La “mappa di Soleto”: nel contesto geografico delineato dalle fonti narrative antiche

di Nazareno Valente

 

Sebbene vada affievolendosi l’interesse su quella che viene  comunemente chiamata la “Mappa di Soleto”, resta tuttora vivace il dibattito tra chi propende per la sua l’autenticità e chi, invece, la ritiene più uno scherzo riuscito bene.

Il tutto ebbe inizio il 21 agosto 2003 quando, durante una delle campagne annuali di scavi compiuti a Soleto da Thierry Van Compernolle, due operai, impegnati a rimuovere terreno archeologico di risulta, rinvennero un piccolo frammento di cm 5,9 x 2,8 dell’orlo d’un vaso a vernice nera, di probabile produzione attica, su cui era stato inciso il profilo della parte meridionale della penisola salentina1. Da come il disegno è impaginato sul coccio, parrebbe con tutta evidenza che le coste del Basso Salento siano state disposte da nord a sud, contornate nei due opposti litorali dai due mari a noi ampiamente noti, vale a dire lo Ionio ad Ovest e l’Adriatico ad Est. In pratica, in una raffigurazione grafica che, nella sostanza, rispecchia la visione canonica fornita da una qualsivoglia rappresentazione cartografica moderna.

All’interno del profilo risultano comprese dodici località, riportate in gran parte nei loro toponimi abbreviati, mentre all’esterno, parallelamente alla linea di costa occidentale, è tracciata la scritta ΤΑΡΑΣ (Taras), indicante il golfo di Taranto, incisa «sulla ‘mappa’ forse con la funzione di ‘indicatore di direzione’»2.  Di questi tredici toponimi, tre appaiono scritti in alfabeto greco — ΗΥΔΡ (HYDR), ΣΤΥ (STY) e ΤΑΡΑΣ (TARAS) —; due, per diversi motivi, risultano di difficile assegnazione linguistica — ΓΡΑΧΑ (GRAXA) e ΦΙΛ? (PHIL) —; i rimanenti otto potrebbero attribuirsi sia all’orizzonte linguistico indigeno, sia a quello greco — ΒΑΛ (BAL), ΒΑΣ (BAS), ΛΙΚ (LIK), ΛΙΟΣ (LIOS), ΜΙΟΣ (MIOS), ΝΑΡ (NAR), ΟζΑΝ (OZAN), ΣΟΛ (SOL)3.

Non tutti i toponimi presenti sono stati identificati in maniera incontrovertibile, tuttavia anche in questi casi è possibile formulare delle ragionevoli ipotesi di individuazione. Pertanto il riconoscimento con le attuali località potrebbe avvenire secondo lo schema di seguito riportato. ΒΑΛ (BAL): Alezio, ΒΑΣ (BAS): Vaste, ΓΡΑΧΑ (GRAXA): forse Porto Cesareo, ΗΥΔΡ (HYDR): Otranto, ΛΙΚ (LIK): probabilmente Castro, ΛΙΟΣ (LIOS): verosimilmente Leuca, ΜΙΟΣ (MIOS): forse Muro Leccese, ΝΑΡ (NAR): Nardò, ΟζΑΝ (OZAN): Ugento, ΣΟΛ (SOL): Soleto, ΣΤΥ (STY): forse Cavallino, ΤΑΡΑΣ (TARAS): Taranto, ΦΙΛ? (PHIL): forse Rocavecchia.

Il tema su cui verte la controversia non è tanto l’autenticità del coccio, al di sopra di ogni possibile sospetto, quanto piuttosto sulle incisioni su di esso impresse. In particolare le perplessità riguardano il periodo in cui il disegno è stato confezionato. Chi lo dice antico, al pari dell’ostrakon che lo ospita; chi, invece, lo ritiene fatto addirittura poco prima del ritrovamento.

In questa accesa polemica, che si ravviva ogni qualvolta spuntano nuovi elementi di valutazione, emerge tuttavia che gli entusiasmi iniziali manifestati dagli studiosi per il reperto vanno, con il passar del tempo, via via scemando. Lo denota il fatto stesso che sia stato di fatto reso impossibile pubblicare gli atti del convegno di Montpellier, svoltosi nel 2005 per presentare la “mappa”, in quanto molti ricercatori, che s’erano in prima istanza espressi in senso favorevole, non hanno in seguito presentato il testo del loro intervento. Cosa questa usuale, quando si modifica il proprio parere e si vogliono evitare “cantonate” che, se messe per iscritto, rimangono a futura memoria.

Malgrado la mancanza di questa preziosa documentazione, è in ogni caso possibile contare su studi autorevoli condotti sugli aspetti alfabetici ed epigrafici4, su quelli monetari5,  e su quelli archeologici6, da cui sono risultate molte importanti indicazioni. Ad esempio, come rilevato da Mario Lombardo, che «gli elementi desumibili dai caratteri alfabetico-paleografici delle abbreviazioni toponimiche incise sul nostro frammento sembrerebbero deporre … per una datazione entro la seconda metà del V sec. a.C., o al più tardi agli inizi del IV»7 e, soprattutto, che «il quadro complessivo continua ad indurci, in definitiva… ‘a mantenere aperti i problemi’»8.

Un po’ meno equidistante si dimostra Francesco D’Andria il quale, confrontando i siti della “Mappa” con i dati desumibili da una ricerca sul campo, rileva che «l’impressione iniziale è quella della mancanza di corrispondenza tra la realtà archeologica e il dato epigrafico attestato dalla “Mappa”. Infatti proprio il V secolo è caratterizzato da processi di crisi e di destrutturazione in cui il sistema degli insediamenti evapora in una presenza sparsa»9. Anche se poi attenui il suo giudizio facendo presente che, nel contesto di questa trasformazione cui fu soggetta la zona, si possa aver conservato memoria, oltre che dei nuclei centrali, anche di quelli arcaici «poco visibili nella documentazione archeologica»10.

In questa prima fase c’era infatti molta cautela tra gli esperti nel trarre conclusioni sull’autenticità della “mappa”, per tutta una serie di motivi, non certo ultime le circostanze che il rinvenimento del frammento iscritto fosse avvenuto in un regolare scavo archeologico e che, in questioni così dibattute, sia meglio evitare errate valutazioni che possano poi incidere sulla credibilità futura di chi le esprime. Comunque sia, dopo un successivo studio di Mario Lombardo11, su cui mi soffermerò più avanti, sulla “mappa” è calato il silenzio che, in un certo qual modo, ha avuto il potere di accrescere ancor più la curiosità dei non addetti ai lavori.

Ritornando all’articolo di D’Andria, è, a mio avviso, interessante l’approccio avuto dallo studioso nel valutare il documento in termini di corrispondenza con la realtà archeologica. Un metodo di lavoro che forse sarebbe il caso di perseguire nella valutazione della “mappa” pure riguardo ad altri  possibili aspetti.

Fosse pervenuto qualche esempio della cartografia antica o, quantomeno, ci fossero a disposizione maggiori dettagli sulle conoscenze acquisite in campo geografico, si potrebbe adottare lo stesso criterio, verificando, ad esempio, se lo scenario proposto dalla mappa di Soleto risulti coerente con le cognizioni a quel tempo possedute. Purtroppo in carenza di tali informazioni non è possibile desumerlo direttamente, resta però la possibilità di farlo in maniera indiretta, consultando le fonti letterarie antiche. In particolare, ricercando le eventuali annotazioni che danno un’idea dell’eventuale configurazione geografica assegnata alla penisola salentina nel periodo di presunta incisione del disegno sull’ostrakon.

Da un punto di vista grafico è già stato registrato che, in antichità, le mappe non venivano probabilmente stilate da nord a sud, come avviene adesso, né che si usavano puntini per indicare dov’erano collocate le varie località, come fatto invece dall’autore della “mappa”. Tuttavia, nessuno ha indagato sul disegno in sé, vale a dire se la rappresentazione delle coste del Basso Salento sia confacente alla visione che si aveva di esse nel V secolo a.C. Per questo, si cercherà qui di appurarlo, prendendo le cose un po’ alla lontana, considerato che, come già dichiarato, il quadro informativo è alquanto evanescente.

Nel VI secolo a.C., grazie all’intuizione di Anassimandro (VII secolo a.C. – VI secolo a.C.), ad una Terra che l’epica arcaica concepiva priva di profondità e circondata da Oceano, da dove sorgevano e tramontavano il sole e gli altri pianeti, se ne andava sostituendo una che, senza il sostegno di Atlante, poteva galleggiare autonoma nello spazio e, quindi, in teoria raffigurabile graficamente. Non è quindi un caso che il genere letterario del periplo, con il primo apporto manualistico scritto d’aiuto alla navigazione, nasca in quello stesso periodo.

In un’epoca storica in cui le vie marittime risultavano di gran lunga favorite rispetto a quelle di terra, i peripli  fornivano una standardizzata descrizione dei porti greci che s’incontravano in un percorso navale, le cui conoscenze derivavano dalle esperienze di viaggi compiuti nelle aree periferiche ed inesplorate del mondo allora noto. I primi resoconti di cui si ha notizia riguardano l’Atlantico e  l’oceano Indiano che precedono forse di poco quelli che si interessano del Mediterraneo, la cui sistemazione geografica ha le sue basi iniziali nei viaggi commerciali del IX secolo a.C. ma, soprattutto, in quelli della colonizzazione greca del secolo successivo.

Occorre rilevare che la quasi totalità delle colonie greche sceglieva il luogo di stanziamento in prossimità del mare ed era lungo i litorali che di fatto si svilupparono gli insediamenti. Per questo le informazioni sulle principali rotte marine — ed i peripli che indicavano le tappe dei diversi percorsi — costituivano la base conoscitiva indispensabile per chi doveva intraprendere un qualsiasi viaggio.

Oltre ai peripli, circolavano pure quelli che potremmo definire proto-mappamondi, il più antico dei quali era dovuto ad Anassimandro che, a detta di Strabone, Eratostene (III secolo a.C. – II secolo a.C.) considerava il primo autore capace di redigere un «dipinto geografico» («γεωγραφικὸν πίνακα»12). Notizia questa attestata anche da Diogene Laerzio, il quale in più precisava che Anassimandro «fu il primo a disegnare i contorni della terra e del mare e costruì anche una sfera» («καὶ γῆς καὶ θαλάσσης περίμετρον πρῶτος ἔγραψεν, ἀλλὰ καὶ σφαῖραν κατεσκεύασε»13), quindi il primo a disegnare una carta geografica, contenente le linee di costa, ed un mappamondo. Agatemero, un geografo del III secolo d.C., impreziosisce ancor più l’informazione evidenziando che Anassimandro per primo «osò riprodurre la terra abitata su una tavola» («ἐτόλμησε τὴν οἰκουμένην ἐν πίνακι γράψαι»14). E, in questo suo “osò”, sono racchiuse sia la rottura con certi schemi leggendari del periodo arcaico, sia la difficoltà tecnica a raffigurare l’ecumene in maniera calzante con la realtà.

 

Peccato che questo «πίναξ» («pinax», dipinto) — termine, con cui i Greci indicavano in genere la tavoletta per scrivere e far di conto, ma che adoperavano anche per identificare quadri, dipinti e carte geografiche —  di Anassimandro non sia giunto a noi e che tutte le ricostruzioni, basate sui pochi frammenti rimasti di questo autore, non possano fornirne se non dei semplici saggi solo vagamente comparabili con l’originale. Come sottolineato da Agatemero, era in effetti un vero e proprio azzardo, con  le nozioni e gli strumenti allora disponibili, quello di predisporre un mappamondo che riproducesse, sia pure in maniera approssimativa, le linee di coste e le configurazioni dei Paesi conosciuti. E che i pinakes allora circolanti potessero contenere parecchie approssimazioni ed evidenti difetti, lo si evince dalla critica che senza mezzi termini, circa un secolo dopo, Erodoto esprime a riguardo: «Non riesco ad impedirmi di ridere quando vedo che molti hanno già tracciato varie figurazioni della terra» («Γελῶ δὲ ὁρέων γῆς περιόδους γράψαντας πολλοὺς ἤδη»15). Per quanto sia necessario chiarire che lo storico manifestava le sue perplessità più per le opere grafiche in sé, in quanto collegate a schemi geometrici astratti e non all’esperienza, che per gli specifici manufatti.

Non abbiamo modo di appurare sino a qual punto le lamentele di Erodoto siano giustificate, non essendo sopravvissuto nessuno di questi antichi mappamondi. Con tutte le cautele del caso, possiamo farcene una lontana idea unicamente dalle ricostruzioni moderne compiute in base alle poche informazioni superstiti ed ai dati forniti dai peripli. Va inoltre tenuto presente che, constatata la preminente importanza delle rotte marittime rispetto a quelle terrestri, le attenzioni erano più che altro rivolte alle informazioni sull’andamento delle coste e delle distese marine, vissute comunque come complesso di conoscenze derivate in modo empirico dai vari viaggi compiuti con destinazioni e rotte diverse. Le rappresentazioni dello spazio erano di conseguenza condizionate da percezioni concrete ed analitiche riguardanti le singole vie o gli specifici percorsi compiuti, cui però mancava una precisa visione d’assieme. In pratica, tante tessere disparate, appartenenti ad esperienze e scenari diversi, difficilmente collocabili in uno stesso quadro conoscitivo.

Con questi limiti, e sempre con la dovuta cautela, un confronto tra cartografia antica e moderna è invece possibile compierlo usando il rifacimento della carta geografica di Eratostene, che ha ben altra consistenza in quanto compilata in base ad una serie di elementari coordinate geografiche che permettono di tracciarla contando su pochi, ma significativi, elementi comuni. Per quanto la “tavola” di Eratostene sia stata realizzata due secoli dopo la mappa di Soleto e, quindi, si avvalga di ulteriori concetti nel frattempo acquisiti, essa dà una visione geografica molto prossima a quella posseduta dall’ignoto disegnatore soletano e, in definitiva, si dimostra un termine di paragone utile.

La carta di Eratostene resta comunque un rifacimento e può ugualmente indurci in errore, per questo, come già preannunciato, alle informazioni da essa acquisibili si anteporranno quelle desumibili dalle fonti letterarie del tempo, così da avere la disponibilità di più dati e di porsi nelle condizioni di valutare a ragion veduta se il Basso Salento impresso sull’ostrakon rispecchi le conoscenze che si avevano a riguardo tra la fine del V secolo a.C. e l’inizio del secolo successivo. Oppure se, al contrario, presenti qualche elemento che faccia dubitare che il disegno sia contemporaneo al frammento che lo ospita.

Più che sul Salento in sé, le fonti letterarie forniscono maggiori dettagli sui mari che ne bagnavano le coste; analizzando questi si scopre che gli antichi avevano una diversa idea dello Ionio e, soprattutto, dell’Adriatico. L’Adriatico infatti non era vissuto come un mare nel vero senso della parola: al massimo lo si considerava un mare di passaggio tra due terre oppure una generica distesa marina ma, molto più spesso, era ritenuto un golfo. Lo si intuisce dai termini usati dagli autori che non lo definiscono mai «θάλασσα» (thálassa), come si usava per i mari per antonomasia, ma a volte «πόντος» (pόntos), quindi un mare che consentiva il transito tra una sponda ed un’altra, o più raramente «πέλαγος» (pélagos), una generica profondità marina. Più comunemente, però, era denominato «kόλπος» (kόlpos), vale a dire golfo. Oltre alla concezione che fosse prevalentemente un golfo, trovava ampio credito l’opinione che si distribuisse in due distinti bacini che occupavano rispettivamente la parte più remota (il nostro Alto Adriatico) e quella meno distante dalle coste greche (soprattutto il nostro Basso Adriatico).

In epoca arcaica il tratto settentrionale dell’Adriatico era chiamato dai Greci golfo di Crono16, perché il dio Crono rappresentava in sé uno spazio remoto collocato nelle contrade più estreme del mondo allora conosciuto. In seguito divenne golfo di Rea che, essendo moglie di Crono, richiamava probabilmente lo stesso concetto. Infine assunse la denominazione di «Adrías», Adriatico.

Eschilo17 ci svela invece com’era chiamato il tratto di mare che bagnava le coste della penisola salentina. Narrando la storia di Io, la donna amata da Zeus e tramutata da Era in giovenca, il tragediografo lo denomina «Iónios kolpos» (golfo Ionio). Quest’ultimo nome serviva anche ad identificare genericamente tutto l’attuale Adriatico ma in maniera specifica e più spesso indicava solo l’Adriatico centro-meridionale. In definitiva la parte settentrionale aveva una doppia nomenclatura — golfo Ionio o Adriatico — mentre quella centro-meridionale golfo Ionio.

A volte l’Adriatico veniva trattato come mare e, in questo contesto era chiamato mare Ionio, con la locuzione «Iónion pélagos»18, che interessava però soltanto le acque prospicienti le coste a settentrione del Salento per lo più non coinvolte nel tragitto di passaggio tra le due sponde. Mentre, come già riferito, il tratto  di mare che separava il Salento dalle coste greco-albanesi era denominato, «Iónios kόlpos»19 (golfo Ionio). Infine con «Iónios pόros»20Ιόνιος πόρος») si identificava quello che per noi è il Canale d’Otranto, vale a dire il braccio di mare usato quale via marittima per andare da un litorale all’altro dell’Adriatico. Fornisco tali precisazioni perché, salvo non si ricorra al testo originale in greco, le varie traduzioni riportano, a prescindere dall’espressione usata, genericamente “mar Ionio”, rendendo impossibile capire di quale tratto dell’Adriatico l’autore stia effettivamente parlando: se ben a nord del Salento («Iónion pélagos»); se quello antistante il Salento (golfo Ionio, «Iónios kόlpos») o se quello del Canale d’Otranto («Iónios pόros»).

In ogni caso, di là dai nomi utilizzati e dalle generiche traduzioni che non fanno salvi aspetti essenziali invece contenuti nei testi originali, in antichità il Basso Adriatico era ritenuto a tutti gli effetti mare Ionio. Di conseguenza, nel periodo tra il V e IV secolo a.C. in cui dovrebbe essere stata confezionata la mappa di Soleto, era idea comune che la costa orientale del Salento era bagnata dal mar Ionio, così come avveniva per il litorale occidentale. A differenza delle nostre attuali certezze, non c’erano due mari distinti a solcare i fianchi della penisola salentina, ma uno solo. E questo mare era lo Ionio, sia pure nell’accezione di golfo. Non a caso, ad esempio Erodoto, parlando di Apollonia21 — porto dell’Epiro da cui, in alternativa a Durazzo,  si faceva rotta per Brindisi — afferma che è una città situata sul golfo Ionio, perché quel tratto di mare era ai suoi tempi, senza dubbio alcuno, Ionio e non Adriatico

Soltanto nel secolo successivo, e molto lentamente, il nome che aveva contraddistinto sino ad allora unicamente il bacino settentrionale  — «Adrías» —  prese ad identificare anche la restante parte di golfo, e “nacque” così l’Adriatico che tutti conosciamo. Tuttavia tale nuova denominazione non faceva comunque dell’Adriatico, in particolare per la sua parte meridionale, un mare diverso dallo Ionio. Non a caso nel Periplo dello Pseudo-Scilace — databile al IV secolo a.C. — l’autore,  nel trattare della traversata che si faceva per raggiungere Otranto, dopo essersi riferito senza distinzione allo Ionio e all’Adriatico, per timore di confondere il lettore, precisa che Adriatico e Ionio sono la stessa cosa («τὸ δὲ αὐτὸ Ἀδρίας ἐστὶ καὶ Ἰόνιο»22).

Ancora secoli dopo, il geografo Strabone continuava ad affermare che  il golfo Ionio e l’Adriatico hanno la stessa imboccatura (il canale d’Otranto), come dire che il Basso Adriatico era ancora mare Ionio mentre la parte settentrionale era mare Adriatico23. Lo stesso Virgilio, fa dire a Eleno, cui Enea aveva chiesto consiglio, «fuggi le terre e le contrade della riva italica bagnate dalle onde del nostro mare» («terras Italique hanc litoris oram, proxima quae nostri perfunditur aequoris aestus, effuge»24). E, poiché per Eleno il “nostro mare” era lo Ionio e le città da lui elencate si trovavano collocate sia sul litorale adriatico, sia su quello ionico dell’Italia meridionale, anche ai tempi di Virgilio si riteneva che lo Ionio e il Basso Adriatico non fossero mari distinti.

A differenza nostra erano pertanto i due bacini dell’Adriatico, quello settentrionale e quello meridionale, ad essere eventualmente percepiti come mari diversi. C’è infine  da precisare che gli scoliasti chiamavano mar Ionio d’Italia («Iónios pélagos tes Italías»25) il mare che bagnava complessivamente i bacini del Basso Adriatico e dello Ionio delle sponde italiane, per non confonderlo con il mar Ionio del litorale greco.

Morale della favola, in antichità, la penisola salentina non era considerata dai Greci e dai Latini bagnata da due mari differenti, come ci farebbe invece comprendere la mappa di Soleto, ma da un unico mare.

Va peraltro sottolineato che questa non era una mera questione formale, derivante dai diversi idronimi utilizzati ma, all’opposto, rispecchiava un aspetto sostanziale. Alla base di tutto c’è, infatti, una difformità di prospettiva tra un osservatore moderno ed uno di epoca antica che comportava percezioni necessariamente differenti. È quanto in maniera originale ipotizzato da Pietro Janni26, il quale attribuisce le possibili distorsioni rilevabili tra le configurazioni geografiche date nelle due diverse epoche alla circostanza che quella antica raffigura lo spazio del percorso, ossia il tragitto sperimentato al proprio interno, mentre quella moderna lo ritrae osservandolo dall’esterno, per esempio dall’alto o su una carta geografica. Per rendere più comprensibile il concetto, uso un esempio che coinvolge chi fa lunghi percorsi, vale a dire i maratoneti. Come tutti sanno una maratona ha una lunghezza codificata di 42,195 km, misurata con strumenti di precisione da chi l’organizza. Eppure, al traguardo, ogni singolo partecipante riscontra al suo orologio GPS che il tragitto compiuto è superiore  a quella lunghezza, magari anche di due o trecento metri. Il perché è facilmente spiegabile: i maratoneti, muovendosi all’interno del percorso, non sono in grado di seguire la linea ideale che, invece potrebbero individuare se stessero all’esterno, compiendo così traiettorie che fanno loro percorrere più strada. C’è, quindi, uno spazio odologico (ovvero del percorso) che, derivando dall’esperienza di ciascuno, è soggettivo e dà misurazioni non solo diverse ma pure distorte rispetto alla realtà, ed uno spazio oggettivo, teorizzabile in astratto con riscontri reali. Gli antichi viaggiatori non avevano una visione dall’alto ma, come i maratoneti, interna ai tragitti su cui dovevano muoversi e, per questo motivo, non avevano un quadro d’assieme sulle direzioni e sulle rotte da seguire, né perfetta cognizione delle ampiezze e delle forme con cui avevano a che fare.

Si è già evidenziato che ancora ai tempi in cui operava Strabone, quindi tra il I secolo a.C. e I secolo d.C., si riteneva che il Canale d’Otranto fosse l’accesso comune alle coste salentine dello Ionio e dell’Adriatico. In aggiunta è il caso di tener presente che la navigazione avveniva in genere lungo le coste (cabotaggio) e, soltanto se non si poteva fare altrimenti, si affrontava il mare aperto. Per questo le traversate d’alto mare venivano fatte in punti predeterminati in base all’esperienza, così da minimizzare i rischi conseguenti. Per  l’Adriatico il punto più agevole per passare da una sponda all’altra era proprio il Canale d’Otranto che si attraversava compiendo un tragitto che andava all’incirca da est ad ovest. Ed era questa la direzione di navigazione presa da chi, provenendo dalla Grecia, voleva accedere ad entrambi i litorali salentini. Questo faceva percepire a chi percorreva questa rotta che tutte e due le coste — l’adriatica meridionale e quella ionica — si disponessero lungo la stessa direttrice est-ovest di attraversamento del canale. La configurazione della fascia costiera dipendeva così dalla prospettiva marittima, la quale finiva per deformarne la rappresentazione geografica facendo ritenere ai naviganti che il Salento fosse allineato con la direzione del percorso seguito per approdarvi. A conferma di ciò, è significativo che Strabone, parlando dell’Italia, affermi in maniera esplicita che il promontorio degli Iapigi («τῶν Ἰαπύγων ἄκρα»), intendendo quindi proprio il Basso Salento, si estende in senso «laterale» («παρεμπίπτουσα»27), e non, com’è nella realtà in senso verticale. In pratica era opinione diffusa che le coste del Basso Salento avessero un allineamento grosso modo da ovest ad est, e non da nord a sud, come in effetti è. Quindi il suo disegno era ritenuto di fatto traslato di quasi 90° rispetto alla direzione di vero sviluppo.

I rifacimenti della carta geografica di Eratostene ci danno in genere concreta conferma di questo diverso allineamento, rappresentando tutto il Salento di fatto disposto quasi lungo la direzione dei paralleli. E, ancor più esplicita, si dimostra quella ricostruita in base alle indicazioni fornite da Erodoto — che, ricordiamo, era contemporaneo dell’ignoto disegnatore della “mappa” — dove sperone e tacco d’Italia, essendo bagnati dallo stesso mare, sono collocati l’uno in parallelo all’altro.

In conclusione era pacifico convincimento che il Salento meridionale avesse un diverso sviluppo rispetto a quello effettivo e, da questa rappresentazione falsata, derivava pure l’altra errata convinzione che entrambe le coste della penisola salentina  fossero bagnate da un medesimo mare.

In realtà era l’Italia stessa che veniva percepita in modo inesatto. Polibio — ancora nel II secolo a.C.  — la descriveva con una configurazione triangolare («τριγωνοειδοῦς») con base le Alpi e per vertice il capo Cocinto28, attuale punta Stilo, lasciando intendere che tutte le terre ad oriente di questo punto, e quindi anche il Salento, fossero necessariamente fiancheggiate da un solo mare. Ed a evidenziare questa circostanza, lo storico di Megalopoli precisa che Cocinto, da lui denominato il promontorio d’Italia, «separa il Canale di Otranto dal mare di Sicilia»  («διαιρεῖ δὲ τὸν Ἰόνιον πόρον καὶ τὸ Σικελικὸν πέλαγος»29). Successivamente pure Strabone, sebbene conscio che l’Italia non sia assimilabile ad un triangolo, la concepisce tuttavia «racchiusa sui due fianchi dall’Adriatico da una parte, dal mar Tirreno dall’altra» («σφιγγομένη δ´ ἑκατέρωθεν, τῇ μὲν ὑπὸ τοῦ Ἀδρίου τῇ δ´ ὑπὸ τοῦ Τυρρηνικοῦ πελάγους»30). In aggiunta, cercando di equiparare la penisola italica ad una qualche configurazione geometrica, pur riconoscendo che la costa occidentale, vale a dire «quella bagnata dal mar Tirreno e che finisce sullo stretto [di Messina]» («τὴν ἐπὶ τὸν πορθμὸν τελευτῶσαν, κλυζομένην δὲ ὑπὸ τοῦ Τυρρηνικοῦ πελάγους»31), possa considerarsi rettilinea, l’altra — quella orientale adriatica — la dichiara curvilinea («περιφερές»32). Asserendo inoltre che la costiera adriatica s’inarca verso oriente («ἀνατολάς»33), proprio nei pressi del promontorio Iapigio, attuale Capo S. Maria di Leuca, («ἐπὶ τὴν ἄκραν τὴν Ἰαπυγίαν»34).

Se non bastasse è ancor più esplicito quando, riferendosi al Capo Iapigio, narra che il promontorio si estende per grande distanza sul mare in direzione dell’oriente invernale («ὁ σκόπελος, ὃν καλοῦσιν ἄκραν Ἰαπυγίαν, πολὺς ἐκκείμενος εἰς τὸ πέλαγος καὶ τὰς χειμερινὰς ἀνατολάς»35) e si volge poi un po’ verso occidente in direzione del Capo Lacinio36ἐπιστρέφων δέ πως ἐπὶ τὸ Λακίνιον ἀνταῖρον ἀπὸ τῆς ἑσπέρας αὐτῷ»37). Il che rafforza la convinzione che agli occhi degli antichi il Basso Salento era di fatto orientato da ovest verso est e, quindi, con uno sviluppo orizzontale. E questo orientamento, che pare acquisizione comune e del tutto scontata, costituiva la causa principale della supposizione che la penisola salentina non si trovasse tra due mari.

Con buona certezza, si può pertanto affermare che la mappa di Soleto, nel proporre  le coste del Basso Salento disposte in modo evidente da nord a sud, riproduca pari pari la visione attuale e non quella che ne avevano i geografi e gli storici antichi.

Salvo che l’anonimo grafico non precorresse i tempi, tutto ciò invoglia a credere che il disegno contenuto nella “mappa” sia più recente di almeno sei secoli  rispetto all’ostrakon su cui è stato inciso. Infatti, soltanto a partire da Tolomeo, e quindi dal II secolo d.C., si incomincia a diffondere una configurazione del Salento che s’avvicina a quella reale.

L’impressione che se ne trae è che, in definitiva, non c’è corrispondenza tra conoscenze geografiche di quel periodo e disegno ospitato dalla “mappa”. Anzi lo schizzo fatto sull’ostrakon dimostra una qual certa precocità per questa visione moderna della direzione delle coste del Basso Salento e dei mari che lo bagnano.

In definitiva anacronismi che spingono a dubitare che si tratti d’un disegno fatto tra il V ed il IV secolo a.C. e che, al contrario, ci siano elementi consistenti per sospettare che sia stato confezionato in tempi molto più recenti.

In altre parole che potrebbe trattarsi di un falso.

Anche se per motivi del tutto diversi da quelli da me esposti, la stessa tesi è stata prospettata da Mario Lombardo, tornato a discutere della “mappa” in un articolo che ho lasciato appositamente per ultimo perché rappresenta uno dei più recenti ed illustri pareri sulla validità del documento38.

Gli aspetti essenziali che hanno indotto lo studioso ad ipotizzare che la “mappa” sia un falso riguardano la circostanza che «la qualificazione precisa del contesto di rinvenimento non risulti del tutto chiara né univoca»39 e, inoltre, il «problematico rapporto che si lascia cogliere, almeno in tre casi, tra denominazioni toponomastiche» e «ubicazione geografica»40. Il riferimento è alle sequenze toponimiche ΒΑΛ (BAL), ΣΤΥ (STY) e ΓΡΑΧΑ (GRAXA) le quali trovano riscontro solo nelle legende di emissioni monetali da parte di località vicine a Brindisi (rispettivamente Valesio, Stulni e Graxa) e quindi in una zona a nord di quella rappresentata sull’ostrakon.

Su queste basi, Mario Lombardo considera possibile e lecito supporre che la “mappa” «costituisca un falso realizzato da qualcuno che aveva un qualche interesse a rappresentare un’area geografica specifica dell’orizzonte territoriale dell’antica Messapia, quella con al centro Soleto»41 e, in aggiunta, dotato di ampie e svariate conoscenze. E che, in definitiva, la “mappa” possa essere considerata «come espressione di una ‘imposture’ in qualche misura ‘savante’»42.

Quindi una “impostura erudita”, anche se sprovvista, a quanto sembrerebbe, di precise e buone conoscenze degli aspetti cartografici e geografici del mondo antico.

 

Note

[1]In effetti anche le modalità del rinvenimento rappresentano un piccolo giallo, considerato che le versioni ufficiali fornite da chi aveva condotto gli scavi risultano tre e tutte diverse tra loro.

2 M. LOMBARDO, La “Mappa di Soleto”: aspetti epigrafici, in M. LOMBARDO, C. MARANGIO (a cura di), Antiquitas. Scritti di storia antica in onore di Salvatore Alessandrì, Congedo editore, Galatina 2011, p. 206.

3 Ibidem, p.208.

4 Ibidem, pp. 203-212.

5 A. SICILIANO, La cosiddetta “Mappa di Soleto”: aspetti numismatici, in L’indagine e la rima. Studi in onore di Lorenzo Braccesi (Hesperìa 30), L’erma di Bretschneider, Roma 2013, pp. 1253-1288.

6 F. D’ANDRIA, La “mappa di Soleto” nel contesto archeologico e topografico del Salento (V sec. a.C.), in M. LOMBARDO, C. MARANGIO (a cura di), Antiquitas. Scritti di storia antica in onore di Salvatore Alessandrì, Congedo editore, Galatina 2011, p. 57-66.

7 M. LOMBARDO, Cit., p. 209.

8 Ibidem, p. 210; A. SICILIANO, Cit., p. 1283.

9 F. D’ANDRIA, Cit., p.65.

10 Ibidem.

11 M. LOMBARDO, Nuove scoperte e falsi nell’epigrafia greca tra XIX e XXI secolo. Falsi, imposture erudite e scoperte problematiche, in Studi di Antichità 16. Impostures Savantes. Le faux, une autre science de l’antique?, Congedo editore, Galatina 2018, pp. 97-108.

12 STRABONE (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, I 1, 11.

13 DIOGENE LAERZIO (II secolo d.C. – III secolo d.C.), Vite dei filosofi, II 1, 2.

14 AGATEMERO (III secolo d.C.), Geografia, I 1.

15 ERODOTO (V secolo a.C.), Storie, IV 36, 2.

16 APOLLONIO RODIO (III secolo a.C.), Le Argoutiche, IV 327.

17 ESCHILO (VI secolo a.C. – V secolo a.C.), Prometeo incatenato, 837-840.

18 STEFANO BIZANTINO (VI secolo d.C. – …), Ethnica, voce “Πευκέτιοι”, «Πευκέτιοι, ἔθνος περὶ τὸ Ἰόνιον πέλαγος» (Peucezi, popolo che vive sulle coste del mar Ionio).

19 FERECIDE di ATENE (V secolo a.C.), presso DIONISIO di ALICARNASSO (I secolo a.C.), Antichità Romane, I 13, 1;  TUCIDIDE (V secolo a.C. – IV secolo a.C.), La guerra del Peloponneso, VI 44,1; PSEUDO-SCILACE, Periplo (forse IV secolo a.C.), par. 14; EUDOSSO di RODI (III secolo a.C.), presso l’Etimologico Magno, 18.54, voce Adrías; STRABONE, Cit., II 5, 20 – VI 3, 5 – VII 5, 8; APPIANO (I secolo d.C. – II secolo d.C.), Storia Romana, VII 33; DIONE CASSIO (II secolo d.C. – III secolo d.C.), Storia Romana, presso TZETZE, Scoli all’Alessandra di Licofrone, 602.

20 PINDARO (VI secolo a.C.- V secolo a.C.), Ode Nemea IV, vv. 50 – 53; POLIBIO (III secolo a.C. – II secolo a.C.), Storie, II 14, 5; PSEUDO-SCIMNO, Descrizione della terra (II secolo a.C.), v. 361;DIODORO SICULO, (I secolo a.C.), Biblioteca Storica, XVI 5, 3.  C’è da aggiungere a riguardo che, in alternativa alla denominazione di «Iónios pόros», veniva usata quella di «stóma tou Ionίou kólpou» (imboccatura del golfo Ionio). Pertanto, il Canale di Otranto era indicato con due diverse locuzioni.

21 ERODOTO, Cit., IX 92, 3.

22 PSEUDO-SCILACE, Cit., par. 27.

23 STRABONE, Cit., VII 5, 8-9.

24 VIRGILIO (I secolo a.C.), Eneide, III 396-398.

25 Scolii ad APOLLONIO RODIO, Cit., Frg. 4, 308. Si noti che nel suo complesso lo Ionio diventa pélagos, vale a dire “mare aperto”.

26 P. JANNI, La mappa e il periplo. Cartografia antica e spazio odologico, Giorgio Bretschneider, Roma 1984.

27 STRABONE, Cit., II 4, 8.

28 POLIBIO, Cit., II 14, 4 – 5.

29 Ibidem, II 14, 5 – 6.

30 STRABONE, Cit., V 1, 3.

31 Ibidem, V 1, 2.

32 Ibidem.

33 Ibidem.

34 Ibidem.

35 Ibidem, VI 3, 5.

36 Attuale Capo Colonna.

37 Ibidem, VI 3, 5.

38 M. LOMBARDO, Cit, in Studi di Antichità 16, Congedo editore, Galatina 2018, pp. 97-108.

39 Ibidem, p. 102.

40 Ibidem, p. 104.

41 Ibidem, p. 105.

42 Ibidem.

 

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Un commento a La “mappa di Soleto”: nel contesto geografico delineato dalle fonti narrative antiche

  1. Malgrado tutto, i dubbi sulla vericidità della “”MAPPA DI SOLETO”” restano ancora

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