stata fortunata negli ultimi tempi, visto che grazie al Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale nel 2008 si è rinvenuto a Parigi il Crocifisso in avorio (XII secolo) rubato nel novembre del 1983 dalla cattedrale di Canosa mentre nel 2013 è stata la volta della medievale Stauroteca (reliquiario della Santa Croce) trafugata nel 1977 dalla chiesa di San Leonardo a San Giovanni Rotondo, quest’ultima recuperata a Firenze.

L’analisi delle due aureole brindisine sarà trattata da Giovanni Boraccesi, studioso di oreficeria pugliese. Tale intervento sarà preceduto da una relazione di Giulia Perrino, cultore della materia presso l’Università di Bari, dal titolo I principi di Taranto e la devozione per la Vergine del Casale.

L’intera manifestazione, che si svolgerà il 13 marzo alle ore 17,30 presso il Museo Archeologico “Francesco Ribezzo” di Brindisi, è stata organizzata dalla locale Associazione Amici dei Musei, nella persona della presidente Franca Mariani ed in collaborazione con il Museo stesso.

 invito

Brindisi: il Seminario* in un disegno di Desprez

di Armando Polito

* Su segnalazione del sig. Gianluca Saponaro, che qui ringrazio, fatta sul profilo  Facebook della fondazione (colgo l’occasione, ancora una volta, per pregare i lettori di postare i commenti anche sul blog della stessa per evitare la loro dispersione) rettifico precisando che la didascalia del Desprez è errata e che la fabbrica rappresentata non è il Seminario ma la corte  d’ingresso di palazzo Montenegro, come mostra eloquentemente, pur nella differenza di qualche dettaglio, la foto che si seguito allego tratta da http://www.brindisiweb.it/monumenti/palazzo_montenegro.asp

Dopo Lecce con piazza S. Oronzo1 tocca a Brindisi essere ricordata per un dettaglio del suo Seminario immortalato da Louis Jean Desprez (1743-1804) in un disegno a penna su carta custodito anch’esso nel Museo Nazionale svedese (numero di inventario: NMH 195/1980), dal cui indirizzo2 ho tratto l’immagine che segue.

Per quanto riguarda, sempre, la Terra d’Otranto, va ricordato che il Desprez dedicò ad essa quattro tavole e precisamente una ciascuna a Gallipoli, Soleto, Squinzano e Brindisi (di seguito nell’ordine) a corredo del terzo volume del Voyage pittoresque à Naples et en Sicile di Jean-Claude Richard de Saint-Non, opera uscita a Parigi dal 1781 al 1786.

Difficile collocare cronologicamente il nostro disegno, anche perché la scheda del museo si limita a riportare che esso fu acquisito nel 1980 da Inga-Britt Wollin di Goteborg. A lei, molto probabilmente, è dovuta l’attribuzione, non è dato sapere in base a quali criteri. Comunque, se essa corrisponde alla realtà,  è legittimo supporre che esso venne realizzato proprio durante il viaggio compiuto in Italia dal Saint-Non e che precedette, verosimilmente di qualche anno, la pubblicazione della sua opera.

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/14/lecce-piazza-s-oronzo-un-disegno-della-fine-del-xviii-secolo/

2 http://emp-web-22.zetcom.ch/eMuseumPlus?service=direct/1/ResultLightboxView/result.t1.collection_lightbox.$TspTitleImageLink.link&sp=10&sp=Scollection&sp=SfieldValue&sp=0&sp=1&sp=3&sp=Slightbox_3x4&sp=0&sp=Sdetail&sp=5&sp=F&sp=T&sp=0

 

Wikipedia, la cittadinanza romana e Brindisi. Ovvero come svilire la storia (seconda parte)

di Nazareno Valente

Il canonico Pasquale Camassa, che noi brindisini amiamo chiamare papa Pascalinu, quando scrisse la sua opera più conosciuta su Brindisi1, non intendeva certo fare un saggio ma piuttosto riprendere le antiche glorie per adeguarle alle mode del tempo, con l’evidente scopo di tirare più acqua possibile al mulino della nostra città. La romanità allora era in auge, anche nel saluto, ed era quello il motivo che Camassa intendeva sfruttare, unitamente ai valori ed ai simboli (ad esempio, fedeltà, missione storica, aquile romane) che facevano audience.

Purtroppo quella che era stata la maggiore grandezza della Brindisi romana, vale a dire l’essere stata una colonia di diritto latino, era in quel periodo poco spendibile perché il termine stesso di colonia evocava uno stato di sudditanza e cantilene in cui lo stivale s’allungava per portare il progresso. Naturalmente c’è una differenza abissale tra le colonie dedotte dai Romani e quelle avviate nel periodo ottocentesco e agli inizi del secolo scorso, tuttavia papa Pascalinu non poteva operare su queste diversità, troppo difficili da cogliere da parte di chi non ha conoscenze specifiche sull’argomento, e preferì giocare su effetti più facilmente comprensibili. Solo che ciò voleva dire incidere sui fatti, piegandoli in maniera ingannevole all’obiettivo che s’era proposto.

ArticoloWikipediaBrindisi2parte

Innanzitutto, tanto per non dare il sapore dei parenti poveri, fa diventare la colonia da latina a romana; poi la dice «formata di cittadini romani, tra cui si noveravano famiglie nobili e consolari»2 e questo perché l’Urbe intende «tenersi amica e affezionata questa città»3. Ora, se si considera che persino i plebei erano restii ad iscriversi alle liste coloniali, anche per destinazioni non troppo lontane da Roma — come, per esempio, nel caso di Anzio — nel timore che fosse una scusa per trasferirli («Ἦν δ´ οὐκ ἀγώνισμα πᾶσι τοῖς πολλοῖς καὶ πένησι Ῥωμαίων ἡ διανομὴ τῆς χώρας ὡς ἀπελαυνομένοις τῆς πατρίδος»4), appare del tutto inverosimile che lo facessero spontaneamente i nobili ed i consolari, in aggiunta rinunciando al potere ed agli onori spettanti al loro rango. D’altra parte lo stesso Camassa, senza volerlo, svela che la sua è una vera e propria invenzione quando, pensando di aggiungere blasone ai coloni arrivati a Brindisi, si contraddice clamorosamente ricordando che essi provengono «in buona parte dalla tribù Palatina»5, vale a dire proprio da una delle quattro tribù urbane composte unicamente da plebei poveri in canna, e quindi la meno aristocratica possibile6.

L’artifizio gli fa anche ipotizzare che i Romani «deducendo a Brindisi una loro colonia, ebbero in animo non di far pesare su questa città i loro diritti di dominatori, ma intesero di collaborare unicamente ai naturali del luogo»7 perché essa «fosse posta in condizione di vedere dal suo magnifico porto spiccare arditamente il volo le aquile romane, e in esso ritornare stringendo tra gli artigli le palme della vittoria»8. In pratica, sembra che i coloni arrivano a Brindisi più per la gloria di questa città che per l’Urbe. In ogni caso, la collaborazione è talmente attiva che nel volgere di pochi anni la città salentina diviene «Municipio, con tutti i diritti annessi alla cittadinanza romana»9 ed il passaggio è talmente repentino da consentire a Camassa di citarla «colonia e municipio romano»10, come se le due diverse configurazioni giuridiche fossero un tutt’uno.

Con piccoli espedienti narrativi papa Pascalinu oscura così il passato di colonia latina, in modo da garantirsi che nessuno dei suoi contemporanei possa equivocare sul termine e sminuire così la romanità della città.

Operazione riuscita perfettamente, se anche alcuni nostri contemporanei si sono lasciati convincere dalla sua tesi, come abbiamo già potuto verificare la volta scorsa su Wikipedia e su scritti recenti di cronisti brindisini. Ironia della sorte, pur non essendoci più in gioco i superiori interessi cittadini, continua ad essere tenuto nascosto o mascherato, quasi fosse una vergogna, ciò che dovrebbe invece essere motivo di vanto.

Ma ritorniamo a quel 5 agosto 244 a.C., giorno in cui i coloni entrarono nella città rifondata con il nome di Brundusium. Nelle loro fila non c’erano nobili o consolari ma certamente un sufficiente gruppo di equites11 romani e latini, magari non di eccelsa schiatta, ed anche parecchi aristocratici brindisini12.

Gli stati d’animo erano probabilmente contrastanti: i Romani che univano, alla tristezza d’essere tanto lontani dalla loro città, la soddisfazione d’avere finalmente una buona proprietà di cui disporre; i maggiorenti brindisini che, all’amarezza del ridimensionamento della loro posizione politica, mescolavano la gioia di rientrare in possesso dei propri possedimenti, sia pure probabilmente in misura ridotta. La formula giuridica imposta era la più favorevole per lo sviluppo della città che, data la posizione strategica, poteva contare sul costante appoggio dell’Urbe e, al tempo stesso, su una formale autonomia. La cittadinanza romana era, invece, per entrambi i gruppi un problema di secondaria importanza: averla o no, a quella distanza dalla città eterna, non comportava concrete differenze.

Dione, nell’epitome di Zonara, afferma che Roma s’era impossessata di Brindisi perché dotata d’un buon porto che costituiva un punto d’arrivo e di sbarco per chi naviga dall’Illiria e dalla Grecia («ὡς εὐλίμενον καὶ προσβολὴ καὶ κάταρσιν ἐκ τῆς Ἰλλυρίδος καὶ τῆς Ἑλλάδος τοιαύτην ἔχον»13) ponendo in chiaro che, almeno inizialmente, non c’era un interesse generale per i commerci adriatici quanto piuttosto la necessità di evitare che la città salentina, lasciata sguarnita, potesse costituire un facile approdo per chi intendesse portar guerra nella penisola italica. È quindi in funzione difensiva, soprattutto per garantirsi dalla minaccia dei pirati illirici e dai sogni di gloria di sovrani tipo Pirro, che viene decisa l’acquisizione di Brindisi e l’invio, successivamente, d’una colonia.

Dei primi anni di vita della colonia il tempo ci ha lasciato solo alcuni frammenti, tra i quali significativo è quello che emerge dall’epigrafe (un elogium) trovata a Brindisi nel 195014. L’elogio fa ritenere che, sino al 230 a.C., Roma s’incaricò di nominare le magistrature della colonia, forse perché desiderava che si creasse una certa coesione tra le varie componenti, prima di consentire che le investiture fossero effettuate localmente. È questo un anno cruciale perché si accentuano le scorrerie degli Illiri e Roma nella primavera del 229 a.C. decide d’intervenire. Polibio ci narra così il primo uso del porto di Brindisi nelle spedizioni per l’Oriente ed è Postumio, uno dei due consoli di quell’anno, ad inaugurare questa lunga tradizione facendo compiere la traversata per Apollonia a ventimila fanti e duemila cavalieri («Ποστόμιος τὰς πεζικὰς διεβίβαζε δυνάμεις ἐκ τοῦ Βρεντεσίου, πεζοὺς μὲν εἰς δισμυρίους, ἱππεῖς δὲ περὶ δισχιλίους»15).

Un’immagine questa ricorrente, che ci consegna la visione ampiamente nota di Brindisi utilizzata quale base militare privilegiata per l’espansione in Oriente, ma che sottolinea al contempo un aspetto spesso taciuto: Roma nel perseguire questo suo obiettivo strategico finisce inevitabilmente per salvaguardare gli interessi mercantili di Brindisi che avrà così la possibilità di prosperare sino a diventare una delle città più rinomate del mondo romano. Si spiega in questo modo anche la fedeltà che la colonia brindisina dimostrerà immutata pure nei frangenti più difficili, come in occasione della guerra annibalica quando le comunità salentine per lo più defezionano consegnandosi al nemico («Ipsorum interim Sallentinorum ignobiles urbes ad eum defecerunt»16).

Questa convergenza di interessi esalta ancor più la situazione di vantaggio che Brindisi fruisce in quanto colonia latina e la rende del tutto impermeabile, checché

ne vogliano credere Wikipedia e taluni cronisti brindisini, a rivendicazioni volte a modificarne l’assetto giuridico. La cittadinanza romana non è un problema per i brindisini neppure per i decenni seguenti, quando in parte del mondo italico inizia invece a prender corpo proprio in concomitanza con le conquiste del ricco Oriente dei cui benefici gli italici intendono essere partecipi. Sino ad allora, interessa per lo più le zone vicine a Roma e coloro che in qualche modo intendono risiedere nell’Urbe.

Se ne intuisce un’avvisaglia in un passo di Livio in cui i delegati di ogni parte del Lazio17, ricevuti in Senato nel 187 a.C., lamentano che i loro concittadini sono emigrati a Roma e si sono fatti lì censire («legatis deinde sociorum Latini nominis, qui toto undique ex Latio frequentes convenerant, senatus datus est»18). Il che implica che, essendo divenuti cittadini romani, di fatto creano dei vuoti nelle comunità d’origine che hanno conseguentemente problemi a fornire il contingente di soldati richiesto dall’Urbe. Analoga lamentela si ripropone dieci anni dopo ed è sempre Livio a farcelo sapere19. In questo caso ci sono inviati del Lazio, Peligni e Sanniti e, quindi, esponenti di cittadine centromeridionali e non dell’estremo sud. In entrambi i casi il Senato decide l’espulsione di chi, in maniera più o meno fraudolenta, ha utilizzato lo ius migrandi per risiedere a Roma ed ottenere così la cittadinanza romana.

In ogni caso, Brindisi ed il resto del Salento non sono sfiorate da questi tentativi che, com’è evidente, coinvolgono città che, trovandosi più prossime a Roma, possono meglio sfruttare gli eventuali privilegi politici derivanti dal possesso della cittadinanza romana. Ciò non toglie però che con il passar del tempo la questione si allarghi coinvolgendo tutti gli strati sociali e le diverse regioni italiche, perché il requisito della cittadinanza inizia a dare evidenti benefici economici e fiscali ai suoi possessori e discrimina in particolar modo le città federate. Infatti dal 167 a.C., grazie al bottino ottenuto con la terza guerra macedonica, il tributum per mantenere l’esercito non è più richiesto20 e, pertanto, i cittadini romani godono dell’immunità finanziaria21 mentre i socii e le colonie di diritto latino continuano a dover sostenere le spese per l’arruolamento delle truppe che forniscono a Roma. Pur partecipando agli oneri della conquista, gli Italici non ottengono quindi i relativi vantaggi, e ciò non può che esasperarne gli animi.

Che la situazione vada via via incancrenendosi lo si può ricavare dai progetti di legge, che vengono invano messi in discussione nella seconda metà del II secolo a.C. con l’intento di risolvere la questione22, e lo ius adipiscendae civitatis per magistratum con cui si va incontro alle richieste dei notabili delle colonie latine concedendo la cittadinanza romana a chi ha ricoperto una magistratura locale23.

Ma i fatti che aggravano la protesta sono la riforma dell’esercito e la lex Licinia Mucia.

La riforma prevede che per la prima volta i capite censi (i nullatenenti) possano accedere alla carriera militare: una rivoluzione che comporta una vera e propria possibilità di avanzamento sociale ed economico per le classi più umili. Solo che tale occasione è preclusa agli Italici che, pertanto, si vedono esclusi anche da questo ulteriore beneficio.

La legge, che prende nome dai due consoli del 95 a.C., istituisce invece una commissione giudicante (quaestio) incaricata di verificare se tutti gli Italici residenti a Roma lo siano legittimamente e, in caso negativo, decidere l’espulsione ed il loro ritorno nelle città d’origine («de redigendis in suas civitates sociis»24).

Quando poi Druso, il tribuno della plebe che aveva proposto di estendere la cittadinanza romana a tutta l’Italia25ad dandam civitatem Italiae»26), viene ucciso nel 91 a.C. per impedire che il provvedimento sia votato, molte delle città federate concludono di non avere altra scelta se non quella di prendere le armi e muovere guerra a Roma.

In pratica, la cittadinanza romana, inizialmente senza attrattive e quasi vissuta dagli Italici come un limite alla propria autonomia, diviene talmente ambita da spingere all’uso dei mezzi più estremi pur di ottenerla. Inizia così la guerra sociale.

Con l’eccezione di Venusia, le colonie latine non aderiscono alla rivolta e preferiscono mantenersi fedeli all’Urbe, in parte perché la situazione dei propri abitanti è decisamente migliore rispetto a quella dei socii; in parte perché le classi dirigenti, accontentate con la concessione dello ius adipiscendae civitatis per magistratum, rappresentano un valido deterrente contro ogni possibile protesta. Brindisi pertanto si schiera con Roma, e questo è un motivo sufficiente per convincere le altre comunità salentine a fare lo stesso. Fa parte infatti delle fantasie «l’ultima grande ribellione guidata da Taranto nell’80 a.C.»27 di cui ci dà menzione Wikipedia in una delle sue schede.

ColonieLatinePerArticolo

L’esito della guerra rimase in bilico, finché, su rogatio28 del console Lucio Giulio Cesare, si decise con lex Iulia de civitate latinis (et sociis) danda del 90 a.C. di concedere la cittadinanza romana ai Latini ed agli alleati che o non avevano preso le armi o le avrebbero deposte molto presto («qui arma aut non ceperant aut deposuerant maturius»29). Come giustamente riassume Appiano: con questo atto, il senato rafforzava i legami con chi gli era rimasto fedele, guadagnava alla sua causa gli incerti e indeboliva, con la speranza d’un analogo provvedimento, coloro che avevano rotto il sodalizio ed erano scesi in guerra («καὶ τῇδε τῇ χάριτι ἡ βουλὴ τοὺς μὲν εὔνους εὐνουστέρους ἐποίησε, τοὺς δὲ ἐνδοιάζοντας ἐβεβαιώσατο, τοὺς δὲ πολεμοῦντας ἐλπίδι τινὶ τῶν ὁμοίων πραοτέρους ἐποίησεν»30).

Con le buone (altri provvedimenti simili alla lex Iulia) o con le cattive (la spietata determinazione di Silla) la rivolta fu sedata e tutte le popolazioni dell’Italia a sud della regione gallica cisalpina ottennero la cittadinanza romana.

La cittadinanza romana fu quindi in linea teorica concessa a Brindisi e alle altre comunità salentine nel ’90, però per la concreta fruizione la lex Iulia prevedeva, oltre alla clausola di non essere in guerra con Roma, quella del fundus fieri31, formula rimasta non del tutto chiarita ma che probabilmente implicava che le comunità aderissero preliminarmente alla totalità delle norme municipali o più in generale del diritto romano. Dopo l’accettazione del fundus fieri, su cui ritorneremo tra breve, c’erano un paio di passaggi burocratici da superare: il censimento e l’assegnazione ad una delle tribù romane. Quando questi adempimenti si siano effettivamente svolti rimane un mistero32: quasi insieme alla guerra sociale era scoppiata la guerra civile che vedeva coinvolti Silla da una parte e Mario – e poi Cinna – dall’altra, per cui era un periodo in cui le fazioni in lotta si alternavano al potere, facendo e disfacendo le cose in così rapida successione da rendere difficile una puntuale datazione degli avvenimenti.

Si può pero ipotizzare che il censimento, con cui s’includevano i novi cives, fu fatto con ogni probabilità nell’86 a.C. oppure l’anno successivo, mentre la distribuzione tra le tribù fu oggetto di vari provvedimenti con i quali le due fazioni in lotta tentarono di far prevalere il proprio punto di vista. Pare certo che Silla, volendo contenere il peso politico dei nuovi cittadini, li distribuì in otto, o al massimo dieci, delle trentacinque tribù esistenti33; Mario e Cinna, che invece volevano garantirne i pieni diritti, li ripartirono tra tutte le tribù. E fu questa la decisione definitiva, presa all’inizio dell’83 a.C. o, più presumibilmente, alla fine dell’anno precedente. A questo punto, la data più plausibile per l’effettivo conferimento della cittadinanza romana a Brindisi, e della sua costituzione a municipium, sembrerebbe l’83 a.C., come per le altre città salentine.

Ma c’è un altro aspetto che meriterebbe d’essere analizzato e che viene spesso trascurato, forse perché si dà per scontato ciò che non scontato non è, vale a dire che tutti, pur di ottenere la cittadinanza romana, fossero disposti a rinunciare a qualsiasi cosa. Riconsideriamo pertanto il codicillo del fundus fieri che, come già riportato, qualora non fosse stato accettato, avrebbe precluso l’accesso alla cittadinanza romana, e quindi lasciato la comunità nello stato giuridico precedente.

Per quanto letteralmente indecifrabile, la clausola non pone dubbi interpretativi sul perché le autorità romane intesero inserirla nella lex Iulia. Roma si vedeva costretta a concedere ai rivoltosi la cittadinanza romana e, naturalmente, era forzata a farlo anche con le altre città italiche che le erano rimaste fedeli. Ma tale concessione non poteva essere fatta lasciando in vita i precedenti statuti in quanto, in taluni casi, essi consentivano un’autonomia che rischiava di confliggere con il nuovo tipo di rapporto che si stava venendo ad instaurare. Dal punto di vista dell’Urbe, era evidente che la cittadinanza poteva essere concessa solo se le comunità avessero recepito, preliminarmente ed in toto, il diritto romano rinunciando così al diritto locale. In definitiva, in cambio della cittadinanza, le comunità sacrificavano l’autonomia che gli statuti precedenti avevano accordato loro e accettavano, in cambio, di essere inglobati nel territorio romano con la struttura dei municipia.

Tutto ciò era ragionevole per chi, per ottenere la cittadinanza romana, aveva preso le armi; ma lo era anche per gli alleati italici e le colonie latine che, essendosi opposti alla rivolta, avevano di fatto manifestato di preferire le condizioni giuridiche vigenti? Possibile che nessuna di queste comunità abbia espresso il desiderio di rimanere nello stato precedente al conflitto?

Spulciando bene, si scopre che le lamentele ci furono, ed anche accese. Ce ne parla Cicerone facendoci sapere che a riguardo ci fu ampia disputa a Eraclea e a Napoli, perché la gran parte della popolazione preferiva alla cittadinanza romana la libertà garantita dal trattato in precedenza stipulato («In quo magna contentio Heracliensium et Neapolitanorum fuit, cum magna pars in iis civitatibus foederis sui libertatem civitati anteferret »34). Come questa maggioranza sia poi diventata minoranza, visto che alla fine la clausola fu accettata, non è dato di sapere, sebbene sia facilmente immaginabile che Roma abbia attuato qualche fattiva azione di convincimento. Lo si presume dal successivo passo in cui Cicerone afferma che in conclusione, grazie alla forza della legge e della parola («Postremo haec vis est istius et iuris et verbi»35), anche le due città giunsero alla ratifica.

D’altra parte, Cicerone ci parla incidentalmente della questione delle due città, proprio perché rappresentavano i casi più eclatanti, il che fa ragionevolmente presupporre che non furono quelle le sole comunità che espressero qualche malumore. Verrebbe così da chiedersi: Brindisi era fra chi mugugnava? oppure si sentì privilegiata a farsi fondo ed a mutare la propria configurazione istituzionale da colonia latina a municipium?

Ragionevolmente non si può pensare che vi sia stato soverchio entusiasmo, anche perché il municipium non era certo il più desiderabile degli assetti giuridici possibili, come troppo spesso si sente argomentare36; al contrario le fonti ci offrono qualche indizio che inducono a credere che Brindisi accettò sì la soluzione ma non certo di buon grado.

Riprendendo il passo di Cicerone della scorsa puntata, quando l’oratore ci narra di aver incontrato la figlia Tulliola nel giorno in cui coincidono casualmente il compleanno della fanciulla e l’anniversario della fondazione della colonia brindisina («ibi mihi Tulliola mea fuit praesto natali suo ipso die qui casu idem natalis erat et Brundisinae coloniae»37), scopriamo infatti che nel 57 a.C., cioè a dire a distanza di quasi trent’anni dalla costituzione in municipium, il precedente stato giuridico è ancora ricordato e celebrato.

Altro indizio. Abbiamo già riportato come Silla non fosse molto ben predisposto verso i nuovi cittadini romani che, quindi, temevano che egli volesse rimettere in discussione i diritti politici già concessi da Cinna38 e cercavano coerentemente di non favorirlo. Eppure nell’83 a.C., di ritorno dall’Oriente e con l’intenzione di chiudere il conto con la parte avversa, Silla sbarca a Brindisi in tutta tranquillità. E non solo: riceve un’accoglienza talmente inaspettata che, in cambio, si sente in obbligo di gratificare la città dall’esenzione delle tasse («Δεξαμένων δ’ αὐτὸν ἀμαχεὶ τῶν Βρεντεσίων, τοῖσδε μὲν ὕστερον ἔδωκεν ἀτέλειανviene»39).

Un atteggiamento in apparenza strano in chi, aspirando alla cittadinanza, avrebbe dovuto parteggiare per la fazione opposto o, quantomeno, mostrare meno entusiasmo per Silla, ma che rientra nella normalità delle cose, se si pensa che la classe dirigente brindisina aveva tutto da perdere e nulla da guadagnare dal cambiamento istituzionale. I magistrati locali avevano già ottenuto la cittadinanza romana in forza dello ius adipiscendae civitatis per magistratum e le novità toglievano loro buona parte del potere organizzativo e, soprattutto, quello giurisdizionale che sarebbe passato ai prefetti delegati dal pretore urbano. Senza contare – e non era questione di poco conto – che si vedevamo sottratta la possibilità di battere moneta, in quanto competenza preclusa ad un municipium.

In effetti c’è motivo per ritenere che una qualche nostalgia per il passato ebbe forse modo di palesarsi e, al tempo stesso, non fu certo facile per i Brindisini metabolizzare la perdita dell’autonomia che, per quanto formale, rappresentava tuttavia un tratto distintivo della vita cittadina.

Certo è che in quel lontano 83 a.C., la colonia di diritto latino chiudeva i battenti lasciando spazio al municipium (cives optimo iure) di Brindisi ed i Brindisini diventavano cittadini romani, essendo stati iscritti nella tribù Maecia.

Più o meno nello stesso periodo assumevano la stessa configurazione tutte le città italiche, sicché il territorio a sud della Gallia Cisalpina divenne romano.

 

Note

1 P. Camassa, La romanità di Brindisi attraverso la sua storia e i suoi avanzi monumentali, Brindisi 1934, Tipografia del Commercio di Vincenzo Ragione.

2 P. Camassa, Cit., p. 6.

3 P. Camassa, Cit., p. 6.

4 Dionigi d’Alicarnasso (I secolo a.C.), Antichità romane, IX 59, 2.

5 P. Camassa, Cit., p. 6.

6 Si pensi inoltre che ancora due secoli dopo, quando ormai la zona era pacificata e romanizzata, risultarono per lo più vani i tentativi di ripopolare la Puglia per i guasti inferti da Annibale, perché considerata troppo lontana da Roma.

7 P. Camassa, Cit., p. 8.

8 P. Camassa, Cit., p. 8.

9 P. Camassa, Cit., p. 7.

10 P. Camassa, Cit., p. 8.

11 Non esistono dati sulla colonia brindisina ed è pertanto possibile solo stimarne il quantitativo in base a quelli noti per altre colonie latine dello stesso periodo. In tal senso, si ritiene che i coloni dovessero essere almeno 6.000, di cui circa 200 equites.

12 Anche in questo caso, rinvio per un maggior dettaglio allo studio sulla conquista del Salento e sull’assetto organizzativo della Brindisi romana, che spero di completare per gli inizi della primavera prossima.

13 Dione (II secolo d.C – III secolo d.C.), Storia romana., in zonara (XI secolo d.C – XII secolo d.C.), Epitome, VIII 7, 3.

14 L’epigrafe è conosciuta come l’elogio di Brindisi.

15 Polibio (III secolo a.C. – II secolo a.C.), Storie, II 11, 7.

16 Livio (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Dalla fondazione di Roma, XXV 1, 1.

17 Il passo è variamente inteso dagli storici soprattutto riguardo al fatto se riguardi i Latini in senso stretto oppure anche i socii italici.

18 Livio, Cit., XXXIX 3, 4.

19 Livio, Cit., XLI 8, 6 – 12.

20 Cicerone (II secolo a.C. – I secolo a.C.), De Officiis, II 22, 76. «Paulus tantum in aerarium pecuniae invexit, ut unius imperatoris praeda finem attulerit tributorum» (Emilio Paolo riempì così tanto l’erario di denaro che il bottino d’un solo generale fu sufficiente a porre fine alle tasse).

21 I cittadini romani erano inoltre esentati da qualsiasi imposta fondiaria sui possessi in Italia.

22 Il console M. Fulvio Flacco (125 a.C.) e successivamente Gaio Sempronio Gracco proposero invano l’estensione della cittadinanza romana alle città italiche federate ed alle colonie latine.

23 Asconio (… – II secolo d.C.), In Pisonem, a.c. clark, 1907, p. 3.

24 Asconio (… – II secolo d.C.), Pro Cornelio, a.c. clark, 1907, p. 68.

25 In quel periodo s’intendeva la parte di penisola a sud della regione gallica cisalpina.

26 Velleio Patercolo (I secolo a.C.– I secolo d.C.), Historiae Romanae, II 14, 1.

27 Consultabile a questo link https://it.wikipedia.org/wiki/Salento#Storia (18.12.2017).

28 Proposta.

29 Velleio Patercolo, Cit., II 16, 4.

30 Appiano (I secolo d.C.– II secolo d.C.), Le guerre civili, I 6, 49.

31 Letteralmente, farsi fondo, dove fondo va inteso nel senso di appezzamento di terreno.

32 Si vedano sulla questione: Velleio Patercolo, Cit., II 18, 5-6; Appiano, Cit., I 55-56; Livio, Periochae. LXXVII.

33 Si deve tener presente che ogni tribù esprimeva un solo voto e, quindi, distribuire i nuovi cittadini in un numero limitato di tribù significava ridurre il numero di voti che essi potevano esprimere.

34 Cicerone, Pro Balbo, VIII 21.

35 Cicerone, Ibid., VIII 21.

36 Ad esempio, in G. Perri, Brindisi nel contesto della storia, Edizioni Lulu.com 2016, p. 28, il Municipium è indicato come «la massima delle varie categorie previste».

37 Cicerone, Epistole ad Attico, IV 1, 4.

38 In tal senso, T. Mommsen, Storia di Roma, III, La rivoluzione sino alla morte di Silla, Anonima Edizioni Quattrini, Roma 1936, p. 385.

39 Appiano, Cit., I 9, 79.

 

Per la prima parte si rimanda qui:

Wikipedia, la cittadinanza romana e Brindisi. Ovvero come svilire la storia cittadina (prima parte)

Wikipedia, la cittadinanza romana e Brindisi. Ovvero come svilire la storia cittadina (prima parte)

di Nazareno Valente

Uno dei temi più usati dalla fantascienza è quello degli universi paralleli dove, a dirla in parole povere, due (e anche più) mondi simili coesistono senza incontrarsi mai, salvo non si riesca ad intraprendere un viaggio nel tempo che consenta il passaggio da una dimensione ad un’altra.

Sempre facendo riferimento alle antichità, puntando questa volta l’attenzione sull’assetto politico-amministrativo di Brindisi del periodo repubblicano, potremmo riscontrare che in tal caso Wikipedia e la storiografia ufficiale sono un perfetto esempio di realtà parallele che nessun buco nero potrà mai collegare.

Racconta l’enciclopedia in linea nella scheda dedicata alla mia città1: «Nel 267 a.C. Brindisi, come l’intero Salento, fu conquistata dai Romani e divenne un importantissimo scalo per la Grecia e l’Oriente, quindi venne elevata al rango di municipio nell’83 a.C. e ai brindisini fu riconosciuta la cittadinanza romana (240 a.C.)».

A parte la poca consequenzialità e l’esplicita mancata indicazione delle fonti da cui sono state ricavate le notizie, veniamo così a sapere che Brindisi, conquistata nel 267 a.C., ottiene la cittadinanza romana nel 240 a.C. e, successivamente, nell’83 a.C. diviene municipium, senza però comunicarci quale rango, per usare lo stesso termine, essa avesse avuto prima di quest’ultima data.

Le parti s’invertono nella scheda che caratterizza il Salento2. Qui apprendiamo che «Brindisi con il suo porto, intorno al 240 a.C., venne dichiarata municipio insieme a Taranto… dopo l’ultima grande ribellione guidata da Taranto nell’80 a.C. fu riconosciuta la cittadinanza romana». Quindi, municipium sin dal 240 a.C. e, solo nell’80 a.C., ottenimento della cittadinanza.

Trattando la storia del Salento3, Wikipedia riporta che «Brindisi, intorno al 240 a.C., venne elevata al rango di municipio e ai brindisini fu riconosciuta la prestigiosa cittadinanza romana», come dire che i due avvenimenti sono qui dati coincidenti.

Nella schede sul cavaliere brindisino Lucio Ramnio4 non c’è, invece, alcuna indicazione sulla struttura istituzionale assunta dalla città: molto semplicemente Brindisi, caratterizzata come «città apula», viene «prima conquistata (266 a.C.) ai Messapi» e, dopo poco, ottiene « la cittadinanza romana (240 a.C.)». E mi fermo qui per non martirizzare troppo il lettore.

Fossero avvenimenti controversi su cui gli storici si accapigliano, le diverse opinioni esposte da Wikipedia sarebbero giustificabili e rappresenterebbero, al tempo stesso, una ricchezza; il fatto che siano invece eventi del tutto scontati, la cui conoscenza è acquisibile consultando un qualsiasi testo specialistico, crea parecchio stupore e fondati dubbi sulle conoscenze di chi redige le varie schede.

Appare infatti strano che chi vuol spiegare fatti avvenuti nel III secolo a.C. non sia nemmeno a conoscenza che a quel tempo gli abitanti d’un municipium romano non potevano che essere cittadini romani oppure che la cittadinanza d’una città era conseguente alla configurazione giuridica che Roma aveva consapevolmente imposto, e non certo frutto di estemporanee decisioni.

Nelle espressioni del tipo la prestigiosa cittadinanza romana oppure elevata al rango di municipio si coglie poi una visione alquanto datata delle antichità romane, che rinvia agli stereotipi imposti nella prima metà del secolo scorso, dove la romanità era l’aspetto centrale attorno al quale ruotavano tutti gli altri elementi del mondo latino. In definitiva una riproposizione di cliché talmente consolidati che inibiscono qualsiasi tipo di riflessione, anche quella più spontanea, del tipo: ma davvero la cittadinanza romana era così prestigiosa o invidiabile come si vuol far credere?

Intanto occorrerebbe premettere che al prestigio poteva essere sensibile la ristretta cerchia dei notabili, e non certo il resto della popolazione più istintivamente portato a valutare la questione in base a parametri meno elevati e più concreti. Parlerei piuttosto di convenienza e, da questo punto di vista, sarebbe semplicistico, oltre che irrealistico, liquidare la questione con una risposta valida per tutto il tempo in cui l’Urbe fu egemone. Dipendeva pertanto dal momento e dalle situazioni contingenti, com’è naturale che fosse, e c’è un passo di Livio che lo chiarisce in maniera inequivocabile.

Siamo nel pieno svolgimento della seconda guerra punica, quando Annibale sta prendendo il sopravvento e le città Italiche sono propense ad abbandonare Roma. Durante l’assedio di Casilinum, i Prenestini, che formano il grosso del presidio, si rendono protagonisti d’un valoroso gesto di fedeltà alla causa romana, arrendendosi ai cartaginesi solo dopo aver combattuto sino allo stremo delle forze. Il senato romano per ricompensarli decreta doppio stipendio («Praenestinis militibus senatus Romanus duplex stipendium… decrevit»5) e offre loro la cittadinanza romana per le virtù dimostrate («civitate cum donarentur ob virtutem»6); i Prenestini accettano il denaro, però, rifiutano compatti l’altra offerta preferendo mantenere la propria cittadinanza («non mutaverunt»7).

Non è questo l’unico esempio in cui un popolo respinge la possibilità di ottenere la cittadinanza romana e, volendolo, ci sarebbe pure un caso in cui l’offerta è considerata persino risibile. Diodoro Siculo ci racconta infatti che un Cretese, al dono fattogli dal console della cittadinanza romana, risponde che per i Cretesi quella cittadinanza è una solenne baggianata cui essi preferiscono di gran lunga qualcosa di più utile («Πολιτεία, φησί, παρὰ Κρησὶν εὐφημούμενός ἐστι λῆρος. τοξεύομεν γὰρ ἡμεῖς ἐπὶ τὸ κέρδος»8). Vero è che i Cretesi erano famosi per la dubbia moralità e per l’attaccamento al soldo, tuttavia abbiamo a questo punto più d’un motivo per dubitare che diventare Romani fosse cosa desiderabile in assoluto.

Per altro la civitas non era slegata dalla formula organizzativa che i Romani sceglievano di adottare per la città sottomessa. Semplificando il più possibile9, vediamo i possibili regimi giuridici che venivano attuati nel periodo in cui, come racconta Eutropio, fu fatta guerra ai Salentini ed i Brindisini furono conquistati («Sallentinis in Apulia bellum indictum est, captique sunt cum civitate simul Brundisini»10).

Il sistema più utilizzato era quello federativo che derivava da specifico accordo (foedus) stipulato con la comunità sconfitta. Nel 267 a.C., data più probabile per la presa del Salento, erano sempre più rari i foedera aequa, dove le parti si ponevano in una posizione di formale parità, mentre più comuni erano i foedera iniqua, con cui Roma imponeva un limite alla sovranità delle città conquistate, che divenivano alleate dell’Urbe ma in condizione subordinata. In pratica gli alleati (socii) rinunciavano a svolgere una propria politica estera (ius belli ac pacis) rimettendosi così del tutto alle decisioni prese in merito dai Romani (servare maiestatem populi Romani). Chi era amico o nemico di Roma lo diventava di conseguenza anche dei socii (pure chiamati foederati) che avevano l’obbligo di assistere Roma in qualsiasi attività militare questa intendesse avviare fornendo un contingente di truppe prefissato, che operava nei reparti ausiliari dell’esercito romano.

Il foedus però consentiva alle comunità di conservare la propria cittadinanza, le proprie leggi ed i propri ordinamenti, oltre ad una estesa autonomia di carattere amministrativo-finanziario, essendo loro concessa l’autorità di battere moneta.

 

Dal canto suo, il municipium era in origine una città privata dell’autonomia politica e soggetta ad oneri, come si evince dal termine stesso che riflette la condizione di dover sopportare (capere) obblighi (munera), e rappresentava il sistema organizzativo con cui di solito Roma annetteva un territorio conquistato. Sino alla guerra sociale, i municipia non erano organizzati in maniera uniforme in quanto fruivano di condizioni giuridiche diverse e del tutto conseguenti al modo con cui l’annessione era avvenuta.

I popoli sconfitti, che si riteneva utile incorporare nello Stato romano, erano organizzati in municipia sine suffragio et iure honorem e, pertanto, pur godendo della cittadinanza romana, erano limitati nei principali diritti politici, non avendo titolo a votare e ad aspirare alle cariche politiche. Le comunità, la cui annessione era avvenuta (se così si può dire) in maniera pacifica, erano invece dotate della cittadinanza piena (cives optimo iure) e quindi in possesso dei medesimi diritti di un qualsiasi altro cittadino romano. In ogni caso, i municipes erano tutti dotati di cittadinanza romana.

C’era una certa dinamicità nelle configurazioni dei municipia per cui, con il passare del tempo, quelli sine suffragio potevano divenire optimo iure, così come, a seguito di ribellione, essere degradati in stato di soggezione pari a quella dei provinciali.

Il municipium era generalmente soggetto al tributo e, in ogni caso, doveva fornire proprie truppe all’esercito romano; nel contempo, fruiva di un’ampia autonomia amministrativa.

Oltre che con gli accordi (foedera) e con le annessioni (municipia), i Romani controllavano il territorio conquistato con le coloniae che avevano funzioni in prevalenza militari ma che erano anche un modo per diffondere la romanità.

Le colonie erano di due tipi, quelle romane (coloniae civium romanorum), dove chi vi partecipava come colono conservava la cittadinanza romana, e quelle di diritto latino (coloniae latinae), dove i cittadini romani che vi partecipavano dovevano espressamente richiedere di diventare latini e registrarvi il proprio nome («qui cives Romani in colonias Latinas proficiscebantur fieri non poterant Latini, nisi erant auctores facti nomenque dederant»11) perdendo così la cittadinanza romana.

Le colonie romane erano dedotte con lo scopo principale di creare dei presidi sulle coste prossime al territorio romano; quelle latine per controllare i punti di maggiore rilevanza strategica in zone da poco conquistate e magari ancora non del tutto pacificate. Le diversità si riflettevano nei rispettivi assetti: i coloni romani, facendo parte d’un presidio cittadino, non potevano allontanarsi dalla colonia, se non per periodi limitati, non erano soggetti alla leva, non potevano emettere moneta ed avevano un’organizzazione istituzionale che si rifaceva a quella dell’Urbe; i coloni latini avevano, al pari dei socii Italici, l’obbligo di fornire un contingente militare quando Roma lo richiedeva, secondo l’elenco dei togati (formula togatorum12), vale a dire degli uomini in età militare, e di non stipulare accordi con altre città, ma, a parte questi limiti, avevano un’ampia autonomia interna che consentiva loro anche l’attività giurisdizionale, oltre all’adozione d’un proprio statuto, di propri organi ed alla possibilità di battere moneta.

Il diritto latino consentiva inoltre di contrarre iustae nuptiae con i cittadini romani (ius connubii13) e di commerciare con essi (ius commercii14); probabilmente di acquisire la cittadinanza romana previo trasferimento a Roma (ius migrandi15); di votare, se ci si trovava in quel momento a Roma, con la tribù che veniva di volta in volta sorteggiata («sitellaque lata est ut sortirentur ubi Latini suffragium ferrent»16). Non consentiva invece, almeno in quel periodo, lo ius honorum, vale a dire la possibilità di concorrere per le magistrature romane.

Nella scelta i Romani salvaguardavano i propri interessi ma tendevano anche a non deprimere le popolazioni conquistate. Per questo seguivano anche un criterio logistico e, di conseguenza, non adottavano il sistema del municipium per città lontane dal territorio romano in quanto, a causa della lontananza, non avrebbero potuto attuare un concreto controllo sulla città annessa e, nel contempo, non avrebbero consentito alla popolazione una effettiva fruizione dei diritti.

Si pensi, ad esempio, ai Brindisini. Fossero stati inseriti in un municipium, avrebbero dovuto affrontare ogni cinque anni un viaggio di circa quattro settimane, solo per il censimento, cui erano tenuti a partecipare i cittadini romani, che veniva svolto a Roma. E lo stesso tempo ci avrebbero messo per esercitare l’eventuale diritto al voto, perché tanto durava allora andare avanti e in dietro da Brindisi a Roma.

La cittadinanza sarà stata pure prestigiosa; il rango municipale il non plus ultra ma, agli effetti pratici, in quel periodo, avrebbe comportato notevole disagio e quasi nessun beneficio.

LaffiColonozzazione

Con tutti gli indubbi problemi iniziali che la deduzione a colonia latina comportava sia per l’elemento romano, per la rinuncia alla cittadinanza romana, sia per l’elemento indigeno, per la preliminare ristrutturazione della città che comportava una ridefinizione delle proprietà, essa rappresentava in ogni caso la soluzioni con le migliori prospettive future. In tal senso, sintomatico è il caso capitato agli abitanti di Anzio una settantina di anni prima.

In un passo non del tutto chiaro17, Livio ci fa infatti intendere che Anzio, colonia latina, viene punita per la sua condotta ribelle con la perdita del diritto latino e con la confisca del territorio che viene rifondato come colonia romana («Et Antium nova colonia missa») a cui gli Anziati, se lo vogliono, possono comunque iscriversi come coloni («ut Antiatibus permitteretur, si et ipsi adscribi coloni vellent»). Al resto della popolazione anziate viene invece vietato il mare e concessa la cittadinanza («interdictumque mari Antiati populo est et civitas data»).

Di là del fatto che Livio si riferisca ad una colonia d’un periodo anteriore allo scioglimento della lega latina (le cosiddette priscae latinae coloniae), e quindi con un assetto giuridico diverso da quelle che qui trattiamo, quel che emerge è che la concessione della cittadinanza non fosse poi tanto da considerarsi in assoluto un privilegio. E, ciò che più importa, che la condizione giuridica di colonia latina fosse, tra quelle che Roma imponeva ad un popolo vinto, la preferibile.

D’altra parte le scelte dei Romani erano improntate al più ferreo pragmatismo: Brindisi aveva un porto che rappresentava la chiave di volta per ogni possibile rapporto con il mondo orientale e, in senso regionale, poteva costituire il giusto contrappeso a Taranto, città di cui l’Urbe per secoli non si sarebbe mai fidata. Per questo c’era tutto l’interesse a valorizzarla riconoscendole la posizione istituzionale che la rendeva la più autonoma possibile.

Nel 247 a.C. fu formalmente decisa la deduzione a Brindisi d’una colonia di diritto latino e nel 244 a.C., completatasi la centuriazione prevista, la città celebrò la sua nuova nascita.

“Il 5 agosto giunsi a Brindisi” («Brundisium veni Nonis Sextilibus»), scrive Cicerone18 ad Attico; lì l’attendeva la figlia Tulliola, nel giorno stesso del suo compleanno che coincideva con la ricorrenza della fondazione della colonia di Brindisi («ibi mihi Tulliola mea fuit praesto natali suo ipso die qui casu idem natalis erat et Brundisinae coloniae»). Per cui il 5 agosto 244 a.C.19 fu fondata la colonia latina di Brindisi, i cui abitanti erano cittadini brindisini di diritto latino. E non cittadini romani. Le altre città salentine stipularono invece un foedus e, quindi, furono federate con l’Urbe.

Che Brindisi sia stata colonia latina, e che tale struttura sia rimasta in vigore almeno sino alla lex Iulia de civitate latinis (et sociis) danda del 90 a.C., è un fatto innegabile che trova d’accordo tutti gli storici. È pertanto del tutto scontato che Wikipedia commetta un errore nell’anticipare al 240 a.C.20 l’ottenimento della cittadinanza romano e/o la costituzione di Brindisi a municipium, forse condizionata dalle ipotesi formulate in merito dalla gran parte dei cronisti brindisini, i quali, a loro volta, tendono ad oscurare il passato coloniale della città oppure, nel migliore dei casi, ad annacquarlo con la civitas romana.

Sembrerà strano ma questa linea di pensiero — forse inaugurata dal canonico Camassa che, come meglio vedremo la prossima volta, almeno aveva qualche convenienza a spacciarla per vera — trova tuttora istintive adesioni. Ad esempio, A.M. Caputo anticipa addirittura al 276 a.C. — ma forse intende 267 a.C. — il momento in cui i Romani «elevarono Brindisi alla dignità di Municipio, riconoscendole tutti i diritti della cittadinanza romana»21; G. Perri la retrodata al 244 a.C. quando vi fu dedotta «una colonia romana di diritto latino»22, vale a dire proponendo una forma giuridica mista (al tempo stesso romana e latina) mai adottata da Roma che fondava, invece, o colonie romane o colonie latine, perché il diritto di riferimento, e conseguentemente la cittadinanza, non poteva che essere unico. Non a caso i Romani per diventare coloni latini dovevano rinunciare alla loro cittadinanza originaria.

La conclusione amara, e per certi versi ridicola, è che la configurazione che i cronisti brindisini per lo più stentano ad accettare è appunto quella alla base della notorietà della Brindisi antica: la nominale autonomia, di cui beneficiò in virtù d’essere una colonia latina, le consentì di mantenere una propria identità e di non rimanere appiattita nel gruppo anonimo dei municipia.

Wikipedia da parte sua non sa neppure di questo passato illustre, tanto è vero che nella scheda in cui mescola le colonie romane con quelle latine, trattandole come se facessero parte d’un mondo ibernato per secoli23, Brindisi non compare nemmeno.

Il mondo romano era invece sufficientemente dinamico ed anche i significati ed i valori s’andavano modificando con il tempo. La stessa cittadinanza romana, che, come riportato, un Cretese aveva ritenuto una baggianata, divenne con il passar degli anni sempre più apprezzabile, tanto da scatenare una sanguinosa guerra che avrebbe comportato il totale riassetto delle città italiche.

Una riorganizzazione che, come scopriremo nella prossima puntata, coinvolse pure Brindisi.

Secondo me, senza che lo desiderasse troppo.

 

 

Note

1 Consultabile al link https://it.wikipedia.org/wiki/Brindisi#Il_periodo_romano (17.12.2017).

2 Consultabile a questo link https://it.wikipedia.org/wiki/Salento#Storia (17.12.2017).

3 Link https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_del_Salento#Il_periodo_romano (17.12.2017).

4 Consultabile al link https://it.wikipedia.org/wiki/Lucio_Ramnio (17.12.2017).

5 livio (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Dalla fondazione di Roma, XXIII 20, 2.

6 Livio, Cit., XXIII 20, 2.

7 Livio, Cit., XXIII 20, 2.

8 Diodoro Siculo (I secolo a.C.), Biblioteca Storica, XXXVII 18.

9 Per gli inizi della primavera prossima, spero di poter completare un lavoro di più ampio respiro sulla conquista del Salento e sull’assetto organizzativo della Brindisi romana.

10 Eutropio (IV secolo d.C.), Breviarium ab urbe condita, II 17.

11 Cicerone (II secolo a.C. – I secolo a.C.), De domo sua, 77.

12 Nella lex agraria epigrafica del 111 a.C. figura l’antica locuzione «socii nominisve latini, quibus milites ex formula togatorum inperare solent» (gli alleati ossia il nome latino, ai quali [i Romani] comandano di fornire i soldati sulla base della formula dei togati).

13 La prole godeva quindi dei diritti civili.

14 Si poteva così ricorrere al pretore, o ad un suo delegato, per tutelare i propri atti negoziali.

15 Occorreva però lasciarvi un figlio, per non depauperare la colonia.

16 Livio, Cit., XXV 3, 16.

17 Livio, Cit., VIII 14, 8.

18 Cicerone, Epistole ad Attico, IV 1, 4.

19 Oppure 245 a.C.

20 Resta invece un mistero da dove si sia potuta ricavare la data del 240 a.C. che ricorre puntuale nelle varie schede.

21 A.M. Caputo, Presentazione, in G. Perri, Brindisi “raccontata”, Lulu.com 2015, p. 8.

22 G. Perri, Brindisi nel contesto della storia, Edizioni Lulu.com 2016, p. 24.

23 Consultabile al link https://it.wikipedia.org/wiki/Colonia_romana (17.12.2017).

 

Scripta volant, verba manent. Wikipedia, Valerio Levino e Brindisi

 di Nazareno Valente

 Sino all’adozione del telecomando, l’uso del pollice della mano era limitato a poche funzioni di base, prevalente quella di aiutare le altre dita a prendere qualcosa. Da allora s’incominciò a destinarlo allo zapping e, visto che dava buone prove di sé, lo si adoperò in maniera più massiccia per la compilazione e la trasmissione degli sms, con risultati che rasentano la maestria quando si tratta di giovani utilizzatori. Le nuove tecnologie, in definitiva, impongono pure dei mutamenti nell’impiego dei diversi muscoli, oltre che di mentalità, di abitudini e di modi di pensare.

Di pari passo anche l’approccio alle conoscenze si sta modificando: credo lo si debba ad una informazione sempre più rapida e diffusa, che porta all’istante sulla scena degli avvenimenti, e dalla memoria sempre più corta, che brucia tutto in pochi attimi senza consentire, a momenti, neppure il tempo d’accorgersi di cosa sia effettivamente successo.

In questo clima anche i detti popolari vanno modificandosi.

Le parole, sinonimo un tempo di evanescenza perché volavano via con il vento, adesso, memorizzate nei filmati e riproposte in maniera ossessiva, stanno diventando indistruttibili. Al contrario lo scritto, veicolo in passato pressoché unico di conservazione, appare sempre più inconsistente e volatile, essendo oggetto di modifiche, rielaborazioni e cancellazioni.

È quanto di solito avviene in Internet, soprattutto in quella fonte di apprendimento veloce qual è Wikipedia, che ormai costituisce l’enciclopedia di più diffuso accesso, dove con tagli, variazioni e rimozioni sembra si scontrino le diverse correnti di pensiero desiderose di imporre il proprio punto di vista. Almeno questo si evince dall’approfondita ricerca del professor Massimo Marchiori, i cui risultati possono essere consultati sul suo sito Negapedia.org. Di là dalle faide, ciò che se ne può ricavare è, a mio avviso, l’aleatorietà della cosiddetta enciclopedia libera, troppo condizionata da chi è l’anonimo compilatore di turno

Non è per altro questo l’unico tema che spingerebbe ad essere cauti nell’utilizzo d’uno strumento che, riassumendo in sé certo tutti i pregi della rete ma, nel contempo, pure tutti i suoi peggiori difetti, meriterebbe un approccio critico e non di accettazione incondizionata, come spesso avviene. Per accreditare in un qualche modo queste mie perplessità, affronterò la questione limitando l’esame ad un argomento d’interesse comune – le antichità del nostro Salento – per il quale fornirò esempi di imprecisioni, di informazioni distorte e, addirittura, di vere e proprie bufale (o, dette con linguaggio moderno, fake news) che, per evitare giudizi frettolosi, verranno distribuiti in più interventi.

In questo primo incontro esamineremo la scheda dedicata da Wikipedia a Marco Valerio Levino1, un personaggio storico talmente legato alla colonia latina di Brindisi da meritare la dedica di una via cittadina.

In generale essa appare formalmente ben costruita, in quanto fornisce per tutti gli avvenimenti – elencati però senza curare i necessari collegamenti – gli appropriati riferimenti alle fonti letterarie antiche. Le carenze non riguardano però i fatti, quanto i contesti in cui essi vengono situati.

Siamo negli anni in cui Annibale ha invaso l’Italia ed ha inferto dure sconfitte ai romani. Una soprattutto, quella di Canne (216 a.C.), ha fatto vacillare l’Urbe la cui disfatta per alcuni mesi è sembrata prossima. Passato il primo momento di sconcerto, Roma si sta riorganizzando, ed è proprio qui che Valerio Levino entra in scena.

L’autore della scheda ce lo presenta come «un politico e generale romano», il che è vero però, forse, meritevole della precisazione che in quel periodo le due carriere non erano distinte, com’è attualmente, ma al contrario un tutt’uno. Chi voleva infatti aspirare alle cariche pubbliche, doveva prima fare un determinato numero di campagne militari o di anni di servizio militare, e chi accedeva alle più alte magistrature diveniva di conseguenza titolare anche dell’imperium militiae, vale a dire del comando supremo dell’esercito in tempo di guerra. Di fatto, se non si faceva politica, non si poteva diventare generali; se si era generali, lo si era perché contestualmente statisti di alto rango. Basta scorrere le diverse schede di Wikipedia stessa riguardanti i principali personaggi romani dell’epoca per ricavare che praticamente tutti, avendo rivestito le magistrature maggiori, erano al tempo stesso politici e capi militari.

Ritroviamo poi che Levino «era praetor peregrinorum (si occupava, cioè, degli affari riguardanti gli stranieri presenti a Roma)» e, detto in questo modo, sembra che il pretore peregrino fosse una specie di dottore commercialista che aiutava gli stranieri nei loro affari a Roma. Nulla di tutto ciò.

Occorre premettere che la pretura, istituita nel 367 a.C., era una magistratura a cui venne principalmente affidato il potere, che i romani denominavano iurisdictio, con cui dirimere i contenzioni che sorgevano tra cittadini romani Il pretore, chiamato urbanus perché amministrava la giustizia a Roma, aveva infatti l’incarico, quando si verificava una lite, di appurare che la pretesa del denunciante meritasse tutela giuridica, di individuare conseguentemente il principio di diritto applicabile alla specifica controversia (ius dicere2) ed infine, al termine di questa fase (in iure), di nominare con il consenso delle parti un giudice (iudicem dicebat). Il giudice, che era un privato cittadino, verificava a questo punto i fatti dichiarati dalle parti, raccoglieva le prove e pronunciava la sentenza sulla base dei termini giuridici fissati dal pretore.

In seguito, divenuta Roma una città in cui confluivano genti di diversa nazionalità e non essendo quell’unico pretore più sufficiente ad occuparsi di tutte le vertenze («non sufficiente eo praetore»3), fu creato nel 242 a.C. un altro pretore, chiamato peregrino per il fatto che amministrava per lo più il diritto tra gli stranieri («creatus est et alius praetor, qui peregrinus appellatus est ab eo, quod plerumque inter peregrinos ius dicebat»4). Dal pronome indefinito utilizzato (plerumque), discende che il pretore peregrino, oltre ad impostare i termini delle controversie tra stranieri (inter peregrinos), amministrava anche quelli tra stranieri e cittadini romani (inter peregrinos et cives), vale a dire, in definitiva, quelli in cui fosse coinvolto almeno uno straniero. Non gli era in aggiunta neppure preclusa la competenza sui contenziosi tra romani (inter cives) e, quindi, agiva in analogia e con gli stessi poteri del pretore urbano.

L’istituzione di questa carica conseguì anche dal fatto che al diritto romano era estraneo il principio della territorialità della legge, per cui non poteva applicarsi agli stranieri l’ordinamento riservato ai romani (ius civile) e, di conseguenza, dovevano elaborarsi norme specifiche5 per risolvere eventuali conflitti sorti con i peregrini basandosi per lo più sul complesso delle norme giuridiche comuni a tutti i popoli (ius gentium). Tranne questa possibilità concessa al pretore peregrino di avvalersi di una procedura più snella – che con il passare del tempo finì per essere sostanzialmente adottata anche dal pretore urbano – non c’era altra differenza sostanziale, tant’è che era il sorteggio a stabilire quale dei pretori eletti dovesse esercitare il potere di “esporre il diritto” inter cives e chi inter peregrinos et cives.

Qualche anno dopo, nel 227 a.C., si decise di creare due nuovi pretori con il compito di governare le due prime province istituite, vale a dire la Sicilia e la Sardegna. Ai tempi di Levino venivano pertanto eletti quattro pretori che per il 215 a.C. furono appunto il nostro Marco Valerio Levino, Appio Claudio Pulcro, Quinto Fulvio Flacco e Quinto Mucio Scevola («praetores inde creati M. Valerius Laevinus iterum, Ap. Claudius Pulcher, Q. Fulvius Flaccus, Q. Mucius Scaevola»6). Alle idi di marzo, quando essi entrarono in carica, a Valerio Levino toccò in sorte la giurisdizione peregrina; a Fulvio Flacco quella urbana; a Claudio Pulcro andò la pretura della Sicilia e a Mucio Scevola quella della Sardegna («Praetores Q. Fulvius Flaccus… urbanam, M. Valerius Laevinus peregrinam sortem in iuris dictione habuit; Ap. Claudius Pulcher Siciliam, Q. Mucius Scaevola Sardiniam sortiti sunt»7).

Ma in quel particolare momento risultava preminente contrastare lo strapotere cartaginese nella penisola e, quindi, impiegare le principali risorse nella guerra in atto. Levino non poté così esercitare la pretura peregrina perché destinato in Apulia per presidiarla con milizie provenienti dalla Sicilia («Valerium praetorem in Apuliam ire placuit… cum ex Sicilia legiones venissent, iis potissimum uti ad regionis eius presidium… »8)

Anche Wikipedia annota l’utilizzo di Levino in attività militari motivandolo con il «periodo di grande crisi per la Repubblica» e facendoci però in aggiunta sapere che «tutti i magistrati civili ricevettero comandi militari». Quest’ultima affermazione denota indubbie lacune nelle conoscenze dell’impianto costituzionale romano ed è alquanto sorprendente.

A rigor di termini, la pretura non può infatti dirsi una magistratura civile – e basterebbe considerare i pretori, mandati, come già riportato, a governare le province ed a guidare le legioni lì destinate, per rendersene conto. Il pretore aveva sì, come nei casi di quello urbano e peregrino, prevalenti funzioni giusdicenti ma risultava anche collega, benché dotato di minore autorità, dei consoli (conlega minor) e, di conseguenza, quando costoro erano lontani da Roma, era incaricato della loro sostituzione (imperium domi). In aggiunta era anche titolare dell’imperium militiae e quindi legittimato a comandare l’esercito ed ad assumere tutte le competenze derivanti da questo potere.

Il coinvolgimento nelle attività militare rientrava in conclusione nelle specifiche prerogative della carica, e non era certo conseguente ad un fatto estemporaneo come la semplicistica conclusione a cui perviene l’enciclopedia libera lascerebbe far credere. Sintomatico in tal senso il passo di Livio che, nel narrare il fatto, afferma che neppure ai pretori eletti per esporre il diritto fu concessa l’esenzione del governo militare («ne praetoribus quidem qui ad ius dicendum creati erant vacatio a belli administratione data est»9). Chiarendo così in maniera inequivocabile che alla carica spettavano compiti di carattere militare, dai quali i pretori urbano e peregrino erano comunemente esentati.

Se poi, per semplificare, dovessimo considerare i pretori magistrati civili, dovremmo ritenere tali anche le altre magistrature dell’ordinamento romano, e, da quel tutti usato nella scheda, finiremmo per desumere che anche agli edili ed ai questori sia stato assegnato il comando militare. Cosa che, neppure in quel particolare frangente, è avvenuta.

Gli equivoci sulla figura del pretore peregrino si ampliano analizzando la scheda specifica che Wikipedia pubblica per il pretore romano. In questa10 è infatti possibile leggere che il pretore peregrino si occupava «di amministrare la giustizia nelle campagne». Come dire peregrinus contrapposto ad urbanus e, quindi, se questi stava in città, quello errava nelle campagne.

A parte il fatto che non si capisce perché il pretore peregrino dovesse amministrare la giustizia nelle campagne, quando la gran parte (se non la quasi totalità) degli affari svolti anche dagli stranieri avveniva nell’Urbe, questa visione sembra cozzare con le fonti che non hanno mai indicato differenze sui luoghi in cui i pretori svolgevano le loro funzioni. Al contrario, il pretore urbano e quello peregrino amministravano la giustizia a Roma. Lo riferisce a chiare lettere Livio quando ci riporta che i pretori stabilirono vicino alla pubblica piscina il luogo in cui fissare i tribunali dove, per quell’anno, avrebbero detto il dirittoPraetores quorum iuris dictio erat tribunalia ad Piscinam publicam posuerunt… ibique eo anno ius dictum est»11).

Come in altri casi analoghi, questa versione, proposta da Wikipedia sui presunti luoghi di campagna in cui il pretore peregrino amministrava la giustizia, riecheggia un’ipotesi superata, rinvenuta magari in uno dei tanti vecchi testi la cui copia digitale è disponibile in rete. Ed è un chiaro sintomo di come, con un copia e incolla acritico, si finisca per riportare in vita teorie poco attendibili che il mondo scientifico ha ormai abbandonato da tempo12.

Tornando al nostro Levino, Livio ci fa sapere che gli furono affidate anche 25 navi con le quali pattugliare il litorale tra Brindisi e Taranto («et viginti quinque naves datae quibus oram maritimam inter Brundisium ac Tarentum tutari posset»13. Infatti, temendo colpi di mano da parte di Filippo V di Macedonia che nel frattempo s’era alleato con Annibale, il console Tiberio Sempronio Gracco lo aveva mandato a Brindisi per difendere la costa salentina («Brundisium… misit tuerique oram agri Sallentini»14).

L’anno successivo, nel 214 a.C., Levino non poteva essere nuovamente eletto pretore tuttavia, poiché il suo apporto era necessario, gli fu prorogato l’imperium militiae. Era questa una procedura adottata per consentire a chi aveva incarichi militari di portare a termine le azioni belliche che superavano il limite annuale della carica. In questi casi, l’ordinamento romano prevedeva infatti la possibilità di ricorrere alle promagistrature con cui si prorogavano le funzioni militari ai magistrati in scadenza15. E quindi Levino, pur non rivestendo più la carica di magistrato, poté, in forza della prorogatio imperii, continuare le operazioni militari come propretore16.

In quell’anno talmente difficile per Roma la proroga riguardò tutti quelli che guidavano reparti militari, i quali rimasero così nelle rispettive zone d’influenza («Prorogatum deinde imperium omnibus qui ad exercitus erant iussique in provinciis manere»17). Lo stesso capitò a Levino che si vide rinnovato il comando della flotta di stanza a Brindisi, sempre con l’incarico di vigilare su ogni manovra del re macedone Filippo («M. Valerius ad Brundisium orae maritimae, intentus adversus omnes motus Philippi Macedonum regis»18).

Levino diventò quindi di casa a Brindisi19 al punto da eccitare le fantasie dei più noti cronisti brindisini che confezionarono una vicenda epica di cui non si ha alcun riscontro nelle fonti narrative antiche.

Iniziò Giovanni Maria Moricino20 e, naturalmente, gli andò dietro Andrea Della Monaca21 che, com’è noto, ricopiò quasi fedelmente il suo manoscritto. Anche il canonico Pasquale Camassa (figura n. 1) — per il quale, serve ricordarlo, noi brindisini nutriamo una più che giustificata riconoscenza per quanto egli ha fatto per preservare dalla distruzione più d’un nostro monumento storico e per lo sviluppo culturale della nostra città — riprese, sia pure in maniera più succinta, lo stesso racconto. Papa Pascalinu, come affettuosamente viene ricordato in città, nutriva un amore incondizionato per Brindisi, e ciò lo portava già di per sé ad abbellire la ricca storia cittadina con qualche piccola creazione. Qui usò anche la fantasia altrui riportando l’episodio nel suo libro sulla storia di Brindisi22, il cui intento di sfruttare nel migliore dei modi la fortuna di cui godevano in quel particolare periodo le passate glorie dell’impero romano è del tutto evidente sin dal titolo e dal riferimento contenuto sulla copertina (figura n. 2).

velente

Nel caso specifico il tutto prendeva spunto da un passo di Livio.

Lo storico patavino narra di come Annibale, sulla scia dei successi ottenuti, tenti di attirare nella propria orbita le città salentine. Quando non riesce a farlo con le blandizie o con la forza, lo stratega cartaginese utilizza sotterfugi contando sulla eventuale presenza di quinte colonne nelle comunità. L’espediente gli riesce, ma non del tutto, a Taranto dove, grazie all’aiuto di tredici cospiratori quasi tutti giovani nobili («tredecim fere nobiles iuvenes Tarentini coniuraverunt»23), prende la città, senza però essere in grado di espugnare la rocca, in cui si trincerano i resti del presidio romano ed i tarantini rimasti a loro fedeli. Per questo ripiega su Brindisi sperando di poterla avere per tradimento («ad Brundisium flexit iter, prodi id oppidum ratus»24).

Qui s’inserisce papa Pascalinu per narrare che il propretore Valerio Levino, saputo dell’approssimarsi dell’esercito punico, «raccolti i cittadini a parlamento, ricordò ad essi il grande valore, di cui diedero saggio nella sfortunata giornata di Canne»25 e, tanto per rincarare la dose, anche «l’intrepido coraggio dei brindisini sopravvissuti a quell’orrenda carneficina»26. Rincuorò i timorosi, caso mai ve ne fossero stati, e ricordò che Brindisi, diversamente da Taranto, «si era sempre e costantemente serbata fedele a Roma»27 tanto che «alcuni dei suoi concittadini erano stati dalla Repubblica chiamati ad alte ed onorifiche cariche e magistrature»28. Naturalmente le parole di Levino non potevano che fare breccia nei saldi cuori dei brindisini i quali si prepararono alla difesa con simile ardore che Annibale «desisté dall’impresa»29.

Nella realtà, Brindisi non aveva nessuna necessità di essere stimolata a resistere, vivendo una situazione completamente diversa da quella della città ionica. La politica romana ne favoriva in tutti i modi il porto, il che incrementava in maniera considerevole le attività economiche facendola divenire ricca e rinomata. La condizione di colonia latina le consentiva inoltre di fruire, oltre alla più ampia autonomia interna, anche dei privilegi che il diritto latino comportava. Alla fin fine, i Brindisini avevano tutto l’interesse a stare con l’Urbe lasciando cadere ogni tentativo di Annibale che, peraltro, era uno stratega troppo navigato per sperare, anche lontanamente, di poterla prendere con la forza. Si può pertanto ritenere che i Romani contassero sulla fedeltà di Brindisi, mentre dei Tarantini diffidavano, sospettando da tempo che potessero ribellarsi da un momento all’altro («Cum Tarentinorum defectio iam diu… in suspicione Romanis esset»30).

Significativo infine che la manovra cartaginese per impossessarsi di Brindisi venga liquidata da Livio con poche ed essenziali parole: anche qui Annibale sprecò tempo inutilmente («Ibi quoque cum frustra tereret tempus»31). Lo storico patavino non fa invece alcun cenno all’accorato discorso fatto da Levino, per il semplice motivo che questi si trovava da tutt’altra parte, ed in tutt’altre faccende affaccendato. Annibale decide appunto di ripiegare su Brindisi, subito dopo la battaglia di Herdonea. Siamo di conseguenza nel 212 a.C., allorquando Valerio Levino, propretore in Grecia («imperium… Graecia M. Valerio»32), è già da tempo lontano da Brindisi e di fatto impossibilitato a pungolare lo spirito guerriero dei brindisini.

Come dire che ci troviamo di fronte ad una vera e propria fake news da cui anche i compilatori di Wikipedia, non tenendone conto, hanno preso giustamente le distanze.

Ma ci sono occasioni in cui le bufale storiche non risparmiano neppure l’enciclopedia più letta al mondo. Come vedremo nella prossima puntata.

 

Note

1 Consultabile a questo link https://it.wikipedia.org/wiki/Marco_Valerio_Levino (13.11.2017).

2 Dire il diritto nel senso di esporre (o mostrare) il diritto.

3 Pomponio (… – II secolo d.C.), in Digesti o Pandette dell’imperatore Giustiniano, D.I.2.2.28.

4 Pomponio, Cit., D.I.2.2.28.

5 Il complesso di norme introdotte a seguito di questa attività del pretore peregrino composero lo ius honorarium.

6 Livio (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Dalla fondazione di Roma, XXIII 24, 4.

7 Livio, Cit., XXIII 30, 18.

8 Livio, Cit., XXIII 32, 16.

9 Livio, Cit., XXIII 32, 15.

10 Consultabile a questo link https://it.wikipedia.org/wiki/Pretore_(storia_romana) (13.11.2017).

11Livio, Cit., XXIII 32, 4.

12 Sembrerà strano ma anche la più fantasiosa teoria trova i suoi adepti, a volte del tutto insospettabili.

13 Livio, Cit., XXIII 32, 17.

14 Livio, Cit., XXIII 48, 3.

15 Il ricorso alle promagistrature (propretore e proconsole) iniziò ad essere imponente proprio in occasione della seconda guerra punica; dal secolo successivo la prorogatio imperii fu utilizzata soprattutto per la prosecuzione di azioni militari nelle province. Ai tempi di Silla, quando il consolato e la pretura mantennero solo l’imperium domi, divenendo di fatto magistrature esclusivamente urbane, solo i promagistrati potevano essere a capo delle milizie e governare le province.

16 Il prefisso pro ritengo sia da intendersi nel senso di “a titolo di” o “in qualità di” e non in quello che comunemente diamo in lingua italiano di “al posto di” o “in sostituzione di”.

17Livio, Cit., XXIV 10, 3.

18 Livio, Cit., XXIII 10, 4.

19 Citata più volte da Livio come centro d’azione della flotta guidata dal propretore Levino (livio, Cit., XXIV11,3 e livio, Cit., XXIV 20, 12).

20 G. M. Moricino, Dell’Antichiquità e vicissitudine della Città di Brindisi. Opera di Giovanni Maria Moricino filosofo, e medico dell’istessa città. Descritta dalla di lei origine sino all’anno 1604, Brindisi, Biblioteca pubblica arcivescovile A. De Leo, Manoscritti, ms_D/12, 1760-1761, 104r/107r.

21 A. della Monaca, Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi, Lecce 1674, Pietro Micheli, pp. 199/206.

22 P. Camassa, La romanità di Brindisi attraverso la sua storia e i suoi avanzi monumentali, Brindisi 1934, Tipografia del Commercio di Vincenzo Ragione.

23 Livio, Cit., XXV 8, 3.

24 Livio, Cit., XXV 22, 14.

25 P. Camassa, Cit., p. 24.

26 P. Camassa, Cit., p. 24.

27 P. Camassa, Cit., p. 25.

28 P. Camassa, Cit., p. 25.

29 P. Camassa, Cit., p. 25.

30 Livio, Cit., XXV 7, 10.

31 Livio, Cit., XXV 22, 15.

32 Livio, Cit., XXV 3, 6.

 

L’assedio di Brindisi: uno scontro mancato (seconda parte)

L'assedio di Brindisi_Figura 2

di Nazareno Valente

1.2 Iacta alea esto: Cesare varca il Rubicone (anno 49 a.C.)

Nel frattempo Cesare non era rimasto inattivo. S’era infatti portato a Ravenna («Ravennae substitit»)19, la città della Cisalpina più vicina al territorio italico, avendo con sé non più di trecento cavalieri e cinquemila opliti («Ἦσαν μὲν οὖν περὶ αὐτὸν οὐ πλείους ἱππέων τριακοσίων καὶ πεντακισχιλίων ὁπλιτῶν»)20 che, appena seppe della decisione del senato, mandò avanti segretamente verso il confine («praemissis confestim clam cohortibus»)21. Poi, per non destare sospetti, partecipò ad uno spettacolo pubblico, esaminò i progetti d’una scuola di gladiatori e, come d’abitudine, pranzò in compagnia.

Solo al tramonto partì a sua volta in gran segreto con una esigua scorta («Dein post solis occasum… occultissimum iter modico comitatu ingressus est»)22 fino a raggiungere in maniera avventurosa il Rubicone, dopo aver vagato a lungo («diu errabundus»)22, essendosi smarrito, alla ricerca della strada giusta.

Sulle rive del piccolo fiume sostò in silenzio ed esitò, riflettendo sulla gravità del gesto audace che stava per compiere («ἔστη σιωπῇ καὶ διεμέλλησεν, αὐτὸς ἄρα πρὸς ἑαυτὸν συλλογιζόμενος τὸ μέγεθος τοῦ τολμήματος»)23; poi, non dando ascolto agli avvertimenti della ragione, stese un velo di fronte al pericolo e gridò ai presenti queste semplici parole in lingua greca: “Si lanci il dado”, e fece passare l’esercito («παρακαλυψάμενος πρὸς τὸ δεινόν, καὶ τοσοῦτον μόνον Ἑλληνιστὶ πρὸς τοὺς παρόντας ἐκβοήσας, “Ἀνερρίφθω κύβος,” διεβίβαζε τὸν στρατόν»)23.

Un breve inciso merita la frase comunemente attribuita in questa circostanza a Cesare, la celeberrima «iacta alea est» (il dado è tratto), per la diffusione di cui gode in ambiti pur non specialistici. Questo perché la stesura conosciuta contiene, con ogni probabilità, un errore causato da un amanuense nella trascrizione del passo in latino di Svetonio24. La frase infatti altro non è che la traduzione d’un verso allora celebre del commediografo Menandro, «νερρίφθω κύβος»25 (si lanci il dado) che il condottiero romano pronunciò per esprimere l’azzardo cui andava incontro nel dare inizio ad un sanguinoso conflitto contro il proprio Paese. Considerato che ἀνερρίφθω è la terza persona dell’imperativo del verbo ἀναρρίπτω, sembra plausibile la correzione di Erasmo26 che introdusse «esto» al posto di «est», proprio perché esprimeva la volontà del condottiero di gettare il dado e non la constatazione d’averlo già lanciato. Per questo motivo l’espressione riportata nel manoscritto di Svetonio parrebbe essere stata «Iacta alea esto» e non la conosciuta «Iacta alea est», da rendere quindi in italiano con si lanci il dado o, forse magari, se si vuole mantenere in vita il verbo utilizzato nell’attuale versione, il dado sia tratto.

Comunque sia, dare l’avvio ad un’impresa così temeraria con neppure una legione al completo (la XIII), e senza neanche attendere le altre due legioni (VIII e XII) che aveva allertato, era certo una mossa arrischiata che poteva avere conseguenze fatali per Cesare, tenuto pure conto che Pompeo, a quel momento, poteva disporre di forze in numero superiore alle sue («Οὐ μὴν ἀλλὰ καὶ τότε πλήθει δυνάμεως ὑπερέβαλλεν ὁ Πομπήϊος τὴν Καίσαρος»)27. Invece, grazie alla imprevedibilità dell’azione ed alla rapidità con cui essa fu condotta, Cesare riuscì ad ottenere risultati che andarono oltre le più ottimistiche previsioni: in poco tempo occupò le posizioni strategiche prossime al confine italico (Rimini, Pesaro, Fano, Ancona, Arezzo, Gubbio e Osimo) e, al tempo stesso, aumentò gli effettivi con i legionari che avevano disertato da Pompeo. A tutto ciò si aggiunse lo sconcerto che serpeggiò in campo avverso alla notizia di quest’attacco improvviso che sembrava incontenibile.

A Roma fu il panico.

I senatori inquieti iniziarono ad assillare Pompeo con proposte e lamentele, creando solo ulteriore disorientamento e minando così sin dall’inizio qualsiasi decisione s’intendesse assumere. Ci fu anche chi espresse aperto dissenso, come Favonio, che lo invitò a battere il piede in terra per farne venir fuori le legioni promesse («Φαώνιος μὲν Πομπήιον ἐπισκώπτων τοῦ ποτὲ λεχθέντος ὑπ’ αὐτοῦ, παρεκάλει τὴν γῆν πατάξαι τῷ ποδὶ»)28, ricordandogli in tal modo con sarcasmo quando si era vantato di poter richiamare numerosi seguaci con un semplice cenno.

A differenza di Cesare, Pompeo non amava avventurarsi in mosse rischiose o condurre una guerra di movimento basata sulla rapidità d’azione. Preferiva le strategie ad ampio respiro che, alla lunga, creavano le condizioni favorevoli a combattere avendo tutti i vantaggi dalla propria parte. Tesseva le sue tele come un ragno, e come un ragno attendeva che gli avversari ci cascassero.

In questo caso, ritenne azzardato difendere Roma. Aveva sì forze superiori, ma troppo eterogenee e poco fidate29; scelse così di attirare Cesare in Oriente, dove poteva contare sul considerevole aiuto di amici e di clienti sicuri, con l’intento di tenerlo lontano dalle sue basi di rifornimento e, con l’andar del tempo, di sfiancarlo in un inseguimento senza soluzione. Era un disegno con buone possibilità di riuscita, se solo si fosse potuto realizzare con pazienza e, soprattutto, senza le insistenze dei senatori, per lo più critici e troppo spesso portati ad imporre la propria diversa e personale tattica.

Decise pertanto di evacuare Roma ed ingiunse ai senatori di seguirlo, avvertendo che avrebbe ritenuto un sostenitore di Cesare chi fosse rimasto indietro («καὶ κελεύσας ἅπαντας ἕπεσθαι αὐτῷ τοὺς ἀπὸ βουλῆς, καὶ προειπὼν ὅτι Καίσαρος ἡγήσεται τὸν ἀπολειφθέντα»)30.

È tra il 17 ed il 18 gennaio che Pompeo lascia Roma, diretto per le città fortificate della Campania e dell’Apulia31, e, anche se nessuno sa quale piano egli abbia per la mente, a posteriori è del tutto scontato presupporre che il suo fine fosse sin dall’inizio quello di giungere quanto prima possibile a Brindisi per poi da lì salpare per l’Oriente. Cicerone, che fa parte del folto gruppo dei senatori che lo segue, è irritato che Pompeo non dica cosa intenda fare e arriva persino a pensare che neppure lui stesso lo sappia («ne ipsum quidem scire puto»)32.

Le idee sono invece chiare e, al momento opportuno, il piano sarà reso noto.

 

19 Svetonio, Cit., XXX 1.

20 Plutarco, Vite parallele: Cesare, XXXII 1. Lo stesso dato è fornito da appiano (I secolo d.C. – II secolo d.C.), Le guerre civili, II 5, 32.

21 Svetonio, Cit., XXXI 1.

22 Svetonio, Cit., XXXI 2.

23 Plutarco, Pompeo. Cit., LX 2.

24 Il dado è tratto, disse («Iacta alea est, inquit»). svetonio, Cit., XXXII 4.

25 Ateneo, (II o III secolo d.C.), I sofisti a banchetto., XIII 8.

26 Erasmo (XV secolo – XVI secolo.), Adagi, 1, 4, 32.

27 Plutarco, Cesare. Cit., XXXIII 6. Pompeo disponeva di due legioni di stanza a Capua, oltre che delle forze arruolate espressamente per contrastare Cesare e di quelle che si trovavano nelle guarnigioni del territorio italico.

28 Apiano, Cit., II 5, 37.

29 Le due legioni, che rappresentavano il nerbo della sua armata in Italia, erano state fino a poco tempo prima al servizio di Cesare e, quindi, non erano del tutto fidate.

30 Plutarco, Pompeo. Cit., LXI 3.

31 Cicerone, Epistole ad Attico, VII 10. In questa lettera del 18 gennaio Cicerone afferma di essere partito da Roma, prima che facesse giorno («ante quam luceret»), lasciando poi intendere che anche Pompeo si fosse avviato lo stesso giorno, oppure il giorno precedente e quindi il 17 gennaio, con destinazione le città fortificate («oppidis») che si trovavano in Campania e nell’Apulia.

32 Cicerone, Cit., VII 12, 1.

 

Per la prima parte:

L’assedio di Brindisi: uno scontro mancato (prima parte)

L’assedio di Brindisi: uno scontro mancato (prima parte)

L'assedio di Brindisi_Figura 1

di Nazareno Valente

1.1 Sulla riva del Rubicone

Era probabilmente la notte tra il 10 e l’11 gennaio del 49 a.C. quando Giulio Cesare giunse nei pressi del Rubicone, un piccolo fiume sulla cui individuazione da tempo dibattono con scarsi risultati gli storici, e restò incerto sul da farsi intento a valutare cosa sarebbe accaduto se l’avesse superato. Un corso d’acqua del tutto insignificante ma al tempo stesso importante perché segnava il limite del territorio italico; la linea di confine che Cesare, proconsole delle Gallie, non avrebbe potuto valicare con un esercito in armi, senza che una simile trasgressione fosse considerata una esplicita dichiarazione di guerra alla città di Roma.

Per meglio comprendere cosa comportasse una simile scelta e quali fossero i gravi motivi che spinsero Cesare a farla, è bene esaminare, sia pure in maniera semplificata, gli elementi giuridici essenziali su cui si basava l’ordinamento romano.

Al pari del mondo greco, anche quello romano non amava affidare il potere decisionale alla discrezione d’un singolo individuo e questo si rifletteva con la presenza nell’ordinamento istituzionale di tutta una serie di limitazioni giuridiche che riguardavano principalmente lo svolgimento dei più importanti incarichi. Le magistrature erano pertanto soggette ad una serie di vincoli che ne limitavano la durata, le iterazioni e che ne impedivano di norma il cumulo. In definitiva un complesso di regole che creavano un sistema di garanzie e di controlli per evitare derive tiranniche, che tuttavia, viste le ricorrenti tensioni dovute a stati di guerra o a momenti di forte attrito sociale, erano anche soggette a possibili eccezioni e modifiche che ne snaturavano sia pure temporaneamente la struttura.

Il triunvirato imposto da Cesare, Pompeo e Crasso fu di per sé una situazione fuori dalla normalità che causò, appunto, l’adozione di misure straordinarie con le quali i tre uomini politici cercarono di concentrare nelle proprie mani il potere statale, dando continuità agli incarichi istituzionali ricoperti. I triunviri riservarono infatti per sé quelle cariche pubbliche fornite di imperium1 che conferivano il diritto di comando superiore sia di carattere militare, sia di carattere giurisdizionale, garantendosi così la possibilità di arruolare e comandare un esercito e d’incidere sui principali meccanismi legislativi. Non a caso tali magistrature venivano chiamate maiores, anche perché l’imperium conferiva un ulteriore non banale privilegio: chi ne era dotato non poteva essere perseguito nel periodo di svolgimento del mandato, pure a fronte di manifesti abusi compiuti. L’immunità cessava però con l’incarico e, una volta deposto l’imperium, si poteva essere trascinati in giudizio come un qualsiasi cittadino. Era questo l’aspetto che più preoccupava Cesare, ed i motivi traevano origine dalla disinvoltura con cui aveva fino ad allora gestito il potere.

Quando nel 59 a.C. era stato console, s’era difatti comportato in maniera spregiudicata anche nei riguardi del collega di consolato Bibulo, che non aveva esitato a cacciare con le armi dal foro perché gli si era opposto («obnuntiantem collegam armis foro expulit»)2, e in seguito addirittura ad esautorare sicché, per i restanti mesi, amministrò gli affari di stato da solo e nel pieno arbitrio («Unus… omnia in re publica et ad arbitrium administravit»)3. E peggio ancora aveva fatto nei successivi nove anni in cui, fruendo di varie proroghe, era stato proconsole nelle Gallie. Qui la sua smania di conquista l’aveva portato a compiere atti biasimati non solo dai suoi avversari politici ma pure da un commentatore non schierato come Plino, che non aveva dubbi a ritenere i massacri da lui compiuti un grave danno al genere umano («tantam… humani generis iniuriam»)4.

La lunga assenza da Roma concorreva poi a penalizzarlo, anche perché Pompeo, proconsole in province pacificate, poteva farsi sostituire nel comando dai propri legati e dimorare tranquillamente nei pressi dell’Urbs5, dove meglio poteva condizionarne la vita politica. E, se tutto ciò non bastava, si aggiunsero due tragici avvenimenti a rendere ancor più difficile la situazione: la morte della figlia Giulia, data in sposa6 a Pompeo, che faceva cessare il vincolo di parentela instaurato, e la morte di Crasso che, essendo per doti militari il meno titolato dei triunviri, s’era impegnato a garantire la coesione del sodalizio.

Ma il colpo definitivo fu costituito dalla uccisione di Clodio. I tumulti popolari susseguenti spinsero il senato ad adottare nel 52 a.C. un provvedimento senza precedenti che chiariva in maniera esplicita con chi si schierava la classe senatoriale. Pompeo fu infatti nominato console sine collega, formula giuridica mai prima adottata ma evidentemente assimilabile a quella più abituale di dittatore.

Un simile contesto, che rendeva realizzabili le minacce che venivano indirizzate a Cesare e proprio nel momento in cui si sarebbe dovuto presentare da privatus a Roma, non poteva che preoccuparlo. Soprattutto Catone Uticense gliel’aveva giurata e più volte aveva annunciato che l’avrebbe trascinato in giudizio, non appena avesse congedato l’esercito («ac primum exercitum dimisisset»)7. E Cesare, se voleva candidarsi per le elezioni consolari per il 48 a.C., doveva necessariamente presentarsi8 da privato cittadino a Roma nell’estate dell’anno precedente (49 a.C.), rischiando così una denuncia che avrebbe potuto distruggerlo politicamente.

Cesare riuscì allora, tramite i tribuni della plebe a lui favorevoli, a convincere l’intero collegio a proporre un plebiscito che gli attribuiva il privilegio della ratio absentis, vale a dire la concessione di poter partecipare, pur essendo lontano, ai comizi per ottenere il consolato («egit cum tribunis plebis… id potius ad populum ferrent ut absenti sibi, quandoque imperii tempus expleri coepisset, petitio secundi consulatus daretur»)9. Questo gli avrebbe consentito di mantenere l’imperium. e di proteggerlo quindi da possibili imputazioni.

Pompeo non si oppose, però, di lì a poco e sempre nel 52 a.C., presentò una rogatio10 (la lex Pompeia de iure magistratum) che, nel riordinare le magistrature, confermava la necessità della candidatura in praesentia e, quindi, dell’obbligo per i candidati di presentarsi a Roma, senza mantenere in vita l’eccezione prevista per Cesare di cui – si scusò – si era dimenticato («ne Caesarem quidem exciperet per oblivionem»)11. Quando gli amici di Cesare si resero conto dell’errore, protestarono facendo inserire una clausola che teneva conto dei privilegi a lui in precedenza concessi, senza ottenere che essa fosse aggiunta alla legge, in quanto già incisa sul bronzo e archiviata nell’erario («legge iam in aes incisa et in aerarium condita»)12.

L’eccezione prevista dal popolo per Cesare finì per non essere considerata valida, e si discusse più volte in senato sulla necessità di privarlo del comando e di obbligarlo a presentarsi a Roma da privato cittadino, senza tuttavia arrivare ad una decisione per il veto posto dai tribuni della plebe a lui favorevoli13. La rottura era però nell’area e, mentre girava voce che Cesare si stesse ponendo in marcia dalla Gallia Cisalpina con tutte le sue dieci legioni («δέκα τάγματα»)14, al senato pervenne una sua missiva in cui proponeva che tanto lui quanto Pompeo rinunciassero al proconsolato, congedassero le legioni ai loro ordini e si presentassero al popolo, al quale avrebbero reso conto del loro operato («Ἠξίου γὰρ ἀμφοτέρους ἐκβάντας τῶν ἐπαρχιῶν καὶ τὰς στρατιωτικὰς δυνάμεις ἀφέντας ἐπὶ τῷ δήμῳ γενέσθαι καὶ τῶν πεπραγμένων εὐθύνας ὑποσχεῖν»)15.

Questo il senso ma, a detta di Cicerone, Cesare usava nella lettera un tono minaccioso ed aspro («minacis… et acerbas litteras»)16 che offese il senato il quale pensò bene di reagire intimando al proconsole delle Gallie di licenziare le legioni, se non voleva che il suo atteggiamento fosse considerato ostile alla repubblica («Caesar exercitum dimittat; si non faciat, eum adversus rem publicam facturum videri»)17. Cesare non ci pensò nemmeno ad aderire all’invito e, di conseguenza, il 7 gennaio 49 a.C. con senatoconsulto ultimo, che non tenne conto del veto di due tribuni della plebe, il senato dichiarò lo stato di emergenza e, affinché la repubblica non subisse danno, conferì pieni poteri ai magistrati ed ai promagistrati che si trovavano alle porte della città («dent operam consules, praetores, tribuni plebis, quique pro consulibus sint ad urbem, ne quid res publica detrimenti capiat») 18.

In un ordinamento giuridico che assegnava uguale dignità ai diversi organi, proprio perché non si desiderava che ve ne fosse uno che prevalesse, il senatus consultum ultimum rappresentava il modo legittimo per accordare, in presenza di fatti anomali, poteri eccezionali. Di là della formula rituale, nel concreto si affidavano le sorti della città nelle mani del proconsole Pompeo.

 

Note

1 Competeva a consoli, pretori, al dittatore, al magister equitum e, nell’ambito delle singole province, a proconsoli e propretori.

2 Svetonio (I secolo d.C. – II secolo d.C.), Cesare., XX 2.

3 Svetonio, Cit., XX 3.

4 Plinio il Vecchio (I secolo d.C.), Storia Naturale, VII, 25, 92.

5 Chi era investito dell’imperium non poteva oltrepassare la linea del pomerium che contrassegnava il confine sacro dello stato romano, al cui interno non era consentito portare le armi. Per questo Pompeo non poteva risiedere a Roma.

6 Pur se dovuto a convenienza politica, fu un matrimonio felice e Pompeo era molto legato a Giulia.

7 Svetonio, Cit., XXX 3.

8 L’elezione doveva avvenire in praesentia del candidato che, dovendosi presentare a Roma da privato cittadino, doveva conseguentemente deporre l’imperium, considerato che chi ne era investito non poteva entrare nel pomerium,.

9 svetonio, Cit., XXVI 1.

10 Proposta di legge.

11 Svetonio, Cit., XXVIII 2.

12 Svetonio, Cit., XXVIII 2.

13 Pur non essendo magistrati, i tribuni della plebe avevano diritto di intercessio, vale a dire il diritto di veto nei casi di proposte di deliberazione e di legge.

14 Plutarco (I secolo d.C. – II secolo d.C.), Vite parallele: Pompeo, LVIII 6. Le legioni a disposizione di Cesare erano così dislocate: 8 legioni in Gallia Transalpina (di cui 4 in Belgio e 4 tra gli Edui); 1 in Gallia Cisalpina ed 1 in Illirico.

15 Plutarco, Pompeo. Cit., LIX 2.

16 Cicerone (I secolo a.C.), Lettere ai familiari, XVI 11.

17 Cesare (I secolo a.C.), La guerra civile, I 2,6.

18 Cesare, Cit., I 5,3.

L’assedio di Brindisi: uno scontro mancato (terza ed ultima parte)

L'assedio di Brindisi_Figura 2

di Nazareno Valente

2.1 Pompeo ripiega su Brindisi (anno 49 a.C.)

È ancora Cicerone — nelle lettere che indirizza all’amico Attico — che svela le intenzioni di Pompeo e delinea l’itinerario successivamente da questi compiuto nel viaggio di avvicinamento a Brindisi.

Nella prima, allega copia della lettera con cui Pompeo, trovandosi il 18 febbraio a Lucera, comunica ai consoli in carica d’aver deciso che, tranne i presidi stabiliti per la Sicilia, i restanti reparti militari devono concentrarsi a Brindisi, per essere poi di lì trasportati con le navi a Durazzo («reliquae copiae omnes brundisium cogerentur et inde navibus Dyrrachium transportarentur»)33. Li esorta pertanto a radunare tutti i contingenti militari possibili e di raggiungerlo quanto prima («Vos hortor ut quodcumque militum contrahere poteritis contrahatis et eodem Brundisium veniatis quam primum»)34.

Ma, come fa notare Cicerone ad Attico in una successiva lettera, a Brindisi confluisce ogni forma di ostilità futura («Brundisi autem omne certamen vertitur huius pr<ox>imi temporis»)35. Vi si dirige infatti anche Cesare, partito da Corfinio nel pomeriggio dello stesso giorno della festa dei Feralia in cui, al mattino, Pompeo s’è allontanato da Canosa («Eodem enim die video Caesarem a Corfinio post meridiem profectum esse, id est Feralibus, quo Canusio mane Pompeium»)36.

Pompeo arriva infine nella città salentina il 25 febbraio ed è sempre Cicerone a farcelo sapere. Il 18 marzo prima si lamenta con Attico di non aver niente da scrivere («Nihil habebam quod scriberem»)37, e poi redige una lunghissima lettera in cui, citando un avvenimento avvenuto il 1° marzo, ricorda en passant che Pompeo era, a quel tempo, a Brindisi già da quattro giorni. («At Kalendas Martias, cum ille quintum iam diem Brundisi esset»)38. Gli effettivi su cui può contare sono trentamila uomini («numerus est hominum milia triginta»)39 oltre a numerose navi che è riuscito ad ottenere («πλοίων εὐπορήσας τοὺς μὲν ὑπάτους εὐθὺς ἐμβιβάσας»)40 probabilmente dagli alleati orientali.

Ma nel frattempo anche Cesare si avvicina, avvalorando così le preoccupazioni di Cicerone. Ora pero può contare su una milizia ben più consistente di quella con cui aveva iniziato l’impresa. Ai veterani della XIII legione si sono uniti quelli della XII e dell’VIII e, durante la marcia, 3 altre legioni sono state costituite ricorrendo a nuove leve ed arruolando chi ha abbandonato i ranghi pompeiani41.

 

 

2.2 Cesare raggiunge Brindisi (anno 49 a.C.)

Cesare giunge a Brindisi il 9 marzo e si accampa davanti alle mura («a. d. VII Idus Martias Brundisium veni; ad murum castra posui»)42, come comunica egli stesso ai suoi agenti Oppio e Balbo,

Pompeo è ancora in città con venti coorti mentre il grosso delle sue truppe è salpato il 4 marzo («a. d. IV nonas Martias»)43 per Durazzo insieme con i due consoli, i tribuni della plebe ed i senatori, sfruttando i venti favorevoli che da quel giorno avevano cominciato a spirare da nord («Ex ea die fuere septemtriones venti»)44. Non è per scopi strategici che Pompeo resta a Brindisi ma per banali cause di forza maggiore: le navi non bastavano a trasbordare tutte le truppe insieme ed è costretto ad attendere il loro ritorno da Durazzo per salpare a sua volta («μέχρις οὗ τὰ πλοῖα ἐπανῆλθε»)45.

Cesare, non essendo in grado di valutare come stiano effettivamente le cose, e temendo che il rivale possa avere l’intenzione di occupare la città per presidiare le rotte del basso adriatico, decide di bloccare l’uscita e le attività del porto («exitus administrationesque Brundisini portus impedire institui»)46. In questo modo, come egli stesso chiarisce al nipote (o pronipote) Quinto Pedio in una lettera poi finita nel carteggio di Cicerone con Attico, vuole obbligare Pompeo a portar via quanto prima le truppe che tiene a Brindisi oppure intrappolarlo («ut aut illum quam primum traicere quod habet Brundisi copiarum cogamus aut exitum prohibeamus»)47.

Che però Pompeo non intenda tenere Brindisi è evidente dalla circostanza che non abbia fatto presidiare i litorali prospicienti il canale di accesso al porto interno, lasciando così del tutto sguarnita la città dalla parte del mare. Sa infatti che Cesare non dispone al momento d’una flotta, per cui ritiene che nell’immediato non possa creare eccessivi problemi per quella via.

Tuttavia Cesare è noto per l’imprevedibilità e, nonostante le incertezze manifestate, ha in realtà tutta l’intenzione di avere uno scontro con il rivale per risolvere entro breve la faccenda. Ne intravede la possibilità in quelle coste che ha preso con facilità e che gli possono consentire, bloccando il canale di comunicazione tra porto interno e porto esterno, di chiudere il rivale in una trappola senza via d’uscita. Solo deve fare in fretta, per non dare il tempo alla flotta di Pompeo di venire in suo soccorso. Per questo dà subito inizio ai lavori di sbarramento del canale.

Dapprima fa gettare massi per creare un terrapieno nel punto in cui l’imboccatura del porto è più stretta ed il mare è poco profondo («Qua fauces erant angustissimae portus, moles atque aggerem ab utraque parte litoris iaciebat, quod his locis erat vadosum mare»)48. Dove la profondità delle acque non può invece reggere un argine, fa collocare, come prolungamento, coppie di zattere quadrate larghe 30 piedi49, tenute ferme da àncore collocate ai quattro angoli in modo che non siano spostate dai flutti («Longius progressus, cum agger altiore aqua contineri non posset, rates duplices quoquoversus pedum XXX e regione molis collocabat. Has quaternis ancoris ex IV angulis destinabat, ne fluctibus moverentur»)50. Congiunge poi a queste zattere altre di pari grandezza ricoperte di terra e di altro materiale per passarci sopra con facilità e accorrervi per la difesa («alias deinceps pari magnitudine rates iungebat. Has terra atque aggere integebat, ne aditus atque incursus ad defendendum impediretur»)51. Come protezione pone sui lati esterni graticci e plutei52A fronte atque ab utroque latere cratibus ac pluteis protegebat»)53; infine, per ogni gruppo di quattro zattere, fa innalzare torri a due piani per difenderle da attacchi con le navi e da tentativi d’incendio («in quarta quaque earum turres binorum tabulatorum excitabat, quo commodius ab impetu navium incendiisque defenderet»)54.

Come vedremo in seguito, lo sbarramento non produsse l’effetto sperato, malgrado ciò l’episodio è tuttora ricordato dai cronisti in quanto è convinzione comune che sia stato la causa principale dei grossi problemi di impaludamento cui andò incontro il porto di Brindisi. Nel periodo di dominazione spagnola, infatti, il porto interno brindisino era più simile ad una palude che ad uno specchio di mare, risultando di fatto inaccessibile ai vascelli. Di tale stato di cose Pigonati, tenente colonnello del Genio dell’esercito borbonico, incaricato di ripristinarne l’agibilità, addossò tutta la colpa a Cesare, dimenticandosi che il porto aveva funzionato senza problemi di sorta per mille e più anni dall’evento narrato55. La cosa singolare è che tale opinione abbia superato i secoli e risulti tuttora diffusa, in aggiunta ingigantita con artifizi narrativi ancor meno credibili, del tipo quello che imputa al condottiero romano l’aver addirittura spianato le colline della fascia costiera per procurarsi i massi necessari a chiudere il canale.

Per altro non è che Pompeo lascia fare senza reagire: a sua volta fa allestire grandi navi da carico, su cui innalza torri a tre piani riempite di macchine da lancio e di ogni genere di proiettili («naves magnas onerarias… adornabat. Ibi turres cum ternis tabulatis erigebat easque multis tormentis et omni genere telorum completas»)56, che poi scaglia contro le opere di sbarramento di Cesare per scompaginare le zattere e disturbare i soldati al lavoro («ad opera Caesaris adpellebat, ut rates perrumperet atque opera disturbaret»)57.

Ci sono così scaramucce quotidiane con attacchi a distanza compiuti con armi da lancio e, proprio quando Cesare è arrivato a metà della sua opera («Prope dimidia parte operis a Caesare effecta»)58, rientrano a Brindisi, rimandate da Durazzo, le navi che hanno lì trasportato la prima parte dell’esercito («naves a consulibus Dyrrachio remissae, quae priorem partem exercitus eo deportaverant, Brundisium revertuntur»)59.

Pompeo può quindi prepararsi a partire. Guardato però con scarso favore dai brindisini.

 

3.1 Pompeo salpa da Brindisi (anno 49 a.C.)

Ora che le navi sono tornate ed i venti sono favorevoli per levare l’ancora, Pompeo non ha motivo di rimanere a Brindisi e così affretta i preparativi. Come riferito da Mazio e da Trebazio a Cicerone, la sera stessa del 17 marzo, giorno del ritorno della flotta da Durazzo, Pompeo lascia Brindisi con tutte le truppe a disposizione («Ante diem XVI Kalendas Apriles cum omnibus copiis quas habuerit profectum esse»)60.

Prima di andarsene, s’è però premunito d’impedire che il nemico possa irrompere in città mentre è in atto la partenza. Dopo aver ordinato ai brindisini di stare calmi nelle loro case («τοὺς δὲ Βρεντεσίνους ἀτρεμεῖν κατ’ οἰκίαν κελεύσας»)61, fa barricare le vie e le piazze; fa scavare fosse in senso trasversale alle vie e vi fa piantare dentro pali e tronchi con la punta aguzza. Poi ricopre i buchi con sottili graticci e terra, livellando il terreno («vicos plateasque inaedificat, fossas transversas viis praeducit atque ibi sudes stipitesque praeacutos defigit. Haec levibus cratibus terraque inaequat»)62. Rende in seguito inagibili le vie d’accesso e le due strade che, al di fuori della cerchia delle mura, conducono al porto sbarrandole con travi molto grandi e bene appuntite, conficcate nel terreno («aditus autem atque itinera duo, quae extra murum ad portum ferebant, maximis defixis trabibus atque eis praeacutis praesepit»)63. Lascia praticabili soltanto due vie delle quali si serve per scendere al mare («καὶ σκολόπων ἐνέπλησε τοὺς στενωποὺς πλὴν δυεῖν, δι’ ὧν ἐπὶ θάλατταν αὐτὸς κατῆλθεν»)64.

Quando ha imbarcato il grosso della truppa sulle navi, fa lanciare un segnale per i soldati che sono di guardia alle mura e questi scendono rapidamente verso il mare, montano a bordo e consentono alla flotta di salpare per la sponda opposta («τοῖς δὲ τὰ τείχη φυλάττουσιν ἐξαίφνης σημεῖον ἄρας καὶ καταδραμόντας ὀξέως ἀναλαβὼν ἀπεπέρασεν»)65.

Pompeo abbandona così Brindisi sul fare della notte.

Cesare comprende dalle mura deserte che il rivale gli sta sfuggendo. Ordina che vengano scalate e poco manca che, nella fretta, i suoi soldati non rimangano vittima dei pali nascosti nelle fosse che Pompeo aveva fatto scavare. Sono i brindisini, schieratisi apertamente a favore di Cesare, ad avvertirlo ed egli evita così di attraversare la città («τῶν δὲ Βρεντεσίνων φρασάντων φυλαττόμενος τὴν πόλιν»)66. Già quando si svolgevano i preparativi della partenza essi avevano incominciato a fare segnalazioni dall’alto dei tetti («ex tectis significabant»)67. Ora li guidano su un percorso più lungo sino a farli giungere incolumi nei pressi del porto («sed moniti a Brundisinis, ut vallum caecum fossasque caveant… et longo itinere ab his circumducti ad portum perveniunt»)68.

Ma, quando vi giungono, è ormai l’alba e le navi di Pompeo sono in mare aperto; Cesare, privo com’è di un qualsiasi supporto navale, non può che guardarle impotente allontanarsi all’orizzonte. Fallisce in questo modo il suo tentativo di avere uno scontro decisivo con il rivale e di annientarlo, quand’egli era ancora a Brindisi, così da porre termine al conflitto già sul suolo italico («Ὁ δ’ οὖν Καῖσαρ σπουδὴν μὲν εἶχε συμμῖξαί τε αὐτῷ, πρὶν ἐκπλεῦσαι, κἀν τῇ Ἰταλίᾳ διαπολεμῆσαι, καταλαβεῖν τε αὐτὸν ἐν τῷ Βρεντεσίῳ ἔτ’ ὄντα»)69.

L’abilità di Pompeo ha avuto in questa circostanza il sopravvento e il mancato scontro va in definitiva tutto a suo vantaggio; non a caso, questo suo ripiegamento dall’Italia sarà ricordato come una delle sue manovre belliche meglio riuscite («Οἱ μὲν οὖν ἄλλοι τοῦ Πομπηΐου τὸν ἀπόπλουν ἐν τοῖς ἀρίστοις τίθενται στρατηγήμασιν»)70.

A Cesare non resta che consolarsi con la cattura di due navi impigliatesi negli sbarramenti costruiti a prezzo di notevoli sforzi («duasque naves cum militibus, quae ad moles Caesaris adhaeserant»)71. Un bottino invero ben misero a fronte dell’impegno profuso nei nove giorni d’assedio, dove ha cercato invano d’impedire la partenza di Pompeo con tutti i mezzi possibili («Hos frustra per omnis moras exitu prohibere conatus»)72.

La delusione che traspare da questo passo di Svetonio è palese, tuttavia la conclusione non è poi tanto lontana: alla fine dell’anno, Cesare ritornerà a Brindisi per attraversare finalmente l’Adriatico e chiudere una volta per tutte i conti con il rivale.

 

Note

33 Cicerone, Cit., VIII 12A, 3.

34 Cicerone, Cit., VIII 12A, 4.

35 Cicerone, Cit., VIII 14, 1.

36 Cicerone, Cit., VIII 14, 1. I Feralia era la festa dedicata agli dèi Mani che si svolgeva il 21 febbraio.

37 Cicerone, Cit., IX 10, 1.

38 Cicerone, Cit., IX 10, 8.

39 Cicerone, Cit., IX 6, 3.

40 Plutarco, Pompeo. Cit., LXII 2.

41 Defezionarono dalle fila di Pompeo, passando con le milizie di Cesare, un numero imprecisato di coorti di Azio Varo (cesare, Cit., I 13, 4), la maggior parte delle dieci coorti di Lentulo Spintere (cesare, Cit., I 15, 3), le sette di Quinto Lucrezio e di Azzio Peligno (cesare, Cit., I 18,4), buona parte delle coorti di Domizio (cesare, Cit., I 23, 5) e le tre di Rutilio Rufo (cesare, Cit., I 24,3). In definitiva circa 26 o 27 coorti, come dire tre legioni scarse, cambiarono di campo. Si ricorda che una legione, composta da 10 coorti, aveva una consistenza ideale di 6000 uomini che, nella realtà, non superava in media le 4500 unità, destinate peraltro a ridursi con il protrarsi dell’evento bellico.

42 Cicerone, Cit., IX 13A, 1.

43 Cicerone, Cit., IX 6, 3

44 Cicerone, Cit., IX 6, 3. Si deve tener presente che il calendario era essenzialmente di carattere lunare sicché c’era una differenza tra calendario e stagioni che comportava uno sfasamento di circa un mese. All’inizio di marzo non si era quasi in primavera ma in inverno inoltrato, stagione questa in cui si evitava, a quei tempi, di affrontare viaggi in mare aperto.

45 Dione (II secolo d.C. – III secolo d.C.), Storia romana, LXI 12, 3.

46 Cesare, Cit., I 25, 4.

47 Cicerone, Cit., IX 14, 1.

48 Cesare, Cit., I 25, 5.

49 Circa dieci metri.

50 Cesare, Cit., I 25, 6-7.

51 Cesare, Cit., I 25, 8.

52 I plutei erano ripari in legno di forma semicircolare o ad angolo retto, montati su tre ruote.

53 Cesare, Cit., I 25, 9.

54 Cesare, Cit., I 25, 10.

55 Pigonati, Memoria del riaprimento del porto di Brindisi sotto il Regno di Ferdinando, Michele Morelli, Napoli, 1781. Nella prefazione si può leggere: «Il porto celebre di Brindisi, soffrì nei tempi della Repubblica per l’assedio fatto da Cesare, e per la chiusura di due bracci che turarono l’entrata… il gran male lo produssero que’ bracci».

56 Cesare, Cit., I 26, 1.

57 Cesare, Cit., I 26, 1.

58 Cesare, Cit., I 27, 1.

59 Cesare, Cit., I 27, 1.

60 Cicerone, Cit., IX 15A.

61 Plutarco, Pompeo. Cit., LXII 3.

62 Cesare, Cit., I 27, 3-4.

63 Cesare, Cit., I 27, 4.

64 Plutarco, Pompeo. Cit., LXII 3.

65 Plutarco, Pompeo. Cit., LXII 4.

66 Plutarco, Pompeo. Cit., LXII 4.

67 cesare, Cit., I 28, 2.

68 Cesare, Cit., I 28, 4.

69 Dione, Cit., LXI 12, 1.

70 Plutarco, Pompeo. Cit., LXIII 1.

71 Cesare, Cit., I 28, 4.

72 Svetonio, Cit., XXXIV 2.

Per la prima parte

L’assedio di Brindisi: uno scontro mancato (prima parte)

Per la seconda parte:

L’assedio di Brindisi: uno scontro mancato (seconda parte)

 

Brindisi: il porto in un antico disegno

di Armando Polito

Dopo il pc e il tablet anche lo smartphone si appresta a fare il suo ingresso trionfale nel mondo della scuola. Io ho l’impressione che l’unico profitto sarà quello delle multinazionali che avranno un motivo in più per immettere sul mercato modelli sempre più sofisticati e costosi …

Non ho nulla contro le nuove tecnologie (questo stesso post non avrei potuto scriverlo dieci anni fa, quando il patrimonio digitalizzato e disponibile in rete era esiguo; qualcuno dirà che avrei fatto meglio a non scriverlo pure ora …), anzi, posso vantarmi di essere stato uno dei rari docenti a tentare un uso intelligente del pc quando il collegamento ad internet era ancora una chimera. Fui uno dei partecipanti ad uno dei primi, se non il primo, corso istituito dal ministero per l’alfabetizzazione informatica dei docenti e ricordo ancora con raccapriccio la montagna di carte che un tutor il primo giorno, l’altro il secondo ci consegnarono. Nozioni teoricamente e praticamente inutili, mentre solo nella parte finale del corso una quantità esigua di ore venne dedicata all’approccio diretto alla macchina e all’uso del programma di videoscrittura. La sensazione più esilarante, però, la provai alla fine del corso, nel giorno in cui scoprimmo che l’ispettrice inviata dal ministero, credo per controllare le competenze da noi acquisite, non sapeva neppure dove e quale fosse  l’interruttore di accensione del pc … (se qualche compagno di quel corso mi legge potrà confermare).

Mi pare che ancora una volta tutto sia nel segno dell’improvvisazione e dell’ammiccamento agli aspetti più spettacolari, con l’aggravante che i nativi digitali di oggi già all’asilo mostrano di saper usare i nuovi aggeggi con più disinvoltura dei loro insegnanti che hanno appena appena superato gli enta. L’uso intelligente delle nuove tecnologie (ma, a dire il vero anche delle vecchie …) consiste nello sfruttamento dello strumento per fini originali (ai quali spesso, nel nostro caso, nemmeno i progettisti hardware e software hanno pensato), per tentare di risolvere un problema inusuale e la cui soluzione non sia brutalmente e rozzamente a portata di dita.

Per esempio: ormai qualsiasi edizione di un qualsiasi vocabolario prevede accanto o in aggiunta alla versione cartacea anche quella digitale che, se ben fatta, consente di acquisire nuove conoscenze,  la cui importanza culturale non è certamente inferiore ai risultati economici che, per esempio, la Guardia di Finanza ottiene, con i suoi controlli incrociati, nel campo della lotta all’evasione  e agli altri reati . Sarebbe interessante sapere quante volte quel magico cd o dvd, acquistato, è stato usato almeno in classe (figurarsi a casa, specialmente ora che i relativi compiti sono un’offesa per la dignità del discente).

Un altro esempio: i più avvezzi al piacere della lettura avranno immediatamente constatato che la portabilità del libro elettronico (che, tuttavia, può tornare utile in certe situazioni ed essere, ma solo provvisoriamente, decisiva) comporta una serie di inconvenienti e di limitazioni rispetto al libro cartaceo. Lascio da parte certi gusti che qualcuno può considerare nostalgici e, magari, pure perversi, quali il piacere di toccare la carta, di sentire il suo profumo sempre diverso, di trovare, grazie solo all’ausilio di quel rudimentale motore di ricerca che è l’indice o, qualora il libro sia stato già sfogliato, della cosiddetta memoria visiva, una certa pagina o (e qui il motore di ricerca della versione digitale, se non adeguatamente calibrato, può fare cilecca) un’immagine; per non parlare della visione a colpo d’occhio, senza scorrimento settoriale dello sguardo o improbabili zoomate … Lascio da parte tutto questo per passare alle note personali (inclusi i segni convenzionali come frecce, sottolineature e simili), frutto di una lettura non superficiale, che hanno integrato (in qualche caso deturpato …), un manoscritto (scoli e glosse) o un libro a stampa. Certo, anche un libro elettronico può essere dotato  in qualsiasi momento, cin procedure, però, non sempre “amichevoli”,  di note personali destinate, però, a tramandare (ammesso che il supporto resista ai fattori ambientali ed all’azione del tempo …) un numero di informazioni decisamente inferiori, a cominciare dalla grafia del loro autore, per finire con un dettaglio che può sembrare irrilevante ma che per me è importantissimo: l’eventuale commento digitato tenderà ad essere nella sua forma finale esteticamente perfetto, non registrerà, cioé, tutto il processo mentale che la nota autografa esprime, per esempio, in parole barrate, leggibili o no, o in altre sovrascritte. La nota digitale sarà, per parafrasare Cocciante, una bella senz’anima, ammesso che il nostro file compaia, prima o poi, sul display altrui …

Questa premessa rischia di diventare troppo lunga; perciò passo all’argomento di oggi lasciando al lettore il giudizio sulla coerenza tra quanto tratterò (e come lo tratterò) e le affermazioni appena fatte.

Nella Stiftsbibliothek (Biblioteca dell’abbazia) di St. Gallen1 in Svizzera è custodito un codice (n. 863) pergamenaceo del secondo quarto del secolo XI contenente il De bello civili alias Pharsalia del poeta latino  Marco Anneo Lucano (I secolo d. C.).

immagine tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/Abbazia_di_San_Gallo#/media/File:Aerial_View_of_the_Monastry_of_Sankt_Gallen_14.02.2008_14-48-17.JPG

A p. (ogni foglio si presenta scritto solo su una facciata) 47 (che riproduco di seguito da http://www.e-codices.unifr.ch/it/thumbs/csg/0863/, dove l’opera è integralmente consultabile) compare il disegno del titolo. Cliccando di sinistro una prima volta su questa immagine (vale anche per le successive) la stessa sarà visibile in una schermata indipendente dove, cliccando ancora  di sinistro, potrà essere studiata al massimo della definizione).

Il testo è costituito dai vv. 610-638 del libro II. A noi interessano i versi 610-627, che trascrivo e traduco.2

Urbs est Dictaeis olim possessa colonis,/quos Creta profugos vexere per aequora puppes/Cecropiae victum mentitis Thesea velis./Hinc latus angustum iam se cogentis in artum/Hesperiae tenuem producit in aequora linguam,/Hadriacas flexis claudit quae cornibus undas./Nec tamen hoc artis inmissum faucibus aequor/ portus erat, si non violentos insula Coros/exciperet saxis lassasque refunderet undas./Hinc illinc montes scopulosae rupis aperto/opposuit natura mari flatusque removit,/ut tremulo starent contentae fune carinae./Hinc late patet omne fretum, seu vela ferantur/in portus, Corcyra, tuos, seu laeva petatur/Illyris Ionias vergens Epidamnos in undas./Hoc fuga nautarum, cum totas Hadria vires/movit et in nubes abiere Ceraunia cumque/spumoso Calaber perfunditur aequore Sason.

(Questa città [Brindisi] fu posseduta un tempo dai coloni dittei3 che, profughi da Creta,  navi cecropie4 trasportarono attraverso il mare, quando le vele diedero la falsa notizia che Teseo era stato vinto5. Da qui un angusto tratto dell’Italia che già si restringe sospinge nel mare una tenue lingua che racchiude le onde dell’Adriatico con corna ricurve. Tuttavia questo mare immesso in strette gole non sarebbe un porto se un’isola non smorzasse con le sue rocce il violento maestrale non respingesse le onde stanche. Da una parte e dall’altra la natura ha opposto al mare aperto l’altezza di rocciosa scogliera ed ha tenuto lontani i ventiin modo che le imbarcazioni potessero stazionare trattenute da una tremula gomena. Da qui si estende il mare aperto sia che si spieghino le vele verso i tuoi porti, o Corcira, sia che si cerchi di raggiungere  a sinistra Epidamno d’Illiria che si protende verso le onde dello Ionio. Questo è il rifugio dei marinai quando l’Adriatico scatena tutta la sua forza e i monti Cerauni svaniscono tra le nubi e la calabra Sason è sommersa dal mare spumeggiante.

Appare evidente come il disegno costituisca la trascrizione iconica del testo latino e non possa, quindi, essere considerato come una mappa “recente”  dello stato dei luoghi, ma una vera e propria antica mappa storica, manoscritta, che anticipa quelle che sullo stesso evento (tentativo di Cesare di bloccare a Brindisi Pompeo, che, però, riuscì a fuggire in Grecia) dopo qualche secolo compariranno a stampa (vedi, per esempio, quella del Palladio al link segnalato nella nota 2). Prima ho posto recente tra virgolette perché è difficile dire se il disegno è coevo al manoscritto o posteriore. Io propenderei per la seconda ipotesi, fermo restando il fatto che rimarrebbe da capire quanto tempo dopo, sia pure approssimativamente, venne operata l’aggiunta6.

Tale, infatti, mi pare corretto definirla per il fatto che nell’economia del foglio il disegno appare, dal punto di vista estetico, un intruso, proprio come le glosse presenti a margine in parecchie pagine.

Sembrano,invece, essere autonomi altri disegni occupanti l’intero foglio  e precisamente, oltre quello della pagina finale (seconda immagine di nota 1), quelli di p. 77, e p. 78.  La p. 76 contiene l’ultima parte del libro III, cioè la descrizione della battaglia navale di Marsiglia (49 a. C.), condotta da Decimo Bruto per conto di Cesare. I due disegni (il primo del porto, nel secondo la porta semiaperta di quella che sembra una torre rappresenta, credo, la presa della città)  si riferiscono proprio a questa battaglia.

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Da notare come il nostro disegnatore avesse la tendenza a rappresentare i porti allo stesso modo, visti gli elementi strutturali comuni a questo disegno e a quello relativo a Brindisi, nonostante le differenze che è agevole cogliere  nella comparazione delle due mappe tratte ed adattate da GoogleMaps. Non credo che in due millenni i cambiamenti siano stati così radicali, come quasi certamente lo saranno, sempre per i due siti, tra un secolo …

______________

1 Di seguito la segnatura del monastero nel retto  della pagina iniziale ed in quello della  finale.

Le due segnature sono perfettamente sovrapponibili anche nelle sbavature, e appaiono molto simili alle prime marche editoriali. Nella parte superiore è raffigurata una tiara, in quella inferiore un orso, figura legata alla leggenda che riguarda il fondatore dell’abbazia, della città a suo protettore: san Gallo. Giunto in quei luoghi da quelle parti dal lontano Galles aveva predicato per anni dalla sua celletta eremitica ai rozzi abitanti senza essere mai ascoltato. Alla fine incominciò a venirlo a trovare un orso che, a poco a poco, gli divenne amico, unico essere vivente disposto ad ascoltarlo. Dopo la sua morte gli abitanti eressero su qiello che restava della sua cella una splendida abbazia. L’orso è ancora oggi presente nello stemma della città. Nella parte superiore della seconda immagine la segnatura rende appena leggibile la figura di un cavaliere al galoppo armato di scudo ed asta, tema replicato nella parte inferiore della pagina.

2 Sul porto di Brindisi vedi pure https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/09/brindisi-e-il-suo-porto-cornuto/.

3 Da Ditte, monte di Creta.

4 Ateniesi; da Cecrope, antichissimo re dell’Attica, fondatore della rocca di Atene.

5 Il riferimento è legato al tributo dovuto da Atene a Minosse, re di Creta, dal quale era stata sconfitta: il sacrificio annuale (secondo altre versioni quinquennale) di sette fanciulli e sette fanciulle destinati ad essere divorati dal Minotauro. La terza spedizione sacrificale fu affidata aTeseo il quale promise al padre Egeo che, se fosse riuscito ad uccidere il mostro, al ritorno avrebbe issato vele bianche. Teseo con l’aiuto di Arianna, figlia di Minosse, che si era innamorata di lui, uccise il Minotauro, uscì dal labirinto e fuggì con la ragazza, che, però, poco dopo fu abbandonata dall’eroe sull’isola di Nasso. Teseo, però, sulla via del ritorno ad Atene dimenticò di issare le vele bianche al posto delle nere, sicché il padre Egeo, credendo che egli fosse morto, si gettò nel mare che da lui prese il nome.

6 Appare, invece, come parte originariamente integrante l’immagine di Brindisi (che sia proprio di questa città lo provano i versi, che ho già ho avuto occasione di citare,  del testo del foglio e ancor più il Brundusium che, equamente diviso, si legge a sinistra ed a destra della stessa) che compare in calce al f. 59r (di seguito l’intero ed il dettaglio che ci interessa) del manoscritto pergamenaceo, la cui scrittura fu terminata nel 1299, custodito nella Bayerische Staatsbibliothek a Monaco (Clm 349) ed integralmente leggibile in  http://daten.digitale-sammlungen.de/~db/0008/bsb00084710/images/index.html?id=00084710&seite=59&fip=193.174.98.30&nativeno=%2F&groesser=300%25.

 

Brindisi e il suo porto in una carta del XVI secolo

di Armando Polito

L’immagine di testa è un dettaglio della carta che ho avuto occasione di presentare in https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/05/lecce-porto-s-cataldo-cosi-al-tempo-adriano/.

Credo sia ormai evidente che il mio scopo è quello di suscitare curiosità, nella speranza che qualcuno dei pochi pazzi (tali sembrano, di fatto, alla cultura dominante) ancora in giro, tra cui il sottoscritto, contribuisca con il suo raptus a rettificare o a integrare il mio …, che non può che limitarsi all’evoluzione  della toponomastica del circondario del porto quale risulta (non sempre con un percorso rettilineo) da mappe a stampa successive a quella aragonese. L’analisi dei toponimi, leggibilissimi sulla mappa, sarà condotta in ordine alfabetico.

Baccaro

Probabilmente si tratta di un prediale che, con altri probabili che seguiranno, reca traccia di un’aristocrazia terriera in quel periodo padrona di buona parte del territotio brindisino. Un Giulio Cesare Baccaro fu notaio a Brindisi dal 1589 al 1629 e la famiglia in questione è presente ancora oggi nella toponomastica viaria (Via de’ Baccaro)

Casale Cuggio: come prima Baccaro potrebbe essere un prediale. Lla famiglia Cuggio, infatti, risulta citata nell’elenco dei nobili brindisini presente in Cesare D’Eugenio Caracciolo, Ottavio Beltrano e altri, Descrittione del Regno di Napoli diviso in dodeci provincie, Beltrano- De Bonis, Napoli, 1671, p. 321 e in Andrea Della Monaca, Memoria historica della città di Brindisi, Micheli, Lecce, 1674, s. p. : Non vi mancano però al presente nella città di Brindisi molte Fameglie nobili, e particolarmente la Fornara, Cuggio …

Casale di Marco: altro probabile prediale, di cui potrebbe essere impressionante indizio l’attuale  via Carlo De Marco (1711-1809), evidenziata di seguito col segnacolo rosso nel dettaglio che ho tratto da Google Maps.

Un Simone De Marco ebbe in dono nel 1275, da Carlo I d’Angiò i feudi di Mauritano e Cognano e i Casali di S. Cassiano, Lequile, Casamassella e Vaste.

Casale di Pasquale granofeo: continua il festival dei probabili prediali, Ipotizzando granofeo deformazione di Granafei. La famiglia, fuggita da Costantinopoli per l’invasione dei Turchi di Maometto II, si trasferì a Brindisi nel 1508. Nel XVII secolo un suo rappresentante, Giovanni. fu tacito protagonista di un episoduo molto triste della storia di Nardò (https://www.fondazioneterradotranto.it/tag/giovanni-granafei/).   

Castello di Isola oggi Castello alfonsino o Castello aragonese o Castel rosso (costruzione iniziata sull’isola di S. Andrea nel 1445 da Ferdinando I d’ Aragona).

 

Pompeiano dir(uto): potrebbe essere connesso con il lontanissimo (49 a. C.) ricordo dell’assedio di Brindisi da parte di Cesare per bloccare la fuga di Pompeo in Oriente o col tentativo inverso attuato senza successo l’anno successivo da Lucio Scribonio Libone.

S.to Pelino: di una chiesa dedicata a colui che nel VII secolo fu vescovo di Brindisi è nota una chiesa che sorgeva nel cortile dell’attuale palazzo Granafei Nervegna, ma per evidentissimi motivi di dislocazione essa non può essere quella della mappa.

Theodoro dir(uta): molto probabilmente la chiesa sorgeva nel luogo (oggi Fontana Tancredi) in cui secondo la tradizione nel 1210 approdò l’imbarcazione che trasportava le ossa del santo. 

Torre del Cavallaccio (oggi punta di Torre Cavallo2).

Torre del Cavallo. Risulta assente in tutte le carte prima utilizzate ai fini comparativi per gli altri toponimi. Data  l’estrema precisione che la carta aragonese mostra bisognerebbe ipotizzare l’esistenza di una torre scomparsa nell’arco di pochi decenni. 

Torre della Pena oggi Torre Penna

Sul toponimo, che nella prima stesura per distrazione non avevo citato, vedi in calce il commento del sig. Mario Galasso. Alle sue osservazioni aggiungo che peña è dal latino pinna, che significa, fra l’altro, penna e pinnacolo ed è connesso con la variante, sempre latina, pina, che designa il mollusco il cui nome scientifico è pinna nobilis e quello comune cozza penna. Tutto ciò non esclude che il nome della torre sia connesso non tanto col significato traslato di promontorio ma con l’abbondanza della specie appena ricordata nello specchio d’acqua limitrofo . Se è così, il pena  della carta aragonese senza tilde sarebbe una grafia di compromesso della voce originale (penna), compromesso continuato, come si vede in tabella,  nella cartografia successiva dove penna si alterna a pena.

Chiudo con una comunicazione di servizio: questo tipo di indagini non può esulare dall’apporto di studiosi ed appassionati locali (cui dovrebbe essere più agevole la consultazione, per esempio, delle visite pastorali, o il riemergere alla memoria di un atto notarile letto casualmente, etc. etc., senza contare la possibilità di ricognizioni dirette dei siti), ai quali rivolgo in tal senso un accorato appello, anche in riferimento al post con cui è cominciata la serie e il cui link ho riportato in apertura. Dirò di più: in mancanza di adeguati riscontri sarò costretto, al massimo fra due altre puntate, a chiudere la serie che altrimenti non avrebbe senso. Se, invece, i contributi non dovessero mancare, potrei addirittura pensare (seriamente, non solo per sognare …)  di raccoglierli, con citazione del nome dell’autore, in una monografia estesa all’intera Terra d’Otranto, previa richiesta della mappa integrale in alta definizione (altrimenti come completare lo studio stesso?) alla Biblioteca Nazionale di Francia contestualmente al rilascio dell’autorizzazione a sfruttarla per una pubblicazione a stampa. Se c’è qualche sponsor, intanto, dichiari la sua disponibilità …

 

Per altri dettagli della stessa carta:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/21/nardo-altri-centri-limitrofi-carta-aragonese-del-xvi-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/05/lecce-porto-s-cataldo-cosi-al-tempo-adriano/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/13/lecce-territori-sud-est-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/09/gallipoli-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/04/castro-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/27/otranto-dintorni-carta-aragonese-del-xvi-secolo/

 

 

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1 Si tratta di un aggiornamento (evidentemente anche toponomastico) della carta del Magini, come indica chiaramente il titolo/didascalia:

2 Oggi il sito è più noto per le frequenti sfiammate della torcia di emergenza dello stabilimento  petrolchimico  che per la torre sui cui pochissimi resti si può ammirare (!)  una postazione  risalente alla prima guerra mondiale. Sull’origine del toponimo rinvio a https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/04/23/la-terra-dotranto-in-due-antiche-carte-nautiche/.

Antonio de Ferrariis, detto il Galateo, l’antico proverbio e la propaganda augustea

di Nazareno Valente

Degli altri colleghi storici Tucidide faceva di tutta un’erba un fascio considerandoli dei semplici logografi («λογογράφοι»), vale a dire narratori che miravano al diletto degli ascoltatori e non certo alla verità1 con l’unico intento, pertanto, di produrre belle storie da declamare in pubblico, senza preoccuparsi della loro fondatezza. Sebbene non l’affermasse esplicitamente, egli ci metteva nel mucchio persino Erodoto, che pure aveva limitato al massimo i facili abbellimenti dovuti a fantasiosi interventi divini, ma che probabilmente non s’era emancipato dalla consuetudine di leggere le proprie storie nelle pubbliche piazze. E, che così fosse, se ne ha una prova evidente in un passo in cui lo storico di Alicarnasso parla della Scizia.

Ce lo possiamo infatti immaginare a Thurii, sua città d’adozione2, che s’affacciava sulla costa occidentale del golfo di Taranto, mentre cerca di spiegare ai suoi concittadini una particolarità dell’estrema propaggine della Scizia e che, per semplificare, utilizza come esempio l’Attica. Poi, temendo che quest’ultima contrada non sia molto conosciuta a chi l’ascolta, ritiene utile ricorrere ad un altro esempio («δὲ ἄλλως δηλώσω») che ha il pregio di non porre problemi interpretativi ai Turini, ovverosia la terra della Iapigia in cui abitano a stretto contatto di gomito i loro più acerrimi nemici (i Tarantini) ed i loro tradizionali alleati (i Brindisini). O, per dirla con le stesse parole di Erodoto, la penisola che inizia dall’istmo che va dal porto di Brindisi a Taranto («ἐκ Βρεντεσίου λιμένος ἀποταμοίατο μέχρι Τάραντος3»).

Un passo stringato che non necessitava di ulteriori specificazioni, perché i Turini conoscevano perfettamente le due città ma al tempo stesso denso di significati, meritevoli di una descrizione a sé stante, se il nostro scopo non fosse circoscritto a decifrare un antico proverbio. In questa sede pare pertanto utile soffermarsi solo sugli aspetti funzionali alla nostra specifica trattazione.

Si può così rilevare che, quantunque entrambe le cittadine abbiano un porto rinomato, la sola Brindisi ne risulta di fatto caratterizzata, quasi che il porto fosse un’entità distinta dalla città. Erodoto specifica poi che si tratta di λιμήν che, in senso tecnico, è il termine portuale corrispondente al portus latino, con cui è definibile «uno specchio d’acqua chiuso naturalmente o artificialmente, accessibile dal mare, dove le navi possano rimanere sicure in caso di traversia4» e quindi con il requisito essenziale di costituire un sicuro ricovero nei momenti più tempestosi o di inattività invernali. Aspetto quest’ultimo di apprezzabile rilievo, considerato che a quel tempo si navigava quasi esclusivamente nelle belle stagioni.

In definitiva un porto d’eccellenza sin dal periodo classico dell’antichità greca e, pur tuttavia, nulla in confronto alla fama che acquisirà successivamente quando, a seguito della conquista romana, nella seconda metà del III secolo a.C. Brindisi diverrà colonia di diritto latino. Una fama che rivivrà negli scritti successivi pure nelle fasi di declino della città, così come avvenne nel De situ Iapygiae del Galateo.

Siamo all’inizio del XVI secolo, negli anni in cui l’impero ottomano, pur rivolgendo le sue attenzioni ad oriente, fa comunque sentire la propria nefasta presenza ad occidente, con rapide e feroci scorrerie che mettono in un stato di continua soggezione le città costiere. In assenza d’un governo forte, per i porti del basso adriatico l’unica difesa possibile è quella di precludere gli accessi alle rade, ed è per questo che il canale di collegamento al porto interno di Brindisi viene più volte ostruito, tanto che gli storici discutendo tra di loro lo qualificano «volgarmente… ciccato5». Eppure il Galateo6 giudica Brindisi città insigne «inclyta urbs» ed il suo porto famosissimo in tutto il mondo («toto terrarum orbe notissimus») tant’è che dà per coniato il proverbio: «tres esse in orbe portus: Iunii, Iulii et Brundusii», all’apparenza facile da tradurre ma dal significato alquanto oscuro (figura n. 1).

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Letteralmente potremmo tradurlo così: “tre sono i porti al mondo: Giunio, Giulio e Brindisi” e non ci sarebbero problemi, qualora ai tre nomi corrispondessero altrettanti porti noti dell’antichità; cosa che, invece, sicuramente non è nel caso di Giunio. Osservato però che Iunius e Iulius sono anche i nomi dei mesi rispettivamente di giugno e di luglio, potremmo adottare quest’altra traduzione: “tre sono i porti al mondo: giugno, luglio e Brindisi”, che mostra l’ulteriore difetto di comparare entità tra loro inconfrontabili.

A tutta prima, quest’ultima soluzione pare la meno soddisfacente, ciò malgrado, i principali cronisti brindisini del XVII secolo la danno per sicura.

Secondo il Moricino, il porto di Brindisi viene comparato ai mesi di giugno e luglio «quasi che a dispetto della natura del mare tale sia quel Porto in ogni stagione, quale suol essere in tutto nelle Bonaccie di quei mesi di Giugno e, Luglio7».

E, sulla stessa lunghezza d’onda, gli fa eco il Della Monaca: «Quasi ch’à dispetto della naturalezza del mare tal sia quel Porto in ogni staggione, qual essere suole in tutto il tempo il Mare nelle bonaccie di quei mesi Giugno e, Luglio8».

In definitiva, come a dire che nel porto di Brindisi le navi sono sempre al sicuro, al pari di quando solcano il mare nelle bonacce dei mesi di giugno e luglio.

Un’interpretazione già di per sé in contrasto con la mentalità pratica degli antichi romani, poco inclini a fantasticherie così ardite in cui si confrontano i periodi migliori per navigare con i luoghi più idonei ad ospitare i navigli, e che in aggiunta non tiene conto di agosto, vale a dire del mese più favorevole per affrontare il mare. Vanno poi ricordate le consuetudini di quei tempi, che erano strettamente coerenti con le possibilità tecniche dell’epoca.

Come già in parte riportato, tranne rare eccezioni, si prendeva il mare solo nelle belle stagioni mentre in quelle cattive si trovava un buon porto dove ricoverare le navi. Le difese naturali o artificiali del portus erano infatti essenziali per proteggerle da eventuali mareggiate che potevano avere effetti devastanti su imbarcazioni la cui stazza era contenuta. A scanso di equivoci, esse venivano tirate a secco ed a volte protette pure da palizzate e fossati, per cui la bonaccia o la buona stagione non erano condizioni strettamente essenziali per la loro salvaguardia. Al contrario erano proprio le burrasche dei mesi estivi ad essere potenzialmente pericolose in quanto, sopraggiungendo improvvise e inaspettate, potevano comportare effetti disastrosi sulle galee ferme in rade non sufficientemente protette, tant’è che Svetonio9 riferisce come la flotta di Augusto fosse stata distrutta per ben due volte dalla tempesta, e non durante la brutta stagione ma per l’appunto nel bel mezzo dell’estate.

L’ingegnoso collegamento tra mesi dell’anno e porti fornisce perciò una chiave di lettura suggestiva – probabilmente conveniente a stimolare la fantasia e l’adattabilità dei social, dove in effetti impazza sino a trovare ospitalità in un godibile sketch satirico in cui un’analoga esegesi è fornita nientemeno che da Cesare Ottaviano Augusto10 – ma al tempo stesso improbabile. Certo è che essa non trova accoglimento al di fuori del ristretto ambito locale e, di conseguenza, conviene piuttosto considerare l’ipotesi più scontata, vale a dire che Iunius e Iulius siano molto più banalmente dei porti che non si è stati in grado di individuare.

Il Galateo scrisse il De situ Iapygiae in un periodo imprecisato tra il 1508 ed il 1511 ma non era più in vita quando il suo manoscritto fu stampato nel 1558, grazie al marchese di Oria, Giovanni Bernardino Bonifacio che se ne accollò le spese. In quegli anni non esistevano porti con il nome di Giunio e di Giulio però, ai patiti di antichità romane quest’ultimo toponimo avrebbe potuto dire qualcosa. Del porto Giulio aveva infatti riferito Svetonio nella parte dedicata a Cesare Ottaviano Augusto della sua “Vita dei Cesari”, quando menziona l’inaugurazione presso Baia di un «portum Iulium» creato artificialmente facendo penetrare il mare nei laghi Lucrino e Averno («inmisso in Lucrinum et Avernum lacum mari11»). La struttura portuale rendeva infatti comunicanti tra loro i laghi d’Averno e Lucrino, e quest’ultimo lago con il mare, previo taglio del cordone di sabbia che li separava (figura n. 2).

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Voluto da Vipsanio Agrippa, amico e fedele collaboratore di Augusto, per contrastare le scorrerie sul Tirreno della flotta di Sesto Pompeo, il portus Iulius (o portus Iulii) iniziò ad operare nel 37 a.C. nei pressi del vecchio e rinomato porto di Puteoli, nell’ampia area dei Campi Flegrei, che venne così soppiantato da questo nuovo doppio bacino portuale. Si ipotizza che inizialmente avesse prevalenti funzioni militari, essendo stato preventivato l’allestimento d’un arsenale e di strutture idonee per addestrare gli schiavi liberati per inquadrarli tra i rematori, ma che in seguito divenne però scalo commerciale d’una certa importanza. In ogni caso, ricoprì un ruolo strategico di rilievo, se Agrippa decise di intitolarlo al futuro Augusto che, come conseguenza dell’adozione da parte di Cesare, aveva appunto modificato il proprio nome da Octavius a Iulius, e se altri storici lo citarono diffusamente nei loro scritti. Il porto meritò anche una menzione poetica da parte di Virgilio12 che l’elenca («Iulia… unda») tra le laboriose opere («operumque laborem») compiute dalla mano dell’uomo.

Come il porto di Brindisi, anche quello Giulio visse i suoi anni di gloria in concomitanza con l’impero romano e declinò con esso; solo che non si riprese mai più. Anzi scomparve addirittura dalla faccia della terra, a causa dei fenomeni naturali che investirono la regione flegrea modificandone la struttura morfologica. Dapprima, tra l’VIII ed il X secolo, fenomeni bradisismici fecero sì che il mare sommergesse il Lucrino che poi finì quasi per sparire nel 1538, a seguito dei movimenti tellurici che crearono in quel sito il Monte Nuovo.

Al tempo di Moricino e Della Monaca, il porto Giulio non esisteva pertanto più, e non ne era rimasta traccia, se non nelle fonti letterarie antiche. Solo i ritrovamenti archeologici del secolo scorso lo posero nuovamente in luce.

Non c’è quindi dubbio alcuno che lo “Iulii” del Galateo identifichi il porto Giulio, e non il mese di luglio come ipotizzato dai cronisti brindisini; di conseguenza anche Iunii è di sicuro un porto, e non un mese del nostro calendario. Il problema però in questo caso è che non c’è indizio, né possibile accenno nelle fonti letterarie, che diano modo di individuare una città portuale con un tale nome. Il che appare strano, se esso era così famoso da diventare proverbiale.

L’unica ipotesi formulabile appare a questo punto che il passo sia errato; cosa plausibile, considerate le lamentele espresse a volte «ai lettori» dai curatori delle opere del Galateo per le «grandissime difficoltà» incontrate nella traduzione «per la scorrezione dei testi13».

Partendo pertanto dal presupposto che il Galateo (o qualche copista) ne abbia riportato in maniera imprecisa il nome, occorre cercare la città portuale, a quel tempo rinomata, la cui denominazione abbia maggiore assonanza con Iunii. Essendo le località di tal genere in numero limitato, la ricerca riconduce inequivocabilmente al portus Lunae che, tenendosi alla sinistra dell’allora ampia foce del fiume Magra, si affacciava ad est dell’attuale golfo di La Spezia, e che, in antichità aveva goduto di buona fama meritando pure le attenzioni del grande Ennio14 che invitava a visitarlo, perché ne valeva la pena («Lunai portus, est operae. cognoscite, cives»).

Naturale come quello brindisino, il porto di Luna fu probabilmente motivo di contesa tra gli Etruschi ed i Liguri, prima di giustificare le mire dei romani che, con questo scalo, ritennero di poter controllare le rotte dell’alto Tirreno.

La deduzione nel 177 a.C. d’una colonia di diritto romano (civium romanorum) nella città di Luna fu perciò un passo del tutto conseguente (figura n. 3). Tuttavia, il successivo declino della potenza cartaginese creò una situazione di diffusa tranquillità nella zona, che finì per limitare l’importanza della base militare lunense. Solo in periodo augusteo il porto riacquisì rinomanza, quando fu potenziato e trasformato a scalo commerciale per sfruttare appieno le potenzialità delle vicine cave di marmo il cui candore affascinava Roma e tutte le città italiane. Ed è proprio di questo periodo la descrizione più particolareggiata che le fonti letterarie ci hanno conservato.

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Strabone15 ci informa infatti che la città di Luna non è grande mentre il porto è parecchio grande e assai bello, comprendendo più rade, tutte profonde («ὁ δὲ λιμὴν μέγιστός τε καὶ κάλλιστος, ἐν αὑτῷ περιέχων πλείους λιμένας ἀγχιβαθεῖς πάντας»), circondate da alte montagne dove ci sono cave di marmo bianco («μέταλλα δὲ λίθου λευκοῦ») utilizzato per gli edifici più insigni costruiti a Roma e nelle altre città.

Durante la stesura del De situ Iapygiae, il porto di Luna era però da secoli scomparso: il graduale interrimento, causato dai frammenti depositati dal Magra, l’avevano infatti reso paludoso e malarico, sino a costringere i suoi abitanti ad abbandonarlo per spostarsi nell’entroterra. Così non c’è da stupirsi troppo se, tra una copia e l’altra del passo implicato, la del tutto sconosciuta Lunae possa essere stata sostituita da Iunii, magari proprio perché termine ritenuto più in armonia con Iulii, anch’esso non più riconosciuto come scalo portuale.

Comunque siano andate le cose, la stesura originale del proverbio doveva essere la seguente: «tres esse in orbe portus: Lunae, Iulii et Brundusii» stabilendo in definitiva che i porti di Luna, di Giulio e di Brindisi erano gli unici al mondo degni d’essere considerati tali.

Questo almeno nella forma; nella sostanza il messaggio che si voleva veicolare era però forse ben altro.

La citazione del prezioso marmo bianco lunense riportata da Strabone fa infatti venire alla mente il noto passo in cui Svetonio16 riferisce che Augusto si vantava senza sottintesi di lasciare di marmo la città di Roma che aveva ricevuto di mattoni («marmoream se relinquere, quam latericiam accepisset»), facendoci così comprendere che la riorganizzazione del porto di Luna, e la conseguente notevole attività commerciale che vi era confluita, rientrava a pieno titolo nelle politiche economiche di ampio respiro che il princeps andava attuando. Lo stesso può dirsi a maggior ragione per il porto Giulio, creato praticamente dal nulla e che, come già riportato, Agrippa gli aveva persino intitolato perché ne rimanesse perenne memoria. Queste due imponenti iniziative rientravano pertanto, a dirla come il già citato verso di Virgilio, tra le «operumque laborem», vale a dire tra le opere esemplari che Augusto aveva compiuto per creare consenso. Il che fa sorgere il fondato sospetto che il proverbio facesse parte della minuziosa propaganda avviata da Mecenate, una specie di ministro della cultura e dell’informazione del governo augusteo, e che sia stato pertanto coniato ad arte per valorizzare i progetti portuali avviati in quel periodo.

In questa ottica anche la presenza nell’adagio del porto di Brindisi assume un significato diverso e ben più caratterizzante della sua del tutto ovvia notorietà.

Occorre infatti ricordare che il portus Brundusii rappresentava soprattutto una mirabile dimostrazione di opera compiuta dalla natura, come emerge ad esempio nei passi di Strabone17, quando lo qualifica porto spontaneo di grande pregio («εὐλίμενον»), oppure di Lucano18, quando lo descrive dotato di tutte quelle caratteristiche genuine che lo rendono approdo talmente sicuro che le imbarcazioni possono essere assicurate anche con una semplice tremula fune («ut tremulo starent contentae fune carinae»).

Nel proverbio il porto brindisino pare quindi piuttosto utilizzato come modello con cui confrontare i porti realizzati per mano dell’uomo.

A questo punto sembra evidente che, se nella forma il testo del proverbio stabiliva una semplice elencazione di porti importanti, nella sostanza intendeva far percepire che le attività promosse da Augusto sugli approdi portuali erano equiparabili alle migliori opere create dalla natura. In pratica, gli interventi compiuti per fare di Luna lo scalo commerciale che consentiva di sostituire nelle città al mattone il marmo e quelli eseguiti per realizzare dal nulla un bacino artificiale di sicuro ricovero, come avvenuto con il porto Giulio, erano paragonati all’approdo brindisino, ritenuto per l’appunto il portus per eccellenza.

Nella realtà, quindi, un riconoscimento di gran lunga superiore al banale accostamento alle «Bonaccie di quei mesi di Giugno e, Luglio» celebrato con convinta immaginazione dai cronisti brindisini.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1 Tucidide (V secolo a.C. – IV secolo a.C.), La guerra del Peloponneso, I 21, 1.

2 Erodoto era nato ad Alicarnasso ma, avendo partecipato alla fondazione della colonia panellenica di Thurii, ne acquisì la cittadinanza.

3 Erodoto (V secolo a.C.), Storie, IV 99, 5.

4 G. Uggeri, La terminologia portuale e la documentazione dell’itinerarium Antonini, in Studi Italiani di Filologia Classica, N.S. XL, 1-2, pp. 225-254, Felice Le Monnier, Firenze, 1968, p. 241.

5 G. Antonini, La Lucania, Forni Editore, Sala Bolognese, 1984, ristampa dell’edizione Tomberli, 1794, p. 188.

6 Galateo, De Situ Iapygiae, per Petrum Pernam, Basileae, 1558, p. 63.

7 G.M. moricino, Dell’antichità e vicissitudine della città di Brindisi, manoscritto ms_D12, Biblioteca pubblica arcivescovile “A. De Leo”, Brindisi, 14v.

8 A. della monaca, Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi, Pietro Micheli, Lecce, 1674, p. 30.

9 Svetonio (I secolo a.C.), Vita dei Cesari – Augusto, II 16, 1.

10 Tindilo: satira brindisina, Cesare Augusto imperatore, Brindisi, 2016.

11 Svetonio, cit., II 16, 2.

12 Virgilio (I secolo a.C.), Georgiche, II 154-163.

13 La Iapigia e varii opuscoli di Antonio de Ferrariis detto il Galateo, (collana diretta da Salvatore Grande), Tipografia Garibaldi, Lecce 1867, vol. I, p. I.

14 Ennio (III secolo a.C. – II secolo a.C.), Annali I, in persio (I secolo d.C.), Satire VI 9.

15 Strabone (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, V 2, 5.

16 Svetonio, cit., II 28,5.

17 Strabone, cit., VI 3, 6.

18 Lucano (I secolo d.C.), Farsaglia, II 608-621.

Maruggio: una colonna e una stampa

di Armando Polito

Comincio dalla colonna, che, secondo quanto leggo in Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Maruggio) sarebbe (il condizionale è mio perché manca qualsiasi riferimento ad ubno straccio di fonte),  tutto ciò che rimane dell’antica Cappella della Misericordia, edificata nel 1744, quasi di fronte alla Chiesa Madre , per volere di Costantino Chigi, allora commendatore di Maruggio.

(immagine e dettaglio  tratti ed adattati da GoogleMaps)

 

Il titolo di commendatore aveva a quei tempi una valenza ben diversa da quella di oggi per alcuni sostanziali motivi, sui quali mi piace soffermarmi. Era un beneficio  concesso a un cavaliere di un ordine cavalleresco militare, oggi è un semplice riconoscimento  concesso  ad un cittadino distintosi in un’attività particolare.  Allora poteva pure capitare che la commenda toccasse a qualche militare indegno (oggi si direbbe un criminale di guerra), oggi molto spesso si scopre, dopo qualche tempo, che il beneficiario era, solo per fare un esempio, un evasore fiscale … Qualche volta l’etimologia ha in sé qualcosa di premonitorio: commendatore è da commendare  (sinonimo di approvare o raccomandare) e questo dalla stessa voce latina commendare (con gli stessi significati che oggi ha la voce italiana), formata da cum=insieme e mandare=inviare. Sorge spontanea la domanda: Cosa o chi si inviava, insieme con chi o con che cosa e, infine, a chi? Comincio dall’ultimo, che è il più facile e che è l’anello forte della catena: il potente di turno. Cosa si inviava era la lettera contenente i meriti del candidato al beneficio; poi, siccome abbondare è meglio, è presumibile che in qualche caso il latore della missiva (chi si inviava) fosse anch’esso un personaggio importante, meglio ancora se ancora più importante del destinatario. Riassumendo: si mandava  (la lettera) con (qualcuno) o si mandava (qualcuno) con (la lettera). Nel primo caso con ha un valore strumentale, nel secondo di unione. Tuttavia, dato per scontato che la lettera dovesse essere inviata non tramite posta elettronica, potrò essere tacciato di furbizia dicendo che il complemento di unione poteva essere costituito da un bel regalo di fulminante impatto psicologico condizionante? E questa volta verrebbe fuori: mandare (la lettera con qualcuno)  con (un regalo-acconto). Avrete notato come in tutta questa disquisizione la parola merito è assente; eppure, il primo significato della voce latina era proprio quella di approvare, cioè di riconoscere il giusto o il valido.

Non è finita. Commendatore è dal latino commendatore(m) che vuol dire protettore, si suppone di certi valori o, dato per scontato che anch’egli lo faccia,  delle persone che per quei valori hanno rispetto. Questo spiega perché commendatore, quando ci saremmo aspettato che il destinatario della commenda (questo era il nome tecnico del beneficio) si chiamasse commendato o commendatario. Comunque, commendato o commendatore o commendatario che sia, le sue responsabilità non erano di poco conto e investivano tanto la sfera temporale che quella religiosa: nominava il capitano (poi governatore) della collettività  per l’amministrazione della giustizia e le altre funzioni legate all’ordine pubblico, sceglieva gli amministratori locali tra quelli designati dal popolo; nominava il vicario generale, l’arciprete della Chiesa Madre e i cappellani delle altre chiese, nonché il sostituto (luogotenente) del capitano in caso di sua assenza. Il commendatore, perciò, doveva essere persona capace, dotata di “fiuto” e provata dirittura, una sorta  di meritevole (per via dell’esempio dato) paladino del merito. Mi vien da pensare, per contrasto, ai tanti commendati di oggi (e anche ai commendanti …) che continuano a fregiarsi del titolo (per quel che vale … ma per certi personaggi ogni titolo costituisce metaforicamente la pietra del proverbio salentino ogni ppetra azza parete=ogni pietra leva il muro; quello del fumo con cui annebbiano la vista degli ingenui) pur essendo stati condannati penalmente una o più volte. Lascio a chi legge ogni ulteriore considerazione … in merito.

Preferisco, infatti, tornare al passato, nonostante le sue ombre non dovute certo soltanto al trascorrere del tempo …,, proprio con Costantino Chigi. Già il cognome è tutto un programma, trattandosi di una delle più potenti casate; e poi, a proposito di … programma e di potere (che oggi non è certo sinonimo di potenza, come autorità non lo è di autorevolezza) basta pensare a Palazzo Chigi …

Non molte sono le notizie che son riuscito, nel breve tempo di due o tre giorni,  a reperire su di lui, a parte, nella scheda di Maruggio su Wikipedia al link segnalato, l’intervallo di tempo (1733-1774) in cui sarebbe stato commendatore della cittadina salentina.

Comincio dalle fonti letterarie:
Lo scuoprimento di Giuseppe a’ fratelli rappresentato nelle vacanze del Carnevale 1721 da’ Signori Convittori delle camere Piccole del nobil Collegio Tolomei, dedicata  all’Illustrissimo  Signor Marchese  Vincenzo Riccardi, Stamperia del Pubblico, Siena, 1721, s. p. :

 

Il Sentiero della gloria. Accademia di Lettere, e d’Armi dedicata Alla Serenissima Altezza Elettorale di Massimiliano, Duca dell’Alta e Bassa Baviera, etc. Conte Palatino  etc. Elettore del Sacro Romano Imperio da’ Signori Convittori del Nobil Collegio Tolomei di Siena, Stamperia del Pubblico, Siena, 1722, p. 9:

 

Tributi d’onore prestati alla Memoria dell’Altezza Reale di Cosimo III Granduca di Toscana Accademia d’Armi e di Lettere tenuta da’ Signori Convittori del Nobil Collegio Tolomei e da essi dedicata all’Altezza Reale  del Gran Duca Giovanni Gastone,  Stamperia del Pubblico, Siena, 1724, p. 27:


Catalogo della Biblioteca del sagro militar ordine di S. Giovanni Gerosolimitano oggi detto di Malta compilato da Fra Francesco Paolo De Smitmer, Commendatore dello stesso Ordine, e Canonico della Chiesa Metropolitana di Vienna in Austria, s. n., s. l. 1781, p. 80:

Se le prime tre testimonianze sono riferibili agli anni giovanili di Costantino in quanto convittore del Collegio dei Tolomei  e in esse il titolo di cavaliere è una costante che sottintende gerosolimitano (nell’ordine potevano essere accolti anche minori, come più avanti documenterò), l’ultima non solo ha lasciato il titolo dell’unica opera, pur rimasta manoscritta, conosciuta del nostro3, ma  attesta inequivocabilmente la sua appartenenza ai cavalieri di Malta, nel cui ordine era entrato nel 1719.4

E lo conferma, aggiungendo altri preziosi dettagli,  l’epigrafe (oggi traslata e murata nel portico De Cateniano a Brindisi) del 1572 che ricorda la ricostruzione della chiesa di San Giovanni, sempre a Brindisi, distrutta dal terremoto del 20 febbraio 1743:

TEMPLUM HOC PRAECURSORE  MAGNO HIEROSOLYMITANO  DICATUM VETUSTATE AC TERRAEMOTU COLLAPSUM SUPPELECTILIBUS SACRIS ETIAM VIDUATUM FR COSTANTINUS CHISIUS EX MARCHIONIBUS MONTORUS EQUES HIEROSOLYMITANUS ET IAM PRAEFECTUS TRIREMIBUS  CAMERAEQUE MAGISTRALIS TERRAE MARUBII NULLIUS COMMENDATARIUS UT BRUNDUSINORUM VOTIBUS ANNUERET NON ALIO UT PAR ERAT SED CENSU SUO RESTAURAVIT COLUIT ORNAVIT A. D. 1752

(Questo tempio, dedicato al grande precursore gerosolimitano1 , crollato per l’età e per il terremoto, privato pure dei sacri arredi, Costantino Chigi dei marchesi di Montorio, cavaliere gerosolimitano e già prefetto alle triremi e commendatario della Camera magistrale2 di Maruggio terra di nessuno, per accondiscendere al desiderio dei Brindisini non a spese altrui, come sarebbe stato in suo potere fare, ma sue, ricostruì,  curò, ornò nell’anno del Signore 1752).

Apprendiamo dall’epigrafe che alla data del 1752 il nostro da tempo (già) era prefetto alle triremi;  Quel generico già può assumere connotati cronologici più precisi sulla scorta di quanto (Capitano di Galera) è riportato nel Ruolo generale de’ Cavalieri gerosolimitani  (compilazione fatta da Bartolomeo Del Pozzo fino al 1689. integrata da Roberto Solaro fino al 1713 e con un’ultima aggiunta, senza il nome dell’autore, fino al 1738), Mairesse, Torino, 1738, p. 292:

Dunque, alla data del 1738 il nostro era già Capitano di galera, grado che ritengo senza dubbio equivalente al Praefectus triremibus dell’iscrizione). Ho voluto,inoltre,  riportare buona parte dell’intera pagina perché di minore età risultano essere molti inclusi nell’elenco dei cavalieri gerosolimitani, come prima abbiamo visto anche per il convittore cavaliere Costantino, che era entrato nell’Ordine nel 17195.

Nulla si oppone, dunque, a credere che nel 1744, un anno dopo il ricordato terremoto proprio il commendatario  Costantino abbia riedificato a Maruggio  la Cappella della Misericordia inglobando la colonna superstite del vecchio tempio,  ma, come ho detto all’inizio, per il crisma della certezza è necessario un riscontro documentale (una visita pastorale, un’epigrafe, una memoria contenuta in una cronaca dell’epoca, o simili).

È, dopo quello della la colonna,  è il momento  della stampa, un’incisione di Freicenet su disegno di Jean Barbault (1718-1762), custodita nell’Istituto Max Planck a Firenze. La didascalia  è divisa in tre sezioni. Quella a sinistra reca il titolo: Veduta della Piazza di Spagna  1 Fontana detta la Barcaccia, Architettura del Cavalier Bernino  2 Scalinata, che conduce sul Monte PIncio  3 Chiesa della SS. Trinità de’ Monti  4 Collegio de Propaganda Fide   5 Strada Paolina. La centrale contiene la dedica da parte degli editori:  ALL’ILLUSTRISSIMO SIGNORE IL SIG. CAVALIERE FRA’ COSTANTINO CHIGI  Commendatore della gran commenda di Maruggio ec. ec. Da Suoi Umiliss. Devotiss. Obligatiss. Servitori Bouchard e Gravier. Nella sezione a destra si legge la traduzione in francese del testo della prima: Vue de la Place d’Espagne  1 Fontaine appelée la Barcaccia, Architecture du cavalier Bernin   2 Scalier qui conduit  sue le mont Pincius  3 Eglise de la SS. Trinité sur le dit mont  4 College de Propaganda Fide  5 Rue Paoline

__________

1 Ordine religioso cavalleresco istituito nel secolo XI sotto la protezione di san Giovanni di Gerusalemme, denominato in seguito Ordine dei Cavalieri di Rodi e attualmente dei Cavalieri di Malta.

2 Sulle prerogative della Camera magistrale vedi Codice del sacro ordine gerosolimitano, Stamperia del palazzo di S. A. E. per fra’ Giovanni Mullia suo stampatore, Malta, 1782, pagina 329 e seguenti.

3 Brevi cenni biografici su Marcantonio Zondadari, ma senza alcun riferimento alla sua biografia manoscritta del nostro, sono in Notizie di alcuni Cavalieri  del sacro Ordine Gerosolimitano  illustri per Lettere e per Belle Arti raccolte dal Marchese di Villarosa, Stamperia e cartiere del Fibreno, Napoli,  1841, p. 346; Costantino, inoltre, non compare tra i cavalieri ricordati in quest’opera. Il suo nome compare, invece, con quello di altri membri della sua famiglia,senza cenno alcuno,però, alla commenda di Maruggio,  in

4 Francesco Bonazzi, Elenco dei cavalieri del S. M. Ordine di san Giovanni di Gerusalemme ricevuti nella veneranda lingua d’Italia dalla fondazione dell’Ordine ai nostri giorni, parte seconda (dal 1714 al 1907), Libreria Detken & Rocholl, Napoli, 1907, p. 48:


La data del  1719 è confermata, con indicazione anche di altri dati importanti come l’anno di nascita, in Ruolo delli Cavalieri Cappellani Conventuali, e serventi d’armi ricevuti nella veneranda lingua italiana della sacra religione gerosolimitana e distinti nelli rispettivi priorati, Stamperia del Palazzo di S. A. E. per Fra Giovanni  Mallia suo Stampatore, Malta, 1789, p. 3:

Dalla scheda apprendiamo pure, in conformità con la spiegazione delle abbreviazioni date nella pagina precedente,  che al momento della ricezione era Paggio (Pa.) mentre Frate (F.) allude al fatto che era professo,cioè aveva preso i voti. Nell’ultima colonna  Commendatore (Comm.) Priorato di Venezia (V.) e 24 è il numero progressivo della carica, secondo quanto riportato a p. 45:

In testa l’indicazione toponomastica della commenda , nella seconda colonna la motivazione (Cabimento, voce di origine portoghese che significa opportunità, convenienza)  del conferimento della carica, nella terza la data del conferimento.

5 I Cavalieri di Malta governarono Maruggio dal 1317 (il primo commendatore fu Nicola De Pandis) al 1801 (l’ultimo fu Giuseppe Caracciolo).

L’avventura di Cleonimo e la presunta inesistenza del promontorio brindisino

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di Nazareno Valente

Come altri condottieri greci, anche Cleonimo, spartano di stirpe reale, giunge nella penisola salentina su pressante richiesta dei Tarantini, in quel periodo in aperto conflitto con i Lucani (fine IV secolo a.C.)1. Il suo intervento, il cui obiettivo dichiarato è quello di venire in aiuto della colonia lacedemone, non è però del tutto privo di personali mire di conquista, e forse questo tramuta l’iniziale sostegno in manifesto dissenso. Infatti, in breve, i Tarantini gli si ribellano e, sostenuti anche dai Messapi, lo obbligano a salpare ed a tornarsene a Corcira2.

Cleonimo intraprende a questo punto una nuova incursione che lo porta sull’alto Adriatico, dove però non ha migliore fortuna, in quanto gli abitanti di Padova gli infliggono una sonora sconfitta e lo fanno desistere da ogni ulteriore tentativo di scorreria3. Ed è proprio l’inizio di questa seconda parte della sua avventura4 — più in particolare l’incipit del passo di Livio che la racconta — che vorremmo qui prendere in considerazione.

Narra infatti Livio che «Circumvectus inde Brundisii promunturium, medioque sinu Hadriatico ventis latus…»5, vale a dire che, doppiato il promontorio di Brindisi, Cleonimo fu spinto dai venti in mezzo all’Adriatico.

Ora gli storici assegnano poca fiducia a questo luogo di Livio, in forza d’una presunta inesistenza del promontorio brindisino6. Scrive infatti Braccesi: «Il porto di Brindisi non è delimitato né a nord né a sud da promontorio alcuno; anzi si apre inaspettatamente sulla linea di costa… quasi celandosi allo sguardo del navigante… Quindi, poiché Cleonimo si imbarca fuggitivo da una regione bimare, come il Salento, è assai probabile che Livio designi qui per estensione come promunturium Brundisii il Capo Iapigio»7.

In effetti il porto di Brindisi, com’è attualmente, non presenta evidenti promontori, quanto meno nelle immediate vicinanze; tuttavia, ai tempi di Livio, la situazione era alquanto diversa.

Già la città di per sé stessa giace su un basso promontorio, con le sue colline posizionate a nord e a sud che si protendono sul mare, ma quel che più è interessante è che, nelle immediate vicinanze del canale d’accesso al porto interno, ci sono dalla parte del ramo di ponente la Costa Guacina ed a levante la Punta Le Terrare, il cui paesaggio costiero ha subito notevoli trasformazioni nel corso dei secoli.

La Punta Le Terrare in particolare è un sito indigeno dell’Età del Bronzo e quindi, per elemento caratterizzante, sorgeva con molta probabilità su un promontorio o un’altura comunque consistente. D’altra parte questa sua caratteristica, già richiamata nel nome, viene tuttora ricordata tant’è che l’autorità portuale nel proprio sito parla esplicitamente nei cenni storici di “promontorio” di Punta Le Terrare8; peculiarità per altro evidenziata anche in studi scientifici9. E tutto questo a prescindere dal ritiro della linea di costa e dall’innalzamento del livello del mare determinatisi con il trascorrere del tempo10.

Analoghi processi naturali hanno coinvolto la Costa Guacina che ha subito in aggiunta non banali lavori di sterro necessari a portarla a livello del mare, in quanto destinata agli inizi del secolo scorso a stazione per idrovolanti, per necessità militari.

Occorre poi ricordare le opere succedutesi nel corso degli ultimi quasi trecento anni per il risanamento del porto che hanno anch’esse ulteriormente modificato la situazione in maniera tale che, non a caso, una loro narrazione fa riemergere l’ormai dimenticato «promontorio su cui sorge la città»11. Quindi, anche in giorni non troppo lontani dai nostri, la costa brindisina non si presentava affatto piatta ma proponeva collinette che, pur non ritenute degne d’essere messe in evidenza dai cartografi, giustificavano in ogni caso l’utilizzo d’un simile termine e rendevano ben visibile l’insenatura del porto ai naviganti. A maggior ragione, per le considerazioni già fatte, doveva esserlo ai tempi in cui scriveva Livio, quando lo scenario che si manifestava agli occhi d’un viaggiatore proponeva coste con pendii ancor più accentuati12.

Non credo a questo punto che vi sia motivo per non dare fiducia allo storico patavino e per non riconoscere che Cleonimo abbia effettivamente superato le coste brindisine, e non, come ora ritenuto, altro promontorio.

E c’è un’altra considerazione che spingerebbe a sostenere una tale ipotesi.

Ciò che dapprima appariva incoerente – e che di fatto mi ha incuriosito – era che Cleonimo, dopo aver doppiato il supposto Capo di Santa Maria di Leuca, fosse stato sospinto dai venti addirittura nel mezzo dell’Adriatico; evenienza questa alquanto strana, considerata la posizione del summenzionato luogo. Se invece supponiamo che Livio abbia voluto effettivamente indicare la costa brindisina, anche questa eventuale inesattezza verrebbe a cadere, ed il passo non conterrebbe due sviste consecutive in poco più d’una riga.

 

NOTE

1 Diodoro, Biblioteca Storica, XX 104, 1-2.

2 Diodoro, cit., XX 105, 1-3.

3 Livio, Dalla fondazione di Roma, X 2, 1-4.

4 Invito chi fosse interessato ai dettagli a consultare l. Braccesi, L’avventura di Cleonimo, Esedra, Padova, 1990.

5 Livio, Cit., X 2, 4.

6 Braccesi, Cit., p.31; f. grelle – m. silvestini, La Puglia nel mondo romano: storia d’una periferia., Edipuglia, Santo Spirito, 2013, p. 47.

7 Braccesi, Cit., p.31.

8 http://ww.portodibrindisi.it/1/id_29/Cenni-storici.asp

9 Auriemma, Salentum a Salo, Congedo, Galatina, 2004, p. 111.

10 Auriemma, cit., pp. 22-30.

11 Palma, la grande guerra nell’Archivio di Stato di Lecce e negli archivi storici comunali,in L’Idomeneo, n.18, Il Salento e la Grande Guerra. Atti del seminario di studi, Lecce, 2014, p. 37.

12 Va pure evidenziato che appena a nord di Brindisi s’eleva Torre Guaceto il cui promontorio, unitamente alle tre isolette antistanti ed alle due di Apani, costituiva in antico un’unica linea costiera di non banale rilievo.

 

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