Libri| La maledizione del Travancore

 

É un curioso giallo che attraversa il tempo questo “Ultime voci dai fondali profondi-La maledizione del Travancore” (titolo liberamente adattato da un verso del Poeta magliese Salvatore Toma) scritto da Pier Francesco Liguori e Francesco Bucci per Les Flâneurs Edizioni di Bari. Un’avventura che parte nel 1880 e si conclude ai giorni nostri portandoci dal Salento a Torino, dall’Egitto a Londra.

É uno di quei libri che sarebbe il caso di affrontare senza saperne assolutamente nulla, perché gli autori costruiscono una storia che si snoda senza fretta tra i luoghi e i tempi. Tutto parte da un naufragio, effettivamente accaduto, sulle coste di Castro, in Puglia. Siamo nel 1880 e il medico del paese si occupa di assistere una donna che mostra segni preoccupanti. Sembra l’inizio di un’avventura incentrata in quegli anni ed il lettore finisce quasi per convincersene,  quando arriva invece il salto temporale di quasi un secolo, che sembra raccontarci un’altra storia.

Ovviamente ben presto i collegamenti sono chiari e la nuova avventura getta profondamente le radici in quello che è successo un secolo prima e poi negli anni a venire. Il centro della vicenda possiamo fissarlo negli anni 70 del Novecento, ma quanto accaduto prima non è solo un’introduzione.

Scopriamo così un mondo antico ed uno meno antico, ma molto lontano da quello di oggi. Ci addentriamo in una vicenda che parla di misteri, di antico Egitto, di maledizioni… Eppure tutto è narrato come una storia di famiglie e personaggi che vivono il loro tempo.

Al centro troviamo il medico del paesino, quello del 1880 ed il suo successore del secolo successivo, figlio di emigrati del Sud, che arriva da Torino e porta in dote tre lettere recuperate al Balôn – il famoso mercatino delle pulci della città sabauda -lettere antiche, lettere private, che lo legano ad una storia misteriosamente avvenuta proprio in quei luoghi.

E poi abbiamo giovani ragazze degli anni ’70, un sindaco, un archeologo che arriva dal Sud America. E non manca l’incontro con alcuni personaggi storici che in qualche modo si legano alla vicenda inventata, da Lombroso ad Arthur Conan Doyle al fisiologo salentino Filippo Bottazzi, collega e amico di quel Giuseppe Moscati che sarà elevato all’onore degli altari nel 1987.

Insomma un bel crogiuolo di storie e personaggi. Un mistero da risolvere. Figure di cui innamorarsi. Ma soprattutto una storia ottimamente narrata, da godersi pagina dopo pagina, senza fretta e senza troppa voglia di arrivare alla soluzione finale.

Mostre| Il cuore di Adriano Radeglia

a cura di Danilo Pastore

Partner Lightingdesign Andrea Ingrosso

Una celebrazione artistica del cuore in due luoghi sacri; l’ex chiesa di San Sebastiano a Lecce – oggi Fondazione Palmieri – ed il portale e sagrato della chiesa di Sant’Anna a Mesagne, in provincia di Brindisi.

L’artista Adriano Radeglia, con un lungo background di sperimentazioni e ricerche nel campo delle più varie espressioni artistiche, sceglie, per questo progetto, le potenzialità plastiche dell’argilla, suo materiale d’elezione. Egli plasma la materia in maniera sapiente e dà forma alle opere introducendo nel suo lavoro una nuova valenza simbolica. La natura come spunto per incuriosirsi e le ricerche artistiche delle stagioni degli anni Cinquanta e Sessanta solo come punto di partenza di un linguaggio informale da superare in una nuova definizione delle forze primigenie.

Il cuore di Adriano Radeglia è fatto di acqua, terra e fuoco. Eppure l’artista lascia intendere che siamo ben lontani dalle forme plasmate dagli elementi naturali. Nel gioco di rimandi, messo in scena nel buio del luogo sacro, abbiamo l’esatta percezione che l’artista voglia sussurare alle nostre coscienze che in fondo è semplice accettare le emozioni proprie e quelle altrui come atti naturali.

“Come è più difficile a ‘ntendere l’opere di natura che un libro d’un poeta” (Leonardi da Vinci).

Il progetto prenderà vita a Lecce lunedì 13 dicembre alle ore 17, si protrarrà nelle serate del 14 e 15, fino alle 22, e sarà ospitato a Mesagne nelle serate del 18 e 19 dicembre dalle 17 alle 22.

 

Lecce – 13/14/15 dicembre dalle 17 alle 22
Mesagne – 18/19 dicembre dalle 17 alle 22

Spigolature bibliografiche sul Settecento letterario minore

di Paolo Vincenti

Il Settecento letterario meridionale è caratterizzato da una vasta produzione di scritture di viaggio, che costituiscono una non trascurabile fonte per la conoscenza di usi e costumi, economia, politica e religione, del nostro territorio durante il secolo dei Lumi. Molto si è scritto sull’apporto dato da questi documenti letterari compilati dai visitatori stranieri in trasferta nelle nostre terre. A voler dare una lettura trasversale di una simile messe letteraria, si offrono delle noterelle bibliografiche che legano insieme certe opere della letteratura odeporica settecentesca, con alcuni dei maggiori protagonisti di Terra d’Otranto che hanno informato di sé la seconda parte del secolo, culminata nella Rivoluzione Napoletana del 1799. Nello specifico, vengono trattati l’abate francese Richard de Saint-Non ed il suo Voyage pittoresque ou Description des royaumes de Naples et de Sicile. Si ripercorrono le tappe della travagliata genesi di quest’opera monumentale e i rapporti dell’abate con la corte borbonica napoletana e del suo editore Benjamin Delaborde con il canonico Annibale De Leo, attraverso un’opera poco conosciuta del Vescovo di Brindisi. L’opera di Saint Non si lega strettamente a quella di un altro viaggiatore, l’inglese Henry Swinburne, e cioè Travels in the Two Sicilies by Henry Swinburne in the Years 1777, 1778 e 1779,  attraverso un caso di furto letterario di cui si forniscono i dettagli. Lo Swinburne, a sua volta, è legato al Vescovo di Taranto Giuseppe Capecelatro, attraverso il salotto culturale dell’ambasciatore inglese William Hamilton. Il Capecelatro, che fornisce allo Swinburne molto materiale per il suo libro, anche attraverso le ricerche malacologiche del naturalista Padre Antonio Minasi, era al centro di un vasto movimento culturale fra Taranto e Napoli a fine Settecento ed è complice e auspice delle opere di altri viaggiatori stranieri in Terra D’Otranto, quali il Conte svizzero Carlo Ulisse De Salis Marschlins e gli scrittori tedeschi Friedrich Leopold Stolberg e Georg Arnold Jacobi.  Di furti letterari, e non solo, si potrebbe parlare allora, o anche di libere reinterpretazioni, con riferimento a certi scambi culturali, e di seguito se ne capirà il motivo.

 

Come si sa, con il termine Grand Tour si indica il viaggio di istruzione e di formazione, ma anche di divertimento e di svago, che le élites europee intraprendevano attraverso l’Europa fra Settecento e Ottocento. Protagonisti di questo vasto fenomeno, quegli intellettuali europei che percorrevano l’Europa, imbevuti di cultura classica e affascinati dalla bellezza dell’Italia nella quale essi vedevano la culla dell’arte e per esteso della civiltà mediterranea. Quando vengono avviati gli scavi archeologici a Pompei ed Ercolano, sotto il Re Carlo di Borbone nel 1748, il Grand Tour nel nostro Paese riceve un ulteriore incremento[1].

Fra i viaggiatori francesi, un posto di primissimo piano spetta all’Abate Jean-Claude Richard de Saint-Non(1727-1791), con il suo Voyage pittoresque ou Description des royaumes de Naples et de Sicile, un’opera consistente, molto citata in tutte le biografie, dalla travagliata gestazione. L’abate era un uomo di straordinaria cultura e un personaggio eclettico: erudito, pittore, secondo alcune fonti anche musicista, scrittore ed editore, con una grande passione per l’arte e per la storia[2]. Con Benjiamin Delaborde progettò una grande opera divisa in due parti, una dedicata alla Svizzera e una all’Italia, da pubblicare in un unico libro. Ma i progetti iniziali cambiarono, a causa di un parziale fallimento della prima uscita dell’opera. L’Abate di Saint Non fece il suo viaggio fra il 1759 e il 1761. Fra i suoi collaboratori, Jean Louis Desprez, pittore e architetto, che fu in Italia dal 1777 al 1784, prima di essere chiamato in Svezia alla corte del Re Gustavo III, dove rimase per il resto della vita. A lui si devono i bellissimi acquerelli che illustrano il Voyage del Saint Non[3]. Di tutti i suoi magnifici disegni, particolarmente degni di nota sono quelli che riproducono monumenti oggi non più esistenti, come la Madonna di Santa Croce di Barletta, l’antico assetto della Cattedrale di Trani, quello della Piazza Sant’Oronzo di Lecce[4].

Ma la collaborazione più importante di Saint Non, per quanto gravida di spiacevoli conseguenze, fu quella con Vivant Denon (1747-1825), autore di buona parte dei testi del libro, pittore di talento, egittologo e diplomatico in Russia, Svezia, Svizzera e a Napoli, autore del fondamentale Voyage dans la Haute e direttore del Louvre sotto Napoleone, che seguì nella campagna d’Egitto[5]. Il motivo per cui Denon si ritrovò fra gli autori del Voyage si deve al fatto che Saint Non, nel suo viaggio in Italia, si era fermato a Napoli e non conosceva le altre regioni meridionali. Affidò dunque a Dominique Vivant Denon l’incarico di compiere il viaggio alla volta di Sicilia, Calabria, Puglia. Questi riportò le sue annotazioni di viaggio, o come si diceva allora “impressioni”, che però l’abate non recepì in toto ma volle rimaneggiare e adattare a quello che era il suo precostituito disegno, soprattutto per conciliare il testo con le immagini realizzate da lui stesso e dai numerosi collaboratori. Fu così che Saint Non venne accusato di plagio da Denon, sebbene egli fosse il committente dell’opera e quindi in pieno diritto di utilizzare il materiale che aveva profumatamente pagato. Bisogna infatti aggiungere che lo sforzo finanziario sostenuto per la realizzazione dell’opera fu notevole, in ispecie dopo il primo insuccesso dell’iniziativa editoriale e le ingarbugliate vicende burocratiche che ne seguirono. Il risultato finale però fu notevole. Il Voyage viene pubblicato in 4 tomi e diviso in 5 grandi volumi in-folio, fra il 1781 e il 1786.

Il primo tomo è interamente dedicato a Napoli. Saint Non è prima di tutto colpito dall’arte e quindi riserva alla pittura, alla scultura e all’architettura la maggiore attenzione, anche per i suoi interessi personali di pittore e curatore d’arte; un posto importante è occupato dall’antropologia, ossia dall’osservazione degli usi e costumi del popolo napoletano. Importanza viene riservata anche al Vesuvio e quindi alla storia naturale. In questo, il Saint Non era influenzato senz’altro dal circolo culturale vicino alla corte borbonica che egli frequentava e che vedeva fra i principali promotori l’ambasciatore inglese William Hamilton, accreditato vulcanologo. Saint Non, da erudito e appassionato della civiltà classica, non può non riportare nelle sue descrizioni anche quanto dicono gli autori greci e latini e quindi la storia dei luoghi. Il tutto corredato dalle stupende vedute dei pittori, in primis Desprez. Il secondo tomo è dedicato alla Campania e agli scavi di Ercolano e Pompei, che in quel momento suscitavano l’interesse appassionato della comunità scientifica europea. Il terzo tomo è dedicato alla Magna Grecia. Si descrivono i monumenti di Puglia, Basilicata e Calabria, le colonne, le monete e le antiche vestigia della civiltà classica. Il quarto tomo è dedicato alla Sicilia. Dalla descrizione di Saint Non emerge buona parte della civiltà di Terra d’Otranto negli anni della dominazione borbonica. Più specificamente, nel terzo tomo, dedicato alla Magna Grecia, vi è la descrizione del viaggio da Napoli a Barletta (passando per Benevento, Lucera, Siponto, Manfredonia, Monte Sant’Angelo), da Canne a Polignano (passando per Canosa, Trani, Bisceglie, Bari, Mola e l’abbazia di San Vito), da Polignano a Gallipoli, attraverso la Terra d’Otranto (passando da Brindisi, Squinzano, Lecce, Soleto e Otranto), infine da Taranto sino ad Eraclea, passando per Metaponto, Bernaldo e Policoro, e giù fino alla Sicilia. Nel nostro territorio, l’autore si sofferma sul Castello di Brindisi, sul Chiostro dei Domenicani di Lecce, e poi su Maglie, Otranto, fino al Tallone d’Italia.

Come detto, però, la collaborazione con Denon sfociò in una denuncia di plagio. Alla base di questo inconveniente fu la rottura fra l’Abbè e il primo editore dell’opera, Benjamin de Laborde (1734-1794), compositore e storico della musica, uno degli uomini più influenti della corte di Luigi XV. Denon, forse sobillato dall’editore Laborde (deluso e amareggiato per essere stato escluso dal progetto), accusò Saint Non di essersi appropriato dei suoi testi, senza citarlo come autore, sebbene queste fossero le precise condizioni contrattuali sottoscritte dallo stesso Denon.

Ma ora lasciamo un momento il Saint Non per occuparci di un altro viaggiatore del Settecento nelle nostre contrade. L’inglese Henry Swinburne (1743–1803) pubblicò la sua opera Travels in the Two Sicilies by Henry Swinburne in the Years 1777, 1778, and 1779, in due volumi nel 1783-85, con una successiva edizione nel 1790, sul suo viaggio fatto in Calabria, Sicilia e Puglia tra il 1777 e il 1779. Il primo volume include cenni storici sul Regno di Napoli, tabelle riguardanti le dinastie, le monete, le unità di misura, le strade, le rotte e una descrizione geografica dei territori. Nel secondo volume, si sofferma sul territorio pugliese e, cosa che ci interessa più da vicino, su Terra d’Otranto. Nel suo viaggio era assieme alla moglie Martha Baker. L’opera è un documento veritiero della realtà delle province meridionali del Settecento, perché tratta di testimonianze raccolte sul campo dall’autore, si potrebbe dire in presa diretta. Di particolare interesse, il suo disappunto di fronte al barocco leccese e a quello che ne è il monumento simbolo, la Chiesa di Santa Croce, che derubrica a pessimo esempio di commistione fra stili diversi. Lo Swinburne detesta la città di Lecce e la sua architettura, però racconta gli aneddoti, le leggende, le tradizioni e le curiosità che raccoglie parlando con la gente del luogo[6].

Nella prima traduzione in francese dell’opera, nelle note, viene riportato proprio il diario di viaggio di Denon, prima ancora che questo fosse pubblicato da Saint Non, ossia dal legittimo proprietario. Le traduttrici francesi erano Mademoiselle de Kéralio e Madame de La Borde. Lo conferma lo stesso autore nella Prefazione alla seconda edizione: «Due signore hanno onorato il mio lavoro con traduzioni in francese: una è Mademoiselle de Kéralio, una stimata scrittrice di biografie; mentre l’altra è Madame de La Borde, l’amabile e compita moglie di un Fermier-General, ultimo cameriere personale di Luigi XV. La sua versione è elegante e stampata in uno stile molto bello da Didot. Suo marito, che ha pubblicato una storia della musica di grande valore, ha aggiunto due volumi di note per correggere le mie mancanze, dove credeva di averne trovate e per spiegare più dettagliatamente molti punti relativi alla storia, alla chimica e alla musica, che erano stati solo toccati. Ho adottato le sue correzioni dove le ho ritenute giuste e ho aggiunto le informazioni che ho ricevuto sulle Due Sicilie dopo la pubblicazione della prima edizione»[7].

Il marito della Laborde altri non è che il già citato editore Benjamin, il quale non si fece scrupoli di pubblicare il materiale inedito di Denon senza l’autorizzazione del legittimo proprietario. Ma c’è di più. In questo contesto si inserisce anche la figura del Canonico Annibale De Leo, Vescovo di Brindisi (1739-1814)[8].

Infatti, Laborde, quando era ancora coinvolto nel progetto editoriale del Voyage, invia una lettera al Canonico De Leo, il 2 agosto 1779. La lettera, che si trova presso la Biblioteca arcivescovile di Brindisi, viene pubblicata per la prima volta da Franco Silvestri (a lui segnalata dall’allora bibliotecario della “De Leo”, Rosario Jurlaro), nella sua edizione del Voyage Pittoresque[9]. In questa lettera, Laborde chiede al canonico De Leo di inserire un suo saggio su Brindisi all’interno dell’opera di Saint Non. Da questa lettera si rileva il fatto che Delaborde nel 1779 non solo era ancora coinvolto nella realizzazione dell’opera, ma anzi la riteneva interamente sua, o almeno, a sé stesso la accreditava nella missiva al presule brindisino, al quale chiedeva anche un’opera sulla “Vita di Pacuvio”, di cui il Denon gli aveva parlato[10]. Questo dimostra che l’impianto originale del Voyage doveva essere diverso e avvicinarsi di più ad un’opera collettiva, una raccolta di saggi di studiosi locali sul territorio dell’Italia Meridionale. Forse anche a questo cambio di impostazione si devono le divergenze fra il vero autore Saint Non e l’editore “millantatore” Delaborde. Non c’è la risposta di De Leo, così come all’interno dell’opera dell’abate francese non compare il saggio dello storico brindisino. Ciò ha portato gli studiosi a credere che De Leo avesse opposto un diniego alla richiesta di Laborde[11].

tavole di Castellan inserite nel testo Lettres sur l’Italie. Colonna di Brindisi

 

L’opera su Brindisi venne pubblicata autonomamente nel 1843[12].Vito Guerriero, il curatore dell’opera, che trova il manoscritto ancora inedito presso la Biblioteca e lo pubblica, spiega nell’Introduzione: «Si sapeva comunemente e con certezza, che il signor De la Borde, gentiluomo di Camera di Luigi XVI, ed autore del Viaggio pittoresco d’Italia, capitato in Brindisi, ebbe premura di trattare col prelato De Leo, come letterato di gran rinomanza. Tra le altre cose di cui si parlò nelle dotte lor conferenze, cadde discorso sopra una memoria inedita del detto De Leo, portante il titolo testé enunziato. L’importanza del soggetto mosse il signor De la Borde a chiederne la lettura, della quale gentilmente accordatagli fu invaghito in maniera che, come in attestazione di stima, pregò il De Leo ad essergli compiacente di dargli quello autografo, sulla parola di onore di farlo stampare in Parigi nel suo ritornarvi… la Memoria però, o per la morte di costui o per gli sconvolgimenti da lui trovati in Francia nel suo ritorno, non fu mai stampata né mai se ne poté sapere il destino»[13].

Il porto di Brindisi ritorna nell’opera pittorica di un altro viaggiatore straniero, val bene Jacob Philipp Hackert (1737-1807), con I porti delle Due Sicilie (prima versione stampata a Napoli nel 1792)[14]. Hackert era pittore di corte del re Ferdinando IV e in questa veste fu in Italia con molti incarichi come quello di supervisionare il trasferimento della collezione Farnese da Roma a Napoli. Ma l’incarico più prestigioso che ricevette dal re Ferdinando IV fu la commissione del famoso ciclo di dipinti raffiguranti i porti del Regno di Napoli. Le numerose vedute dei porti si articolano in tre gruppi suddivisi tra le vedute campane, pugliesi, calabresi e siciliane. Per eseguire i disegni preparatori, si recò in Puglia e in Campania. La serie comprende 17 quadri e si trova ancora oggi custodita presso la Reggia di Caserta, massima realizzazione artistica voluta dal Re Carlo di Borbone; vi sono raffigurati esattamente i porti di Taranto, Brindisi, Manfredonia, Barletta, Trani, Bisceglie, Monopoli, Gallipoli, Otranto[15].

Annibale De Leo, avviato agli studi dallo zio, Ortenzio De Leo, illustre giurista, storico e scrittore, di formazione napoletana, divenne Vescovo di Brindisi nel 1797. Importante il suo rapporto con il frate cappuccino Giovan Battista Lezzi, casaranese, suo Segretario e biografo, che divenne, alla morte di De Leo, primo bibliotecario della biblioteca arcivescovile di Brindisi, fondata da De Leo nel 1798 (e che a lui oggi è intitolata), che constava di circa seimila volumi[16].

Ma perché i lettori non pensino che abbiamo perso il filo della nostra narrazione, torniamo al manoscritto del vescovo di Brindisi richiesto da Delaborde. Non è vero che De Leo non spedì mai l’opera al Delaborde. In realtà, il francese dovette di questa venire in possesso. Infatti, Petra Lamers ci fa sapere dove andò a finire[17]. Il Laborde inserì alcuni estratti dell’opera di De Leo proprio nelle note sulla traduzione francese di Travels in the Two Sicilies di Swinburne, curata dalla moglie, per l’esattezza nel volume 2, da pag.249 a pag.262, dove si parla di Brindisi[18]. Ma nella descrizione e storia del porto di Brindisi, l’editore non fa riferimento al canonico De Leo. Ciò dimostra la abituale scorrettezza del Laborde, a tutto vantaggio dell’Abbè di Saint Non. Si può dunque parlare, in questo caso, di un furto letterario a danno del Saint Non, sebbene sia impari il confronto fra la sua opera e quella di Swinburne, anche perché diverso era l’intento. Scrive Franco Silvestri: «l’Inglese fa del suo libro una guida per i turisti eruditi, lo correda di scarse, scadenti e scialbe incisioni e di molte tariffe, orari di poste, elenchi di pesci, molluschi, prodotti del suolo, entrate doganali e dazi; il Saint Non vuole un libro che nessun viaggiatore potrà mai portarsi appresso, con i suoi grandi cinque volumi in folio del peso complessivo di circa mezzo quintale, e che vuol essere una summa di arte, di storia, di ricerche archeologiche, ed immagini preziosamente incise e stampate: lo spirito colto, raffinato, avido di bellezza del viaggio in Italia dei Francesi, è in evidente contrapposizione allo spirito pratico del Grand Tour inglese»[19].Tornando allo Swinburne, suo tramite per il viaggio in Italia era l’Ambasciatore inglese presso il Regno di Napoli, il già citato Sir William Hamilton. Il suo salotto culturale costituiva il centro di raccordo della intellettualità napoletana sotto Ferdinando IV. Sir William Hamilton (1730-1803), «uno dei primi tombaroli della storia», come lo definisce Angelo Martino in «Nuovo Monitore Napoletano»[20],era archeologo, diplomatico, antiquario e vulcanologo e pubblicò a Napoli Les Antiquités étrusques, grecques et romaines nel 176667. Egli, che aveva accesso agli scavi per via della sua alta funzione, non si fece scrupoli di impossessarsi di molti reperti archeologici, sia per motivi di studio che di prestigio personale. Da un furto letterario siamo passati ad un furto vero e proprio, o quanto meno ad appropriazione indebita e ricettazione. Lo stesso Goethe, che gli fa visita nella sua villa il 27 maggio 1787, all’ambasciatore che gli mostra orgoglioso la collezione di reperti archeologici, rendendosi conto che molti di questi provenivano dagli scavi di Pompei, consiglia di non diffondere la notizia del loro rinvenimento, perché potrebbe riceverne dei guai giudiziari. Cosa puntualmente avvenuta. Infatti, a causa delle sue frequenti e sospette visite sui siti, Hamilton viene deferito al Ministro Bernardo Tanucci, il quale fa arrestare l’informatore dell’Ambasciatore, non potendo incriminare Hamilton stesso. Hamilton evita la prigione, ma perora la causa del suo informatore presso il Re Ferdinando IV, il quale intercede con Tanucci per la liberazione dell’informatore. Molta parte di questo materiale archeologico viene trasferito da Hamilton presso il British Museum di Londra, dove si trova ancor oggi[21]. Indiscutibili invece i meriti scientifici dell’inglese, specie con riguardo alla sperimentale scienza della mineralogia[22].

Un altro frequentatore del circolo napoletano era l’Arcivescovo di Taranto Giuseppe Capecelatro, come informa Benedetto Croce[23]. Capecelatro fu il corrispondente culturale dello scrittore Swinburne, che lo menziona nelle note della sua opera: «Sono particolarmente grato a Monsignor Capecelatro, arcivescovo di Taranto; al Consigliere Monsignor Galliani; a Don Filippo Brigante Patrizio di Gallipoli; a Don Pasquale Baffi; a Don Domenico Cirillo; a George Hart, scudiero; a Padre Antonio Minasi, dell’ordine di San Domenico; a Don Domenico Minasi, arciprete di Molocchio; e a Don Giovanni Presta di Gallipoli»[24]. In particolare, Capecelatro fornì buona parte del materiale di cui lo Swinburne si è servito per la compilazione dei capitoli relativi alla Puglia.

Giuseppe Capecelatro (1744-1836), personaggio vastissimo ed eclettico, aveva fondato a Taranto una Accademia scientifica presso il Seminario Arcivescovile, intorno alla quale ruotavano molti studiosi delle più varie materie. Uomo di ampie vedute, contraddittorio, accusato di giansenismo, acceso anticurialista e regalista, molto dotto, imbevuto dello spirito illuminista del secolo, avversava la corruzione della chiesa e la superficialità con cui i prelati si approcciavano al sacro, ma nello stesso tempo si costruiva una favolosa villa a Portici, “Leucopetra”, dove riceveva il fior fiore della intellettualità e della nobiltà napoletana, dando costosi e raffinatissimi banchetti. Protetto dal potente Ministro Bernardo Tanucci, gli fu facile divenire arcivescovo di Taranto, a seguito di un mirabile cursus honorum. Fedele al re di Napoli ma sospettato di appoggiare la rivoluzione giacobina del 1799, venne anche arrestato; ritornato fedele ai Borbone ma pronto a passare al servizio dei napoleonidi durante il decennio francese (fu membro del Consiglio di Stato istituito da Giuseppe Bonaparte e addirittura da Murat nominato Ministro dell’Interno), per poi di nuovo rientrare nei ranghi, intrattenne rapporti con intellettuali e regnanti e con gli esponenti di spicco della politica europea, da Caterina II a Leopoldo di Toscana, da Gustavo III di Svezia ad Amalia di Weimar, da Goethe a Madame de Stael, da Herder a  Münter, da Swinburne a Lady Morgan, da Walter Scott ad Alessandro Verri. Dottore in utroque iure, poi ordinato sacerdote, influenzato nel suo acceso anticurialismo dalla lezione di Muratori e Giannone, tenne posizioni originali e spregiudicate, ai limiti dell’eresia, che gli costarono inimicizie, guai giudiziari e invidie. Si schierò spesso accanto al Governo Borbonico nella polemica giurisdizionalista contro la Chiesa. Coltivò svariati interessi eruditi e fu autore di molte opere. A Taranto si costruì una lussuosa residenza sul Mar Piccolo dove poteva dedicarsi alle sue speculazioni filosofiche[25].

Gino L. Di Mitri in un saggio apparso sulla rivista «L’Idomeneo»[26]dimostra come l’autore delle note zoo-geo-botaniche della famosa opera Deliciae tarentinae di Tommaso Niccolò D’Aquino, sia Padre Antonio Maria Minasi, domenicano, rigorosissimo scienziato di fede linneana, docente di botanica all’Università di Napoli, e frequentatore anche del circolo tarantino di Mons. Capecelatro per il quale compila una Memoria sui Testacei di Taranto classificati secondo il sistema del CH.Linneo (Napoli s.d. ma 1782), trattato che serviva a perfezionare quello precedente scritto dal Vescovo tarantino, vale a dire Spiegazione delle conchiglie che si trovano nel piccolo mare di Taranto (Napoli, 1780), spedito alla Zarina di Russia Caterina II. Poiché la Spiegazione era stata scritta molto frettolosamente in vista dell’invio in Russia e conteneva diverse imperfezioni, all’Accademia di Capecelatro si impose l’esigenza di riparare con un’opera più organica e completa. Di quest’opera, ufficialmente attribuita al Vescovo Capecelatro, Di Mitri restituisce al Minasi la paternità sulla base di riscontri oggettivi. Così pure le notizie di carattere malacologico contenute nel libro di Swinburne sono opera del domenicano di origini calabresi Minasi, che allo Swinburne venne introdotto certamente dall’arcivescovo tarantino. È lo stesso inglese che lo ringrazia nell’opera: « Ho ricevuto dal mio amico F.Ant Minasi la seguente lista di molluschi trovati in acque tarantine. L’ha messa su secondo il sistema di Linneo, a partire da un vasto assortimento di specie, che lui doveva classificare prima che fossero presentate dall’arcivescovo di Taranto all’Infante Don Gabriele»[27]. E segue la lunga lista dei molluschi. Dalla nota di Swinburne apprendiamo che il Capecelatro fosse intento alla compilazione di un altro trattato malacologico, auspice il Minasi, da inviare stavolta all’Infante Gabriele di Borbone, quarto figlio di Carlo III di Spagna e Maria Amalia di Sassonia. E vediamo come gli scambi letterari si intensifichino, man mano che procediamo nella trattazione.

Taranto nel 1789, Incis. da Hackert

 

Figura fondamentale, il Capecelatro, anche per altri viaggiatori stranieri come il Conte Carlo Ulisse De Salis Marschlins (1728-1800), svizzero, la cui opera è un caposaldo della letteratura di viaggio in Puglia. Egli percorre le nostre contrade nel 1789 e si dimostra fortemente interessato a tutti i nostri paesi. Si sofferma sugli aspetti economici della nostra terra, in particolare è interessato all’agricoltura, ovverosia alla coltivazione dell’olivo, della vite, del tabacco, degli agrumi. Pubblica per la prima volta le sue impressioni di viaggio in tedesco in due volumi a Zurigo nel 1790 e nel 1793. La prima pubblicazione del libro in lingua italiana viene fatta nel 1906,[28] con la traduzione di Ida Capriati De Nicolò, e poi viene più volte ripubblicato[29].

Il De Salis scruta il Salento con occhio attento e indagatore, analizza tutti i fenomeni sociali e di costume che osserva. Imbevuto dello spirito illuminista, si pone di fronte alle realtà locali con mente lucida e scientifica. Il De Salis conobbe nel 1788 a Taranto il Capecelatro, che lo accompagnò nel viaggio in Puglia[30]. De Salis era insieme ad un altro religioso, il noto scienziato veneto Alberto Fortis al quale si deve la scoperta delle nitriere di Molfetta, in particolare per lo studio del pulo[31]. L’Abate Fortis diede un impulso fondamentale al progresso degli studi naturalistici nel Regno di Napoli. Ma questo è un altro discorso[32].

È sempre l’arcivescovo Capecelatro che riceve a Taranto i viaggiatori tedeschi Stolberg e Jacobi, che ne riportano vivissima impressione e si dicono attratti dalla sua grande personalità. Il poeta Friedrich Leopold Stolberg (1750-1819) documenta il viaggio nel sud Italia nell’opera Reise in Deutschland, der Schweiz, Italien und Sicilien in den Jahren 1791 und 1792, 4 voll., 1794, recentemente tradotta in italiano da Laura A. Colaci,[33] che scrive: «Dopo il viaggio nel Sud della Germania e della Svizzera col fratello e con Goethe, Stolberg ne intraprese uno più lungo in compagnia della moglie Sophie von Redern, del figlioletto, di G.A. Jacobi e G.H.L. Nicolovius attraverso la Germania, la Svizzera e l’Italia. Frutto di questo viaggio è il volume Reise in Deutschland, der Schweiz, Italien und Sicilien in den Jahren 1791 und 1792. Viaggiò in Puglia dal 3 al 17 magio del 1792»[34]. Si tratta di un’opera epistolare, composta delle lettere che egli aveva inviato durante il suo soggiorno nel nostro Paese a vari corrispondenti tedeschi. Queste lettere però vennero rielaborate per la loro pubblicazione e ciò portò ad una certa stilizzazione, soprattutto in quelle che hanno un maggiore contenuto politico e religioso. Visitò Brindisi, Lecce, Otranto, Gallipoli. Il compagno di viaggio di Stolberg, Georg Arnold Jacobi (1768-1845), al ritorno pubblica Briefe aus der Schweiz und Italien nel 1796-7, una raccolta delle sue lettere inviate da Brindisi, Lecce e Gallipoli[35]. Sempre di un’opera epistolare si tratta, ma le lettere dello Jacobi sembrano essere quasi in presa diretta,  meno stilizzate di quelle del suo compagno di viaggio Stolberg, e soprattutto si nota in lui una minore componete polemica, pur essendo protestante e classicista anch’egli. È molto più critico però nei confronti del governo di Napoli e del malcostume che in quella città allignava. Mentre la prosa dello Stolberg è più accattivante, controllata e in qualche modo romantica, avendo egli rimaneggiato le lettere, quella dello Jacobi è più scarna e realistica. Entrambi i viaggiatori sono attratti dai resti dell’antichità classica, per cui, specie quando giungono in Puglia, a partire da Taranto, la loro attenzione si sofferma sulle influenze greche della nostra civiltà. Il classicismo di Stolberg però è filtrato dal cristianesimo. Questo lo porta a vedere l’Italia, e in particolare il Sud, in quanto più diretta emanazione di quella cultura, come una sorta di paradiso perduto che egli idealizza, dandone una visione edenica, certo lontana dalla realtà. «Pur vivendo nel clima del classicismo winckelmaniano, lo Stolberg è distante dall’idea di classico alla Winckelmann», scrive Scamardi[36].

Stolberg ripudia ogni idea dell’arte che non sia classica, per esempio il barocco leccese. «I ruderi classici evocano, sì, l’idea della caducità della vita umana, un elemento, questo, certo presente in tanta poesia sulle rovine della fine del Settecento, solo che lo Stolberg oppone la certezza della fede cristiana[…] In questo lo Stolberg anticipa non solo taluni stilemi di un certo romanticismo, ma anche un certo kitsh romantico»[37].

Questo può spiegare la grande fascinazione che la personalità così aperta del Capecelatro esercita sullo Stolberg, che ritrova «l’esperienza di un cattolicesimo illuminato nella persona dell’arcivescovo di Taranto, in cui intelligenza, senso dell’amicizia e dell’ospitalità, una vita vissuta in sintonia con la natura si fondono in un modello di fede cristiana (cattolica) in cui un protestante in crisi può più agevolmente ritrovarsi»[38].

Fermiamoci qui, con la speranza di avere assolto al meglio il compito prefissato e di non avere annoiato oltremisura i benevoli lettori.

Scritti di viaggio, religione, politica, arte, cultura, interessi eruditi, salotti mecenateschi fra la capitale e Terra d’Otranto fanno da contrappunto ad una stagione letteraria nel regno di Napoli, quella del Settecento meridionale, che se definire minore è appropriato nel raffronto con altre più dense di nomi altisonanti, tuttavia non può non dirsi viva ed interessante.

Note

[1] Si vedano fra gli altri, C. De Seta, L’Italia nello specchio del Grand Tour, in «Storia d’Italia», n. 5, Torino, Einaudi, 1982, pp.127-263 e G. SCianatico, Scrittura di Viaggio. Le terre dell’Adriatico, Bari, Palomar, 2007. Ma anche T. Scamardi, La Puglia nella letteratura di viaggio tedesca. Riedesel- Stolberg-Gregorovius, Lecce, Milella, 1987.

[2] Sull’Abate di Saint Non e sul Voyage, i testi consultati sono: F. Silvestri, Viaggio pittoresco nella Puglia del Settecento: dal Voyage pittoresque, ou Description des Royaumes de Naples et de Sicile, Milano-Roma, Carlo Bestetti Edizioni d’arte, 1977; P. Lamers, Il viaggio nel Sud del’Abbè de Saint-Non, Presentazione di Pierre Rosemberg, Napoli, Electa, 1992; Jean Claude Richard De Saint-Non, Viaggio Pittoresco, a cura di Raffaele Gaetano, Soveria Mannelli, Rubbettino 2009; Jean Claude Richard De Saint-Non in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, ad vocem.

[3]Su Jean Louis Desprez, fra gli altri: Jean Louis Desprez, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, ad vocem; F. Silvestri, Viaggio pittoresco nella Puglia del Settecento: dal Voyage pittoresque, ou Description des Royaumes de Naples et de Sicile, Milano-Roma, Carlo Bestetti Edizioni d’arte, 1977, pp.37-60; Jean Louis Desprez, in F. Fiorino, Viaggiatori francesi in Puglia dal Quattrocento al Settecento, Vol.VII, Fasano, Schena, 1993, pp.241-334.

[4] F. Silvestri, op.cit., p.44.

[5] Su Dominique Vivant Denon, fra gli altri:  Vivant Denon, in  Treccani.it  -Enciclopedie on line, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, ad vocem; F. Silvestri, op.cit., pp.31-33; Dominique Vivant Denon,  Lettere inedite a Isabella Teotochi Albrizzi, introduzione e note di Mario Dal Corso, Padova, Centro Stampa Palazzo Maldura, 1979 ( poi Padova, Alfasessanta, 1990); Id., Viaggio a Palermo, traduzione di Laura Mascoli, introduzione di Carlo Ruta, Palermo, Edi.bi.si., 2000; Id., Viaggio nel regno di Napoli, 1777-1778, traduzione e commento di Teresa Leone, Napoli, Paparo edizioni, 2001; Id., Calabria felix, traduzione di Antonio Coltellaro, Catanzaro, Rubbettino 2002; Id., Bonaparte in Egitto. Due cronache tra illuminismo e Islam, scelta e commento di Mammoud Hussein, traduzione di Vito Bianco, Roma, Manifestolibri, 2007.

[6] Sull’opera di Swinburne, si veda: A. Cecere, Viaggiatori inglesi in Puglia nel Settecento, Fasano, Schena, 1989, pp. 37ss.; Ead., La Puglia nei diari di viaggio di H. Swinburne, Crauford Tait Ramage, Norman Douglas, in «Annali della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Bari», Terza serie, 1989 -90/X, Fasano, 1993.

[7] Henry Swinburne, Viaggio Nel Regno Delle Due Sicilie negli Anni 1777, 1778 e 1779 (Sezioni XVII-XXXV) Viaggio da Napoli a Taranto, Traduzione e Introduzione a cura di Lorena Carbonara, Edizioni Digitali Del Cisva, 2010, p.12 (on line).

[8] Su De Leo, fra gli altri, R. Jurlaro, Annibale De Leo nella storia della storiografia italiana, in «Ricerche e Studi», a cura di Gabriele Marzano, n.1, 1964, Fasano, 1964, pp.29-30; G. Liberati, Annibale De Leo e la cultura del ‘700 in Brindisi, in «Brundisi Res», n.II, 1970, pp. 17-18; G. Perrino, Annibale De Leo teologo, storico, pastore, in «Brundisii res», n.VII, 1975, p.289; S. Palese, Seminari di Terra d’Otranto tra rivoluzione e restaurazione, in B.Pellegrino (a cura di), Terra d’Otranto in età moderna. Fonti e ricerche di storia religiosa e sociale, Galatina, Congedo, 1984, pp.121ss.

[9] F. Silvestri, Viaggio pittoresco nella Puglia cit.,p.61.  L’opera curata da Silvestri, edita la prima volta nel 1972, riproduce solo il tomo terzo che contiene il “Viaggio pittoresco della Magna Grecia”, suddiviso in 4 capitoli, con traduzione italiana e testo francese a fronte in stampa anastatica. Si veda anche P. Lamers, op.cit., p.33.

[10] Il riferimento è a Delle memorie di M. Pacuvio antichissimo poeta tragico dissertazione di Annibale de Leo, Napoli, nella Stamperia Raimondiana, 1763, unica opera pubblicata in vita dal Vescovo di Brindisi.

[11] F. Silvestri, op.cit., p. 62.

[12] A. De Leo, Dell’antichissima Città di Brindisi e Suo Celebre Porto. Memoria inedita di Annibale De Leo. Seguita da un articolo storico de’vescovi di quella chiesa compilato da Vito Guerriero Primicerio della Cattedrale della stessa Chiesa, per ordine dell’attuale Arcivescovo D.Diego Planeta come dalla pagina seguente, Napoli, dalla Stamperia della società Filomatea, 1846. Poi ripubblicato in ristampa anastatica in Id., Dell’antichissima Città di Brindisi e Suo Celebre Porto, a cura di Rosario Jurlaro, Bologna, Forni, 1984.

[13] A. De Leo, op.cit., p. IV, riportata anche in F. Silvestri, op.cit., p. 62.

[14] Su Jacob Philipp Hackert, si veda: Philipp Hackert, Dodici porti del Regno di Napoli, a cura di M. Vocino, Napoli, Montanino, 1980; A. Mozzillo, Gli approdi del Sud. I porti del regno visti da Philipp Hackert (1789-1793),Cavallino, Capone, 1989.

[15] La serie è stata in mostra, dal 20 giugno al 5 novembre 2017, presso la Sala Ennagonale del Castello di Gallipoli (Lecce).  L’esposizione, intitolata I porti del Re, a cura di Luigi Orione Amato e Raffaela Zizzari, è stata prodotta dal Castello in collaborazione con la Reggia di Caserta e il Comune di Gallipoli ( http: www.famedisud.it/il-sud-settecentesco-di-philipp-hackert-in-mostra-a-gallipoli-i-porti-…). Nel giugno 2018, si è tenuta a Brindisi la grande mostra: “Brindisi: Porto d’Oriente”, presso Palazzo Nervegna, dove è stato possibile “ammirare per la prima volta il celebre quadro ‘Baia e Porto di Brindisi’ che il vedutista prussiano Jakob Philipp Hackert realizzò nella seconda metà del ‘700 su incarico del re Ferdinando IV di Borbone. L’esposizione è stata organizzata nell’ambito del progetto ‘La Via Traiana’ e comprendeva una serie di opere che raccontano la storia della città attraverso alcune vedute del porto, fatte dai viaggiatori del ‘700” ( http:www.brundarte.it/2018/03/23/baia-porto-brindisi-jakob-philipp-hackert/).

[16] Ernesto Marinò attribuisce ad Ortenzio De Leo la paternità di un’opera su San Vito degli Schiavi, città natale di De Leo (Succinta Descrizione Storica sull’Origine e Successi della Terra di Sanvito in Otranto Provincia del Regno di Napoli Scritta nel 1768 Da N.N.) sottraendola ad Annibale De Leo, al quale era stata fino ad allora dai più attribuita, proprio sulla base di un documento del Lezzi, ovvero la sua opera Memorie degli scrittori salentini, nella quale, parlando del Vescovo Annibale De Leo e delle sue opere, il cappuccino attribuisce allo zio di Annibale, Ortenzio De Leo, la redazione della detta opera. E. Marinò Ipotesi sull’attribuzione del manoscritto sulla Storia di Sanvito del 1768,  in  «L’Idomeneo», Società Storia Patria Sezione di Lecce, n.5, Galatina, Edizioni Panico, 2003, pp.83-118. Strano che l’estensore dell’articolo, parlando di Giovan Battista Lezzi, non citi in bibliografia una delle fonti più autorevoli in merito, ossia Gino Pisanò (fra i vari contributi, G. Pisanò, Un informatore letterario de Settecento: G.B.Lezzi tra Puglia Napoli e Firenze, in Id., Lettere e cultura in Puglia tra Sette e Novecento (Studi e testi), Galatina, Congedo, 1994, pp.9-35).

[17] P. Lamers, op.cit., p.58.

[18] Ivi, p.36.

[19] F. Silvestri, op.cit., p.19.

[20] A. Martino, Un tombarolo illustre, Sir William Hamilton

http: www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?…sir-william-hamilton

[21] N. H. Ramage, Sir William Hamilton as collector, exporter and dealer, American Journal of Archaeology – luglio 1990, riportata da A. Martino  http: www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?…sir-william-hamilton

[22] Sull’ambiente intellettuale napoletano che ruotava attorno all’ambasciatore inglese, si vedano: G. Doria (a cura di), Campi Phlegraei: Osservazioni sui vulcani delle Due Sicilie comunicate da Sir William Hamilton e illustrate da Pietro Fabris, Milano, Il Polifilo, 1964; C. Knight, Hamilton a Napoli. Cultura, svaghi, civiltà di una grande capitale europea, Napoli, Electa, 1990 (ristampa 2003); G. Pagano De Divitiis, V. Giura (a cura di), L’Italia nel secondo Settecento nelle relazioni segrete di William Hamilton, Horace Mann e John Murray, Napoli, ESI, 1997; Aa.Vv., The Hamilton papers. Carte donate alla società di storia patria, Napoli, Associazione Amici dei Musei di Napoli, 1999.

[23] B. Croce, Uomini e cose della vecchia Italia, vol.II, Bari, Laterza, 1943, pp.158-182.

[24] H. Swinburne, op.cit., p.13, nota 13.

[25] Su Giuseppe Capecelatro, fra gli altri, B. CROCE, Uomini e cose della vecchia Italia, Vol. II, Bari, Laterza, 1943, pp.158-182; M. Zazzetta, Capecelatro,Giuseppe, in «Enciclopedia Cattolica», III, Città del Vaticano, 1949; N. Vacca, Terra d’Otranto. Fine Settecento inizi Ottocento (Spigolature da tre carteggi), Società Storia Patria Bari, 1966; P. Stella, Capecelatro, Giuseppe, in Dizionario Biografico degli Italiani, XVIII, Treccani, Roma,1975, pp. 445-452; C. Laneve, Le visite pastorali di mons. Giuseppe Capecelatro nella Diocesi di Taranto alla fine del Settecento, in «Ricerche di storia sociale e religiosa», 13, 1978, pp.195-226; G. Peluso, Giuseppe Capecelatro arcivescovo di Taranto e ministro di due re, in «L’Arengo», n.III, Taranto, 1980, pp.197-221; V. De Marco, La Diocesi di Taranto nel Settecento: 1713-1816, Roma, Edizioni Storia e Letteratura, 1990; A. Pepe, Il clero giacobino: documenti inediti, I, I riformatori: Capecelatro, Rosini, Serrao, Napoli, Procaccini, 1999; D. Pisani, Note bio-bibliografiche su Giuseppe Capecelatro, in G. Capecelatro, Discorso istorico-politico dell’origine, del progresso, e della decadenza del potere de’ chierici su le signorie temporali con un ristretto dell’istoria delle Due Sicilie (rist. anastatica), Taranto, 2008; S. Vinci, Giuseppe Capecelatro (1744-1836). Un arcivescovo tra politica e diritto, in «Archivio Storico Pugliese», n.LXV , Società di Storia Patria per la Puglia Bari, 2012, pp.41-78; ecc.

[26] G. L. Di Mitri, Il vero autore del commentario scientifico alle «Delizie tarantine», in  «L’Idomeneo», n.3, Società Storia Patria Puglia sezione di Lecce, Lecce, Edizioni Panico, 2000, pp.69-90.

[27] H. Swinburne, op.cit., p.85, nota72.

[28] C. U. De Salis Marschlins, Nel Regno di Napoli: viaggi attraverso varie province nel 1789, Trani, Vecchi, 1906.

[29] Fra gli altri, in C. U. De Salis Marschlins, Viaggio nel Regno di Napoli, Galatina, Congedo, 1979, con Introduzione di Tommaso Pedio, e in Id., Viaggio nel Regno di Napoli – che riproduce la prima traduzione italiana di Ida Capriati De Nicolò -, a cura di Giacinto Donno, Lecce, Capone, 1979 e 1999, e ancora in Id., Nel Regno di Napoli Viaggi attraverso varie provincie nel 1789, Avezzano, Edizioni Kirke, 2017.

[30] T. Scamardi, op.cit., p.82.

[31] Si veda, fra gli altri, M. Toscano, Alberto Fortis nel Regno di Napoli: naturalismo e antiquaria 1783-1791, Bari, Cacucci, 2004.

[32] Dell’Abate Alberto Fortis (1741 –1803),  letteratonaturalista e  geologo, religioso atipico, come il Capecelatro, citiamo solo l’opera più importante, ovvero il Viaggio in Dalmazia, in due volumi, stampato a Venezia nel 1774.

[33] Friedrich Leopold Graf Zu Stolberg, Reise In Deutschland, Der Schweiz, Italien Und Sizilien In Den Jahren 1791 Und 1792 1794 Viaggio In Germania, Svizzera, Italia e Sicilia negli anni 1791 e 1792 1794 Con traduzione italiana a cura di Laura A. Colaci, Edizioni Digitali Del Cisva, 2010 (on line).

[34] F.L. Graf Zu Stolberg, op.cit., p.1 (on line).

[35] C. Stasi, Dizionario Enciclopedico dei Salentini, Vol.2, Lecce, Grifo, 2018, p.1128; T. Scamardi, op.cit., pp.61-91.

[36] T. Scamardi, op. cit., p.76.

[37] Ivi, p.77.

[38] Ivi, p.91.

Gaetano Salvemini e lo strappo dal meridionalismo moderato di Villari, Sonnino, Franchetti, Fortunato

di Michele Eugenio Di Carlo

 

Gaetano Salvemini, nato a Molfetta l’8 settembre 1873, è stato uno dei maggiori intellettuali italiani della prima metà del Novecento. Storico, giornalista, politico, attento studioso delle condizioni sociali ed economiche del Mezzogiorno, ha dato vita a una critica radicale al meridionalismo moderato interpretato dagli esponenti che facevano capo alla rivista fiorentina “Rassegna settimanale”, fondata nel 1878 dai giovani toscani Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, autori de “La Sicilia del 1876” [i]. Rivista che aveva accolto tra le sue fila meridionalisti di spessore quali Pasquale Villari, autore delle “Lettere meridionali” [ii], e Giustino Fortunato, che già nel 1879 aveva scritto “La questione demaniale nell’Italia meridionale” [iii].

Gaetano Salvemini

 

I cosiddetti “rassegnati” [iv] avevano fatto emergere la questione meridionale. Partendo da Villari, avevano stimolato finalmente un dibattito serio sulle condizioni sociali ed economiche del Mezzogiorno, riservando alle politiche governative dei primi decenni una critica serrata, parte rilevante della storia del meridionalismo. Grazie ad essi la questione meridionale era diventata una questione nazionale, sempre e solo nell’ambito limitato di un contesto politico conservatore che, nel 1876, passava dalla Destra storica alla Sinistra. Molti dei rassegnati, nell’ambito del trasformismo inaugurato nel 1882 da Agostino De Pretis, avrebbero fatto carriera, rivestendo anche ruoli politici di prim’ordine.

Gli intellettuali della “Rassegna settimanale” avevano ingenuamente confidato nel riformismo sociale dello Stato e nel senso di responsabilità della potente classe della borghesia agraria latifondista, affinché si ponesse fine alla discriminazione che il Mezzogiorno e le sue masse popolari subivano in ragione di scelte politiche economiche e fiscali inique. Ma il divario Nord-Sud, a fine secolo, era notevolmente cresciuto, come rimarcava Francesco Saverio Nitti nel 1900 in “Nord e Sud” [v], opponendosi radicalmente a chi tentava di ridurre il mancato sviluppo del Mezzogiorno a condizionamenti di natura antropologica, trascurando totalmente studi, analisi, statistiche, bilanci statali, che attestavano distintamente che il divario era nient’altro che il risultato untuoso di scelte politiche economiche, finanziarie e fiscali.

Lo storico Massimo Luigi Salvadori, in un saggio su Salvemini[vi], in merito alla critica netta ai “rassegnati”, riporta le seguenti rivelanti parole dell’intellettuale pugliese: «Se sono stati studiati benissimo i rimedi, non è   stato ancora detto chi rimedierà. In generale gli studiosi del problema meridionale questa domanda o non se la mettono mai o rispondono subito con una parola bisillaba: lo Stato! […] E lo Stato fa il sordo. E poi studiosi continuano nelle loro concioni e eloquentissime. Lo Stato italiano non farà mai nulla, come non ha fatto finora mai nulla»[vii].

Gaetano Salvemini si laurea in Lettere a Firenze nel 1896, dove riceve le lezioni di storia di Pasquale Villari. Nell’ex capitale toscana frequenta i circoli socialisti ed entra in contatto con il materialismo storico, maturando una tendenza già innata a difendere i diritti degli ultimi. Già nel 1898, a soli venticinque anni, Salvemini pubblica il saggio “La questione meridionale”, in cui valuta il sottosviluppo del Mezzogiorno basandosi su ricerche storiche e individuando nell’accordo tra la borghesia industriale del Nord e quella agraria del Sud, – complice lo Stato sabaudo -, le ragioni reali e concrete dell’arretratezza. Un’arretratezza che si basa sulla conservazione voluta di una struttura economica nel Mezzogiorno semifeudale, dove i cittadini sono tenuti in condizioni di totale sottomissione al ceto dominante, con governi sempre pronti alla repressione violenta dei frequenti moti popolari o rivolte. Da qui la polemica salveminiana contro i governi liberali, la critica ai meridionalisti moderati, immobilizzati alla ricerca sterile di un solo immaginaile “mito del buongoverno”. Il tutto mentre cresce l’esigenza di costituire una forza politica e un blocco sociale che tutelino finalmente il Mezzogiorno, quando i suoi rappresentanti in Parlamento vengono accuratamente selezionati per tutelare gli interessi degli industriali del Nord e dei latifondisti del Sud.

Il radicalismo classista di Salvemini lo porta a fine secolo a immaginare la fine di una monarchia, che aveva tentato, nel 1894, con Francesco Crispi contro i fasci siciliani e, nel 1898, con Antonio Starabba di Rudinì a Milano e altrove, la repressione violenta dei moti e delle rivolte causate dal carovita e l’adozione permanente delle cosiddette leggi liberticide. Ma nonostante l’avvento al potere di Giuseppe Zanardelli nel 1901, che inaugura l’Età giolittiana, le aspettative democratiche e repubblicane di Salvemini andranno deluse: non saranno attuate quelle politiche antiprotezioniste tanto auspicate a garanzia delle masse contadine del Mezzogiorno con l’accordo delle rappresentanze operaie del Nord.

Salvemini, infatti, aveva pienamente aderito alla battaglia antiprotezionista che il corregionale Antonio De Viti De Marco aveva condotto per primo all’indomani della tariffa doganale del 1887 e che, secondo il salentino, determinava la caduta innaturale dei prezzi dei prodotti agricoli e l’aumento dei prezzi dei manufatti provenienti dalle industrie del Nord, entrambi fattori responsabili di una «depressione economica cronica dell’Italia meridionale»[viii].

Lo storico pugliese, nel mentre il nuovo secolo si presenta con migliori prospettive in termini di legislazione sociale e di peso dei partiti che difendono i diritti dei lavoratori (il radicale Mussi a Milano viene eletto sindaco nel 1899, i socialisti raddoppiano gli esponenti in Parlamento nel 1900), diventa titolare della cattedra di Storia all’università di Messina.

L’inizio del Novecento è anche il momento in cui Francesco Saverio Nitti esprime in “Nord e Sud” la sua radicale critica regionalista alle politiche governative dei primi quarant’anni del Regno d’Italia; un’ analisi che lo storico Salvatore Lupo riassume e sintetizza compiutamente con le seguenti espressioni: «Il Sud ha ricevuto dall’Unità grandi danni, perché le politiche del debito pubblico e del prelievo fiscale lo hanno espropriato dell’abbondante capitale circolante del periodo borbonico, perché le industrie allora fiorenti sono state rovinate dalle scelte libero-scambiste del nuovo Stato, perché i lavori pubblici sono andati al Nord, perché gli impiegati sono in maggioranza settentrionali». Una dura presa di posizione e una ferma scelta di campo che impegna a fondo Giustino Fortunato nel cercare di parare i contraccolpi, allarmato e consapevole che gli scritti del melfese stavano alimentando le già consistenti nostalgie borboniche e i lievitanti sentimenti antiunitari, che nel rionerese avevano sempre trovato un fiero e determinato oppositore, quale convinto allievo desanctisiano[ix].

Un atteggiamento, quello di Fortunato, che induce Antonio Gramsci a ritenerlo, insieme a Benedetto Croce, tra «i reazionari più operosi della penisola», sempre attento a che l’ «impostazione dei problemi meridionali non soverchiasse certi limiti, non diventasse rivoluzionaria»[x]. Un atteggiamento che non lascia indifferente lo stesso Nitti che nel 1903 scrive: «Quando pubblicai il mio libro Nord e Sud sentii dirmi d’ogni parte, soprattutto dai meridionali: – Voi aumentate la discordia». Per Nitti, invece, le sue analisi potevano produrre del bene, aumentare il controllo, diminuire gli abusi; occorreva al contrario temere «la rassegnazione torpida da una parte, la spoliazione sistematica dall’altra»[xi].

Salvemini rappresenterà pienamente le tendenze regionaliste e antigovernative, contro le politiche protezioniste di inizio Novecento e tenterà anche, tra le soluzioni possibili per uscire dall’asfissiante centralismo inaugurato con il processo unitario, la via del federalismo in relazione alle tesi di Carlo Cattaneo.

La travagliata esperienza con il Partito socialista si conclude nel 1911, quando Salvemini prende atto che la sua idea di legare i destini del mondo operaio del Nord con quello dei contadini meridionali, al fine di scalfire l’egemonia del blocco agrario latifondista del Mezzogiorno e quello industriale della borghesia settentrionale, non avrebbe avuto un futuro.

È questo l’anno in cui Salvemini fonda “L’Unità”, iniziando o proseguendo un’intensa collaborazione con gli intellettuali che si oppongono alle posizioni protezionistiche di Antonio Giolitti. Tra questi intellettuali è bene ricordare Luigi Einaudi, Edoardo Giretti, Gino Luzzatto, Giustino fortunato, Giovanni Carano Donvito, Umberto Zanotti Bianco, oltre a Piero Gobetti, Ernesto Rossi, Pietro Calamandrei. Un giornale che dal 1911 al 1920 affronta ed esamina tutti i temi caldi di una società che va incontro alla tragedia della guerra mondiale, e che già normalmente deve affrontare e risolvere mille problemi, dalle questioni tributarie e fiscali alle necessarie riforme elettorali, dagli esiti delle politiche protezioniste alla questione meridionale, dall’esodo migratorio alla riforma agraria.

Il Salvemini interventista entra poi in relazione, incoerentemente, con i nazionalisti e con la Destra fino a trovare nella monarchia elementi positivi, dimenticando che il peso maggiore della guerra lo avevano subito pesantemente proprio i suoi contadini del Sud. E nel dopo guerra, distante ormai dai socialisti che lo avevano deluso sul piano del liberismo economico e della questione meridionale, si ritrova in Parlamento grazie alla vicinanza con i gruppi combattenti, dai quali ben presto prende le distanze quando respinge le tentazioni autoritarie del nascente fascismo. Un fascismo che lo vede esule, dopo l’arresto del 1925; prima a Parigi, dove nel 1929 dà vita con altri intellettuali antifascisti (Tarchiani, Lussu, Cianca, Nitti, i fratelli Rosselli, Rossi, Parri, Ginzburg) al movimento Giustizia e Libertà, poi ad Harvard, dove insegna Storia della civiltà italiana.

Tornato in Italia nel 1949, Salvemini riprende a insegnare a Firenze. Lo storico piemontese Salvadori riassume le riflessioni degli ultimi anni di vita dell’intellettuale pugliese: aveva perso la fiducia nella capacità delle élite meridionali, non nutriva più grandi speranze nel suffragio universale che il «ministro della malavita» Giolitti aveva concesso nel 1912, si era ricreduto persino sul federalismo, quasi a permettere una «rivincita tardiva di Turati» che aveva profondamente osteggiato, quasi «un’implicita presa di posizione critica nei confronti della “rivoluzione meridionale” progettata da Dorso» e, persino, «guardando le forze in campo a favore del Sud, non ne vedeva altra se non i comunisti», di cui aveva aspramente combattuto non solo l’ideologia, ma in maniera decisa la linea politica[xii].

 

[i] L. FRANCHETTI – S. SONNINO, La Sicilia nel 1876, Firenze, Barbera, 1877.

[ii] P. VILLARI, Lettere meridionali al direttore dell’Opinione: marzo 1875, Torino, Tipografia l’Opinione, 1875.

[iii] G. FORTUNATO, La questione demaniale nell’Italia meridionale, «Rassegna settimanale», 2 novembre 1879.

[iv] Intellettuali della rivista «Rassegna settimanale».

[v] F.S. NITTI, Nord e Sud, Torino, Roux e Viarengo, 1900.

[vi] M.L. SALVADORI, Gaetano Salvemini riformista e meridionalista, in Lezioni sul meridionalismo (a cura di Sabino Cassese), Bologna, Società editrice il Mulino, 2016.

[vii] Ivi, p. 133.

[viii] A. DE VITI DE MARCO, Finanza e politica doganale, «Giornale degli economisti», gennaio 1891; ora in R. VILLARI (a cura di), Il sud nella storia d’Italia, vol. 1°, Bari, Laterza § Figli, 1966, p. 202.

[ix] S. LUPO, Storia del Mezzogiorno, questione meridionale, meridionalismo, «Meridiana», n. 32, a. 1998, p. 38.

[x] A. GRAMSCI, Alcuni temi della quistione meridionale, in Id., Scritti sulla questione meridionale (a cura di M. Rossi-Doria, vol. III, Bari, Laterza, 1978, pp. 14-15.

[xi] F.S. NITTI, Napoli e la questione meridionale, in Id., Scritti sulla questione meridionale (a cura di M. Rossi-Doria), vol. III, Bari, Laterza, 1978, pp.14-15.

[xii] M.L. SALVADORI, Gaetano Salvemini riformista e meridionalista, in Lezioni sul meridionalismo (a cura di Sabino Cassese), Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 140-141.

La ritrattistica di Casa Imperiali: Andrea I e Michele III Imperiali

di Mirko Belfiore

 

Volendo fare il punto sulle vicende di quella che fu la collezione artistica della famiglia Imperiali dei Principi di Francavilla, abbiamo bisogno di fare un passo indietro fino ai primi decenni del XVII secolo e analizzare un contesto che raggruppi sia i possedimenti del casato in terra pugliese che la città di Napoli, vero polo magnetico di tutta la nobiltà regnicola durante l’Età moderna. Un lavoro di ricerca stimolante ma molto complesso, che vede questa raccolta protagonista delle fortune di casa Imperiali quanto vittima di numerose circostanze negative che ne intaccarono l’integrità come suddivisioni ereditarie, dispersioni e in alcuni casi sottrazioni indebite.

Di tutto questo grande “passato” ci rimane ben poco, se non i due piccoli nuclei ancora siti in quelli che erano i centri di governo nella regione salentina. Il primo, il più cospicuo, si trova conservato presso palazzo Imperiali di Latiano, dominio di uno dei rami cadetti, il quale consta di una quindicina di tele recanti soggetti di varia natura (tema che affronteremo in un prossimo articolo). Il secondo, più esiguo, trova ancora dimora nella residenza feudale di Francavilla, già cuore pulsante del principato, il quale consta delle due grandi tele raffiguranti Andrea I (II Principe di Francavilla e V Marchese di Oria) e Michele III (III Principe di Francavilla e VI Marchese di Oria).

Ci soffermeremo proprio su questi due ritratti di autore ignoto, i quali campeggiano in uno dei vani dell’edificio francavillese a non molto distanza dalla celebre “Sala del Camino”, luogo di rappresentanza della dimora. Come parte integrante del patrimonio artistico cittadino, esse possono essere definite le uniche testimonianze dell’antico potere feudale, nonché l’unica occasione per entrare in contatto con i volti e le parvenze di coloro che questi ambienti li arricchirono con “mobili, gioie ed argenti”. Alla base dello studio di questi quadri dobbiamo inserire gli inventari redatti per conto di alcuni dei membri della famiglia e in buon parte conservati presso l’Archivio Storico di Brindisi. Questa documentazione è stata utile solo in parte, visto che il modus operandi di redazione degli incartamenti risente non solo della mano inesperta del notaio addetto alla compilazione dell’elenco ma anche delle diverse tipologie di catalogazione. Alcuni di questi elenchi sono redatti per “categorie” e quindi molto lacunosi nei riferimenti principali (indicazione dell’artista, soggetto, misure), mentre altri si presentano realizzati secondo una visione “topografica”, dove più scrupolosi sono i particolari sulla collocazione dei manufatti nei diversi palazzi.

Palazzo Imperiali, Latiano

 

In questa sede utilizzeremo solo alcuni di questi fondi e in particolare: gli inventari redatti per conto di Michele III durante gli anni 30’ del XVIII secolo (1735-1736-1737-1738), l’inventario del 1816 realizzato alla morte di Vincenzo Imperiale dei Marchesi di Latiano, cugino ed erede designato di Michele IV Imperiale dei Principi di Francavilla, e l’elenco dei beni mobili di Francesco Imperiali, figlio di Vincenzo, il quale una volta morto nel 1820 passò tutte le sue proprietà alla figlia Maria Antonia, che a sua volta lasciò tutto alle figlie Francesca Carmina e Giovanna, asse patrimoniale testimoniato da un inventario del 1830. Come era uso all’epoca, alla grande mole di incartamenti redatti durante le successioni testamentarie, una piccola appendice era dedicata alla catalogazione degli oggetti di valore e dei luoghi in cui gli stessi erano dislocati, il che ci permette di compiere un vero e proprio tour virtuale di alcune delle dimore di Casa Imperiali, utilizzate come sede principale (Francavilla), con scopi più ludici come caccia, svago e villeggiatura o semplicemente per vigilare sulle proprie rendite feudali (Oria, Latiano, Avetrana, Manduria etc.). Dalle descrizioni sul complesso di Francavilla, si può comprendere come l’edificio emergesse sia per la magnificenza delle architetture che per gli sfarzosi arredi, in buona parte voluti proprio dal penultimo Michele, i quali declinati in tutte le forme dell’arte andavano a sottolineare la forza e la ricchezza raggiunta dalla dinastia.

A ciò si aggiungono alcuni interessanti particolari come le specifiche sui centri di produzione manufatturieri dai quali il Principe Michele III attinse per ammobiliare le sue proprietà: da Napoli gli argenti e le preziose stoffe provenienti dalle rinomate botteghe dal quartiere di Porta Nuova, da Roma gli arazzi con tematiche di “storia antica” provenienti dall’ospizio di San Michele a Ripa Grande, da Venezia i broccati e i costosi specchi prodotti dalle vetrerie di Murano e infine dalla madre patria genovese la biancheria e le rinomate porcellane albisolesi; a cui va aggiunta la cospicua raccolta di dipinti. In generale, esaminando i vari rami della famiglia e con la sola eccezione della quadreria di Giuseppe Renato Imperiali a Roma, la raccolta pittorica di Casa Imperiali che andò ad accumularsi fra XVII e XVIII secolo fu realizzata secondo una visione molto periferica, all’ombra di quel centro d’arte che fu Napoli.

Era usuale creare una raccolta che conferisse in primis lustro al casato, ma i limiti per una collezione di questo tipo vanno ricercati nella disponibilità dei collezionisti di poter accedere ai grandi nomi della scuola pittorica napoletana o della Penisola. L’unica soluzione era quella di utilizzare l’abilità degli artisti locali, i quali venivano inviati a imparare la maniera presso l’ambiente partenopeo, per poi riproporlo nel luogo di origine secondo una lettura più personale.

Deposizione di Cristo (attrib. Gherardo delle Notti, XVII secolo, olio su tela, Latiano, pinacoteca di palazzo Imperiali)

 

Dalle diverse analisi inventariali di Casa Imperiali possiamo constatare la presenza di un piccolo nucleo di grandi maestri del Seicento: Jacopo Bassano, Francesco Salviati, Guido Reni e Pacecco de Rosa, insieme alla più cospicuo numero di opere risalenti al XVIII secolo, in buona parte copie attribuibili alla vivace scuola pittorica locale, francavillese e non, patrocinata dagli Imperiali.

Questo gruppo di artisti dalle capacità poliedriche: pittori, scultori, cartapestai e orafi, operavano seguendo la maniera dei grandi artisti napoletani come Luca Giordano, Paolo de Matteis o Francesco Solimena. L’analisi dei diversi cataloghi permette di capire come gli interessi di gusto dei proprietari presentassero alcuni interessanti spunti di ricercatezza: icone con soggetti sacri, soggetti con tematiche profane, scene allegoriche, paesaggi o ambientazioni bucoliche, carte geografiche con i vari possedimenti del casato, pergamene, immagini cesellate su supporti d’argento o rame e una lunga serie di ritratti di famiglia. Quest’ultimi seguivano le linee guida allora imperanti nel mondo della ritrattistica: mezzo busto o figura intera, ed erano sempre volti a mettere in risalto la condizione sociale del personaggio attraverso un abbigliamento specifico che ben evidenziasse i tratti dell’uomo di finanza, di politica o di religione. Ed è proprio in questo frangente che si inseriscono le due tele custodite a Francavilla.

 

Ritratto di Andrea I Imperiali (Anonimo, XVIII secolo, olio su tela, Francavilla Fontana) (Foto Alessandro Rodia)

 

La prima, se procediamo in ordine di successione feudale, è quello di Andrea I Imperiali (1647-1678) raffigurato in età adulta, riccamente abbigliato e dai modi signorili, posizionato al centro di un ambiente, forse uno studiolo, dalla scenografica pavimentazione a scacchiera. Quest’ultima, oltre a dare una parvenza di prospettiva, mette in comunicazione il “vano principale” e una fittizia ambientazione esterna tramite una scalinata di collegamento non visibile, ma che è ben evidenziata dall’elegante corrimano e dalla fioriera posta in testa alla rampa. Alcuni drappi di color porpora si aprono con una linea diagonale sulla parte sommitale del dipinto e compongono insieme al piccolo tavolo di forma rotondeggiante, posto alla sinistra del quadro, una precisa perpendicolare. Sul piano d’appoggio riccamente adornato da una tovaglia di seta, quasi accennata, trova posto un orologio. Esso è sorretto da una coppia di figure antropomorfe che reggono il dettagliato quadrante, regalando alla composizione pittorica dello strumento meccanico quel senso di eleganza e ricercatezza. Il Nobiluomo veste secondo la moda seicentesca di matrice spagnoleggiante: giacca color rosso, ricami dorati che corrono lungo i risvolti e linee geometriche ben definite per le maniche dell’indumento. La posizione rigida del corpo è ingentilita dai due avambracci, i quali con la loro torsione restituiscono un certo dinamismo alla figura. Il primo si inserisce con decisione sul fianco sinistro denotando sicurezza nel Principe, mentre il secondo si posiziona con delicatezza sul tavolo imbandito, a pochi centimetri da un cappello ripiegato su stesso.

3. Ritratto di Michele III Imperiali Seniore (Anonimo, XVIII secolo, olio su tela, Francavilla Fontana, Castello-residenza).

 

Nel secondo ritratto invece troviamo Michelle III, facilmente identificabile nella tipologia iconografica di tipo “istituzionale”, dove vengono esaltate le peculiarità del soggetto raffigurato: il valore umano, il lignaggio e la posizione politica raggiunta. Il Principe è raffigurato in età adulta, in posizione eretta e posto al centro dell’ambiente di piccole dimensioni, probabilmente uno studiolo. Sullo sfondo troviamo un vistoso drappo e un accenno di colonna, forse parte di un porticato a noi non visibile. Egli si rivolge verso l’osservatore con atteggiamento austero e risoluto, recando nella mano sinistra un foglio di appunti, probabile metafora della laboriosità dell’uomo impegnato, preso dagli affari e dalle dinamiche politiche del tempo. Dall’analisi degli arredamenti di matrice sei-settecentesca, posti alle spalle del soggetto, emergono sulla destra un’elegante poltrona in raso mentre sulla sinistra si sistema un raffinato tavolino in legno, su cui lo stesso poggia la mano destra e al contempo stringe un paio di guanti bianchi. Nel contesto cromatico ormai particolarmente compromesso risalta l’abbigliamento, un’ampia parrucca sul capo e una sontuosa cappa magna di velluto rossa bordata d’ermellino che scende sul corpo. Quest’ultimi sono gli indumenti che mettono in risalto lo status sociale, gli incarichi ottenuti e gli onori raggiunti (Consigliere di Stato, Gran Camerario del Regno, Grandeza de Espagna e Gentiluomo di Camera d’entrata), il tutto guadagnato prestando servizio presso la corte borbonica napoletana.

In conclusione, parafrasando il compianto Michele Paone, a nessuno certamente è dato recuperare gli oggetti che gli Imperiali accumularono durante il loro governo e quindi risistemarli a Francavilla, come nelle altre residenze del principato. Grazie alla lettura di questi elenchi noi possiamo ricostruire i contorni di tutti questi oggetti, figli di un tempo perduto, testimonianze d’arte uniche che ci riportano la presenza di un mercato dell’arte e del lusso molto vivace. Grazie a questi documenti, i manufatti riacquistano consistenza, forme e colori, ritrovando la loro antica realtà come riflesso della grandezza di una corte signorile che seppe distinguersi non solo in un contesto come quello del Salento ma anche e soprattutto in quello che fu il composito ceto nobiliare del Vicereame spagnolo prima e del Regno di Napoli poi.

 

In attesa di veder realizzato il progetto di restauro delle tele attualmente in fase di definizione, si auspica che le due opere possano diventare le protagoniste di un successivo ampliamento di quella che è l’attuale offerta museale del MAFF, il Museo archeologico di Francavilla Fontana. La volontà è quella di realizzare una vera e propria “Sala Imperiali”, luogo dove raccontare un “pezzo” importante della storia della città di Francavilla. Una storia che corre di pari passo con le vicende di un casato dalle origini lontane e dal respiro internazionale, che per duecentosette anni resse le sorti politiche dell’abitato contribuendo allo sviluppo sociale ed economico di tutta l’area circostante.

 

Castello. Residenza Imperiale (fondazione XV secolo)

 

 

 

 

DOCUMENTI CITATI NEL TESTO

A.S. Br, Sezione notarile, notaio F.T. Chiarelli da Santa Susanna, 1735, Inventario 7617, folio 47-137, t.

A.S. Br, Sezione notarile, notaio F.T. Chiarelli da Santa Susanna, 1735, Inventario 7620, folio 102-108, t.

A.S. Br, Sezione notarile, notaio S. Stasi, 1816, Inventario 4173, cc. 646-740.

 

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Nardò. Musica classica nel periodo natalizio. Il programma e gli artisti

Dopo l’incredibile successo del primo Festival Cameristico Internazionale del Capo di Leuca, rassegna svoltasi in estate in nove comuni del Basso Salento attraverso diciotto concerti in poco più di due mesi, Eleusi APS è pronta ad una nuova sfida.

Neretum classica – Natale 2021“, questo il nome della rassegna concertistica che allieterà il centro storico di Nardò per l’intero mese di dicembre.

Quattro concerti nelle più suggestive chiese neretine ed una rappresentazione teatrale che verrà eseguita presso l’ex Convento dei Carmelitani, ove sono da poco terminati i lavori di ristrutturazione.

Attori e musicisti riuniti in un’unica grande festa e con un solo ambizioso scopo: portare arte e cultura nei luoghi più belli della città neretina.

Durante la rassegna, che si svolgerà dal 4 al 26 dicembre 2021, si susseguiranno talentuosi musicisti salentini, dal duo Synaistisìa, composto dal violista Cristian Musio e dal pianista Gabriele De Carlo, alla pianista neretina Laura Pinnella, dal Coro Harmonia Mundi al Duo Licchetta-Sequestro, formato dai pianisti Alessandro Licchetta e Andrea Sequestro, direttore artistico di Neretum Classica.

A coronare la programmazione, la prima assoluta di uno spettacolo teatrale all’insegna del Natale, scritto e interpretato dagli attori Chiara Serena Brunetta e Salvatore Cezza, accompagnati dagli interventi musicali di Vera Andrea Longo.

L’ingresso agli spettacoli sarà gratuito e necessiterà esclusivamente la registrazione all’entrata e l’esibizione del Greenpass, in ottemperanza alla normativa anti Covid-19. Il direttore artistico della rassegna è il neretino M° Andrea Sequestro.

Nel comitato artistico sono presenti anche i maestri Alessandro Licchetta e Cristian Musio. Luca Antonio Esposito invece ricopre il ruolo di direttore amministrativo. Gli eventi sono patrocinati dal Comune di Nardò. Si ringrazia Giulia Puglia, Assessore alla Cultura e al Marketing Territoriale, e Creativibar per la gentile collaborazione.

 

PROGRAMMA DELLA RASSEGNA

4 dicembre, Chiesa di Sant’Antonio, ore 20 Duo Synaistisìa Cristian Musio, viola Gabriele De Carlo, pianoforte Musiche di Schumann, Bruch e Brahms

11 dicembre, Chiesa del Carmine, ore 20 Laura Pinnella, pianoforte Musiche di Listz, Schumann, Brahms, Rachmaninoff

14 dicembre, Chiostro dei Carmelitani, ore 20 “Ogni Santo Natale” Spettacolo teatrale di e con Chiara Serena Brunetta e Salvo Cezza, interventi musicali a cura di Vera Andrea Longo In collaborazione con Creativibar

18 dicembre, Chiesa di San Domenico, ore 20 Coro Harmonia Mundi, Musiche di Mozart, Palestrina, Gabrieli e altri

26 dicembre, Cattedrale, ore 20.30 Duo Licchetta-Sequestro, pianoforte a quattro mani Musiche di Fauré, Listz e Tchaikovsky.

 

Il coro Harmonia Mundi è una formazione inedita che nasce da un gruppo di amici e cantori con anni di esperienza corale nei più diversi ambiti.
I ragazzi che compongono il coro cantano insieme nel Coro Giovanile Pugliese diretto da Luigi Leo, formazione che li ha portati a esibirsi in prestigiosi concerti di ambito nazionale ed internazionale (National Concert Hall di Dublino, Musikverein di Vienna, tra i vari) e condividono, oltre che la passione per la musica e la coralità, un’armonia affettiva e umana che cercano di far trasparire attraverso la loro musica e le loro voci.
Nasce da qui l’idea di Harmonia Mundi: cercare attraverso la musica e la coralità di creare ordine e bellezza, in un connubio di ricerca repertoriale, cura timbrica e una particolare attenzione al rito musicale su più ampia prospettiva, convinti che è nella musica che si riesca a trovare il linguaggio più efficace per ricostruire l’armonia nel mondo.

 

Currricula dei musicisti

ANDREA SEQUESTRO, nato il 25 ottobre 1994, dimostra fin da giovanissimo uno spiccato interesse verso lo studio del pianoforte.La sua formazione pianistica inizia a 5 anni sotto la guida della Maestra Francesca Iachetta, a Cosenza, per poi continuare a Nardò con la Maestra Serena Caputo.
Partecipa sin da bambino a numerosi concorsi di portata nazionale ed internazionale come solista, come accompagnatore e in formazione da camera, quali: La Vallonea di Tricase, vincendo anche una borsa di studio e il premio per la miglior interpretazione , Le Nouveau Jongleur di Ruffano, il “ Concorso Nazionale Premio Musica Italia” di Barletta, il Magnificat Lupiae e l’Erik Satie di Lecce e molti altri, piazzandosi sempre ai primi posti.
Ha partecipato, inoltre, a diverse masterclass di maestri di chiara fama quali Cristiano Burato, Emilia Fadini, Roberto Cappello, Gianfranco Sannicandro, Egon Mihajlovic, Franco Mezzena, Vladimir Mlinaric ricevendo sempre numerosi apprezzamenti.
Ha frequentato per 8 anni la classe di pianoforte della professoressa Concita Capezza presso il conservatorio Tito Schipa di Lecce per poi diplomarsi con il massimo dei voti, lode e menzione sotto la guida del maestro Corrado De Bernart con cui ha conseguito anche il diploma accademico di secondo livello in pianoforte solistico con votazione di 110 lode e menzione. Successiva ha frequentato il corso di perfezionamento pianistico presso l’Accademia Musicale Pescarese sotto la guida del M° Pasquale Iannone.
Si è esibito, come solista o in formazione da camera, nell’ambito di diversi festival ed enti concertistici quali: “Tithonos Festival” a Vaste (LE); a Lecce per l’inaugurazione del “Maggio Salentino” presso il Teatro Apollo, per l’Associazione Mozarte presso il Museo Castromediano, per il “Festival del XVIII Secolo” presso la Fondazione Palmieri, “Strade Maestre” presso i Cantieri Teatrali Koreja, vari concerti presso gli Amici della Lirica, con cui ha anche collaborato in qualità di maestro accompagnatore al pianoforte , i “Concerti del Conservatorio” presso l’Auditorium del Conservatorio “T. Schipa”, in duo con il sassofonista Alessandro Malagnino per il festival“Classiche Forme” sotto la direzione artistica di Beatrice Rana, presso il rettorato dell’Unisalento per la manifestazione “Musica in aula”,” Tra musica e parole” presso Palazzo Turrisi, “Cortili aperti” presso il museo Castromediano per “Associazione Mozart”; a Martina Franca “PianoLab”, oltre ad essersi esibito diverse volte presso la Fondazione Grassi; a Cosenza il “CosenzaPianoFest” presso la Sala Quintieri del Teatro Rendano; a Milano “Piano City” ,in collaborazione con il pianista Francesco Libetta, presso la Casa degli Atellani in un concerto registrato da Sky Classica; a Nardò per “M’illumino di meno” , “ Corti aperte”, “Calici di note”, “Piano e Forte Festival”, varie esibizioni presso il “Caffè letterario”, ” Beethoven e le nove sinfonie” dove ha eseguito, in formazione cameristica, la seconda e l’ottava sinfonia di Beethoven; “Gran Galà del Fuoco” a Novoli;” Tempo di Musica” a Galatone, Fundacion Eutherpe di Leòn ,in Spagna, Primo Festival Internazionale Cameristico del Capo di Leuca in un concerto per due pianoforti, insieme al pianista Alessandro Licchetta, in una serata interamente dedicata a Saint-Saëns.
Ha inciso un CD, in collaborazione con i Maestri Enrico Tricarico e Alessandro Licchetta, interamente dedicato alla figura di Francesco Luigi Bianco, compositore gallipolino del XIX secolo.
Ha collaborato con il M° Corrado De Bernart nella realizzazione di una serie di conferenze sulla vita di Gioachino Rossini,in occasione dei 150 anni dalla scomparsa del compositore pesarese attraverso l’esecuzione di trascrizioni per quattro mani delle più celebri ouverture rossiniane, e sul panorama musicale americano del XVII-XIX, ponendo particolare attenzione sulla musica di Louis Moreau Gottschalk, sul ragtime e su George Gershwin.
È socio fondatore e segretario dell’associazione Eleusi di Corsano (Lecce).

 

SALVATORE CEZZA. Attore, doppiatore e formatore fonetico professionista. Si diploma a Roma presso “L’accademia Nazionale di Arte Drammatica – La Maschera in Soffitta”. Lavora come interprete, autore e formatore nel campo teatrale e cinematografico. Docente di corsi di dizione,  respirazione, interpretazione, Public Speaking e linguaggio del corpo. Presidente dell’Associazione “La Bottega di Uroboro – APS”, attiva nel campo artistico, culturale e formativo.

 CHIARA SERENA BRUNETTA. La sua formazione artistica inizia studiando canto sin da giovanissima. A 18 anni studia recitazione teatrale, approfondendo la respirazione diaframmatica, la dizione italiana e i diversi stili interpretativi. Lavora per 9 anni come attrice e cantante nella compagnia teatrale “La Busacca – Teatro Stabile del Salento”, spaziando dalla Tragedia Greca alla Commedia dell’Arte, dalla Commedia Napoletana al Dramma Contemporaneo. Oggi, lavora anche come attrice cinematografica per spot pubblicitari, videoclip musicali e cortometraggi, occupandosi inoltre di corsi di Public Speaking, lettura, respirazione, teatro, canto ed eventi artistici con l’Associazione “La Bottega di Uroboro – APS”. 

GABRIELE DE CARLO intraprende lo studio del pianoforte all’età di 6 anni. Sin da tenera età ha l’occasione di confrontarsi con moltissime grandi personalità della musica quali P.Bruni, C.Burato, P. Camicia, R. Cappello, E.Degli Esposti Elisi, D.Franceschetti, F.Gamba, P. Gililov, A.Harasiewicz, B.Lupo, S. Perticaroli, R.Plano, R.Risaliti, F.Thiollier, L.Trabucco e molti altri. Diplomato presso il Conservatorio di musica “Tito Schipa” di Lecce col massimo dei voti e la lode, ha proseguito il suo perfezionamento presso l’Accademia Musicale delle Marche “B.Gigli”, studiando con i Maestri Lorenzo Di Bella e Gianluca Luisi. Tra le grandi personalità con cui ha avuto l’onore di confrontarsi, coloro che maggiormente hanno contribuito alla sua crescita artistica sono Marisa Somma ed Enrico Pace, con il quale ha avuto l’opportunità di perfezionarsi quattro anni presso l’Accademia di musica di Pinerolo, dove ha conseguito il diploma Master. Si è laureato in didattica dello strumento presso il Conservatorio di Monopoli “N.Rota”. Ha partecipato inoltre a numerosissimi concorsi pianistici italiani ed internazionali, conseguendo un numero considerevole di affermazioni. Nel 2011 il Comune di Vernole gli ha conferito il “Premio Excellentiae”, per essersi distinto in ambito musicale nel territorio salentino. Ha un’intensa attività concertistica in qualità di pianista solista, accompagnatore ed in varie formazioni cameristiche in Italia ed all’estero, tra cui il duo Synaistisìa con il violista Cristian Musio. Tra le molteplici suggestive cornici presso le quali si è esibito, si menzionano l’Escuela Superiòr de Canto de Madrid, nel cui teatro ha tenuto un recital da solista, primo di una serie di concerti nella capitale spagnola, in palcoscenici prestigiosi come il Museo Nacionàl del Romanticismo e l’Auditorium “Carmen Laforet”, il museo diocesano di Catania, l’auditorium del Conservatorio “G.Verdi” di Torino, la Cappella dei Banchieri e dei Mercanti, Palazzo Cisterna per la rassegna Expo 2015, la reggia di Venaria Reale. Ha inoltre partecipato al “Festival Mozart” per l’Unione Musicale presso il Teatro Vittoria di Torino. Ha preso parte alla 49esima ed alla 50esima stagione della Camerata Musicale Salentina, con il duo Synaistisìa e da solista. E’ docente di esecuzione ed interpretazione pianistica presso il Liceo musicale “E.Giannelli” di Casarano.

VERA ANDREA LONGOIl M° Vera Andrea Longo ha conseguito la laurea magistrale in violino presso il “Conservatorio Tito Schipa” di Lecce nella classe del M° Fernando Toma. Nel 2017 si è perfezionata con il M° Francesco D’ Orazio. Nell’anno accademico 2017/18 ha frequentato il “Master course in violin performance” con il M° Ervis Gega presso la “Talent Music Master Courses” di Brescia conseguendo il Master degree in violin performance. Nel 2020 prende parte come cantante e polistrumentista al “Fuorimoda tour” de La Municipàl. Attualmente è docente presso la “World Music Academy” di S. Vito dei Normanni, l’Orpheo[SPACE] di Lecce, la scuola secondaria di primo grado Polo 2 – Istituto Comprensivo “Rina Durante” di Nardò e violinista del “Progetto Seme” di Claudio Prima.

CRISTIAN MUSIO si diploma in viola presso il Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce nel 2015. Nello stesso anno entra a far parte dell’Orchestra Giovanile Italiana, dove collabora con artisti di fama internazionale, quali Danilo Rossi, Stanislav Kochanovsky, Dietricht Paredes, Guido Corti, Gianpaolo Pretto, Luca Ranieri, Danusha Waskiewitz, Lorenza Borrani e altri. Nel 2016 diventa prima viola dell’Orchestra dell’Accademia del Teatro alla Scala di Milano, dove viene diretto da Zubin Metha, David Coleman, Michele Mariotti e altri. Dal 2015 al 2017 si perfeziona con il M°Antonello Farulli presso la Scuola di Musica di Fiesole. Nel 2017 esordisce nell’Orchestra Giovanile “Luigi Cherubini” sotto la direzione di Riccardo Muti. Ha collaborato con l’Orchestra di Lecce e del Salento OLES, l’Orchestra ICO di Lecce, l’Orchestra ICO della Magna Grecia, l’Orchestra Filarmonica della Calabria, l’Orchestra Giovanile Napolinova, l’Orchestra del Conservatorio “Nino Rota” di Monopoli, l’Orchestra del Conservatorio “G. B. Martini” di Bologna. Si esibisce presso il Teatro alla Scala di Milano, l’Auditorium Arturo Toscanini di Torino, l’Auditorium Parco della Musica di Roma, il Colosseo, il Teatro San Carlo di Napoli, il Teatro Petruzzelli di Bari, il Nuovo Teatro dell’Opera di Firenze e tanti altri. È componente di svariati ensembles cameristici, dal duo alla piccola orchestra, con cui ha accompagnato solisti di eccellenza, tra cui Massimo Quarta, Francesco d’Orazio, Pierluigi Camicia, Alessandro Perpich, Carlo Romano, Benedetto Lupo, Francesca Dego, Oleksandr Semchuk, Pasquale Iannone e altri. Tra le formazioni di cui è componente, con le quali si è classificato in posizioni di rilievo in diversi concorsi di musica nazionali e internazionali, si citano il Quartetto Primaldo, il Duo Synaistisìa, il Duo Musìo, il Duo Musìo-Licchetta, il Trio Leucàsia, il Sybar String Quartet. Dal 2016 al 2020 è stato docente di viola presso il liceo musicale “E. Giannelli” di Parabita (Le) e dal 2017 al 2020, con il medesimo incarico, presso il liceo musicale “G. Palmieri” di Lecce. Nel 2019 consegue la laurea di II livello in violino presso il conservatorio “Tito Schipa” di Lecce e un’ulteriore specialistica in Metodologie narrative nella didattica artistico-musicale presso l’Università “D. Alighieri” di Reggio Calabria. Presente, negli anni, in progetti discografici di vari artisti, con il Maestro Gabriele Musìo pubblica per l’etichetta discografica Indipendemo Records, nell’estate del 2020, due album: le 15 invenzioni a due voci di Johann Sebastian Bach, in una versione per violino e violoncello, e i 12 Canoni dell’Opera Prima di Filippo Baroni, nell’adattamento per viola e violoncello.

LAURA PINNELLA, nata a Nardò nel 1993, ha intrapreso lo studio del pianoforte all’età di 8 anni. Si diploma con lode nel 2017 presso il conservatorio “Nino Rota” di Monopoli, nella classe del Maestro Carlo Gallo. È vincitrice di numerosi Concorsi Nazionali ed Internazionali tra cui: 1° premio “Ischia international piano competition”, 1°” Eurorchestra” di Bari, 1° premio assoluto concorso “I.Stravinsky” , 1° concorso internazionale “Città delle Ceramiche”, 2° premio concorso Nazionale “Terra degli Imperiali”, 1° premio concorso Internazionale “Grand Prize Virtuoso di Londra”. Si è esibita in numerosi festival e rassegne pianistiche in Italia e all’estero. Ha suonato per la stagione di Ischia Classica “Note sul mare”, per i concerti presso il teatro di Tonfano a Pietrasanta, per il Festival del XVIII Secolo (sia da solista, sia in formazione da camera”) sotto la direzione artistica del Maestro Francesco Libetta. Ha tenuto un concerto per la prestigiosa fondazione Benetton, presso l’auditorium della chiesa di S. Teonisto a Treviso, in occasione del rientro di importanti opere pittoriche. Nel 2011, in occasione dei 150 dall’Unità d’Italia, ha tenuto un concerto in qualità di pianista accompagnatore del coro del Politeama Greco di Lecce. È risultata finalista regionale all’importante concorso “Soroptimist” come rappresentante del conservatorio “Nino Rota” di Monopoli. Il concorso è dedicato ai giovani talenti femminili della Musica classica. Nel 2016, dopo la vittoria del Concorso “Grand Prize Virtuoso” di Londra, si è esibita, durante la cerimonia di premiazione, nella prestigiosa Royal Albert Hall. Alla sua formazione artistica, hanno contribuito Maestri di chiara fama internazionale tra i quali: C.Burato, R.Cappello, M.Ferrati, F.J.Thiollier, M.Vacatello, D.Rivera , A.Deljavan.

ALESSANDRO LICCHETTA. Nato a Tricase (LE) nel dicembre 1993, ha dimostrato sin da giovanissimo uno spiccato interesse verso lo studio del pianoforte, avviato all’età di cinque anni. Ha studiato dapprima con il M° Luigi Nicolardi, successivamente con il M° Adalberto Protopapa presso l’Accademia Musicale del Salento. Ha conseguito la Laurea di I Livello in Pianoforte con il massimo dei voti e la lode presso il Conservatorio “P. I. Tchaikovsky” di Nocera Terinese sotto la guida del M° Filippo Arlia e la Laurea di II livello in Pianoforte Cameristico con il massimo dei voti, la lode e la menzione presso il Conservatorio “T. Schipa” di Lecce nella classe del M° Corrado De Bernart e nella classe di Musica da Camera del M° Francesco Libetta. Dopo aver frequentato il corso di perfezionamento pianistico presso l’Accademia Musicale Pescarese sotto la guida del M° Pasquale Iannone, attualmente prosegue gli studi pianistici con lo stesso Maestro presso la Barletta Piano Festival Academy.
Ha vinto numerosi concorsi di portata nazionale e internazionale, risultando spesso vincitore di categoria, conseguendo il 1° premio al Concorso musicale internazionale “Erik Satie” di Lecce nel 2016 e al Concorso pianistico internazionale “Giuseppe Piliego” di Brindisi nel 2018 e il 1° Premio Assoluto al Concorso Musicale Nazionale “Premio Bernstein” di Alliste (LE) e al Concorso Musicale Nazionale “Il Terzo Suono” di Acquarica del Capo (LE) nel 2013, al Concorso Musicale Internazionale “La Vallonea” di Tricase (LE) e al Concorso Musicale Internazionale “Le Nouveau Jongleur” di Ruffano (LE) nel 2015, al Concorso Musicale Internazionale “Giuseppe Tricarico” di Gallipoli nel 2016 e nel 2017, al Concorso Musicale Internazionale “Salento Music Competition” di Ruffano (LE) nel 2016 e nel 2019 e al Concorso internazionale di musica classica e jazz “Trofeo San Lazzaro” di Gallipoli LE nel 2018 e nel 2019. È, inoltre, risultato vincitore del Premio della Critica al Concorso Musicale Internazionale “Giuseppe Tricarico” di Gallipoli nel 2015 e al Concorso Musicale Internazionale “Salento Music Competition” di Ruffano (LE) nel 2019 in duo con il violista Cristian Musio, vincitore del Premio per la Migliore Interpretazione al Concorso Musicale Internazionale “La Vallonea” di Tricase (LE) nel 2016 e Vincitore Assoluto di Edizione al Concorso Musicale Internazionale “Le Nouveau Jongleur” di Ruffano (LE) nel 2015, al Concorso Musicale Internazionale “Salento Music Competition” di Ruffano (LE) nel 2016, al Concorso Musicale Nazionale “Carmelo Preite” di Presicce (LE) nel 2017, vincendo in quest’ultimo anche il Premio Pianoforte per una pubblicazione discografica di brani per pianoforte del compositore presiccese Carmelo Preite, e al Concorso internazionale di musica classica e jazz “Trofeo San Lazzaro” di Gallipoli nel 2019 in duo con il violista Cristian Musio.
Ha partecipato a Masterclass di perfezionamento con i Maestri Francesco Libetta, Adalberto Protopapa, Aldona Budrewicz-Jacobson, Gianfranco Sannicandro, Aylen Pritchin, Egon Mihajlović e Vladimir Mlinarić, Franco Mezzena, Pasquale Iannone.
Si è esibito, come solista o in formazione da camera, nell’ambito di diversi festival ed enti concertistici, quali, tra gli altri, il “Tithonos Festival” a Vaste (LE); il “Festival Terra tra due mari” a Gallipoli presso il Castello Angioino; la “Camerata Musicale Salentina” a Castro presso il Castello Aragonese; a Lecce il “Maggio Salentino” presso il Teatro Apollo, Associazione Mozart, il “Festival del XVIII Secolo” presso la Fondazione Palmieri, “Strade Maestre” presso i Cantieri Teatrali Koreja, gli Amici della Lirica, i “Concerti del Conservatorio” presso l’Auditorium del Conservatorio “T. Schipa”, presso il Museo Castromediano per “Associazione Mozart”; a Martina Franca “PianoLab”, oltre ad essersi esibito diverse volte presso la Fondazione Grassi; a Barletta il “Barletta Piano Festival”; a Cosenza il “CosenzaPianoFest” presso la Sala Quintieri del Teatro Rendano; a Milano “Piano City” presso la Casa degli Atellani; a Salisburgo (Austria) presso la Steinway Saal del Musikum; a Leòn (Spagna) presso la Fundación Eutherpe; a Santa Maria di Leuca e Tricase per il Primo Festival Internazionale Cameristico del Capo di Leuca.
Suona in duo con il pianista neretino Andrea Sequestro (Duo Licchetta-Sequestro).
Ha, inoltre, collaborato con l’Orchestra Filarmonica Valente diretta dal M° Giuseppe Guida, con la quale ha eseguito il Concerto n. 21 K 467 di Mozart, e con il Balletto del Sud.
È stato Direttore Tecnico, per conto dell’Associazione Seraphicus di Nardò, della Prima edizione del Concorso Musicale Internazionale “Premio Vittoria De Donno” tenutosi a Lecce dal 4 all’8 giugno 2018. È membro fondatore e presidente dell’Associazione di Promozione Sociale Eleusi di Corsano (Lecce).
Oltre agli studi musicali, ha conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza presso l’Università del Salento e successivamente ha ottenuto l’abilitazione a praticare la professione legale. è stato docente di Pianoforte presso la scuola media di Alessano (Lecce) nell’a.s. 2020/2021.

 

Il salentino Antonio De Viti De Marco e la battaglia antiprotezionista contro la tariffa doganale del 1887

di Michele Eugenio Di Carlo

 

Le tesi meridionaliste del salentino Antonio De Viti De Marco, nato a Lecce il 30 settembre 1858, possono essere ritenute, per alcuni versi, la via di passaggio da un meridionalismo moderato liberale, incarnato da Villari, Franchetti, Sonnino, Fortunato, a un meridionalismo popolare, democratico, rivoluzionario, che con Salvemini, Gramsci, Dorso segnerà lo strappo definitivo dalle pretese antipopolari e autoritarie della monarchica sabauda e dalla gestione illiberale dei governi conservatori dei primi quarant’anni unitari. Il transito quindi da un meridionalismo critico, ma piantato nell’alveo di governi fedeli alla monarchica sabauda dai labili e, spesso inapplicabili, principi di democrazia liberale, a un meridionalismo di rottura che prevedeva il netto superamento della monarchia e indicava la via di una nuova forma di gestione del paese, democratica, repubblicana, partecipata dalle masse popolari.

De Viti De Marco è sostanzialmente un liberaldemocratico, tanto che aderisce nel 1904, insieme a Francesco Saverio Nitti, al neonato Partito Radicale Italiano, l’ala più moderata e liberale della Sinistra non trasformista. Dal punto di vista economico è stato uno dei maggiori liberisti ed è in questa veste che sviluppa la sua polemica contro la tariffa doganale protezionista del 1887. Da questo punto di vista imposta il suo meridionalismo, portando avanti per primo la tesi che la protezione degli interessi industriali del Nord ha danneggiato irrimediabilmente l’economia e lo sviluppo del Mezzogiorno.

Antonio De Viti De Marco

 

De Viti De Marco, nonostante nella prima fase avesse visto nel fascismo una possibilità concreta di riforme e una barriera contro il pericolo socialista, diventa antifascista appena si rende conto che democrazia e libertà sono a rischio. Nel 1931 è uno dei diciotto docenti universitari che rifiuta, perdendo la cattedra, di prestare giuramento di fedeltà al regime fascista come previsto dal decreto regio n. 1227 del 28 agosto 1931.

Il salentino, nato in una famiglia di grandi proprietari terrieri di origini nobiliari, consegue la laurea in Giurisprudenza a Roma nel 1881 e, passando per le università di Camerino, Macerata e Pavia, giunge ad ottenere la cattedra di Scienze delle finanze nel 1887 proprio nella Capitale. Nel 1890, insieme ai fedeli amici economisti Maffeo Pantaleoni, conosciuto durante gli studi universitari, e Ugo Mazzola, acquisisce la maggioranza azionaria della nota rivista accademica “Giornale degli economisti”, diventandone condirettore.

De Viti De Marco non usa mezzi termini per contestare la tariffa doganale del 1887, posta a tutela degli interessi delle piccole e nascenti industrie del Nord, a discapito del mondo agricolo meridionale. Diventa sicuramente il capostipite della campagna antiprotezionista e del liberalismo economico, tanto che già nel 1891 pubblica sul “Giornale degli economisti” un articolo che precisa le sue posizioni denunciando un protezionismo che altera il corso dello sviluppo economico incentivando una politica che sacrifica il mondo agricolo più produttivo. Come rivela chiaramente lo storico Rosario Villari, riprendendo l’articolo dell’economista salentino, il protezionismo «devia i capitali e le energie dai settori più produttivi, instaura un rapporto privilegiato e parassitario tra produttori e consumatori nocivo alla vita economica e politica; aggrava e rende permanente, in particolare, lo squilibrio tra Nord e Sud»[i].

La tariffa protezionista del 1887, votata a larga maggioranza in Parlamento, aveva garantito con il dazio sul grano il silenzio e la complicità dei grandi proprietari latifondisti, ma aveva determinato un forte contrasto con gli altri comparti agricoli più intensivi e produttivi, innanzitutto con il settore della viticoltura, le cui esportazioni con la Francia erano entrate in una profonda e irrisolvibile in crisi.

 

Per De Viti De Marco, che considera e condivide quanto scrive il direttore del “Giornale degli economisti”, Ugo Mazzola, sul «connubio tra protezionisti industriali e agrari»[ii], il dazio sul grano è «il prezzo che i così detti ceti agrari, auspici gli on. Branca e Salandra» avevano ricevuto in cambio dell’appoggio ai «dazi industriali propugnati dagli on. Ellena e Luzzatti»[iii]. Ma i dazi sul grano e sul riso, secondo l’intellettuale pugliese, erano inefficaci, in quanto la produzione di grano e riso era quasi sempre sufficiente al consumo interno, mentre la chiusura del mercato francese causato dalla tariffa doganale aveva comportato la caduta innaturale dei prezzi di olio e vino. Inoltre, l’applicazione della tariffa aumentava i prezzi dei manufatti prodotti in regime protetto dalle industrie del Nord che andavano a gravare soprattutto sul Mezzogiorno, oltre che sulle entrate dello Stato; infatti, «i produttori di grano, di olio, di vino, di riso, di bestiame, ecc., videro a un tratto falcidiato il loro reddito non solo in ragione della caduta dei prezzi agricoli, ai quali vendevano i loro prodotti, ma ancora in ragione dei prezzi industriali, ai quali compravano!». Per De Viti De Marco queste erano le due cause della «depressione economica cronica dell’Italia meridionale. L’una dovuta al protezionismo francese, l’altra al protezionismo italiano». Per l’economista salentino non vi erano dubbi: i maggiori prezzi dei manufatti industriali nazionali erano dovuti ai costi di produzione non competitivi di un’industria nazionale che riteneva poco produttiva. Le tariffe doganali avevano deviato «il capitale e il lavoro dagl’investimenti più fruttiferi», diminuendo complessivamente «la produzione nazionale e quindi la ricchezza privata del paese», da cui derivavano le entrate pubbliche[iv].

L’Italia dei primi anni del Novecento – l’economista salentino veniva eletto in Parlamento nel 1901, rimanendoci quasi ininterrottamente fino all’avvento del fascismo – aveva appena superato il tragico ultimo decennio dell’Ottocento, tra conflitti sociali e risoluti tentativi repressivi e autoritari dello Stato. Le organizzazioni dei lavoratori si erano notevolmente rafforzate: nel 1891 nasceva a Milano la prima Camera del lavoro con funzioni di assistenza, tutela e rappresentanza, nel 1892 a Genova veniva fondato il Partito dei lavoratori italiani, dal 1895 Partito socialista. Francesco Crispi, l’ex garibaldino già capo del governo dal 1887 al 1891, oltre alla svolta protezionistica, si era decisamente orientato in direzione di prospettive politiche imperialistiche e colonialiste nell’intesa di rafforzare il blocco industriale-agrario dominante, concedendo il minimo possibile alle masse subalterne in termini di legislazione sociale. Tornato al governo nel 1893, dopo le brevi parentesi al governo del marchese Antonio Starabba di Rudinì (1891-1892) e di Antonio Giolitti (1892-1893), diversamente dalla moderazione di quest’ultimo nell’affrontare i conflitti sociali, Crispi si scagliava con violenza estrema contro il movimento dei fasci siciliani proclamando lo stato d’assedio in Sicilia, come in Lunigiana, e affidando la risoluzione del conflitto alla repressione militare e poliziesca. In perfetta continuità con la legge sulla pubblica sicurezza varata nel 1889, che prevedeva misure di limitazione della libertà quali la sorveglianza speciale e il domicilio coatto, oltre che restrizioni nell’ambito della possibilità di riunirsi e di esprimere opinioni, nel 1894, il governo Crispi emetteva provvedimenti contro le associazioni anarchiche e metteva in atto lo scioglimento del Partito dei lavoratori italiani e delle associazioni operaie. L’ex garibaldino era costretto alle dimissioni nel 1896, a seguito della sconfitta militare di Adua, orma indelebile del fallimento delle sue politiche imperialistiche. Tornava a capo del governo di Rudinì, il quale, scoppiati nel 1898 tumulti in tutta Italia generati dal malcontento popolare e dall’aumento del prezzo del pane, consegnava, in maggio a Milano, al generale Fiorenzo Bava Beccaris la facoltà di reprimere col sangue i tumulti, lasciando sul selciato centinaia di morti e feriti e portando davanti ai tribunali militari migliaia di contestatori. Niente affatto soddisfatti, prima di Rudinì, poi il suo successore Luigi Pelloux da fine 1898, tentavano di far approvare in maniera definitiva le cosiddette leggi liberticide, nonostante la forza delle proteste popolari e l’ostruzionismo dell’opposizione parlamentare dell’Estrema Sinistra (socialisti, repubblicani, radicali). Il tentativo reazionario della Destra si arrenava: a Milano alle amministrative del 1899 veniva eletto il radicale Mussi e alle politiche del 1900 il Partito socialista raddoppiava gli eletti in parlamento rispetto alle precedenti elezioni del 1897. Il 29 luglio a Monza re Umberto I°, che aveva decorato il generale Bava Beccaris per l’eccidio di Milano, veniva assassinato dall’anarchico Gaetano Bresci. Con il governo Zanardelli del 1901 iniziava l’Età giolittiana, più disponibile a trattare i conflitti sociali con gli strumenti della politica e dell’economia[v].

In un noto articolo del 1898[vi], l’economista salentino spiegava le cause delle sommosse, represse con il sangue, con il disinteresse dello Stato verso i lavoratori e i ceti deboli, asfissiati dalle tasse e dal carovita, impoveriti dal protezionismo industriale, minacciati nelle libertà fondamentali, mai loro realmente riconosciute.

Nel 1904, De Viti De Marco incontrava nei banchi del Parlamento, eletto nel suo stesso partito, Francesco Saverio Nitti, il quale con “Nord e Sud” [vii] pubblicato nel 1900 aveva reso noto, studiati i bilanci dello stato dal 1862 al 1896-97, che la ripartizione della spesa pubblica in Italia era stata costantemente discriminante nei riguardi del Mezzogiorno e fondamentalmente tesa allo sviluppo industriale del Nord. Pur condividendo le cause che avevano portato nel giro del primo quarantennio unitario all’enorme divario economico tra le “due Italie”, i due economisti proponevano soluzioni diverse e confliggenti: Nitti, in stretti rapporti con Giolitti, suggeriva un forte impegno statale con leggi speciali volto all’industrializzazione del Mezzogiorno, De Viti De Marco, in sintonia con Fortunato, puntava tutto sull’eliminazione della tariffa doganale e su una riforma fiscale più favorevole all’agricoltura.

La fondazione a Milano, nel marzo del 1904, della Lega antiprotezionista, che metteva insieme socialisti, liberali, repubblicani, radicali e, persino, per poco tempo sindacalisti rivoluzionari, era l’occasione per ribadire posizioni pacifiste contrapposte a un protezionismo sempre più legato a tendenze nazionaliste e imperialiste, oltre che per iniziare una collaborazione con Gaetano Salvemini e Luigi Einaudi, che lo riterrà sempre il “Maestro”.

Lasciato nel 1911 il Partito socialista, Salvemini fondava “L’Unità”, un giornale che avrebbe avuto tra i propri collaboratori le migliori menti dell’epoca: Luigi Einaudi, Edoardo Giretti, Ettore Ciccotti, Gino Luzzatto, Benedetto Croce, Giustino Fortunato, Giovanni Carano Donvito, Umberto Zanotti Bianco, oltre ai giovani Piero Gobetti, Ernesto Rossi, Pietro Calamandrei. Il giornale avrebbe affrontato tutti i temi economici, sociali e politici del secondo decennio del Novecento, dalle questioni tributarie e fiscali alle riforme elettorali, dalla questione meridionale al protezionismo, dalla questione agraria all’emigrazione. De Viti De Marco vi giungeva nel 1912, dopo aver risolto i suoi rapporti con “Il Giornale degli economisti”.

L’attività di De Viti De Marco, culturale nel “Giornale degli economisti” e in numerose collaborazioni, poi politica da deputato, nel 1929, per volontà di Umberto Zanotti Bianco e di Ernesto Rossi, è stata raccolta nel testo “Un trentennio di lotte politiche 1894-1922” [viii].

[i] R. VILLARI (a cura di), Il Sud nella storia d’Italia, vol. 1°. Bari, Laterza § Figli, 1966, p. 199.

[ii] U. MAZZOLA, L’aumento del dazio sul grano, «Giornale degli economisti», a. II, febbraio 1891, pp. 190-198.

[iii] A. DE VITI DE MARCO, Finanza e politica doganale, «Giornale degli economisti», a. II, gennaio 1891.

[iv] Ibidem, ora in R. VILLARI (a cura di), Il Sud nella storia d’Italia, cit., pp. 202-203.

[v] Si veda G. C. JOCTEAU, La lotta politica e i conflitti sociali nell’Italia liberale, in La storia. L’età dell’imperialismo e la I guerra mondiale, vol. 12, Milano, Mondadori, 2007, pp. 304-321.

[vi] A. DE VITI DE MARCO, Le recenti sommosse in Italia. Cause e riforme, «Giornale degli economisti», a. IX, giugno 1998, pp. 517-546.

[vii] F. S. NITTI, Nord e Sud, Torino, Roux e Viarengo,1900.

[viii] A. DE VITI DE MARCO, Un trentennio di lotte politiche (1894-1922), Roma, Collezione di studi meridionali, 1930.

La “mappa di Soleto”: nel contesto geografico delineato dalle fonti narrative antiche

di Nazareno Valente

 

Sebbene vada affievolendosi l’interesse su quella che viene  comunemente chiamata la “Mappa di Soleto”, resta tuttora vivace il dibattito tra chi propende per la sua l’autenticità e chi, invece, la ritiene più uno scherzo riuscito bene.

Il tutto ebbe inizio il 21 agosto 2003 quando, durante una delle campagne annuali di scavi compiuti a Soleto da Thierry Van Compernolle, due operai, impegnati a rimuovere terreno archeologico di risulta, rinvennero un piccolo frammento di cm 5,9 x 2,8 dell’orlo d’un vaso a vernice nera, di probabile produzione attica, su cui era stato inciso il profilo della parte meridionale della penisola salentina1. Da come il disegno è impaginato sul coccio, parrebbe con tutta evidenza che le coste del Basso Salento siano state disposte da nord a sud, contornate nei due opposti litorali dai due mari a noi ampiamente noti, vale a dire lo Ionio ad Ovest e l’Adriatico ad Est. In pratica, in una raffigurazione grafica che, nella sostanza, rispecchia la visione canonica fornita da una qualsivoglia rappresentazione cartografica moderna.

All’interno del profilo risultano comprese dodici località, riportate in gran parte nei loro toponimi abbreviati, mentre all’esterno, parallelamente alla linea di costa occidentale, è tracciata la scritta ΤΑΡΑΣ (Taras), indicante il golfo di Taranto, incisa «sulla ‘mappa’ forse con la funzione di ‘indicatore di direzione’»2.  Di questi tredici toponimi, tre appaiono scritti in alfabeto greco — ΗΥΔΡ (HYDR), ΣΤΥ (STY) e ΤΑΡΑΣ (TARAS) —; due, per diversi motivi, risultano di difficile assegnazione linguistica — ΓΡΑΧΑ (GRAXA) e ΦΙΛ? (PHIL) —; i rimanenti otto potrebbero attribuirsi sia all’orizzonte linguistico indigeno, sia a quello greco — ΒΑΛ (BAL), ΒΑΣ (BAS), ΛΙΚ (LIK), ΛΙΟΣ (LIOS), ΜΙΟΣ (MIOS), ΝΑΡ (NAR), ΟζΑΝ (OZAN), ΣΟΛ (SOL)3.

Non tutti i toponimi presenti sono stati identificati in maniera incontrovertibile, tuttavia anche in questi casi è possibile formulare delle ragionevoli ipotesi di individuazione. Pertanto il riconoscimento con le attuali località potrebbe avvenire secondo lo schema di seguito riportato. ΒΑΛ (BAL): Alezio, ΒΑΣ (BAS): Vaste, ΓΡΑΧΑ (GRAXA): forse Porto Cesareo, ΗΥΔΡ (HYDR): Otranto, ΛΙΚ (LIK): probabilmente Castro, ΛΙΟΣ (LIOS): verosimilmente Leuca, ΜΙΟΣ (MIOS): forse Muro Leccese, ΝΑΡ (NAR): Nardò, ΟζΑΝ (OZAN): Ugento, ΣΟΛ (SOL): Soleto, ΣΤΥ (STY): forse Cavallino, ΤΑΡΑΣ (TARAS): Taranto, ΦΙΛ? (PHIL): forse Rocavecchia.

Il tema su cui verte la controversia non è tanto l’autenticità del coccio, al di sopra di ogni possibile sospetto, quanto piuttosto sulle incisioni su di esso impresse. In particolare le perplessità riguardano il periodo in cui il disegno è stato confezionato. Chi lo dice antico, al pari dell’ostrakon che lo ospita; chi, invece, lo ritiene fatto addirittura poco prima del ritrovamento.

In questa accesa polemica, che si ravviva ogni qualvolta spuntano nuovi elementi di valutazione, emerge tuttavia che gli entusiasmi iniziali manifestati dagli studiosi per il reperto vanno, con il passar del tempo, via via scemando. Lo denota il fatto stesso che sia stato di fatto reso impossibile pubblicare gli atti del convegno di Montpellier, svoltosi nel 2005 per presentare la “mappa”, in quanto molti ricercatori, che s’erano in prima istanza espressi in senso favorevole, non hanno in seguito presentato il testo del loro intervento. Cosa questa usuale, quando si modifica il proprio parere e si vogliono evitare “cantonate” che, se messe per iscritto, rimangono a futura memoria.

Malgrado la mancanza di questa preziosa documentazione, è in ogni caso possibile contare su studi autorevoli condotti sugli aspetti alfabetici ed epigrafici4, su quelli monetari5,  e su quelli archeologici6, da cui sono risultate molte importanti indicazioni. Ad esempio, come rilevato da Mario Lombardo, che «gli elementi desumibili dai caratteri alfabetico-paleografici delle abbreviazioni toponimiche incise sul nostro frammento sembrerebbero deporre … per una datazione entro la seconda metà del V sec. a.C., o al più tardi agli inizi del IV»7 e, soprattutto, che «il quadro complessivo continua ad indurci, in definitiva… ‘a mantenere aperti i problemi’»8.

Un po’ meno equidistante si dimostra Francesco D’Andria il quale, confrontando i siti della “Mappa” con i dati desumibili da una ricerca sul campo, rileva che «l’impressione iniziale è quella della mancanza di corrispondenza tra la realtà archeologica e il dato epigrafico attestato dalla “Mappa”. Infatti proprio il V secolo è caratterizzato da processi di crisi e di destrutturazione in cui il sistema degli insediamenti evapora in una presenza sparsa»9. Anche se poi attenui il suo giudizio facendo presente che, nel contesto di questa trasformazione cui fu soggetta la zona, si possa aver conservato memoria, oltre che dei nuclei centrali, anche di quelli arcaici «poco visibili nella documentazione archeologica»10.

In questa prima fase c’era infatti molta cautela tra gli esperti nel trarre conclusioni sull’autenticità della “mappa”, per tutta una serie di motivi, non certo ultime le circostanze che il rinvenimento del frammento iscritto fosse avvenuto in un regolare scavo archeologico e che, in questioni così dibattute, sia meglio evitare errate valutazioni che possano poi incidere sulla credibilità futura di chi le esprime. Comunque sia, dopo un successivo studio di Mario Lombardo11, su cui mi soffermerò più avanti, sulla “mappa” è calato il silenzio che, in un certo qual modo, ha avuto il potere di accrescere ancor più la curiosità dei non addetti ai lavori.

Ritornando all’articolo di D’Andria, è, a mio avviso, interessante l’approccio avuto dallo studioso nel valutare il documento in termini di corrispondenza con la realtà archeologica. Un metodo di lavoro che forse sarebbe il caso di perseguire nella valutazione della “mappa” pure riguardo ad altri  possibili aspetti.

Fosse pervenuto qualche esempio della cartografia antica o, quantomeno, ci fossero a disposizione maggiori dettagli sulle conoscenze acquisite in campo geografico, si potrebbe adottare lo stesso criterio, verificando, ad esempio, se lo scenario proposto dalla mappa di Soleto risulti coerente con le cognizioni a quel tempo possedute. Purtroppo in carenza di tali informazioni non è possibile desumerlo direttamente, resta però la possibilità di farlo in maniera indiretta, consultando le fonti letterarie antiche. In particolare, ricercando le eventuali annotazioni che danno un’idea dell’eventuale configurazione geografica assegnata alla penisola salentina nel periodo di presunta incisione del disegno sull’ostrakon.

Da un punto di vista grafico è già stato registrato che, in antichità, le mappe non venivano probabilmente stilate da nord a sud, come avviene adesso, né che si usavano puntini per indicare dov’erano collocate le varie località, come fatto invece dall’autore della “mappa”. Tuttavia, nessuno ha indagato sul disegno in sé, vale a dire se la rappresentazione delle coste del Basso Salento sia confacente alla visione che si aveva di esse nel V secolo a.C. Per questo, si cercherà qui di appurarlo, prendendo le cose un po’ alla lontana, considerato che, come già dichiarato, il quadro informativo è alquanto evanescente.

Nel VI secolo a.C., grazie all’intuizione di Anassimandro (VII secolo a.C. – VI secolo a.C.), ad una Terra che l’epica arcaica concepiva priva di profondità e circondata da Oceano, da dove sorgevano e tramontavano il sole e gli altri pianeti, se ne andava sostituendo una che, senza il sostegno di Atlante, poteva galleggiare autonoma nello spazio e, quindi, in teoria raffigurabile graficamente. Non è quindi un caso che il genere letterario del periplo, con il primo apporto manualistico scritto d’aiuto alla navigazione, nasca in quello stesso periodo.

In un’epoca storica in cui le vie marittime risultavano di gran lunga favorite rispetto a quelle di terra, i peripli  fornivano una standardizzata descrizione dei porti greci che s’incontravano in un percorso navale, le cui conoscenze derivavano dalle esperienze di viaggi compiuti nelle aree periferiche ed inesplorate del mondo allora noto. I primi resoconti di cui si ha notizia riguardano l’Atlantico e  l’oceano Indiano che precedono forse di poco quelli che si interessano del Mediterraneo, la cui sistemazione geografica ha le sue basi iniziali nei viaggi commerciali del IX secolo a.C. ma, soprattutto, in quelli della colonizzazione greca del secolo successivo.

Occorre rilevare che la quasi totalità delle colonie greche sceglieva il luogo di stanziamento in prossimità del mare ed era lungo i litorali che di fatto si svilupparono gli insediamenti. Per questo le informazioni sulle principali rotte marine — ed i peripli che indicavano le tappe dei diversi percorsi — costituivano la base conoscitiva indispensabile per chi doveva intraprendere un qualsiasi viaggio.

Oltre ai peripli, circolavano pure quelli che potremmo definire proto-mappamondi, il più antico dei quali era dovuto ad Anassimandro che, a detta di Strabone, Eratostene (III secolo a.C. – II secolo a.C.) considerava il primo autore capace di redigere un «dipinto geografico» («γεωγραφικὸν πίνακα»12). Notizia questa attestata anche da Diogene Laerzio, il quale in più precisava che Anassimandro «fu il primo a disegnare i contorni della terra e del mare e costruì anche una sfera» («καὶ γῆς καὶ θαλάσσης περίμετρον πρῶτος ἔγραψεν, ἀλλὰ καὶ σφαῖραν κατεσκεύασε»13), quindi il primo a disegnare una carta geografica, contenente le linee di costa, ed un mappamondo. Agatemero, un geografo del III secolo d.C., impreziosisce ancor più l’informazione evidenziando che Anassimandro per primo «osò riprodurre la terra abitata su una tavola» («ἐτόλμησε τὴν οἰκουμένην ἐν πίνακι γράψαι»14). E, in questo suo “osò”, sono racchiuse sia la rottura con certi schemi leggendari del periodo arcaico, sia la difficoltà tecnica a raffigurare l’ecumene in maniera calzante con la realtà.

 

Peccato che questo «πίναξ» («pinax», dipinto) — termine, con cui i Greci indicavano in genere la tavoletta per scrivere e far di conto, ma che adoperavano anche per identificare quadri, dipinti e carte geografiche —  di Anassimandro non sia giunto a noi e che tutte le ricostruzioni, basate sui pochi frammenti rimasti di questo autore, non possano fornirne se non dei semplici saggi solo vagamente comparabili con l’originale. Come sottolineato da Agatemero, era in effetti un vero e proprio azzardo, con  le nozioni e gli strumenti allora disponibili, quello di predisporre un mappamondo che riproducesse, sia pure in maniera approssimativa, le linee di coste e le configurazioni dei Paesi conosciuti. E che i pinakes allora circolanti potessero contenere parecchie approssimazioni ed evidenti difetti, lo si evince dalla critica che senza mezzi termini, circa un secolo dopo, Erodoto esprime a riguardo: «Non riesco ad impedirmi di ridere quando vedo che molti hanno già tracciato varie figurazioni della terra» («Γελῶ δὲ ὁρέων γῆς περιόδους γράψαντας πολλοὺς ἤδη»15). Per quanto sia necessario chiarire che lo storico manifestava le sue perplessità più per le opere grafiche in sé, in quanto collegate a schemi geometrici astratti e non all’esperienza, che per gli specifici manufatti.

Non abbiamo modo di appurare sino a qual punto le lamentele di Erodoto siano giustificate, non essendo sopravvissuto nessuno di questi antichi mappamondi. Con tutte le cautele del caso, possiamo farcene una lontana idea unicamente dalle ricostruzioni moderne compiute in base alle poche informazioni superstiti ed ai dati forniti dai peripli. Va inoltre tenuto presente che, constatata la preminente importanza delle rotte marittime rispetto a quelle terrestri, le attenzioni erano più che altro rivolte alle informazioni sull’andamento delle coste e delle distese marine, vissute comunque come complesso di conoscenze derivate in modo empirico dai vari viaggi compiuti con destinazioni e rotte diverse. Le rappresentazioni dello spazio erano di conseguenza condizionate da percezioni concrete ed analitiche riguardanti le singole vie o gli specifici percorsi compiuti, cui però mancava una precisa visione d’assieme. In pratica, tante tessere disparate, appartenenti ad esperienze e scenari diversi, difficilmente collocabili in uno stesso quadro conoscitivo.

Con questi limiti, e sempre con la dovuta cautela, un confronto tra cartografia antica e moderna è invece possibile compierlo usando il rifacimento della carta geografica di Eratostene, che ha ben altra consistenza in quanto compilata in base ad una serie di elementari coordinate geografiche che permettono di tracciarla contando su pochi, ma significativi, elementi comuni. Per quanto la “tavola” di Eratostene sia stata realizzata due secoli dopo la mappa di Soleto e, quindi, si avvalga di ulteriori concetti nel frattempo acquisiti, essa dà una visione geografica molto prossima a quella posseduta dall’ignoto disegnatore soletano e, in definitiva, si dimostra un termine di paragone utile.

La carta di Eratostene resta comunque un rifacimento e può ugualmente indurci in errore, per questo, come già preannunciato, alle informazioni da essa acquisibili si anteporranno quelle desumibili dalle fonti letterarie del tempo, così da avere la disponibilità di più dati e di porsi nelle condizioni di valutare a ragion veduta se il Basso Salento impresso sull’ostrakon rispecchi le conoscenze che si avevano a riguardo tra la fine del V secolo a.C. e l’inizio del secolo successivo. Oppure se, al contrario, presenti qualche elemento che faccia dubitare che il disegno sia contemporaneo al frammento che lo ospita.

Più che sul Salento in sé, le fonti letterarie forniscono maggiori dettagli sui mari che ne bagnavano le coste; analizzando questi si scopre che gli antichi avevano una diversa idea dello Ionio e, soprattutto, dell’Adriatico. L’Adriatico infatti non era vissuto come un mare nel vero senso della parola: al massimo lo si considerava un mare di passaggio tra due terre oppure una generica distesa marina ma, molto più spesso, era ritenuto un golfo. Lo si intuisce dai termini usati dagli autori che non lo definiscono mai «θάλασσα» (thálassa), come si usava per i mari per antonomasia, ma a volte «πόντος» (pόntos), quindi un mare che consentiva il transito tra una sponda ed un’altra, o più raramente «πέλαγος» (pélagos), una generica profondità marina. Più comunemente, però, era denominato «kόλπος» (kόlpos), vale a dire golfo. Oltre alla concezione che fosse prevalentemente un golfo, trovava ampio credito l’opinione che si distribuisse in due distinti bacini che occupavano rispettivamente la parte più remota (il nostro Alto Adriatico) e quella meno distante dalle coste greche (soprattutto il nostro Basso Adriatico).

In epoca arcaica il tratto settentrionale dell’Adriatico era chiamato dai Greci golfo di Crono16, perché il dio Crono rappresentava in sé uno spazio remoto collocato nelle contrade più estreme del mondo allora conosciuto. In seguito divenne golfo di Rea che, essendo moglie di Crono, richiamava probabilmente lo stesso concetto. Infine assunse la denominazione di «Adrías», Adriatico.

Eschilo17 ci svela invece com’era chiamato il tratto di mare che bagnava le coste della penisola salentina. Narrando la storia di Io, la donna amata da Zeus e tramutata da Era in giovenca, il tragediografo lo denomina «Iónios kolpos» (golfo Ionio). Quest’ultimo nome serviva anche ad identificare genericamente tutto l’attuale Adriatico ma in maniera specifica e più spesso indicava solo l’Adriatico centro-meridionale. In definitiva la parte settentrionale aveva una doppia nomenclatura — golfo Ionio o Adriatico — mentre quella centro-meridionale golfo Ionio.

A volte l’Adriatico veniva trattato come mare e, in questo contesto era chiamato mare Ionio, con la locuzione «Iónion pélagos»18, che interessava però soltanto le acque prospicienti le coste a settentrione del Salento per lo più non coinvolte nel tragitto di passaggio tra le due sponde. Mentre, come già riferito, il tratto  di mare che separava il Salento dalle coste greco-albanesi era denominato, «Iónios kόlpos»19 (golfo Ionio). Infine con «Iónios pόros»20Ιόνιος πόρος») si identificava quello che per noi è il Canale d’Otranto, vale a dire il braccio di mare usato quale via marittima per andare da un litorale all’altro dell’Adriatico. Fornisco tali precisazioni perché, salvo non si ricorra al testo originale in greco, le varie traduzioni riportano, a prescindere dall’espressione usata, genericamente “mar Ionio”, rendendo impossibile capire di quale tratto dell’Adriatico l’autore stia effettivamente parlando: se ben a nord del Salento («Iónion pélagos»); se quello antistante il Salento (golfo Ionio, «Iónios kόlpos») o se quello del Canale d’Otranto («Iónios pόros»).

In ogni caso, di là dai nomi utilizzati e dalle generiche traduzioni che non fanno salvi aspetti essenziali invece contenuti nei testi originali, in antichità il Basso Adriatico era ritenuto a tutti gli effetti mare Ionio. Di conseguenza, nel periodo tra il V e IV secolo a.C. in cui dovrebbe essere stata confezionata la mappa di Soleto, era idea comune che la costa orientale del Salento era bagnata dal mar Ionio, così come avveniva per il litorale occidentale. A differenza delle nostre attuali certezze, non c’erano due mari distinti a solcare i fianchi della penisola salentina, ma uno solo. E questo mare era lo Ionio, sia pure nell’accezione di golfo. Non a caso, ad esempio Erodoto, parlando di Apollonia21 — porto dell’Epiro da cui, in alternativa a Durazzo,  si faceva rotta per Brindisi — afferma che è una città situata sul golfo Ionio, perché quel tratto di mare era ai suoi tempi, senza dubbio alcuno, Ionio e non Adriatico

Soltanto nel secolo successivo, e molto lentamente, il nome che aveva contraddistinto sino ad allora unicamente il bacino settentrionale  — «Adrías» —  prese ad identificare anche la restante parte di golfo, e “nacque” così l’Adriatico che tutti conosciamo. Tuttavia tale nuova denominazione non faceva comunque dell’Adriatico, in particolare per la sua parte meridionale, un mare diverso dallo Ionio. Non a caso nel Periplo dello Pseudo-Scilace — databile al IV secolo a.C. — l’autore,  nel trattare della traversata che si faceva per raggiungere Otranto, dopo essersi riferito senza distinzione allo Ionio e all’Adriatico, per timore di confondere il lettore, precisa che Adriatico e Ionio sono la stessa cosa («τὸ δὲ αὐτὸ Ἀδρίας ἐστὶ καὶ Ἰόνιο»22).

Ancora secoli dopo, il geografo Strabone continuava ad affermare che  il golfo Ionio e l’Adriatico hanno la stessa imboccatura (il canale d’Otranto), come dire che il Basso Adriatico era ancora mare Ionio mentre la parte settentrionale era mare Adriatico23. Lo stesso Virgilio, fa dire a Eleno, cui Enea aveva chiesto consiglio, «fuggi le terre e le contrade della riva italica bagnate dalle onde del nostro mare» («terras Italique hanc litoris oram, proxima quae nostri perfunditur aequoris aestus, effuge»24). E, poiché per Eleno il “nostro mare” era lo Ionio e le città da lui elencate si trovavano collocate sia sul litorale adriatico, sia su quello ionico dell’Italia meridionale, anche ai tempi di Virgilio si riteneva che lo Ionio e il Basso Adriatico non fossero mari distinti.

A differenza nostra erano pertanto i due bacini dell’Adriatico, quello settentrionale e quello meridionale, ad essere eventualmente percepiti come mari diversi. C’è infine  da precisare che gli scoliasti chiamavano mar Ionio d’Italia («Iónios pélagos tes Italías»25) il mare che bagnava complessivamente i bacini del Basso Adriatico e dello Ionio delle sponde italiane, per non confonderlo con il mar Ionio del litorale greco.

Morale della favola, in antichità, la penisola salentina non era considerata dai Greci e dai Latini bagnata da due mari differenti, come ci farebbe invece comprendere la mappa di Soleto, ma da un unico mare.

Va peraltro sottolineato che questa non era una mera questione formale, derivante dai diversi idronimi utilizzati ma, all’opposto, rispecchiava un aspetto sostanziale. Alla base di tutto c’è, infatti, una difformità di prospettiva tra un osservatore moderno ed uno di epoca antica che comportava percezioni necessariamente differenti. È quanto in maniera originale ipotizzato da Pietro Janni26, il quale attribuisce le possibili distorsioni rilevabili tra le configurazioni geografiche date nelle due diverse epoche alla circostanza che quella antica raffigura lo spazio del percorso, ossia il tragitto sperimentato al proprio interno, mentre quella moderna lo ritrae osservandolo dall’esterno, per esempio dall’alto o su una carta geografica. Per rendere più comprensibile il concetto, uso un esempio che coinvolge chi fa lunghi percorsi, vale a dire i maratoneti. Come tutti sanno una maratona ha una lunghezza codificata di 42,195 km, misurata con strumenti di precisione da chi l’organizza. Eppure, al traguardo, ogni singolo partecipante riscontra al suo orologio GPS che il tragitto compiuto è superiore  a quella lunghezza, magari anche di due o trecento metri. Il perché è facilmente spiegabile: i maratoneti, muovendosi all’interno del percorso, non sono in grado di seguire la linea ideale che, invece potrebbero individuare se stessero all’esterno, compiendo così traiettorie che fanno loro percorrere più strada. C’è, quindi, uno spazio odologico (ovvero del percorso) che, derivando dall’esperienza di ciascuno, è soggettivo e dà misurazioni non solo diverse ma pure distorte rispetto alla realtà, ed uno spazio oggettivo, teorizzabile in astratto con riscontri reali. Gli antichi viaggiatori non avevano una visione dall’alto ma, come i maratoneti, interna ai tragitti su cui dovevano muoversi e, per questo motivo, non avevano un quadro d’assieme sulle direzioni e sulle rotte da seguire, né perfetta cognizione delle ampiezze e delle forme con cui avevano a che fare.

Si è già evidenziato che ancora ai tempi in cui operava Strabone, quindi tra il I secolo a.C. e I secolo d.C., si riteneva che il Canale d’Otranto fosse l’accesso comune alle coste salentine dello Ionio e dell’Adriatico. In aggiunta è il caso di tener presente che la navigazione avveniva in genere lungo le coste (cabotaggio) e, soltanto se non si poteva fare altrimenti, si affrontava il mare aperto. Per questo le traversate d’alto mare venivano fatte in punti predeterminati in base all’esperienza, così da minimizzare i rischi conseguenti. Per  l’Adriatico il punto più agevole per passare da una sponda all’altra era proprio il Canale d’Otranto che si attraversava compiendo un tragitto che andava all’incirca da est ad ovest. Ed era questa la direzione di navigazione presa da chi, provenendo dalla Grecia, voleva accedere ad entrambi i litorali salentini. Questo faceva percepire a chi percorreva questa rotta che tutte e due le coste — l’adriatica meridionale e quella ionica — si disponessero lungo la stessa direttrice est-ovest di attraversamento del canale. La configurazione della fascia costiera dipendeva così dalla prospettiva marittima, la quale finiva per deformarne la rappresentazione geografica facendo ritenere ai naviganti che il Salento fosse allineato con la direzione del percorso seguito per approdarvi. A conferma di ciò, è significativo che Strabone, parlando dell’Italia, affermi in maniera esplicita che il promontorio degli Iapigi («τῶν Ἰαπύγων ἄκρα»), intendendo quindi proprio il Basso Salento, si estende in senso «laterale» («παρεμπίπτουσα»27), e non, com’è nella realtà in senso verticale. In pratica era opinione diffusa che le coste del Basso Salento avessero un allineamento grosso modo da ovest ad est, e non da nord a sud, come in effetti è. Quindi il suo disegno era ritenuto di fatto traslato di quasi 90° rispetto alla direzione di vero sviluppo.

I rifacimenti della carta geografica di Eratostene ci danno in genere concreta conferma di questo diverso allineamento, rappresentando tutto il Salento di fatto disposto quasi lungo la direzione dei paralleli. E, ancor più esplicita, si dimostra quella ricostruita in base alle indicazioni fornite da Erodoto — che, ricordiamo, era contemporaneo dell’ignoto disegnatore della “mappa” — dove sperone e tacco d’Italia, essendo bagnati dallo stesso mare, sono collocati l’uno in parallelo all’altro.

In conclusione era pacifico convincimento che il Salento meridionale avesse un diverso sviluppo rispetto a quello effettivo e, da questa rappresentazione falsata, derivava pure l’altra errata convinzione che entrambe le coste della penisola salentina  fossero bagnate da un medesimo mare.

In realtà era l’Italia stessa che veniva percepita in modo inesatto. Polibio — ancora nel II secolo a.C.  — la descriveva con una configurazione triangolare («τριγωνοειδοῦς») con base le Alpi e per vertice il capo Cocinto28, attuale punta Stilo, lasciando intendere che tutte le terre ad oriente di questo punto, e quindi anche il Salento, fossero necessariamente fiancheggiate da un solo mare. Ed a evidenziare questa circostanza, lo storico di Megalopoli precisa che Cocinto, da lui denominato il promontorio d’Italia, «separa il Canale di Otranto dal mare di Sicilia»  («διαιρεῖ δὲ τὸν Ἰόνιον πόρον καὶ τὸ Σικελικὸν πέλαγος»29). Successivamente pure Strabone, sebbene conscio che l’Italia non sia assimilabile ad un triangolo, la concepisce tuttavia «racchiusa sui due fianchi dall’Adriatico da una parte, dal mar Tirreno dall’altra» («σφιγγομένη δ´ ἑκατέρωθεν, τῇ μὲν ὑπὸ τοῦ Ἀδρίου τῇ δ´ ὑπὸ τοῦ Τυρρηνικοῦ πελάγους»30). In aggiunta, cercando di equiparare la penisola italica ad una qualche configurazione geometrica, pur riconoscendo che la costa occidentale, vale a dire «quella bagnata dal mar Tirreno e che finisce sullo stretto [di Messina]» («τὴν ἐπὶ τὸν πορθμὸν τελευτῶσαν, κλυζομένην δὲ ὑπὸ τοῦ Τυρρηνικοῦ πελάγους»31), possa considerarsi rettilinea, l’altra — quella orientale adriatica — la dichiara curvilinea («περιφερές»32). Asserendo inoltre che la costiera adriatica s’inarca verso oriente («ἀνατολάς»33), proprio nei pressi del promontorio Iapigio, attuale Capo S. Maria di Leuca, («ἐπὶ τὴν ἄκραν τὴν Ἰαπυγίαν»34).

Se non bastasse è ancor più esplicito quando, riferendosi al Capo Iapigio, narra che il promontorio si estende per grande distanza sul mare in direzione dell’oriente invernale («ὁ σκόπελος, ὃν καλοῦσιν ἄκραν Ἰαπυγίαν, πολὺς ἐκκείμενος εἰς τὸ πέλαγος καὶ τὰς χειμερινὰς ἀνατολάς»35) e si volge poi un po’ verso occidente in direzione del Capo Lacinio36ἐπιστρέφων δέ πως ἐπὶ τὸ Λακίνιον ἀνταῖρον ἀπὸ τῆς ἑσπέρας αὐτῷ»37). Il che rafforza la convinzione che agli occhi degli antichi il Basso Salento era di fatto orientato da ovest verso est e, quindi, con uno sviluppo orizzontale. E questo orientamento, che pare acquisizione comune e del tutto scontata, costituiva la causa principale della supposizione che la penisola salentina non si trovasse tra due mari.

Con buona certezza, si può pertanto affermare che la mappa di Soleto, nel proporre  le coste del Basso Salento disposte in modo evidente da nord a sud, riproduca pari pari la visione attuale e non quella che ne avevano i geografi e gli storici antichi.

Salvo che l’anonimo grafico non precorresse i tempi, tutto ciò invoglia a credere che il disegno contenuto nella “mappa” sia più recente di almeno sei secoli  rispetto all’ostrakon su cui è stato inciso. Infatti, soltanto a partire da Tolomeo, e quindi dal II secolo d.C., si incomincia a diffondere una configurazione del Salento che s’avvicina a quella reale.

L’impressione che se ne trae è che, in definitiva, non c’è corrispondenza tra conoscenze geografiche di quel periodo e disegno ospitato dalla “mappa”. Anzi lo schizzo fatto sull’ostrakon dimostra una qual certa precocità per questa visione moderna della direzione delle coste del Basso Salento e dei mari che lo bagnano.

In definitiva anacronismi che spingono a dubitare che si tratti d’un disegno fatto tra il V ed il IV secolo a.C. e che, al contrario, ci siano elementi consistenti per sospettare che sia stato confezionato in tempi molto più recenti.

In altre parole che potrebbe trattarsi di un falso.

Anche se per motivi del tutto diversi da quelli da me esposti, la stessa tesi è stata prospettata da Mario Lombardo, tornato a discutere della “mappa” in un articolo che ho lasciato appositamente per ultimo perché rappresenta uno dei più recenti ed illustri pareri sulla validità del documento38.

Gli aspetti essenziali che hanno indotto lo studioso ad ipotizzare che la “mappa” sia un falso riguardano la circostanza che «la qualificazione precisa del contesto di rinvenimento non risulti del tutto chiara né univoca»39 e, inoltre, il «problematico rapporto che si lascia cogliere, almeno in tre casi, tra denominazioni toponomastiche» e «ubicazione geografica»40. Il riferimento è alle sequenze toponimiche ΒΑΛ (BAL), ΣΤΥ (STY) e ΓΡΑΧΑ (GRAXA) le quali trovano riscontro solo nelle legende di emissioni monetali da parte di località vicine a Brindisi (rispettivamente Valesio, Stulni e Graxa) e quindi in una zona a nord di quella rappresentata sull’ostrakon.

Su queste basi, Mario Lombardo considera possibile e lecito supporre che la “mappa” «costituisca un falso realizzato da qualcuno che aveva un qualche interesse a rappresentare un’area geografica specifica dell’orizzonte territoriale dell’antica Messapia, quella con al centro Soleto»41 e, in aggiunta, dotato di ampie e svariate conoscenze. E che, in definitiva, la “mappa” possa essere considerata «come espressione di una ‘imposture’ in qualche misura ‘savante’»42.

Quindi una “impostura erudita”, anche se sprovvista, a quanto sembrerebbe, di precise e buone conoscenze degli aspetti cartografici e geografici del mondo antico.

 

Note

[1]In effetti anche le modalità del rinvenimento rappresentano un piccolo giallo, considerato che le versioni ufficiali fornite da chi aveva condotto gli scavi risultano tre e tutte diverse tra loro.

2 M. LOMBARDO, La “Mappa di Soleto”: aspetti epigrafici, in M. LOMBARDO, C. MARANGIO (a cura di), Antiquitas. Scritti di storia antica in onore di Salvatore Alessandrì, Congedo editore, Galatina 2011, p. 206.

3 Ibidem, p.208.

4 Ibidem, pp. 203-212.

5 A. SICILIANO, La cosiddetta “Mappa di Soleto”: aspetti numismatici, in L’indagine e la rima. Studi in onore di Lorenzo Braccesi (Hesperìa 30), L’erma di Bretschneider, Roma 2013, pp. 1253-1288.

6 F. D’ANDRIA, La “mappa di Soleto” nel contesto archeologico e topografico del Salento (V sec. a.C.), in M. LOMBARDO, C. MARANGIO (a cura di), Antiquitas. Scritti di storia antica in onore di Salvatore Alessandrì, Congedo editore, Galatina 2011, p. 57-66.

7 M. LOMBARDO, Cit., p. 209.

8 Ibidem, p. 210; A. SICILIANO, Cit., p. 1283.

9 F. D’ANDRIA, Cit., p.65.

10 Ibidem.

11 M. LOMBARDO, Nuove scoperte e falsi nell’epigrafia greca tra XIX e XXI secolo. Falsi, imposture erudite e scoperte problematiche, in Studi di Antichità 16. Impostures Savantes. Le faux, une autre science de l’antique?, Congedo editore, Galatina 2018, pp. 97-108.

12 STRABONE (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, I 1, 11.

13 DIOGENE LAERZIO (II secolo d.C. – III secolo d.C.), Vite dei filosofi, II 1, 2.

14 AGATEMERO (III secolo d.C.), Geografia, I 1.

15 ERODOTO (V secolo a.C.), Storie, IV 36, 2.

16 APOLLONIO RODIO (III secolo a.C.), Le Argoutiche, IV 327.

17 ESCHILO (VI secolo a.C. – V secolo a.C.), Prometeo incatenato, 837-840.

18 STEFANO BIZANTINO (VI secolo d.C. – …), Ethnica, voce “Πευκέτιοι”, «Πευκέτιοι, ἔθνος περὶ τὸ Ἰόνιον πέλαγος» (Peucezi, popolo che vive sulle coste del mar Ionio).

19 FERECIDE di ATENE (V secolo a.C.), presso DIONISIO di ALICARNASSO (I secolo a.C.), Antichità Romane, I 13, 1;  TUCIDIDE (V secolo a.C. – IV secolo a.C.), La guerra del Peloponneso, VI 44,1; PSEUDO-SCILACE, Periplo (forse IV secolo a.C.), par. 14; EUDOSSO di RODI (III secolo a.C.), presso l’Etimologico Magno, 18.54, voce Adrías; STRABONE, Cit., II 5, 20 – VI 3, 5 – VII 5, 8; APPIANO (I secolo d.C. – II secolo d.C.), Storia Romana, VII 33; DIONE CASSIO (II secolo d.C. – III secolo d.C.), Storia Romana, presso TZETZE, Scoli all’Alessandra di Licofrone, 602.

20 PINDARO (VI secolo a.C.- V secolo a.C.), Ode Nemea IV, vv. 50 – 53; POLIBIO (III secolo a.C. – II secolo a.C.), Storie, II 14, 5; PSEUDO-SCIMNO, Descrizione della terra (II secolo a.C.), v. 361;DIODORO SICULO, (I secolo a.C.), Biblioteca Storica, XVI 5, 3.  C’è da aggiungere a riguardo che, in alternativa alla denominazione di «Iónios pόros», veniva usata quella di «stóma tou Ionίou kólpou» (imboccatura del golfo Ionio). Pertanto, il Canale di Otranto era indicato con due diverse locuzioni.

21 ERODOTO, Cit., IX 92, 3.

22 PSEUDO-SCILACE, Cit., par. 27.

23 STRABONE, Cit., VII 5, 8-9.

24 VIRGILIO (I secolo a.C.), Eneide, III 396-398.

25 Scolii ad APOLLONIO RODIO, Cit., Frg. 4, 308. Si noti che nel suo complesso lo Ionio diventa pélagos, vale a dire “mare aperto”.

26 P. JANNI, La mappa e il periplo. Cartografia antica e spazio odologico, Giorgio Bretschneider, Roma 1984.

27 STRABONE, Cit., II 4, 8.

28 POLIBIO, Cit., II 14, 4 – 5.

29 Ibidem, II 14, 5 – 6.

30 STRABONE, Cit., V 1, 3.

31 Ibidem, V 1, 2.

32 Ibidem.

33 Ibidem.

34 Ibidem.

35 Ibidem, VI 3, 5.

36 Attuale Capo Colonna.

37 Ibidem, VI 3, 5.

38 M. LOMBARDO, Cit, in Studi di Antichità 16, Congedo editore, Galatina 2018, pp. 97-108.

39 Ibidem, p. 102.

40 Ibidem, p. 104.

41 Ibidem, p. 105.

42 Ibidem.

 

Raffaele Marti (1859-1945), un letterato salentino da riscoprire

UN LETTERATO SALENTINO DA RISCOPRIRE: RAFFAELE MARTI. PRIMO CONTRIBUTO BIO-BIBLIOGRAFICO

di Paolo Vincenti

Fratello del più noto Pietro Marti, fu scienziato e letterato di non poco momento. Raffaele Marti nacque a Ruffano nel 1859 da Elena Manno e Pietro. Suoi fratelli accertati: Luigi Antonio, nato nel 1855, Francesco Antonio, nato nel 1856, Maria Domenica Addolorata, nel 1858, Pietro Efrem (che morì dopo 3 mesi) nel 1861, Pietro Luigi, nel 1863[1]. Tuttavia, sappiamo da alcuni fogli autobiografici di Pietro Marti, ritrovati in una biblioteca privata, che erano quindici i fratelli, di cui Pietro, l’ultimo[2]. Fra questi, anche Giuseppe, al quale il poeta Luigi Marti dedica la sua opera, Un eco dal Villaggio (Alla memoria di mio fratello Giuseppe morto giovanissimo vissuto a bastanza per conoscere e patire”), ma su di lui, fino ad ora, alcun riscontro.

La notorietà di Raffaele, probabilmente, fu offuscata da quella di Pietro Marti.[3] Nella prima parte della sua vita, il suo percorso si intreccia strettamente con quello del più illustre fratello, per formazione e per le prime esperienze lavorative. Ma è giunto il momento che anche Raffaele raccolga la messe che i suoi indiscutibili meriti hanno prodotto.

Come i fratelli Pietro e Luigi, anch’egli frequentò il corso primario inferiore e quello superiore, a costo di grandi sacrifici per la madre, per altro vedova. Come i fratelli, fu maestro elementare a Ruffano, e poi a Lecce, dove fondò, insieme a loro, nel 1884, un istituto secondario di istruzione privato, che era uno dei due ginnasi privati leccesi insieme a quello del Padre Argento.[4] Come Pietro, si trasferì a Comacchio, dove insegnò per alcuni anni.

Raffaele, insigne scienziato, doveva godere della stima della comunità scientifica dell’epoca se il grande Cosimo De Giorgi scrive anche una Presentazione della sua opera Golfi di Taranto, Napoli e Valli di Comacchio, definendolo “un benemerito della scienza e della nostra provincia”.[5]Il prof Marti, il matematico insigne, che per tanti anni ha illustrato la scuola, s’appalesa oggi uno scienziato di alto valore”, scrive di lui Don Pasquale Micelli, recensendo l’opera Le coste del Salento su “L’Ordine” (Lecce, 9 maggio 1924), e continua “Il recente lavoro è un insieme armonico di tutto ciò che forma una solida cultura moderna; la Geologia, la Fisica, la Litologia, l’Idrografia, la Flora, la Fauna, la Mineralogia, la Storia, la Preistoria, la Politica, la Letteratura, l’Arte, l’Agraria, la Pesca, ecc. sono trattate con pennellate da maestro”[6].

Nel 1894, pubblica L’acqua conferenza letta nella sala del consiglio comunale di Norcia e Operazioni del calcolo e loro analogia.[7]  Nel 1896, pubblica Golfi di Taranto, Napoli e Valli di Comacchio (loro produzione alimentare),[8]con Presentazione di Cosimo De Giorgi, in cui si occupa della fauna marina nei due golfi tarantino e napoletano e nelle valli di Comacchio: uno studio approfondito sulle specie ittiche che vivono nei tre mari Ionio Adriatico e Tirreno. Inoltre pubblica Elementi di Algebra.[9] Nel 1907, pubblica Dalla P. della Campanella al C. Licosa [10]e, nello stesso anno, Foglie sparse[11]. Nel 1913, dà alle stampe Gli acari o piaghe sociali. Dramma in quattro atti e cinque quadri.[12]Quest’opera viene premiata dalla Reale Accademia Filodrammatica di Palermo nel 1910 e dal Teatro Italiano di Roma il 31 luglio 1911, come opera edificante e di elevata valenza sociale[13].

Lunga fu la collaborazione di Raffaele come pubblicista nelle riviste fondate o dirette dal fratello, l’infaticabile promoter Pietro Marti. Pietro, infatti, diresse, fra gli altri, i periodici “L’Indipendente”, nel 1891, “Il Salotto” di Taranto, nel 1896, “L’avvenire”, di Taranto, nel 1897, e sempre nella città ionica collaborò a “Il lavoro” e “La palestra”; inoltre a Lecce fondò e diresse “La democrazia”, dal 1893 al 1896, poi divenuto “Il corriere salentino”, dal 1902 al 1920, “Fede”, dal 1923 al 1926, “La voce del Salento”, dal 1926 al 1933, per citare solo i più importanti. In particolare, su “La voce del Salento”, Raffaele collaborò con articoli di carattere storico e archeologico e recensioni di libri.[14] Se con Pietro condivideva l’amore per il patrimonio artistico della nostra terra d’Otranto e la necessità di una sua strenua difesa (Pietro fu anche Regio Ispettore ai Monumenti della Provincia di Lecce, dal 1923 al 1929, nonché Direttore della Biblioteca Provinciale “Bernardini”), quindi un interesse di carattere erudito, con l’altro fratello, Luigi, (1855-1911), condivideva l’amore per la poesia e le belle lettere.[15]  Ma, come detto, gli interessi culturali in casa Marti coinvolgevano tutti i fratelli maschi. Infatti, anche Antonio (1856- 1926) fu un letterato.[16]

Raffaele scrive anche diverse commedie, a conferma della poliedricità e della varietà dei suoi interessi, come: Un’ora prima di scuola. Commedia in un atto; Patriottismo. Commedia in un atto; Il ciabattino di Sorrento. Dramma in tre atti; Gli orfani del vecchio impiegato. Queste composizioni, a quel che ci risulta, restano manoscritte e non trovano sbocco editoriale. Non sappiamo neppure se esse siano state rappresentate in teatro ma è certo che vengono fatte circolare in versione manoscritta, se ricevono alcuni premi e menzioni d’onore, come si rende noto nell’opera Le coste del Salento, che riserva una pagina alle “Opere di stampa del Prof. Raffaele Marti”, ossia una sintetica sua bibliografia degli scritti. Ed è appunto del 1924 Le coste del Salento Viaggio illustrativo, per i tipi della Tipografia Conte di Lecce:[17] un excursus storico- letterario fra le coste della penisola salentina, condito anche dalle tante leggende che avvolgono queste contrade. Nella sua nota iniziale, Marti si rivolge “Ai giovani”, invitandoli a trarre profitto da questo suo lavoro di “Geografia fisica, della Fisica terrestre, della Mineralogia, della Geologia, della Paleontologia, della Fauna, dell’Ittiofauna e della Malacologia, della Flora terrestre e marina”. Un programma certo ambizioso, forse troppo, che si propone anche di parlare delle torri, dei castelli, dei villaggi e della varia architettura salentina sparsa fra i due mari Ionio e Adriatico. Occorre però rapportare questo pur vasto programma alle conoscenze del tempo, che erano certo più scarse, per cui certe ricerche apparivano quasi pionieristiche, ed inoltre occorre tener conto dell’intraprendenza con cui taluni eruditi dagli interessi universali quale Marti si aprivano alla conoscenza.  Il libro dimostra di essere molto apprezzato dalla critica. Se ne occupano tutti i giornali locali, da “La Provincia di Lecce” a “Il Nuovo Salento”, da “La Gazzetta di Puglia” a “La Freccia”, periodico di Palermo. “In una sintesi mirabile”, scrive Pasquale Micelli  su “L’Ordine” (Lecce, 9 maggio 1924), “egli ha saputo raccogliere, in poco più di 100 pagine, quanto riguarda la penisola salentina, nella varietà delle coste bagnate dall’Adriatico e dallo Ionio, l’origine, la storia e l’antico splendore delle città sparse su di esse o nell’immediato hinterland, i costumi dei popoli, che la abitano, lo sviluppo intellettuale e commerciale, la natura e la fertilità del terreno […] In tutto il libro si trova mirabilmente concentrato quanto moltissimi scrittori hanno diluito in vari poderosi volumi”[18].“Il libro ci fa tornare alla memoria i magnifici prodotti della letteratura storica e scientifica francese, che tende a popolarizzare l’arte ed il pensiero”, scrive un articolista (probabilmente Pietro Marti) su “Fede” (Lecce, 20 giugno 1924)[19].“Mai mi era capitato di leggere un libro in cui fossero fermate tutte le espressioni del Salento”, sostiene Pietro Camassa sul periodico brindisino “Indipendente” (ottobre 1924), “Vi si parla di mitologia, di preistoria, di letteratura, d’arte, di storia militare, civile, politica, di pesca, di caccia, di industria…”[20].  Gli scrive anche il famoso archeologo Luigi Viola, in una lettera che Marti inserisce nel libro L’estremo Salento, insieme ai giudizi critici di cui stiamo riferendo.[21] Nel 1925 è la volta di Lecce e i suoi dintorni.[22]

Anche questo libro è accolto molto bene dalla critica di settore. Ne scrive “L’Indipendente” di Brindisi (11 luglio 1925) come di un libro molto riuscito e interessante, giudizio condiviso da Nicola Bernardini su “La Provincia di Lecce” del 24 maggio 1925[23]. E sul “Corriere Meridionale” (Lecce, 20 agosto 1925), afferma Francesco D’Elia: “il presente volume del Prof. Marti ha un carattere popolare, in quanto le principali notizie storiche dei luoghi, esposte in forma spicciola, sono fuse insieme con numerose indicazioni delle varie forme di attività cittadina, culturale, artistica, industriale, che crediamo utilissime perché ci dimostrano il progresso raggiunto nella civiltà dei nostri luoghi, e quel migliore avvenire che attendono di raggiungere”[24]. Anche in questo libro, Marti dà cenni di Geografia, idrografia, si occupa di storia e di arte dei principali centri dell’hinterland leccese, come Surbo, San Cataldo, Acaia, Strudà, Pisignano, San Cesario, Monteroni, Novoli, Campi, Trepuzzi, oltre naturalmente al capoluogo di provincia. Nel 1931 esce L’estremo Salento,[25]  con Prefazione di Amilcare Foscarini, il quale afferma che “se i precedenti libri di questo benemerito ed instancabile autore sono riusciti dilettevoli e istruttivi per la generalità dei lettori, quest’ultimo li supera per un maggiore interesse, poiché tratta di una contrada incantevole, lussureggiante, ricca di memorie, di terreni fertilissimi e di prodotti commerciali, cinta da ridenti marine, da stazioni balneari e termo-minerali di eccezionale importanza, poco apprezzata perché poco conosciuta”[26].

Come recita il titolo, l’opera si occupa dell’estrema propaggine del Salento, il Capo di Leuca, ovvero il Promontorio Iapigio, che divide l’Adriatico dallo Ionio. Parte dalla preistoria, citando le fonti greche e latine e passando in rassegna tutte le più svariate e oggi abusate ipotesi sulle origini del nostro popolo. Si occupa della storia antica del Salento, della storia medievale e moderna, delle famiglie gentilizie e dei grandi personaggi del passato, secondo uno schema paludato che se oggi è superato, ai tempi di Marti era ancora in auge e anzi era l’unico metodo storiografico in uso. Si può dunque apprezzare lo sforzo profuso dal Nostro, in questa notevole attività pubblicistica e nel suo impegno nella scoperta e parimenti nella valorizzazione dell’enorme portato culturale di cui è depositaria la terra salentina. Pur essendo uno scienziato, di robusta formazione positivista, Marti fu amato dalla Musa e seppe coltivare generi letterari così diversi con immutata partecipazione.  Ulteriori approfondimenti potranno rendere più nitida una figura così interessante.

Raffaele Marti morì a Lecce il 5.2.1945, all’età di 86 anni.

 

Note

[1] Devo queste e le successive notizie anagrafiche all’amico studioso Vincenzo Vetruccio, il quale ha condensato le sue ricerche sulla famiglia Marti in un “Discorso Su Pietro Marti pronunciato il 19 febbraio 2015 presso la scuola primaria Saverio Lillo” Inedito.

[2] Si tratta di opera inedita, lasciata incompleta e segnalata da Alfredo Calabrese, Le memorie di Pietro Marti, in “Lu lampiune” n.1 Lecce, Grifo, 1992, pp.27-34.

[3] Sulla figura dell’erudito Pietro Marti (1863-1933), storico, giornalista, conferenziere, illustre concittadino di Ruffano, esiste una cospicua bibliografia. Tra gli altri:

Carlo Villani, Scrittori ed artisti pugliesi antichi, moderni e contemporanei, Trani, Vallecchi, 1904, p.578 (nuova edizione Napoli, Morano, 1920, pp-137-138);  Domenico Giusto, Dizionario bio-bibliografico degli scrittori pugliesi (dalla Rivoluzione Francese alla rivoluzione fascista), Bari, Società Editrice Tipografica, 1929, pp.187-188;  Aldo de Bernart, Nel I centenario della nascita di Pietro Marti, in “La Zagaglia”, Lecce, n. 21, 1964, pp.63-64;  Pasquale Sorrenti, Repertorio bibliografico degli scrittori pugliesi contemporanei, Bari, Savarese, 1976, pp.375-376; Ermanno Inguscio, La civica amministrazione di Ruffano (1861-1999). Profilo storico,  Galatina, Congedo Ed., 1999, pp.174-175; Paolo Vincenti, Pietro Marti da Ruffano, in “NuovAlba”, dicembre 2005, Parabita, 2005, pp-17-18; Aldo de Bernart, In margine alla figura di Pietro Marti,  in “NuovAlba”, aprile 2006, Parabita, 2006, p.15;  Ermanno Inguscio, Vanini nel pensiero di Pietro Marti, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie,  n. XX, Lecce, Argo, 2009, pp.137-148;Idem, Pietro Marti direttore di giornali, in “Terra di Leuca. Rivista bimensile d’informazione, storia, cultura e politica”, Tricase, Iride Edizioni, a. VII, n. 39, 2010, p. 6; Idem, L’attività giornalistica di Pietro Marti,  in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie,  n. XXI, Lecce, Argo, 2010-2011, pp.227-234;Idem, Il giornalista Pietro Marti, in “Terra di Leuca. Rivista bimensile d’informazione, storia, cultura e politica”,Tricase, Iride Edizioni, a.VIII, n.40, 2011, p.7;Idem, Liborio Romano e le ragioni del Sud nel periodo postunitario. Il contributo di Pietro Marti sul patriota salentino, in “Risorgimento e Mezzogiorno. Rassegna di studi storici”, n.43-44, dicembre 2011, Bari, Levante Ed., pp.147-161; Idem, Pietro Marti e la cultura salentina. Apologia di Liborio Romano, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie, n. XXII, Lecce, Grifo,2012, pp.164-185;Aldo de Bernart, Cenni sulla figura di Pietro Marti da Ruffano, Memorabilia 35, Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis,2012; Ermanno Inguscio, Pietro Marti, il giornalista, il conferenziere, il polemista, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie, n. XXIII, Lecce, Argo, 2013, pp.40-58; Idem, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013.

[4] Ermanno Inguscio, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013, p.34.

[5] “…imitate questo vostro compagno di studio, che ha scritto il suo libro raccogliendone gli elementi dalla natura vivente e reale […] Fate, fate, fate voi come ha fatto lui, e vi renderete benemeriti, non solo alla scienza, col contributo che darete, ma anche alla nostra provincia”: Cosimo De Giorgi, Prefazione, in Raffaele Marti, Golfi di Taranto, Napoli e Valli di Comacchio (loro produzione alimentare), Lecce, Tip. Lazzaretti, 1896, p.6.)

[6] Giudizi sopra alcune opere del Marti, in Raffaele Marti, L’estremo Salento, Lecce, Stabil. Tipografico F.Scorrano e co., 1931, pp.8-9.

[7] Raffaele Marti, L’acqua conferenza letta nella sala del consiglio comunale di Norcia e Operazioni del calcolo e loro analogia , Lecce,  Tip. Cooperativa, 1894.

[8] Idem, Golfi di Taranto, Napoli e Valli di Comacchio (loro produzione alimentare), Lecce, Tip. Lazzaretti, 1896.

[9] Idem, Elementi di Algebra, Taranto, Tip. Latronico, 1896.

[10] Idem, Dalla P. della Campanella al C. Licosa, Taranto, Tip. Spagnolo, 1907.

[11] Idem, Foglie sparse, Taranto, Tip. Spagnolo, 1907.

[12] Idem, Gli acari o piaghe sociali. Dramma in quattro atti e cinque quadri, Lecce, Tip. Conte, 1913.

[13] Ermanno Inguscio, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013, p.195.

[14] , Ermanno Inguscio, Letteratura arte e storia nel periodico “La voce del Salento”, in Idem, Pietro Marti (1863-1933), op.cit.., pp.149-160.

[15] Luigi, sposato a Pallanza, in provincia di Novara, anch’egli firma de “La voce del Salento”, fu apprezzatissimo poeta e scrittore.  Fra le sue opere, per citare solo qualche titolo: Un eco dal villaggio, Lecce, Stab. Tip. Scipione Ammirato, 1880; Manfredi nella Storia e nella Commedia dell’Alighieri, Lecce, Tipografia Salentina, 1887; Liriche, Lecce, Tipografia Garibaldi, 1889; La verde Apulia, Lecce, Tipografia Salentina, 1889; Napoleone e la Francia nella mente di Foscolo, Pallanza, Tipografia Verzellini, 1891; Un secolo di patriottismo, Pallanza, Tipografia Verzellini, 1891; Il Salento, Taranto, Editore Mazzolino, 1896; Dalle valli alle vette, Milano, La Poligrafica, 1898; ecc. Luigi morì improvvisamente a Salerno nel 1911, all’età di 56 anni.

[16] Fra le opere di Antonio Marti, basti citare: il volume di poesie Povere foglie, Lecce Tip. Editrice Sociale- Carlino, Marti e Cibaria, 1891, e Scritti vari – Novelle e Viaggi, Intra, Tipografia Bertolotti Paolo e Francesco,1893.

[17] Raffaele Marti, Le coste del Salento Viaggio illustrativo, Lecce, Tip. Vincenzo Conte, 1924.

[18] Giudizi sopra alcune opere del Marti, in Raffaele Marti, L’estremo Salento, Lecce, Stabil. Tipografico F.Scorrano e co., 1931, p.8.

[19] Ivi, p.10.

[20] Ivi, p.12.

[21] Ivi, p.11.

[22] Idem, Lecce e suoi dintorni. Borgo Piave, S. Cataldo, Acaia, Merine, S. Donato, S. Cesario ecc., Lecce Tip. Gius. Guido, 1925.

[23] Giudizi sopra alcune opere del Marti, in op.cit., p.14.

[24] Ivi, p.13.

[25] Idem, L’estremo Salento, Lecce, Stabil. Tipografico F.Scorrano e co., 1931.

[26] Amilcare Foscarini, Prefazione, in op.cit., p.3.

Ortelle. Una piccola personale di murales di Antonio Chiarello

Una piccola personale di Murales: Antonio Chiarello adorna il suo borgo di dipinti murali molto interessanti e gradevoli

 

di Giuseppe Corvaglia

Quest’anno, dopo la necessaria astinenza dell’anno trascorso col COVID 19,  come ogni terzo fine settimana di ottobre, a Ortelle si è tenuta la tradizionale Fera de Santu Vitu.

La gente ha partecipato  numerosa (e speriamo che non ci siano conseguenze): il richiamo di una delle feste più amate dell’autunno,  la carne “de porcu paesanu”, “ddilissata con pepe e sale” o arrostita con i suoi effluvi inebrianti, il vino , la birra, le castagne, le noccioline, i fichi siccati, la cupeta, i mustazzoli e tante e tante cose buone, sono state per moltissimi un’attrattiva irresistibile.

Quest’anno, però, a Ortelle, nelle immediate prossimità della fiera, c’era anche un piccolo evento che non è stato pubblicizzato, perché nato spontaneamente e non previsto come tale, che però a un occhio attento non poteva sfuggire.

Andando dalla “Madonna de a Crutta” verso via Provinciale era ed è possibile godersi una piccola personale di murales di Antonio Chiarello.

Da qualche anno Antonio, che è pittore del Salento, pittasanti, come spesso si definisce, che non disdegna lavori di decorazione e di murales,  ha sperimentato questa forma espressiva con buoni risultati e sembra prenderci gusto.

A pochi metri dalla chiesetta ipogea si può ammirare il murales dedicato a Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Francesca Morvillo e agli uomini della scorta caduti con loro. I due magistrati sono rappresentati in atteggiamento confidenziale, come in una famosa fotografia, e il murales evoca quella confidenza che, quasi, si può sentire il loro bisbigliare. Nei pressi l’Amministrazione ha piantato un albero della legalità perché chi muore può generare buoni frutti, se è un buon seme.

Procedendo oltre su via Provinciale si incontrano le altre due pitture murali. Sono poste una davanti all’altra, ma una è visibile a chi va verso il mare e una è visibile a chi torna.

Entrambe hanno il dono della leggerezza, ma sono collegate alla terra, a questa Terra, il Salento.

 

Uno raffigura un aquilone che vola nel cielo e una scritta che dice “la sola cosa che non sopporto degli aquiloni è lo spago che li tiene legati“, un inno alla libertà estrema che rappresenta il volo, ma l’autore della frase, nell’impeto dell’entusiasmo, omette di dire che senza quel filo e quel legame l’aquilone non potrebbe volare. Un po’ come tutti noi che ci stacchiamo dalla nostra casa, dai nostri cari e andiamo nel mondo, liberi, ma legati a un sottile, invisibile filo che ci guida nelle nostre scelte.

È il filo delle nostre radici, dell’imprinting che ci hanno dato i nostri maggiori, dell’amore dei nostri cari che ci lega a questi luoghi.

L’altro è il più recente e anche più complesso dove Antonio esprime tutto l’amore e la simpatia per Francesco d’Assisi.

Nel cielo terso si alza un frondoso albero di fico che rappresenta il rivoluzionario messaggio di Francesco, dal Cantico delle creature, che ci dice che per amare e lodare Dio dobbiamo prenderci cura e amare il mondo. E allora lodiamo il Signore per nostra sorella Terra, per nostra sorella Acqua, per frate Foco e frate Aere, rispettiamoli, prendiamocene cura come cose nostre, care e indispensabili alla nostra sopravvivenza e alla nostra felicità. Il messaggio è impegnativo per chi, alla ricerca della felicità nel consumismo e nei bagordi, rovina questi tesori comuni e non si  cura del loro bene, che poi è il nostro, ma è anche un messaggio leggero perché si serve di parole semplici, antiche, seppure ancora attuali ed efficacissime, per questo degne di essere “scolpite” nella pietra a monito.

E leggerezza esprime il fanciullo vestito di bianco che in bilico sulla pietra imita il volo degli uccelli che si librano nell’aria e ci fanno sentire tutta la sua malinconia (che poi è la nostra), per non poter spiccare il volo: lui gioca a volare, ma i suoi piedi restano a terra, su quella terra fatta di muretti a secco, erba e papaveri, con una lucertola e una gazza che lo guardano perplesse. Una terra, il Salento, che ha partorito un Pittore che dalla semplicità di un piatto muro bianco sa evocare, con un formidabile “tromp-l’oeil”, un mondo fantastico.

 

Ho incontrato Antonio nel suo studio e gli ho chiesto:

La scelta dei muri, a parte quello della tua casa natale, è stata casuale, dettata da una commissione o l’hai fatta tu?

È stata una mia iniziativa, ma direi che alla fine è stata l’una e l’altra cosa. Il primo, quello della casa dei miei, è nato per mia spontanea volontà: i miei figli erano piccoli e volevo fare una cosa gioiosa che riprendesse quella frase,  e gli aquiloni che mi ispiravano. All’epoca, gli anni ’90, di murales  a Ortelle non ce n’erano.

Poi mi sono appassionato ai murales che stanno diventando un fenomeno diffuso e che mi piace proprio come forma espressiva.

In quei muri bianchi ci vedo una risorsa, un’occasione e allora, quasi per gioco, ho proposto al padrone di casa un dipinto dedicato a Falcone e a Paolo Borsellino e lui ha accettato senza enfasi, con naturalezza. Il contesto era adatto; un parco frequentato dalle giovani generazioni che più di ogni altro hanno bisogno di chiedere giustizia, legalità, senso civico.

Mi sono interessato io delle autorizzazioni al Sindaco e all’Ufficio tecnico, del materiale e l’idea l’ho elaborata, come anche per il terzo murales, parlandone con amici e maturandola poi da solo.

La cosa procede così anche ora: ci sono luoghi che mi ispirano e mi appartengono: un muro che vedo tutti i giorni di fronte a casa mia, il muro della mia casa natale e il muro di fronte dove prima c’era un benzinaio e che ora era piatto, anonimo, mi stimolano, allora propongo l’idea al padrone di casa e se viene accolta si procede.

 

Insomma il murales può coprire qualsiasi muro oppure ha bisogno di un contesto suo?

Ecco, questo è il vero nocciolo della questione: è opportuno che l’opera si realizzi in un contesto adeguato, altrimenti il rischio è che ci si faccia prendere la mano e si realizzino cose esteticamente discutibili complicando situazioni che dovrebbero essere fruite con leggerezza, riflessione e serenità.

 

Beh, ma questo succede già nel mondo nel senso che i writer meno noti e meno dotati dipingono dove capita, su muri abbandonati della periferia, su carrozze della metropolitana o dei treni, ma anche su muri di una certa importanza storica e architettonica, senza pensare ad eventuali danni, ma volendo solo comunicare , spesso usando un linguaggio criptico noto solo a loro e ai loro ambienti, mentre i writer di un certo peso scelgono accuratamente i contesti dove realizzare le loro opere…

Infatti in molte città il murales viene realizzato per valorizzare posti abbandonati o deteriorati. Resta il fatto che il contesto deve essere adeguato all’opera.

 

Secondo me c’è una differenza fra tromp-l’oeil e murales: il primo evoca un mondo e te lo fa vedere in una illusione ottica che lo rende reale. Il murales libera la creatività e manda sempre un messaggio. Sei d’accordo? E i tuoi dipinti murali sono più tromp l’oeil o più murales? Oppure sono tutte e due le cose?

Non c’è mai stato da parte mia la ricerca dell’illusione ottica come nel tromp-l’oeil anche perché non avrei i mezzi tecnici per fare quello, ma ho sempre pensato a una forma artistica come il murales che avesse nella sua espressione un messaggio.

 

Il murales di Falcone, Borsellino, Morvillo e degli altri agenti caduti facendo il loro dovere, è una cosa a cui pensavano molti cittadini democratici e anche chi, come me, non sa disegnare, nel vederlo realizzato si emoziona. Quale è stata la genesi di questo dipinto?

Le figure dei due giudici, eroi del nostro tempo, sono state proposte in tanti posti e in tanti modi diversi, quasi fosse una specie di moda, e potrebbe sembrare un messaggio quasi inflazionato, ma ripensando alla storia dei due giudici e vedendo quello che succede in Italia e nel mondo ho pensato che il messaggio evocato da loro è ancora un messaggio forte e importante e una riproposta avrebbe avuto ancora una grande utilità e una grande valenza educativa. Qui c’è un parco che è frequentato da bambini, giovani e mi sembrava bello coinvolgerli visivamente, ricordar loro che due uomini hanno dato la vita per rendere migliore la loro. Il proprietario della casa aveva per queste due figure grande ammirazione e il progetto è andato a buon fine.

 

Il terzo murale parla del tuo rapporto con San Francesco che sembra molto particolare. Ce ne vuoi parlare? È una simpatia per la figura del Santo o ti solletica soprattutto l’attualità del suo discorso ambientalista che pure ha sollecitato il Santo Padre?

Intanto devo dire che nella mia famiglia c’è sempre stato un legame con questo Santo: mio padre si chiamava Francesco, ho chiamato mio figlio Francesco e poi conoscendo la sua vita e le sue gesta, l’ho sentito molto vicino, come un modello da imitare ancora prima che emergesse questo legame solido con l’ecologia che oggi viene molto spesso evidenziato.

Francesco è una figura di uomo e di santo che non è catalogabile in modelli stereotipati o in liturgie, ma esprime l’uomo che sposa il messaggio cristiano con consapevolezza, rigore, serietà, profonda umanità.

L’idea del murales prende origine da un lavoro su tela che si ispirava ai quattro elementi della natura, da quell’idea nasce una elaborazione e un confronto con altri amici che ha portato a quella figura.

Come per tutte le opere si parte da una intuizione che viene elaborata per giungere al risultato finale frutto di pensieri, discussioni, confronti…

 

Qual è l’attualità di San Francesco?

Francesco è sempre attuale perché tutti noi dobbiamo fare i conti con la nostra coscienza, con quello che facciamo, di buono e di non buono. Francesco è un uomo che aveva fatto cose discutibili, poi ha preso coscienza di quello che faceva cambiando radicalmente il suo modo di vivere e il suo modo di operare e anche noi dovremmo fare i conti con quello che siamo e con quello che facciamo.

Questi sono stati i passi che mi  hanno portato a fare una piccola galleria a cielo aperto in questo borgo e per il momento, nonostante non manchino richieste mi sembra un progetto concluso o quantomeno giunto a un termine. La cosa mi è piaciuta e mi piace per cui potrebbe continuare anche in altri luoghi. Vedremo.

 

Brindisi e i brindisi

di Nazareno Valente

 

 Sono sempre più convinto che le fake sono come i grandi amori: finiscono, senza morire mai. Magari rimangono per anni sopite sotto la cenere ma basta un opportuno alito di vento perché riprendano vita, divampando poi con rinnovato vigore.

È appunto accaduto così per una delle più affascinanti dicerie costruite sul nome della nostra città, riesumata per l’occasione dal sito “Romano Impero”. Dopo aver definito brevemente il gesto conviviale del brindisi, l’autore del pezzo ci fa infatti sapere che sull’origine di tale termine vi sono varie interpretazioni ma che «la più plausibile potrebbe essere questa. Nel periodo di massimo splendore di Roma, Brindisi era forse il porto più importante. Quando i marinai attraversavano i mari impervi dell’Adriatico, di ritorno verso Brindisi, aspettavano con ansia l’avvistamento della terra ferma, del porto più vicino. Quindi al vedere la terra ferma, probabilmente gridavano “Brindisium”, dando il via alle libagioni di vino per la contentezza»1.

Il che, di là dell’ipotesi in sé, ci fa capire che, sebbene il latino, quello per intenderci di quando Roma era al suo massimo splendore, sia una lingua morta, il latinorun è invece un linguaggio tuttora vivo e vegeto, se sforna termini — in questa occasione, Brindisium — mai attestati nel periodo antico e tardo antico.

Naturalmente la notizia non è passata sotto silenzio e la parte dei “navigatori” più sensibili alle novità l’ha recepita come tale, dandole grande risalto e diffusione, a volte spacciandola pure per una primizia. Così, dopo anni di silenzio, è ritornata in voga la storia che il termine con cui si definiscono le bevute alla salute, vale a dire i brindisi, sia diretta derivazione del nome della nostra città.

Per ricostruirne la genesi, occorre riandare ai tempi eroici del Grand Tour (XVII – XIX secolo) quando appunto una simile ipotesi iniziò a circolare. Come sappiamo il Grand Tour era una specie di turismo d’elite che gli aristocratici europei intraprendevano per perfezionare la loro formazione culturale frequentando i luoghi più ricchi di opere artistiche. Tappa obbligata di questi lunghi viaggi era l’Italia, in cui si potevano anche riscoprire le tracce delle antiche civiltà, e quelle città che nel periodo classico avevano rivestito un ruolo di prestigio. Qui i sofisticati viaggiatori trovavano i loro agganci, ed i possibili ciceroni, negli ambienti eruditi cittadini dai cui racconti traevano spunto per i loro resoconti di viaggio che redigevano al termine del Tour e che, per lo più, riguardavano la storia, le tradizioni e le curiosità locali.

Sebbene a quei tempi non fosse neppure un pallidissimo ricordo dello splendido passato, Brindisi era spesso inserita nell’itinerario, tant’è che, sia pure un po’ di sfuggita, in un giorno di fine maggio del 1767 vi giunge il barone Johann Hermann von Riedesel  impegnato da un anno nel suo viaggio di studio. Con ogni probabilità fu questa una novità. Infatti, per quello che è dato di sapere, è il primo viaggiatore straniero che abbia visitato la nostra città in epoca moderna, mentre era impegnato a percorrere i centri della Magna Grecia o i paesi ad essa collegati, su consiglio di Johann Joachim Winckelmann, un colto e rinomato antiquario del Settecento,.

L’illustre ospite ebbe subito modo di constatare che la tanto celebrata Brundisium «non è più che un piccolo, e molto insalubre luogo, di circa nove mila anime, il di cui porto non può più dar ricetto che a barche di pescatori»2, in aggiunta impoverita dalla perdita di tutti i suoi monumenti antichi. Esaurita la descrizione della città di cui sottolineò per lo più la desolata situazione, causata dall’aria «cattivissima per tutto l’anno, ma principalmente in està» quando «essa è la più dannosa di tutta l’Italia»3, si lasciò andare ad una breve digressione su questioni secondarie. Incuriosito dalla parola «brindisi, adottata… per annunciare che una persona beve alla salute di un’altra»4,  desiderò  conoscerne le origini e, allo scopo, interpellò una persona del luogo «molto versata nelle antichità»5, don Ortensio de Leo, zio del più celebre Annibale de Leo.

Ebbene è proprio Ortensio de Leo ad associare per la prima volta il termine “brindisi” al nome della nostra città. A suo parere infatti, dalle frequenti partenze dei Romani da Brundisium per la Grecia, dall’uso che si aveva di accompagnare i propri amici e i propri parenti sino a questo porto, o di venir loro incontro, «dal nome di questo luogo ove faceansi gli addii ed i voti per la prosperità del viaggio»6, s’è formata l’espressione «brindisi… che si è perpetuata sino ai nostri giorni per denotare i desideri che si è nell’abitudine di fare, bevendo alla salute delle persone  che ci circondano»7.

Analoga versione sempre accreditata ad Ortensio de Leo, sia pure solo in forma anonima, si ritrova nell’ottava lettera datata 20 agosto 1797 del resoconto “Lettres sur L’Italie” di un altro celebre viaggiatore, il francese Antoine Laurent Castellan. Anche se, nell’occasione, il Castellan ci aggiunge qualcosa di suo ed in nota ci fa sapere che  «Gli Italiani pensano che l’abitudine del dire “far brindisi”, bevendo alla salute di qualcuno, equivalga all’espressione “arrivederci a Brindisi” che si pronunciava lasciandosi»8. Egli ritenne invece che l’espressione “far brindisi” non potesse essere in uso in antichità in quanto il nome posseduto dalla città a quel tempo — appunto Brundisium, e non Brindisium — non avrebbe giustificato una simile locuzione. Concludeva che il modo di dire dovesse piuttosto aver avuto origine ai tempi dei crociati, i quali «consideravano il porto di Brindisi, come il luogo in cui avveniva il raduno generale»9, cioè a dire quando il nome della città s’era volgarizzato in quello attuale.

 

La questione venne ripresa più d’un secolo dopo dal canonico Pasquale Camassa, il quale animato da grande affetto per la  città di Brindisi non lesinava mezzi, anche quelli meno scientifici, per porla in tutti i modi al centro dell’attenzione. Per questo le sue argomentazioni erano talvolta viziate e piegate all’intendimento di portare acqua alla causa della nostra città, anche se occorre ricordare che c’erano anche motivi di opportunità che lo esortavano ad assumere una posizione del genere. In quel periodo si vivevano situazioni particolari e, tanto per citarne una, la “romanità” faceva tendenza. Sicché rientrava nella normalità che le città ripassassero le proprie antichità romane alla ricerca di storie e spunti per poter mostrare qualche quarto di nobiltà. Chi era stato «potente al tempo dell’Impero Romano» poteva infatti sperare di ottenere qualche spintarella, perché il ritorno «al suo antico splendore» era necessariamente scritto nel suo destino.. Questo era il messaggio, cui giocoforza ci si adattava e, il saper enfatizzare nelle giuste forme la propria passata romanità, finiva per essere un meccanismo utile per portare vantaggi alla propria città. Quindi c’erano ragioni più che valide per non formalizzarsi troppo ed introdurre, qualora necessario, espedienti narrativi utili ad aumentare il fascino delle antichità cittadine.

Così facevano un po’ tutti i cronisti. Non solo quelli brindisini.

Camassa, uomo di cultura, lo sapeva fare con pennellate fantasiose di classe. E non a caso, proprio per questo suo porsi sempre e comunque a tutela degli interessi di Brindisi che a noi brindisini piace citarlo, non già con il suo nome, quanto piuttosto con il nomignolo confezionato di proposito per lui, vale a dire papa Pascalinu.

In questo suo ruolo era certo avvantaggiato, visto che, all’ombra di Roma, Brindisi aveva vissuto i principali avvenimenti storici e godeva quindi di una posizione di privilegio, ma ciononostante, a scanso di equivoci e per non  lasciare nulla di intentato, ci metteva tutta la sua creatività per adornare con i dovuti fiocchetti i suoi racconti. L’estro lo accompagnò pure quando si mise a parlare dei brindisi conviviali creando, anche in questa circostanza, un ispirato quadretto.

«Crediamo opportuno investigare se il nome “brindisi”, che si dà al saluto od augurio, che suol farsi alzando e vuotando i calici nella letizia conviviale, … abbia potuto trarre origine dal nome di questa città»10. Così esordì il canonico, per poi nel seguito proseguire: «dal suo magnifico porto salpavano tutti coloro che si recavano in Oriente» e  «tutti i giovani patrizi romani [che] andavano per istudio in Atene», accompagnati al luogo dell’imbarco da amici, parenti e liberti11. E costoro, «prima di separarsi facevano auguri e libazioni alla buona fortuna del novello viaggiatore, il quale, alla sua volta beveva, ben augurando a coloro che restavano»12. Una volta vuotati i calici ed espresse le formule di rito, tutti «soggiungevano a coro: che gli Dei ci facciano rivedere qui a Brindisi, per rinnovare lietamente queste libazioni»13.

Senza dichiararlo espressamente, papa Pascalinu prese anche in considerazione il rilievo di Castellan: «È vero — egli afferma — che allora la città si chiamava Brundusium; ma la memoria di quella costumanza, col passare alle età moderne, ha potuto anche acquistare il nome moderno del luogo. E ciò dovette avvenire particolarmente in quel periodo, in cui la lingua del Lazio cominciava a sostituirsi al volgare»14.  Non negava però che c’erano eruditi che «vorrebbero dare un’altra origine alla parola “brindisi”»; malgrado ciò, lui ne ribadiva la puntuale provenienza «dai bacchici auguri, che frequentemente all’epoca romana in questa città [Brindisi] si scambiavano»15. E, a decisivo sostegno della sua tesi, citava l’autorità di Francesco Redi ed i versi del suo famoso ditirambo in cui Bacco è in viaggio verso Brindisi con la moglie Arianna16:

«Voga, voga, arranca, arranca;

Ché la ciurma non si stanca,

Anzi lieta si rinfranca,

Quando arranca verso Brindisi:

Arianna, brindis, Brindisi»17.

I quali versi, valutati di per sé, ponevano un evidente collegamento tra «brindis» e Brindisi chiarendo che, nello specifico contesto dei festeggiamenti augurali, i due vocaboli avevano lo stesso significato. E quindi in definitiva che Brindisi, oltre ad essere un nome di città, identificava anche i brindisi, al pari della voce spagnola «brindis».

Considerate le competenze linguistiche del Redi, personalità tra le più autorevoli del suo tempo e tra i principali artefici della terza edizione del celebre “Vocabolario della Crusca”, sarebbe quasi bestemmiare a non tener conto del suo illustre parere.

Ci sono però altri punti della narrazione del canonico che meritano d’essere commentati.

In particolare, andrebbe ricordato che in epoca romana un viaggio di andata e ritorno da Roma a Brindisi durava dalle tre alle quattro settimane, ed era cosa talmente poco banale che i più, prima di mettersi in cammino, facevano addirittura testamento, temendo di non poter ritornare a casa incolumi. Pertanto non dovevano essere molti i parenti, gli amici ed liberti disposti a sprecare così tanto tempo, e soprattutto a mettere a repentaglio la propria vita, per una semplice bevuta ed un saluto da dare al patrizio impegnato a partire da Brindisi per il suo viaggio di studio.

C’è da aggiungere che dalle fonti letterarie dell’epoca sono facilmente desumibili le forme augurali utilizzate nel bere alla salute di qualcuno18, e in nessuna di queste è possibile rintracciare, nemmeno alla lontana, il coro ricordato dal Camassa che rimetteva agli dèi la possibilità di rivedersi a Brindisi.

 

Considerazioni ancor più interessanti sono ricavabili da una breve analisi dell’evoluzione subita dal toponimo usato per identificare la nostra città, per individuare quando esso s’è volgarizzato nell’attuale denominazione.

In epoca romana il nome più ricorrente era Brundisium e, in alternativa, Brundusium, che fu forse quello in origine assegnato al momento della fondazione della colonia latina. Nome che subì in seguito molte varianti, influenzate sia dalla pronuncia in uso nel latino tardo e medievale, sia dalle trasformazioni subite dalle lingue sviluppatesi dal latino. Tutto questo comportò che dal medioevo in poi siano state coniate diverse denominazioni per individuare la nostra città. All’inizio del Basso Medioevo andarono affermandosi, quali modifiche alle voci tradizionali, Brandisium, Brandosium e Brandusium. Termini che, forse a causa del dominio instaurato nella nostra città dapprima dai Normanni e poi dagli Angioini, furono successivamente volgarizzati in una sequenza di nomi di ispirazione gallica. I più ricorrenti dei quali nel XII e XIII secolo risultano essere: Brandisi19, Brandiz20, Brandis21Brandizia22, sino ad arrivare a Brandizio. Fu appunto Brandizio — termine peraltro utilizzato anche da Dante nel celebre passo in cui il sommo poeta fa esclamare a Virgilio: «Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto», e da Boccaccio nella quarta novella della seconda giornata del Decamerone, quando Landolfo Rufolo «montato sopra una barca, passò a Brandizio» — a prevalere sino a tutto il XIV secolo. Sebbene con minore diffusione, è riscontrata la contestuale presenza di altri nomi, quali ad esempio: Blandizo23, Brandizo24, Brundisia25 e Brandiço26. Nella seconda metà del secolo XV apparvero Brindese e Brindise, e poi finalmente Brindisi, la cui prima attestazione ritrovo nell’edizione del 1494 dell’opera “L’aquila volante” attribuita forse erroneamente a Leonardo Bruni. Tale toponimo però non prese subito tutta la scena, tant’è che la condivise per un secolo e più con Brindesi27.

Seguendo questo filone d’indagine, sembrerebbe pertanto alquanto improbabile che un termine, coniato non prima del XV secolo e affermatosi molto tempo dopo, abbia potuto influire sui modi di dire degli antichi romani e sul loro gergo. C’è quindi da capire la posizione degli etimologi che, non prendendo neppure in considerazione l’ipotesi cara ai nostri due studiosi, sono concordi nel credere che il termine brindisi, inteso come invito a bere alla salute, derivi dal ben più antico «bring dir’s» (“lo porgo a te”) di origine tedesca e che sia successivamente giunto a noi attraverso il vocabolo spagnolo «brindis». In altre parole, il vocabolo “brindisi” è un prestito linguistico e quindi, traendo origine da altra lingua, non può derivare dal nome assegnato alla nostra città.

Non è questo l’unico motivo che renderebbe evidente come da un punto di vista etimologico non ci sia storia: ci sono Brindisi e brindisi, e non c’è alcuna relazione tra i significati dei due termini. Tra le varie ragioni ce n’è una davvero sorprendente che, non essendo mai stata prima notata, rappresenta al tempo stesso una vera e propria curiosità, Nessuno infatti  s’era sinora accorto che il nome della città, coinvolto appunto da alcuni scrittori in una falsa etimologia con vocaboli che richiamavano le bevute, venne utilizzato in un stile comico di verseggiare sviluppatosi con successo nel Seicento.

Prima di affrontare questo nuovo ed originale aspetto, riepiloghiamo i termini della questione.

Ci sono ragioni più contro, che a favore, all’ipotesi che i brindisi fatti alzando i calici c’entrino qualcosa con il nome della nostra città.

L’unico punto di forza della tesi che pone un collegamento tra i due termini è costituito dai versi del Redi che associano a Brindisi la voce spagnola “brindis”, adottata appunto per quando si beve alla salute di qualcuno. Tutto il resto si pone  a sfavore, a partire dalla poco credibile processione di parenti, amici e liberti, intenti a sprecare tempo ed a mettere a repentaglio la propria vita per una bevuta ed un augurio, e dal fatto incontestabile che nessuna fonte letteraria primaria citi in alcun modo le formule proposte dagli eruditi brindisini. Senza contare quella ancor più consistente, basata sulla circostanza che solo dalla fine del XV secolo la nostra città incominciò ad essere identificata con l’attuale nome, che risulta quindi di certo non precedente ai vocaboli «bring dir’s» e «brindis» usati rispettivamente dalla lingua tedesca e spagnola per caratterizzare i brindisi.

A queste vanno aggiunte altre considerazioni.

La prima riguarda i significati dei vari termini utilizzati, i quali non sempre riproducono esattamente il concetto originario.

Quando nei contesti privati, invitiamo a “fare un brindisi”, di fatto chiediamo a tutti i presenti di alzare il calice per bere alla salute di qualcuno. In antichità il rituale era invece diverso. Chi invitava al brindisi, dopo aver bevuto dalla coppa, porgeva la stessa al solo festeggiato perché bevesse a sua volta. Infatti il «προπίνω» (propìno) greco, che è l’antesignano del nostro brindare, è in genere tradotto con “bere prima di un altro a cui si passa il calice” quindi più in linea con il «bring dir’s» tedesco che, infatti, è reso in italiano con “lo porgo a te”, sottinteso il bicchiere. Di fatto, salvo non fosse dedicata agli dèi  o ad un personaggio pubblico — ma in questi casi si parla più di libagioni che di brindisi — la «propinatio» (il brindisi) non coinvolgeva in genere tutti, ma solo il commensale alla cui salute di volta in volta si beveva. In aggiunta, ad ulteriore variante, il commensale era obbligato a bere il contenuto del calice che gli veniva passato, sino all’ultima goccia. Era quindi un gesto di grande affetto e simpatia che, non a caso, i greci chiamavano «φιλοτησία πόσις» (filotesia posis: bevanda che crea amicizia o che fa parte dell’amicizia)  o più semplicemente «φιλοτησία», ma che, visto in altra ottica, poteva anche essere un modo per far ubriacare qualcuno. In tal senso, celebre il brindisi fatto alla salute di Polifemo con cui Ulisse, forte del fatto che questi non poteva esimersi dall’accettare l’invito a bere, riuscì a far perdere il lume della ragione al ciclope.

In definitiva, l’espressione “far brindisi” non rispecchia in tutto e per tutto il rituale antico che era piuttosto un “invito a bere”, e questo aspetto è sottolineato da tutti gli autori dell’età moderna. Ad esempio il Sarnelli28 ed in particolare il Menochio quando riferisce appunto che «l’uso d’invitar a bere, che volgarmente diciamo far brindisi, è antico assai»29, intendendo con ciò che le due locuzioni non presupponevano immagini coincidenti. Una cosa è infatti il brindisi, in cui si beve insieme alla salute di qualcuno, senza però essere obbligati a farlo se non nella misura in cui si desidera, elevando e facendo tintinnare i calici; altro l’invito a bere rivolto al solo festeggiato che, tra l’altro, non aveva possibilità di rifiutarsi di brindare. Da questa constatazione è verosimile desumere che le due espressioni danno anche ragione dell’evoluzione che il rituale del brindare ha subito nel corso del tempo e, conseguentemente, che “far brindisi” o, in generale, i “brindisi” fanno riferimento ad una pratica privata più tarda. Esattamente per questo motivo tali formulazioni, essendo più recenti e del tutto estranee alle occasioni conviviali svolte in antichità, non sono rintracciabili nei resoconti letterari del tempo.

Altra possibile considerazione è che, a metà tra il termine antico (propìno), che caratterizza il classico “invito a bere”, e la locuzione “far brindisi”, che invece descrive meglio il nostro collettivo bere alla salute, c’è proprio il vocabolo tedesco «bring dir’s» (lo porgo a te) che dà ancora interpretazione di quel passaggio della coppa da chi avviava il festeggiamento a chi era festeggiato. Il che in altri termini fa capire che il nostro termine è successivo a quello tedesco che l’ha quindi necessariamente influenzato.

Menochio si sofferma con dovizia di particolari pure sulle ripercussioni negative dell’obbligo insito in questo rituale «che — come egli ricorda — anco oggidì prevale in molti luoghi, che l’invitato a bere sia tenuto a corrispondere all’invitante con la medesima misura, ancorché non ne habbia né voglia, né bisogno»30. In antichità, in effetti, era cosa disdicevole rifiutare l’invito a bere: aderirvi faceva parte del gioco di un qualsiasi banchetto. Ce lo riferisce Cicerone che, nelle Tusculane, riporta l’iscrizione che i Greci ponevano nelle loro sale da pranzo: «Aut bibas, aut abeas» (O bevi, o vattene). Come dire, se non hai intenzione di bere, tanto vale che non partecipi al banchetto.

Nelle peggiori evenienze, questi festeggiamenti potevano pertanto sfociare in veri e propri incitamenti ad alzare troppo il gomito. Se poi si pensa che c’era sempre un re del banchetto (simposiarca) che dirigeva il tutto, le bevute alla salute d’una volta assumevano, sia pure alla lontana, le sembianze d’un vecchio gioco brindisino parecchio biasimato, “la Calabbrisella”, che si praticava con l’intendimento di mandare a casa «‘ncilunatu» qualcuno lasciando al tempo stesso a «l’urmu» qualche altro. Cosa quindi alquanto diversa da un semplice brindisi.

Proprio a causa di queste possibili degenerazioni, il cristianesimo non vedeva di buon occhio la consuetudine dell’invito a bere e cercò in tutti i modi di ostacolarlo. Sebbene non ne sradicò l’uso, riuscì comunque a contenerne gli effetti in particolare nelle zone in cui poteva esercitare una maggiore influenza.

I Paesi dell’Europa settentrionale rimasero più legati alla tradizione e tra i Tedeschi il rituale privato dell’invito a bere rimase parecchio diffuso.

Diversa la situazione dalle nostre parti.

Monsignor Della Casa, massima autorità nel campo dei costumi e delle buone maniere, nel suo manuale redatto nel Cinquecento (il celebre Galateo) in cui codificò le norme comportamentali nella vita di relazione, riferisce che «l’invitare a bere… nelle nostre contrade non è ancora venuto in uso»31. Fornisce inoltre un’informazione per noi molto preziosa, vale a dire che, trattandosi di usanza inusuale nel nostro Paese, la «nominiamo con vocabolo forestiero, cioè “far brindisi”»32. Il fatto che un autore del Cinquecento affermi che l’espressione “far brindisi” era di evidente estrazione straniera, preclude la possibilità che derivi dal nome attuale della nostra città che, per altro, solo in quello stesso periodo incominciava a prendere piede. Al contrario, presupporrebbe che i “brindisi” esistevano ben prima dell’odierno toponimo.

In definitiva l’ipotesi degli etimologi prende sempre più spazio e, a mettersi di traverso, restano solo i versi di Francesco Redi, lì dove l’autore mette in evidenza il collegamento tra Brindisi e l’analogo vocabolo spagnolo «brindis». Considerato lo spessore del personaggio — arciconsolo dell’Accademia della Crusca e sempre impegnato a diffondere ed a salvaguardare il volgare toscano — desta grande stupore che abbia potuto propendere per una tesi così palesemente errata. Il che, a questo punto, fa sorgere il sospetto che sia stato papa Pascalinu a travisarne il pensiero, magari citandolo a sproposito.

In effetti una cosa è prendere in esame uno specifico passo di una opera staccandolo dal suo contesto; altro analizzarla nel suo complesso, valutandone anche la genesi.

Ebbene nel Seicento gli accademici della Crusca, da vere persone di cultura, non si prendevano sempre sul serio e, di tanto in tanto, trovavano l’occasione per accantonare la greve e imponente veste di custodi della lingua, per trasformarsi in festaioli scanzonati. Questo avveniva in occasione dei pranzi collegiali di rinnovo delle cariche direttive e di elezione di nuovi membri, chiamati stravizzi, dove lo spreco di buone pietanze e di buon vino si mescolava a composizioni poetiche inventate lì sul momento per accentuare il tono ludico della riunione.

Nello stravizzo della Crusca del 12 settembre 1666, alla presenza dei principi Leopoldo e Mattias de’ Medici, accadde qualcosa di speciale che entrò a far parte della storia letteraria nazionale. Mentre si brindava allegramente, in risposta ad una spiritosa composizione d’un partecipante che assegnava al vino, e non all’amore, il potere di far girare il mondo, Redi confezionò un ditirambo di quarantaquattro versi di sperticato encomio del vino toscano. Questi pochi versi, divenuti subito famosi tra i circoli esclusivi cittadini, originarono le novecentottanta righe finali del celebre “Bacco in Toscana” che Redi completò dopo un lavoro di cesello durato quasi vent’anni.

C’è da ricordare che l’allora segretario della Crusca era un medico affermato, tra l’altro salutista e (pare) astemio, che però in quella particolare occasione festosa, nelle vesti di poeta, assunse le difese del vino opponendosi alle stesse terapie che da scienziato usualmente consigliava. È quindi scontato che i versi del ditirambo non vanno presi alla lettera ma considerati dopo aver fatto la giusta tara. In essi, Redi racconta che Bacco, il dio del vino, nel corso d’un suo viaggio con la moglie Arianna, viene ospitato nella villa medicea di Poggio Imperiale, dove ha l’occasione di passare in rassegna tutti i principali vini toscani e italiani del tempo e, naturalmente, di servirsene in abbondanza. Inizia così un marcato elogio per il buon vino, al quale si contrappone la disapprovazione totale per le bevande allora esotiche, «l’amaro e reo caffè»33, il «cioccolatte»34, il «»35 e, soprattutto, l’acqua con cui «certi magri mediconzoli… ogni mal pensan di espellere»36. In definitiva, per stare bene, non bisogna seguire i consigli dei medici, ma «vino, vino a ciascun bever bisogna,/Se fuggir vuole ogni danno»37. Evidente il divertimento che l’autore si concede verseggiando in allegria con consumato virtuosismo linguistico, evidenziato ancor più nella parte conclusiva del ditirambo. Quella non a caso più celebre, e che vede Bacco impegnato a veleggiare verso la nostra Brindisi.

Anzi proprio in questi brani il tono scherzoso si accentua perché, come raccontava lo stesso Redi, Bacco «comincia ad essere briaco, o per dir meglio è tutto briaco»38. Per cui più che navigare realmente verso la nostra città, Bacco immagina di farlo, visto che l’ebbrezza lo rende poco saldo sulle gambe, quasi fosse su una nave scossa dalla tempesta. E si deve a questo suo particolare stato se il dio finisce per bisticciare con i termini “brindis” e Brindisi, assegnando loro lo stesso significato, mentre in realtà si riferiscono ad entità ben distinte: quello al vino; questo ad una città. C’è così l’aspetto comico che accomuna il “brindis” avvinazzato, generato dal vino, ad un vocabolo quasi con lo stesso suono — la città di Brindisi — che niente ha in comune in termini concettuali. In definitiva, i linguisti lo chiamerebbero un gioco paretimologico, in cui il termine Brindisi viene reinterpretato sulla base  della sua somiglianza formale con “brindis” assumendo un valore diverso da quello suo originale. E dando in pratica luogo ad una falsa etimologia.

Il bisticcio scherzoso che l’alto esponente dell’Accademia della Crusca con quel suo «brindis, Brindisi» desiderava creare, male interpretato, trascinò nell’equivoco il nostro papa Pascalinu. Al tirar delle fila, non ci furono mai amici, parenti e liberti convenuti nel nostro porto a bere alla salute dei viaggiatori,  gridando in coro: «che gli Dei ci facciano rivedere qui a Brindisi, per rinnovare lietamente queste libazioni»39. Anche perché, a quei tempi, la nostra città aveva ben altro di più consistente da offrire d’una banale bevuta.

Ma c’è di più. Occorre infatti rilevare che Francesco Redi non è stato il primo ad accostare, per gioco, manifestazioni ludiche al nome della nostra città. La primogenitura, per quello che mi è stato possibile appurare, va assegnata a Giovan Battista Lalli che qualche decennio prima, nel suo poema scherzoso “La Moscheide,  overo Domiziano il moschicida” — e già il titolo è tutto un programma — fa risalire appunto l’origine della locuzione far brindisi a Brindisi, sia pure per motivi ancor più esilaranti.

Siamo presumibilmente attorno al primo ventennio del Seicento, quando la nostra città non ha ancora assunto il suo nome definitivo e viene chiamata in vari modi. Nel suo poema Lalli la chiama Brindesi e la presenta come un porto franco, dove chi vi risiede non subisce le attenzioni del fisco o dei creditori.

 

«Brindesi già Brandizio, ov’hor volando

Concorron genti addolorate, e meste,

Mentre le pon dalla lor Patria in bando

Il creditor con cedule funeste

O dolce asilo, o porto venerando

Delle birresche orribili tempeste,

 Ov’huom per privilegio siede,

E perso ottien vittoria, a nessun cede»40.

Per questo, i brindisi, intesi come bevute, traggono il loro nome dalla città di Brindesi perché “far Brindisi” è un invito ad andarvi ad abitare per non avere più pensieri di carattere fiscale.

 

«Brindesi bella, s’io m’appongo al vero,

Da te son messi i Brindisi in usanza,

Quasi l’uom dica: Lascia ogni pensiero,

Beviamo allegri e rinfreschiam la panza:

Che se poi il creditor duro e severo

Ci fa da i birri apparecchiar la stanza,

Brindisi habbiamo, Brindesi diletta,

Che quanto più si bee, via più n’alletta»41.

Quindi i giochi burleschi impiantati sul nome della nostra città non erano inusuali nel Seicento, e vertevano sempre sulla sua assonanza con il termine usato per le occasioni gioiose delle bevute alla salute. Ed ai momenti d’ebbrezza che ne seguivano.

Questo alternare termini di diverso significato, che iniziavano però con le stesse lettere ed a cui si dava pur tuttavia lo stesso contenuto semantico — nel caso del “Bacco in Toscana”, brindis e Brindisi; in quello della “Moscheide”, Brindesi e Brindisi — era un modo di parlare scherzoso, detto ionadattico. Un marchingegno poetico allora in voga che rappresentava una vera e propria esperienza letteraria. Il che fa capire che il collegamento tra i brindisi e Brindisi era un espediente letterario alla moda, adottato per riscuotere credito tra i lettori amanti di quel genere.

A questo punto, si potrebbe dare per certo che ci sono brindisi e Brindisi.

Il condizionale è però d’obbligo.

Dicono infatti che una fake, quand’è più d’un semplice “tarocco”, è come un grande amore non corrisposto.

Non ha capo, né coda.

Eppure è difficile da abbandonare, e farsene una ragione.

 

Note

[1] https://www.romanoimpero.com/2019/03/il-brindisi-romano.html (consultato il 4 novembre 2021)

2 RIEDESEL J. H. von (1740 – 1785), Viaggio in Sicilia del signor barone di Riedesel diretto dall’autore al celebre signor Winkelmann, Tipografia Francesco Abate, Palermo 1821, p. 159.

3 Ibidem, pp. 162-163.

4 Ibidem, p. 163.

5 Ibidem, p. 162.

6 Ibidem, p. 163.

7 Ibidem, p. 164.

8 CASTELLAN A. L. (1772 – 1838), Lettres sur L’Italie, Nepveu, Parigi 1819, p. 67.

9 Ibidem, p. 68.

10 CAMASSA P. (1858 – 1941), La Romanità di Brindisi attraverso la sua storia e i suoi avanzi monumentale, Tipografia Vincenzo Ragione, Brindisi 1934, p. 129.

11 Ibidem, p. 130.

12 Ibidem.

13 Ibidem.

14 Ibidem, p. 131.

15 Ibidem.

16 Ibidem.

17 Ibidem, p. 132.

18 Una delle formule più usuale era: «bene vos, bene nos, bene te, bene me», PLAUTO (III secolo a.C. – II secolo a.C.), Stichus, v. 709.

19 Carta Pisana (XIII secolo).

20 Chronica magistri Rogeri de Houedene (fine XII secolo).

21 Le chevalier au cygne et Godefroid de Bouillon (XIV secolo); Ex Historiis ducum Normanniae et regum Angliae (XIII secolo).

22 Libro Fiesolano (tra il XIII e XIV secolo).

23 VESCONTE P., Carta Nautica (XIV secolo).

24 VESCONTE P., Atlante (XIV secolo).

25 Volgarizzamento dell’imago mundi (XIV secolo).

26 Manoscritto mercantile  (XV secolo).

27 BUONACCIOLI A., La prima parte della Geografia di Strabone, tradotta in volgare italiano, Francesco Senese, Venezia 1562.

28 SARNELLI P. (1649 – 1724), Lettere ecclesiastiche di monsignor Pompeo Sarnelli vescovo di Biseglia, tomo VII, Bortoli, Venezia 1716, p. 17.

29 MENOCHIO G.S. (1575 – 1655),  Dell’uso antico e moderno d’invitare a bere che volgarmente diciamo far brindisi, in Stuore, III, Roma 1689, p. 485.

30 Ibidem.

31 DELLA CASA G. (1503 – 1556), Il Galateo, Francesco Andr, Venezia 1795, p. 75.

32 Ibidem.

33 REDI F. (1626 – 1698), Bacco in Toscana, v. 190.

34 Ibidem, v. 184.

35 Ibidem, v. 185.

36 Ibidem, vv. 763-764.

37 Ibidem, vv. 792-793.

38 Lettera a Egidio Menagio del 6/1/1684.

39 CAMASSA P., Cit., p. 130.

40 LALLI G.B. (1572 – 1637), La Moscheide,  overo Domiziano il moschicida, G.B. Bid, Milano 1626, I 59, p. 28.

41 Ibidem, I 61, p. 29.

Storia e storie della Grande Guerra, dalla Nazione alla Terra d’Otranto

di Alfredi di Napoli

È stato pubblicato, nel 2020, per i tipi della Argomenti Edizioni di Novoli, Storia e storie della Grande Guerra Istituzioni, società, immaginario dalla Nazione alla Terra d’Otranto, a cura di Mario Spedicato e Paolo Vincenti.

Il volume raccoglie solo alcuni dei contributi delle numerose iniziative culturali organizzate dalla Società di Storia Patria di Lecce sulla Grande Guerra, a partire da quella celebrata ad Oria nel dicembre del 2014, con due appendici seminariali svolte nella primavera del 2016 e nell’inverno 2018, in collaborazione con l’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano di Brindisi. A questi, si sono aggiunti alcuni saggi scritti appositamente per il libro, il cui primitivo progetto si è dunque necessariamente ridimensionato a causa dei ritardi nella pubblicazione degli Atti dei vari Convegni.

Ciò non ha fatto venire meno la solidità dell’impianto metodologico e il rigore scientifico dei saggi pubblicati. Essi sono divisi in alcune aree tematiche, e precisamente: La crisi del liberalismo prima e dopo la Grande Guerra, con saggi di Flavio Silvestrini e Maria Sofia Corciulo, I dinamismi della società, con saggi di Luigi Montonato, Fiorenza Taricone e Paolo Vincenti, Gli specchi della memoria. Pubblico e privato nella narrazione della Grande Guerra, con saggi di Paolo Vincenti, Anna Maria Andriani, Pasquale Guaragnella, Francesco Carone, Paolo Vincenti, Maria Antonietta Bondanese, Federico Carlino.

Il volume, voluto dalla SSPP, Sezione di Lecce, e dall’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano di Brindisi, reca una bellissima copertina, con la realizzazione grafica di Argomenti Edizioni, ed è realizzato grazie al contributo di Uniformazione e Nova Liberars.

Un libro vario, per impostazione e metodo, ma vertente sugli avvenimenti diretti o indiretti della Prima Guerra Mondiale con un focus sul territorio salentino.

Come scrive nella Prefazione Mario Spedicato, Presidente della SSPP-Lecce: «l’impostazione rappresenta la principale novità metodologica proposta da questo volume. Sono ormai maturi i tempi perché la più attrezzata ricerca sul territorio ripercorra la Grande Guerra non solo scavando negli strati più profondi del tessuto sociale – come la ricorrenza del Centenario ha dimostrato – ma anche dilatandone i confini temporali. Il progressivo esautoramento del significato e dei poteri del Parlamento, la ristrutturazione dei rapporti centro-periferie, la partecipazione popolare ai grandi eventi (sia pure in forme grezze e poco consapevoli), il protagonismo femminile (tanto delle donne intellettuali quanto delle illetterate), l’incredibile produzione memorialistica e simbolica, popolare e non, sono processi che la storiografia ha da tempo collocato in un quadro di medio-lunga durata che gli anni ’15-18 rendono più visibile».

Il primo saggio è di Flavio Silvestrini, Parlamento di guerra e antiparlamentarismo: l’autunno del giolittismo tra crisi istituzionale e controversie ideologiche (1914-1919). Il periodo che va sotto il nome di Giolittismo comprende molti aspetti del primo Novecento politico italiano. Lo strappo determinato dall’intervento in guerra dell’Italia è la prima tangibile manifestazione di chiusura del sistema giolittiano. Attorno alla figura dello statista piemontese si era radunato in Parlamento un gruppo neutralista, ma incapace di essere punto di forza dell’orientamento politico. Nei convulsi giorni di maggio, in cui l’Italia entrò in guerra si ebbe l’opportunità di verificare lo scambio tra due tendenze politiche. Il più attivo agitatore degli interventisti fu Gabriele D’Annunzio. Il 13 maggio, dopo che dei dimostranti avevano cercato di irrompere a Villa Malta, residenza del tedesco Bulow, il Vate arringava contro Giolitti incitando alla violenza contro i traditori della Patria. Uno spettacolo teatrale si trasformò in comizio, dove il poeta usò parole di fuoco contro lo statista accusandolo di essere in combutta con lo straniero. Qualche giorno dopo che Giolitti aveva abbandonato Roma e Montecitorio, D’Annunzio arringava il popolo romano. Con la riapertura della tornata parlamentare, il Presidente Salandra introduceva nuove misure volte a tutelare la salute pubblica e la difesa dello Stato. Il parlamento divenne una tribuna propagandistica impedendo, di fatto, all’opposizione di svolgere il proprio ruolo. È emblematica la discussione che seguì Caporetto, innescata dopo la pubblicazione degli Atti della Commissione d’inchiesta che aveva fornito uno strumento ai seguaci di Giolitti per individuare i responsabili della crisi italiana e addebitare tutti gli errori al Generale Cadorna. Ciò serviva per isolare la destra liberale e ravvivare il fronte socialista. Il gruppo socialista, infatti, diversamente dagli esponenti giolittiani, non ebbe molti miglioramenti e il gruppo in Parlamento era formato da una minoranza riformista. La sintesi verso l’intervento in guerra fu fornita dal discorso di Turati. Giolitti torna sulla scena politica nell’ottobre del 1919, rompendo il silenzio pubblico e un esilio volontario. Occorreva però una seria rilettura degli ultimi anni. Il paese era vittorioso ma stremato, il disastro economico evidenziava come l’interventismo non fosse stato disinteressato, ma avesse avuto il sostegno di potentati economici. Quattro anni di poteri eccezionali nelle mani del governo avevano compromesso la libertà parlamentare, ma esautorare il Parlamento significava favorire l’avvento del proletariato. Salandra fu colpito dal cambio di registro dell’avversario politico; Giolitti tornava con la lettura dei fatti chiedendo al governo responsabile del conflitto di dare il giudizio agli elettori. Escludere il popolo che aveva patito così tanto in termini di vite umane da decisioni importanti non era più pensabile. La critica di Giolitti però era quella di un politico arroccato nelle sue certezze e la conseguenza fu l’impossibilità di dare seguito ad ambiziosi programmi; ciò aprì un dramma istituzionale che si concretizzò con l’avvento del fascismo.

Il secondo saggio è di Maria Sofia Corciulo, Il Comitato Segreto della Camera dei Deputati (13-18 dicembre 1917). Il saggio passa in rassegna l’ampia diminutio dei poteri parlamentari negli anni 1914-1918, esamina il lungo e sofferto dibattito che si tenne in Parlamento in occasione dell’entrata in guerra dell’Italia e si concentra sulla nascita, all’indomani della disfatta di Caporetto, di un Comitato segreto, costituito il 13 dicembre 1917, per accelerare i lavori della Camera. Infatti, al fine di evitare dibattiti inconcludenti e disordinati, si stabilì che essi vertessero sulle recenti, tragiche vicende militari, strettamente connesse alla politica estera, e le discussioni furono così più spedite ed efficaci, fino al 18 dicembre. Tuttavia, ancora una volta, si notò che la mancanza di norme regolamentari sui Comitati Segreti doveva essere al più presto sanata (una proposta in tal senso sarà presentata l’anno seguente, il 13 febbraio 1918). Il saggio riporta i passaggi più rilevanti e significativi del lavoro del Comitato segreto. Grazie anche ai dibattiti, iniziati in Comitato Segreto e proseguiti in Assemblea, dopo Caporetto, la tattica militare venne in parte mutata; il vitto dei soldati, spesso insufficiente, fu migliorato ed estremamente rare furono le decimazioni dei militi considerati indisciplinati. Certamente anche per questi “ripensamenti” l’esercito italiano si riprese e si batté con coraggio sulle sponde del Piave riscattando i fatali errori dell’Ottobre 1917.

Il terzo contributo del libro è quello di Luigi Montonato, Spagnuola, l’epidemia del 1918 uccise più della Grande Guerra. Ricerca sulla stampa dell’epoca, che si occupa della epidemia detta all’inizio febbre primaverile, poi estiva, influenza da soldato, febbre dei mitraglieri e poi spagnuola, che colpì l’Italia e tutto il mondo, fra il 1918 e il 1919 e che fece più morti della stessa guerra mondiale. Oltre a descrivere gli aspetti sanitari, il saggio offre una ricerca sulla stampa dell’epoca, rivelando come i mezzi di informazione si occuparono della terribile pandemia. Se ne ricava che il Paese fu praticamente abbandonato a se stesso. Lo si riscontra leggendo le cronache dei giornali dell’epoca, che, pur contenute e prudenti, a volte censurate, danno l’idea della situazione reale in cui versavano le popolazioni da Nord a Sud, nei centri urbani e nelle periferie. Il governo, che pur si sforzava di far fronte alla gravissima emergenza, era oggettivamente in difficoltà e insisteva nelle raccomandazioni sul rispetto delle misure di igiene e sulla fiducia che l’epidemia sarebbe passata come altre precedenti, sostanzialmente perché altro non si poteva fare.

Il contributo di Fiorenza Taricone tratta di Teresa Labriola e l’interventismo italiano. Unica figlia femmina del filosofo Antonio Labriola, intellettualmente molto dotata, Teresa Labriola è stata una delle teoriche del femminismo italiano. Prima donna laureata in giurisprudenza, non fu ammessa all’esercizio dell’avvocatura perché l’accesso a tale professione era vietato alle donne dal Codice Pisanelli. Fu necessaria una guerra mondiale perché le donne potessero accedere a tutte le professioni, ma con vistose eccezioni. La Labriola fu tra le pochissime intellettuali a tentare una sintesi del pensiero femminista, scomponendolo fino a individuare il nucleo teorico e la matrice ideologica delle varie correnti, iniziate nel XVIII secolo sulla scia della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Infatti, considerava il movimento femminista “l’ultima ed estrema punta del moto più generale dell’intera società dell’Occidente europeo”. Per il femminismo rivendicò la dignità del pensiero; inoltre fu favorevole all’interventismo femminile italiano. Saggista e pubblicista prolifica, la sua produzione corre su un doppio binario: uno di carattere teorico-filosofico e l’altro emancipazionista-femminista. Dopo la morte del padre, iniziò un percorso politico e intellettuale diverso, convertendosi al nazionalismo, che diventò per lei un credo politico, e all’interventismo, convinta che le donne costituissero una mobilitazione civile indispensabile per la guerra stessa. Il suo insistente rivolgersi alle donne era motivato dalla convinzione che la nazione fosse stata da sempre retta e governata dagli uomini e questo inveterato sistema di potere impedisse alle donne di sviluppare pienamente sé stesse e di avere un ruolo fattivo nella società che stava nascendo. La Labriola lottava affinché le donne acquisissero una maggiore coscienza di classe, prendessero contezza dell’importanza della partecipazione civile e tenessero il costante contatto con le classi direttrici della produzione. Nonostante la sua conversione al fascismo, non ebbe grandi onori in vita, anche perché continuamente oscurata dalla fama del padre, la cui eredità si dimostrò troppo pesante per lei che, sempre più fragile psicologicamente, morì, quasi settantenne, in ristrettezze economiche nel febbraio del 1941.

Si passa al saggio di Paolo Vincenti, Luci ed ombre nella partecipazione delle donne salentine alla Prima Guerra Mondiale. La partecipazione delle donne alla Guerra ha dimostrato come il loro impegno sia stato ampio e variegato, determinando un concreto passo verso l’emancipazione femminile. È emerso un universo femminile prismatico che, oltre ai settori più tradizionali, come quello dell’assistenza e del maternage, ha riversato il proprio impegno in molti altri campi che fino ad allora erano di esclusiva pertinenza maschile. Certamente, la presenza femminile era più numerosa nell’assistenzialismo sia cattolico che laico. Le donne appartenenti all’aristocrazia e all’alta borghesia fondarono e parteciparono a diverse associazioni di beneficenza nel Salento come in tutta Italia. Molte infermiere partirono per le zone di guerra, con l’autorizzazione del padre, mentre la figura delle “madrine di guerra” nasce con lo scopo di tenere alto il morale delle truppe e di far sentire meno soli i soldati al fronte; spesso le madrine di guerra adottavano questi soldati come figliocci per la durata del conflitto. Quelle più giovani intraprendevano una corrispondenza epistolare che non di rado portava all’innamoramento e quindi al fidanzamento o al matrimonio. Molte furono le crocerossine anche nel Salento, così come le “Dame di Carità”, promotrici di iniziative benefiche a favore dei soldati feriti o mutilati o degli orfani e delle vedove di guerra. Molte donne furono impegnate nel campo intellettuale come insegnanti, scrittrici, giornaliste. In assenza degli uomini, si sostituirono a loro nel lavoro nei campi; nelle città le donne entrarono nell’industria metallurgica, meccanica, costituendo un’alta percentuale di presenze alla fine della guerra. Molte si impegnarono direttamente al fronte, come le Portatrici Carniche, che operarono lungo il fronte della Carnia, si arrampicavano sulla montagna trasportando con le loro gerle rifornimenti e munizioni fino alle prime linee italiane ed esponendo a rischio la propria vita. Questa emancipazione si rivelò un’arma a doppio taglio; infatti, quasi sempre la partecipazione attiva delle donne al mondo del lavoro era sinonimo di sfruttamento, considerato che il salario si manteneva più basso rispetto alle ore lavorative. Al di là del grado sociale e culturale, le donne si trovarono coinvolte in un evento che ridisegnò ruoli e percorsi sia in campo politico, che sociale ed economico. Il conflitto fu molto lungo ed esse furono capaci di inscenare plateali manifestazioni di ribellione, a favore della pace, manifestando in tutto il Paese, violando atavici tabù. Ma queste agitazioni furono fortemente contrastate dal potere costituito e ci fu una ferma volontà, sia da parte della stampa che del governo, di farle passare sotto silenzio, pur di non dar voce alle protagoniste. Nonostante ciò, le donne riuscirono ad appropriarsi di un ruolo attivo che non avevano mai avuto.

È sempre a firma di Paolo Vincenti, il saggio Il soldato ruffanese Rocco Gnoni, vittima delle fucilazioni sommarie nella Prima Guerra Mondiale. Nella storia della Prima Guerra Mondiale è annotata una pagina tra le più inquietanti, quella delle fucilazioni sommarie, che vide molti soldati morti per repressione interna, uccisi dall’esercito italiano per insubordinazione, resistenza agli ordini, diserzione e altro. In guerra non si moriva solo di fame, freddo, stenti, ma anche in seguito a processi sommari nei quali i soldati venivano mandati alla sbarra per futili motivi e con estrema facilità condannati, assolvendo alla funzione di capro espiatorio. Quel che è peggio è che questi severi provvedimenti venivano lasciati al libero arbitrio degli ufficiali sul campo, costretti a decidere per non essere oggetto a loro volta di provvedimenti disciplinari. La dura repressione partì da una circolare del generale Cadorna che prevedeva per l’esercito una ferrea disciplina e una dura risposta agli atti di insubordinazione. Gli ufficiali erano costretti a essere inflessibili con i sottoposti, ma anche i giudici dei 117 tribunali militari erano spesso richiamati a una maggiore severità. Fra le tante vittime della giustizia sommaria, anche un soldato salentino: Rocco Gnoni. L’ordine di fucilazione fu impartito dal Comando della seconda armata il 3 novembre 1917, proprio quando i reparti si apprestavano ad abbandonare Pordenone. Sconosciuta la motivazione della sentenza, mentre l’Albo d’oro dei caduti della Grande Guerra dice di lui che fu disperso in battaglia il 30 ottobre, nel ripiegamento al Piave. Anche il foglio matricolare annota “disperso” e rilascia dichiarazione di irreperibilità. Ed è così che viene ricordato nella targa del monumento ai caduti del suo paese, Torrepaduli, frazione di Ruffano. L’autore ricostruisce minuziosamente la parabola del soldato Gnoni attraverso la compulsazione di fonti anche minime, per ristabilire la verità dei fatti. Nel 2016 è stato organizzato un incontro presso l’Istituto Comprensivo di Ruffano per ricordare tutti coloro che sono stati fucilati da mano amica e il relatore e i docenti hanno cercato di far luce sulla vicenda di Rocco Gnoni. La sua vedova raccontava ciò che un reduce le aveva riferito: mentre il marito era a rifocillarsi in una osteria dopo le dure battaglie, fu redarguito da un ufficiale a cui, forse, rispose in modo irrispettoso. Nel 2015, gli onorevoli Zanin e Scanu hanno proposto una legge sulla riabilitazione di questi caduti della Prima Guerra Mondiale, eroi minori di una beffarda tragicommedia.

Segue il contributo di Anna Maria Andriani, Li cunti te lu focaliri. Fra i percorsi della memoria collettiva. L’indagine storiografica contemporanea ha aperto un dibattito sulle nuove fonti relative ad aspetti inediti della Grande Guerra: ad esempio, quali strategie dovette adottare l’Italia, dapprima neutrale, per coagulare una coscienza patriottica e nazionale in grado di sostenere un conflitto dai costi umani e finanziari imprevedibili. Aspetti messi in luce grazie al ricorso a materiali e documenti non “canonici” o all’indagine sui “dimenticati” della storia, i dispersi, i prigionieri. Con specifico riferimento alla riflessione di Pierre Nora su “i luoghi della memoria”, alla Convenzione Unesco (2003) sulla tutela del patrimonio immateriale culturale, alle metodiche della Oral History, l’autrice ha impostato il proprio progetto di ricerca finalizzato alla raccolta di “storie di vita” vissuta. I racconti dei “ricordi” dei Reduci della Grande Guerra narrati dai figli o dai nipoti costituiscono la fonte orale utilizzata. Sono racconti di gente comune, illetterata per lo più, che colpiscono per la modestia dei mezzi espressivi e l’efficacia delle loro narrazioni. L’autrice apre pure una interessante digressione sui temi del racconto/ricordo/memoria/narrazione. Nella memoria collettiva, la Grande Guerra entra dunque in scena anche con i racconti dei ricordi dei reduci, ambientati in alcuni luoghi del conflitto. Tale tipologia testuale può arricchire la documentazione storica sulla Prima Guerra Mondiale e incentivare la ricerca di fonti, ora finalmente riconosciute dalla storiografia ufficiale. Si tratta dell’esperienza di uomini comuni ricostruita attraverso il racconto di chi ha raccolto i loro ricordi di guerra. Da qui l’indicazione di “racconti accanto al fuoco” (li cunti ti lu fucaliri), raccolti cioè dalla voce dei “vecchi”, che usavano narrare la vicenda bellica vissuta nelle sere d’inverno, quando la famiglia si stringeva accanto al caminetto. Per ragioni anagrafiche, i racconti proposti non sono riferiti dai protagonisti (nel testo chiamati “Attanti”), ma da coloro che li hanno ascoltati, indicati perciò come “Narratori”. Il ricordo appartiene a chi ha vissuto l’evento, la memoria è però anche di chi lo ha sentito raccontare. E la Storia è studio e interpretazione del passato, di cui fanno parte tanto la memoria quanto il ricordo legati in un rapporto a spirale. Il racconto del ricordo segna la rivincita della storia; nel tempo l’uomo segnato -protagonista-narratore – diventa “attante” e l’ascoltatore si fa, a sua volta, narratore. È significativo che tra le nuove fonti della storia, il racconto, in cui si intrecciano verità partecipata soggettiva e accadimento storico oggettivo, sia stato annoverato con tutti i crismi. Infine, l’autrice deplora l’assenza dei “racconti” e dell’affabulazione nella società odierna, in cui la famiglia è stata travolta dalla rivoluzione tecnologica e mediatica e anche le piazze e i centri storici sono stati svuotati delle funzioni aggregative loro proprie.

Il saggio di Pasquale Guaragnella, Paesaggi di guerra e visioni di sofferenza e di morte. Su alcune novelle dell’ultimo De Roberto, analizza l’opera Novelle dello scrittore siciliano Federico De Roberto. Pur non avendo partecipato alla Grande Guerra, De Roberto si dimostra un ottimo conoscitore di cose militari, per esempio nella novella Lo scrittore, in cui appare magistrale la descrizione del paesaggio invernale montano. Un paesaggio di incredibile suggestione, per chi era vissuto in collina o in pianura. Un incredibile contrasto era quello che si veniva a creare nella mente dei soldati fra il senso di orrore e la scoperta della frontiera e di quegli incantevoli paesaggi. I soldati si chiedevano come mai si poteva morire in luoghi simili, e nelle lettere che spedivano ai parenti si evidenziava una duplicità: essi cioè indossavano una doppia divisa per il freddo, ma anche una duplice personalità, quella del combattente e quella dello scalatore, quella del sottoposto e quella del superiore. La montagna stabiliva dei ruoli: l’esperienza del montanaro e il sapere delle gerarchie militari. Infatti basta leggere l’altra novella, Il Trofeo, in cui vi è un confronto tra due ordini di esperienze e di saperi, per cogliere la rappresentazione di un duplice paesaggio, quello del fronte di guerra e quello familiare di casa. Ne La posta, la novella più intensa di De Roberto, si incontra la partecipazione umana del soldato Valastro che nonostante l’imperversare delle granate si illude di essere al suo paese con i suoi cari, proprio nel momento in cui incombe su di lui la mala sorte. Una granata lo uccide e la scena che descrive il corpo del soldato senza vita ha un non so che di religioso, ed è qui che si riconosce la duplicità dell’arte narrativa di De Roberto; la rappresentazione della morte del soldato, a guerra ormai conclusa, risente della rielaborazione del lutto e della memoria. Il recupero del corpo del giovane fante offre a De Roberto l’occasione per mettere in scena ciò che potrebbe essere una deposizione. Il corpo del soldato è ridotto in brandelli; è la violenza della guerra tecnologica che rende irriconoscibili i corpi, creando una specie di separazione corpo-nome, che poi nel primo dopoguerra dà l’avvio alla monumentalizzazione del “milite ignoto”. Non sarà ignoto il protagonista della novella di guerra più nota dello scrittore siciliano: La paura, racconto che costituisce una notevole eccezione rispetto allo spirito bellicistico così dominante in quegli anni nella nostra cultura, per la sua dura denuncia degli orrori della guerra. Anche questa novella non è molto diversa dalle altre. Si apre con una interessante descrizione del paesaggio a cui seguirà quella dei soldati che carponi devono raggiungere la postazione di vedetta e che vengono colpiti da un invisibile cecchino nemico. Il soldato Morana, famoso per i suoi atti di coraggio, è colto dalla paura e rifiuta di ubbidire al tenente Alfani, dopo che ha visto morire cinque suoi compagni. Nonostante questo rifiuto comporti di morire di fronte a un plotone di esecuzione, egli sceglie una terza via: quella del suicidio. L’uomo è solo e abbandonato, senza patria, senza familiari, senza regole. Questa novella, che De Roberto invia alla redazione de “La Lettura”, viene rispedita al mittente con molto dispiacere dal direttore Renato Simoni perché avrebbe certamente, una volta pubblicata, trovato nei lettori molte opposizioni per un argomento così scabroso. Ma non c’è dubbio che La paura sia una perfetta opera d’arte.

La Grande Guerra fu tale anche per il coinvolgimento delle comunità civili, comprese quelle più distanti dal fronte. Grandi e piccoli dovevano sentirsi partecipi della difesa della Patria, attraverso i mezzi di persuasione propri della propaganda dell’epoca, tra i quali, per i ragazzi, le copertine dei quaderni di scuola. La grafica aveva una straordinaria carica comunicativa. Su questo argomento verte il contributo di Francesco Carone, La Grande Guerra raccontata da quaderni scolastici e dalla stampa popolare. Attraverso la scuola erano veicolati i modelli educativi funzionali al potere politico: particolare attenzione era data alle letture al fine di suscitare emulazione e ammirazione per i soldati al fronte. Le immagini di Achille Beltrame per la «Domenica del Corriere» venivano utilizzate per illustrare il conflitto sui quaderni scolastici, quaderni che oggi possiamo considerare “luoghi della memoria”. Ovvio che la realtà della guerra era ben diversa da quella “eroica” raffigurata sulle loro copertine. L’autore offre quindi una disamina di alcune fra le immagini (desunte dall’archivio privato Monaco-Filotico di Oria) più ricorrenti sui quaderni di scuola, per instillare nei discenti spirito patriottico, ardimento militare, devozione alla Casa Savoia, circonfusa di un’aura sacrale in quanto artefice dell’unità d’Italia. È riportata una immagine di copertina con Vittorio Emanuele III, il “re soldato”, che consuma una colazione con semplici militari: atteggiamenti che lo resero molto popolare tra i fanti contadini, oppressi dalla vita di trincea e dagli attacchi suicidi contro il fronte nemico. Le figure del re o della regina madre, Margherita, contribuivano a coagulare il consenso alla guerra e a rafforzare quella identità nazionale che si veniva costruendo sui campi di battaglia, dove milioni di uomini, di ogni parte d’Italia, si sentivano uniti nel medesimo compito per la difesa della Patria. «La patria diventa la realtà delle masse in combattimento e la Grande Guerra trasforma un esercito di contadini in un esercito di italiani che, attraverso i quaderni scolastici, consente alla scuola di sviluppare un nuovo senso di appartenenza, educando i giovani ad una nuova cittadinanza attiva e responsabile». Oltre che esaltare le azioni belliche di alpini e bersaglieri, le illustrazioni educavano gli alunni anche al senso del sacrificio e del risparmio, finalizzati al prestito nazionale. I piccoli potevano concorrere offrendo i propri salvadanai, come mostravano le vignette di giornali e quaderni. «Anche le materie scientifiche come la matematica vedevano la guerra come assoluta protagonista: i bambini facevano i conti sugli effettivi dell’esercito italiano in rapporto a quelli dei nemici oppure sul costo quotidiano di un soldato; l’insegnamento delle scienze, poi, si fondava sullo studio delle armi da guerra e, in particolare, del carro armato e dei gas chimici». Caratteristica delle illustrazioni per i ragazzi era, per così dire, l’anonimato e la stereotipia dei luoghi riprodotti, senza riferimento a località familiari, in quanto le immagini dei quaderni dovevano rispondere unicamente all’esigenza promozionale di una guerra necessaria per il bene della Patria e per infondere i valori dell’eroismo e del dovere alle giovani generazioni.

Il filone della monumentalistica bellica nasce all’indomani della Prima Guerra Mondiale, per l’esigenza di elaborare il lutto e commemorare i tanti eroi caduti per la Patria. Di questo si occupa Paolo Vincenti nel suo “L’ombra sua torna ch’era dipartita”. Il culto dei caduti in Terra d’Otranto nelle opere di Antonio Bortone. Nell’Italia del Nord, oltre ai monumenti, sorsero Ossari e Sacrari, dato l’altissimo numero di vittime non identificate. A tutte queste vittime senza nome venne dedicato il grande monumento del Milite Ignoto a Roma, presso l’Altare della Patria. Nel resto d’Italia, sorsero viali e Parchi della Rimembranza e moltissimi monumenti dedicati ai caduti. Con il monumento, si creava una unione di intenti fra Stato e cittadini. Oggi sono più di 12.000 i monumenti, commissionati dalle amministrazioni locali e collocati nelle piazze dei vari paesi d’Italia; dal monumento equestre, tipico prodotto dell’arte risorgimentale, si passò alla stele o Vittoria Alata. Ma furono svariate le tipologie di soggetti scelti per i monumenti: cippi, lapidi, obelischi, aquile, soldati, non sulla base di una lettura stilistica, ma la scelta fu operata dai comuni in base alla disponibilità economica. Il culto di onorare i caduti nacque con l’avvento del Fascismo che con una mirata ed efficace polarizzazione del consenso, indirizzò la propria propaganda all’istituzione del ricordo. Nel 2017 l’ICCD ha terminato la catalogazione dei monumenti, definendo attribuzioni, datazioni e tipologie. Anche la Terra d’Otranto diede un notevole contributo alla causa. Fra i vari artisti, alcuni persino sconosciuti, lo scultore ruffanese, ma fiorentino d’adozione, Antonio Bortone fu tra coloro che realizzarono il maggior numero di opere sul tema, fra Parabita, Ruffano, Tuglie, Calimera, oltre a busti e targhe sparsi in tutta la provincia di Lecce. L’autore passa in rassegna le opere bortoniane soffermandosi sul particolare valore simbolico delle loro iconografie. All’indomani della caduta del Fascismo, poi, un moto generale di riprovazione coinvolse anche i monumenti ai caduti, che furono identificati con la propaganda del regime e per questo coinvolti nel totale rigetto di simboli, immagini, rituali e di tutto ciò che si identificava col fascismo.

Maria Antonietta Bondanese offre il saggio Religiosità e devozione di militi supersanesi nella Grande Guerra. Nel contesto della sconvolgente esperienza collettiva del Primo conflitto mondiale, è ricordato il toccante gesto di undici soldati di Supersano: la raccolta di una somma di denaro inviata al Parroco del paese per “funzioni sacre” in onore di San Michele Arcangelo, patrono del piccolo centro salentino. La lettera dei militi, recante sul retro, in minuta, la risposta del sacerdote, rimase per anni custodita nel cuore d’argento pendente dall’impugnatura della spada dell’arcangelo. Attestazione dell’umile religiosità di uomini che, travolti dalla bufera della storia, cercarono scampo nella fede.

L’ultimo intervento del libro è quello di Federico Carlino, Un eroe leccese della Grande Guerra, in cui si ripercorre la storia di Umberto Colamussi, eroe nella Prima Guerra Mondiale, che l’autore definisce “uno di questi tanti, innumerevoli Eroi, che hanno sacrificato la loro giovane vita per la Patria”. Si ricostruisce la biografia di Colamussi e le sue gesta, utilizzando come fonte principale il volume Fabrizio Colamussi intellettuale europeo, a cura di Lorenzo Carlino e Alessandro Laporta, edito nel 2009 dalla SSPP, Sezione di Lecce. Colamussi è stato inserito nella lista dei militari salentini riportata sul Monumento ai Caduti del Maccagnani in Piazza d’Italia, a Lecce, inaugurato il 28 ottobre 1928. Un’altra lapide dove Umberto Colamussi è ricordato si trova sotto il porticato del Liceo Palmieri in Piazzetta Carducci.

 

STORIA E STORIE DELLA GRANDE GUERRA ISTITUZIONI, SOCIETÀ, IMMAGINARIO DALLA NAZIONE ALLA TERRA D’OTRANTO

A CURA DI MARIO SPEDICATO E PAOLO VINCENTI

SOCIETÀ STORIA PATRIA PUGLIA SEZIONE DI LECCE, NOVOLI, ARGOMENTI EDIZIONI, 2020, PP. 240.

Erbe e tarantismo

di Gianfranco Mele

 

Introduzione

Che ruolo hanno avuto le erbe nell’ambito del tarantismo? Oltre ad avere impiego come medicinali da parte dei medici del tempo (molti dei quali e in ogni caso, a seguito della osservazione dei casi, hanno ammesso una superiorità del rituale musicoterapeutico), le vediamo inglobate anche nei contesti rituali, sia come presenze evocative di più antichi scenari naturali all’interno dei quali si svolgevano i riti, sia come strumenti complementari di guarigione. Non solo: nel caso dei cosiddetti cirauli o ceramati o tarantolari erano parte di un rito di tipo magico-medicinale che abbiamo descritto in precedenti occasioni.[1]

Analizzando il complesso dei loro impieghi a partire dai tempi più remoti, nei quali specifiche erbe erano considerate, a causa delle loro proprietà (reali e/o attribuite) strumenti salvifici per la cura degli avvelenamenti da morsi di animali, si può ipotizzare che la presenza nell’ambiente del rito di piante come  la ruta, la menta, il basilico (sebbene nelle forme rituali pervenuteci relegate ad un ruolo ornamentale o, come asserisce il De Martino di “stimolo olfattivo”), possa costituire il retaggio di loro precedenti ruoli più attivi,  e/o la rappresentazione delle virtù loro attribuite sin dalla antichità, ovvero rimedi e antidoti contro i veleni, contro le possessioni, insieme a tutta una serie di credenze magiche connesse al rapporto tra queste piante e gli animali velenosi.

Vi sono poi casi in cui rimedi a base di erbe sono impiegati sia nell’ambito  di rituali medico-magici operati da maghi guaritori, sia da parte di medici settecenteschi e ottocenteschi: ad esempio, i vapori di vino  bollito insieme a rosmarino ed altre erbe  (ruta, salvia etc.) sono utilizzati sia dai cirauli calabresi che dai medici salentini e siciliani.

Le applicazioni immediate di aglio al fine di “non far passare il veleno” sono utilizzate sia dai medici che nella tradizione popolare, mentre vi è  una lunga serie di più o meno complessi rimedi a base di erbe, impiegati esclusivamente nella tradizione medica, come l’ Acqua Vitale o l’ Elettuario Antifalangio utilizzati da Epifanio Ferdinando, la Teriaca o il Mitridazio utilizzati sin dall’antichità per i morsi di animali velenosi e suggeriti anche per la cura del tarantismo, e infine decozioni, tinture e applicazioni varie.

Nel caso mitico e atipico del “tarantismo” di Aracne, le erbe sono addirittura non già rimedio, ma causa della metamorfosi della fanciulla: qui non è un morso, non è il veleno inoculato da un aracnide a costringere il personaggio ad assumere quelle stesse movenze da ragno che assumono le tarantate salentine, ma alcune potenti erbe “infernali” che la dea utilizza per l’incantesimo.

 

La presenza delle erbe nei rituali

E’ nota la presenza di elementi vegetali nell’ambito dei rituali di tarantismo. In genere, a tale presenza sono attribuiti due significati: 1) la ricostruzione all’interno delle mura domestiche di un più antico scenario arboreo (laddove la stanza in cui si svolge il rito viene adornata di fronde, rami verdeggianti, pampini di vite); 2) l’impiego di erbe specificamente aromatiche come “stimolo olfattivo” (su questo aspetto abbiamo pochissima, benchè significativa documentazione).

Tuttavia, laddove si fa riferimento agli stimoli olfattivi la questione pare liquidata in termini di un generico sollievo offerto dal piacevole odore delle piante, trascurando approfondimenti in merito alle loro proprietà specifiche e ad antichi e tradizionali impieghi di quelle piante nella cura dei morsi di aracnidi ed altri animali presenti nella simbologia del tarantismo.

Non sfugge al De Martino la presenza di tali piante aromatiche nel rito, ed è proprio lui ad ipotizzarne l’impiego a fini di stimolo olfattivo.

Nel De Martino, la questione della ricostruzione dello scenario arboreo è ben distinta dalle osservazioni rispetto alla presenza di determinate piante aromatiche. Se difatti pampini di vite, fronde e rami di piante varie hanno un fine più che altro ornamentale e al tempo stesso rievocativo di un rito svoltosi più anticamente all’aperto, alle cosiddette piante aromatiche sembra assegnato un ruolo (benchè secondario) più immediatamente terapeutico.

Il  De Martino riprende un passo della Caggiano, la quale nel 1931 aveva  osservato il rito svolgersi così nelle campagne di Taranto:

“tutte le comari offrono – in prestito s’intende – fazzoletti, scialli, sciarpe, sottane, tovaglie d’ogni colore, vasi di basilico, di cedrina, di menta, di ruta, specchi e gingilli ed infine un gran tino pieno d’acqua. L’ambiente viene così addobbato e quando tutto è pronto la morsicata, vestita di colori vistosi, sceglie a suo gusto nastri, fazzoletti, sciarpe, che le ricordano i colori della tarantola, e se ne adorna in attesa dei suonatori” [2]

Le erbe aromatiche utilizzate nel rito osservato dalla Caggiano dunque sono: basilico, cedrina, menta, ruta, e vedremo più avanti, nei dettagli, cosa hanno in comune tali piante. Nel commentare il su riportato passo, il De Martino scrive:

“ I vasi di basilico, di cedrina, di menta e di ruta erano impiegati durante l’esorcismo come stimolo olfattivo: la tarantata di tanto in tanto odorava queste piante aromatiche allo stesso modo come contemplava i colori dei drappi o dei nastri, o si accostava a questo o quello strumento per entrare con esso in particolare rapporto. In altri termini l’evocazione non si compiva soltanto attraverso suoni e colori, ma anche gli aromi potevano avere la loro parte, per quanto relativamente minore, almeno a giudicare dal fatto che questo particolare del rito non trova altri riscontri nella documentazione diacronica”.[3]

Passiamo ora perciò ad approfondire il legame di queste erbe citate nel passo della Caggiano, con il tarantismo, con la sintomatologia a questo attribuita, e con le cure in genere dei morsi degli animali velenosi.

Basilico (Ocimum basilicum)

 

Basilico, tarantole e scorpioni

La presenza del basilico nel rituale del tarantismo è descritta anche in un recente testo di Mario Salvi, che riporta una ricerca effettuata su Villa Castelli:

“La cura per guarire  dagli effetti del morso di scorpioni, serpenti ecc. (dal dialetto: “sfogare la malinconia”) prevedeva l’intervento di musicisti e cantori che eseguivano uno specifico tipo di pizzica, detta tarantella, in cui le parti in minore (sonata a “malinconica”) si alternavano a quelle in maggiore, riprese dalla pizzica pizzica.

 La signora Lucia De Marco (97 anni) madre del cantore Vito Nigro, ricorda che negli anni della prima guerra mondiale quando si dovevano curare le tarantate, di solito donne il cui marito era al fronte, venivano chiamati suonatori di Francavilla Fontana. Si trattava di un trio costituito da violino, chitarra e tamburello, quest’ultimo suonato da una donna.

La cura della “malinconia” si svolgeva nella casa dell’ammalata, di solito nell’ambiente più grande, che spesso fungeva anche da camera da letto. A terra era posto un vaso di basilico e, al centro della stanza, un oggetto che ricordava nella forma l’animale che aveva morso o spaventato la tarantata.

La terapia musicale durava spesso più di un giorno e in tal caso i musicisti si trattenevano nella casa finchè la tarantata non aveva “sfogato”. [4]

Il basilico, che come abbiamo visto è presente sia nelle osservazioni della Caggiano che in quelle del Salvi, ha un ruolo particolare e una lunga tradizione come erba magica e medicinale. Nel Medioevo  era usato per cacciare i diavoli dagli invasati; si pensava inoltre che  guarisse dalla melanconia, e per questo vi era l’antico detto “mentis nubila pellit” (caccia l’oscurità della mente).

Per Dioscoride il basilico ha numerose proprietà e impieghi medicinali, da diuretico ad antiinfiammatorio, e ha la particolarità di essere utile rimedio alle punture degli scorpioni (“dissero gli Arabi, che essendo trafitti dagli scorpioni coloro, che quel giorno han mangiato basilico, non sentono dolore alcuno”)[5]. Vi era però anche una credenza opposta: ovvero, secondo Plinio ad esempio, “non puo guarire, avendo quel giorno mangiato basilico, chi sia stato trafitto dagli scorpioni[6].

Si era attribuito a questa pianta persino il potere di generare scorpioni e vermi:  “dissero alcuni,che mettendosi   trito sotto una pietra ne nascono gli scorpioni: o che masticato,e posto al sole se ne generano alcuni vermi.[7] Una variante di questa credenza è nella tradizione popolare siciliana, laddove si crede che gli scorpioni possano nascere da foglie di basilico messe sotto un recipiente colmo d’acqua.

Nicholas Culpeper, medico e botanico inglese del XVII secolo, nel suo trattato  Complete Herbal (1653) cita il medico francese Antoine Mizauld (1510-1578) che riporta la credenza  secondo cui il basilico messo nello sterco di cavallo genererebbe bestie velenose, e un certo Hilarious che raccontava della credenza diffusa secondo cui odorare troppo il basilico faceva nascere scorpioni nel cervello.[8]

Euscorpius italicus

 

L’ “erba cedrina”

La cedrina citata dalla Caggiano è di difficile identificazione poiché questo nome volgare è attribuito sia alla Lippia citriodora che alla Melissa officinalis. Alla lippia sono attribuite proprietà antinfiammatorie, sedative ed antispasmodiche. Melissa officinalis ha proprietà sedative ed antispastiche, e in medicina popolare veniva utilizzata per il trattamento di isteria e stati d’ansia. Inoltre, come vedremo più avanti, la melissa ha avuto impiego nella cura di morsi di animali velenosi fin dai tempi della medicina antica, ed è citata anche nel trattato Centum historiae di Epifanio Ferdinando, il medico mesagnese del XVII secolo che si occupò di tarantismo.

Lippia citriodora

 

Menta e animali velenosi

La menta è citata nel Dioscoride del Mattioli anch’essa come erba specifica contro i morsi degli animali velenosi, ed ha addirittura il potere di metterli in fuga: “scaccia tutta la pianta sparsa per terra i serpenti”.[9] Il Mattioli riferisce di proprietà ed usi comuni di varie piante della tribù delle Mentheae e quindi troviamo ad esempio che la calamintha “bevuta, ovvero impiastrata soccorre a i morsi delle velenose serpi”[10]   e usata con vino “vale contra a veleni”[11], così come la Mentha pulegium “soccorre con vino a i morsi di numerosi animali”.[12] In medicina popolare, la menta e la mentuccia sono sempre state utilizzate a tali scopi. Nella tradizione salentina, oltre a credere che la pianta potesse far fuggire i serpenti, la si utilizzava anche come rimedio contro i veleni (sia l’infuso che la masticazione delle foglie). La mentuccia ha avuto impiego specifico come rimedio per coloro che venivano morsi dallo scorpione. Epifanio Ferdinando cita la calamintha come rimedio contro tutti i veleni[13],  e la menta puleggio è citata come farmaco complementare nella descrizione di in un caso ottocentesco di tarantismo osservato dal medico calabrese Gaetano Spizzirri: in questo frangente la cura non era stata realizzata dal medico ma dai cirauli o ciraulari calabresi e lo Spizzirri era semplicemente testimone oculare dell’accadimento. Più avanti (nel paragrafo dedicato alla ruta), vediamo ancora come la menta puleggio sia citata anche dal Marciano.

Menta

 

La Ruta: da “herba de fuga demonis” a rimedio contro i morsi

L’ultima delle erbe citata dalla Caggiano è la ruta, una pianta utilizzata sin dai tempi più antichi come antidoto contro gli effetti dei morsi di animali velenosi.  Plinio la cita come rimedio sia al veleno dei serpenti che a punture di scorpione, di ragno, di ape, di calabrone e di vespa; inoltre, contro la cantaride e la salamandra, e contro il morso dei cani rabbiosi. A questo scopo, fornisce indicazioni di utilizzo del succo di ruta bevuto con  vino “in dose di un acetabolo”[14]; applicazioni di foglie tritate, oppure masticate, in impacco di miele e sale, oppure bollite con aceto e pepe. Plinio suggerisce l’impiego della ruta anche a livello preventivo rispetto alle aggressioni di animali velenosi:

“si dice che coloro che si siano cosparsi di succo e anche coloro che portano su di sé la ruta non vengano aggrediti da questi animali dannosi, e che i serpenti, se si brucia la ruta, ne fuggono le esalazioni”. [15]

Pare in effetti, da osservazioni condotte anche recentemente, che le vipere fuggano davvero questa pianta, forse per l’odore a loro particolarmente sgradevole.[16]

Nel capitolo dedicato alla “Difesa contra nimici malefici et venefici”, Cesare Ripa, nella sua Iconologia, riporta la figura di una  “Donna che porti in testa un ornamento di pietre preziose […] in mano una pianta che abbia la cipolla bianca detta Scilla […] e al piede vi sia una donnola che tenga in bocca un ramo di ruta”.[17]  Più avanti, nella descrizione della figura, il Ripa specifica, in riferimento alla donnola con ramoscello di ruta in bocca, che: “della donnola che porta la ruta in bocca scrivono tutti li naturali, che se ne provvede per sua difesa contro il Basilisco, e ogni velenoso serpente”.[18]

Ruta graveolens

 

Teriaca e Mitridazio[19], antichi farmaci contenenti entrambi la ruta, sono indicati dal Baglivi e dal Boccone come cure per il morso delle tarantole[20], e si ritrovano anche indicate in un manoscritto anonimo (risalente alla fine del XVII sec. o inizi XVIIII) che parla delle cure per i veleni di ragni e tarantole.[21]

Anche Achille Vergari, medico di Nardò, nella sua opera “Tarantismo o malattia prodotta dalle tarantole velenose” (1859) indica teriaca e mitridazio come antico rimedio, e rende noto che in alcuni luoghi “si usano ancora con successo i sughi di aglio, di cipolla, di ruta, di rovi, tanto localmente che internamente[22] e infine ricorda che “Celso per le punture delle tarantole e degli scorpioni prescriveva  l’applicazione dell’aglio con la ruta pesti e mescolati con l’olio”. [23]

Salvatore Pezzella, in una sua ricerca su antichi ricettari dell’Italia centrale, descrive la pratica del porre la ruta verde sulla parte interessata dal morso di tarantole o serpi.[24]

Ancora, sono menzionate ruta, menta (puleggio) ed altre erbe per la cura del tarantismo nel Marciano:

“Si sogliono anco curare i tarantati, come dice il Mattioli, con dar loro a bere la teriaca, il mitridato, ed altri diversi antidoti contro il veleno, e col fregar sopra la morsura  l’aglio scarnificarla e suggerla, fomentandola prima col vino tiepido, o caldo, ove siano stati decotti prima la ruta, l’origano, il dittamo, il puleggio, il serpillo e simili”.[25]

Nel rinascimento la ruta era considerata Herba de fuga demonis[26] la qual credenza ha origini antichissime, difatti già Aristotele ne raccomanda l’uso contro gli spiriti e contro gli incantesimi. Nel Medioevo era pratica usuale depositare corone di ruta sulle tombe per allontanare gli spiriti maligni.

In medicina popolare la ruta era utilizzata anche per la sua azione antispasmodica, antiisterica, antinervosa: la ricetta utilizzata prevedeva l’impiego di  “gr. 2 di foglie macerate per 1 ora in gr. 100 d’ acqua bollente”.[27]

Si può comprendere dunque come, a causa di questa mescolanza di credenze ed effettive proprietà, la pianta potesse godere di particolare considerazione anche nell’ambito delle cure per il tarantismo.

 

Altre testimonianze: malva e altre erbe

Un’altra testimonianza sulla presenza di erbe, è raccontata da Sergio Torsello e Vincenzo Santoro che riportano il caso di Nena, la tarantata 76enne di Alessano che utilizzava una malvacea (molto probabilmente Malva sylvestris):

La sua odissea, o meglio, il suo stato di agitazione “senza orizzonte”, cominciava qualche giorno prima del 29 giugno, la festa di S. Paolo, il solo capace di scendere a patti col ragno, lui che aveva dominato la vipera biblica, e poteva liberarla dal “rimorso” del ragno che opprime col suo mitico rigurgito. Girava di casa in casa, Nena, ad amici e parenti chiedeva i “fiureddhi”, una specie di malva spontanea dal forte potere sedativo, la sola cosa che riuscisse a regalarle qualche sollievo. Poi tornava a casa, si chiudeva in una stanza e cominciava a ballare.[28]

In effetti la malva, oltre ad essere considerata pianta medicinale utile ad ogni malattia (“la malva da ogni male salva”), ha avuto, sin dai tempi del Dioscoride, fama di pianta che cura gli avvelenamenti causati dai morsi dei ragni:

“Giova la decozione della malva fatta insieme con le sue radici bevendola a tutti i veleni mortiferi: ma bisogna che coloro che la bevono, continuamente la vomitino. Vale medesimamente ai morsi de i ragni, che chiamano phalangi…” [29]

Malva sylvestris

 

L’amica Sandra Taveri  mi riferisce della presenza ornamentale di violaciocca a Ceglie e di gelsomino a Cisternino in alcuni riti di tarantismo. Anche qui, c’è da ricordare che in passato l’infuso di fiori di violaciocca mescolato al vino è stato utilizzato come antidoto per i morsi di animali velenosi, mentre il gelsomino ha avuto utilizzi come analgesico e antispasmodico.

Infine, nell’opera del De Martino è riportato il caso di Michele di Nardò, giovane pescatore di 18 anni, che suole annusare non meglio specificati “fiori di campo” alla ricerca di un sollievo o nel tentativo, come dice il De Martino, di “ottenere dall’olfatto quello stimolo che non veniva dall’udito o dalla vista”.[30] Il tentativo di autocura da parte del giovane di Nardò è citato anche  in altro passo della ricerca del De Martino, quello in cui riferisce delle osservazioni della Caggiano nelle campagne di Taranto. Dopo aver citato lo scenario rituale con presenza di erbe descritto dalla Caggiano, lo studioso ricorda e correla a questo il caso di Michele, il quale “durante l’esorcismo musicale occasionalmente odorava dei fiori di campo, proprio come se cercasse di trarre degli stimoli olfattivi quanto non riusciva ad ottenere da quelli sonori e cromatici”.[31]

 

Tra magia e medicina

Vedremo dettagliatamente più avanti, anche se ne abbiamo già fatto diversi cenni, come nell’ambito delle cure mediche (sia quelle specifiche del tarantismo che quelle  rivolte più in generale ai morsi di animali velenosi) vengano utilizzate le stesse erbe (ed altre, dalle analoghe proprietà) che abbiamo visto esser presenti (secondo alcune testimonianze) nei rituali del tarantismo. La differenza fondamentale sta però nel fatto che mentre nel caso del rituale costituiscono una mera presenza (una sorta di complemento d’arredo dal De Martino individuato come finalizzato a funzionare come stimolo olfattivo), nel caso delle cure mediche le piante vengono ingerite sotto forma di preparati o utilizzate, dopo decozione e miste a vino, per bagni e vapori. A tale proposito, si potrebbe già osservare che in ambito magico-popolare sono ritenuti sufficienti  la semplice presenza o il possesso di una pianta perchè essa infonda le sue proprietà (vi sono numerosi esempi in ambito etnografico che evidenziano questo aspetto: ad esempio una pianta ritenuta afrodisiaca “funziona” come tale non solo se ingerita, ma anche se portata addosso o lanciata verso la persona che si intende ammaliare). C’è  però un caso  significativo di commistione della sfera del magico con quella  medica: si tratta di un episodio al quale già abbiamo accennato nel paragrafo dedicato alla menta. Nel 1827 sulla rivista  “L’Osservatore Medico” appare un articolo firmato da Samuele Spizzirri, allievo in medicina e nipote del medico calabrese Gaetano Spizzirri. Il giovane Samuele rendiconta dettagliatamente  intorno ad un caso osservato da suo zio: nel luglio del 1826 un giovane di Marano (prov. Di Cosenza) viene morsicato da ben due tarantole mentre lavora nei campi. Segue, nella narrazione, la descrizione di una serie di sintomi conseguenti il morso, tra i quali un continuo “tremore convulsivo” che spingeva l’infermo a danzare.  Vano è l’intervento di un chirurgo che applica nella parte colpita (l’avambraccio sinistro) “un bottone rovente” : a quel punto, il padre del ragazzo manda a cercare un ciraularo[32] il quale, dopo aver pronunciato dinnanzi al malato i suoi segreti carmi, interviene con medicamenti a base di erbe (il medico che assiste all’intervento riconosce unicamente, tra queste, il Rosmarino). Il giovane guarisce in tre giorni, e come medicinali oltre al bagno di vapori di vino ed erbe prende, da prescrizione, un succo di menta puleggio:

 “Il padre del paziente avendo una cieca fiducia in taluni cerretani di Mendicino, conosciuti col nome di Ciraulari, mandò tosto a cercare il più perito, il quale non appena giunto pronunciò i suoi superstiziosi carmi; applicò con la man dritta, dapprima sulla coscia sinistra, e quindi sulla dritta, e quasicchè tocco dalla mano di Medea, cessa come per incantesimo nel paziente il tremore, da prima nel sinistro, e quindi nel dritto lato; risultamento, che noi lasciamo alla considerazione del lettore per decidere, se debba o no attribuirsi alla morale influenza. Ciò ch’è certo però è che il villano Esculapio avendo fatto prendere al suo infermo, precedentemente coperto con mantello di lana, un bagno dei vapori di vino, dentro del quale avea fatto bollire, in vase di rame, le sue eroiche erbe, tra le quali noi potemmo distinguere il rosmarino, l’infermo al terzo giorno si ritrovò guarito, senza aver preso internamente altro rimedio che un bicchiere di succo di puleggio che gli defaticò lo stomaco”.[33]  

Lo Spizzirri prosegue citando poi brevemente un altro caso, quello di un quarantenne sempre di Marano, morso anche lui dalla tarantola. L’uomo viene guarito dallo stesso “cerretano” o “ciraularo” nel giro di tre giorni e con lo stesso metodo.

Samuele Spizzirri in una nota conclusiva ipotizza che il principale ingrediente del bagno di vapori nel quale sono state decotte varie erbe medicinali sia l’ Acanthus mollis. L’ acanto ha avuto in effetti utilizzo come lenitivo per eritemi e punture di insetti, e inoltre era considerato in antichità una pianta de fuga demonis come la Ruta. Tuttavia quella dello Spizzirri resta una ipotesi dal momento che nel composto di erbe suo zio riesce a riconoscere unicamente il rosmarino. Peraltro, vi sono numerose piante (come vediamo anche dalle varie citazioni inserite in questo lavoro) utilizzate nel corso della storia sia propriamente medica che magico-medicinale come rimedio specifico ai morsi di animali velenosi, altre utilizzate per ottenere sudorazioni, oppure ancora con duplice funzione. Descriveremo più avanti una caso analogo, in cui un tarantolato viene trattato, in Sicilia, con inalazione di vapori caldi di vino in cui son stati bolliti rosmarino, ruta, salvia ed altre erbe, ma questa volta il terapeuta è un vero e proprio medico.

 

Medicina, erbe e tarantismo

In conclusione, le testimonianze rispetto alla presenza di questa tipologia di erbe nell’ambito dei rituali del tarantismo sono troppo poche per poter affermare con certezza che fossero là presenti per le loro qualità di agenti anti-veleniferi e/o per altre loro proprietà (reali o attribuite) medicinali o magico-medicinali quali quelle che abbiamo sin qui riportato. Si può però ipotizzare che la loro presenza derivi da un più antico e definito ruolo (del quale via via la presenza stessa è rimasta a livello meramente simbolico o come debole retaggio di un impiego più attivo e concreto). In tal caso, il divario tra elementi tipici del rito e rimedi medici sarebbe meno eclatante di quanto si sia sempre creduto. Difatti, si tratta delle stesse erbe indicate sia nella medicina popolare che nella letteratura medica di ogni tempo (dall’antichità sino all’ Ottocento) come specifiche per la cura di morsi di tarantole, scorpioni, serpenti e animali velenosi in genere. Cè un passo del Mattioli  significativo al proposito:

“Imperochè il lungo suono e il lungo ballare provocando il sudore gagliardamente vince al fine la malitia del veleno di questi animali: come che in quel mezo, che si suona, si gli dia delle theriaca, del mithridato, e dell’altre cose, che universalmente valgono ai morsi delle serpi, e degli aspidi”.[34]

Ancora più significativi, i casi dei tarantolati calabresi descritti da Samuele Spizzirri che abbiamo riportato di sopra: là, una mistura di erbe decotte son parte di un bagno a base di vapori di vino che il ciraularo somministra ai suoi pazienti, nell’ambito di un rituale di tipo medico-magico nel quale hanno una parte essenziale anche carmi e manipolazioni.

Epifanio Ferdinando, nel capitolo dedicato alle cure del morso della tarantola del suo Centum Historiae, cita, oltre ai composti (teriaca, mitridazio) diverse erbe come efficaci contro i veleni: l’ “herba Anchusa” (una Borraginacea), la mentuccia (o calamintha), il timo serpillo, l’ artemisia, il camedrio, il rafano, il nasturzio, l’aglio per uso esterno.[35]  

Epifanio elenca anche una serie di rimedi provenienti dall’antica medicina, quali i semi di Pastinaca già indicati dal Dioscoride, il decotto di melissa, l’impiastro di foglie di origano e l’origano in polvere bevuto nel vino, il decotto di centaurea minore assai consigliato da Galeno, la nigella bevuta con vino, l’ aristolochia con vino, il succo di foglie di gelso,  il cumino, i semi di agnocasto, il succo di piantaggine già raccomandato da Plinio come rimedio contro morsi e veleni, l’ elettuario di Albucasi (ruta, mnta, piretro, assafetida), gli asparagi cotti nel vino, l’olio di assenzio (Artemisia absinthium) per uso esterno, l’ essenza di rosmarino.[36]

Uno dei medicamenti a base di erbe prescelti da Epifanio è la sua Acqua Vitale. Tale acqua nasce dalla distillazione di una serie di elementi vegetali: fiori di citrus, foglie di quercia, cardo benedetto, scabiosa, acetosella, sonco, salvia, maggiorana, fiori di lavanda, assenzio, rosmarino, tussilagine, melissa, pimpinella, borragine, lentisco, ruta, cipero, alloro, ginepro, corteccia di citrus, tormentilla, curcuma, cinnamomo.[37]

Altro rimedio straordinario per Epifanio è l’ Elettuario Antifalangio, così composto:

“Prendi un’oncia di frutti di mirto e tamarice; semi di pastinaca, nigella, agnocasto, dauco, anice, cumino e origano una dramma; terra sigillata e bolo armeno orientale due dramme di ciascuno; centaurea minore, aristolochia rotonda, mezza dramma di ciascuna; foglie di melissa, trifoglio bituminoso, camepizio e abrotano mezzo pugno di ciascuno; teriaca ottima e mitridato due dramme di ciascuno; succo di cipolla, di aglio, di piantaggine, di atrepici e di edera depurati, quanto basta in parti uguali: si ottenga uno sciroppo col miele. Con questi ingredienti si faccia un elettuario, aggiungendo acquavite quanto basta”.[38]

Ritratto di Epifanio Ferdinando

 

Non mancano nella trattazione di Epifanio altri consigli e rimedi di carattere non vegetale, come lo sterco di capra applicato sulle morsicature, i lavaggi delle ferite con acqua marina calda, l’induzione con vari mezzi di sudorazione abbondante, il pane masticato applicato sulla morsicatura, il falangio ridotto in polvere e bevuto con vino, il cervello di gallina con pepe, la cantaride (Lytta vesicatoria) nel suo ruolo di “veleno che agisce contro il veleno”, i bagni di sabbia calda o di cenere calda, il bagno in acqua di mare. Epifanio conclude che tutte queste terapie sin qui descritte sono sicuramente efficaci per espellere il veleno della tarantola, ma in Puglia il rimedio più utilizzato ed efficace è quello della musica (come altri medici dei suoi tempi, Epifanio ammette che la “terapia” funziona ma le attribuisce una spiegazione razionale: la musica serve ad espellere il veleno tramite il sudore “con tanto scuotimento del corpo, le forze assopite del veleno, messe al sicuro e tranquille, vengono rimosse e cacciate fuori dal sudore”).[39]

Centum historiae  di Epifanio Ferdinando

 

A proposito delle ulteriori “tecniche” suggerite da Epifanio a base di acqua marina, acqua calda e balneazioni, non possiamo non ricordare il ruolo che tali rimedi hanno avuto sia nella medicina antica che nella specifica tradizione del tarantismo. Come già abbiamo evidenziato in altra occasione, la presenza dell’elemento acqua nel rituale di cura è una costante che, se tardivamente si manifesta con la presenza di bacinelle e tinozze piene d’acqua nell’ambiente del rituale domiciliare, presenza interpretata dal De Martino come mera rievocazione di un più antico “scenario acquatico”, suggerisce in realtà un continuum con forme più antiche di cura a base di balneazioni.[40]  Allo stesso modo, può essere che la presenza delle “erbe aromatiche” negli ambienti domiciliari in cui si svolgeva il rituale musicoterapeutico fosse l’eco di un ruolo o di una compresenza più attiva di determinate piante nell’ambito della cura medico-magica popolare.

Tornando alle cure mediche del tarantismo, come diversi suoi colleghi anche il Baglivi riferisce in merito alla azione del Rosmarino attraverso diverse ricette (spirito rosmarinato di vino, essenza distillata di rosmarino assunta assieme all’acqua teriacale); cita inoltre come efficaci rimedi la corteccia di limone, l’issopo, la melissa.[41]

Abbiamo già riferito dei rimedi a base di ruta ed altre erbe suggeriti dal Vergari. Ancora, il Vergari elenca applicazioni di tinture aromatiche, [42] e inoltre, dopo aver suggerito cataplasmi emollienti per i pazienti, al fine di medicare la parte ferita, consiglia:

“Dopo curata la parte, i morsicati si facciano stare in letto, facendo lor prendere  decozioni diaforetiche, di rosmarino, di foglie d’aranci, di melissa, d’issopo, di serpillo, di edera, di salvia, di ruta, di fiori di viole, di tiglio, di sambuco ec. Con gocce d’ammoniaca liquida. Taluni hanno usato con successo il vino poderoso, e l’alcoole, soli o con teriaca o con polvere di roccasecca” [43]

Vediamo qui nel testo del Vergari comparire anche l’edera, e in una nota a margine il medico neretino specifica che secondo Eliano “I cervi morsicati dalle tarantole velenose trovano il di loro rimedio nell’edera”.

Il Vergari continua elencando una serie di altri rimedi tra cui i bagni d’acqua calda, e le cure segrete dei cosiddetti “Tarantolari, Ciarauli, Benedetti di S. Paolo ecc”. [44]

In una successiva lunghissima nota a margine, infine, il Vergari elenca una serie di antichi rimedi in disuso “per l’avvelenamento de’ falangi”: ne ritroviamo moltissimi, con varie combinazioni di erbe già elencate in questo scritto, e altri che ricomprendono singolari preparazioni nelle quali son presenti anche solanacee tropaniche, papavero da oppio, cicuta ( un antidoto fatto di succo di papavero, pepe, mirto e altri ingredienti con aggiunta di vino,  un altro in cui insieme al papavero e varie erbe è presente anche la radice di mandragora, l’antidoto di Eraclide di Taranto in cui si ritrovano succo di cicuta, altea, pepe, mirto ed altre erbe, un antidoto fatto di vino e datura, e vari altri).

Il medico siciliano Giovanni Meli (1740-1815) cura il caso di un sacerdote morso dal ragno provocando la sudorazione del malato attraverso l’inalazione di vapori ottenuti facendo bollire “un mezzo barile di vino unitamente allo rosmarino, alla salvia, alla ruta, alle fronde di frassino, alla radice di genziana, allo scordio, all’abrotano e ad altre erbe amaricanti”. [45]

Paolo Boccone (1633-1704) nella sua trattazione giudica molto efficaci i rimedi proposti dal Baglivi e li ricapitola, dopo aver evidenziato come a suo parere, se si opera un intervento tempestivo con aglio pesto sulla parte offesa, il veleno “non passa più oltre”, e la persona morsicata “non patisce alcuno impulso al ballo, perchè non è seguita alcuna fermentazione”.[46] Il Boccone indica questo rimedio come empirico e tradizionale, provato dall’esperienza degli abitanti di Brindisi che solgono utilizzare tale  intervento, insieme all’uccisione, ove possibile, del ragno per esser sicuri di non patire ciclicamente il ritorno dell’esperienza del male.

 

Le erbe come agente eziologico nel “tarantismo” di Aracne

Concludo questa rassegna sul ruolo e la presenza delle erbe nel tarantismo con la citazione di un mito spesso rievocato quando si va alla ricerca delle origini della credenza e del rito o di collegamenti  tra questi ultimi e tradizioni antiche. Nel ricollegare il fenomeno popolare al mito di Aracne, in genere non si presta molta attenzione ad un particolare: come Athena trasforma Aracne in ragno. Ecco il passo, tratto da Le Metamorfosi di Ovidio, che ci interessa:

“… nell’atto d’andarsene, la cosparse di succhi d’erba infernali, e subito, a contatto col malefico  filtro, le caddero i capelli e con essi il naso e le orecchie; la testa si fa minuscola ed è piccolo anche il corpo, tutto quanto; sui fianchi sottili zampe al posto di gambe spuntano; il resto lo occupa il  ventre, da cui quella emette un filo e, ormai ragno, tesse la tela come faceva”.[47]

Athena non si serve dunque di un ragno e del suo veleno per compire il suo incantesimo (procedimento pure utilizzato in ambito magico e descritto dal Della Porta nella sua Magia Naturalis[48]), né di astratti o mistici poteri: utilizza uno strumento naturale, quelle erbe infernali in grado di provocare alterazioni psicomotorie in chi le assume, assai ricorrenti in ambito stregonesco.

Nel caso del mito di Aracne siamo dunque in presenza di un tarantismo “atipico”: l’agente eziologico non è il veleno del ragno, ma quello contenuto in alcune erbe. Esiste difatti una serie di piante utilizzata in ambito stregonesco per incantesimi finalizzati alla trasformazione di uomini e donne in animali. Tali piante sono identificabili in alcune Solanacee tropaniche che provocano effetti allucinatori e delirogeni (ma su questo argomento mi soffermerò nei dettagli in un prossimo articolo).

 

Note

[1]    Gianfranco Mele, Cirauli, sanpaolari:i maghi serpentari del sud in La Voce di Maruggio, 2 ottobre 2021 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/cirauli-sanpaolari-i-maghi-serpentari-del-sud.html  vedi anche Gianfranco Mele, Il tarantismo e i “cirauli” calabresi. Due casi riportati su L’Osservatore Medico nel 1827, La Voce di Maruggio, 12 ottobre 2021 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/il-tarantismo-e-i-cirauli-calabresi-due-casi-riportati-su-losservatore-medico-nel-1827.html

[2]    Anna Caggiano, La danza dei tarantolati nei dintorni di Taranto, in Folklore italiano: archivio trimestrale per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari, VI, 1931, pag. 72

[3]    Ernesto De Martino, La terra del rimorso, Net Nuove Edizioni Tascabili, 2002, pag. 131 (1a edizione Il Saggiartre, Milano, 1961). Come vedremo più avanti, il De Martino cita anche un altro caso nel quale un tarantato (Michele di Nardò) cerca di trarre sollievo da alcuni non meglio identificati “fiori di campo”.

[4]    Mario Salvi, Domenico Caramia,  La pizzica nascosta. L’organetto nella musica e nei canti tradizionali di Villa Castelli, Edizioni Kurummuny, LE, 2010, pag. 25

[5]    Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi ne i sei libri della materia medicinale di P. Dioscoride,  Pezzana, Venezia, 1744, pag. 332

[6]    Ibidem

[7]    Pietro Andrea Mattioli, op. cit., pag. 333

[8]    Nicholas Culpeper, The complete herbal, 1653 (ried. Milner & Sowerby, 1858, pag. 47)

[9]    Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi ne i sei libri della materia medicinale di P. Dioscoride, Venezia, Valgrifi, 1555, pag. 359

[10]  Ibidem

[11]  Ibidem

[12]  Pietro Andrea Mattioli, op.cit., pag. 353

[13]  Epifanio Ferdinando, Centum historiae, seu observationes et casus medici, Venezia, 1621, pag. 264

[14]  recipiente per l’aceto, e unità di misura pari a lt. 0,068

[15]  Gaio Plinio Secondo, Naturalis Historia, XX, 132-133

[16]  Alfredo Cattabiani, op. cit.,  pag. 231

[17]  Cesare Ripa, op. cit.,  pag. 147

[18]  Cesare Ripa op. cit.,  pag. 148

[19]  Antico rimedio a base di 20 foglie di ruta, sale, 2 noci e 2 fichi

[20]  Paolo Boccone, Intorno la Tarantola della Puglia, in:  Museo di Fisica e di Esperienze variato, e decorato di Osservazioni Naturali, Note Medicinali e Ragionamenti secondo i Princìpi de’ Moderni, Venezia, 1697, pag. 105

[21]  A.A.V.V., Sulle tracce della taranta, CRSEC – Regione Puglia, 2000, pag. 57

[22]  Achille Vergari, Tarantismo o malattia prodotta dalle tarantole velenose, Napoli, Stamperia Società Filomatica, 1839, pag. 32

[23]  Ibidem

[24]  Salvatore Pezzella, Fitoterapia e medicina tra passato e presente: alcuni ricettari dell’Italia centrale, secc. XV-XVII, svelano i segreti delle piante curative, Orion Edizioni, 1997, pag.159

[25]  Girolamo Marciano, Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto, Napoli, Stamperia dell’Iride, 1855, pag. 182

[26]  Alfredo Cattabiani, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante, Mondadori, 1996, ried. 2016, pag. 230

[27]          Antonio Costantini, Marosa Marcucci , Le erbe le pietre gli animali nei rimedi popolari del Salento , Congedo Editore, pag. 117

[28]  Sergio Torsello, Storia di Nena la tarantata, Pietre, marzo 1999, pag. 8

[29]  Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi ne i sei libri della materia medicinale di P. Dioscoride,  Pezzana, Venezia, 1744, pag. 297

[30]  Ernesto De Martino, op. cit., pag. 81

[31]  Ibidem, pag. 131

[32]  I ciraulari (o cirauli, cerauli, ceravoli) sono ( in Calabria e Sicilia)  una sorta di maghi-guaritori-incantatori specializzati nel curare dal morso di serpenti o domare serpenti e scorpioni. Si veda al proposito Gianfranco Mele, Cirauli, sanpaolari:i maghi serpentari del sud, cit.

[33]  Samuele Spizzirri, Osservazioni sul morso della tarantola, del sig. Gaetano Spizzirri, Medico in Marano, in L’ Osservatore Medico, Giornale di Medicina e delle Scienze Affini, Anno V n. XIX, 1 ottobre 1827, pp. 145-146

[34]  Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi nelli sei libri di Pedacio Dioscoride Anarzabeo, Valgrifi, Venezia, 1568, pag. 385

[35]  Epifanio Ferdinando, Centum historiae, seu observationes et casus medici, Venezia, 1621, pag. 264

[36]  Epifanio Ferdinando, op. cit., pag. 265

[37]  Epifanio Ferdinando, op. cit., pag. 161

[38]  Eipifanio Ferdinando, op. cit., pag. 266

[39]  Epifanio Ferdinando, op. cit., pag. 268

[40]  Gianfranco Mele, Antiche cure e rituali del tarantismo presso il mare, le sorgenti e i corsi d’acqua, Fondazione Terra d’Otranto, novembre 2019 https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/25/antiche-cure-e-rituali-del-tarantismo-presso-il-mare-le-sorgenti-e-i-corsi-dacqua/

[41]  Traggo il passo del Baglivi cui mi riferisco, dal testo di Arturo Viglione Il Tarantismo, studio clinico della malattia che per secoli aveva sconfitto i Medici, Pacini Editore, Pisa, 2012, pag. 200

[42]  Achille Vergari, op. cit., pag. 32

[43]  Achille Vergari, op. cit., pag. 33

[44]  Achille Vergari, pp. 34-36

[45]  Giovanni Meli, Capitolo di lettera in cui si descrivono gli effetti estraordinari del veleno d’un Ragnatello, in A.M. Spadafora, “Opuscoli di autori siciliani”, t. XII, Stamperia de’ Santi Apostoli, Palermo, 1771

[46]  Paolo Boccone, Intorno la  tarantola della Puglia, in Museo di fisica e di esperienze variato, e decorato di osservazioni naturali, note medicinali, e ragionamenti secondo i princìpi de’ moderni, Venezia, 1621

[47]  Ovidio,  Metamorfosi, IV, vv. 129 – 140

[48]  Giovanni Battista Della Porta, La Magia Naturale, Giunti Demetra Ed., 2008, pag. 158, titolo ed edizione originale Magia Naturalis, sive de miraculis rerum naturalium, libri XX, Napoli, 1859

Gesuiti salentini e i fratelli Antonio e Angelo Stefanizzi

di Alfredo di Napoli

 

Voluto dall’Associazione Autori Matinesi e dal Centro Studi Aldo Bello di Matino, è stato recentemente pubblicato, per le cure di Paolo Vincenti, A Maggior Gloria di Dio. I Fratelli Antonio e Angelo Stefanizzi: da Radio Vaticana allo Sri Lanka.

Il libro ripercorre la vita e la carriera di due straordinari personaggi, entrambi gesuiti e originari della città di Matino: Padre Antonio, tecnico e scienziato, e Padre Angelo, missionario in Sri Lanka e operatore di pace.

Un libro interessante che fa luce sulla vita di due gesuiti contemporanei, ma si pone in ideale continuità con la ricerche proficuamente avviate dal curatore del libro e con un filone di studi inaugurato già da alcuni anni dalla Società di Storia Patria di Lecce teso alla rivitalizzazione di numerose figure dei gesuiti del passato, come sottolinea Mario Spedicato, Presidente della SSPP, Sezione di Lecce, che firma la Prefazione del libro.

Scrive Spedicato: “In questi ultimi anni la ricerca storica ha focalizzato l’attenzione sul ruolo esercitato da non pochi salentini nel settore della scienza, delle arti e dello sviluppo economico-sociale. Sono stati disseppelliti uomini di grande e indiscutibile valore culturale di cui si era persa la memoria, caduti nell’oblio per una colpevole distrazione. Sono emersi via via dalla polvere degli archivi personaggi cui il Salento dovrebbe essere fiero di aver dato i natali, ma che per ragioni oscure sono stati a lungo relegati nel dimenticatoio. La sorpresa più grande è stata quella di scoprire che un numero sempre crescente di queste straordinarie figure si sono formate nella Compagnia di Gesù. Hanno scelto di abbracciare la religione di S. Ignazio di Loyola e di servire la Chiesa in ogni parte del mondo, gesuiti che in modo particolare hanno svolto la loro missione evangelizzatrice lontani dal Salento, ma del Salento sono rimasti fulgida espressione […] Abbiamo iniziato con l’emersione di due gesuiti che sono saliti agli onori degli altari, Francesco de Geronimo di Grottaglie e il salentino di adozione Bernardino Realino, poi recuperato un gesuita di San Cesario di Lecce, Adriano Formoso, missionario in Sud America nel ‘600, rivalutato un altro gesuita missionario di Martina Franca, Michele Salpa, fondatore nel 1610 dell’Università degli Studi di Vilnius in Lituania, e, per ultimo, riscoperto un gesuita di Ruffano, Sabatino de Ursis, missionario e scienziato nella Cina dei Ming.

Ora questo quadro storiografico si arricchisce del lavoro di Paolo Vincenti sui due gesuiti Stefanizzi, interessanti figure del recente passato che danno lustro alla città di Matino, centro che ha dato loro i natali”.

Nel libro, dopo il Saluto del Sindaco della Città di Matino, Giorgio Toma, e l’Introduzione del Presidente dell’Associazione Autori Matinesi, Cosimo Mudoni, Custodi di memorie condivise, si trova un intervento di Don Giorgio Crusafio, decano dei prelati matinesi, Padre Angelo e Padre Antonio Stefanizzi: due frutti della nostra terra. Don Giorgio riporta una testimonianza di affetto e di fede con curiosità ed aneddoti legati alle due figure dei gesuiti suoi concittadini. Dopo la Prefazione di Spedicato, si apre il saggio di Francesco Frisullo e Paolo Vincenti, intitolato La Lunga Vita di Padre Antonio Stefanizzi, gesuita scienziato, in cui si riscostruisce il profilo bio-bibliografico di Padre Antonio.

Egli è scomparso il 4 ottobre 2020 a Roma all’età di 102 anni, di cui ben 87 vissuti nella Compagnia di Gesù. La stampa nazionale ha dato grande risalto alla notizia della sua scomparsa. Era nato il 18 settembre 1917 in una famiglia numerosa, composta di sette figli, dei quali due, Antonio ed Angelo, indossano l’abito di Sant’Ignazio, e una sorella, Agata, nata nel 1924, diventa suora dell’ordine di Nostra Signora del Cenacolo (è morta a Torino nel 2017). Aveva fatto studi umanistici, ma anche scientifici, tant’è vero che nel 1949 si trasferisce per un corso di perfezionamento negli Stati Uniti, precisamente a New York, alla Fordham University, tenuta dai Gesuiti. Negli USA segue i corsi del professor Victor Hess, premio Nobel quale scopritore dei raggi cosmici. Gli autori della ricerca hanno trovato svariate fonti a stampa americane che parlano di Padre Antonio. Insegna matematica e fisica alla Pontificia Università Gregoriana di Roma e il 24 marzo 1953 viene nominato Direttore della Radio Vaticana. Tocca proprio a lui sovrintendere anche tecnicamente, il 15 agosto del 1954, alla prima trasmissione radiofonica della preghiera dell’Angelus da parte di un Papa. Nel gennaio del 1959 Papa Giovanni XXIII annuncia il Concilio Vaticano II e nel novembre dello stesso anno istituisce la Commissione sui “Mezzi moderni di apostolato”, con il compito di analizzare il ruolo dei nuovi mezzi di comunicazione e la loro valenza pastorale; della Commissione, guidata dal Gesuita Enrico Baragli, fa parte anche Padre Antonio. Ha non solo contribuito tecnicamente alla diffusione del Concilio Ecumenico Vaticano II, ma ne è stato attore in prima persona. Come esperto di tecnica radiofonica e di telecomunicazioni satellitari, Padre Antonio partecipa a Washington, in rappresentanza della Santa Sede, all’avvio nel 1964 dell’Intelsat (International Telecommunications Satellite Consortium), la prima organizzazione intergovernativa mondiale per lo sviluppo e la gestione delle telecomunicazioni via satellite, di cui la Città del Vaticano era uno degli 11 Stati fondatori. Nell’ottobre 1965, nella storica visita che Paolo VI compie negli Usa tenendo il suo discorso all’ONU, Stefanizzi fa parte del seguito papale.

Nel saggio si sottolinea anche l’importante ruolo svolto da Radio Vaticana sotto la sua direzione negli anni della Guerra Fredda, quando è stata di fatto l’unico strumento che è riuscito a rompere la cortina di ferro; il messaggio del Papa giungeva attraverso l’etere alla cosiddetta “Chiesa del Silenzio” che ha continuato a operare in quegli anni con grandi sacrifici e con spirito di martirio nell’Europa comunista. Padre Stefanizzi contribuisce anche all’organizzazione e all’ampliamento della grande stazione radiofonica cattolica installata a Manila, nelle Filippine, denominata Radio Veritas, con la missione di far risuonare la voce cattolica nelle Filippine, Giappone, Cina, Indonesia e in tutto il Sud- Est Asiatico. Molto intensa anche l’attività culturale di Padre Antonio, ricostruita nella bibliografia che segue il saggio. In particolare egli è assiduo collaboratore della rivista «La Civiltà Cattolica»; è autore del libro, Le nuove tecnologie di comunicazione. Valutazioni e prospettive (1983), ed escono a sua cura diverse pubblicazioni edite da Radio Vaticana durante gli anni della sua direzione.

Studioso e al contempo conduttore radiofonico, sulla scia di Guglielmo Marconi (1874-1937), che può essere considerato il fondatore di Radio Vaticana insieme a Padre Giuseppe Gianfranceschi (1875-1934), che fu il primo direttore. È stato anche membro del Consiglio di Amministrazione del CTV (Centro Televisivo Vaticano) fino al 1997, quando riceve una bella lettera gratulatoria da Papa Giovanni Paolo II. Viene messo in congedo nel 2010 e, come già detto, scompare nel 2020. Nel saggio si ripercorre anche il suo rapporto con la città di Matino soprattutto grazie alla testimonianza di Don Giorgio Crusafio. Prendendo spunto dalla formazione scientifica di Padre Antonio, Francesco Frisullo e Paolo Vincenti dedicano il saggio successivo, Uomini di scienza e di fede, ad un excursus sulle principali figure di gesuiti scienziati nella storia, con particolare riferimento ai salentini.

Si passa quindi a Padre Angelo. Con il saggio Padre Angelo Stefanizzi, il Gandhi dello Sri Lanka. Una biografia spirituale, Frisullo e Vincenti tratteggiano un completo profilo del missionario salentino. Angelo Stefanizzi, missionario per moltissimi anni in Sri Lanka, nasce il 2 ottobre 1919. Come il fratello Antonio, anch’egli entra nella Compagnia di Gesù. Nel 1948 parte per l’India, dove l’anno successivo viene ordinato sacerdote. Dopo aver compiuto gli studi di teologia, nel 1952, intraprende l’attività missionaria nel centro-sud dello Sri Lanka, prima a Yatiyantota come viceparroco, in seguito a Dehiowita, nel 1967, e poi a Maliboda, nel 1983, come parroco.

Egli parlava correntemente tre lingue: inglese, singalese e tamulico. Si dedica all’assistenza della povera gente, in particolare dei lavoratori nelle piantagioni di the a Tamil, e all’assistenza dell’infanzia abbandonata e delle ragazze disagiate, oltre che alla tutela del lavoro, promuovendo nel territorio la formazione professionale per i giovani e avviando preziose esperienze di scuola-lavoro. Si ascrivono a suoi grandi meriti l’avere lavorato alla pacificazione dello Sri Lanka, insanguinato per molti anni da una fratricida guerra civile, e l’aver messo in comunicazione le diverse fedi religiose presenti sul territorio, cosa che gli valse l’appellativo di “Padre Gandhi” con cui era conosciuto. Gli autori poi riservano una doverosa attenzione ad altri due gesuiti matinesi, padre Giuseppe Angelè e padre Cosimo Guida, precursori di padre Angelo nella missione in Sri Lanka, dei quali si ricostruiscono le vicende biografiche con notizie inedite. Padre Stefanizzi ritornò a Matino in occasione del suo cinquantesimo di sacerdozio, nel 2000, festeggiato da tutta la comunità del suo paese. Muore nel febbraio del 2010 e la stampa nazionale indiana dà grandissimo risalto alla notizia.

Ovunque egli viene ricordato in concetto di santità. Come già per Padre Antonio, anche per Padre Angelo viene riportata una utile bibliografia degli scritti. Padre Angelo si pone in continuità con altre figure di gesuiti missionari nell’estremo Oriente, molte delle quali segnalate da Francesco Frisullo e Paolo Vincenti nel saggio successivo: Missionari gesuiti pugliesi in Estremo Oriente e storia della missione dello Sri Lanka. In particolare, gli autori si soffermano sulle figure di missionari pugliesi e salentini come Vincenzo Antoglietta, Francesco Riccio, Giuseppe di Mesagne, Giovanni Andrea Lubelli, Giovanni Giuseppe Costa, ecc. Un utile excursus è quello che dedicano alla storia dell’isola che ha accolto la missione di Padre Angelo.

Nel saggio intitolato Gesuiti salentini in America, Frisullo e Vincenti, sulla scorta del viaggio di Padre Antonio nel Nuovo Continente, offrono una rapida carrellata di gesuiti salentini che lo hanno preceduto nella missione degli Stati Uniti. Si tratta di missionari fra Ottocento e Novecento, come Vincenzo e Vito Carrozzini, Alessandro Leone, i due fratelli Salvatore e Carlo Personè, Eugenio Vetromile, Donato Maria Gasparri, ed altri.

Segue poi un saggio di Livio Ruggiero sugli esperimenti scientifici dei gesuiti sull’elettricità a Lecce fra Ottocento e Novecento, e, nel segno del formidabile binomio scienza e fede, che per tutta la vita hanno coniugato i fratelli Stefanizzi, offre una approfondita riflessione Maria Antonietta Bondanese nel saggio successivo. Completa il volume, curato graficamente da Donato Stifani, una Appendice fotografica.

Il libro è stato presentato a Matino il 17 settembre 2020, presso la Chiesa Madre “San Giorgio”, alla presenza di Cosimo Mudoni, Presidente dell’Associazione che ha patrocinato la pubblicazione, del Sindaco Giorgio Toma, del parroco Don Andrea Danese, del professor Mario Spedicato, di Don Giorgio Crusafio e del curatore Paolo Vincenti, al quale va il merito di avere segnalato alla nostra attenzione così alti e nobili esempi di religiosità salentina nel mondo. L’illustrazione di copertina, Societatis Missiones Indicae, tratta da un’opera del 1640, ci sembra la più bella per significare il profondo valore morale e civile di questo libro.

 

A MAGGIOR GLORIA DI DIO. I FRATELLI ANTONIO E ANGELO STEFANIZZI: DA RADIO VATICANA ALLO SRI LANKA

A CURA DI PAOLO VINCENTI

ASSOCIAZIONE AUTORI MATINESI, CENTRO STUDI ALDO BELLO, MATINO, TIP. SAN GIORGIO, 2020, PP. 186.

 

Sull’argomento vedi anche:

Libri| I Fratelli Antonio e Angelo Stefanizzi – Fondazione Terra D’Otranto

Il salentino padre Antonio Stefanizzi della Compagnia di Gesù, classe 1917 – Fondazione Terra D’Otranto

Gesuiti salentini in America – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Industrie nel Salento. Salvatore Napoli Leone e l’eredità di Gregorio Leone

di Gianni Ferraris

(Nel 1921 il padre adottivo, Gregorio Leone).

Fu un duro colpo per Salvatore, il quale riconosceva in Gregorio la sua guida etica e morale. E forse ne immaginava la “complicità” – Risulta infatti da più annotazioni sparse che Gregorio nulla sapeva degli esperimenti chimici di Salvatore, sembra una stranezza in un paese dove tutti sanno ogni cosa e per una persona così dentro le cose del mondo e, ritengo, così protettivo nei confronti di quel figlio adottato e intelligente. Mi piace pensare, anche se siamo nel campo della pura illazione, che accondiscendesse lasciandolo proseguire in quelli che, forse, riteneva giochi di adolescente. Alla sua morte, comunque, Salvatore   ereditò tutte le  attività. Grazie anche ad un testamento “blindato” che cautelava la moglie e il figlio. Dalle industrie per l’acqua gassata, richieste in tutta la provincia, alle “Industrie Liquori e Vini di Lusso”, fondata da Gregorio nel 1895, al GRAN BAR PASTICCERIA.

Salvatore prenderà in mano le redini delle aziende con decisione e capacità innovative. Il Gran Bar, nonostante le invidie della concorrenza e del paese, divenne ben presto un primario locale di lusso. Un catering ante litteram in cui serviva banchetti per 400 persone a matrimoni, e che arricchì ed elevò scegliendo dotazioni e materiali di prestigio che elenca orgogliosamente e con puntiglio nelle sue note autobiografiche:

SERVIZIO LUSSO:

  • 500 tazze e piattini in porcellana Richard Ginori
  • 500 bicchieri di cristallo filettati oro
  • 500 palettine in alpacca nichelate per gelati
  • 500 bicchieri in cristallo per granite
  • 108 bicchieri cristallo per acqua
  • 108 per vini e spumanti
  • 108 coppe cristallo per sciampagna
  • 108 bicchieri in cristallo per vermouth

 

SERVIZIO GRAN LUSSO:

  • 200 Piattini e tazze   con montatura in puro argento
  • 200 bicchieri cristallo  “          “         “   “        “
  • 200 palettine in argento con monogramma G.L. in oro
  • 200 cucchiaini  “     “        “           “           “  “  “    “
  •  36 coppe per sciampagna in argento dorato internamente
  • 48 bicchieri  per acqua in cristallo con montatura in argento
  •  4 vassoi in alpacca con manici in oro e monogramma inciso in oro

 

E prosegue Salvatore: “con questo servizio mi sentivo al di sopra di tutti e comprendevo che avrei potuto fare miracoli ed annuziai al pubblico il mio servizio e la mia capacità per mezzo di circolari, allegando fotografie del mio servizio, ma una schiera di avversari si scatenò contro di me chiamandomi con i più indegni nomi, ed allora, d’indole e natura libera e leale, gli dichiarai apertamente che li avrei fatti pentire del loro chiasso e delle loro parole e così fu. Il 19 marzo 1922 mi fu ordinato uno sposalizio di un ricco proprietario con 400 invitati. Questi fu chiamato da diversi mestieranti che per denigrarmi dissero che non avrei combinato nulla…. Quando venne  portai il servizio per 250 invitati e, davanti ad un pubblico colto e scelto, diedi la prima prova della mia opera. I segni di approvazione, il mormorio di plauso della folla mi animarono e quando in redingot mi recai, a cerimonia finita, a rendere i miei auguri agli sposi, questi mi presentarono agli invitati e tutti encomiarono…. infine ebbi sposalizi di lusso e battesimi in diversi paesi vicini: Aradeo, Galatone, Neviano ecc.”[1]

Al Gran Bar Pasticceria si producevano dolci e si tostava il caffè che arrivava direttamente dal sud America con sistemi rivoluzionari e con moltissima attenzione per la miscela.

Nello stesso tempo, sfruttando le sue conoscenze chimiche e il suo estro, si occupò delle aziende di liquori ereditate. Rinnovò le formule della specialità paterna: AMARO DEL SEMPIONE. Creò il “CENERINO LEONE”, dorato per dessert. Il TRIPOLI, dopo la vittoria in Libia e dedicato a Vittorio Emanuele III°. In occasione del matrimonio del Principe di Piemonte, creò il GRAN LIQUORE PRINCIPESCO che fornirà alle case reali italiane e belghe; Il FILI D’ORO, liquore concentrato con zucchero e pagliuzze d’oro; il MILLEFIORI, famoso per la cristallizzazione; il LEONCINO; il SANTA MARIA. Tutti liquori che fecero conoscere il nome Leone anche fuori dai confini nazionali proseguendo e migliorando l’opera del padre adottivo Gregorio, che aveva già ottenuto riconoscimenti come fornitore  di Vittorio Emanule III° nel 1911, e della real casa della regina madre nel 1915.

Negli stessi anni si dedicò al miglioramento della specialità locale “TORRONE AL CIOCCOLATO” che brevettò.  Per produrlo e diffonderlo fondò la T.AL.C. (Torrone Al Cioccolato), trasformò, in sostanza, una specialità territoriale in prodotta artigianalmente in un vero e proprio prodotto da esportare. Possiamo parlare della prima azienda dolciaria salentina, che gli procurò un notevole successo commerciale. Venne presentato in fiere e mostre campionarie.   Lo stesso Gabriele D’Annunzio ne parlò con entusiasmo.

L’utilizzo di essenze naturali per la produzione di dolci e liquori,   lo spinsero a fare altri studi, che lo portarono, nel 1926, a fondare la ditta I.L.P.A. (Industria Lozioni Profumeria e Affini). La produzione ebbe immediata eco, i profumi: OLEZZO ADRIATICO, BACI DI PRIMAVERA, CONTESSA MISTERIOSA, STELLA D’ITALIA, PRINCIPE DI CACHEMIR, BOUQUET ELENA, ACACIA, CIPRIA FIOR DI MAGGIO, gli spalancarono le porte delle esposizioni di Firenze e Nizza e furono cantati con odi e poesie, in particolare dalla Poetessa N.D. Contessa Vittoria De Folgari A Toldo Rovereto, le cui opere vennero pubblicate sul giornale “L’Arte” di Trieste n°32 del 15 aprile 1932.

Salvatore Napoli Leone divenne un nome importante, tanto che il podestà di Nardò gli concesse, con autorizzazione del prefetto, l’utilizzo dello stemma cittadino per le esposizioni nazionale ed internazionali,  da  affiancare a quello aziendale.

Nel frattempo venne nominato commissario nel giury d’onore per le commissioni analizzatrici per le esposizioni di Italia, Francia e Belgio.

 

[1] Doc. 1: dattiloscritto note autobiografiche

Libri| Storia degli ospedali della provincia di Lecce

 

Edita di recente una importante edizione di Grifo – Lecce, “Storia degli ospedali della provincia di Lecce”, un elegante volume di grande formato di 368 pagine, curato da Luigi Alfonso e Gino Peccarisi, per la Collana: I grandi illustrati.
Pubblicato sotto gli auspici ed in collaborazione con l’Ordine dei medici-chirurghi e degli odontoiatri della provincia di Lecce, presieduto dal dottor Donato De Giorgi, che ha presentato il lavoro.

Ogni autore ha curato la storia del nosocomio di riferimento, così che, per la prima volta, si possono leggere le vicissitudini e l’operato degli ospedali salentini di Campi, Casarano, Copertino, Gagliano del Capo, Gallipoli, Maglie, Nardò, Poggiardo, San Cesario, Scorrano e Tricase. La parte più cospicua del volume riguarda gli ospedali del capoluogo Lecce, dall’antichissimo ospedale dello Spirito Santo, al Galateo e al Vito Fazzi, all’O.P.I.S. – Ospedale Interprovinciale Salentino “Giovanni Libertini”sino al polo oncologico “Giovanni Paolo II” e al recente DEA (Dipartimento di Emergenza Accettazione). Un capitolo è dedicato al trapianto di rene a Lecce.

 

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Premio dell’Ascesa Jumbo Jet d’oro a Salvatore Napoli Leone

Nel 1975 viene conferito a Salvatore Napoli Leone  il prestigioso premio internazionale “Jumbo Jet D’oro” con l’alto patrocinio della Presidenza della Repubblica.  Il premio verrà ritirato dalla figlia Maria Teresa perché lui è già gravemente malato.

Segue una selezione di alcuni articoli pubblicati in merito

 

Bagliori artistici. Un pittore, uno scrittore e un musicista

ANDREA LO BUE

Il colore domina incontrastato le opere di Andrea Lo Bue, giovane pittore galatinese che si approccia all’arte con piglio e fierezza. I suoi grovigli di colore rimandano subito, come importante referente, a Jackson Pollock, il grande pittore americano principale esponente dell’Action painting. L’utilizzo dei materiali più disparati, l’astrattismo e una componente di forte sperimentazione sono le caratteristiche principali di questo tipo di pittura del cui insegnamento sembra che Lo Bue sia permeato.

Figlio di Giorgio Lo Bue, studioso di storia locale molto conosciuto a Galatina, Andrea, diplomato perito industriale, è un pittore autodidatta. E’ lui stesso a dirci di essersi avvicinato all’arte dopo aver constatato di provare grandi emozioni ed è così nata una grande passione. Ha prodotto moltissimi quadri, prima su ciò che capitava: compensati, muri e cartoni, successivamente su tela. Ha sperimentato diverse modalità di dipingere: pennelli, spatole, mani, con spruzzi, e ha voluto sempre ricercare qualcosa che lo emozionasse.  Le misure delle tele dipinte vanno da 40×40 cm. a 2,50×2,50 m.  Oggi preferisce pitturare tele delle dimensioni 100×70 cm., ma si avventura in pitture composte da più tele o da tele che oltre ai colori sono invase da trucioli metallici ricavati al tornio. Troviamo, in queste opere, versamento di colore, tensione verso l’Informale, la pittura per la pittura. Sicuramente un promettente esordio che lascia intravedere ampi margini di crescita umana e artistica. Seguiremo con interesse il percorso appena tracciato di Andrea Lo Bue.

 

LUIGI PISANELLI

Interessante esordio, questo di Luigi Pisanelli, con Tornerà la lepre a Buna (Musicaos Edizioni, 2019). Il giovane scrittore parabitano racconta, per immagini, sensazioni, suggestioni, attraverso una scrittura che definirei cinematografica, dinamica, molto contemporanea, la storia di una generazione, la sua, cresciuta nel Salento e poi trasferitasi per motivi di studio al Nord, all’imbocco di quella perigliosa strada che è la maturità, fra speranze, sogni infranti, conquiste e sconfitte. È “la linea d’ombra”, per dirla con Conrad, che ha condizionato ed ispirato tante menti geniali nella storia della letteratura. Così, fra le varie tappe che costellano questo romanzo, ecco dipanarsi il bandolo della matassa, ovverosia il sinuoso percorso, esistenziale prima che geografico, dell’autore, protagonista diegetico dell’opera. Infatti, lo scrittore è l’io narrante del romanzo, racconta in prima persona le vicende narrate. Si sente, forte, l’imprinting di certa letteratura americana, in particolare la letteratura di viaggio, e poi Kerouac e gli autori della Beat Generation. Solido basamento dell’opera, le ottime letture dell’autore, che dissemina citazioni a piene mani nel corso delle pagine. Pisanelli ha il culto della bella scrittura, si avverte la sua robusta formazione classica.

Il passaggio dell’età è un topos per un romanzo di formazione, come questo libro è stato definito, anche se la sua struttura è più diaristica e, a tratti, direi, cronachistica, data la fluviale lunghezza dell’opera, che non permette di mantenere alta l’attenzione dall’inizio alla fine. Pisanelli procede per accumulo, probabilmente nella foga di chi ha tanto da dire e non sa arginare l’empito. Vi sarebbe materia per più libri.  Il romanzo manca di un centro focale, di una storia vera e propria, e ad orchestrare personaggi e situazioni è la notevole capacità dell’autore che li muove, apparentemente senza un progetto, una visione d’insieme, ma in base al flusso continuo della scrittura. La forza centrifuga sbalza i personaggi verso l’universo caotico, magmatico, del libro, che comunque si segnala all’attenzione del lettori per freschezza, vivacità, brio e per l’ottima predisposizione dell’autore all’affabulazione. Sicuramente il talento di Pisanelli porterà presto prove più mature.

 

PAOLO PREITE

Un artista che si segnala alla nostra attenzione, Paolo Preite, romano ma ruffanese d’origine, e un disco notevole il suo, per essere un’opera prima. Certo, le collaborazioni con musicisti di grosso calibro giocano una parte importante, soprattutto nel rendere il suono più internazionale, ma quello che “fa” il disco è il mondo artistico del suo autore, che infatti firma musica e testi di quasi tutti i brani. Sospeso fra folk e soul, si apprezzano certe atmosfere rarefatte, quasi sospese, in alcuni pezzi. Si potrebbe definire un crooner in salsa rock. Il mix fra musica e parole funziona, c’è un perfetto bilanciamento e la scelta di cantare in inglese premia Paolo Preite perché la sua voce, che non è dotata di grandi estensioni, è però molto calda, pastosa, e può giocare nel cantato con le allungate e le sfumate che la lingua inglese, a differenza di quella italiana, consente. La sua voce ricorda un po’ quella di James Taylor ma non ha debiti scoperti verso i suoi maggiori, ossia non si evince, dall’ascolto, quali siano state le sue influenze musicali: ciò è sicuramente positivo, nel senso che Preite cerca un proprio percorso, una cifra stilistica originale che sicuramente raggiungerà. I testi sono quasi tutti di buon livello, tranne quello in italiano che è il punto più debole di tutto il lavoro e richiama un easy listening tipico di boy band come Dear Jack o Modà, assolutamente da evitare per chi abbia scelto un percorso autorale. Vero che quello del cantautorato italiano è un terreno minato ed il confronto può apparire troppo alto per un esordiente.  Ma, per non virare su un pop facile, che darebbe dei risultati più immediati ma porterebbe su un territorio da cui non si ritorna, possiamo consigliare a Paolo Preite che continui sulla strada intrapresa e, citando il titolo del suo cd, non smetta di sognare.

Mostre| Antonio Fuortes (1884-1958), artista e ingegnere di Ruffano

A più di sessant’anni dalla scomparsa dell’artista e ingegnere ruffanese Antonio Fuortes (Ruffano 1884 – Milano 1958), il Comune di Ruffano – Assessorato alla Cultura e la Pinacoteca comunale, gestita dall’Associazione Diciottesimomeridiano, lo ricordano con una mostra antologica che vede l’esposizione di dipinti, xilografie, materiale librario, documentario e fotografico inerente questo geniale ed eclettico personaggio.

Accanto all’attività ingegneristica, Antonio Fuortes, infatti, ha da sempre coltivato la sua grande passione per la pittura: una notevole e interessante produzione che vede la raffigurazione di suggestivi paesaggi, nature morte, ritratti e scene di vita contadina e cittadina.

La mostra, a cura di Stefano Tanisi, è allestita nelle due sale della Pinacoteca comunale in Piazza della Libertà a Ruffano, all’interno del complesso conventuale dei Cappuccini.

Una iniziativa che ha il merito di riportare all’attenzione un artista di talento.

Antonio Fuortes (1884-1958) ingegnere artista. Ruffano, Pinacoteca comunale, Piazza della Libertà. La mostra sarà visitabile dal 5 ottobre al 30 dicembre 2021.

Orari: dal lunedì al venerdì ore 17-19, mercoledì e venerdì ore 9.30-12.00. Ingresso gratuito, consentito con green pass e mascherina.

Info e prenotazioni: 0833.1821254; 391.3004369; pinacotecaruffano@libero.it.

 

autoritratto xilografia

 

Nella serata di inaugurazione di martedì 5 ottobre 2021, ore 19.00, interverranno:

 

  • Antonio Cavallo – Sindaco di Ruffano
  • ssa Pamela Daniele – Assessore alla Cultura
  • Donato Metallo – Consigliere Regione Puglia
  • Luigi De Luca – Direttore del Polo Bibliomuseale di Lecce
  • Franco Contini – Docente di Pittura Accademia di Belle Arti di Lecce
  • Stefano Tanisi – curatore della mostra

 

 

ANTONIO FUORTES (1884-1958) – cenni biografici

Antonio Fuortes nasce a Ruffano il 13 marzo 1884 nel Palazzo Pinto-Pizzolante. Fu il primogenito di sei figli di Gioacchino (1848-1930) di Giuliano del Capo e Teresa Pizzolante (1859-1921) di Ruffano.

Dopo la prima formazione al Collegio Argento di Lecce, a 22 anni, nel 1906 Antonio si laurea in Matematica e Fisica a Pisa e, due anni dopo, in Belgio, a Liegi, consegue la laurea in Ingegneria Elettrotecnica con lode.

Tornato in Italia si dedica alla progettazione dei tracciati dell’Acquedotto Pugliese. Negli anni  ‘10 firma diversi saggi contenuti in delle riviste scientifiche: “La Lampada a filamento metallico” (1911), “Calcolo del diametro più economico di una condotta forzata”(1912), “Moderni trasporti di energia a grandi distanze” (1913), “La telegrafia senza fili” (1913), “L’organizzazione scientifica delle Officine” (1917), “Come pagherò i miei operai?” (1919).

Nel 1915, con l’avvento della Prima Guerra Mondiale, il Fuortes fu nominato Direttore Generale del Consorzio Pugliese per materiali da guerra.

Negli anni ‘20 si trasferisce a Perugia dove gestisce un’Officina del Gas.

Nel 1926 pubblica sull’importante rivista “Xilografia”, diretta da Francesco Nonni, una serie di xilografie originali stampate in trecento esemplari: Ritratto dell’avv. Paladini, Sant’Angelo (Perugia), Buoi al lavoro, Porta Sant’Angelo (Perugia), Trilussa, Autoritratto, Ritratto del maestro Barbi.

Nel 1929 lo troviamo come Presidente del Circolo Scacchistico Perugino.

Il primo dicembre 1932 Antonio sposa Anita Berlese (1905-1996) a Biella. Nel 1933 nasce Antonio, detto Jony, e due anni dopo anche una bambina di nome Anna Maria Chiara, morta purtroppo a tre anni per una meningite.

Nel 1941 la famiglia si trasferisce a Milano, dove acquista da inglesi una villa a due piani con giardino. I bombardamenti di Milano del 1942 costringono la famiglia Fuortes a spostarsi a Vigevano nella casa paterna di Anita; qui Antonio è nominato preside del locale Istituto Tecnico.

Al termine della guerra il Fuortes volle ritornare a Milano, ma trovò la sua villa occupata per esproprio proletario. Bisogna aspettare il 1953, e dopo una battaglia durata otto anni, il nostro Antonio riprenderà il possesso della casa milanese.

Antonio Fuortes si spegne a Milano il 2 luglio 1958, a 74 anni, per una crisi cardiaca.

Dalla recente donazione della famiglia del fondo librario del Fuortes alla Biblioteca “G. Comi” di Lucugnano, apprendiamo la sua dedizione per la letteratura italiana a lui coeva: spiccano le prime edizioni del Pascoli e del D’Annunzio, i numerosi volumi con dediche autografe del poeta satirico Trilussa che con il Fuortes instaura un profondo rapporto di stima e amicizia, dell’amico poeta indiano Tagore, premio Nobel a cui il ruffanese dedica un ritratto a matita e ne traduce i “Ricordi” che saranno editi nel 1928 dalla casa editrice Carabba di Lanciano. Altri ripiani sono dedicati alle sue più grandi passioni: tecniche ingegneristiche, manuali sulle tecniche pittoriche, sulla xilografia e scacchi.

Antonio Ferrari, soldato matinese nella Guerra di Etiopia

 

di Paolo Vincenti

Meritoria iniziativa, questa dell’Associazione Nazionale dei Sottufficiali d’Italia – Sezione di Matino, ANSI, di ricordare il carabiniere Antonio Ferrari, soldato nella Guerra di Etiopia.

L’opuscolo intende ricostruire la vicenda biografica del carabiniere Ferrari inquadrandola all’interno del macro contesto, la campagna d’Africa, in cui si svolse. Imbarcatosi da Napoli, Ferrari giunse in Somalia nell’aprile del 1936. Un volta in Etiopia, nella Regione dell’Ogaden, si distinse nella battaglia di Gunu Gadu. Cadde sul campo da eroe, gridando “Viva l’Italia!”. Fu decorato sul campo della Medaglia d’Argento al Valor Militare “alla Memoria”.

Fu grande il tributo di sangue pagato dall’Italia nella guerra, voluta da un regime fascista in cerca di riabilitazione agli occhi della comunità internazionale. La propaganda politica ebbe aggio nell’accreditare quella che di fatto era una guerra di conquista, condotta da una potenza coloniale, inoculando nelle coscienze ancora scosse dagli orrori della Prima Guerra Mondiale uno spirito di rivalsa, rinsaldando un sentimento nazionalista col quale dare fondamento alla campagna d’Africa.

Il carabiniere Ferrari, al pari di tanti altri caduti, non fu solo una pedina di questa fatale scacchiera, giacché “nessun uomo è un’isola”, per dirla coi versi del poeta John Donne. Egli era consapevole di essere parte integrante di una comunità, sentiva, forse più d’altri, l’amore per la patria e più di altri era disposto per essa al sacrificio estremo. “Fu vera gloria?” si chiedeva Alessandro Manzoni ne “Il cinque maggio”.

Per i posteri, ovvero i colleghi carabinieri italiani, e in ispecie per la piccola patria, Matino, quella del commilitone Ferrari fu vera gloria, tanto vero che la locale sezione dell’Ansi è a lui intitolata, vi è una lapide in una Caserma del Comando Interregionale dei Carabinieri di Roma in cui è inciso il suo nome fra i decorati, ed inoltre è stata a lui intitolata una strada di Matino.

Comprensibili l’afflato, la compartecipazione, finanche l’orgoglio, con cui si esprimono i curatori dell’opuscolo. Essi hanno, per il soldato Antonio Ferrari e per il suo eroico gesto, parole di accorata vicinanza, che esulano dalla scontata e un po’ gonfia retorica patriottarda cui siamo abituati. È, la loro, una corrispondenza di accenti, che scaturisce non solo dalla comune appartenenza all’arma dei carabinieri, ma è una colleganza dell’anima prima ancora che di bandiera. L’esperienza umana del soldato Antonio Ferrari e l’impegno dell’ANSI per ricordarlo ci testimoniano ancora una volta l’importanza della storia patria e il dovere della memoria affinché ciò che è stato non vada perso nella superficialità di questi tempi distratti.

Magia, fatture e malattia fiacca nelle credenze popolari a Nardò

 

di Egidio Presicce

[A Nardò] esistevano personaggi poco conosciuti e tacitamente operanti in un altro ramo dello scibile popolare, ai quali veniva riconosciuta la capacità di mettere in atto speciali riti comunemente chiamati “fatture”, quasi sempre finalizzati a problemi d’amore, gelosia o invidia. Un’espressione di cultura a cui era vicina una ristrettissima fascia popolare, quella priva di cenni di progresso civile, quindi in condizioni molto favorevoli per accettare le sceneggiate del paranormale.  Credenze che, anche se costruite su granitiche basi di inciviltà e ignoranza, hanno sempre profuso energia penetrativa in tali settori sociali.

Un eclatante caso che illustra la morfologia di questa storica espressione sociale è, senza dubbio, ciò che avvenne a  Cumpare Micheli, Cummare Crazia ed ai loro sei figli. Sopravvivevano tutti in un angusto monolocale nel centro storico, ove sembrava che venisse rispettata l’atavica regola “mangiamu quandu abbimu, quandu non abbimu stamu a dasciunu”.

Cocu, il piccolo dei figli maschi, all’età di 18 anni si ammalò di malattia fiacca, un male che colpiva dove era carente l’igiene e l’alimentazione e la malattia avanzava inesorabilmente senza rimedio e speranza.

La diagnosi che in merito venne fatta dal medico risultò grave e terribile, sino al punto da essere ritenuta sbagliata dalla famiglia, che attribuì invece la malattia di Cocu ad un fatto di mascìa, sicuramente voluto da qualche giovane donna. Vennero così informati parenti e conoscenti e tutti si misero a cercare affannosamente qualche esperto personaggio competente per intervenire con opere di antimascìa. La notizia trasmessa voce dopo voce giunse a Lucia la cardalana, già nota come esperta in filtri e contro-filtri. Avvennero i contatti con l’esperta, vi furono le visite e l’interrogatorio al paziente; per più di tre mesi furono adoperate misture diverse con il risultato che il povero Cocu, per sua fortuna, passò serenamente a miglior vita. Lucia per più tempo andava dicendo a chiunque: Piccatu! M’onu chiamata troppu tardu. Questa frase servì a dare ai familiari addolorati la forza per continuare a dire: S’è trattatu propriu ti mascìa no ti malatia fiacca.

L’episodio fu un’eloquente espressione di come e quanto all’epoca era temuto l’imperdonabile male, che dilagava con facilità senza guardare in faccia nessuno e creava un largo tessuto di vergogna che andava inesorabilmente a coprire tutta la famiglia. Quando avveniva un decesso per causa dello specifico male, nella periferia del paese venivano fatti bruciare tutti gli indumenti e i panni appartenuti al poveraccio.

Questo triste ed incivile costume venne a cessare quando la scienza medica, dopo la grande campagna nazionale contro la malattia, trovò il tanto sospirato rimedio per la cura del pesante male. La malattia fiacca, che non risparmiava né ricchi né poveri, era stata finalmente vinta.

Un nobile e ricco signore di Nardò, presa l’infezione andò a vivere e farsi curare in una rinomata località del Belgio consigliata dai medici come zona di ottima salubrità. Il lungo, lussuoso e costoso soggiorno vissuto come ultima speranza non servì a nulla. Nel popoloso rione di Santu Pietru a Nardò fece storia la triste sventura che andò a colpire Mescia Chiarina, un’umile e laboriosa vedova che con coraggio, cucendo e ricamando tenacemente, fece crescere i cinque figli che nel giro di pochi anni, per il tanto temuto male, morirono uno dopo l’altro. Restò così sola, con indescrivibile rassegnazione e pazienza, senza mai esternar ad altri il suo grande dolore. Morì ultranovantenne frequentando sempre la chiesa.

 

(tratto da Egidio Presicce (1927-2017). Luci ed Ombre di un’Epoca. Nardò nel primo cinquantennio del ‘900: avvenimenti, personaggi, usi, costumi (Besa edit., Nardò 2019)

Libri| Egidio Presicce. Luci ed ombre di un’epoca a Nardò – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Lo sciakuddhi, il folletto dispettoso del Salento

il folletto salentino, visto da Daniele Bianco

 

di Paolo Vincenti

Lo sciakùddhi, o sciacuddhi, è la maschera popolare del Carnevale della Grecìa salentina, protagonista delle colorate sfilate in maschera che si tengono nei giorni carnascialeschi. È un termine greco-salentino col quale si indica un curioso folletto, esponente di quell’immenso patrimonio che sono le tradizioni popolari del nostro territorio, abitato da molte altre maschere o “spauracchi”, quali la catta scianara, l’uomo nero, le macare, il Nanni Orcu, ecc.  Lo sciakùddhi è conosciuto sotto nomi diversi non solo negli altri comuni del Salento ma anche in tutta la vasta area meridionale italiana. Nella fantasia popolare, esso è un folletto, molto piccolo, bruttino, fosco, peloso, vestito di panno e con un buffo cappellino in testa; in genere scalzo, smanioso di possedere un paio di scarpette, quindi riconoscente nei confronti di coloro che gliele donano, ai quali regala un gruzzolo di monete sonanti o indica il luogo dove si trova nascosto un tesoro, l’acchiatura. Ha l’abitudine di saltare di notte sul letto delle case che visita, raggomitolandosi sul petto del dormiente e dandogli un senso di soffocamento, poiché esercita una forte pressione; e probabilmente, proprio dalla voce dialettale carcare, ossia “premere”, deriva carcaluru, nome con cui è più conosciuto nel nord Salento.  Per la verità, questo che stiamo descrivendo è propriamente il tipo dello scazzamurrieddhu, assimilato allo sciakùddhi, mentre lu moniceddhu è raffigurato come un uomo piccolissimo, vestito con un abito da frate ed è considerato uno spiritello più bizzarro e scherzoso che cattivo, come è invece  lu scazzamurrieddhu : “piccin piccino, gobetto, con gambe un  po’ marcate in fuori, è peloso in tutta la persona, gli copre il capo un piccolo cappelletto a larghe tese e indossa una corta tunica affibbiata alla cintola”, come  ci informa il Castromediano.

Vi è almeno una trentina di modi in cui è chiamato questo folletto: oltre a quelli già citati, asciakùddhi, variante di sciakùddhi, nella Grecìa Salentina, soprattutto a Martano; àuru, nelle varianti lauru e laurieddhu, a Lecce; diaulicchiu o fraulicchiu, o, più raro, piccinneddhu, nel medio Salento; scarcagnulu, diffuso nel Capo di Leuca; altrove anche uru, urulu, ecc.

Per il Rohlfs, sciacuddhi /sciaguddhi è un folletto ed anche un incubo; il suo nome verrebbe dal greco σκιαούλον, ossia “piccolo spettro”, da σκιά ,“ombra”, con influsso del latino augurium. In altre aree del Salento si ha però, come abbiamo detto, anche scazzamurreddhu, scazzamaurrieddhu, che secondo il Vocabolario dei dialetti salentini vale “spirito, folletto” e “incubo”. L’origine si trova in un cazzamurreddhu che, oltre a presentare l’aspetto di una parola composta, si mostra anche congruente col francese cauchemar. La somiglianza non è sfuggita a Rohlfs, che infatti rimanda la nostra forma a un composto tra la voce dialettale cazzare, “schiacciare”, e il germanico mara, “fantasma”. Nonostante la voce salentina (e meridionale) presenti un vocalismo e uno sviluppo morfologico più tipico, l’origine di questo secondo elemento è rafforzata dal primo, visto che TLFI (Trèsor de la langue francaise informatisè) ritiene che il francese cauche dipenda proprio da un latino calcare, “schiacciare” e, in sintonia con la proposta di OED (Oxford English Dictionary on line) per l’inglese nightmare, riconduce il francese mar a forme di tipo mare, “spettro” presenti in neerlandese, tedesco e inglese antico.

Munacceddhu e animali, visto da Daniele Bianco

 

A Napoli, “o munaciello” è quasi una maschera popolare; ma, a differenza del monaciello napoletano, che miracolosamente nacque dalla bella Mariuccia e dall’ottantenne doli Salvatore, come informa Giovan Battista Basile nel Cunto de li cunti, lu scazzamurrieddhu salentino non ha lasciato traccia della sua venuta al mondo. Può essere lo spirito di un bambino morto senza aver ricevuto il battesimo, come il monachicchio, l’omologo lucano del nostro moniceddhu, di cui parla Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli. Oppure, questo spirito lo si credeva sprigionato dal fumo delle carcare (da cui, forse, un’altra etimologia per carcaluru), nelle quali si produceva la calce utilizzata per le costruzioni. Dal fumo della calce ribollente, veniva fuori l’astuto folletto e guai alla casa che prendeva di mira, nella quale si intrufolava passando dal camino, e guai agli abitanti della stessa, che venivano svegliati di soprassalto dallo scazzamurrieddhu, il quale in questo modo, sonoramente, sottolineava il proprio arrivo. Certo, il comitato di benvenuto che il furbo carcaluro si sarebbe aspettato di trovare al suo arrivo non era proprio la “festa” che gli arrabbiatissimi famigliari, svegliati di soprassalto, gli volevano fare. Il Nostro è dunque un nano, categoria dalla quale ha attinto molta letteratura per l’infanzia e in ispecie le fiabe (pensiamo, su tutti, a Biancaneve e i sette nani).

Il primo e il più famoso di questi nani è lu cumpare Sangiunazzeddhu, così chiamato perché piccolissimo quasi quanto un sanguinaccio, secondo il Castromediano. Sangiunazzeddhu sta per Sanguinello e la derivazione forse più attendibile di questo termine, secondo Rossella Barletta, è quella di Silvanus, una divinità agreste della mitologia romana che più tardi il popolo convertì in una specie di folletto.

A volte, egli può volgere la sua attenzione agli animali: di notte striglia, abbevera i cavalli e gli asini nelle stalle, oppure li bastona; può vedere di buon occhio il cavallo e mal vedere l’asino, e allora toglie la biada all’uno e la porta all’altro. Una volta infilatosi in casa dal camino, comincia a compiere una serie di scherzetti anche pesanti: nasconde o cambia la disposizione degli oggetti, rompe piatti, bottiglie, bicchieri, producendo un gran frastuono, facendo sobbalzare nel letto i componenti della famiglia. Guai se vi è un ospite sgradito in casa: lu moniceddhu comincia a premergli il petto fino a toglierli il respiro. Ma se l’oppresso riesce a vincere l’affanno e a catturare il folletto, prendendolo per il ciuffetto e tenendolo fermamente, allora il dispettoso spiritello piange e prega e tutto promette per riavere la libertà.

disegno di Daniele Bianco

 

Un altro modo per sottometterlo è impadronirsi del suo berretto rosso, lu cappeddhuzzu. Senza il suo copricapo, il folletto non può vivere e per riaverlo promette di rivelare ai padroni della casa il luogo in cui si trova un’acchiatura. Ciò può essere un tranello e, per ritrovare questo fantomatico tesoro, l’uomo può cacciarsi in grossi guai, sempre che il folletto non sia nel frattempo scappato, dopo aver ricevuto il suo cappeddhuzzu, senza rivelare alcun nascondiglio. Essendo un burlone, se gli si chiede denaro, egli colma la casa di cocci; se invece gli si chiedono cocci, egli dà il denaro. “E’ uno di quei folletti”, dice ancora il Castromediano, “tra il bizzarro e l’impertinente, tra lo stizzoso e lo scherzevole, cattivo con chi lo ostacola o sveli le sue furberie, benefico con chi usa tolleranza”.

Frequentando le stalle, può succedere che si innamori di un’asina o di una cavalla ed allora è tutto premure e dolcezze. Pettina e lucida il crine o la coda della cavalla di cui è innamorato e, a questa soltanto, porta tutta la biada, sottraendola agli altri animali, che diventano sempre più rinsecchiti, per somma disperazione dello stalliere che non riesce a darsi una spiegazione per lo strano fenomeno. La famiglia che abita la casa visitata dal nanetto, a causa della sua presenza ossessiva e fastidiosissima, può anche decidere di cambiare casa; sempre che il terribile folletto non decida di seguire le sue vittime nella nuova abitazione.

Fra i vari dispetti, il peggior male è, senz’altro, quello di non dormire la notte o di dormire male, con un sonno agitato dagli incubi. C’è un altro rimedio per tenerlo lontano: si può apporre ad un arco o alla sommità della porta principale della casa un paio di corna di bue o di montone, di cui il folletto ha una paura tremenda. Come visto, un altro nome con cui viene indicato dalle parti di Lecce è lauru o auru, auricchiu nel suo diminutivo. Secondo Rossella Barletta, l’origine del termine auro deriva da “augurio”, dal latino augurium, derivato da augur, cioè “augure”, intendendo con questo termine quei sacerdoti che, nella religione romana arcaica, divinavano la volontà degli déi attraverso la lettura dei segni celesti o anche attraverso il canto o il volo, oppure ancora le interiora, degli uccelli. Ma il termine “augurio”, nella nostra lingua, è collegato con qualcosa di positivo, un buon auspicio, e questo ci fa pensare alla componente buona, o almeno duale, del carattere di questo folletto-divinità della casa. Maurizio Nocera individua un’altra etimologia per laurieddhu: “Le due parole (Laurieddhu e Monachicco) non sono in contraddizione fra di loro, anzi: Laurieddhu si riferisce al luogo e ha la sua origine etimologica da laura, grotta naturale, spesso usata nel primo millennio d. C. dai monaci bizantini per i loro ritiri, per pregare ed anche per dormire. In Salento le laure basiliane sono molte tuttora visitabili. Monachicco invece significa appunto piccolo monaco, che vive nella laura”.

Ricorda, Nocera, le sue paure di bambino nel piccolo paese agricolo (Tuglie) in cui è nato: “La mia paura era legata soprattutto al buio e ai racconti che si facevano intorno a questo elemento della natura. Una volta andati a letto, ai bambini si raccomandava di mettersi sotto le coperte e di non mettere mai fuori la testa da esse, pena l’arrivo del laurieddhu e gli scherzi di cattivo gusto che egli avrebbe potuto fare. A ciò vanno aggiunte le paure derivanti dai racconti legati all’apparizione di anime morte o comunque di spiriti maligni. Ovviamente da bambino anch’io ho creduto a tutto ciò, e non dimentico il terrore che avevo per questo strano spiritello. Il mio lettino stava affianco a quello di mio fratello più grande, oltre al quale c’era il camino, di giorno acceso, di notte spento. Una volta coricato e messa la testa sotto le coperte, l’immagine della mente più appariscente che mi si presentava era sempre quella della bocca del camino nero, dal quale poteva uscire lo gnomo dispettoso o qualche anima morta. Terrore e tremore fino a che il sonno non vinceva. Da adulti, mio fratello mi ha ricordato che durante quella prima fase di sonno ipnagogico, parlavo molto, a volte gridavo anche, e le parole che scandivo erano sempre rivolte allo gnomo affinché stesse lontano da me. Paure di bambino scaturite dalla narrazione.

Oggi di tutta questa leggenda sono rimasti solo i racconti”. Fatto sta che, nonostante la disponibilità di contributi autorevoli di figure di spicco della cultura salentina, deve ancora allestirsi una bibliografia sugli esseri immaginari salentini, anche in relazione a quelli di altre aree dello spazio mediterraneo.

Per trovare l’origine degli scazzamurrieddhi, secondo noi, si può certamente risalire ai Lares, ai Penates e ai Manes, le divinità domestiche della casa romana. Nella religione romana, i Lares erano protettori di uno spazio fisico ben preciso e circoscritto, la casa appunto. Ad essi si portavano delle offerte, come un grappolo d’uva, una corona di fiori o cibarie. Il Lar Familiaris è invocato da Catone nel De agri cultura e da Plauto nell’Aulularia. I Penati erano, etimologicamente, gli dèi del penus, cioè il vano delle provviste. Anch’essi erano i protettori della casa e dei suoi abitanti, in particolare del pater familias. Vi erano poi i Lemures o Manes, cioè gli spiriti dei morti. La morte, nell’antica Roma, veniva ritenuta contagiosa, funesta, e quindi doveva essere purificata con riti appropriati, come il sacrificio di una scrofa a Cerere. Il lutto durava nove giorni. L’ultimo giorno, si faceva un pasto sulla tomba, poi la pulizia con la scopa e la purificazione della casa e di tutti coloro che avevano assistito alla sepoltura. La famiglia infatti si riteneva contaminata, in qualche modo, dal contatto con la morte. Se ai morti veniva data giusta sepoltura, essi potevano sopravvivere in pace nell’aldilà, altrimenti potevano tornare sulla terra e tormentare i vivi. Questi spettri malefici erano chiamati Larvae e i famigliari venivano da essi tormentati. I Lares ed i Penates non abbandonavano mai la casa e ne proteggevano gli abitanti, mentre i Manes, nella loro forma di Larve, potevano essere avversi. Se dunque affondassero nella mitologia romana le origini dei folletti di casa nostra, ciò fornirebbe anche una spiegazione della loro doppia natura, benevola e malevola.

tavola di Daniele Bianco

 

Ringrazio il prof. Antonio Romano per l’ottima consulenza bibliografica.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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Davide Ermacora, Intorno a Salvàns e Pagàns in Friuli: buone vecchie cose o nuove cose buone, in «Atti dell’Accademia San Marco» n. 11, 2009, pp. 477-502.

Gennaro Finamore, Tradizioni popolari abruzzesi, Torino-Palermo C. Clausen, 1894 (Rist. anast. Cerchio, Polla, 1986).

Aa.Vv., Leggende e tradizioni popolari delle Valli Valdesi, a cura di Arturo Genre e Oriana Bert, Torino, Claudiana, 1977.

Alice Joisten e Christian Abry, Les croquemitaines en Dauphiné et Savoie: l’enquête Charles Joisten, in Le Monde alpin et rhodanien. Revue régionale d’ethnologie, n. 26-2-4, 1998, pp. 21-56.

Êtres fantastiques des Alpes, a cura di Alice Joisten e Christian Abry, Paris, Entente, 1995, (Collezione di Estratti da: Le Monde alpin et rhodanien. Revue régionale d’ethnologie, n.1-4/1992).

Giovanni Ruffino, Fantastiche abitatrici dello spazio domestico nelle credenze popolari alpine e siciliane, in Les êtres imaginaires dans les recits des Alpes – Actes de la conférence annuelle sur l’activité scientifique du Centre d’Études Francoprovençales, Saint-Nicolas 16-17 décembre 1995, 45-50.

Rossella Barletta, Scazzamurrieddhri i folletti di casa nostra, Fasano, Schena Editore, 2002.

Federico Capone, In Salento Usi, costumi, superstizioni, Lecce, Capone Editore, 2003.

Salento da favola storie dimenticate e luoghi ritrovati, a cura di Roberto Guido, Lecce, I libri di Qui Salento, Guitar Edizioni, 2009.

Maurizio Nocera, Il laurieddhu e il culto della papagna nel Salento, in La magia nel Salento, a cura di Gianfranco Mele e Maurizio Nocera, Lecce, Edizioni “Spagine/Fondo Verri”, 2018, pp. 123-136.

Da oggi visitabile la mostra museo dedicata a Gregorio Leone e Salvatore Napoli Leone

 

Da giovedì 23 settembre, presso il castello in piazza C. Battisti – Nardò, sarà visitabile lo spazio museale dedicato ai due concittadini Gregorio Leone e Salvatore Napoli Leone, ospitato  in due saloni a piano terra della predetta struttura.

Sorto per interessamento di Marcello Gaballo, presidente della Fondazione Terra d’Otranto, che ha donato alla Città di Nardò tutto il materiale documentario appartenuto ai due e che aveva ricevuto dagli eredi dopo la morte dell’unica figlia, Maria Teresa. Allestito con la consulenza e collaborazione dei docenti e degli alunni del locale Liceo Artistico “Vanoni”, grazie alla fornitura di parte degli espositori da Unieuro di Nardò,  il nuovo spazio che affianca gli altri contenitori culturali già esistenti, raccoglie gli originali di numerose testimonianze dei due illuminati industriali neritini.

Il primo fu vero pioniere dell’industria vinicola e liquoristica a Nardò ed il secondo, suo figlio adottivo, scienziato ed inventore eclettico, commerciante, pubblicitario, nato nel 1905 e scomparso nel 1980, che sperimentò numerose attività, alcune pioneristiche, passando dalla produzione di ben 180 tipi di inchiostri, timbri in gomma, prodotti antimalarici, cosmesi, pasticceria, torrefazione caffè (era suo il più noto Gran Bar Pasticceria Tripoli di Nardò), fino ad arrivare a quella dei coni gelato “Wabis Leone”, delle bibite, degli spumoni, del torrone al cioccolato TALC. Operò anche nel campo pubblicitario, dell’editoria e della tipografia.

 

Gli oggetti, le foto, le tante etichette originali, i numerosi diplomi e gli attestati conferiti anche fuori dall’Italia documentano un inesplorato patrimonio, assolutamente degno di essere conosciuto, utile per delineare la storia dell’industria e del commercio nella città di Nardò, a partire dalla fine dell’800 e sino a qualche decennio fa.

L’epistolario del Cavaliere Napoli Leone con centinaia di documenti e lettere giunti fino a noi, storia viva per Nardò e tutta la Puglia, è stato invece depositato presso l’Archivio Storico della Diocesi di Nardò, dopo opportuna inventariazione e catalogazione durata diversi anni, raccolto in circa 30 faldoni consultabili.

Il Museo è occasione per celebrare, perché indirettamente coinvolti con le fabbriche dei due, altre figure importanti come il coriglianese Nicola D’Urso, tra i più celebri calligrafisti italiani operante nella Capitale, il pittore e grafico Gino Gabrieli, con esposizione di bozzetti, marchi ed etichette originali da lui creati per le attività di Salvatore, tra i quali l’etichetta per il liquore all’uovo e il logo Carneolin, per l’inchiostro da applicare sulle carni edibili. E’ anche esposta una produzione letteraria della cugina dell’eroe Cesare Battisti, la contessa Fogolari a Toldo, amica del nostro Salvatore ed estimatrice dei profumi personalizzati che le preparava. Tra questi ultimi Olezzo Adriatico, Baci di Primavera, Gentil Bocca, Contessa Misteriosa, oltre la Cipria Fior di Maggio.

Medagliere e ricostruzione di un angolo dell’abitazione di Salvatore Napoli Leone nello spazio nuseale

 

Sempre qui trova posto il medagliere del Cavaliere, già in un locale nei pressi della chiesa del Carmine, accanto a numerosi reperti e oggettistica donati da alcuni degli eredi e da concittadini entusiasti dell’iniziativa, tra i quali Franca Parisi (già proprietaria del Bar Parisi) e Carlo Pero (già proprietario del Bar Pero), Anna Bianco, Antonietta Presicce, Vittorio Marras, Massimo Vaglio, Diana Rizzello.

Sono anche esposti i mobili e parte degli arredi appartenuti al Cavaliere Napoli Leone, provenienti dalla sua abitazione, donati dalla Sig.a Teresa Cagnazzo e dagli eredi Cinzia, Luigi, Franco e Ugo Napoli. Sono anche esposti parte degli alambicchi e degli strumenti dell’industria liquoristica “Leone”, sempre donati dal nipote Luigi Napoli.

Meritevole di attenta visita lo spazio museale rappresenta l’unico esempio cittadino di archeologia industriale misconosciuta,  e per questo da conoscere e trasmettere alle generazioni future.

Astuccio per contenere una boccetta di inchiostro Leone

 

 

Vietata la riproduzione delle immagini, salvo espressa autorizzazione da richiedere alla Fondazione Terra d’Otranto

Leggende popolari: la “manu longa”

di Gianfranco Mele

 

Scena dal film “The Ring”

 

In una serie di leggende italiane si ritrovano  mostri d’acqua per lo più legati a personificazioni femminili e accomunati sia da caratteristiche simili (abitano nei pozzi, sono avidi di carne e sangue dei bambini che risucchiano nelle loro tane acquatiche), che da nomi somiglianti. Ad esempio, al sud, in Campania queste figure prendono il nome di Maria Catena, Marica Catena, Maria Crocca, Maria Forbice, Maria Longa,[1] Mano Longa; in Sicilia Marrabecca,[2] Mamma Rrabecca, Mammadraga. In Veneto la  Marantega è identificata nella befana ma anche in uno “spauracchio per bambini” che “si dice sia nel pozzo e nei fossi”.[3] Tale figura è stata identificata con la progenitrice dei Lari (Larunda),[4] e  deriverebbe in ogni caso dal latino Mater Antiqua, corrotto nel dialettale Mare Antiga.[5]

Non si può  non notare l’affinità di queste figure, e persino dei nomi (specie nel caso della “Marica Catena” campana), con Marica, antica dea delle acque e delle paludi, e con  il termine di origine preindoeuropea mara = acque, acquitrini, paludi.[6]  Con la Mammadraga siciliana (descritta anche nelle Fiabe di Pitrè) siamo addirittura alle corrispondenze/fusioni tra mostri d’acqua femminili, la citata “Mater Antiqua”, e il “drago” acquatico. Una figura analoga sarda è la Pettenedda, una sorta di vecchia strega dalle unghie lunghissime come artigli, e dai capelli arruffati che non si ricompongono nemmeno sotto i ripetuti colpi del suo pettine; la Pettenedda, come tutte queste altre creature leggendarie, acciuffa i bambini che si sporgono ai bordi dei pozzi.

Statuina arcaica raffigurante Marica

 

La Mano Longa è ricorrente in altre regioni del Sud: in questo caso è rappresentata come una enorme, lunghissima e mostruosa mano che avrebbe trascinato in fondo al pozzo i bambini che vi si sporgevano. Analoga rappresentazione (“Manu Longa”, “Manu Nera”) è nella tradizione pugliese.

Una curiosa occasione in cui ho sentito rievocare  questa storia della Manu Longa è stata qualche decennio fa, quando chiamai un operaio per farmi ripulire e restaurare la cisterna d’acqua piovana che avevo in campagna, e costui alla vista di quel vecchio pozzo mi disse scherzando, ma rievocando tra sé e sé antiche suggestioni ricevute da bambino, “non è ca mò essi la Manu Longa cu ni cchiappa, no?”.[7]

Ritornando di recente con una discussione sull’argomento, la mia amica Rossella, informatrice di Sava, mi racconta che da bambina sentiva parlare spesso di una figura similare, in questo caso denominata “la Tantazioni”:

«Mia nonna mi diceva “non ti vvicinari ca la tantazioni ti tira abbasciu… non voleva addirittura che saltassi sul coperchio di ferro del pozzo, chiuso con un paio di lucchetti… era vietato fare rumore attorno al pozzo per non disturbare la tantazioni»

 

Allo stesso modo, Anna Maria da Sava mi racconta:

«Mia madre mi diceva di non avvicinarmi ai pozzi e di non specchiarmi perchè altrimenti un essere orribile chiamato Malombra mi avrebbe trascinata dentro l’acqua. Tutto ciò mi incuteva terrore, ma funzionava»

 

Una figura analoga doveva essere quella che mia nonna chiamava “Mammacabella” (da notare l’assonanza nel nome, con la Mamma Rabecca e con la Mammadraga del folklore siciliano): non ricordo moltissimo, se non il fatto che si trattava di una vecchia evocata come spauracchio per bambini.

La storia del mostro che abita i pozzi, le fontane o i corsi d’acqua, e ha sembianze femminili (in genere di vecchia strega) o di drago (o rettile, o anfibio) o miste, ricorre un po’ ovunque, in alcuni casi con curiose e complesse corrispondenze tra una serie di creature magiche (dal basilisco al drago alla  strega al folletto alla salamandra alla mandragora: si vedano, al proposito, le varie ricerche del Borghini).[8] Curiosamente, a Bormio, in provincia di Sondrio, per evitare che i bambini si avvicinassero troppo ai corsi d’acqua con il rischio di essere trascinati via dai vortici, si ammoniva che negli inghiottitoi rumoreggianti si annidava la mandràgola, un mostro spaventoso che sarebbe balzato dalle acque e li avrebbe divorati. Ugualmente, a Morignone,  la mandragola viene descritta come “un drago del fiume”, in agguato tra i gorghi e pronta a risucchiare i bambini in un sol boccone. [9] Sempre in quei paraggi, a Frontale, la mandràgola è un mostro “che abita nei gorghi del torrente”, una sorta di drago che si nutre della carne dei bambini. [10] A Grosio una raffigurazione analoga viene designata con il nome di Marantula (altra variante, Maramantula), animale immaginario “presente nelle fontane e nei corsi d’acqua, evocato per mettere in guardia i bambini dal mettersi in pericolo sulle scarpate dei greti”. [11] In una leggenda del Lago di  Garda, la Mandragola è una figura femminile che rapisce i giovani e li nasconde in fondo al pozzo.[12]

Il tema delle figure infernali o demoniache che appaiono dal fondo di un pozzo appare anche in questo passo tratto dagli atti di un processo del Tribunale del santo Officio di Oria (1738). In questo caso però, la figura è maschile e si tratta del “demonio” che a più riprese appare a Maria Caterina Salinaro, una praticante cattolica e consorella dell’Ordine Carmelitano di Francavilla Fontana:

«Un giorno pur avendo avuto parole in casa mia ed essendo stata maltrattata da mio fratello, mi vidi alla disperazione e la sera verso un’ora di notte mentre tirava l’acqua del pozzo dentro l’orto, da dentro detto pozzo mi comparve il detto demonio in forma di uomo, ma in maniera spaventosa, tal che avendomi io atterrita, mi disse che voleva ripigliare con esso l’amicizia, onde io caddi nuovamente nel consenso e mi contentai, per la qual cosa la notte seguente mi comparve in forma d’uomo ed ebbe con me il commercio carnale e continuammo ogni notte per lo spazio di due altri anni nel vizio della disonestà»[13]

 

Note

[1]    In una variante della leggenda, “Maria Longa” cattura e divora i bambini che si sporgono verso qualsiasi  spazio ritenuto pericoloso (es. davanzali, balconi ecc.); cfr. Giovanni Vasso, La leggenda di Maria Longa e la terribile sorte dei bambini, https://ecampania.it/event/leggenda-maria-longa-e-terribile-sorte-bambini/

[2]    https://catania.italiani.it/marabbecca-un-mostro-che-vive-nelloscurita-e-tramuta-tutto-in-nulla/

[3]    Dante Bertini, Cante e cantàri. Poesie in dialetto veneto con aggiuntovi un glossario, Quaderni di Poesia Ed., 1931, pag. XIV

[4]    AA.VV Tridentum vol. 3-4, Rivista bimestrale di Studi Scientifici, Stabil. Tip. Zippel, 1900, pag. 135

[5]    Da approfondire, anche, corrispondenze varie con il mostro del folklore germanico e slavo denominato Mare. Si tratta anche in questo caso di una figura mitologica (originariamente) femminile la cui caratteristica principale è il cavalcare il petto dei dormienti: è inoltre figura associata ai cavalli, dei quali intreccia anche le criniere. Qui, la corrispondenza è soprattutto nei confronti dei folletti di cui parliamo nel corso di questo articolo, mentre da un punto di vista dell’etimo si potrebbe intravedere una somiglianza con le citate figure-mostro femminili alle quali abbiamo già attribuito derivazione dal protoindoeuroeo  mara. Tuttavia, nel caso del Mare-incubo cui ci stiamo qui riferendo,  l’etimologia è controversa: c’è chi la attribuisce ad un protoindoeuropeo mer (schiacciamento, oppressione), chi al greco Μόρος (destino). Lo studioso Massimiliano Palmesano, che sta svolgendo una ricerca sulle leggende campane intorno ai “mostri” abitanti dei pozzi, nei commenti di discussione in un suo post su facebook osserva che nel tempio alle foci del Garigliano la dea Marica era chiamata anche Mara, notando anch’egli una costante presenza di assonanze nei vari nomi dati a questi personaggi della fantasia popolare: da Marica, Mara, a Maria (cui bisognerebbe aggiungere, come abbiamo già osservato, anche il ricorrente “Mamma” (Mater).  Alla lista dei “mostri” acquatici campani e del meridione in generale, il Palmesano aggiunge anche il Marranghino  (che nel folklore lucano è una specie di folletto equivalente al Laùru salentino)  e la “Rancicodena”.

[6]    Claudia Giontella,  Marica ed i Palici: un confronto fra entità “terribili” cultualmente reinterpretate in senso benefico,  in “Usus Venerationem  Fontium, Atti del Convegno Internazionale di Studio su “Fruizione e Culto delle Acque Salutari in Italia”, a cura di Lidio Gasperini, Roma-Viterbo 29-31 ottobre 1993, Tipigraf Editrice, 2006, pag. 235

[7]    Trad.: “non vorrei che uscisse fuori dal pozzo la Manu Longa per acchiapparci e trascinarci a sè”

[8]    Alberto Borghini, Mandraule, la salamandra, in: «Varia Historia. Narrazione, territorio, paesaggio: il folklore come mitologia», Aracne Editrice, Roma, 2005; Alberto Borghini, Folletto e sfera del basilisco: folletto-rettile; folletto-uccello. Alcuni spunti, in Saggi del Museo italiano dell’immaginario folklorico, 2006; Alberto Borghini, Gianluca Toro, Mandragola, salamandra e rettili: elementi di corrispondenza, in “Lares”, vol. 76, n° 2, maggio-agosto 2010

[9]    Remo Bracchi, Nomi e volti della paura nelle valli dell’Adda e della Mera, De Gruyter, 2009, pag. 91

[10]  Remo Bracchi, op. cit., pag. 93

[11]  Remo Bracchi, op. cit., pp. 93-94

[12]  Alberto Borghini, Gianluca Toro, Mandragola, salamandra e rettili: elementi di corrispondenza, in “Lares”, vol. 76, n° 2 (maggio-agosto 2010), pag. 130

[13]            ACO (Atti Curia di oria), Fondo Stregonerie e Sortilegi,  fasc. 5, “Confessione di Maria Caterina Salinaro in data 18 aprile 1738”

Libri| L’una e tre (DiscorDanze)

di Laura De Vita

 

L’una e tre (DiscorDanze), edita da ArgoMenti Edizioni nel 2019, è l’ultima silloge poetica di Paolo Vincenti, giornalista e scrittore salentino dalla ricca formazione culturale e politica.

Non è affatto un caso che la precedente opera del poeta avesse come titolo L’una e due – DiscoRdanze (Edizione La Fornace, Galatina 2016): la lancetta del pendolo che scandisce la vita stessa ha scoccato un solo minuto, in realtà sono passati tre anni e non è cambiato nulla, il caos permane, più dirompente di prima, creando appunto le “discordanze” del sottotitolo.

Come la precedente opera, anche L’una e tre è suddivisa in due parti: “disco” e “danze” che, come messo in evidenza da Abele Longo nella interessante prefazione, omaggiano il postmoderno la prima ed il classicismo la seconda, sia negli argomenti che nel linguaggio formale. Una poesia che oscilla tra lo sperimentalismo e il classicismo quindi, sfociando in forme linguistiche innovative ed originali, ma sempre densissime del pathos che alberga in tutte le intime lacerazioni umane. Se nella prima parte l’autore osserva il caos che lo circonda e sembra abbandonarsi ad un sentimento di repulsione e disgusto, nella seconda quel che prevale è il senso dell’irrisione e dello scherno (divertitevi ghiottoni, mangioni che siete, vanesi e viveurs…).

Anche se potrei citare molte liriche significative che sono rappresentative della poetica dell’autore e che hanno incontrato il mio particolare e personale gradimento (CoabitazioniNell’animaVita al minutoQuesto tempoMordace), emblematico è il componimento dal titolo Distonico:

Tutto è disarmonico
e io distonico
mi sento comico
nel mondo illogico
quasi matematico
il disastro ultimo

Come si può notare, la poesia di Vincenti è essenziale e al contempo estremamente efficace: se il suo obiettivo era quello di mettere in risalto l’assurdità della realtà odierna, egli ci è riuscito perfettamente.

Vincenti è uno scapigliato del XXI secolo (e con gli scapigliati del XIX secolo ha in comune la rivendicazione della propria indipendenza, il rifiuto del perbenismo falso e bigotto, l’identificazione tra arte e vita, il polemico bisogno di verità e molto altro) ed i suoi versi sembrano scritti in stato di ebbrezza, scanditi dal ritmo incessante di uno strumento a percussioni e la sensazione che il lettore prova nel leggerli è quella di essere risucchiato in un mondo distorto, dove nulla va come dovrebbe andare e dove il protagonista è totalmente fuori luogo ed incapace di mischiarsi a tanto scempio.

Si tratta di una poesia estremamente lucida, perché il poeta pensa e sceglie accuratamente i versi da utilizzare per descrivere cinicamente e criticare in maniera irriverente la realtà alienante e distopica del mondo che lo circonda e dove, volente o nolente, è costretto a vivere. Ma non vi è rassegnazione: da individuo libero e fiero, sempre fedele ai suoi valori e alla sua profonda umanità, continua a cercare l’innocenza perduta e, attraverso questa sua tenace opera di resistenza, riesce a ristabilire un giusto ordine delle cose; un uomo che, attraverso la desolante e spiazzante descrizione della “rottura” ritrova la sua unità ed il suo esatto posto nel mondo.

Brindisi nel periodo bizantino e sino all’arrivo dei Longobardi

di Nazareno Valente

 

A parte le eccezioni, che si sa confermano la regola, c’è un’abitudine di origine antica che pare indirizzare l’opera dei cronisti brindisini sin da quando Giovanni Battista Casmiro incominciò a ricostruire le vicende della nostra città: quello di essere più fedeli al campanile che alla storia. In effetti il nostro notaro Casmiro ne aveva motivo, perché altro era il contesto nel 1567 mentre redigeva la sua “Epistola apologetica” in risposta a Quinto Mario Corrado. C’era da difendere il titolo arcivescovile contesoci da Oria, che non era certo una questione soltanto spirituale ma di sostanza, trattandosi di uno dei cespiti più consistenti dell’economia cittadina. Per questo qualche compromesso era più che giustificato.

Dissolta la necessità e la ragion di stato, il vezzo è rimasto, radicandosi insieme ad un certo occhieggiare al lavoro altrui. Ne diede un bell’esempio pochi anni dopo il Moricino, che infatti tanti debiti contrasse dagli scritti del Casmiro e che a sua volta subì un indecente saccheggio dal Della Monica, la cui opera non a caso tutti ritengono un vero e proprio plagio. In base al principio che la moneta cattiva scaccia quella buona, il Della Monaca ha fatto scuola: in un’epoca ossessionata a parole dal cambiamento, si preferisce tuttora di ritrovare la familiarità di certi temi consueti, nei quali è più facile riconoscersi, piuttosto che avventurarsi nella lettura di eventi poco conosciuti, o peggio, di rivisitarli in senso critico.

Sarà per questo che restano nell’ombra interi pezzi del nostro passato, come i secoli che modificarono completamente il tessuto sociale di Brindisi facendola decadere da metropoli dell’impero a sperduto borgo abbandonato da tutti.

Il cammino che portò la città a sparire dalla storia è stato per lo più appena abbozzato e, soprattutto, non si sono indagate le cause che portarono a questo triste epilogo. Epilogo che ci riporta alla polemica avviata tra Brindisi ed Oria per il titolo vescovile, che Casmiro e Corrado coltivavano in maniera comunque accademica, mentre i rispettivi abitanti affrontavano con vivacità e con argomenti ben più spicci.

La diocesi, che risiedeva a Brindisi sin da quando il cristianesimo  era divenuto religione di stato, d’un tratto si trasferì ad Oria rimanendovi sino all’XI secolo. I cronisti e gli storici brindisini danno per scontato — più per carità di patria che per convinzione conseguente a dati di fatto — che lo spostamento di sede fu dovuto al sopraggiungere dei Longobardi. Si narra appunto che i Longobardi conquistarono la nostra città nel 674, decidendo poi di devastarla. Come tragica conseguenza, fuggirono tutti, vescovo compreso, e Brindisi rimase un deserto abitato da qualche sparuto gruppo di cittadini, convenzionalmente stabilitisi attorno al martyrium di San Leucio, e da un piccolo nucleo di Ebrei che gestivano lo scalo marittimo per conto di Oria. Per colmo di sfortuna il vescovo, di nome Prezioso, nel corso della fuga, morì, sicché fu frettolosamente sepolto in contrada Paradiso, lì dove fu poi ritrovata l’epigrafe del suo sepolcro, che però chiarisce1 senza dubbio alcuno che egli era salito in cielo più d’un secolo prima di quanto nei desideri dei nostri cronisti che, per loro comodità cronologica, lo vorrebbero appunto morto nel 680.

Una ricostruzione seducente ma del pari fantasiosa, in quanto il contesto storico narra tutta un’altra storia. Vediamo di darne una diversa lettura partendo dalla Brindisi di quel tempo.

Alla metà del VI secolo, la nostra città era uscita malconcia dalla guerra gotica, essendo rimasta per lungo tempo alla mercé dei frequenti raid di entrambi i contendenti, Goti o Bizantini che fossero. In più, chi aveva sperato nei Bizantini aveva avuto modo di ricredersi e di rimpiangere i Goti che l’avevano in precedenza governata. Questi erano sì scontrosi e di poche parole ma, nella sostanza, con l’animo del buon pastore che tosa il proprio gregge senza però scorticarlo troppo. I Bizantini, invece, si turbavano meno per simili minuzie ed avevano l’ossessione del gettito fiscale che, pur di mantenere ai livelli voluti, non disdegnava l’uso dei mezzi più estremi, tipo l’epibolè,  una imposta fondiaria che tassava i campi in base alle loro potenzialità, e non alla effettiva produzione, e addossava ai vicini la responsabilità tributaria d’un eventuale contribuente insolvente. Un po’ come avviene per le attuali bollette della luce che, chi paga, deve farlo anche per chi è moroso, non volesse mai il cielo che le lobby rischino di non guadagnarsi il companatico.

Evidente che una politica fiscale così iniqua non poteva che risultare dannosa per le economie cittadine, soprattutto in quelle zone, come la nostra Brindisi, dove l’agricoltura era una delle principali risorse. L’ingiustizia fiscale era poi aggravata dal fatto che vi erano categorie, in particolare il clero, che erano esentate da qualsiasi tributo, ed altre, i curiali (assimilabili ai nostri consiglieri comunali) che, oltre a pagare le normali tasse, dovevano pure farsi carico delle spese di gestione e di costruzione degli immobili cittadini. Sino a quando queste due categorie non finirono, come ai nostri tempi, di assidersi sullo stesso privilegiato desco, ci fu un difetto di vocazioni in campo politico — manco a dirlo, nessuno aspirava a fare il curiale — ed un surplus di predisposizioni religiose, in quanto tutti volevano intraprendere la carriera ecclesiastica. Questa divenne ad un certo punto talmente allettante che, per frenare queste poco spontanee vocazioni, fu istituito una specie di numero chiuso, in base al quale, per accedere al sacerdozio, occorreva attendere che si rendesse libero un posto, in genere a seguito di chiamata celeste.

Quando poi nel primo ventennio del VII secolo i Bizantini persero il controllo dei porti italiani della costa adriatica, di Durazzo e della via Egnazia che avevano tutti come terminale Brindisi, il disastro per la nostra città fu completo. Il porto, da fonte delle nostre fortune, si tramutò addirittura in un pericolo: una specie di cavallo di Troia per il cui tramite i Saraceni avrebbero potuto insinuarsi nella penisola.

Il collasso delle attività più redditizie coinvolse anche le autorità religiose che, essendo di per sé improduttive, dovevano necessariamente contare per la loro sussistenza su un eccesso di produzione sul consumo che la città non era più in grado di realizzare. Il disagio del clero brindisino era inoltre accentuato dalle politiche dei Bizantini «basate sul principio di promuovere a posizione ecclesiastiche di rilievo soltanto sudditi leali dell’imperatore»2. In pratica per i Bizantini era meglio affidare più diocesi ad un vescovo fedele che rischiare di avere a che fare con un presule che si opponesse alle loro politiche. Fu certo dovuto anche a questa gestione delle cariche ecclesiastiche se la diocesi brindisina restò vacante dalla metà del VI secolo e per tutto il VII secolo. È quanto emerge in maniera inequivocabile dai dati documentali, di là dai vani tentativi degli storici locali di collocare in maniera coatta nel VII secolo alcuni vescovi di epoche precedenti, vale a dire Aproculo, Pelino, Ciprio e Prezioso, in modo da colmare la cronotassi di quel periodo e avvalorare così l’ipotesi che il trasferimento della diocesi brindisina fosse stata determinata dai longobardi, e non da logiche interne alla diocesi3.

I longobardi, immagine tratta da internet (rielaborazione grafica di Eugenio Corsa)

 

 

In definitiva, non ci fu certo bisogno dell’arrivo dei Longobardi per convincere le autorità religiose che era preferibile trasferirsi altrove; né era inusuale che un tale fatto accadeva. Ce ne dà un chiaro avviso sant’Agostino quando lamenta che alcuni vescovi erano troppo propensi ad abbandonare le proprie sedi vescovili, non appena le cose prendevano una brutta piega. Per questo ricordava loro che, anche nei momenti difficili, il dovere di un vescovo era quello di stare con i suoi fedeli4. Richiamo questo che, almeno nella nostra città, risultò del tutto inascoltato.

Quando Romualdo con i suoi Longobardi di Benevento arrivò a Brindisi poté così constatare che le preoccupazioni di sant’Agostino non erano infondate: il clero aveva abbandonato da tempo la nostra città, poco sicura e soggetta alle scorrerie dei Saraceni, preferendo la tranquillità dell’entroterra oritano. Avesse trovato un’autorità religiosa capace di mantenere in vita un episcopato, il duca l’avrebbe senz’altro sfruttata per puntellare la conquista e consolidarla. Non c’era infatti struttura burocratica a quel tempo meglio organizzata di quella clericale, e tutti i governanti se ne servivano per gestire e controllare il territorio.

Va poi ricordato che a quel tempo i Longobardi non erano maldisposti nei confronti della chiesa cattolica, né erano quei mangiapreti che certa letteratura vuol far credere: Teuderata, moglie di Romualdo, passava addirittura per una fervente cattolica che aveva fatto costruire una basilica ed un cenobio, appena fuori Benevento5. E lo stesso Romualdo aveva sempre cercato soluzioni gradite al papato.

In effetti, nelle ricostruzioni dei cronisti locali, i Longobardi scontano la visione alquanto faziosa del teologo Di Meo, insigne erudito del XVIII secolo che, pur di sollevare la Chiesa da ogni possibile colpa, non disdegnava di alzare i toni narrando di città «barbaramente sterminate da’ Longobardi»6  oppure che al pari di Brindisi «contarono i loro vescovi, finché divennero preda de’ Longobardi»7. Nelle prime fasi dell’invasione ci furono di sicuro distruzioni ed azioni contro i vescovi cattolici ma, a lungo andare, le cose cambiarono per cui l’immagine del feroce longobardo fa parte dei tanti stereotipi di comodo.

Non direi quindi che la conquista longobarda comportò la distruzione della città, che pare una soluzione poco credibile in quanto palesemente costruita a tavolino per giustificare le mancanze dell’apparato clericale. Con molta più probabilità i Longobardi, constatato che Brindisi era indifendibile, resero inagibile il porto per evitare pericoli esterni e,  di conseguenza, spostarono il baricentro della città all’interno, in modo da allontanarla dalla costa e porla al riparo dalle scorrerie dei Saraceni.

Comunque siano andate le cose, pare evidente che non furono i Longobardi la causa del declino e dello spopolamento della nostra città. I loro atti rappresentarono solo l’epilogo d’un processo, da tempo avviato, che aveva visto come principale protagonista il clero, in questo caso, molto più propenso a salvaguardare il proprio tornaconto che l’interesse dei credenti.

 

Note

1 N. Valente, “Prezioso l’ultimo vescovo di Pietro”, “IL 7Magazine”, n. 92, pp. 22-23, Brindisi 2019.

2 V. von Falkenhausen, “La dominazione bizantina nell’Italia meridionale dal IX al XI secolo”, Ecumenica editrice, Bari 1978, p. 168.

3 N. Valente, “Brindisi tra Longobardi e Bizantini”, https://www.academia.edu/38471510/Brindisi_tra_Longobardi_e_Bizantini).

4 A. Cameron, “Il tardo impero romano”, Il Mulino, Bologna 1995, p. 239.

5 Paolo Diacono (VIII secolo d.C.), “Storia dei Longobardi”, VI 1

6 A. Di Meo, “Annali Critico-Diplomatici Del Regno Di Napoli Della Mezzana Età”, Volume 1, Stamperia Simoniana, Napoli 1795, p. 70.

7 Ibidem.

L’ultima pubblicazione su Santa Maria al Bagno

Paolo Pisacane – Marcello Gaballo, Santa Maria al Bagno e l’accoglienza ai profughi ebrei, con contributi di Salvatore Inguscio, Emanuela Rossi e Alfredo Sanasi, ediz. Mario Congedo, Galatina 2021.

 

 

dalla prefazione di Giancarlo Vallone

Questo volume su Santa Maria può essere letto a diversi livelli di profondità, ma già nel suo impianto, ch’è quello d’una redazione collettiva, esprime l’esigenza d’un rispetto pieno delle ben diverse competenze necessarie a raggiungere il fine, e la diversità di queste competenze espone a sua volta la complessità della storia di questa importante località.

È, anzi, indiscutibile la sua antichità come nucleo abitativo, perché il contributo iniziale di Salvatore Inguscio ed Emanuela Rossi, ripercorre  appunto la vicenda degli scavi  e dei reperti di epoca neolitica, e successive, della Grotta del Fico,  esaminata nel 1961 da Arturo Palma di Cesnola (1928-2019) e da altri collaboratori, ed in seguito oggetto di studi ripetuti, durante i quali, come ben giustamente si ricorda, un operaio avvertì l’équipe dell’esistenza di altre grotte abitate  in epoche remote nella baia di Torre Uluzzu,  fornendo così la possibilità di provare il passato preistorico all’area costiera neretina.

Spetta ad Alfredo Sanasi il compito più arduo, quello di legare Santa Maria alla tradizione quanto meno romana di Nardò, ed è in questo buona guida uno degli ultimi scritti di Francesco Ribezzo (ed. 1952)…

 

… il progresso dei tempi, e in particolare la lunga stagione medievale, consente sguardi più approfonditi perché le testimonianze e i documenti si moltiplicano, grazie soprattutto al fatto che in Santa Maria l’importante Ordine Teutonico possedeva un’abbazia, poi col tempo trasformata in masseria (la masseria ‘del Fiume’ già ‘del bagno’); e se pure di essa sopravvive soltanto, immersa nell’abitato, una torre (cinquecentesca) d’avvistamento, la documentazione superstite è invece apprezzabile, ed è stata oggetto, per vari profili ed epoche, di più studi, dal Coco a Benedetto Vetere allo stesso Marcello Gaballo che ora ne fa chiara sintesi in un capitolo di questo volume, mettendo a frutto anche gli studi di H. Houben nel frattempo venuti alla luce…

… Si devono a Paolo Pisacane gli ultimi capitoli del volume, ed è in questi capitoli che muta notevolmente il modello di informazione e di comunicazione proposto ai lettori. Intanto Pisacane narra le vicende di Santa Maria in concreto dalla fine dell’Ottocento in poi, cioè dal momento in cui Santa Maria, dove qualche stabilimento balneare c’era stato anche in antico, rinasce nella forma di centro di villeggiatura secondo la mentalità borghese, perché la ‘villeggiatura’, l’affrontare ‘in villa’ la calura estiva, esprime una mentalità ed è un’invenzione di tipica matrice borghese…

… La memoria che ci offre Paolo Pisacane nei primi suoi capitoli è anzitutto quella che gli ha trasmesso la sua famiglia, che dalla fine dell’Ottocento risiede stabilmente a Santa Maria, ed i ricordi che ci vengono incontro sono legione: l’edificazione delle ville ed i palazzi signorili sulla piazza, gli stanziamenti di famiglie di pescatori (i primi residenti), gli spacci ed attività commerciali della prima ora…

 

C’è tuttavia un capitolo molto importante tra quelli proposti da Pisacane ed è quello che narra la vicenda, dalla fine del 1943 al 1947, dei molti ebrei, liberati dai campi di concentramento, ma anche di slavi evacuati dai loro territori: tutti internati nel campo-profughi nr. 34 che, appunto, faceva centro in Santa Maria, con gli aggregati di Santa Caterina, delle Cenate e Mondo nuovo (altri campi erano a Leuca, a Santa Cesarea, a Tricase marittima). La presenza di case e ville abitate solo d’estate, semplificava i problemi di insediamento di tutta questa gente priva di qualunque proprio sostegno, ma a volte anche violenta.

Si tratta di una storia della cui importanza ci si è accorti ad iniziare dalla metà degli anni Ottanta dell’altro secolo ed è una storia che senza la vigile curiosità e l’attenzione di Paolo Pisacane non si sarebbe potuta scrivere, o non si sarebbe potuta scrivere con la complessità di temi che oggi conosciamo…

Libri| Santa Maria al Bagno

 

Venerdì 10 settembre 2021, alle ore 20, sul piazzale antistante la chiesa di Santa Maria al Bagno, sarà presentato il volume Santa Maria al Bagno e l’accoglienza ai profughi ebrei, di Paolo Pisacane e Marcello Gaballo, con contributi di Salvatore Inguscio, Emanuela Rossi e Alfredo Sanasi, edito da Mario Congedo di Galatina. La presentazione sarà a cura del prof. Giancarlo Vallone, docente presso l’Università del Salento, e del magistrato Francesco Mandoj, Procuratore antimafia. Sarà anche presente l’editore Mario Congedo.

Grazie alla redazione collettiva si aggiungono ulteriori tasselli per una migliore conoscenza della complessa storia dell’importante località, a cominciare dalla preistoria, per proseguire con il periodo romano e messapico, quello medievale con le vicende dei cavalieri teutonici e della masseria Fiume, la cinquecentesca torre sulla costa poi diventata “Quattro Colonne” con le innovazioni dell’Ing. Caroli e di Egidio Presicce.

Molto corposa è la storia contemporanea del borgo, con le vicende dell’accoglienza agli slavi ed ebrei (1943-1947), tutti internati nel campo-profughi nr. 34 che, appunto, faceva centro in Santa Maria, con gli aggregati di Santa Caterina, delle Cenate e Mondo nuovo, la successiva scoperta dei murales conservati in una casetta da sempre semidiruta, e dei quali fu autore uno di questi profughi, Zivi Miller, e la nascita del Museo della Memoria e dell’Accoglienza, sino alla realizzazione dell’Oasi, che la fece diventare uno dei centri più noti della riviera jonica, rinomato centro di svago e di villeggiatura estiva.

Il volume di grande formato e particolarmente curato, contiene una ricchissima documentazione fotografica in buona parte inedita, proveniente da archivi privati.

 

In copertina: Santa Maria al Bagno, notturno di Khalil Forssane

L’amara estate del 1900 a Nardò e nel Salento

di Egidio Presicce

La continua e progressiva diffusione dell’infezione fillosserica in tutto il territorio era diventata un particolare momento politico per tutti i “fazzoletti rossi”, che con saltuari movimenti popolari erano diventati una specie di colonna sonora che disturbava il già difficile respiro economico del medio e basso ceto. Lo slogan che veniva schiamazzato nel cuore della città e dinanzi ai palazzi dell’alta classe era sempre “abbasso i padroni”.

L’eclatante antagonismo con la classe dirigente e l’atavica ignoranza di base erano le sole forze magnetiche che tenevano questi “signori” lontani dal reale momento politico. Infatti il ministro dell’agricoltura da tempo seguiva, documentava e si muoveva scientificamente per combattere l’epidemia e rivitalizzare l’agricoltura. A tal’uopo lo Stato con la legge 6 giugno 1901 N. 335 istituì i consorzi antifillosserici nelle province di Foggia, Bari e Lecce e impiantò un vivaio  di viti americane nelle Tremiti, dal quale si trasse il legno di pregiate specie e varietà di portinnesti per la piantagione dei numerosi vivai consorziali nella Puglia.

Questa legge fu un incoraggiamento per quella parte di viticoltori che era già decisa a passare allo svellimento dei vecchi, scheletriti vigneti ed affrontare sacrifici economici per operare nuovi impianti con le consigliate e selezionate piante di viti americane. L’inizio dell’importante operazione di rinnovamento venne ritardato dalle perplessità rimaste ai lavoratori della terra dopo la triste annata causata dalla forte infestazione peronosperica, che portò a totale marcimento il misero frutto di tutti i già deperiti vigneti. Si trattò di un sorprendente epilogo determinato dalla precedente estate interamente coperta da persistenti ed abbondanti piogge.

Questo inspiegabile sconvolgimento climatico fece risvegliare le antiche credenze in non poche persone che lo segnalarono come uno dei tanti fatti oscuri nascosti nel futuro del corrente secolo. Tra questi barlumi di sospetti e immaginazioni si unirono altre isolate voci provenienti dalla classe alta, che indicavano sempre il ritorno alla pastorizia.

Qualche altra voce, sempre della stessa classe, indicava la bachicoltura per la produzione della seta, di cui una prima coltura sperimentale era stata avviata in una campagna nelle vicinanze della chiesa dell’Incoronata. L’opinione pubblica del medio e basso ceto restava trincerata nel ciarlìo relativo all’incredibile estate piovosa, respirando un pessimismo che la teneva lontana dalla realtà cittadina del momento. In quel turbinio di voci, pareri, paure ed incertezze c’era chi si azzardava a dare per probabile il ripetersi dell’avara stagione.

A tentare di  tranquillizzare le depresse conversazioni intervenivano i più anziani e tra questi anche dei mendicanti, che esprimevano il proprio parere raccontando vecchi ricordi. Ad esempio, la lontana estate trascorsa quasi con il gelo ed i mietitori che andavano a mietere il grano indossando il cappotto. Oppure  la caldissima e secca estate che durò sino alla fine del mese di novembre, senza mai una goccia d’acqua vista cadere sul terreno arido. Ognuno di questi racconti veniva chiuso con l’abituale giaculatoria: “sape Ddiu cce ha fare”.

Cinque anni dopo l’amara estate del 1900 c’era ancora chi, durante la serata nei circoli o nelle cantine, si accostava a qualche amico dando inizio ad una rivangatura dei tristi ricordi della disastrosa peronospora “ti lu noecentu”. Questo ormai vecchio argomento già conosciuto da tutti, quando veniva raccontato, richiamava l’attenzione di altre persone che si avvicinavano quasi con il dovere di intervenire allo scopo di rafforzare la verità dei fatti. A smuovere l’opinione pubblica dall’inutile ripescaggio di vecchi ricordi non ebbe effetto neanche la notizia riguardante l’inizio della fase di completamento del Teatro Comunale, per il quale dieci anni prima vi furono lunghissime polemiche nella piazza e nei consigli comunali sempre all’insegna dello scontro “teatro sì – teatro no”.

Il teatro, che affascinava tutta l’alta classe della città, nel popolino suscitava solo una trepidante attesa per la curiosità di conoscere la tanto discussa opera pubblica. Erano queste le due voci che evidenziavano il contrasto culturale dominante nel popolo.

(tratto da Egidio Presicce (1927-2017). Luci ed Ombre di un’Epoca. Nardò nel primo cinquantennio del ‘900: avvenimenti, personaggi, usi, costumi (Besa edit., Nardò 2019, pp. 202)

Libri| Egidio Presicce. Luci ed ombre di un’epoca a Nardò – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

La notte del 31 dicembre 1899 a Nardò

 

di Egidio Presicce

… Questi avvenimenti si inserivano al centro della scenografia generale della città quando già era stato avviato il conto alla rovescia per l’addio al vecchio secolo. L’alta classe da tempo aveva organizzato e predisposto come, dove e con chi si voleva dare festoso colore alla storica mezzanotte.

Era in atto un movimento di iniziative che coinvolgeva le alte classi, ove i propositi che erano stati ventilati nei palazzi giungevano al popolino che, attraverso uno scambio di vedute “da pittaci a pittaci” si trasformavano in modestissime forme di festeggiamento attentamente condizionate da quelle che erano le espressioni economiche dei nuclei familiari partecipanti.

Tutte le attenzioni mirate per fare baldoria alla fine del secolo avevano assunto un significato di scongiuro e si sperava che l’epidemia “fillosserica” potesse restare ancorata al passato. Era quasi tutto pronto per richiamare l’attenzione popolare: batterie (fuochi pirotecnici) in città e nelle masserie, balluni (mongolfiere), un servizio speciale della Banda Verde per le vie della città ed un travolgente entusiasmo che teneva in allerta l’intera popolazione. La maggior parte delle persone passò la notte di San Silvestro nell’intimo familiare in attesa di sentire i rintocchi della campana di San Domenico che per tradizione, alla mezzanotte, salutavano la fine del vecchio anno e l’inizio del nuovo.

Dei pochi baccanali avvenuti nella notte si parlò il giorno dopo, ma di uno soltanto si ebbero notizie: il raduno di fine secolo vissuto nella masseria “Ghiasciu” (Olivastro), ove tutti gli ospiti del nobile don Enrico Personé vennero storditi dal buon vino che avevano consumato per bagnare il profumato arrosto di circostanza. Ciò era riferito in segreto dal massaro Gaetano, che si raccomandava caldamente di non dir niente ad altri. Per la Città il nuovo secolo era entrato all’insegna della curiosità e dell’ansia.

Il 1900 aveva da aprire al pubblico le porte della Cattedrale e ciò avvenne il 25 maggio. In quella storica data la cittadinanza si sentì folgorare dal meraviglioso equilibrio cromatico del contesto pittorico espresso negli affreschi del grande artista. Un’opera che segna una parentesi di cultura testimoniata dalle eloquenti tematiche compositive in cui, nel rispetto estetico ed architettonico-ambientale, si fa richiamo ad incontestabili fatti ed avvenimenti che conferiscono eccellente risalto alla storia della Chiesa e della Città.

L’apertura della Cattedrale significò per il popolo neritino un grande auspicio, che invitava a sperare in un sereno futuro estraneo alle immaginazioni fiorite per le oscure dicerie, previsioni ed azzardati collegamenti con i tristi avvenimenti del passato. Un nuovo clima sociale dava vita alla Città per il crescendo di ottimismo suggerito dall’antica espressione “mundu è statu e mundu sarà” e per le iniziative di progresso già in fase di completamento e destinate ad arricchire l’immagine cittadina. Due mesi più tardi, esattamente il 29 luglio, un’improvvisa ombra di dolore oscurò gli animi di tutti gli italiani: “l’assassinio di Sua Maestà Umberto I avvenuta a Monza per mano dell’anarchico Gaetano Bresci”. Questa pesante tristezza fu collegata dai vaticinatori anziani alle tenebrosità tenute nascoste dal nuovo secolo. Nella piazza, per giorni e giorni, si parlò solo di questo con sbigottimento e paura. I ben noti anarchici locali, tutti analfabeti, facevano serpeggiare la voce che considerava il criminoso gesto “un valoroso inizio di lotta insurrezionale per liberare il popolo dalla schiavitù”.

(tratto da Egidio Presicce (1927-2017). Luci ed Ombre di un’Epoca. Nardò nel primo cinquantennio del ‘900: avvenimenti, personaggi, usi, costumi (Besa edit., Nardò 2019, pp. 202)

Libri| Egidio Presicce. Luci ed ombre di un’epoca a Nardò – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Libri| Sulla giostra della memoria

Mario NANNI, Sulla giostra della memoria, ed. Media&Books, 2021

 

di Maria Rosaria Manieri

Ho appena finito di leggere il nuovo libro di Mario Nanni Sulla giostra della memoria (ed. Media&Books 2021), da qualche giorno in libreria. Una miniera di racconti, di scene di vita vissute, di ricordi e di aneddoti gustosi, di motti e modi di dire, di personaggi legati all’infanzia dell’autore, che nell’insieme compongono un affresco quanto mai vivo di una comunità antica che ha nella famiglia il vero asse portante.

Masseria Fiume riemerge dal profondo della memoria dell’autore come luogo del cuore, segnato da un tempo e da uno spazio nei quali l’esistenza scorreva in una cerchia di volti familiari e in una comunanza di vita e di lavoro propria della famiglia di un tempo.

Difficile non sentire sotto traccia il coinvolgimento affettivo ed emotivo dell’autore quando rievoca la figura del nonno, massaro Paolo, con il suo umorismo e la sua sapienza pratica, la sua capacità di seduzione o del bisnonno, fattore Pantaleo e dei genitori Otello e Giuseppina o non commuoversi quando ricorda con pudore il primo incontro con Mercedes, la ragazza che poi diventa sua moglie e di cui si avverte ancora vivo il dolore per la perdita oppure non cogliere gli accenti di tenerezza con cui parla dei nipotini, Alessandro e Giulia.

Al di là del distacco narrativo, di cui l’autore si fa scudo, il libro è anzitutto un bellissimo atto d’amore verso la propria famiglia e la terra d’origine, il Salento della sua infanzia, un Salento che non c’è più o che va scomparendo e di cui Nanni fa rivivere la vita quotidiana, il sistema di valori e di relazioni sociali, “il ricco patrimonio verbale e sonoro, tramandato di padre in figlio” con l’intento di conservarlo e sottrarlo all’oblio Quelli della mia generazione si immedesimeranno in molte pagine del libro.

Mi sono vista bambina giocare a tuddhi o alla staccia. Ho sentito la voce di mia nonna paterna che alla nascita di ogni mia sorella (siamo cinque!) girava per casa lamentandosi : “povero figlio mio un’altra cambiale!”. Ho rivisto mia madre che vendeva l’olio di produzione familiare per fare “la dote” alle figlie o intrecciare la frangia di asciugamani tessuti al telaio di cui conservo qualche esemplare.

Mi è tornato in mente l’episodio di mio padre che, il giorno del referendum del 1946, tornato immusonito a casa, perché a Nardò e in generale nel Sud aveva vinto la monarchia, alla notizia della vittoria della Repubblica su scala nazionale, grazie al vento del Nord, come disse Nenni, mi prese in braccio e in un’esplosione di gioia mi lanciò a palla in alto, tra le urla spaventate di mia madre, che più volte mi descrisse la scena. E poi il clima da guerra fredda delle elezioni del 1948, con la nascita dei comitati civici e la discesa in campo in ogni paese delle gerarchie ecclesiastiche, clima che è durato fino agli anni sessanta del ‘900.

Dopo la famiglia e la chiesa, i fari della memoria dell’autore si accendono sulla scuola del tempo. Anche qui il racconto ha una straordinaria forza evocativa di scene, situazioni, esperienze vissute, che hanno un filo  autobiografico e che tuttavia approdano a considerazioni generali come “la fortuna di avere bravi maestri”.

Nanni fa rivivere alcuni di questi maestri che hanno segnato la sua formazione, tra tutti Nicola Borgia, della sinistra democristiana, poi diventato senatore e Luigi Tarricone, figura di grande fascino intellettuale e umano, leader dei socialisti pugliesi, che esercitava su noi giovani degli anni sessanta che volevamo cambiare il mondo un’incredibile attrazione. E’ nella sezione del PSI di Nardò che io ho conosciuto Mario Nanni e ricordo le nostre lunghe discussioni nei direttivi e nelle assemblee di partito, prima che egli si trasferisse a Roma, diventato giornalista professionista e poi giornalista parlamentare, caporedattore autorevole dell’ANSA, una delle agenzie d’informazione più accreditate.

E poi l’Università di Lecce, oggi del Salento, nella quale  insegnavano  all’epoca professori di chiara fama nazionale che durante la contestazione del ’68 e fino agli anni ’70 si rifugiavano nelle piccole università di periferia. Nell’Università di Lecce di cui Nanni ci restituisce il clima e il fervore di quegli anni, io muovevo i primi passi della mia carriera accademica, vincitrice di uno dei primi assegni di ricerca e in seguito del concorso ad assistente ordinaria e poi di professore associato alla cattedra di Filosofia Morale, tenuta dal Prof. Antimo Negri, che nel libro rivive con la sua personalità di filosofo raffinato e talora un po’ eccentrico e al quale ho avuto l’onore di succedere.

Impossibile non farsi coinvolgere, non salire sulla giostra della memoria, che l’autore fa girare con una straordinaria maestria narrativa e forza di affabulazione, accendendo a sua volta nel lettore miriadi di ricordi.

Una “festa della memoria” ha definito Nanni il suo libro con un’espressione quanto mai felice, ma il libro è anche un elogio di essa, che in un presente smemorato come il nostro diviene con leggerezza sguardo critico sul mondo.

Mi sono chiesto infatti cosa unisca Sulla giostra della memoria agli altri due libri di successo di Mario Nanni, Il curioso giornalista (Media&Books,  2018) e Parlamento sotterraneo (Rubettino,2020).

Certamente la piacevolezza della scrittura; l’abilità a far rivivere, affabulando il lettore, luoghi e personaggi, sia che si tratti del Corridoio dei passi perduti di Montecitorio o della Masseria Fiume, sia che si parli di Andreotti, Craxi, Cossiga o di massaro Paolo e del calzolaio Otello; l’originale tecnica narrativa di comporre una materia in sé frammentata, fatta di squarci e di racconti brevi che incuriosiscono e si leggono di un fiato, in un puzzle che alla fine forma un disegno unitario sorretto da un’ispirazione che dà un senso, mai banale, a tutta l’opera.

In Parlamento sotterraneo è il bisogno di restituire dignità e valore al Parlamento, casa della democrazia, Sulla giostra della memoria è l’esigenza nascosta di punti fermi di riferimento in una società disorientata ( i genitori, i maestri..), di assi valoriali e di certezze cui ancorare la fragilità dell’esistenza individuale nel mare grigio della società liquida contemporanea.

La memoria, quindi, non tanto come nostalgia di un passato che non torna più, ma come sfida per il futuro.

Il Pittore Dominicus Carella

a cura di Angelo Sgura

 

Sac. Giuseppe Grassi, da Tapas, anno IV – 1929

Non possiamo affermare con certezza assoluta ove e quando precisamente nacque il pittore Domenico Antonio Carella. Lo si ritiene, comunemente, nato in Martina Franca, ma, in realtà, il suo nome non appare ne’ libri battesimali di questa insigne collegiata; le mie ricerche in proposito, come quelle dell’illustre amico Amilcare Foscarini, conclusero a egual risultato negativo.

Certo è che si sposò in Francavilla Fontana con Vincenza Maria L’Abbate. Ma anche delle sue nozze va corretta la data propostaci da Pietro Palumbo. Secondo il Palumbo si sarebbe sposato il 16 luglio 1757, ed anche io, in altra mia pubblicazione, affermai lo stesso, indotto in errore da una carta volante, che si conserva nell’Archivio Parrocchiale di Francavilla, e che mi fu mostrata. Ma, venuto più tardi in legittimo sospetto dell’autenticità di quella carta, tornai a Francavilla, e rinnovai la ricerca. Rinvenni allora il vero atto di matrimonio del Carella. Eccolo, qual si legge in un registro che novera i matrimoni dal 2 agosto 1744 a tutto il 1763, a pag. 30, retro:

« Die 8aMaii 1746 – Dominicus Antonius Josephi Carella et Vincentia Maria Michaelis L ‘Abbate Matrimonium iter se legittime contraxerunt in facie Ecclesiae per verba de parti mutuo consensu exceprimentia in dicta Collegiata Insigni Ecclesia inter Missarum solemnia modo et forma in S.C.I. factis eosque coniunxit D. Caietanus Arsenio substitutus de ordine et mandato Ill,mi D.Ni Archiep. Prasentibus pro testibus Nicodemo di Quarto Nicola Francischillo ed Angelo Gianfrate>>.

Di qui appare che il Carella non nacque verso il 1738, come vorrebbe il Palumbo perché allora sarebbe passato a nozze nell’età press’a poco di otto anni. Probabilmente, come ne inferì il Foscarini, nacque verso il 1721 al tempo della morte infatti contava <circa 90 anni», come si legge nell’Archivio Parrocchiale di Martina, e più precisamente < 92 anni », com’è notato nell’Archivio Comunale.

I primi lavori del Carella rimontano al 1750. In Martina i germani signori Carmelo e Domenico Fanelli posseggono una tela, Il cieco Belisario, che porta scritto: « Francesco Ribbera – Carella imitavit – 1750».

Sincroni sono sia il Gesù in casa di Pilato, – su cui si legge: « Conversano, 22 giugno 1750 » – sia i due bozzetti in rame L’Assunta e S. Rocco: tutt’e tre, insieme con non pochi altri ritratti, conservati in Francavilla da parenti, si disse, del pittore, ma che io non riuscii a vedere.
Ben osservai invece le tele che sono in quella Parrocchiale, e mentre il De Giorgi e il Foscarini ne noverano sei, io ne contai otto.

La prima, in ordine di tempo, fu quella che m’indusse a ritener nato in Francavilla, anzi che a Martina, il nostro pittore. È la Madonna del Rosario, che una volta dominava l’altare maggiore, e oggi è collocata in una stanzetta tra il coro e la sacrestia. La Vergine, col S. Bambino tra le braccia, presenta la mistica corona a S.. Domenico, che è in ginocchio, e a S. Rosa, mentre schiere d’angeli le volitano tutt’intorno. Vi si legge: <Dom.cus Carella e Francavilla. 1750. E che il pittore abbia sortito i natali in quella città angioina, che della Franca Martina è gemella, ci è confermato dall’architetto Sante Simone.

Parlando de’ lavori di restauro o di rimodernamento fatti eseguire nel Duomo di Conversano dal vescovo Mons. Fabio Palumbo, all’anno 1775 egli dice così: Il pittore Domenico Carelli di Francavilla Fontana eseguì per ducati quindici (!) la pittura dèll’abside centrale dietro l’altare maggiore». La quale pittura aggiungiamo – rappresentava l’incoronazionc della Vergine, e fu preda delle fiamme nell’ incendio che distrusse la storica cattedrale conversanese nel luglio del 1910.

Prova definitiva dovrebbero darci i libri parrocchiali della stessa Francavilla. Ma io li riscontrai diligentemente, e non vi rinvenni il desiderato atto di battesimo, come non lo aveva rinvenuto Pietro Palumbo che cita artisti settecenteschi della sua città natale, ma affermò essere il Carella nato a Martina. Non ancor soddisfatto, ultimamente pregai quel parroco,. don Giuseppe Formosi, a ritentar l’indagine per conto suo, ed egli così mi riscrisse: «ho riscontrato i libri de’ battezzati dal 1705 al 1735, e non ho trovato registrato il battesimo di Domenico Antonio Carella ».

 

Ma torniamo alle tele carelliane di quella chiesa.

Due ve ne stanno su altari: una, sul terzo a destra, rappresenta S. Giovanni con S. Lorenzo,  S. Stefano e S. Francesco, e reca la firma dell’artista con la data 1761; la seconda, di fronte, sul terzo altare a sinistra, rappresenta L‘Addolorata, anch’essa firmata, ma datata il 1769.

 

 

Due grandi tele sono su’ laterali del Coro, dietro l’Altare Maggiore: a destra La conversione di S. Paolo, a sinistra La tradizione delle somme  chiavi a S.Pietro. Per esse il pittore ricevette sessantacinque ducati, mentre per la Madonna del Rosario ne aveva ricevuto cinquantacinque.

 

 

 

Ancora due tele si trovano in fondo al lato destro del tempio, nella cappella speciale dedicata alla Madonna della Fontana, cui si accede anche dal presbiterio. La prima rappresenta il Rinvenimento del quadro della Tutelare; ha la firma e la data del 1777.

Il dipinto che, come su vi notò l’artista, fu eseguito a spese di Tommaso Salerno e de’ suoi figli Giuseppe e Nicola – riproduce la leggenda religiosa dell’antico quadro bizantino, avvenuta il settembre del 1310 nel luogo stesso ove Filippo d’Angiò, principe di Taranto,  avrebbe fatto costruire la cappella primitiva della Madonna della Fontana.

Bel risalto vi ha la figura di mastro Elia Marrese, quegli che, balestrata la freccia contro del cervo, se la vede ritornare contro se stesso. La seconda tela riproduce il miracolo del Rinverdimento degli olivi; porta anch’essa la firma, con la data del 1779.
In fondo al lato sinistro della chiesa, e anche con un secondo accesso del presbiterio, – s’apre il Cappellone del SS. Sacramento; qui troviamo l’ottava tela del Carella, La Cena, così lontana da quel grado di perfezione, che l’artista doveva più tardi raggiungere, trattando l’identico soggetto per la collegiata di Martina Franca.

 


Lavori del Carella si rinvengono a Mesagne, – nella- chiesa annessa al convento dei’ Frati Conventuali, detto di S. Maria di Soleto. È la chiesa che, eretta nel 1425 e restaurata nel 1653, venne ultimamente rifatta e ingrandita, e sempre sotto il titolo dell’Immacolata fu consacrata dall’arcivescovo di Brindisi Mons. Luigi Maria Aguilar, 10 ottobre 1880. Nel suo terzo altare a sinistra c’è la tela di S. Antonio che riceve tra le traccia il Bambino Gesù firmata e datata il 1759. Di fronte, sul terzo altare a destra, c’è S. Francesco d’Assisi, con la data del 1757, e non già del 1767, quale la ri-produssero il De Giorgi e il Profilo.

Quattro altre tele si trovano a Massafra, nella chiesa delle Benedettine: sul primo altare a destra, La Presentazione di Gesù al Tempio, firmata e datata il 1764; sul secondo La Galilea, con egual firma e data; sul terzo la bellissima Deposizione di Gesù dalla croce, che i Francesi volevan portar via a’ princìpii del secolo XIX, e che conserva tuttoggi il sigillo in ceralacca da essi apposto; sul secondo altare a sinistra, Il battesimo di Gesù. Probabilmente è della stessa mano La Madonna col S. Bambino, che troneggia dietro l’altare maggiore, nell’abside.

Nella cattedrale di Castellaneta sono cinque tele. Tre stanno nella cappella del SS. Sacramento: Gesù tra gli Apostoli nel Cenacolo del 1796, Cristo che comunica S.Pietro del 1797, e le Nozze di Canaan del 1801 Le altre due ornano i muri del presbiterio, e sono migliori David che balla dinanzi all’Arca e La restituzione dell’Arca da’ filistei agli Ebrei, del 1802.

Luigi De Simone, dopo aver chiamato il Carella « mediocrissimo e manierissinio solimenesco » aggiunse che «in qualcuno di questi quadri trovi due o tre belle teste, qualche persona bene trattata e panneggiata, ma niun partito tolto dalle masse, da’ colori, dagli effetti di luce, dal paese, da glorie, da interni, ecc. »  Giustamente il De Giorni in quel giudizio del collega De Simone notò «molta severità» e chiamò invece quelle pitture « larghe composizioni, un po’ manierate, ma con una discreta intonazione di Colori ».

In Taranto il Carella dipinse un’Immacolata per la chiesa di S. Pasquale, ultimo altare a sinistra. Nell’angolo inferiore destro è riprodotto lo scudo di casa Cantore, ed è scritto: « Tutatricis Mariae Immaculatae conception Ludovica De Cantore ex Taren-tinorum patriciis F.F. »; in quello sinistro: «Dom° Carella 1794 ».

Affrescò pure alcune sale della villa di Monsignor Capecelatro su la baia di S. Lucia, del cui incanto scrissero tanti viaggiatori e, ultimamente, Vito Forleo, il valoroso bibliotecario dell’Acclaviana di Taranto. Il nome del pittore e quello di suo figlio Francesco, che lavorava con lui, furono ricordati in una lapide oggi trasferita nell’Ospedale di Marina:

Martina Franca, la città che D. A. Carella predilesse al punto da chiamarsi e farsi chiamare Martinese, è la più ricca di lavori carelliani.

Non v’è cultore appassionato, o anche semplice dilettante di arte regionale, che non conosca gli affreschi del Palazzo. Ducale di Martina, o che, per lo meno, non ne abbia inteso parlare.

È risaputo che su le rovine d’un Castello qui eretto, a Porta S.Stefano, dal principe Raimondello del Balzo Orsini nel 1388, il duca Petracone V Caracciolo fece sorgere nel 1688 un superbo Palazzo Ducale, che fu e rimane sempre uno de’ più maestosi e de’ più imponenti di tutta la Puglia, e che dal dicembre 1928 è divenuto il Palazzo di Città.

A decorarne le sale ampie e luminose, Francesco III Caracciolo, marito di Stefania Pignatelli e successo al padre Petracone VI nel ducato di Martina il 1771, invitò Domenico Antonio Carella, la cui fama varcava ormai i confini della provincia. Il Carella vi si accinse con ardore, e ultimò gli immani lavori nel 1776.

Nel piano nobile, le due migliori sale del quartiere di mezzogiorno egli decorò alla pompeiana, con figurine rosse su fondo bianco o bianche su fondo nero. « Questi freschi -riconobbe il De Giorgi – sono toccati con molto gusto ed eleganza, e con una certa lindura che ci rivela la mano d’un artista geniale. »

Nella vastissima galleria sporgente a ovest, su Piazza del Popolo, riprodusse costumi del tempo e, se dobbiamo credere alla tradizione locale, personaggi realmente esistiti. Perciò, il Prof. Pietro Marti, dopo aver riconosciuto che il Carella <<fu fecondo nell’ inventiva, ebbe largo e sicuro il disegno, ma mancò di vigore nella tavolozza, difetto, del resto, comune anche a’ grandissimi della sua epoca», aggiunse: « uno de’ pregi caratteristici di questo nobile pittore fu quello di ritrarre carattere e il costume del suo secolo.

Sul muro di destra vi è una Scuola di ballo in aperta campagna; su quello di sinistra La scuola di canto, La Poesia estemporanea, Scene d’amore; su la volta Le Arti belle: larghi affreschi, tutti intramezzati da pomposi fregi e, da medaglioni vari.

Nella sala attigua alla galleria, vi è una scena omerica sul muro di destra, Anchise salvato da Enea; una scena mitologica su quello di sinistra, Il ratto di Proserpina; sul muro d’oriente Atalanta che raccoglie i pomi di  oro gittati da Ippomene in corsa, e una scena campestre; su quello d’occidente La corona al vincitore del drago; finalmente un brutto Carro del sole, che s’avanza tra nuvole di fumo color rossastro, ne copre la volta.

Nell’altra sala che segue, sono scene di storia biblica. Su’ muri Tobia sanato dalla cecità, Mosè salvato dalle acque, Giuditta che mostra il capo reciso di Oloferne, ecc. e, su la volta, La cacciata dal Cielo.

L’esame di tali dipinture faceva così conchiudere al De Giorgi: «Il disegno di questo artista non è sempre molto corretto, ma vi è però del genio nelle sue composizioni. Sulla sua tavolozza egli faceva un grande sciupio di terra d’ambra, ma il chiaroscuro lo toccava molto abilmente ».

Ma particolarmente degna di rilievo pare una sala dell’appartamento interno al cortile, cui si accede per una scalinata riservata. Tutte e quattro pareti han quadretti di scene famigliari. Tra queste, una, dipinta in bistro, rappresenta una signora seduta, con su le gambe e stretta al seno una bimba dalla fronte fasciata con una benda; una fanciulla con un pupattolo tra le mani scherza d’accanto, e assistono altre donne. In alto, a’ quattro angoli della volta, son dipinti i medaglioni de’ quattro Poeti massimi d’Italia. Nel centro della volta, dentro una riquadratura, è dipinta una rappresentazione non decifrabile, e, tutto intorno, il cielo della volta è seminato di farfalle, uccelli, grilli, nottole, draghi volanti policromi. Ne’ soprafregi vi sono sirene alate, che recano nelle mani profumieri fumanti. Su. le pareti son dipinti nastri svolazzanti tra lunghe volute di ramoscelli, da’ quali pendono medaglioni di Santi, e tra gli altri quello di S.Martino. Altri uccelletti svolazzano su’ ramoscelli, e fra i tirsi incrociati sostenenti drappeggiature a festoni si vedono conigli, arpie, altri animali fantastici. Medaglioni di soggetto mitologico pendono da’ tirsi satiri che giocano con animali; un Ercole che solleva in alto un cervo; una pastorella, elegantemente vestita, con cappello a larghe falde, che guida una pecoruzza. Nel decorar questa camera, che probabilmente fu il santuario in cui vissero le famiglie de’ Duchi, l’artista si sbizzarrì a suo beneplacito per le figure, e per colori preferì il rosso e il verde su fondi giallognoli, opalini e perlacei.

Altri affreschi sono in varie sale dell’ammezzato e anche in alcune stanze a pianterreno.

Troviamo affreschi del Carella anche in edifici privari di Martina.

Il palazzo in via Mazzini, che appartenne a una delle più belle e distinte dame del tempo, a D. Romana Montemurro, e che nel 1846 fu comprato dal medico e botanico Martino Marinosci, ha le pareti della galleria affrescate in istile pompeiano e con decorazioni barocche simili a quelle del Palazzo Ducale, Il De Giorgi vi notò che « l’impasto delle tinte è un po’ grossolano e il disegno più libero, ma è trattato con molto gusto». Un ignoto restauratore che tentò ravvivarne i fondi troppo oscuri, li deturpò con brutti colori.

Nel palazzo Fanelli, in via Cavour, sono affrescate due sale con gentilissimi motivi ornamentali.

Il palazzo Motolese, in via Roma, ha affrescata la cappella e la sala maggiore.

La galleria del palazzo, già Recupero, in via Grillo, ha Le quattro Parti delmondo, con esempi della flora e della fauna rispettiva ne’ fregi e ne’ sottofregi.

E di soggetti sacri il Carella disseminò le chiese di Martina. In S. Domenico c’è la tela della Madonna del Rosario, firmata e datata il 1776. In S. Maria della Purità c’è la Madonna della Salute tra S. Tommaso Villanova e S. Nicola, del 1777. In S.Francesco di Paola c’è a tela di S.Antonio da Padova, ormai sciupatissima, ma che lascia scorgere ancor chiara la firma e la data del 1778. Nella cappella suburbana di S.Michele sono due affreschi, La Madonna della luce e S. Michele Arcangelo, e due altri sono nella vicina cappella di S.Maria di Loreto, rappresentanti L’entrata di Gesù a Gerusalemme e La lavanda de’  piedi.

Nella chiesa parrocchiale di S.Martino, il cappellone del Santissimo ha i ventagli del cupolino affrescati con I quattro Evangelisti; vi si legge a lettere cubitali « Dominicus Carella pinxit 1785», e, come scrissi altrove, (2) sono tra i più be’ lavori carelliani, ma furono mal restaurati nel 1844, e oggi son minati dall’umidità. La chiesuola della Masseria Cappella, proprietà del signor Domenico Fanelli, ha una tela della Deposizione di Gesù con firma e data del 1801.

Ma – a voler tacere d’ innumeri altre tele in possesso di privati, e su l’autenticità delle quali non sempre si può giurare – due sono i quadri in cui il Carella mostrò a qual punto di perfezione fosse giunta l’arte sua dopo mezzo secolo e più di attività fecondissima.

Il primo, posseduto da’ su dètti signori Fanelli, fu dipinto nel 1803, e rappresenta Gesù  invitante S..Tommaso a mettergli la mano sul costato. Vive e dolci a un tempo ne sono le tinte; ben espresse la tenerezza del volto del Salvatore e la timida titubanza dell’Apostolo incredulo.

L’altra tela è la Cena, che domina l’altare del Sacramento nell’or ricordata Parrocchia. Le tinte calde e ben intonate, l’esattezza del disegno, gli svolazzi delle pieghe, gli scorci degli angeli nella parte superiore, il contrasto tra la luce che si diffonde su Gesù e su’ Discepoli, e l’ombra che avvolge l’Iscariota traditore, c’ inducono a ritener questa Cena come il lavoro in cui il Carella superò se stesso, dandoci un vero capolavoro dell’arte settecentesca. « Tela – sentenziò il Foscarini – ben concepita e ben eseguita per raggruppamento di personaggi, giustezza di proporzioni, freschezza di colorito ». Porta scritto «Domenicus Carella senior fecit, 1804», e il perché di quel « senior » spiegheremo più innanzi.

La tradizione locale vuole che insieme con la Cena c’era un’altra tela, ben degna di starle accanto, ma che i Francesi la portaron via dopo i torbidi del 1799.

Domenico Antonio Carella morì in Martina il 23 settembre del 1813, come risulta sia da’ registri della Parrocchia, sia da quelli del Comune; oltre il nome del padre, Giuseppe, questi ultimi ci fanno conoscere anche il nome della madre, Laura Agrusta.

La moglie, Vincenza, era premorta il 23 gennaio 1807, all’età di 8o anni.

L’arte del costruire nel Salento. Le coperture “alla margherita”

di Mario Colomba

 

in sostanza erano molto simili a quelle descritte prima ma con la sostituzione delle travi metalliche a doppio T da parte ditravetti in cemento armato della sezione di cm. 20×20, estradossati rispetto alle fette di tufo, armati con 3 o 4 ferri longitudinali del & 12 o 14 a secondo delle luci che non superavano m. 4,50-5,00  e staffe del & 6/25 cm. Questa tipologia di copertura comportava l’uso sia pur contenuto di una certa quantità di legname limitato  al fondo dei travetti ed alle sponde perimetrali dei cordoli esterni,  quando non era presente un corso di muratura di contenimento.

Dal retaggio delle forme arrotondate delle volte murarie, persistette per un certo tempo l’uso di raccordare la verticalità dei muri d’ambito con l’orizzontalità della copertura mediante l’interposizione di un corso perimetrale di muratura,  leggermente sporgente rispetto ai muri sottostanti e leggermente inclinato o sagomato con un arco circolare (canna spaccata). Il limite all’impiego di questa tipologia di copertura fu il notevole peso proprio che portò, come naturale sviluppo, l’introduzione di elementi di alleggerimento in laterizio assemblati in modo progressivamente sempre più efficace con la formazione dei solai latero-cementizi.

 

Solai latero-cementizi

Nelle tipologie originarie,  la caratteristica comune era costituita dall’assemblaggio di volterrane in laterizio per  comporre a piè d’opera  dei travetti che, dopo la necessaria stagionatura, venivano messi in opera semplicemente accostandoli, senza uso di impalcature di sostegno o di casseforme che si limitavano appena ad un rompitratta, con notevole risparmio nell’uso del legname necessario.

Il primo travetto veniva formato predisponendo un piano di assi di legno leggermente arcuato in senso longitudinale con una freccia corrispondente alla monta del solaio e perciò proporzionale alla luce della copertura. La concavità era rivolta verso l’alto o verso il basso a seconda della particolare tipologia.

Dopo aver allineato perfettamente le volterrane, che avevano delle sporgenze laterali (alette), si annegavano negli alloggiamenti in esse predisposti, previa abbondante bagnatura, i ferri di armatura laterali che venivano sigillati con malta cementizia ad elevata percentuale di cemento con un copriferro dello spessore di circa un centimetro; analogamente venivano cementati i ferri di armatura superiori, generalmente di sezione inferiore, nelle apposite scanalature. Sul primo travetto così formato si spargeva un sottile strato di sabbia e quindi si procedeva alla formazione di un certo numero di travetti,  sovrapposti fino ad un’altezza di circa m. 1,50 che permetteva di lavorare senza sforzi supplementari.

Dopo una adeguata stagionatura di qualche settimana,  i travetti venivano messi in opera appoggiando le estremità alle murature e accostandoli progressivamente  fino a coprire l’intera superficie degli ambienti interessati.

Successivamente  si procedeva alla collocazione delle armature metalliche principali, in tondini di ferro omogeneo di adeguato diametro, disponendole nelle cosiddette nervature, corrispondenti al vuoto tra due  travetti contigui determinato dall’accostamento delle alette sporgenti e di quelle della soletta superiore (caldana) costituite da una rete a larga maglia in tondini di ferro omogeneo del & 6.

Con lo sviluppo della carpenteria connesso alla diffusione delle strutture in c.a., la maggiore disponibilità di legname portò, come naturale evoluzione del sistema  alla tipologia  di solaio latero-cementizio gettato in opera. Questo tipo di solaio superava alcuni difetti delle tipologie precedenti connessi soprattutto alla esiguità delle sezioni resistenti che imponevano l’uso di un conglomerato a granulometria sottile che spesso risultava ampiamente alveolato o di scarsa consistenza per difetto di dosaggio di cemento; si risparmiava l’armatura di prefabbricazione connessa alla formazione dei travetti; si riduceva il tempo di posa in opera poiché non occorreva  più attendere la stagionatura dei travetti. Tuttavia, non veniva eliminato il difetto della insufficienza di copriferro delle armature principali che, durante il getto, non sempre venivano sollevate dalla cassaforma per farle avviluppare dal conglomerato. Il risultato negativo consisteva nella formazione di ruggine sulle armature non protette da un adeguato copriferro  che si riscontrava solo tardivamente, quando il fenomeno dell’ossidazione aveva assunto dimensioni distruttive., Questo inconveniente si manifestava specialmente  nelle coperture terminali che, solo da qualche decennio, ora vengono correntemente coibentate  per impedire la formazione di condensa,  generalmente  responsabile dei fenomeni ossidativi.

La continua ricerca ha portato alla messa a punto di innumerevoli tipologie: dal solaio a camera d’aria con travetti prefabbricati accoppiati,  ai travetti semi prefabbricati con armatura a traliccio, ecc., fino all’affermarsi della tipologia più accettata e diffusa costituita da travetti in cemento armato precompresso, armati con trefoli di acciaio armonico in numero e sezioni variabili a secondo della luce. Questa tipologia è ormai entrata nell’uso consueto sia perché ha eliminato tutti i difetti da cui erano affette le tipologie precedenti sia per la relativa facilità ed economicità della posa in opera.

 

Questo e gli altri testi pubblicati a firma di Mario Colomba sono tratti dal suo lavoro:

Zinnananà, un libro sulle bande

Intervista a Giuseppe Corvaglia

di Donato Nuzzaci

 

Siamo qui con Giuseppe Corvaglia, medico e scrittore, per parlare del suo nuovo libro Zinnananà- Storie di bande e musicanti, edito da Youcanprint.  

 

Da dove origina l’esigenza di scrivere un libro sulla banda?

Da ragazzo ho imparato a suonare il flauto traverso in un corso ad orientamento bandistico (dell’ANBIMA) e grazie a Giuseppe ed Oronzo De Giorgi ho fatto una esperienza sul campo che mi ha fatto conoscere un mondo speciale: quello delle bande.

Era un mondo che mi attirava da bambino come una calamita e che, ancora oggi, da adulto, considero come una bellacosa della vita per le gioie che evoca.

Molte volte ho provato a parlarne con racconti, articoli e altri scritti e più volte gli amici mi hanno sollecitato a parlarne, finché ho pensato che un modo nuovo di raccontare la banda era quello di raccontarla dal di dentro, di raccontare la vita quotidiana dei musicanti, le cose belle che si vedono viaggiando di paese in paese e ho capito che per farlo potevo descrivere la mia piccola esperienza che, però, rispecchia l’esperienza della gran parte dei musicanti.

 

Perché hai aperto il libro con la Banda di Galatina, un canto popolare salentino?

La Banda di Galatina, intendo la canzone, è un piccolo rifugio del cuore della mia cerchia di amici. È una canzone popolare che è diventata l’inno della nostra combriccola, ma anch’essa racconta la storia di una banda strampalata che suona sempre la stessa musica…

 

Zinnananà …

Si, Zinnananà, come il titolo del libro. È una storia buffa, ma è anch’essa evocativa. Vedi, nel libro racconto la mia storia di bandista e propongo tante storie di musicanti con i racconti, ma narro storie di banda  anche con le interviste, fatte a Maestri e Capobanda,  con gli articoli, le note esplicative…

 

Che anno era quando hai cominciato?

Era il 1975, avevo 13 o 14 anni. Come ho detto, è stata un’esperienza significativa e formativa. Per qualcuno era disdicevole, come un vagabondaggio da zingari, ma per noi che giravamo l’Italia, che dormivamo in branda, come se fosse un campeggio, che avevamo delle responsabilità e guadagnavamo qualche soldo, era gratificante, ci faceva sentire adulti.

 

Pensi che la Banda stia esaurendo la sua funzione di diffusione della musica colta?

Questa domanda l’ho fatta anche ai Maestri che ho intervistato. La banda fa musica dal vivo e di buon livello, che propone con un insieme di trenta o quaranta persone e ci offre un repertorio complesso e variegato che va dalla musica operistica adattata, alla musica sinfonica, alla musica moderna, fino alla musica pop, con un’intensità paragonabile, con i dovuti distinguo, a quella di un’orchestra.

Oggi occasioni di musica dal vivo sono tante: piccoli ensemble, complessini… Anche il bar di un paesino può proporre musica dal vivo, ma siamo sicuri che quella musica sia paragonabile alla musica proposta dalle bande? Secondo me no. Le bande propongono opere, sinfonie, marce sinfoniche che prendono l’anima e fanno vibrare il corpo senza potenti amplificatori.

Il problema è capire cosa è realmente la banda. In Italia ci sono bande amatoriali, soprattutto al centro-nord, ma anche al sud, e poi ci sono le bande da giro del Meridione che sono delle vere e proprie imprese che cominciano il loro tour a Pasqua e lo finiscono a ottobre.

Alcuni dei Maestri che ho intervistato ne hanno parlato nel libro, spiegandone il meccanismo. Credo, però, che le funzioni di base delle bande siano due: la possibilità di fare musica d’insieme di alto livello e il diffondere musica importante, colta, come dici tu, anche in posti lontani dai teatri e dagli auditorium, e portarla ad animi sensibili che in teatro, magari, non ci sono mai stati.

 

Che differenza c’è con l’orchestra?

Le orchestre hanno personale più qualificato e si esibiscono nei teatri e negli auditorium. La banda, come la conosciamo, nasce grazie all’opera del Maestro Vessella che la costituisce con strumenti a fiato, sostituendo le parti dei violini con i clarinetti, di viole e violoncelli con sassofoni e adatta le parti di canto con ottoni: flicornino, flicorno soprano, tenore e baritono. In questo modo Vessella adatta musica classica, operistica, sinfonica a questi complessi. Tuttavia se senti alcune bande, come era Ailano, diretta dal Maestro Samale, o Conversano del Maestro Schirinzi o della Maestra Pescetti, ma molte e molte altre bande senza distinzioni, propongono pezzi complessi di Dvorak, Brahms, Puccini Verdi con ottimi risultati.

Certo se la banda viene considerata  un sottofondo per gente che chiacchiera ai tavolini è inutile. Più funzionale è uno stereo con altoparlanti o un piano bar, ma se la gente viene educata ad apprezzare il valore della musica proposta, allora la banda diventa essenziale.

Quando dico apprezzare intendo proprio attribuirle il valore che merita.

Immagina un Palazzo del ‘500; se lo consideri una cosa antica, preziosa, lo restauri e lo valorizzi, ma se lo consideri vecchiume, lo abbatti e lo sostituisci con una casa moderna.

Lo stesso vale per la banda, ma è da considerare obsoleto un complesso di fiati che esegue musica dal vivo in maniera eccellente? Per me no.

 

Pensi che sia necessario rilanciarla coinvolgendo anche i giovani e in quale modo?

Molti dei musicanti sono giovani: ci sono giovani che conoscono Brahms, Verdi, Beethoven, Mozart, Puccini, Berio… Non sono marziani. I giovani apprezzano la buona musica. La musica di qualità è meravigliosa, ma devi avere gli strumenti per assaporarla, per coglierne il significato reale e solo così la puoi apprezzare davvero. Ecco che ritorniamo al punto precedente: occorre una educazione del pubblico.

Vedi, assaporare la musica colta, la poesia, il teatro, un’opera d’arte, è importante per tutti. Non ti dà un vantaggio diretto per il tuo lavoro qualunque sia, ma ti migliora come essere umano, rende più gradevole e più degna la tua vita e se sei migliore come uomo o donna sarai migliore anche come medico, operaio o contadino.

Un giovane, che ha la possibilità di ascoltare nella piazza del suo paese Puccini, Dvorak, Bizet, dovrebbe considerarla un’opportunità.

Certo potresti dirmi c’è youtube, spotify e altre diavolerie, ma la musica dal vivo è qualcosa di diverso, evoca altre sensazioni.

Ripeto, un conto è ascoltare musica dal vivo e un conto è ascoltarla dal cellulare. Certo non è che si possa ascoltare tutti i giorni, però l’occasione della festa diventa un’occasione preziosa.

Mi piace ricordare i Maestri che hai intervistato: Samale, Guida, Gazzano, i fratelli de Giorgi, Paiano e Managò…

L’intervista ai Maestri l’abbiamo pensata con Salvatore Rizzello, perché non mi sembrava completo il libro solo con le storie raccontate e gli articoli. Abbiamo scelto alcuni Maestri di rango come Nicola Samale, direttore d’orchestra e compositore che ha completato con il terzo movimento la sinfonia incompiuta di Schubert; Giuseppe Guida, nostro compaesano, anche lui compositore, direttore d’orchestra e docente al Conservatorio, Paolo Gazzano che dirige la banda di Pietra Ligure e altre formazioni, i fratelli De Giorgi, figli di Oronzo, che poi hanno proseguito l’attività del padre come direttori o manager, il Capobanda Romeo Paiano, che ha fatto la banda ad alti livelli per 50 anni, e il Maestro Managò che insegna al Conservatorio di Vibo Valenzia e ha una instancabile attività di direzione e formazione di bande.

 

Dal tuo libro sembra che ai vostri tempi, con Giuseppe De Giorgi, la possibilità di una banda a Spongano potesse diventare realtà…

L’opera di De Giorgi fu meritoria e molto significativa: ci fece fare una bella esperienza che d’estate ci consentiva di suonare in una banda grande, qualcuno anche in Bande importanti con Maestri importanti, e d’inverno di guadagnare qualche soldo con gli spezzoni, ma non c’erano risorse per fare una banda vera e propria. In questo conta la sensibilità della cittadinanza e la volontà dell’Amministrazione comunale. Se chi amministra vede la banda come progetto si può fare, ma se non si ha progettualità non si può realizzare. Questo, però, non è necessariamente un difetto: ci può essere progettualità per una banda oppure progettualità per altro, come una squadra di calcio o di pallavolo, o per il teatro…

Ma pensi che ci siano i margini per promuovere una banda a Spongano a cui possano partecipare giovani e “giovani dentro”? Se sì, come e chi potrebbe organizzala e quali maestri potresti vedere oggi a guidarla?

Una scuola di musica popolare potrebbe essere la base di una costruzione, ma non mi sembra ci siano i presupposti per fare una banda, anche se i giovani, che potrebbero aderire, ci sono e credo che anche adulti, uomini e donne, con la passione potrebbero mettersi in gioco seriamente, ma perché si realizzi è necessario che ci sia una mente che ci creda e che abbia un progetto, può essere un Maestro che insegna ai ragazzi, ma anche un cultore che, magari non sa leggere la musica o suonare uno strumento, ma ha passione e capacità organizzative. Ci vogliono risorse, ma ci vuole soprattutto tanta passione e tanta pazienza.

 

Una banda a Spongano dovrebbe essere una banda “pura” o dovrebbe indulgere alla “contaminazione”, come adesso va di moda?

Il discorso della contaminazione, dipende dal Maestro. Il Maestro è l’anima della banda: è lui che sceglie il repertorio e che guida la banda. Se i musicanti lo seguono in queste scelte e lo fanno con entusiasmo sarà un successo, se non sono appassionati il repertorio non funzionerà.

Io l’ho visto anche con la banda di Pietra Ligure: Paolo Gazzano propone brani classici anche complessi, ma propone anche brani di cantautori come De Andrè e Gino Paoli o anche brani di compositori contemporanei, strizzando l’occhio anche al gusto del pubblico. La versatilità può essere utile. Persino se si decide di suonare la pizzica, la banda lo può fare; ci sono brani di musica popolare proposti con la banda, lo ha fatto Luigi Mengoli, anche bene. Dipende però dal Maestro che, come ho detto, è l’anima della Banda.

Quale pensi che possa essere il ruolo della scuola, a partire dalla scuola primaria, nell’avvicinare i giovani alla fruizione della musica? Penso alla musica classica, alla musica di banda, ma anche alla musica in generale .

L’educazione musicale non è solo una materia in astratto è qualcosa che arricchisce l’animo a prescindere dal mestiere che si è scelto di fare. La musica, come ho detto, fa star bene tutti gli uomini senza distinzione di censo, di ruolo, di capacità. Oggi le scuole fanno educazione alla musica in maniera concreta e c’è una sensibilità maggiore.

Sono tanti i progetti, già alle primarie, per intenderci quelle che erano le elementari, che coinvolgono i bambini a suonare, ma anche a conoscere e vivere l’opera lirica anche a teatro, come fanno i Fratelli Spedicato qui a Lecce, e le adesioni sono entusiasmanti.

Poi alle secondarie di secondo grado ad indirizzo musicale, le vecchie medie, si può fare un percorso suonando uno strumento specifico ed ecco che il gioco è fatto: suonando puoi sperimentare e capire da dentro la musica e anche il fruirla sarà diverso.

Ecco la scuola sta già facendo molto. Più di una volta i ragazzi della scuola “media” a Spongano hanno accompagnato il corteo delle Panare della scuola come una vera e propria bandicella. Poteva sembrare patetico, ma invece era un’esperienza importantissima, un risultato di eccellenza, che va oltre il solito saggio di fine anno.

 

Ma quindi chi potrebbe formare una banda a Spongano? Mengoli, Guida…

Sì, sono degli ottimi professionisti, capaci e non sono io a dirlo, lo dicono i fatti, ma hanno i loro progetti. Il problema è che non vedo i presupposti per fare una banda, manca la spinta dal basso, il mettersi in gioco, invece sarebbe molto piacevole e utile, trovarsi una volta alla settimana, provare e poi esibirsi, non solo per chi già suona nelle bande, penso a gente normale che può imparare a suonare uno strumento anche a 40-50 anni.

Castrignano del Capo, 1974, ritoccata con bordo

 

Secondo te, è opportuno che il lavoro, l’impegno e la professionalità dei bandisti siano adeguatamente  valorizzati sia economicamente, sia sotto il profilo delle tutele sociali oppure è bene che suonare nella banda rimanga un hobby?

Il lavoro deve essere sempre tutelato. In Italia, la Costituzione fonda la Nazione sul lavoro, ma nella pratica non sempre il lavoro ha la dignità che gli è dovuta e questo accade per tutti i lavori e anche per le bande.

Si pretende che i bandisti vadano via a notte inoltrata, si pretende che professionisti siano bravi, e lo sono, te lo posso assicurare, perché la gran parte di loro ha studiato o studia al Conservatorio, ma poi li si vuole retribuire con un cachet basso quando non irrisorio. Ripeto, come in molti campi, si pretende un buon prodotto, ma si tira sul prezzo, quando non si pretendono addirittura prestazioni al limite della dignità.

Poi ci sono le novità come le accensioni spettacolari delle luminarie, gli artisti noti per eventi spettacolari, cose belle, ma effimere che stornano risorse cospicue nella gestione della festa.

Anche la banda, a ben vedere,  effimera lo è. Non dico di escludere le altre cose, ma proviamo a farle convivere efficacemente. Ti faccio io una domanda: come sarebbe una festa senza la banda? Secondo me sarebbe completamente snaturata.

Chi ha fatto i disegni?

Nel libro ci sono anche disegni miei, ma la copertina è di Gianna Cezza che ho rincontrato e che è una disegnatrice, una fumettista di rango. Le ho chiesto di fare la copertina e questo ha ritardato un poco i tempi di pubblicazione, ma ne è valsa la pena: la banda esprime una simpatia incredibile e sul retro c’è il resto della festa come il goloso che mangia il croccante, o i bimbi che comprano noccioline e palloncini: una festa.

 

Un’altra considerazione riguarda la cassarmonica che era il centro della festa e ora tende a scomparire. Cosa ne pensi?

Il discorso della cassarmonica è complesso.

Secondo Samale la cassarmonica raccoglie i suoni e li restituisce solo alla banda o solo a chi sta nelle immediate adiacenze. Non so se questo accada nella realtà, ma so che negli ultimi anni l’accensione delle luminarie ha polarizzato l’attenzione del pubblico e la necessità di creare un ampio spazio scenico può aver penalizzato la cassarmonica che non è considerata più il centro della festa.

Io credo che, come dice Giuseppe Guida,  forse bisognerebbe dotare la banda anche di una amplificazione di modo da far arrivare anche lontano un suono nitido, ma occorre anche pensare all’esibizione della banda come a un concerto che richiede attenzione, non come un sottofondo da intrattenimento per gente che mangia noccioline o bimbi che vogliono i giocattoli.

Forse bisognerebbe ripensare un po’ tutto il meccanismo.

 

Hai delle date per presentare il libro?

Le limitazioni del COVID mi hanno condizionato, come tutti.

Alcuni amici mi hanno chiesto se si poteva organizzare una serata in diversi luoghi. Per ora l’unica serata a cui sto partecipando è quella organizzata dalla Proloco di Spongano a Parco Rini l’11 agosto prossimo alle 21,30, ma appena sarà possibile non mancheranno le occasioni.

L’arte del costruire nel Salento. Preparazione del conglomerato

di Mario Colomba

 

Per alcuni decenni, fino all’inizio degli anni ’50, la preparazione del conglomerato veniva eseguita a mano, senza uso di mezzi meccanici, con una serie di operazioni successive,  nel rispetto delle norme di cui al D.L. n.2229/1939

Nell’ambito del cantiere e, se era di piccole dimensioni, sulla pubblica via, si sceglieva un’area possibilmente pavimentata su cui si disponevano in piccoli cumuli, accostati ed allineati,  i contenuti del numero di calderine di breccia necessarie per la formazione di ciascun metro cubo di conglomerato (che era formato per regolamento da mc. 0,800 di breccia, mc. 0,400 di sabbia di frantoio e q.li 3,00 di cemento); quindi,  orientativamente: 70 calderine di breccia disposte in un rettangolo 7×10. sulla massa così predisposta, dopo averla spianata, si disponevano 35 calderine di sabbia e, dopo aver spianato il tutto, si spandeva uniformemente il cemento proveniente dal numero di sacchi di carta,  da kg. 50 cad., necessari per il dosaggio del 3% di cemento.

Solo dopo alcuni anni si capì che  era più agevole per i paleggiatori disporre la sabbia al primo strato, prima della breccia.

Ai lati della massa così costituita si disponevano, in posizione contrapposta, 2 o 4 paleggiatori che provvedevano a rivoltare il tutto e ad omogeneizzarlo a secco.

Successivamente, con le stesse modalità e con l’aggiunta di piccole quantità di acqua che veniva versata progressivamente (nella misura massima di 120 l x mc.), prima si inumidiva e poi si rendeva pastosa la massa, sempre rivoltandola continuamente con l’uso della pala,  che così assumeva la consistenza e la caratteristica di conglomerato,  pronto per essere trasportato in piano o in alto,  con l’impiego delle calderine,  e versato nel sito di impiego. Risultava difficile e faticoso limitare la quantità di acqua di impasto nella dimensione prescritta. Frequentemente, sia per facilitare la lavorazione che la messa in opera , si aumentava anche del 50% provocando una più intensa evaporazione nella fase di presa del legante con conseguente insorgenza di micro lesioni all’interno del manufatto,  pregiudizievoli per la lunga conservazione.

Il getto del conglomerato,  altrimenti detto calcestruzzo di cemento, comportava la preventiva bagnatura del sito di impiego e delle casseforme per evitare la perdita troppo rapida di umidità con pregiudizio della presa e indurimento del cemento.  Successivamente mediante continua pilonatura, con l’impiego di pestelli o altri attrezzi manuali, veniva favorita la costipazione dell’impasto e la maggiore adesione della malta ai ferri di armatura ed alle casseforme per evitare quelle discontinuità che si manifestavano in superficie con i nidi di ghiaia.

La resistenza finale del calcestruzzo era spesso influenzata da un inadeguato assortimento granulometrico degli inerti. Infatti, la breccia che veniva usata inizialmente era caratterizzata da granuli delle dimensioni di circa 3 cm. con la quale la percentuale di sabbia prescritta dal regolamento con il corrispondente dosaggio di cemento era sufficiente a costituire la quantità di malta necessaria per avviluppare i granuli di breccia. Però, con l’introduzione di sezioni resistenti sempre più limitate ed il conseguente ravvicinamento dei ferri delle armature metalliche,  si manifestò l’esigenza di una scelta granulometrica più sottile. Per conseguenza, la minore dimensione dei granuli di breccia esigeva una maggiore quantità di malta cementizia e quindi di sabbia. Tuttavia, la disponibilità di sabbia era molto limitata poiché proveniva dalla produzione di breccia con l’uso di frantoi a ganasce accoppiati a vagli rotanti che selezionavano limitate percentuali di sabbia rispetto al volume di breccia di  diversa granulometria prodotto.

Per questo spesso si riscontra la presenza di conglomerati fortemente alveolati o confezionati con l’impiego di sabbia di mare,  con evidenti influenze negative sulla resistenza e durevolezza del prodotto finito.

Solo negli anni ’60 il problema venne superato con l’introduzione di mulini che producevano sabbia in abbondanza dalla triturazione della breccia.

L’impiego progressivamente sempre più diffuso del conglomerato portò allo sviluppo di una tecnologia relativa sia al confezionamento che alla messa in opera di armature metalliche, casseforme, puntellamenti, ecc . e di maestranze di nuova generazione, che non avevano nulla in comune con quelle generate dall’arte muraria,  costituite soprattutto da  carpentieri e ferraioli.

All’inizio, il carpentiere era anche ferraiolo ma successivamente una più decisa specializzazione portò alla formazione di competenze distinte. Il carpentiere omogeneo con il mestiere del falegname, era abile soprattutto nell’impiego delle assi di legno per la formazione di casserature,  di forma sempre più ricercata e complessa,  che fossero in grado di sostenere sia  il peso del conglomerato che la spinta orizzontale che, nel caso delle travi,  poteva deformare le sponde verticali.
 Per le armature metalliche si usavano tondini in ferro omogeneo lisci che , nei vari diametri, venivano tagliati con l’impiego di cesoie a mano, piegati alle estremità per la formazione degli uncini (ganci) o nelle varie sagome richieste per staffe e ferri piegati e messi in opera con legature in filo di ferro cotto. Non esistevano i tondini di acciaio ad aderenza migliorata.

Le coperture piane, che ebbero una discreta diffusione agli inizi del ‘900 nel nostro territorio,  furono realizzate con travi in acciaio a doppio T disposte parallelamente con interasse di circa 65 cm.

Le estremità delle travi venivano incastrate nella muratura e gli interspazi venivano coperti con fette di  tufo della sezione di cm. 25×12, ricavate dalla divisione in due parti di conci di tufo delle dimensioni di cm. 63x30x25 (pizzotti).

La scarsa coibentazione, l’accoppiamento con lastrici solari facilmente fessurabili a causa delle notevoli dilatazioni termiche dell’acciaio che provocavano frequentemente anche vistose fessurazioni delle murature portanti, la frequente formazione di ruggine, ecc. ne determinarono il disuso, favorito pure  dall’adozione di una nuova tipologia di coperture piane che prevedeva l’impiego del conglomerato cementizio.

(continua)

 

Per la parte precedente vedi qui:

L’arte del costruire nel Salento. Il cemento e il conglomerato cementizio – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Il cemento e il conglomerato cementizio

Continuiamo la serie dei saggi scritti dall’ingegnere Mario Colomba, che ha lasciato questo mondo oggi 6 agosto 2021. I suoi scritti, pietre miliari per la conoscenza dell’edilizia nel Salento, continueranno ad essere pubblicati su questo spazio, per tenere vivo il suo ricordo e il suo sapere

 

di Mario Colomba

 

L’uso del cemento come materiale da costruzione nelle sue varie applicazioni, dal cemento armato ai vari tipi di malta, rappresenta l’inizio di un cambiamento epocale nella pratica costruttiva,  non solo dal punto di vista tecnologico ma anche e soprattutto per l’introduzione di una diversa mentalità. Si affermano nuove e diverse abilità personali che non riguardano più la corrispondenza con il manufatto, la capacità creativa o la ricerca della perfezione dei particolari. Prevale l’interesse della produzione e dell’economia di scala in cui l’individuo non rappresenta più il riferimento principale. E’ l’affermazione di un nuovo ambiente di lavoro in cui tutto è già programmato, in cui non si tollerano più margini di tempo impiegato per inventare o soltanto per riflettere.

Ogni addetto si deve limitare a svolgere,  nel minor tempo possibile e  comunque non superiore a certi standards codificati,  le operazioni che gli vengono affidate senza aggiungere nulla di suo.

Col passare del tempo, man mano che prendono piede le nuove pratiche costruttive, si perdono le conoscenze delle nozioni tradizionali trasmesse oralmente. Di conseguenza,  viene meno il rispetto personale per i depositari della conoscenza delle tecniche e tecnologie ormai desuete. Si verifica così una profonda modificazione dell’ambiente di lavoro. La divulgazione di elaborati progettuali (disegni e schede tecniche) esige un  minimo di conoscenze che di fatto determina una discriminazione, emarginando chi, per difetto di istruzione o difficoltà di apprendimento, non è più in grado di aggiornarsi e di adeguarsi alle esigenze della produzione e della produttività.

In un sistema produttivo come  quello delle costruzioni si verifica un cambiamento radicale che si manifesta prepotentemente, stimolato da una imponente domanda. Localmente però l’abbandono  dei vecchi sistemi costruttivi presenta una certa viscosità. Vi è riluttanza, per esempio nella realizzazione di edifici a struttura intelaiata. ad abbandonare l’impiego della pietra di tufo per l’esecuzione di tramezzature o murature di tompagno o nell’adoperare materiali alternativi  alle chianche di Cursi per le pavimentazioni solari. Si vanno conservando tuttora, anche per salvaguardare numerosi posti di lavoro,  tecniche,  materiali e tecnologie che mal si adattano alla coesistenza con strutture intelaiate elastiche.

Il progressivo contemporaneo sviluppo della meccanizzazione, provoca la nascita di specializzazioni del tutto nuove e fortemente settorializzate,   in deciso contrasto con le eclettiche capacità degli addetti tradizionali di qualifica più elevata (cucchiare) che erano in grado non solo di realizzare murature  ma anche di mettere in opera pavimentazioni o intonacare pareti.

Già negli anni ’30 si registrano da noi le prime applicazioni del cemento come nuovo materiale da costruzione. Però, è solo nel dopoguerra che si diffonde progressivamente l’uso del cemento portland , prodotto negli stabilimenti di Monopoli o Modugno dalla Italcementi.

L’uso più diffuso si riscontra, inizialmente,  per la confezione della malta cementizia e della malta bastarda, che si utilizzano sia per la posa in opera che per la fabbricazione di pavimentazioni nelle diverse tipologie (pavimenti in cemento e graniglia levigati a mano, mattonelle in pastina di cemento per pavimenti decorati, marmette in cemento e scaglie di marmo, ecc.) con limitati impieghi nel conglomerato cementizio per strutture in c.a. semplici (architravi, cordoli, ecc.) fino all’impiego più esteso  nella realizzazione delle coperture piane (“alla margherita”).

(continua)

Per le parti precedenti vedi qui:

Libri| L’arte del costruire a Nardò e dintorni – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Gli arnesi del mestiere – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Maestri e maestranze nel cantiere edile a Nardò e nel Salento. La produzione edilizia – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Strutture murarie di copertura: archi e volte – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Cantiere edile (fondazioneterradotranto.it)

Arte del costruire e riutilizzo presso il popolo salentino – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Reclutamento di manodopera e approvvigionamento di materiale edilizio nelle costruzioni del Salento – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. I materiali da costruzione

L’arte del costruire nel Salento. I materiali da costruzione

 

Libri| Ginosa sacra

 

di Loredana Capone

Presidente del Consiglio Regionale della Puglia

 

… Sono passati quarant’anni dall’epoca della teorizzazione della microstoria, ma la lettura di Ginosa sacra, monumentale opera di Domenico Giacovelli, fa rinvenire il valore della lettura dei fatti storici all’interno di indagini articolate e complesse, grazie a fonti e documenti spesso elusi dalla storiografia tradizionale (esemplari, nel nostro caso, le relazioni delle Visite pastorali) specialmente quando non concorrono a fare luce su singole monografie di personaggi o periodi, ma hanno l’ambizione – giustificata in questo caso – di recuperare un decorso complessivo che è durato secoli, dai primitivi insediamenti cristiani all’istituzione della “chiesa ricettizia”, baluardo di governi locali non solo di anime ma anche di beni, che ebbe roccaforte in Basilicata; e non a caso Ginosa è lì, al confine.

Il richiamo all’esperienza delle Corporazioni dell’Italia centrale viene spontaneo, ma com’è noto nelle aree interne del Meridione il fenomeno divenne complesso e assai caratterizzante: arcipreti, sacerdoti, abati, enti morali con qualche crescente ingerenza nella società civile.

Come scrive l’autore «attorno a loro gravitava non poca parte della esistenza degli abitanti del luogo, giacché ogni ricettizia con la sua mole di possedimenti immobiliari e rurali, finiva con l’essere non solo la più importante istituzione ecclesiastica locale ma il volano dello sviluppo economico a cui tutta la comunità faceva riferimento». E non è un caso se il modello tramonta con l’Unità d’Italia, che non poteva consentire che gli interessi sociali e le questioni economiche legate a un territorio fossero diretti da enti diversi da quelli dello Stato subentrante.

Il volume di Domenico Giacovelli, allora, è la storia – rigorosissima, con punte documentali di estremo interesse quali quelle rinvenute in Archivi di Stato o in Archivio Apostolico Vaticano, oltre naturalmente a quelli diocesani e parrocchiali – di famiglie, testamenti, dispute civili, e alla fine di persone, che poi sono coloro che la storia la interpretano, dando la possibilità ad altri di scriverla: testo moderno, dunque, poiché i rapporti fra un organo di governo ecclesiastico con forte connotazione locale e la comunità circostante sono oggetto di riflessioni non solo agiografiche e storiografiche, ma sociologiche, antropologiche; si parla di dottrina e scienza dell’uomo, ancora più stimolante in quanto comparata con la indagine su ciò che l’uomo ha prodotto rappresentando la bellezza e la fede: accanto ai sigilli, alla topografia, alle carte, Domenico Giacovelli esamina e regala al lettore una serie di immagini in buona parte ancora visibili nelle chiese di Ginosa e anche fuori, risultanze archeologiche, icone, tele, come è giusto che sia in un volo così radente su secoli di religiosità innervata nell’anima, ma anche nel costume sociale.

In sostanza, un lavoro che scopre la vitalità delle relazioni della gente di Ginosa, la più umile, non considerata nella «grande narrazione» trionfalistica della genesi della civiltà occidentale moderna, e rende merito alla dignità di una popolazione che – dai tempi dei primi insediamenti cristiani – fece della fede il suo baluardo, ne visse i dogmi e le loro interpretazioni terrene con devozione e partecipazione, fu «cittadina del suo tempo» e di fatto forgiò il suo genius loci.

Domenico Antonio Carella, a 300 anni dalla nascita

Domenico Carella, Assunta e Santi Nicola e Susanna, 1782, Torre Santa Susanna, Chiesa Matrice

 

di Domenico Ble

Nella grande porzione del discepolato di Francesco Solimena, costituito da pittori che lo hanno conosciuto in prima persona e da coloro che invece lo hanno intravisto attraverso il filtro degli allievi più vicini, rientra Domenico Antonio Carella, pittore francavillese, tra i “propagatori e interpreti” del linguaggio figurativo “alla napoletana” in tutto il Salento.

Domenico Carella è un francavillese, cresciuto e formatosi nella città dei principi Imperiali, un centro abitato da considerarsi come piccola isola felice, dal punto di vista culturale, dell’allora provincia di Terra d’Otranto.

Egli fu un pittore di grande successo e a dare testimonianza di questa fama è  la vasta produzione pittorica, distribuita in diversi anni di incessante attività, agevolata dalla committenza facoltosa.

Domenico Carella, Estasi di San Francesco d’Assisi, 1753, Mesagne, Chiesa dell’Immacolata

 

La grandezza del Carella si misura nell’intensità effusa nelle opere, dipinti che parlano un linguaggio pittorico, uno stile che oscilla fra il classicismo solimenesco e la forza coloristica ed espressiva giaquintesca e demuriana.

Ma non sono soltanto l’abilità e il tecnicismo a dare una speciale luce al maestro, ma anche la vasta produzione e particolarmente le tele presenti nella basilica del Santo Rosario di Francavilla Fontana, le decorazioni delle stanze di Palazzo Ducale di Martina Franca.

Domenico Carella, San Michele Arcangelo, 1782, Torre Santa Susanna, Chiesa Madre

 

Le sue opere, ancora in attesa di definitivo censimento, possono ammirarsi in numerose città pugliesi, tra le quali si ricordano Ceglie Messapica, Carosino, Castellaneta, Copertino, Mesagne, Massafra, Monopoli, Mottola, Ostuni, Palagiano, Rutigliano, Taranto, Terlizzi, Torre Santa Susanna.

Sicuramente molte altre attendono di essere scoperte ed attribuite.

Doveroso questo ricordo per il grande interprete pittorico del Settecento, assolutamente aggiornato e coerente lo stile del suo tempo e per questo ricercato da una esigente committenza.

Domenico Carella, Sant’Antonio di Padova e il Bambino, Mesagne, Chiesa dell’Immacolata

Libri| Ugento Sacra

Luciano Antonazzo, Ugento Sacra. Ovvero antiche chiese – ex conventi e monasteri – edifici ecclesiastici e monumenti sacri della città di Ugento e della sua frazione Gemini, cm 16,5×23,5, pagine 608, di cui 61 a colori, 159 in bianco e nero, ISBN: 978-88-8431-790-2. Grenzi editore 2020
… frutto di un generoso e minuzioso impegno di ricerca, portato avanti con competenza e passione dal carissimo ed esimio concittadino, Luciano Antonazzo il quale, tra i tanti studi condotti negli anni, ha inteso mettere a disposizione dei lettori un’imponente raccolta di informazioni storiche sulle numerosissime testimonianze storico – artistiche – architettoniche rappresentate dalle chiese insistenti sul territorio, unitamente ai soppressi monasteri e conventi, nonché degli edifici e monumenti ecclesiastici…
… Come confermato anche dall’autore, in questi ultimi anni, significativi interventi di restauro hanno contribuito non solo ad acquisire ulteriori ed importanti elementi conoscitivi, ma a riscoprire antiche tradizioni popolari utilizzate, altresì, per rafforzare la competitività della nostra destinazione turistica nella sua componente esperienziale… (dall’introduzione del Sindaco di Ugento Massimo Lecci)
dalla prefazione:

La fondazione di Ugento, l’antica Ozan dei Messapi, risale secondo gli studiosi, attorno al VII secolo a.C. La città fu un fiorente centro di commercio grazie al suo porto ed in epoca romana ebbe il privilegio di coniare moneta propria. Purtroppo, la città, dopo gli splendori dell’epoca più antica, andò decadendo e fin dal primo Medioevo, oltre a gravi calamità, come le invasioni barbariche e le epidemie di peste che ne decimavano la popolazione, fu soggetta a continue incursioni e razzie da parte di pirati ottomani tanto che, nei primi anni dell’XI secolo, Bisanzio, sotto il cui dominio si trovava allora la città, decise di realizzare una cinta muraria a difesa e a protezione della popolazione.

La sua lunghezza superava di poco il chilometro[1], e racchiudeva la parte alta dell’agglomerato urbano. All’interno della nuova cinta muraria furono costruiti il castello e la cattedrale e furono eretti, tra il XV ed il XVI secolo, il convento dei frati Minori Osservanti ed il Monastero delle Benedettine.

 

Nonostante tutte le misure adottate però, la città fu devastata e, si dice, quasi distrutta dai turchi, la notte del 4 agosto del 1537. Quel tragico giorno, col saccheggio di tutte le chiese e soprattutto con l’incendio dell’episcopio, andò persa anche ogni memoria storica dei tempi più antichi.

La città perse la sua identità e quando lentamente cominciò a ripopolarsi con la confluenza di genti delle terre e dei casali vicini, ebbe inizio una nuova storia. Ma, anche di questa, almeno fino al XIX secolo, abbiamo poche testimonianze e la responsabilità in questo caso è da addebitarsi all’incuria dei nostri antenati che non hanno saputo custodire i documenti delle nostre vicende storiche.

Per quel che riguarda specificamente i documenti ecclesiastici, se quelli anteriori al 1537 erano andati distrutti nel saccheggio operato dai turchi, gran parte dei documenti posteriori è andata invece persa sotto l’episcopato di mons. Lazzaro Terrer (1705-09). In quel periodo infatti l’archivio era stato trasportato

“in una camera di basso nel cortile d’esso vescovato, la quale essendosi ritrovata umida, per detta umidità ritornò offesa la maggior parte delle scritture e processi; e di poi portate in una camera sopra al palazzo, per esser che si ritrovava senza finestre, lo vento ne trasportò in molta quantità”[2].

Questa testimonianza, assieme ad altre[3], offre la spiegazione della povertà documentaria dell’Archivio Storico Diocesano di Ugento, fatto di cui ebbero a dolersi diversi vescovi, e oggi se ne dolgono studiosi e ricercatori.

Non si è così stati in grado finora di conoscere compiutamente, e realmente, la storia non solo delle nostre chiese più antiche, ma neanche dell’attuale cattedrale eretta nella prima metà del XVIII secolo. Per colmare tale lacuna abbiamo cercato, tra tutti i documenti di diversa natura pervenutici, quei riferimenti agli edifici di culto che, confrontati e messi assieme, potevano darci un quadro, se non completo, almeno abbastanza chiaramente delineato delle loro vicende.

Punto di partenza per la nostra ricerca sono state le relazioni per le visite ad limina dei nostri vescovi, disponibili a partire dal 1600[4].  In quelle però sono contenute solo scarne notizie.

Qualche notizia in più era certamente contenuta nelle relazioni delle Visite Pastorali, ma disponiamo integralmente solo di quelle effettuate dal XIX secolo in poi; per il periodo precedente ci è pervenuto solo un ponderoso resoconto sullo stato della diocesi nel 1711 (nel quale però mancano del tutto cenni alla nostra città e alle sue chiese),  uno stralcio della vista effettuata alla chiesa di S. Rocco (e dell’Assunta) da mons. Minturno nel 1559, e alcune carte  riguardanti quella effettuata nel 1628 da don Antonio de Notaris, vicario di mons. Ludovico Ximenez, da noi rinvenute ed in parte edite.

In dette carte, accorpate ad un fascicoletto con sulla copertina l’intestazione “Inventario dei beni del R.mo Capitolo ut intus- de anno 1628[5], sono descritte alcune delle chiese extramoenia e suburbane della città incontrate in successione lungo il percorso della visita, nonché quella di Pompignano e della futura parrocchiale di Gemini. Nonostante l’incompletezza il documento è preziosissimo in quanto è il più antico a fornirci notizie di alcune delle nostre chiese, soprattutto di quelle non più esistenti e delle quali non si conosceva assolutamente nulla. Ne faremo pertanto ampio riferimento, riportandone pressocchè integralmente il testo.

Di grande utilità sono stati i protocolli notarili conservati nell’Archivio di Stato di Lecce (ASLe): i documenti ivi rinvenuti sono stati infatti fondamentali per un’effettiva ricostruzione delle vicende dei luoghi sacri della nostra città e di quelli appena fuori l’abitato. Preziosa è stata infine la cronaca sui generis di don Stefano Palese nei registri parrocchiali[6]

Nella prima parte di questo volume, dopo un accenno all’origine della diocesi e ai diritti feudali del vescovo, si tratterà delle vicende delle chiese e degli edifici ecclesiastici ubicati nell’antico centro storico, a cominciare dal palazzo vescovile e a seguire di quelle della cattedrale e dell’erezione del seminario. Si esporranno quindi le vicende attinenti all’ex convento dei Francescani Minori e all’ex monastero delle Benedettine; di entrambi (e delle rispettive chiese) sono esposte estesamente anche le traversie che li hanno riguardati nel periodo successivo alla loro soppressione nel XIX secolo. Da ultimo si tratterà della chiesa della Madonna Assunta (e di S. Biagio) e della sua confraternita.

Nella seconda parte si parlerà delle antiche chiese e cappelle erette lungo il percorso della via Sallentina[7] (o nei suoi pressi). Tale strada attraversava (e attraversa) il borgo di Ugento per innestarsi alla vecchia via per Gemini e proseguire, attraverso il feudo di Pompignano passando per la chiesa di S. Maria della Natività, fino a Vereto, per giungere infine al Capo di Leuca, meta per secoli di una moltitudine di pellegrini diretti al Santuario della Madonna de finibus terrae. Nel solo tratto dell’antica via attraversante il territorio della nostra città, lungo circa due chilometri, si contavano almeno dodici luoghi di culto; sette di quelle antiche chiese esistono tuttora, ma della loro storia e soprattutto di quelle non più esistenti, avevamo fin qui solo qualche sporadica notizia. Gli atti della visita acclusi al citato documento del 1628 ci permettono ora di fissare dei punti fermi che sgombrano il campo da ipotesi e congetture fin qui avanzate.

Infine, nella terza parte diremo dell’antica chiesa di Pompignano, nel feudo omonimo, e degli antichi luoghi di culto e monumenti ecclesiastici esistenti nel feudo di Gemini…

 

[1] Quella delle antiche mura messapiche era di circa 4.900 metri

[2] ARCHIVIO STORICO DIOCESANO di UGENTO (ASDU), Benefici- Ugento/ 18 – (Beneficio dell’Assunzione della B.M.V. e di S. Margherita – 1672, cc.30v, 32r., 34r).

[3] C. DE GIORGI, La Provincia di Lecce – bozzetti di viaggio, vol. I, p. 202. L’A.  riferisce che il vescovo mons. Angelico de Mestria (1828-1836) permise la vendita di “tutte le carte inservibili, fra le quali vi erano parecchi documenti assai preziosi, accumulati nei secoli precedenti; e chi eseguì gli ordini ne abusò in modo indegnissimo”. Le carte sarebbero state vendute ad un artigiano di Matino che le utilizzò per confezionare fuochi pirotecnici.

Mons. Spinelli (1713-18) lamentò invece che molti documenti erano stati distrutti dolosamente dagli stessi ecclesiatici (cfr. S. PALESE, Le relazioni per le visite ad limina dei vescovi ugentini del Seicento e Settecento, in “La Zagaglia”, 1974, nn. 64-66, pp. 37-48). 

[4]Fino a poco fa erano disponibili a partire da quella del 1620, mentre ora si dispone anche di quelle che vanno dal 1600 al 1617, grazie all’interessamento di padre Alfredo di Landa del Pontificio Istituto delle Missioni Estere, che me ne ha procurato copia dall’Archivio Apostolico Vaticano (ex Archivio Segreto Vaticano).

[5] ASDU, Capitolo –documenti (Cap. docc.) 7/41. Sul verso dell’ultima carta è annotato: “Inventario fatto nel 1628 dè stabili del R.mo Capitolo, ed atti della visita delle cappelle della città, e Gemine. Nel qual inventario sono annotati li stabili della Calandria e delle cinque parti”.  La prima è contrassegnata col numero 2 e l’ultima col numero 30. La prima delle carte accorpate successivamente (come si desume dalla diversa grafia e numerazione) e attinenti la visita è la 11v.

[6] Don Stefano Palese, come arciprete della cattedrale, compilò i registri parrocchiali dal 31 agosto 1729 al 12 maggio 1754. Non si limitò alla semplice registrazione delle nascite, dei matrimoni e delle morti, ma, oltre a riportare diversi “testamenta animae”, appose delle annotazioni dalle quali abbiamo tratto notizie importanti.

[7]L’antica via Sallentina era una strada paralitoranea che congiungeva Taranto ad Otranto, attraverso il capo di Leuca. Il suo percorso, che per ampi tratti coincideva con antiche vie di comunicazione messapiche, è tracciato nella Tavola Peutingeriana, copia del XIII secolo di una carta della viabilità romana in epoca imperiale.

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