Un fottuto quarto d’ora extra per il caffè…

di Pier Paolo Tarsi

In copisteria, sono le 17 e qualcosa ma è ancora chiusa. Sono quasi in ritardo, ma decido comunque di aspettare: c’è un cartello sulla saracinesca, apertura serale dalle 17.15 alle… Eh, che siesta sarebbe senza quel fottuto quarto d’ora extra per il caffè? Bisogna capirli sti terroni. Ad ogni modo, deve essere un caffè lungo perché aspetto fino alle 17.20 e non succede niente, quel niente particolare di cui pure Parmenide dovrebbe ammettere l’esistenza: fa caldo, l’aria è ferma, la luce abbaglia, l’ombra scarseggia e le castime sgorgano con pigra naturalezza in sussurri di antica lingua d’oic che fa capolino dall’inconscio. 17.25, niente, o quasi: sbuca dalla strada un ragazzino con una enorme bicicletta nera, talmente spropositata che secondo le leggi della fisica non potrebbe nemmeno sollevare, figuriamoci guidare.

Il gigantesco trabiccolo oscilla rumorosamente su una traiettoria a zig-zag e avanza fin dove me ne sto io, accostandosi alla mia auto. Il ragazzino lo posa al muro e si accomoda sul marciapiedi: “ciao”. “Ciao”. Gli rispondo dall’abitacolo dove schiumeggio già di impazienza e di pensieri truci che evaporano dal finestrino aperto. “E’ chiuso?”. “Sì”. “Quando apre?”. “Ora apre”. “Sicuro?”. “Così c’è scritto là” e gli indico il cartello, sperando che ci legga anche un invito a lasciarmi imprecare in santa solitudine. “Ah”. Passano cinque minuti, e niente, nessuno ancora che arrivi ad aprire quella dannata saracinesca. Il ragazzino sbadiglia, si stiracchia sollevando i pugni al cielo, tira fuori una gomma, se la infila in bocca e avvia un ruminare appiccicaticcio, interrotto qua e là dall’esplodere di bolle che si è messo a fare, il tutto mentre mi fissa ininterrottamente. Passano un paio di minuti e “scusa, ma non avevi detto….- lo blocco subito. “Crisssshh… ora arriva ok, non hai letto? E’ scritto là che dovrebbe già essere qui! Che ne so io perché non arriva!”.

Il mio ritardo sta lievitando di minuto in minuto, s’è fatto spropositato come quella sua bici nera; lui intanto riprende a masticare e fissarmi imperterrito con due occhi da pesce e una montagna di interrogativi che vorrebbe senza dubbio rivolgermi sull’orario di apertura. Passa un’altra manciata di minuti e alla fine non ne regge il peso: gli fuoriesce un “Ma…- “ohhhhh, ma che vuoi da me eh? non hai i compiti da fare? La mamma non si preoccupa se stai in giro?”. Si tace, solo ha l’ardire di alzare e far ricadere le spalle come a dire “questo è pazzo, ed è pure bugiardo, pazienza!”. Resta impassibile per un po’, poi riprende a ingegnarsi su come ingannare la noia: con la gomma fa una bolla più grande di tutte le precedenti, la gonfia, la gonfia finché questa implode in un rumore sordo e fastidioso, ricoprendogli il mento ed il naso.

Sorride, beandosi dell’impresa compiuta sotto il mio sguardo da testimone, se la stacca dal volto e se la rimette in bocca, riprendendo dunque a masticare tranquillamente. Passa ancora qualche minuto, si alza, impugna la bici con cui era venuto, vi si arrampica sopra e parte. “Ciao, io torno dopo eh” mi fa, zig-zagando in salita col suo enorme trabiccolo fino a sparire. Quella saracinesca, invece, non si è mai mossa finché son rimasto là.

 

Radici in fiamme

di Pier Paolo Tarsi
Oggi mi sono concesso una lunga camminata con Tris ripercorrendo lo stesso tragitto che tempo fa, all’inizio dell’estate, mi permise di notare che un giovane uomo aveva preso a curare un uliveto non distante da casa mia e da tempo abbandonato a se stesso. Mi rallegrò molto constatare allora che qualcuno aveva ripreso a lottare, a sperare e resistere nel suo piccolo metro quadrato di civiltà ereditata. Un appezzamento con una trentina d’alberi non ancora fortemente intaccati dalla xylella.
Mi illudevo, evidentemente. Ripassando di là mi si è presentata oggi una scena orribile che non riesco a togliermi ancora dagli occhi e dalla mente. Quell’uomo stava caricando sul suo camioncino gli ultimi pezzi di legna, calmo, serafico, fischiettando al tramonto. La metà di quell’uliveto era stato ridotto a brandelli, pezzi buoni per il camino nell’inverno alle porte; quel che restava di ogni albero, un tronco mozzato qua e là e radici inabissate nella terra, era in fiamme. Anni fa, quando ancora la gente credeva che la xylella fosse un frutto esotico ed io ancora credevo nella mia gente, dalle pagine di un giornale locale scrivevo che perdendo gli ulivi questa terra avrebbe perso tutto. E fui profetico. Tentavo di spiegare che noi siamo un popolo di terra, non gente di mare, come molti, anche salentini, erroneamente pensano, confusi forse dai cataloghi per le vacanze altrui.
Non che si dovesse malinconicamente ed erroneamente tentar di perpetuare un dato passato, pretendere stupidamente di arrestare il flusso della nostra storia. Solo che avremmo dovuto ben guardarci dall’interromperla, tranciando legami e radici. Da allora quasi niente. Da una parte un fronte scientista che ad oggi non ha saputo proporre che far quanto prima il deserto; dall’altra qualche santone verboso. In mezzo tante chiacchiere da politicanti di tutti i colori, nessuno escluso. E tanta, tantissima ignoranza. Quella vera, quella che niente ha a che fare con l’analfabetismo o con ciò che si può imparare all’università.
A un uomo si può insegnare in modo relativamente facile a scrivere, a risolvere una complicata equazione o a programmare la più strepitosa delle app. Queste sono competenze che non ci fanno uomini o donne, sono cose che ci rendono semplicemente delle scimmie particolarmente abili in qualche ambito.
Quel che è difficile davvero da insegnare a delle scimmie per farle diventare uomini e donne è il sentire il valore delle cose ricevute e il valore di ciò che lega le nostre effimere vite agli altri e all’eterno fluire dei tempi. Difficile davvero non è far apprendere a delle scimmie il secondo principio della termodinamica ma portarle a chiedersi cosa implica per loro stesse il compiere una data azione, o ancora portarle a domandarsi del mistero della propria identità. Forse ha ragione Briatore. Bisognerebbe affidare questa terra ormai immemore e senza speranza a quelli come lui per farne finalmente un colorato non-luogo, insignificante forse ma pieno di traffici e soldi, di fregna con cui mirare i tramonti dai lidi attrezzatissimi ubicati tra un gasdotto e l’altro.
Beati, abbronzati e con in mano una frisa deluxe o un mojito, da sorseggiare prima di rientrare nei deserti edificati da faraonici villaggi turistici in cui far trenini fino all’alba. Pensateci: Belen tra noi tutto l’anno e non solo per una notte.
Caro il mio Tris, per noi nemmeno un sentiero di campagna da attraversare in santa pace. Le radici bruciano, il deserto avanza, fuori e dentro di noi. E non è colpa della xylella stavolta. Andremo a fare due passi da qualche altra parte, prima o poi bisognerà rassegnarsi e cambiare aria una volta per tutte.

Stupore

Pietro Bellotti (1625 – 1700), Autoritratto (Gallerie Accademie di Venezia)

 

di Pier Paolo Tarsi

Mi stupisce ogni volta questa natura indeterminata e magmatica delle cose che più avremmo bisogno di conoscere ma che meno ammettono misure assolute.

Un nostro comportamento adeguato, il più bello e virtuoso che possiamo immaginare, trascolora inevitabilmente nel suo contrario: accorgersi del limite prima che ciò accada è, ogni volta, il solo indice di un saper vivere.

Non è facile per chiunque essere per ogni occasione un buon sarto dei propri abiti.

Una reazione comprensibile diviene accanimento, un atteggiamento scherzoso diventa irritante, la serietà, da necessità, può scivolare nell’ottusità, l’altruismo diviene cappio dell’altro; ancora, ora occorre essere fedeli ai propri progetti per dare consistenza alla propria autodeterminazione, per il raggiungimento di un qualche scopo, poi, in un momento difficilmente identificabile ma che bisogna pur riconoscere, ciò che accade intorno fa precipitare quella ferrea volontà in stupidità e miopia.

Un neo Rinascimento italiano

di Pier Paolo Tarsi

Questo nuovo, possibile e incerto (perché nulla è scritto!) Rinascimento, la storia, ha voluto che iniziasse ancora una volta dall’Italia. E non c’è nulla dell’orgoglio patriottico in questo: c’è anzi il dolore che ci sta stringendo, ci sono le vite che ci sta costando questo tramonto precipitoso e drammatico dell’ordine e del disordine mondiale.

Dopo le vite degli uomini e delle donne, questo passaggio ci costerà la fatica di abbandonare le categorie e gli schemi del tempo che fin qua ci ha preceduto, ormai logore e inadeguate.

Leggo e medito, e vedo che tuttavia molti, la grandissima parte direi, non hanno ancora compreso fino in fondo cosa sta accadendo.

Così i sovranisti di destra o di sinistra credono che i liberal-globalisti debbano riconoscere la definitiva sconfitta sul piano fattuale e storico delle loro visioni, ed i secondi credono di aver dimostrato ai primi che nessuna seria sfida oggi è affrontabile senza coordinamento e unità sovranazionali.

Non hanno capito, gli uni e gli altri, che sono tramontati anche i loro idoli e le loro certezze indiscusse, non hanno capito ancora, e forse non lo capiranno mai, restando impantanati in un eterno appena-passato, che gli uni e le altre se li sta portando via un piccolo virus, insieme ai loro strumenti di pensiero e lettura della realtà, insieme ai loro stessi maestri.

Abbiamo bisogno di uomini e donne nuove, per nuovi tempi, abitanti di mondi nuovi.

Lettera aperta di un prof. agli studenti

di Pier Paolo Tarsi

Care ragazze, cari ragazzi, un paragone che ricorre spesso in questi giorni di emergenza per richiamarvi allo sforzo e alla responsabilità personale è quello di una guerra che si vince con il contributo di tutta la nazione, anche vostro.

E allora, proviamo per un momento a scavare in questo paragone, a immaginarli quei vostri coetanei o quasi coetanei cui toccò nel secolo scorso farla la guerra? Proviamo a figurarceli, sprovvisti di ogni nostra comodità, trascinati all’improvviso a qualche centinaio di chilometri o più dalle proprie case, dai propri cari e amici, strappati alle proprie ordinarie esistenze; immaginiamoceli, gettati nel fango a strisciare tra i cadaveri nelle trincee, nell’odore fetido della morte che lasciava gli occhi sbarrati.

Loro erano là, schiacciati dalla fatica, paralizzati dalla paura, attraversati dal gelo o dalla calura, assillati dalla fame, abbattuti dalle malattie e dal dolore fisico, con l’unico fine di lottare per i propri nonni, per le proprie famiglie, per i propri fratelli o amici. Era questo che significava per loro difendere la Patria, una parola che a noi forse non dice nulla e fa persino sorridere talvolta, ma che se riuscissimo a riempire dei loro pensieri e sacrifici, di quelle loro speranze e timori, forse potrebbe d’improvviso manifestarsi in un senso tangibile anche per noi, italiani dell’anno 2020.

La Storia, questa Signora che spesso ci appare tanto lontana ed estranea, non è nelle pagine di questo o quel manuale che portiamo nelle aule ma vive e rivive delle nostre singole azioni ed emozioni, scrivendo instancabilmente nuovi capitoli fatti di destini umani. Così, oggi, quella Signora sta chiamando voi, ognuno di voi, ad una prova epocale. Già. La Storia oggi non vi chiede di starvene per mesi o anni a chilometri dai vostri cari, ma ad un metro da loro per qualche settimana. La Storia non vi chiede di privarvi della vita per i vostri anziani nonni, ma di privarvi di un loro abbraccio, o di un aperitivo, di un’uscita, della visita di un’amica o di un conoscente. La Storia non vi chiede di strisciare nel fango umido o nei rovi della terra arsa tra i cadaveri dei vostri compagni, ma di rotolarvi tra le calde e morbide coperte del letto di casa, guardando una serie in streaming, ascoltando musica o leggendo un libro.

La Storia non vi chiede di rinunciare alle vostre esistenze, ai vostri sogni personali o ai vostri progetti fondamentali, e nemmeno alla scuola, garantitavi a distanza, vi chiede invece di rinunciare a una festa di compleanno, ad una serata o a un caffè con la vostra comitiva, alla palestra o ad una partita di pallone. La Storia chiede a voi ragazze e ragazzi molto meno di quanto abbia chiesto ad altri vostri coetanei venuti prima di voi.

Qualcosa, tuttavia, vi chiede. Cosa? Cerchiamo di stabilirlo e definirlo, ragionevolmente, insieme? Tentiamo di dare a ciò un nome e qualche attributo che non risultino meri suoni? Noi genitori e docenti sappiamo che a tutto ciò che vi viene chiesto, nel pieno rispetto delle vostre vite e dei vostri comprensibili bisogni, va dato il giusto e autentico nome di “sacrifici”; voi, dal vostro canto, per il rispetto dovuto a quei vostri coetanei e alle proporzioni di quell’esempio tratto dalla storia recente, permetteteci di qualificarli come “modesti”.

Eppure, badate, quei “modesti sacrifici” cui infine siamo convenuti e che vi si chiedono oggi basteranno a potervi definire eroi un giorno non lontano: ragazze e ragazzi che con sforzi e rinunce personali avranno salvato l’Italia e la sua gente da una disfatta irrimediabile, dalla perdita di innumerevoli vite umane. A voi, allora, la responsabilità di scrivere questa nuova pagina di Storia, a voi decidere se sarà gloriosa e motivo di ammirazione dei posteri per la vostra generazione, oppure amara e ignobile come una rovinosa e definitiva sconfitta. L’una o l’altra possibilità, la Storia, non potrà ad ogni modo realizzarla al posto vostro, strappandovi dalle mani una penna che impugnate saldamente voi, che ci crediate o no.

Andate a vincere questa guerra ragazze e ragazzi, anzi, restate a vincerla, a casa.

 

(Ndr. La lettera è stata pubblicata anche sui siti La Tecnica della Scuola e Orizzonte Scuola) 

George Berkeley e Lecce

di Pier Paolo Tarsi

George Berkeley, dopo averle visitate – rigorosamente, da buon filosofo empirista! – non aveva dubbi su quale fosse la città più bella d’Italia.
«Signore,
sono appena tornato da un viaggio attraverso le parti più remote e sconosciute d’Italia. Le celeberrime città di cui Sua Signoria è perfettamente a conoscenza.
Forse però Lei non sa che la città più bella d’Italia si trova in un remoto angolo del tacco. Lecce (anticamente Aletium) è di gran lunga la città più ricca di ornamenti architettonici tra tutte quelle che ho visitato. Le case più semplici sono costruite con pietre tagliate, porte decorate, case rustiche. Gli ornamenti attorno alle finestre sono di ordine dorico e corinzio, le balaustrate sono in pietra. I bellissimi conventi che ho visto a Lecce non li ho ritrovati in nessuna altra parte d’Italia, per quanto a volte le decorazioni risultino addirittura superflue.
Prevalgono gli ornamenti di ordine corinzio, il più amato dagli abitanti. Lo si ritrova infatti anche sulle porte della città, stupende.
La città non si affaccia sul mare e quindi non ha un commercio florido, ragion per cui gli abitanti non sono più di 16.000. Sono persone civili ed educate, sembra che abbiano ereditato l’amabilità degli antichi greci che in passato hanno abitato
queste parti dell’Italia.
Saprà che nella maggior parte delle città italiane i palazzi sono effettivamente molto belli, ma le case ordinarie sono di scarso rilievo. Anche a Roma è così. A Lecce invece il buon gusto è generalizzato e caratterizza perfino le più umili delle abitazioni. Ho visto tante altre città notevoli, tra le rimanenti cinque bellissime città in un giorno solo, la maggior parte di esse costruite con marmo bianco i cui nomi sono ignorati dagli inglesi.
La stagione dell’anno (molto più mite di quel che mi aspettavo) e i tanti splendidi paesaggi di Puglia, Peucezia e l’antica Calabria hanno reso questo viaggio davvero piacevole. Devo ricordare anche i bei resti dell’antichità che ho visto a Brindisi,
Taranto, Venosa (città natale di Orazio), Canne, famosa per l’importante vittoria riportata da Annibale e tanti altri posti, in ognuno dei quali eravamo visti come creature cadute dal cielo, a volte eravamo seguiti da cospicui gruppi di curiosi cittadini che ci accompagnavano per le strade. La paura dei banditi che dissuade tanti stranieri dal visitare queste terre non è che uno spauracchio.
Al mio ritorno a Napoli ho trovato il Vesuvio in uno stato preoccupante che non è ancora scomparso del tutto.
Prego Sua Signoria di comunicarmi quale strada intendono percorrere Lei, la mia Signora e Mrs Parker, in maniera da poterci incontrare per il viaggio di ritorno.
Porga loro i miei saluti.
Testaccio, isola di Inarime,
I settembre N.S. 1717»

Le immagini iconiche del territorio salentino, by Lamas (Andrea Greco)

Convitto Palmieri

 

di Pier Paolo Tarsi

Se fosse possibile scrivere qualcosa di univoco ed esauriente intorno alle opere di Lamas, ebbene, quelle, crediamo, semplicemente non sarebbero opere di Lamas. Così è per le immagini iconiche del territorio che ritroviamo nella serie delle illustrazioni digitali da lui firmate: costruzioni, scorci di paesaggi, architetture, vedute ed elementi tipici, tratti caratterizzanti o fortemente rappresentativi dell’immaginario locale e pugliese che, nelle sue mani, non hanno più nulla di consueto, pur restando perfettamente immutati nella loro immediata riconoscibilità, identificabili ed intimi proprio come lo spettatore li avverte.

Copertino

 

Modi inconsueti – che oscillano fra tutte le sfumature possibili tra il ludico e il nostalgico – di manifestare ciò che è da sempre familiare, reinventandone totalmente la superficie e trasfigurandone in un sogno digitale colori, contrasti e luci, senza tuttavia intaccare, anzi, stranamente, amplificandone l’identità propria, la specifica atmosfera e gratificando un senso nucleare di attaccamento degli spettatori per lo scenario delle loro esistenze che riappare in questo sorprendente abito.

Lecce

 

Umili o solenni, naturali o artificiali, antichi ma tirati a lustro o recenti ma trascurati, unici come i profili e le forme di certi edifici monumentali o come alcuni celebri scorci, oppure prodotti in serie o potenzialmente anonimi come le linee dei tralicci, le pale eoliche o le forme di una periferia industriale, ogni elemento presente in questo sogno a colori animato e non di Lamas riesce a penetrare le pieghe più intime dei suoi luoghi d’origine e restituirle in un linguaggio del tutto nuovo ma fedele all’essenziale.

Instagram:

@lamaslamas

Gallipoli

Porto Selvaggio
Torre Colimena

Riproduzione vietata

Il problema difficile della rivalutazione delle costruzioni a secco nel Salento

di Pier Paolo Tarsi

 

Ed ora, dopo il clamore?

Il problema difficile della rivalutazione delle costruzioni a secco nel Salento.

Le più tardive bocche si compiacciono ancora in queste ore per il recente riconoscimento da parte dell’Unesco delle costruzioni a secco quali patrimonio dell’umanità. Dopo la consueta sbornia mediatica condita da immancabile cassa di risonanza social, dopo l’entusiastica accoglienza della gradita notizia da parte dei tanti salentini “presciati” per l’ennesima conferma delle qualità del proprio territorio (stuprato e quotidianamente calpestato, si sa, ma “lu presciu” qui non si cura), cosa resterà dunque di questo formale riconoscimento?

Conviene, con risoluto disincanto, porci quanto prima tali domande come saprà bene chi è da sempre attento alla valorizzazione del territorio e comprende, oggi più che mai, l’opportunità di cogliere l’attimo e continuare a insistere, ad imporre l’importante tema all’attenzione pubblica e della classe dirigente, prima che l’una e l’altra si volgano frettolosamente altrove.

Che sia giusto e opportuno far così ce lo conferma del resto proprio l’agire della Fondazione Terra d’Otranto, la quale, nella persona del suo infaticabile presidente Marcello Gaballo, ha organizzato il primo convegno locale sulla questione il 13 gennaio 2019, a Nardò, a pochi giorni dal detto riconoscimento Unesco.

Ben fatto caro amico. Ma ora? Che fare? Si è tutto già concluso, consumato con la rapidità con cui fagocitiamo la notizia del giorno, o si è solo avviato un percorso come auspichiamo tutti? Dobbiamo lasciare che il sipario sul tema cali, come è prevedibile se non inevitabile di questi tempi accada, oppure quanto è appena stato dovrebbe servirci per innescare un incendio da mantenere a lungo vivo?

Nel dubbio non abbiam che da chiedere al buon Cecco, ed il responso è e fu sempre questo: ardere il mondo! Occorre allora, crediamo, porgerci subito ed entrare senza indugi nel vivo di alcune questioni rilevanti: quale percorso meditato e quale progettualità territoriale dovrebbe seguire nel Salento ai riconoscimenti dell’Unesco?

Per i molti o pochi salentini che, decenni prima che si pronunciasse l’Unesco, già coglievano da sé la rilevanza del patrimonio architettonico a secco, l’occasione è certo favorevole per ridestare l’attenzione pubblica e della politica intorno a domande che da tempo avremmo già dovuto risolvere come salentini e che ora pertanto non possiamo permetterci più di rimandare o far ricadere nell’oblio.

Come tutelare realmente e valorizzare efficacemente questo patrimonio evitandone la dispersione, al di là dei bagordi mediatici passeggeri e al di là anche delle leggi di tutela già da tempo in vigore o dei controlli già operativi sul rispetto delle stesse?

Il problema è solo in apparenza banale e semplice, meglio ancora non è affatto accostabile senza una approfondita riflessione che qui proveremo a delineare.

Possiamo constatarlo con un minimo di premesse che ci permettano di intuire le dimensioni reali e il cuore nevralgico della questione.

Partiamo da un esempio immaginifico e fantasioso che, se all’inizio sembrerà allontanarci dal problema e senza dubbio annoierà gli impazienti, come un buon investimento dovrebbe in realtà fruttarci molto e permetterci di illuminare il nucleo più profondo e arduo della questione concretissima che abbiamo di fronte. Immaginiamo, con un piccolo sforzo di fantasia, neanche tanta per dire il vero, che un uomo preistorico precipiti in un’aula scolastica e domandiamoci: quale esperienza avrebbe mai in quella situazione il nostro? Cosa vedrebbe veramente attorno a sé questo supposto individuo? Quale (arido e deprivato!) paesaggio contemplerebbe? Non è difficile comprenderlo: percepirebbe e distinguerebbe senza dubbio, come forse persino a un animale riuscirebbe, gessi, lavagne, penne, matite, gomme, fogli di carta ecc., o meglio una collezione di oggetti fisici scissi, dei quali però non comprenderebbe minimamente l’uso, le funzioni e i reciproci rimandi oggettivi che connettono strettamente un utensile all’altro in un sistema unitario, organico, ordinato e complessivamente sensato di relazioni: in breve, di tutte quelle cose che pur vedrebbe non ne intenderebbe minimamente il significato.

Perché tutti quegli utensili possano manifestarsi al nostro in ciò che per tutti noi comunemente sono, egli avrebbe infatti necessariamente bisogno di un nostro intervento, di una chiave d’accesso che gli consenta di cogliere, in un sol colpo (si fa per dire!), il senso di tutto ciò che pur avendo sotto gli occhi gli sarebbe ancora di fatto precluso nella sua dimensione propria, quella cioè che chiamiamo normalmente culturale.

Qual è questo ingrediente che potremmo definire l’autentica ragion d’essere in quell’aula di ognuno – e di tutti! – quegli oggetti? La risposta è ovviamente la scrittura! Se e solo se il nostro uomo primitivo fosse accompagnato da qualcuno nella scoperta dell’esperienza della scrittura, potrebbe allora finalmente vedere davvero, comprendere cosa vede, potrebbe cioè accedere in una cornice unitaria di senso che dissolverebbe il mistero che quegli oggetti nascondono, rischiarando ai suoi occhi il rimando di un gesso alla lavagna o a un cancelletto, il significato di un foglio di carta connesso a quello di una penna o di una matita, o ancora la relazione tra questa con una gomma e così via. Tutti quegli oggetti infatti hanno un significato preciso e svolgono una funzione determinata ed esplicita solo in un mondo in cui esiste la scrittura, una pratica che li lega e li interconnette in una trama di rimandi reciproci e oggettivi, uguali per tutti coloro che abitano un mondo storico in cui esiste la scrittura.

Detto in altre parole: la scrittura (prodotto storico, umano, invenzione culturale) è la ragion d’essere di una forma di vita in cui quegli oggetti possono unicamente esistere come utensili, prodotti storico-culturali, incarnazione di precisi significati condivisi da chi è nato nella nostra civiltà alfabetica ma non accostabili da nessuna intelligenza con la mera percezione.

A questo punto possiamo finalmente tornare al nostro problema di partenza, riformulando la domanda iniziale sul patrimonio salentino in un modo più preciso e penetrante, ovvero in grado di farci rilevare il vero problema da affrontare, il quale non consiste tanto in meri riconoscimenti formali o leggi di tutela (per quanto importanti e necessari naturalmente, non vogliamo infatti minimamente svalutarne il valore, semmai indicarne l’insufficienza): cosa unicamente e unitariamente tiene insieme e connette reciprocamente le pajare in tutte le varianti e destinazioni, i muretti, le tante opere rurali a secco, gli strumenti che servono alla loro manutenzione, le arti e le professioni che servono alla loro realizzazione, le abitudini, gli scopi, le motivazioni, le pratiche e i saperi che servono a conservarle e preservarle?

Quale è la chiave d’accesso a questo mondo architettonico rurale, a questo immenso patrimonio di opere che in questi giorni, sollecitati dalla bella novità, celebriamo ma che come l’uomo primitivo in quell’aula, anche noi rischiamo di osservare come meri oggetti, magari belli, meritevoli di apprezzamento, ma senza afferrarne più l’autentico significato? Qual è il mistero che anima quell’insieme?

Qual è il suo segreto, la “scrittura” da rinvenire questa volta? La risposta è anche qui ovvia: la ragion d’essere di tutto ciò è la forma di vita propria del mondo contadino antico che in quel linguaggio architettonico a secco si è espresso e che quel patrimonio ha prodotto, il suo segreto è una civiltà cancellata, storicamente tramontata.

Si tratta del mondo proprio di gente con un modo di lavorare, produrre, spostarsi, misurare, organizzare lo spazio e il paesaggio, di uno scenario di sopravvivenza in cui ogni costruzione a secco, ogni opera, aveva il suo proprio autentico significato e la propria specifica, necessaria, preziosa, insostituibile funzione e utilità per affrontare con fatica una dura esistenza.

Così come in un mondo senza scrittura non avrebbe alcun senso fabbricare, riparare, acquistare e utilizzare penne, cancelletti, lavagne, matite, gomme, quaderni, fogli, gessi, ovvero tutti quegli oggetti che senza scrittura sarebbero destinati a sparire (a proposito, che stia già accadendo tutto ciò con la “nuova forma” di scrittura che impone la rivoluzione digitale in corso?!), in un mondo in cui non c’è più quella forma specifica di esistenza agricola che nei secoli ha plasmato il paesaggio salentino, non potranno – come se nulla fosse cambiato! – continuare a preservarsi a lungo e in gran numero le sue testimonianze sparse sul territorio, cioè pajare, furnieddhi, maestranze che sappiano edificarle, manutenerle, ripararle (ve ne sono più in vita?).

Essendo venuto meno quel mondo contadino che le ha prodotte, è plausibile allora sperare di conservare con uno sforzo condiviso queste diffuse testimonianze di un patrimonio dell’umanità solo inventando noi tutti ex novo una forma unitaria e alternativa che, in vece della prima ormai perduta, le tenga nuovamente insieme, le porti a nuove funzioni e possibilità e ci sostenga veramente e in modo condiviso e perdurante in uno sforzo minimamente plausibile di tutelarle!

Qual è questa forma di cui stiamo cercando di mettere in luce l’urgente necessità come di una scrittura che porti alla vita gli oggetti muti in un’aula che è il nostro intero paesaggio?

Può assumere questa, ad esempio, le sembianze di un rilancio dell’agricoltura, di un cosiddetto “ritorno alla terra”, tanto sulla bocca di tutti quanto nelle mani di nessuno? Ne dubitiamo: un “ritorno alla terra” sarebbe in ogni caso un’altra forma di vita agricola, una “scrittura” totalmente diversa del paesaggio rurale, l’edificazione di un “ecosistema” profondamente differente da ciò che vorremmo preservare rigenerando.

Alcuni esempi tanto banali quanto crudi dovrebbero bastare per rendercene conto: un imprenditore agricolo cosa se ne farebbe di un ricovero per attrezzi da tempo scomparsi (da reperire, nella migliore delle ipotesi, nei musei etnologici!)? Di ben altri spazi e rifugi avrebbe infatti egli bisogno! Cosa se ne farebbe questi di un rifugio temporaneo per la notte, nato per le esigenze di un contadino ormai inesistente, privo ad esempio di mezzi di spostamento rapidi e motorizzati come i nostri, impossibilitato pertanto a tornare nella propria dimora sul far della sera?

Complesso di pajare con forno (foto nicola febbraro)

 

Ancora: potrebbe essere la forma di vita che andiamo cercando un nuovo modello di fruizione turistico-abitativa cui indirizzare il paesaggio rurale quale scenario certamente mirabile, seppur non immediatamente predisposto per soggiorni vacanzieri sostenibili? Tale sfida è già più plausibile ai nostri occhi ma ancora una volta non garantita, ardua e tutta da immaginare e inventare: non ci sono infatti, almeno per quanto ne sappiamo, molti modelli attinenti a cui facilmente ispirarsi. Il celebre caso di Alberobello ad esempio, la nota città dei trulli che dell’architettura a secco ha fatto la sua gloria nel mondo (ma anche la sua morte per rinascere triste souvenir!), non può essere minimamente riproposto nel Salento per diverse ragioni che rendono i due contesti incommensurabili.

Ne ricordiamo qua solo una ben nota agli studiosi del paesaggio: la vicinanza delle campagne ai numerosi centri abitati salentini ha determinato nei secoli passati una dispersione delle costruzioni a secco nel nostro territorio e una destinazione temporanea delle stesse, a fronte di una concentrazione evidente in Valle d’Itria o in terra di Bari, contesto ben differente questo che ha agevolato la nascita di borghi interi di pietra e di unità architettoniche abitabili stabilmente. In conclusione, le domande vere sulle quali la comunità salentina intenta a interrogare le possibilità di un futuro sostenibile per le costruzioni a secco – e in primis la classe dirigente – dovrebbe orientarsi sono, crediamo, quelle qui sintetizzate e così ripercorribili: come ripensare, come “rifunzionalizzare”, come riconcepire nell’ambito di una nuova identità e cornice unitaria ogni elemento del paesaggio rurale da preservare in stretta relazione agli altri, conservandolo nel suo nuovo significato e nella sua nuova necessità vitale per la comunità locale?

Come destinare ogni meraviglia di pietra che il passato ci ha saputo donare a un nuovo e rispettoso destino funzionale tale che ci motivi tutti indistintamente a tutelarlo per davvero, a servircene nuovamente non come mero oggetto da museo, non come mera testimonianza di un’aula senza scrittura, non come mirabile nostalgia in rovina, e non come rudere rimesso a nuovo, ma come elemento vivificato del nostro mondo attuale e presente?

Questi i veri interrogativi che la politica attuale deve affrontare, prima che quel che resta vada perduto, prima che il clamore si dissolva di nuovo, prima che cali ancora una volta il sipario. Questo è il compito da affrontare con ragionata urgenza, da cui possono discendere sensate ed efficaci azioni concrete, frutto di un progetto unitario.

Le costruzioni a secco del Salento, patrimonio dell’umanità. Se ne discute il 13 a Nardò

Dopo il rinvio dello scorso 4 gennaio a causa delle avverse condizioni metereologiche viene rinnovato l’appuntamento voluto dalla Fondazione Terra d’Otranto, con il patrocinio della Città di Nardò, che avrà per tema “Le costruzioni a secco del Salento, testimoni del nostro sentire più intimo e del nostro passato, patrimonio dell’umanità”.

L’incontro – dibattito avrà inizio sempre alle 19.30, nella chiesa di Santa Teresa a Nardò, su Corso Garibaldi.

Confermate le presenze di Cristian Casili, agronomo e consigliere regionale, di Don Francesco Marulli, Direttore dell’Ufficio Diocesano per la Pastorale sociale e il lavoro, di Mino Natalizio, assessore all’Ambiente del Comune di Nardò, di Fabrizio Suppressa, architetto, e di Pier Paolo Tarsi, docente nei Licei.

La novità, rispetto a quanto già pubblicizzato, è la partecipazione di Glauco Teofilato, che sarà portavoce per gli studi condotti da suo padre Cesare sulle Specchie salentine, testimonianze delle epoche primitive che corrono tra l’Età della pietra e quella dei metalli, che si trovano nell’archivio di materiale edito ed inedito che lo studioso ha ereditato. Modera Marcello Gaballo, presidente Fondazione Terra d’Otranto.

Nel corso della serata è prevista la proiezione di numerose slides, partendo dai monumenti megalitici particolari di Terra d’Otranto, sino alle costruzioni più moderne con le pietre informi che i nostri contadini aggregavano per liberare dai sassi l’area dei loro lavori agricoli.

Le mani di Hassan

di Pier Paolo Tarsi

Hassan è nato dove le pietre hanno un’altra consistenza, dove gli strati della roccia si arroventano al sole del vicino Sahara e i muri delle città emanano un bagliore bianco, candido come le vesti di chi attraversa da secoli il silenzio del deserto.

Dal Marocco, dove Hassan appunto nasce, non ci separa ma ci unisce il mare, e le mani pregne della medesima antica pazienza dei tanti sud, gravide di arte e di passione come quelle di questo ragazzo, sono una riformulazione unica di questo primordio di comunione antica e qui rinnovata, incisa e scolpita nella tenera pietra nostrana, quella leccese.

In principio, è stato scritto, era l’azione: l’uomo, da sempre, si va attuando e facendo da sé modificando ciò che incontra; col suo fare il mondo delle cose va costituendosi in spazi abitabili e nicchie di significati che lo definiscono e lo specificano come essenza culturale per natura. Ed è un semplice corollario di questo principio generale l’evidenza che Hassan va facendo e tessendo con le sue proprie mani la propria essenza o identità di artista e artigiano salentino, seppur venuto da lontano.

Ricalcando pratiche e mestieri che noi andiamo invece perdendo, va definendosi come la parte più intima del nostro essere salentini mentre noi già la smarriamo, e lo fa dialogando e plasmando proprio la materna e più tipica pietra che la nostra terra offre. Doni del deserto, trasportateci, come sempre le cose più preziose, dal mare, le sue mani apprendono e acquisiscono quanto di meglio hanno compiuto prima di lui quelle mani che hanno edificato nei secoli chiese e altari nostrani; ne emulano i gesti, gli inciampi e le perizie, l’improvviso impuntarsi, il deciso sferzare o i carezzevoli sfreghi, delineando così profili e incidendo la sostanza della pietra leccese di cui le sue opere sono fatte.

Hassan vive a Copertino ed è pertanto un suo figlio venuto da lontano, giunto qui a ripercorrere le tecniche e le forme della nostra tradizione artigianale, a renderci fieri così in questo rispecchiarci nella bellezza delle nostre opere che ora è lui a mostrarci e svelarci, partecipandone e rinnovandone la creazione nei suoi lavori. Non occorre alcuna retorica dell’inclusione quando è la sintassi stessa delle mani a plasmarla, a tesserla, agendo secondo saperi e pratiche culturali emerse nel Salento ma che appartengono, semplicemente, a chi le attua, arricchendole inoltre di una luce abbagliante che viene da un altrove. Le pratiche non conoscono confini, solo artefici, e le essenze, le identità, non conoscono frontiere, solo persone, attori che le incarnano e le pongono così in essere, rigenerandole in un dinamismo perpetuo e rimettendole in movimento col prestito della propria carne ed esistenza, delle proprie mani. Ecco a voi, allora, semplicemente Hassan Forssane, artigiano della pietra leccese venuto dal Marocco.

Antonio Ferrariis, detto il Galateo, al marchese di Nardò

di Pier Paolo Tarsi

Siamo nel Salento, è appena iniziato il ‘500, il secolo emette vagiti, ha soltanto un anno. Un ormai anziano Antonio Ferrariis, detto il Galateo, ha da poco finito di consumare la sua frugale cena. È fatta di pochi cibi semplici, proprio come consiglia nei suoi testi di medicina e nelle lettere in cui dispensa consigli e pareri agli amici che si affidano alla sua sapienza per lenire i mali della propria carne e dello spirito. Con la scienza medica Galateo cura i primi, con la filosofia si occupa dei secondi. Fuori è ormai buio. Alla luce fioca di un lume inforca una penna, la intinge nel calamaio per scrivere una lunga lettera. È indirizzata al marchese di Nardò e conclude con queste parole: “Perciò, o nobile signore, con la tua saggezza e dottrina, non considerare spregevole per la razza, la condizione, le infermità, gli oscuri natali, per qualche misfatto dei suoi progenitori alcun uomo che non sia gravato da propri vizi”.

Erasmo non ha ancora scritto il suo Elogio della follia, Lutero non ha ancora affisso le sue tesi a Wittenberg. La modernità, ufficialmente, non è ancora del tutto iniziata.

La travagliata (ed anche comica) storia del monumento ai caduti di Copertino

di Pier Paolo Tarsi

La storia del monumento dedicato ai caduti copertinesi è incredibilmente travagliata e ricca di poco chiari impedimenti protrattesi per anni: per quel che ne traspare dai frammenti scrutabili, le vicende che portarono alla sua definitiva edificazione si colorano delle più varie sfumature di pathos, talvolta quelle comiche, proprie della migliore commedia all’italiana, talaltra quelle dell’acuta e pungente tensione.

Le interessanti fonti di natura giornalistica che illuminano fiocamente tali fatti aprono al contempo spiragli sui costumi, sulle dinamiche interne cittadine e, come vedremo, sulle rappresentazioni sociali di alcuni copertinesi proprie dell’arco di tempo che si interpone tra il 1919, anno in cui la costruzione del monumento viene promossa da un comitato cittadino, fino al 1925, quando ne viene finalmente celebrata l’inaugurazione. Come vedremo tuttavia, la storia del monumento ci trascinerà nell’indagine molto oltre quegli anni, addirittura fino alle soglie dei nostri giorni, riconducendoci ad una riflessione su noi stessi e alle nostre attuali responsabilità civiche.

Il primo brano giornalistico, pubblicato in data 13 aprile 1919 su “La Provincia di Lecce”, annuncia la genesi dell’intenzione progettuale di erigere il monumento, indica i promotori di quella che si rivelerà, come vedremo, una vera e propria impresa, e informa infine circa le prime modalità organizzative adottate per lo scopo:

«Un gruppo di militari copertinesi, recentemente tornati dalle aspre fatiche della guerra alle feconde opere di pace, ha pensato di onorare, con la erezione di un monumento, la memoria di quei concittadini che, con l’olocausto della propria vita, hanno scritto la gloria non peritura della nuova Italia. Certamente la cittadinanza darà in questa occasione una vibrante manifestazione di solidarietà e patriottismo, come segni di gratitudine per i suoi figli. Per domenica 13 corr. il Comitato promotore ha invitato tutti i militari congedati e congedandi a intervenire alle ore 17 nei locali dell’Associazione Democratica Popolare per prendere i relativi accordi»

Da quella domenica d’aprile, con un lungo percorso implicante autorizzazioni, delibere comunali, l’approvazione del Vescovo di Nardò (rilasciata in data 23 gennaio 1923) per lo spostamento dell’Osanna allora presente nella piazza prescelta, fino all’arrivo della statua monumentale, dovranno trascorrere più di quattro anni; sullo stesso giornale infatti, in data 30 settembre 1923, leggiamo:

«Fervono i lavori del Comitato pro-monumento ai Caduti, egregiamente presieduto dal dott. Cav. Antonio Pisacane. In questi giorni è arrivata la statua di bronzo che rappresenta un atletico soldato che con la spada in pugno difende la bandiera. L’opera è ispirata e magnifica e ne è autore il vostro valoroso giovane concittadino Raffaele Giurgola certamente destinato a luminoso avvenire»

Gli ulteriori dettagli forniti da questo articolo e che di seguito esporremo saranno clamorosamente smentiti dagli eventi successivi; a tali dettagli si accompagnano inoltre dei coloriti commenti del giornalista a proposito di alcune vicende che potrebbero costituire i primi segnali di preludio a un processo difficile e per certi versi comico che porterà alla più che tardiva inaugurazione del monumento.

«Il monumento – leggiamo – sarà inaugurato il 4 novembre prossimo con una solenne celebrazione di fede e con l’intervento di molte autorità, sorgerà in una vasta e magnifica piazza circondata di alberi e ricorderà agli immemori il sacrifico dei nostri soldati»

Così tuttavia non sarà: sullo stesso giornale, ma addirittura due anni dopo – precisamente il 24 maggio 1925! – un brevissimo, lapidario e arido comunicato ce ne dà conferma:

«Il Municipio ha fissato per oggi la cerimonia per l’inaugurazione del monumento, eretto a spese della cittadinanza, in memoria dei 165 caduti in guerra».

Cosa comportò dunque un così stupefacente ritardo e un così succinto e stanco annuncio finale delle effettive celebrazioni? Una pista per setacciare una plausibile risposta alla nostra curiosità potrebbe essere rinvenuta tra le vicende cui si alludeva prima ed esposte nel già citato pezzo del 30 settembre 1923, il medesimo che annunciava la data di inaugurazione solenne prevista per il 1923 e poi disattesa. Tra quelle righe, andando oltre quanto sopra riportato, leggiamo:

«Anche per questa opera alta e nobile che avrebbe dovuto far tacere tutti gli odi, sono stati i soliti quattro Catoni che hanno cercato di avvelenare la popolazione e hanno informato il Vescovo di Nardò, affermando che il monumento rappresenta un soldato…ignudo e che, quindi, è scandaloso. A parte che l’arte non può immiserirsi in certe grossolane considerazioni, i Catoni e i timorati possono tranquillizzarsi perché il drappo della bandiera sostituisce magnificamente la tradizionale…foglia di fico!!».

Potrebbero essere stati lo scandalo e le conseguenti polemiche dei “quattro Catoni” timorati cui alludeva il giornale già nel 1923 a suscitare un simile differimento di due anni per l’inaugurazione ufficiale? Così potremmo concludere, almeno se ci basiamo su quanto narrato dalle fonti qui usate e su ciò che da quelle se ne può inferire. Ad ogni modo, al di là dello stupore e del mormorio scandalizzato dei Catoni copertinesi dell’epoca, il giusto e simbolico riconoscimento al valore e alla memoria dei caduti fu infine inaugurato nella grande piazza alberata di Copertino.

Nemmeno con ciò, tuttavia, ebbero termine le travagliate vicende del monumento: negli anni del secondo conflitto mondiale la bronzea statua del Giurgola rischiò infatti di essere smantellata a causa delle requisizioni dei materiali metallici necessarie per lo sforzo bellico. Una lettera[1] del suo stesso artefice inviata al Podestà ci offre testimonianza del reale pericolo che la statua rientrasse nell’elenco degli oggetti in bronzo da destinare alla raccolta:

«Lecce, 19 novembre 1940 Al Sig. PODESTà. è a mia conoscenza che si chiedono informazioni ai Comuni sul peso dei bronzi dei Monumenti ai caduti, da cedere alla Patria. Quale progettista del Monumento ed esecutore della scultura in bronzo del medesimo in questo Comune, Vi prego di volermi tenere informato quando la statua deve essere smontata. Faccio presente che volendo servirei dello stesso modello per realizzare la riproduzione in marmo o in altra materia sarebbe necessario procedere al calco della statua prima di inviarla ai rottami. Ciò perché si realizzerebbe una grandissima economia nei raffronti della esecuzione della nuova opera, che dovrebbe sostituire quella rimossa. In attesa di un cenno di risposta Vi saluto cordialmente. Scultore Prof. Raffaele Giurgola»

Fortunatamente, solo la ringhiera in ferro che in origine circondava il monumento venne di fatto requisita ed il pericolo di una distruzione della statua fu effettivamente scongiurato dopo la comunicazione prefettizia del 12 ottobre 1941[2]:

«Si avverte che, per superiore disposizione, i monumenti in bronzo ai Caduti, o dedicati a personaggi di rilevante importanza storica, o comunque in particolare attaccamento alla popolazione, non devono essere per ora rimossi. […] Si avverte, infine, che nessuno dei monumenti stessi dovrà essere demolito se non quando la sostituzione sia pronta. Assicurante. Il Prefetto»

Dopo i tanti travagli di un storia dalle tinte varie qui brevemente ripercorsa, l’ormai quasi centenario monumento ai caduti copertinesi è giunto ai nostri giorni e, con esso, giunge a noi cittadini anche la piena responsabilità e il dovere della sua preservazione e cura a beneficio della memoria delle future generazioni. Al realistico timore che oggi l’incuria e l’indifferenza possano giungere con la loro portata annientatrice persino là dove le estreme ragioni della guerra non osarono, rispondiamo con queste pagine volte sia a far cogliere il complesso valore simbolico incarnato dal monumento consegnatoci con fatica dai nostri avi concittadini, sia a richiamare l’impellente necessità di un suo restauro, da realizzare – come ci auguriamo con questa pubblicazione, finalizzata anche al conseguimento di tale scopo concreto – nello spirito solidale e nella responsabilità collettiva che nel tempo hanno animato la comunità copertinese nel compiere condivisi e ben più ardui sforzi di questi.

 

[1] A. Raganato, “Atti di Pubblica amministrazione del Podestà a Copertino”, Università del Salento, a.a.2007-08, pp.56-7.

[2] Ibidem.

19/11/2018

Su segnalazione dell’Arch. Fabrizio Suppressa si integra il testo con alcune foto d’epoca sul monumento ai caduti di Copertino, tratte dal catalogo di una mostra fatta a cura della Pro Loco durante l’ultima festa di San Giuseppe. Lo stesso segnala inoltre che esisteva anche un’altra cancellata a Copertino rimossa durante il fascismo, che era quella che circondava le scuole di via Roma.

Ad ulteriore integrazione pubblichiamo altre foto gentilmente messe a disposizione da  Cosimo Tarantino:

Monumento ai caduti (1958)

Antonio de Ferrariis, detto il Galateo, al marchese di Nardò

galateo

di Pier Paolo Tarsi

Siamo nel Salento, è appena iniziato il ‘500, il secolo ha soltanto un anno. Un ormai anziano Antonio Ferrariis, detto il Galateo, ha appena finito di consumare la sua frugale cena, fatta di pochi cibi semplici, proprio come consiglia nei suoi testi di medicina e nelle lettere in cui dispensa consigli e pareri agli amici che si affidano alla sua sapienza per lenire i mali della propria carne e dello spirito.

Fuori è ormai buio. Alla luce fioca di un lume inforca una penna, la intinge nel calamaio e scrive una lunga lettera indirizzata al marchese di Nardò per concludere quanto segue: “Perciò, o nobile signore, con la tua saggezza e dottrina, non considerare spregevole per la razza, la condizione, le infermità, gli oscuri natali, per qualche misfatto dei suoi progenitori alcun uomo che non sia gravato da propri vizi”.

Erasmo non ha ancora scritto il suo Elogio della follia, Lutero non ha ancora affisso le sue tesi a Wittenberg. La modernità, ufficialmente, non è ancora iniziata.

La moltitudine perdente

Vernet

di Pier Paolo Tarsi

Giunse il tempo in cui anche per l’umanità nomade la vita dovette prendere una piega stanziale. La millenaria lotta che quella stirpe aveva condotto contro i sedentari non cessò né si dileguò mai, si trasferì soltanto nell’animo della moltitudine perdente. Venneno così alla luce i disadattati, gli eretici, gli insoddisfatti, gli irrequieti, quelli lacerati dal conflitto tra ciò che la vita da quel momento in poi avrebbe loro imposto con la stasi e il ribollire del loro sangue, sempre affamato di un orizzonte, di un altrove inesplorato.

Le relazioni autentiche

chaplin

di Pier Paolo Tarsi

Lo sappiamo tutti, ma come per molte altre esperienze comuni, Bauman descrive il punto meglio di chiunque altro.

“Credo che gli inventori e i venditori di «videocellulari», fatti per trasmettere immagini oltre alla voce e ai messaggi scritti, abbiano fatto male i loro calcoli: non troveranno un mercato di massa per i loro articoli. Credo che la necessità di guardare negli occhi il partner del «contatto virtuale», di entrare in uno stato di prossimità visiva (benché virtuale), priverebbe la comunicazione via cellulare del suo principale vantaggio, quello che le ha permesso di conquistare quei milioni di persone che desiderano ardentemente «stare in contatto», mantenendo allo stesso tempo la distanza… Ciò che questi milioni di persone desiderano ardentemente trova più facilmente appagamento nei «messaggini Sms», che eliminano dallo scambio la simultaneità e la continuità, stoppando così sul nascere la possibilità che questo si trasformi in dialogo autentico, e perciò rischioso. Il contatto uditivo viene per secondo. Il contatto uditivo è un dialogo, ma felicemente privo di contatto visivo, quell’illusione di vicinanza che comporta il pericolo di tradire inavvertitamente (coi gesti, la mimica, l’espressione degli occhi) tutto ciò che i chiacchieranti preferirebbero tener fuori dalla «relazione». Questi rapporti così ridotti, «sterilizzati», si incastrano a dovere con tutto il resto, il mondo liquido di identità fluide, il mondo dove le regole del gioco sono finire in fretta, proseguire e ripartire di nuovo, il mondo di oggetti che generano e brandiscono sempre nuovi e allettanti desideri per soffocare i desideri di un tempo. Il premio è la libertà di movimento, ma un’opzione che non siamo liberi di scegliere è quella di smettere di muoverei. Come già ci aveva avvertito Ralph Waldo Emerson molto tempo fa, quando si pattina sul ghiaccio sottile, la salvezza sta nella velocità.” (Intervista sull’identità, p. 113).

Più che l’assenza di un mercato di massa, penso sarebbe più opportuno dire che, proprio per le ragioni che espone Bauman, questo mercato non ha trovato e non troverà uno sbocco nello spazio delle relazioni informali e “prossime”: il videofonino si è imposto infatti in contesti come i colloqui a distanza di lavoro, e solo in situazioni simili, le quali possono agevolare un mercato di massa seppur specifico. Per le stessi ragioni credo che l’evoluzione inviluppante della cosiddetta realtà ampliata o estesa condivisa a distanza non ci appassionerà minimamente per un utilizzo nella sfera privata, per una chiacchierata “come si stesse sullo stesso salotto” con l’amico per esempio.

Troverà invece usi massicci solo in altri scenari, lontani anni luce dalle relazioni autentiche, come l’assistenza tecnica di un elettrodomestico ad esempio.

Periferie desolate

William Turner

di Pier Paolo Tarsi

Mi sedetti alla penombra su un masso posto sul ciglio e restai a guardare la via di casa con l’intento di prestarle per una volta l’attenzione che, proprio in quel momento, reputai non averle mai concesso. Vi era poco di inconsueto; in lontananza, guardando in direzione del paesino, una aureola luminosa e giallastra attorniava le forme confuse dell’abitato, più in alto quella si confondeva con l’aria in una sorta di nebbia, sfumando infine nell’oscurità che sovrastava il tutto. Dal mio sasso non potevo scorgere il borgo posto al centro di quella nube luminosa ma solo indovinare le forme ultime degli orrori edilizi postumi che lo attorniavano.

Rividi, immaginandole soltanto, le viscere antiche e lastricate che dal cuore del paesino si dipanavano qua e là in percorsi male asfaltati ma più lineari; questi si allungavano verso le periferie desolate o andavano a morire in sentieri bui di campagna come la strada in cui ero seduto, quella di casa. Dietro di me, dall’altra parte rispetto al paesino, niente altro che oscurità e profili di alberi o fogliame che offrivano qualche ultima occasione di un riflesso alla luna, prima del nulla alla vista.

Là dove questa non poteva giungere solo il sottofondo costante dei grilli, il richiamo raro di qualche uccello notturno e l’abbaiare a tratti di un cane lasciavano indovinare altre presenze visibili tra le infinite distese di uliveti che seguivano.

L’aria si era fatta più fresca, misi una mano sulla tasca alla ricerca di un accendino con cui dar fuoco al sigaro che avevo già in bocca ma non lo trovai. Mi alzai in piedi senza pensarci e poggiai le mani su entrambe le tasche, alle mie spalle allora sentii quelle parole investirmi e colpirmi con uno scroscio improvviso di terrore: “Devi accendere?”. Sobbalzai violentemente e certamente urlai, voltandomi. La vidi là, a mezzo metro da me, con un braccio proteso e immobile, un riflesso di luce le illuminava mezzo volto, il resto, separato da una diagonale, più in ombra. “Che ti è preso?” mi chiese, senza muoversi, immobilizzata come me da un terrore di riflesso. Poi abbassò il braccio, uscì dall’ombra completamente muovendo un passo verso me ed io indietreggiai di istinto, ancora in preda al panico che non riuscivo a domare. “Chi sei? Da dove sbuchi?” riuscii a dire, forse urlando e di certo in affanno.

Era la prima volta, dopo quei mesi, che risentivo la mia voce, la avvertii esplodere nell’aria come fosse quella di un estraneo.

Non mi rispose, mi puntò lo sguardo in volto e soltanto mi disse, mentre si chinava un poco “Tieni, te lo lascio qua”, abbandonando l’accendino per terra, tra me e lei. Si risollevò, mi guardò ancora, come se attendesse una mia reazione.

Restai immobile e in silenzio, finché lei allargò le braccia come in segno di rinuncia e, mi parve, sbuffando appena con le labbra che accennavano un sorriso.

Si voltò allora per andarsene, dirigendosi nell’oscurità che vidi presto inghiottirla e renderla invisibile, così come era stata per tutto quel tempo seduta dietro me. Solo in quel momento, mentre moriva nell’aria, avvertii il suo profumo che quella sera dileguava sul ciglio della strada di casa. Si dissipava e una certa nostalgia ne prendeva subito il posto.

Fra Francesco da Copertino, architetto

Fra Francesco da Copertino

“Fra Francesco da Copertino – Seminario Lanfranchi Matera” di Lucio Maiorano, Il Raggio Verde edizioni, Lecce 2017, 50 pp. (ISBN-10: 8899679312; ISBN-13: 978-8899679316)

 

di Pier Paolo Tarsi

Mentre Copertino si appresta ai festeggiamenti in onore del frate che, con la sua prodigiosa enonch mistica santità, rese celebre nel mondo il nome della città, il prof. Lucio Maiorano ha appena dato alle stampe un lavoro dedicato a un altro frate, il meno noto Francesco da Copertino, coevo di San Giuseppe e appartenente alla medesima comunità francescana.

Alla luce di recenti contributi[i] che, come questo, ne vanno gradualmente dissotterrando il profilo dall’oblio storiografico, Francesco inizia ad apparire oggi nella sua autentica luce quale componente di un cenacolo che fece del Seicento il secolo d’oro dell’ingegno artistico copertinese e contribuì a rendere Copertino – come scrive Mario Cazzato nell’Introduzione – “dopo Lecce, il maggior centro artistico di Terra d’Otranto”. Il ricordo di questo frate va accostandosi infatti gradualmente a figure rilevanti come Giovan Donato Chiarello, Ambrogio Martinelli o Fra Angelo da Copertino, interpreti di un fermento particolare che, come testimonia l’ormai indiscusso valore dei loro nomi per gli studiosi, distingueva la cittadina copertinese non solo per l’afflato religioso incarnato dal noto Santo ma anche per l’arte e l’ingegno che, attraverso la mano di questi illustri artefici, plasmavano opere e davano prova di sé in tutti gli angoli del Salento. Fra Francesco, al secolo Cataldo Donato, nello specifico contribuì come abile architetto a incidere il nome di Copertino nella storia e nell’arte di Terra d’Otranto fino al suo estremo confine geografico, la meravigliosa Matera.

Qui, come sancisce ancora oggi l’epigrafe affissa all’ingresso dell’imponente edificio, il frate copertinese, in età ormai matura, progettò il sontuoso Seminario Lanfranchi, presiedendone la realizzazione fino al termine di lavori durati quattro anni. In questo arco di tempo trascorso a Matera egli si misurò e risolse egregiamente non facili problemi di progettazione architettonica legati alla realizzazione di un’opera che doveva da una parte inglobare strutture preesistenti, dall’altra erigersi su un terreno compromesso da grotte sottostanti, infine adeguarsi a nuovi indirizzi urbanistici. Il risultato finale e la grande maestria di Fra Francesco possono essere contemplate ancora oggi, perfettamente rispecchiate nell’equilibrio e nella bellezza di un’opera architettonica nella quale Maiorano conduce agilmente con il suo saggio. Con l’ausilio di un utile e gradevole supporto fotografico, l’autore, dopo aver inquadrato la figura del frate architetto copertinese, guida il lettore negli spazi e negli ambienti del Seminario, ne ripercorre brevemente la storia, soffermandosi tanto sui singoli protagonisti che emergono dallo sfondo, quanto sulle opere contenute e sulle destinazioni d’uso che hanno interessato le sale dell’edificio dalla sua costruzione fino ad oggi. Ne viene fuori una narrazione che, partendo da Copertino e da Fra Francesco, passando per Matera ed il committente, il monsignor Vincenzo Lanfranchi, si innesta e si intreccia tanto con la storia locale e religiosa della città lucana e con i suoi protagonisti, quanto con l’esistenza e la biografia di figure di primo piano e di rilevanza storica nazionale come il poeta Giovanni Pascoli, lo scrittore e pittore Carlo Levi o lo scultore giapponese Kengiro Azuma. Attorno al ricordo della figura del frate copertinese, Maiorano riesce così a tessere un’agile guida che da un lato accompagna nell’esplorazione architettonica e artistica, dall’altro permette di penetrare nella memoria storica del luogo, oggi Museo Nazionale di Arte Medioevale e Moderna della Basilicata e sede del Centro Carlo Levi. Un ottimo e riuscito modo per celebrare il ricordo di Fra Francesco, stimolare la ricerca intorno alla sua figura e ai suoi lasciti, nonché veicolare, attraverso le trame e gli snodi di una storia svelata rapidamente pagina dopo pagina, la testimonianza di un antico legame tra Copertino e Matera plasmato dalle mani e dall’ingegno del frate architetto.

Un legame questo ormai secolare che potrebbe oggi essere opportunamente ravvivato in vista dell’approssimarsi del 2019, anno in cui, come noto, spetterà alla città lucana assurgere al ruolo di Capitale Europea della Cultura e rappresentare una vetrina internazionale in cui il riflesso del “volto” di Fra Francesco da Copertino, riemerso finalmente dall’oblio storico, potrebbe nuovamente gloriare la sua città natale e sorriderle, qualora questa ne sapesse raccogliere sapientemente l’eredità.

 

[i] Si pensi a Francesco da Copertino, Edizioni Universitarie Romane, Roma 2010 del compianto Antonio Fernando Guida, studioso e amico alla cui memoria l’autore dedica non a caso il proprio saggio.

Le stagioni di Khalil

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di Pier Paolo Tarsi

Ci sono aspetti delle stagioni che solo certi sguardi riescono a distinguere. Certi autunni, qui, differiscono in profondità dall’inverno più per come ci si dispone al mondo che per i suoi pur palesi mutamenti o per le asprezze che marcano e segnano il passaggio del tempo. Ci sono stagioni che lasciano segni che in superficie sono invisibili, nascosti nelle pieghe del paesaggio o nell’animo dello spettatore, difficili dunque da estrapolare, decifrare e narrare. Si offrono, certo, allo sguardo per lo più marchi evidenti e persino eccezioni a questo scivolare dolce di una stagione nell’altra nel clima mite, fatti inattesi: il candore e l’incanto di una visione innevata ne sono un esempio palese, spettacolo raro nel Salento che incita alla fanciullesca meraviglia di un’occasione da non perdere. Khalil non se la lascia del resto sfuggire. Occorre però, laddove i segni sono languidi e intimi, un lungo esercizio di raccoglimento per tirare fuori l’essenza emotiva delle cose nei diversi momenti e non confonderne i profili. Pensiamo al mare, all’ambiguità stagionale dei suoi perenni bagliori: bisogna qui apprendere ad ascoltare i venti che muovono nell’umidità sospesa con umori diversi, frequentarli per giorni, captarne le storie e i caratteri per distinguere certi intrecci fluenti e certi momenti della sua eterna vita dagli altri.

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Quei venti sono come una folla invisibile di voci, pensieri e racconti drammatici e duri, oppure fantastici e visionari; hanno attraversato i deserti, i mari e i continenti, hanno scompigliato capelli di gente di ogni tipo, hanno accarezzato mani e volti di generazioni di madri e bambini, ne hanno allora di cose da narrare a chi sa tendere l’orecchio. Il nostro mare, paziente ed empatico, accoglie da millenni queste loro storie, ne è talmente intriso che sa mutare colore, forme, ritmi interni, dinamismi e profumi a seconda di chi in quella folla di venti prenda la parola. Khalil ha come imparato istintivamente a disporsi intorno al focolare intimo dove questi convenuti si raccolgono, ci restituisce dalla riva, con discrezione, le istantanee dei discorsi che in quei simposi si consumano e le espressioni del mare in ascolto, persino i dialoghi tra questo e il cielo.

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Coglie gli argomenti e il vissuto emotivo degli elementi, le smorfie del primo, le reazioni del secondo, immortala i loro pensieri nascosti e ce ne porge degli affreschi. L’uomo, nelle vedute di Khalil, non è mai un figurante ma l’apertura di una prospettiva su una porzione di mondo abitata dagli elementi e dalle cose, il punto zero di un incontro visivo con l’essere che spazio dal micro al macro-mondo, una silenziosa fessura sullo spettacolo delle forze naturali, un osservatore al margine dei dialoghi tra le cose e le forze.

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È in questo ascolto paziente dell’essere nelle sue manifestazioni che Khalil sembra trovare la sua ispirazione; ogni suo scatto è un invito a poggiare uno sguardo ricettivo su quei fenomeni, è uno sprone delicato a prendere coscienza del bello che semplicemente si dona, si offre a chi sa fare il vuoto facendosi umile spettatore per lasciar parola alla natura. Tale disposizione passa trasversalmente dal paesaggio al dettaglio, si volge con il medesimo rispetto e ascolto a un fiore, a una farfalla in cui vedere tutta la gioia di una primavera dell’animo, oppure, ancora, spazia immutata dalle distese acquee che brillano di un sole estivo fino alle distese di paesaggi di pietra o di nodosi ulivi millenari.

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Attraverso gli occhi di Khalil queste visioni divengono tutte declinazioni molteplici per l’avvio di un cammino meditativo sull’essere, percorsi diversi verso un’unica meta e direzione: il nodo tra noi e la totalità. Anche quando si sofferma su un segno antropico, non vi è mai nello sguardo di Khalil l’intenzione di una celebrazione dell’homo faber, dei suoi prodotti o delle sue architetture: traspare sempre in controluce un delicato inno all’appartenenza dell’umano ad una unità. Il cosmo qui si protende in proprie manifestazioni nelle opere dei suoi figli, tutto guarda e si volge ad un infinito paesaggio dell’essere che ricomprende anche ciò che viene toccato e modulato dalle mani umane.

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Nella fusione sinergica dei paesaggi o in qualche dettaglio antropico o naturale, ogni visione di Khalil invera allo sguardo e allude a un patto tra l’essere e noi, intesi come umili, silenziosi pastori di passaggio, chiamati soprattutto all’ascolto. Le geometrie di un muretto o di una costruzione a secco, le intersezioni di una volta o le tracce dell’umano in genere divengono prospettive che aprono a una contemplazione nostalgica di una totalità e di una unità che tutto riassume senza essere però mai presente. Il risultato è un’esperienza fotografica di un principio indicibile, invisibile e irrappresentabile intorno al quale tutto è però edificato e disposto, un richiamo alla contemplazione assorta di un vuoto, quasi si fosse al centro di una moschea i cui confini sono quelli dell’universo stesso.

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Lo sguardo delicato e meditativo di Khalil è prezioso nello specifico per i salentini anche per altro, per il suo venire cioè da lontano. Il suo è infatti un osservare capace di innescare e portare a compimento ulteriore il processo dinamico e aperto di un’identità, la nostra, è un vedere che ci fa un “noi” nel riflesso della visione altrui. Ogni suo scatto è da questo punto di vista un passo per un dialogo infinito che fonda un patto inclusivo, comprensivo ma non inglobante, quello tra due soggetti che si mantengono reciprocamente in un incontro propulsivo e generatore di nuove e inconsuete visioni del mondo circostante.

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Khalil se ne va infatti per i sentieri del Salento e ci fa vedere il non visto di ciò che nella narrazione immaginativa è il nostro scenario consueto, il Salento che abitiamo e viviamo ogni giorno, spesso ignari dei suoi tratti, in esso dis-tratti. Egli ci dice, illuminandolo pazientemente e con incanto, “anche questo è”, e nel suo indicare ci invita a vedere con gli occhi dell’altro confini più ampi e mai esplorati prima del nostro sé condiviso, delle sue manifestazioni e sfumature. Il suo è allora il dono che apporta sempre lo sguardo rinnovato e incantato di colui che incontra per la prima volta uno scorcio a cui siamo assuefatti, invisibile ormai alla nostra coscienza. A chi appartiene la bellezza del nuovo e più ampio dominio così rivelato? Appartiene, semplicemente, a chi entra in questo gioco e così lo può abitare, farne parte. Se questo Salento ci appare così, scatto dopo scatto, stagione dopo stagione, sotto nuove luci e come rinnovato per effetto di un’altra visione delle cose, non è che a questo dialogo, a questa interazione, che dobbiamo il dono di tanta bellezza: è a quello che siamo debitori. Ogni volta che si consuma il dono là si è almeno in due, là si consuma un abbraccio, un’interazione costruttiva di sguardi, in queste pagine il nostro e quello di Khalil.

khalil cava bauxite

Il “Bignamino del Salento per turisti”

di Pier Paolo Tarsi

Il “Bignamino del Salento per turisti”. Eccolo per voi. Fatene buon uso, io tanto vado in montagna quest’anno, orcozio.

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ph Gianni Carluccio

 

Verso est
Per iniziare, da Lecce potrete raggiungere in poco tempo le splendide scogliere quanto le rinomate spiagge di San Foca, della poetica e messapica Roca, dell’animata Torre dell’Orso, della delicata Sant’Andrea e ovviamente d’Otranto, la superba e azzurra perla dell’adriatico, patria degli 800 Santi Martiri decapitati dai Turchi nel 1480, custode per antonomasia delle memorie dei nostri avi e sorgente perenne della cultura greco-latina, bizantina e mediorientale della nostra terra, da secoli, appunto, denominata Terra d’Otranto.

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Procedendo verso Sud sulla litoranea, vi inoltrerete subito nel tratto di costa più suggestivo della penisola salentina: con sullo sfondo le montagne d’Albania che si stagliano all’orizzonte, sarete rapiti dall’impeto di una bellezza indicibile che vi accompagnerà lungo tutto il tragitto. Come fosse un filamento argentato, la strada inanella le varie perle lucenti che si susseguiranno al vostro sguardo.

Grotta della Zinzulusa, Castro
Grotta della Zinzulusa, Castro

 

Dapprima giungerete a Porto Badisco e Castro, dove tutta la storia dell’Occidente è transitata: dall’uomo primitivo, che ci narra ancora di sé nelle grandi grotte della costa – come la grotta Romanelli, quella dei Cervi o, più oltre, l’onirica Zinzulusa in cui potrete inoltrarvi per una visita guidata tra stalattiti e stalagmiti -, ai Messapi, ai Greci e ai Latini, il cui padre Enea qui trovò il primo approdo per generare poi la grandezza di Roma antica.

Complesso di pajare con forno (foto nicola febbraro)
Complesso di pajare con forno (foto nicola febbraro)

 

Proseguendo, tra muretti a secco che tratteggiano giardini pensili a strapiombo sul mare, tra malinconiche e solitarie antiche torri che vegliano da secoli dall’alto, tra pagghiare e furnieddhi che si confondono con il roccioso e fiabesco paesaggio lunare, tra colorati fichi d’India che si inerpicano allegramente sulle opere dell’uomo e della natura, incontrerete dunque il fascino mediorientale e moresco di Santa Cesarea Terme, il mare purissimo e le scogliere di Marina di Andrano, di Tricase Porto, di Marina Serra e così via.

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ph Emilio Nicolì

 

Tra queste località, spiagge dorate si fanno ovunque spazio, circondate da pinete e vegetazione lussureggiante, riparate ad ovest da alture pietrose (le specchie) e declivi di terre ricoperte da ulivi (le serre), sulle quali sorgono costellazioni di poetici borghi, assopiti nell’incanto dell’immediato entroterra. Superate le vertiginose altezze del ponte Ciolo, giungerete infine a scorgere l’estremo faro della splendente Santa Maria di Leuca, il cui bianco riflesso vi preparerà allo spettacolo ultimo e sommo: il sublime incontro con l’infinito Mediterraneo.

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Da Nord a Sud
Nell’entroterra si ergono alti i dorati campanili barocchi di Lecce: dalla superba regina, ammantata dei suoi ricami scolpiti nella pietra leccese e nel carparo, seguendo la direttrice Nord-Sud potrete attraversare tutta la provincia salentina, lambendo incantevoli paesi e cittadine, veri e propri scrigni di bellezza artistica, di storie e di ricchezze enogastroniche.

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Qui potrete ad esempio degustare i prelibati vini di Leverano o esplorare le artistiche meraviglie di Nardò, visitare Copertino, la città del santo dei voli, San Giuseppe, o ancora assaggiare i tipici dolci pasticciotti di Galatina, luogo benedetto da san Paolo e meta delle tarantate alla ricerca della liberazione dalla possessione.

centro storico di Galatina
centro storico di Galatina

 

Procedendo incontrerete Martano, il più popolato dei nove comuni che costituiscono nel loro insieme la Grecìa, una rilevante porzione di Salento che si distingue per la sua specificità culturale e linguistico-dialettale di diretta discendenza greca, rinomata tra i salentini stessi per la peculiarità della sua natura incontaminata, per la bellezza antica e preservata dei suoi borghi, per la ricchezza culturale e paesaggistica rispettate e tramandate, per il suo patrimonio linguistico, culinario ed enogastronomico.

Da qui, ancora, potrete immergervi nell’eleganza di Maglie o nelle ronde scatenate e sensuali di Melpignano, sede della celebre Notte della Taranta; potrete cenare tra gli antichi menhir dell’entroterra idruntino o più a Sud, nelle tipiche trattorie del borgo incantato di Specchia o dei dintorni, fino a ridiscendere ancora nell’estremo punto della terraferma italiana, finibus terrae, la suggestiva Santa Maria di Leuca, là dove l’Italia finisce nel punto in cui il mar Ionio e l’Adriatico si incontrano per fondersi in un immenso abbraccio mediterraneo.

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Verso Ovest
Con la stessa facilità, da Lecce vi potrete immettere in una manciata di minuti sulle principali vie di collegamento in direzione Ovest, puntando verso la costa ionica, verso i rinomati lidi di Porto Cesareo e l’incanto delle sue isole selvagge che da sempre proteggono e custodiscono le sue vivaci riviere.

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Da qui, sedotti dal parco naturale di Porto Selvaggio, estasiati dalle scogliere popolate di luci e imbandite per gli aperitivi di Santa Caterina, incantati dal profumo orientale di Santa Maria al Bagno e dalle antiche fortificazioni diroccate delle Quattro Colonne, verrete attratti dalla magia di Gallipoli, con i suoi lidi in festa, con lo splendore del suo centro storico e i profumi irresistibili delle tradizionali ricette a base di pesce appena portato a riva dai pescatori.

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Più a Sud ancora, potrete rigenerarvi nel mare cristallino e sulle spiagge di miriadi di lidi che si susseguono da Marina di Mancaversa e Torre Suda, passando alle marine della messapica e dorata Ugento, o più oltre ancora, fino a Pescoluse, le cosiddette “Maldive del Salento”.

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Potrete ritemprarvi all’ombra delle antiche sentinelle costiere, le severe e imprendibili torri che nei secoli passati vegliavano sulla Terra d’Otranto cingendola tutta, difendendola dalle incursioni di pirati e saraceni provenienti dal mare: ai piedi dei colossi di pietra scoprirete graziosi villaggi e romantici approdi come Torre Mozza, Torre Pali o San Gregorio, poco prima di giungere nuovamente là dove l’alto faro sovrasta le sontuose e nobili ville moresche di Leuca.

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Copertino si scopre casa delle Sibille

una delle Sibille in S. Maria di Casole
una delle Sibille in S. Maria di Casole

 

di Pier Paolo Tarsi

Copertino si riscopre in possesso di un altro tesoro: il volto delle Sibille di Santa Maria di Casole! C’è sempre un enigma misterioso da svelare quando si tratta delle celeberrime profetesse, vergini che da millenni affascinano la cultura occidentale, dalla Grecia classica a noi, passando per la civiltà romana e la cristianità medievale e moderna. In effetti, risulta già inspiegabile capire come sia potuto sfuggire a tutti gli osservatori, storici e ricercatori locali, l’unicità che hanno invece colto ed evidenziato con questo studio Marcello Gaballo, medico e storico dell’arte locale, e il professore Armando Polito, entrambi colonne portanti della Fondazione Terra d’Otranto.

Grazie proprio al loro sguardo particolarmente attento, da oggi Copertino può vantare una eccezionalità che può divenire, se opportunamente divulgata e valorizzata con politiche culturali serie e a lungo raggio – ossia non estemporanee ma continuative, ben progettate e strutturate -, una ulteriore e nuova ragione per collocare di buon diritto Copertino nel circuito delle mete obbligate nei tragitti turistico-culturali e artistici del Salento e della Puglia.

il convento di Casole a Copertino
il convento di Casole a Copertino

 

Ci auguriamo che i nostri amministratori e gli operatori del settore turistico sappiano cogliere la preziosa opportunità che questa rivelazione apre al loro operato e al nostro territorio. Per dare una concreta idea del perché Santa Maria di Casole possa apparire oggi così speciale, basti pensare che, allo stato attuale delle conoscenze, su tutto il territorio pugliese non sono noti altri cicli completi delle 12 Sibille della tradizione. Anche a livello nazionale possiamo vantare la rarità dell’esempio di Casole: in mancanza di un censimento nazionale ufficiale che ci restituisca un quadro definitivo, pare dobbiamo giungere a Salerno o fino a Bergamo per poter scrutare il fascino affrescato che emana dal ciclo completo di tutte le 12 profetesse. Sappiamo invece ora con certezza che la famiglia al completo delle Sibille ha una casa anche in Puglia, precisamente a Copertino!

Sibilla Europa, in S. Maria di Casole
Sibilla Europa, in S. Maria di Casole

 

Al di là di questa importante e significativa segnalazione, già di per sé sufficiente a far comprendere la rilevanza del luogo e la necessità di scommettere sul fascino attrattivo di Casole – per esempio, riportando quanto prima alla luce tutto il corredo pittorico -, lo studio di Marcello Gaballo e Armando Polito evidenzia anche l’altissimo livello culturale della comunità religiosa che animava il luogo. Ne offrono prova la quantità e la rilevanza dei libri che appartenevano al Convento, parte dei quali si trova oggi nella Biblioteca Vergari di Nardò, i cui frontespizi sono peraltro riprodotti nel testo. Che sia proprio Casole, col suo fascino sibillino, uno degli snodi patrimoniali per rilanciare il potenziale attrattivo di questa città, favorendone un percorso di sviluppo turistico da far lievitare intorno alle inattese nuove risorse?

Questo luogo che ha rappresentato nei secoli un importante volano della cultura, oggi, mentre se ne svelano ulteriori valenze storiche e unicità artistiche, si candida infatti a divenire fonte e impulso di nuovo vigore per l’economia del territorio. Varrebbe dunque la pena investirci per renderlo uno degli altari su cui il nostro passato può celebrare il lascito del testimone ad un futuro sostenibile, tutto ancora da progettare e scrivere tanto per Copertino quanto per il Salento. Dipende solo da noi e dall’intelligenza politica locale a questo punto; la storia, come ci mostra egregiamente questo studio, ha già fatto ampiamente la sua parte, al punto che ci sorprende ancora con eredità di cui non eravamo nemmeno consapevoli. Ora è nostro compito saperle raccogliere, preservare e valorizzare in tutta la loro rarità.

Sibille sul sottarco di S. Maria di Casole
Sibille sul sottarco di S. Maria di Casole

Dobbiamo tutti imparare dai mistici

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ph Mauro Minutello

 

di Pier Paolo Tarsi

Oggi mi è capitato di ascoltare le confessioni e gli sfoghi tutti comprensibili e tutti ragionevoli di cinque persone diverse: un collega di lavoro, un imprenditore dedito al lavoro da una vita e come tanti della sua categoria stanco di lottare, un politico, un ragazzo, un conoscente; tutti i loro discorsi, che ho ascoltato con sincera partecipazione, si concludevano con un “ormai”.

Contesti e persone profondamente diverse, accomunate tuttavia dalla stessa stanchezza, dalla medesima idea di una disfatta imminente che ha già scavato nell’animo e ha già predisposto alla rassegnazione, ognuno schiacciato a modo suo dal peso di anni oggettivamente difficili. Ma cristo, lo vogliamo capire che noi, per il solo fatto di respirare, siamo obbligati a non darci mai per vinti?

Dobbiamo tutti imparare dai mistici il senso dell’abbandono totale a una fede, quella della certa, indubitabile e indiscussa idea che ce la faremo. E’ il compito di chi vive prendersi fino in fondo il diritto di essere ed essere nel migliore dei modi e dei mondi possibili.

Pituddhu pituddhu si azza parete

particolare del muro sul lato sud
particolare del muro sul lato sud

di Pier Paolo Tarsi

Pituddhu pituddhu si azza parete. In italiano sarebbe pietra su pietra si innalza un muro. Ma questa traduzione non è precisa, ed è in questa imperfezione che si apre un orizzonte di significati per la pratica nelle nostre vite. In questa imprecisione c’è un mondo che si potrebbe intravedere come dallo spioncino di una porta, un universo contadino che bisognerebbe comprendere e al quale non è facile dare voce senza tradirlo in immagini languide o retoriche, in cartoline falsate di un al di là storico ormai tramontato.

Lu pituddhu è meno di una pietra, è l’infima sfumata idea della materia rocciosa e tangibile. Per continuare a costruire un muro mettendo pietra su pietra ci vogliono tenacia e pazienza infinita, virtù sicuramente rare e fondamentali. Per innalzare un muro con pituddhi invece ci vuole altro, ci vuole la speranza.

Ed è da qui che potremmo iniziare a cogliere l’incolmabile abisso che si nasconde dietro un’apparentemente piccola sfumatura di sensi.

Oltre lo sguardo. Emilio Nicolì e il suo Salento

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Nuova edizione della Fondazione per celebrare l’arte fotografica di Emilio Nicolì, per il quale ha curato e stampato un volume, “Oltre lo sguardo“, cartonato, a colori, con foto tra le più belle della nostra terra. L’edizione, non commerciale, terza della Collana “Scatti d’Autore, è riservata ai soci della Fondazione e alle biblioteche.

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Così si presenta egli stesso nel volume:

Ho “rischiato” di nascere in spiaggia nel giorno di Ferragosto del 1964, da allora il mare lo porto dentro. Per studio e lavoro ho vissuto a Parma, Chieti, Bologna e Firenze, ma sono sempre tornato “a casa”, a Lizzanello (Lecce), nel Salento, vicino al mio mare. So che è lì e, anche se non lo vedo, so che si trova a pochi chilometri da me per proteggermi e coccolarmi.
Ho studiato Medicina ma mi sono laureato in Biologia con tesi sulla biodiversità.
Ho Lavorato nell’industria del farmaco. Dal 2004 lavoro nel settore automotive e servizi.
Dopo aver praticato ciclismo a livello amatoriale ed aver avuto modo di guardarmi intorno viaggiando a velocità ridotte, mi sono appassionato alla fotografia che mi permette di fare miei momenti e posti che orami fanno parte di me e, da autodidatta, proseguo la mia ricerca verso la foto “perfetta”.

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La presentazione è stata scritta da Pier Paolo Tarsi, che tra l’altro, scrive di lui:

“Vi sono tipologie non pretenziose e mai inflessibili alle quali possiamo giocosamente affidarci per interpretare ciò che incontriamo, blandi e immaginifici tentativi per orientarci nell’esplorazione mai compiuta e definitiva dell’animo e del sentire altrui.

Provando a giocare con uno di questi criteri, potremmo classificare i salentini come appartenenti a due ideali stirpi, diverse per indole e mai intimamente unificate dal passare dei secoli, dai ricami di pensieri, illusioni e sogni: potremmo chiamarle quella degli “adriatici” e quella degli “ionici”, i primi con l’animo teso a levante, i secondi con lo sguardo assorto a ponente.

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Emilio Nicolì, nella sua ricerca senza termine dello scatto perfetto, ci mostra una personalità “adriatica”, tende infatti a cercare la sua meta prevalentemente ad est, spingendosi verso i lidi dove il sole può soltanto sorgere e la terra trapassa nell’azzurro che porta verso Oriente, verso l’origine, la fonte dove dipana il tracciato antico di ciò che è stato ed è venuto dal mare prima di noi.

La fantasia, si sa, regala infiniti criteri per guardare nuovamente alle cose e agli uomini, nelle sue giocose combinazioni e negli intrecci possibili talvolta illumina aspetti propri del reale altrimenti invisibili, ad esempio qualcosa di più profondo del carattere degli abitanti di questa terra. Allora, di nuovo, immaginiamo questa volta due stirpi ancor più antiche che qui convivono nell’intimità del sentire collettivo, la prima piantata nella terra, la seconda approdata dal mare e come destinata a tornarvi.

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Il salentino in generale non è che un’identità archetipica irrisolta che si riavvolge senza posa tra questi due caratteri, tra un legame con la terra ed uno fatto di speranze e timori con i due mari.

Non è gente di mare questa, sta e vive sulla terra, ma come sorvegliando da una torre che il mare non porti sventure o in attesa che questo si calmi e il vento sia favorevole per andare non si sa dove. L’ulivo ci dice il suo primo modo di essere, il suo radicarsi, il suo progettarsi nei millenni in un matrimonio con un terra a cui sarà fedele. Ma fra i tratturi e le fronde si intravede sempre un orizzonte azzurro che cova una minaccia pronta a scompaginare tutto o promette un’altra esistenza, un’altra occasione.

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Tutto ciò che questa fantasia idealtipica svela ci pare possiamo rinvenirlo come un deposito tacito e implicito nello sguardo di Nicolì, nella sua postura da osservatore e nella posizione che accomuna gli scorci che i suoi scatti regalano. Il suo atteggiamento appare quello dell’uomo fedele alla terra, da qui egli muove e attraversa uliveti per osservare per lo più un mare che richiama, attrae, affaccia e sospinge verso un mistero orientale.

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Ne nasce una dialettica che si risolve sempre in un compromesso: il confine, il limite. Anche quando è rinvenuto in un sentiero di campagna alla periferia del borgo, è questo confine il soggetto prevalente di Nicolì, il risultato ultimo in cui sfociano questi moti interiori e opposti d’attrazione. Nelle istantanee che compongono il mosaico i due elementi, terra e mare, si mischiano e abbracciano, là dove uno primeggia l’altro si insinua quasi sempre, si interseca, talvolta per mezzo di un solo richiamo o di un sottinteso all’orizzonte: il mare seduce ed è cercato, ma la terra non è mai completamente alle spalle, fosse anche soltanto nella forma dell’allusione, del lembo, del faraglione.

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Quel che uno vede dall’obiettivo di Nicolì non è l’approdo che si manifesta a colui che giunge dal mare ma è la varietà infinita – malinconica o trasognata – di un affacciarsi dai confini di questa terra sull’altrove, è un respiro intimo, una parentesi meditativa sulle estremità prima del ritorno alla dimora, al quotidiano legame con la propria gente e con la trama delle proprie faccende. Il suo è lo sguardo di chi sa che al di là di quella distesa contemplata sono inscritte altre storie e possibilità, e tuttavia non salperà; è l’evasione di colui che fa di quel confine il ristoro solitario, la concessione di una fantasia, il breve sogno di chi relega la rottura momentanea e circoscritta del patto con la terra che calpesta alla dolcezza o all’avventura che si consuma nello spazio dell’immaginazione, nella durata di un’ora blu in riva al mare o lungo un tratturo.

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Quando scruta l’orizzonte sulla distesa d’acqua, Nicolì pare invitarci ad una pausa meditativa nella quale continua spesso a persistere sullo sfondo il legame con l’umanità che abita e contagia lo spettacolo naturale che si apre allo sguardo. I segni di questa umanità sono per lo più dettagli, inequivocabili tracce tuttavia di una presenza vivace in momentaneo riposo, o come assopita: un pedalò sulla battigia, un trespolo che si eleva sull’arena, le travi di un ponte sospeso sulla scogliera, una lignea staccionata, un caseggiato addormentato, le luci agrodolci dei lampioni, una panchina solitaria, un muretto a secco consunto a tratti dal tempo, una torre diroccata, una gradinata ricavata nella roccia friabile; particolari questi che si affacciano come a raccontare inoltre di un rapporto possibile – rispettoso e non invasivo – tra la mano dell’uomo e il paesaggio naturale. Gli scenari inneggiano e invitano al silenzio di una riflessione in solitudine, elogiano la lentezza della vita di un abitante di un faro che vigila sul confine oltre le luci del borgo, in disparte, in un luogo placido nel quale godere di un momentaneo commiato dal resto, di una parentesi che non è mai una cessazione di un legame, non è un addio, ma solo una sospensione tra lo scorrere rinnovato della vita che attende nel ritorno…”.

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Orient Express. Il binario è vuoto

di Pier Paolo Tarsi

Nel centro storico di Lecce c’era un vecchio trenino a vapore pronto alla partenza sul binario per l’oriente eppure sempre là, immobile, come fosse un dipinto su una parete. In serata o a tarda notte potevi salire, solo o in compagnia, non importava, trovavi comunque il tuo comodo posto in carrozza. Bevevi qualcosa, gustavi il via vai nello scompartimento, potevi startene in silenzio o fare due chiacchiere con qualche amico o con il macchinista. Poi scendevi dal vagone e tornavi a casa, certo che un’altra notte, passando, avresti trovato il trenino sempre là, fermo, e certo che, a qualunque ora, saresti arrivato comunque in tempo per salirci e accomodarti per un ultimo bicchiere. Per anni molti di noi hanno fatto così, fino ad oggi, quando quel macchinista è infine partito davvero col suo trenino, lasciando dietro di sé una fumata di vapore caldo e denso da far lacrimare gli occhi a chi resta sulla banchina a guardare un binario vuoto.

Addio Rocco, è stato un piacere viaggiare tante notti con te in locomotiva.

 

http://www.lecceprima.it/cronaca/scomparsa-rocco-candido-orient-express.html

Il genio e la circostanza

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di Pier Paolo Tarsi

Una delle costruzioni più dure a morire è l’esistenza del genio individuale, di qualunque natura: scientifico, filosofico, militare, politico, artistico… Ci sono scoperte, invenzioni, imprese e conquiste che identifichiamo con questo o quell’individuo a cui le attribuiamo strettamente solo perché prescindiamo dalla situazione, di fatto questa è una mera semplificazione, un’astrazione. “Io sono io e la mia circostanza”, e con ciò Ortega Y Gasset disse sostanzialmente tutto.

Se guardiamo una regione dall’alto vedremo forse dal principio il profilo addensato e unitario di una città, un agglomerato a cui possiamo dare un comodo nome: una diremo che è Darwin, l’altra Einsten, una Dante, l’altra Cartesio o Steve Jobs e così via.

Tutto questo può essere molto utile e sbrigativo, permettendoci di prescindere dalle circostanze. Ma ovunque ci prendiamo cura di fare l’ingrandimento, se scendiamo per terra e mettiamo i piedi nella storia, ci accorgeremo che non esiste alcuno che possa portare legittimamente da solo il nome di quella città, frutto del contributo di molti uomini che in varie epoche edificarono una via qua, una piazza là, elementi che poi uno trovò il modo soltanto di unire facendone un percorso unitario, quando i traffici intorno a lui premevano per quella soluzione.

È questa propriamente che consideriamo l’atto creativo, la scoperta. Per dirla con Poincaré: “Creatività è unire elementi esistenti con connessioni nuove, che siano utili”. L’uomo non è un dio creatore ma un demiurgo che plasma il mondo e con ciò se stesso. Se davvero pensiamo, per porre un caso, che della “selezione naturale” ci abbia parlato di bello e buono Darwin è solo perché siamo a digiuno dei discorsi tra gentiluomini dell’epoca o trascuriamo le pratiche umane di allevamento che esistevano da millenni prima del nostro, o ancora molto semplicemente non abbiamo mai aperto “L’origine delle specie”.

Con ciò non si vuole negare il merito ad alcuni individui, si vuole solo restituire questi ultimi al tempo e alla storia, ossia a una data relazione e circostanziata interazione con altri simili che propriamente li ha abilitati, li ha resi più o meno capaci in questo o in quello.

Mitigare l’idea del genio e demistificarla non è un atto di invidia ma è un atto liberatorio per le forze cooperative dell’umanità, un atto con una portata etica che dovrebbe informare sempre l’educazione in quanto pone di fronte alla verità che si deve restituire all’umanità nella misura in cui ogni atto creativo è disporre con fatica della circostanza, ossia degli elementi creati dalle fatiche altrui.

Ciò significa che tutto appartiene all’umanità in generale, che tutto ciò che si è fatto dal principio dei tempi si è fatto almeno in due, o non sarebbe mai venuto alla luce.

Pertanto il bene, la fama o la ricchezza che potrebbero conseguire per l’individuo che vogliamo – giustamente – libero e intraprendente per sé stesso, padrone dei frutti della propria iniziativa e fatica, sono piantate nelle fatiche degli altri, dell’umanità tutta, e per definizione sono crediti di questa comunità che vanta interessi.

Decidere il loro ammontare è il fatto politico della giustizia sociale.

 

L’Università del Salento al tempo della Buona Scuola

immagine tratta da: http://www.oldsite.unile.it/ateneo/ateneo/sedi/
immagine tratta da: http://www.oldsite.unile.it/ateneo/ateneo/sedi/

di Pier Paolo Tarsi

Il nostro ateneo al tempo della Buona Scuola: alcune domande che il Magnifico Rettore dell’Università del Salento dovrebbe porsi urgentemente.

Leggo spesso di una perdurante e avanzante crisi del nostro ateneo dovuta a varie e diversissime ragioni, strutturali e contingenti. Una di queste ragioni è la spesso menzionata carenza di una fitta ragnatela di connessioni stabili e produttive con il tessuto territoriale. Non oso minimamente addentrarmi nelle difficoltà che la delicata questione implica, basti qui il richiamo ad una relazione evidente sulla quale certamente converremmo tutti e che non necessita di ulteriori giustificazioni: ogni passo indietro, di qualunque tipo e natura, sia compiuto dall’Università del Salento, costituisce un passo verso il baratro per il nostro territorio. E viceversa naturalmente. La consapevolezza di questo condiviso destino è la ragione per cui bisogna guardare all’ateneo salentino se si tiene alla crescita continua di questo territorio: un progetto questo semplicemente impossibile senza un’operosa università che abiti e vivifichi il contesto con saperi e competenze utili. Proprio a tal proposito un modesto spunto dal punto di vista di un insegnante vorrei fornirlo, sperando di non risultare con ciò supponente. Faccio il docente in una scuola superiore ai “confini” del nostro territorio, Manduria, una cittadina che si sente “leccese” pur essendo “tarantina”. La scuola italiana, come noto, è stata recentemente riformata in molti aspetti, pessimamente a mio parere, ma qua soprassiedo e considero solo un elemento positivo: la formazione continua dei docenti. Ogni insegnante a tal proposito avrà annualmente una somma di 500 euro a disposizione per spese legate solo ed esclusivamente (pena la restituzione) alla sua formazione e all’aggiornamento: libri, strumenti informatici, corsi di formazione. 500 euro per tutti i docenti, di tutti gli ordini e gradi, di ogni disciplina, di ogni scuola del territorio! Mica bruscolini! Al di là di ogni valutazione sulla questione bonus che in questa sede tralascio, credo che questa possa essere un’opportunità concreta intorno alla quale edificare una connessione costante tra università del Salento e insegnanti che operano sulle scuole del territorio. L’offerta di corsi, anche online, creati ad hoc da enti accreditati o altro, è praticamente già sterminata, la qualità degli stessi è spesso però discutibile. Alla luce di ciò, e andando subito al dunque, la questione da porre e affrontare quanto prima per il nostro ateneo è allora, credo, la seguente: cosa offre l’Università del Salento alla luce dei cambiamenti del contesto scolastico che interessa anche il nostro territorio? Cosa fa per intercettare il bonus di migliaia di docenti che vivono qua? Cosa offre l’ateneo alla massa di docenti che vogliono veramente approfittare dell’occasione di una cifra utile a formarsi? Cosa offre l’ateneo a quanti non vorrebbero soltanto comprare un pc all’anno oppure arricchire semplicemente un curriculum di titoli e relativi punteggi da esibire al prossimo dirigente scolastico che dovrà scegliere il suo staff? L’ateneo salentino sta organizzandosi per rispondere adeguatamente con un’offerta formativa pensata per quei docenti che, agendo in tutte (tutte!) le scuole del territorio, intendono innalzare il proprio livello culturale, premessa per meglio formare coloro che costituiscono il futuro del territorio? Non sono forse gli insegnanti gli unici che possono fortificare la preparazione di coloro che un giorno potrebbero rappresentare l’utenza stessa in ingresso dell’ateneo? Facciamo degli esempi concreti che solo chi lavora a scuola può fornire. Attualmente le aree di intervento del docente di sostegno sono di fatto abolite. Il che vuol dire che un docente di chimica impegnato sul sostegno potrebbe dover supportare un alunno con difficoltà di apprendimento in filosofia, o un docente di filosofia dovrebbe spiegare un circuito elettronico a un suo studente. L’Università del Salento, come ogni altro ateneo, offre corsi su singoli insegnamenti. Al momento sono un insegnante di sostegno in un agrario, mi piacerebbe allora molto – e tornerebbe molto utile sia a me che ai miei studenti – poter svolgere esami singoli di chimica organica, di zoologia, di biologia molecolare ecc. senza svenarmi e senza incappare in mille difficoltà organizzative per frequentare quei corsi. Non mi basta – e se mi bastasse non mi accontenterei comunque – quanto ascolto dai pur ottimi e collaborativi colleghi per aiutare i miei studenti in quelle materie: semplificare una lezione implica un possesso di conoscenze ulteriori, un orizzonte molto più ampio sulla disciplina di riferimento della quale si trattano specifiche nozioni o aspetti. Infatti, se c’è qualcosa che è difficile realizzare e richiede padronanza di una materia, è proprio il render semplice un contenuto, il riformularlo in mille maniere agevolando il processo stesso di apprendimento! E se domani passerò in un tecnico industriale? Quali nuove sfide dovrò attrezzarmi ad affrontare sul piano dei contenuti per far meglio il mio mestiere? Magari vorrò e dovrò impratichirmi in elettronica, mai studiata però all’università e nemmeno al liceo, avendo fatto lo scientifico! E quale miglior luogo dell’Università per colmare le mie lacune conoscitive? Così, ad esempio, mi domando: l’Università sta pensando a convenzioni con i docenti e con le scuole in questo senso? Fare un esame singolo attualmente ha un costo di 25 euro a CFU a Lecce, un esame da 9 CFU mi costerebbe 225 euro, poi dovrei acquistare i libri per studiare ecc. Che sia troppo dispendioso per un docente chiamato a formarsi continuamente e su molti, diversissimi, saperi? A Milano mi costerebbe meno, dal secondo insegnamento in poi quasi nulla! Che si possa pensare a convenzioni specifiche per i docenti delle scuole del territorio? Ancora, ammesso che il prezzo mi paia alla portata del mio bonus (lo stipendio è già impegnato, mi serve per sopravvivere ahimé!), come faccio a frequentare quei corsi se non vengono coordinati con le attività mattutine della scuola e spostati nel pomeriggio? Cambiamo esempi, e domande. Oltre ai corsi disciplinari già esistenti, è possibile che l’Università non possa concepire pacchetti formativi interdisciplinari, eterogenei e specifici per singoli aspetti della professione dei docenti, ossia organizzati tanto nei contenuti quanto nei tempi e nell’organizzazione per le particolari esigenze formative di chi opera in una scuola in continuo cambiamento? Perché, per esempio, per un corso di aggiornamento sulla dislessia o sulla valutazione nella programmazione per competenze devo affidarmi a questo o quell’ente formativo, a questa o quella Università online, quando l’ateneo salentino potrebbe predisporre – tanto in presenza quanto online – sulla base di personale e competenze di ogni disciplina di cui dispone, un’offerta formativa costantemente aggiornata, puntuale, mirata, concordata magari con le scuole stesse, meticolosa nella risposta ai bisogni formativi del contesto territoriale, delle scuole e delle reti già costituite fra queste? Perché università e scuole non si incontrano in queste forme di condivisione e scambio dei saperi e delle competenze, della programmazione formativa oltre che sul piano della ricerca sperimentale e persino degli spazi? Perché l’Università non si fa itinerante, non va incontro al territorio, per esempio non pretendendo che i professionisti vadano nelle sue strutture ma inviando le proprie risorse umane nelle strutture altrui per formare in loco, dove opportuno e richiesto? Perché questi steccati così vetusti e limitanti che qualunque ente di formazione ha già superato? In un mondo ormai fondato sulla formazione professionale permanente, cosa offre il nostro ateneo per i professionisti del territorio, a cominciare dagli insegnanti? Perché un’anziana signora che si laurea fa ancora prima pagina nel nostro territorio? Perché l’Università del Salento è organizzata solo intorno al cliché dello studente giovane e disoccupato? Siamo sicuri che un’utenza del genere è l’unica immaginabile o quella su cui primariamente puntare in un paese a natalità zero e in un mondo in cui la formazione si conclude con l’inumazione al camposanto? Le risposte operative a queste domande configurano delle possibilità a mio avviso realizzabili, aprono ponti percorribili, in breve, possono rappresentare spunti in grado di innescare un circolo virtuoso a vantaggio di tutti coloro che intendono vivere, formarsi e credere nel futuro di questo territorio.

Carmare e craminare

di Armando Polito

Ogni lingua è un organismo vivente, proprio come chi la usa e, perciò, alcune sue cellule muoiono e si rigenerano in continuazione, perché la natura ha dotato l’organismo di tale capacità; per altre, come i neuroni, la perdita è irreversibile e si potrà sperare, forse, in una parzialissima compensazione da parte degli altri con il loro intervento solidale che comporterà, comunque, un abbandono, quanto parziale è difficile dire, della loro specializzazione. Qualsiasi cellula, poi, può impazzire, per ragioni endogene (patrimonio genetico) o esogene (ambiente) o per entrambe.

Anche il dialetto, che sempre lingua è,  non può sfuggire a questa condanna  e la conclusione cui giunge Pier Paolo Tarsi in  L’antropologia linguistica della memoria narrata: uno sguardo filosofico all’opera di Giulietta Livraghi Verdesca Zain e Nino Pensabene, saggio pubblicato recentissimamente nella rivista di questa fondazione  Il delfino e la mezzaluna, anno IV, nn. 4-5, agosto 2016, pp. 229-256, parrebbe  angosciante per i cultori di ogni dialetto e per chi si adopera a mantenerne e a rivalutarne  l’uso. Pier Paolo osserva come lo scollamento tra il significante (la parola) e il contesto culturale in cui quella parola è nata o al quale essa per lungo tempo si è riferita, magari pure in un’ampia gamma di significati tutti, però, legati al concreto del momento, implica inevitabilmente la sua morte. Tutto vero, anche quando l’autore si spinge ad estendere tale fenomeno dal microcosmo della singola parola al macrocosmo del vernacolo nel suo complesso, rinvenendone la causa sostanzialmente nella fine della civiltà contadina. Ineccepibile, anche se il fenomeno ha da sempre coinvolto ogni lingua, solo che oggi i processi di trasformazione (oggi come allora di natura economica …) sono vertiginosi e mi pare che la filosofia dell’usa e getta inevitabilmente ha finito per prevalere anche nel linguaggio in senso esteso. In passato il malinteso (per chi conosceva l’italiano …) senso d’inferiorità del dialetto si manifestava anche a livello ufficiale con improbabili italianizzazioni della voce dialettale che non aveva corrispondente formale in italiano (emblematico è il caso proposto nel suo saggio da Pier Paolo di Via degli Zoccatori a Copertino; esilarante, poi,a Nardò, il via Scapigliari. di cui ho avuto occasione di parlare in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/01/la-scapece-e-una-forse-indebita-illazione-toponomastica/), con equivoci propiziati dall’omofonia e da parziali congruenze semantiche; vedi nello stesso saggio per carmare l’indebito passaggio dal significato originario di incantare (carmare è  dal calabrese carmu=formula magica, dal latino carmen=formula magica, incantesimo, da cui l’italiano carme, con regolarizzazione della desinenza1 e il francese charme; carmen probabilmente è da un *canmen, da cànere=cantare2)  a quello di calmare, proprio per italianizzazione per influsso (in linguistica incrocio) della voce italiana. E proprio l’etimologia di calmare (da calma, a sua volta dal greco καῦμα=calura; riferimento, dunque, ad una calma climatica contraddistinta da atmosfera secca e cielo limpido) mostra il terremoto semantico che ha sconvolto  il primitivo carmare (che trova il suo corrispondente semantico e parzialmente formale nell’italiano carminare, del quale, a sorpresa, dirò alla fine, anche se la veste esteriore è assolutamente identica). Da quel malinteso senso di inferiorità del dialetto rispetto all’italiano si sta passando oggi ad un malinteso (questa volta lo dice uno che non parla l’inglese, ma lo traduce facilmente e fedelmente con l’aiuto di un semplice vocabolario grazie ad una conoscenza appena sufficiente  dell’italiano, del latino e del greco, di fronte ai quali l’inglese è … non voglio dire che cosa) complesso di inferiorità generalizzato dell’italiano rispetto all’inglese, con l’aggravante che, anche e soprattutto chi ci rappresenta, pur ignorando l’esatto significato di parecchi vocaboli della lingua nazionale (alcuni fino a qualche decennio  piuttosto elementari), esprime i suoi concetti in un italiano che, per quanto riguarda la semplice struttura, ha le sembianze di chi è appena uscito da un grave incidente; in più si presenta costellato con luminosità (?) crescente di vocaboli inglesi, anche quando (e per me questo è un dettaglio fondamentale) non è necessario. Se si pensa poi che in questo mondo lo spirito di emulazione sembra alimentato solo dai modelli negativi, o quanto meno discutibili, e in numerosi casi assolutamente idioti …

A riprova di come la lingua possa geneticamente produrre equivoci, fraintendimenti ed errori, ispirato proprio da carmare, mi accingo ad introdurre  craminare. Prima però debbo dire che il Rohlfs riporta nel suo vocabolario (datato 1976) due lemmi carmare distinti, l’uno col significato di calmare, l’altro di incantare, senza etimologia. Più avanti, però, è riportato il brindisino carmisciari col significato di incantare le serpi e con l’indicazione etimologica dal citato carmen. Debbo dedurre, anche se il Rohlfs non lo scrive esplicitamente, che a carmen si colleghi pure il secondo carmare. Direi, in conclusione di questa fase,  che l’antropologa copertinese abbia corroborato con i dati antropologici raccolti sul campo l’etimo del Rohlfs e non sapremo mai se è stato proprio il filologo tedesco o, come vedremo, qualcun altro a darle l’abbrivio (pardon, l’input …). Anzi, per dare completamente a Cesare quel che è di Cesare, va detto che:

1) il carmisciari rohlfsiano reca la sigla B4 che corrisponde a Francesco Ribezzo, Il dialetto apulo-salentino di Francavilla Fontana, in appendice alla rivista Apulia, v. II-IV, 1911-1912, p. 87. Carmisciari è dal tema carm– di carmare+il suffisso (con valore intensivo-iterativo) –isciare, che è dal latino –idiare (in italiano –eggiare, come in maneggiare), a sua volta dal greco –ίζω (-izo).

2) il carmare rohlfsiano, che è quello che ci interessa più da vicino reca come fonte la sigla L9 che corrisponde a Etimologie neritine nella rivista Giambattista Basile, anno II, 1884, pp. 85-87. In queste tre pagine del neretino Luigi Maria Personè compaiono 15 vocaboli di Nardò ed uno di questi è proprio carmatu, col significato di stregato. A scanso di equivoci mi preme dire che in stregato qui c’è stato un passaggio dal significato passivo tipico di qualsiasi participio passato di un verbo transitivo a quello attivo. Stregato, perciò, è da intendersi non come ammaliato ma come in grado di ammaliare, così come in italiano dotato  (concetto passivo) evolve verso un significato attivo: dotato di poteri  (particolari o meno)  è colui che ha ricevuto il potere (da Dio, per chi ci crede, dalla natura, dagli uomini, dalla credulità popolare …) ma poi  è in grado di espletare sugli altri (concetto attivo) il potere ricevuto.

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La stampa antica raffigura San Paolo; per comprendere la presenza dei serpenti e i rapporti con carmare, che pure possono essere intuiti, consiglio di leggere il saggio di Giulietta Livraghi Verdesca Zain (Tre santi e una campagna, Laterza, Roma, 1994; il lettore più pigro  troverà un estratto del pezzo che ci interessa in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/30/origine-e-discendenza-dei-carmati-ti-santu-paulu/) e quello di Pier Paolo.

Dopo aver detto  che le precedenti  precisazioni non intendono certamente sminuire la grandezza dell’antropologa(salicese di nascita, romana prima e copertinese infine di adozione)  e il metodo magistrale con cui Pier Paolo ha sfruttato il suo taglio antropologico  per dimostrare filosoficamente (con un linguaggio tanto chiaro ed essenziale che credo di aver capito tutto pure io), la sua tesi, dopo aver sottolineato che le stesse precisazioni non vogliono neppure esaltare, in un empito di umano, ma nell’occasione più che mai stupido, campanilismo, il mio concittadino Luigi Maria Personè, passo a craminare.

La voce corrisponde (con sola metatesi car->cra-) all’italiano carminare, sinonimo di cardare, cioè districare le fibre delle materie tessili. Oggi il mercato offre materassi di ogni tipo: a molle, ad aria, ad acqua, di lattice, etc. etc. Fino ad un sessantennio  fa il più sofisticato (e per questo non riservato a tutti) era quello ripieno di lana, che periodicamente, insieme con quella dei cuscini, veniva scompattata e liberata dalla polvere, cioè craminataCraminare è dal latino carmen, omofono del precedente, col significato di pettine per cardare, a sua volta da càrere=cardare.

 

immagine tratta da http://isolana.altervista.org/?page_id=331
immagine tratta da http://isolana.altervista.org/?page_id=331

 

A riprova di quanto affermato da Pier Paolo: c’è da meravigliarsi se ormai solo qualcuno prossimo a diventare centenario ricorda (arteriosclerosi permettendo …) la parola ed il suo significato?4

E, d’altra parte, è perfettamente normale che la parola non sia non dico usata ma neppure ricordata da chi non ha vissuto quell’esperienza femminile del tempo che fu, nemmeno evocata, in chi osserva una foto antica o una recente ad uso e consumo dei turisti o un presepe,  vivente o no.

immagine tratta da https://www.rivieraoggi.it/2005/01/03/9075/presepe-vivente-di-grottammare-le-foto/
immagine tratta da https://www.rivieraoggi.it/2005/01/03/9075/presepe-vivente-di-grottammare-le-foto/

 

Fra poco, con le fibre sintetiche e con l’utilizzo sempre più ridotto della lana destinata a prodotti di nicchia, perciò costosissimi (amara rivincita della civiltà contadina …), anche l’italiano carminare diventerà obsoleto. Resterà, invece, in vita [Tromba ti culu sanitate ti cuerpu (tromba di culo salute del corpo) recita la traduzione salentina di uno dei principi della scuola medica salernitana], favorito dalla sua natura tecnico-specialistica (e dalle multinazionali del farmaco …), carminare (da cui l’aggettivo carminativo) che significa  promuovere l’eliminazione di gas dall’intestino; ho detto omofono, perché esso non è dal secondo carmen (pettine per cardare) ma dal primo (canto) messo in campo per carmare, con riferimento alle formule magiche che in passato, direi di regola nella medicina popolare, accompagnavano i medicamenti.5

Più in bellezza di così non potevo chiudere …

________

1 Nell’immaginario grammaticale contadino salentino –u ed –a sono, rispettivamente, le desinenze del singolare maschile e femminile (così è anche in italiano per la gran parte delle parole, le quali derivano dalla prima, seconda e, per i maschili, dalla quarta declinazione latina). Qui la regolarizzazione è stata estesa ad un sostantivo derivante dalla terza declinazione, con carmen>carme>carmu.

2 Per analogia di formazione con fulgère=brillare>*fulgmen>*fulmen (=fulmine); lucère>=splendere>*lucmen>lumen (luce) o flùere=scorrere>flumen (fiume) o sèrere (seminare)>*sermen>semen (seme), etc. etc.

3 Il valore dei suoi studi secondo la mia, pur modestissima, opinione non ha trovato fino ad ora,  anche da parte degli addetti ai lavori, il dovuto riconoscimento  e addolora il cuore prima ancora che la mente pensare al destino delle sue ricerche rimaste manoscritte ed amorevolmente custodite dal marito Nino Pensabene, scomparso anche lui, quasi tre anni fa. E su Nino mi piace sadicamente (per le osservazioni che farò, anche se a  qualcuno posso sembrare blasfemo; ma lo faccio anche, forse soprattutto, per questo …) riportare quanto si legge in Umberto Eco, Il costume di casa, evidenze e misteri dell’ideologia italiana degli anni sessanta, nel capitolo intitolato L’industria del genio italico, Bompiani, Milano, 1973, s. p. : Il piacere si fa ricco di informazioni quando si leggano poi in quotidiani o settimanali a diffusione non esattamente nazionale lunghe cronache, ad esempio, di sessioni dell’Associazione internazionale di poesia, dove alla presenza di note personalità del mondo letterario (cito da una cronaca: “Comm. dott. Armando De Santis e signora Velia, prof. Mario Rivosecchi, Donna Acsa Balella, dottor Nino Pensabene, eccetera”) l’attrice Maria Novella dà lettura delle ultime liriche di Lorena Berga fattori (Ad ogni ora che passa) definite dall’oratore ufficiale affini per certi versi alla lirica leopardiana e rispondenti al dettame del Croce secondo cui “la poesia è verità”.

Un quadro sarcastico in cui Nino (a meno che non si tratti di un omonimo) appare come una delle tante marionette che, loro sì, sembrano popolare certi cenacoli o, per scendere più in basso, certe manifestazioni editorial-pseudo  culturali di oggi,  in cui il recensore di turno si abbandona senza pudore a giudizi reboanti, sempre entusiastici,  e magari non ha letto nemmeno la metà della pubblicazione oggetto del suo intervento. Umberto Eco, prima di far esplodere il suo solito sarcasmo, che in più di una circostanza, non solo qui, sconfina nella pura supponenza, avrebbe fatto meglio a trarre qualche informazione sui personaggi nominati. Quello che segue, però, è, secondo me, più interessante e indicativo di quanto ho appena detto.

In queste occasioni, nelle pagine delle riviste citate, e nei volumi a cui le riviste rimandano, raro è trovare scrittrici che portino nomi brevi e banali come Elsa Morante, Anna Banti, Gianna Manzini. Le poetesse hanno sempre due cognomi, come le professoresse di matematica, e si chiamano Alda Mello Caligaris, Antonietta Damiani  Ceravolo, Maria Pellegrini Beber, E. Ghezzi Grillini (per citare i nomi più recenti del catalogo Gastaldi), oppure Giselda Cianciola Marciano (autrice delle liriche Polvere di stelle), Antonietta Bruno di Bari (Azzurro Corsiero), Carlotta Ettorè Tabò (Sinfonia di vita e di morte), Edvige Pusineri Chiesa (Mesti palpiti).   

– Capra! – avrebbe detto Vittorio Sgarbi – mi citi questo carnoso popò (non po’ po’ …) di nomi e dimentichi Giulietta Livraghi Verdesca Zain? -.

Qui, secondo me, la spocchiosità ha ceduto alla paura che la salentina, leggendo, gli rispondesse a tono, riscuotendo gli interessi anche per il marito …

4 Ancor meno probabile che una madre dica al figlio che si appresta ad uscire – ‘Ddo’ sta’ bbai tuttu  scramignatu? – (Dove stai andando tutto spettinato?), anche perché quella spettinatura, d’autore, è costata alla famiglia, orgogliosa del figlio alla moda, un occhio della testa … Scramignatu è, anzi è stato …, participio passato di scramignare, che è da *excramineare, composto da ex privativo+cramineare, per metatesi da *carmineare, a sua volta da carminare.

5 Tuttavia per Walther von Wartburg anche questo carminare si ricollega a carmen=pettine per cardare, quasi fosse un’operazione di districamento dell’intestino. E io aggiungo, senza per questo avanzare preferenze definitive, che carmen (pettine per cardare) da càrere (cardare) mostra una formazione più regolare e scorrevole (ma può non significare granché)  rispetto a quella indicata nella nota precedente, in cui solo flumen non presenta, come in questo caso càrere>carmen, il passaggio in più.

Il delfino e la mezzaluna. Numero doppio per i suoi estimatori

delfino e la mezzaluna

E’ pronto il doppio numero de “Il delfino e la mezzaluna”, ovvero gli studi della Fondazione Terra d’Otranto, diretto da Pier Paolo Tarsi.

Giunto al quarto anno, questa edizione si sviluppa in 314 pagine, per recuperare l’anno di ritardo, sempre in formato A/4, copertina a colori, fotocomposto e impaginato dalla Tipografia Biesse – Nardò, stampa: Press UP, con tematiche di vario genere inerenti le provincie di Lecce, Brindisi e Taranto.

Tanti gli Autori che ancora una volta hanno voluto offrire propri contributi inediti, e meritano tutti di essere elencati secondo l’ordine con cui appaiono nel volume, con il relativo saggio proposto:

Pier Paolo Tarsi, Editoriale

Angelo Diofano, Il fantastico mondo degli ipogei nel centro storico di Taranto

Sabrina Landriscina, La chiesa di Santa Maria d’Aurìo nel territorio di Lecce

Domenico Salamino, Prima della Cattedrale normanna, la chiesa ritrovata la città di Taranto altomedievale

Vanni Greco, Il “debito” di Dante Alighieri verso il dialetto salentino

Francesco G. Giannachi, Un relitto semantico del verbo greco-salentino Ivò jènome (γίνομαι)

Antonietta Orrico, Il Canticum Beatae Mariae Virginis di Antonio De Ferrariis Galateo, una possibile traduzione

Giovanni Boraccesi, Il Christus passus della patena di Laterza e la sua derivazione

Marcello Semeraro, Propaganda politica per immagini. Il caso dello stemma carolino di Porta Napoli a Lecce

Marino Caringella – Stefano Tanisi, Una santa Teresa di Ippolito Borghese nella chiesa delle Carmelitane Scalze di Lecce

Ugo Di Furia, Francesco Giordano pittore fra Campania, Puglia e Basilicata

Domenico L. Giacovelli, Nel dì della sua festa sempre mundo durante et in perpetuum. Il patronato della Regina del Rosario in un lembo di Terra d’Otranto

Stefano Tanisi, Il dipinto della Madonna del Rosario e santi di Santolo Cirillo (1689-1755) nella chiesa matrice di Montesardo. Storia di una nobile committenza

Armando Polito, Ovidio, Piramo e Tisbe e i gelsi dell’Incoronata a Nardò

Alessio Palumbo, Aradeo, moti risorgimentali e lotte comunali: dal Quarantotto al Plebiscito

Marcello Gaballo – Armando Polito, Dizionarietto etimologico salentino sulle malattie e stati parafisiologici della pelle, con alcune indicazioni terapeutiche presso il popolo di Nardò

Marco Carratta, Il mutualismo classico in Terra d’Otranto attraverso gli statuti delle Società Operaie (1861-1904)

Gianni Ferraris, Il Salento e la Lotta di liberazione

Gianfranco Mele, Il Papaver somniferum e la Papagna: usi magici/medicamentosi e rituali correlati dall’antichità al 1900. Dal mito di Demetra alle guaritrici del mondo contadino pugliese

Bruno Vaglio, Alle rupi di San Mauro una nuova stazione “lazzaro” di spina pollice. Considerazioni di ecologia vegetale dal punto di vista di un giardiniere del paesaggio

Riccardo Carrozzini, Il mio Eco

Pier Paolo Tarsi, L’antropologia linguistica della memoria narrata: uno sguardo filosofico all’opera di Giulietta Livraghi Verdesca Zain e Nino Pensabene

Arianna Greco, Arianna Greco e la sua arte enoica. Quando è il vino a parlare

Gianluca Fedele, Gli ulivi, la musica e i volti: intervista a Paola Rizzo

Epigraphica in Terra d’Otranto. L’epigrafe agostiniana nella chiesa dell’Incoronata di Nardò (Massimo Cala). L’epigrafe di Morciano di Leuca in via Ippolitis al civico n.6 (Armando Polito)

Segnalazioni. Il fonte di Raimondo del Balzo ad Ugento (Luciano Antonazzo). La Madonna col Bambino e sant’Anna di Gian Domenico Catalano (1560 ca. – 1627 ca.) in Ugento (Stefano Tanisi). Il pittore Aniello Letizia e le sue prime opere di committenza confraternale nella Gallipoli del ‘700 (Luciano Antonazzo – Antonio Faita). Le origini dell’oratorio confraternale di santa Maria degli Angeli, già sotto il titolo di santa Maria di Carpignano (Antonio Faita).

La foto di copertina è di Ivan Lazzari, ma numerose anche le immagini proposte all’interno, gentilmente  offerte da Stefano Crety, Khalil Forssane,  Vincenzo Gaballo, Walter Macorano, Raffaele Puce.

 

Gli interessati potranno chiederlo previo contributo di Euro 20,00 da versarsi a Fondazione Terra d’Otranto tramite bollettino di Conto corrente postale n° 1003008339 o bonifico tramite Poste Italiane IBAN: IT30G0760116000001003008339 (indicare il recapito presso cui ricevere  la copia).

Per ulteriori informazioni scrivere a: fondazionetdo@gmail.com

Il tedesco in vacanza

da amando.it
da amando.it

 

di Pier Paolo Tarsi

Lo noti il tedesco in vacanza, e non solo per i suoi calzini. Non appena varca i confini del suo Paese e frau Merkel non può più vederlo, il suo super-Io germanico allenta il consueto rigidissimo controllo o se ne resta addirittura in patria insieme al lavoro, traspare allora da ogni gesto o movenza sciapita un nuovo essere umano rilassato; non gli par vero a questo nuovo tedesco di poter svoltare in auto senza “freccia”, gli si stampa in faccia un sorrisetto da monello impunito quando parcheggia un po’ fuori dalle strisce, e quando non c’è nessuno nei dintorni son sicuro che getti anche carte per terra, anzi, sospetto se le porti ogni mattina appositamente in tasca per dar sfogo alla sua nuova libertà. Se ne vedete uno è facile riconoscerlo in genere dal sorrisetto beato e dall’occhio ridente; se non siete del tutto sicuri che sia un tedesco in vacanza potete ricorrere a un test immediato, divertente e semplice semplice: accostatevi al presunto tedesco in vacanza con discrezione e, nel mentre combina una delle sue marachelle, urlate a caso qualche tenera parola della sua madrelingua. Non c’è bisogno di andare a lezione di tedesco, basta un “achtung” o, per i più arditi, un “Sie sah sie“: se vedrete che si il tipo si impala sull’attenti nel tempo compreso tra 1 e 5 nanosecondi, se gli si intristisce immediatamente il volto e se infine la sua schiena diventa un obelisco piantato in mezzo alla strada, ebbene, avete beccato senza alcun dubbio il vostro tedesco in vacanza.

Sullo spettacolo di Taurino

di Pier Paolo Tarsi

(https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/06/26/antonello-taurino-e-lo-scherzo-del-secolo-a-gallipoli/)

Foto di scena 1

Non giriamoci attorno e andiamo subito alla domanda che il pubblico pagante si fa di fronte a uno spettacolo comico: fa ridere? Si, fa ridere eccome, fa ridere tanto davvero. E già questo, a molti, potrebbe giustamente bastare, sebbene non a Taurino, sospettiamo. Per chi non si accontentasse potremmo dire qualcosa di più intorno a questo far ridere, per esempio potremmo chiederci: fa ridere tutti?

Qua le cose si complicano, e come spesso capita nella vita è proprio la sfiga, quella che ci segue anche a teatro, a regalarci le risposte e le intuizioni migliori sulle cose: in sala (in realtà il meraviglioso Chiostro di San Domenico a Gallipoli) c’era un solo ragazzino, uno solo. Indovinate dove era seduto? Già, alle spalle di chi scrive!

Non era uno spettacolo per lui, tant’è che dopo mezz’ora il ragazzetto parlottava ormai solo, faceva acrobazie scomposte e rumorose sulla sua sedia e delirava preoccupantemente, rifiutandosi ormai anche sua madre di spiegargli perché lei e l’amica se la ridessero tanto. Certo, non pareva un tipo molto sveglio per dirla tutta, ma questo, in ogni caso, ci dice qualcosa sul “come” arrivi a regalarci risate Taurino, ossia qualcosa sulla sua specifica vena comica che non ne fa uno spettacolo per tutti, seppur decisamente per molti. Un limite questo? Niente affatto, una caratterizzazione semmai, da cui partire per qualificare i modi dell’arte di Taurino in questo spettacolo scritto, costruito e interpretato da lui.

Arte, e niente affatto solo arte comica. Anzi, di fronte alla coscienza chiara di questo fatto ci mette la costruzione che Taurino tiene in piedi per quell’ora e mezza che vola, letteralmente: far divertire il pubblico è una cosa molto seria e le competenze da mettere a frutto sono davvero tante, da ricercare anche laddove non ce le aspetteremmo mai. Nell’universo e nella cassetta degli attrezzi dello storiografo per esempio: Taurino, dal mare di Gallipoli, ci trasporta sin dai primi minuti nel porto di Livorno, e lo fa come fosse uno storico di professione, con rigore di fonti, dettagli, documenti di ogni genere, e con in più la capacità di far divertire mentre per mano ci conduce a rivivere il processo da cui, sin dal 1500, emerge un’identità corale, lo spirito, la forma mentis del popolo livornese.

Ci svela così il farsi storico di quella tipicità ridanciana dei livornesi, inconfondibile, provinciale e un po’ sboccata, quel loro sguardo “vernacoliere” sulle cose che alleggerisce tutto, l’origine di quello scarto che rende la vita meno greve, meno pisana per dire, ché con la gravità, si sa, i pisani hanno sempre avuto i loro problemi. Con tali premesse, con questo ricorso ai modi di uno storiografo sui generis, Taurino ci immette nella cornice giusta per rivivere fino in fondo quanto accaduto nei giorni di una noiosa estate dell’84, per comprendere cioè il capolavoro assoluto, il fatto storico per eccellenza dell’uomo livornese, l’apoteosi di quel suo modo di stare al mondo e prendersene gioco: sono i giorni in cui tre ventenni prenderanno in giro la città, la nazione, il mondo intero. Complice il caso, magistrale regista di una storia che si complica ad ogni snodo, si arricchisce di toni e sfumature (persino giallistiche a tratti), di protagonisti, attori e profili più o meno comici – e tragici; e complice un Black&Decker ovviamente, quello con cui i tre realizzarono una delle tre finte teste di Modigliani ritrovate nel canale, intaccando la pietra e la reputazione dei più illustri studiosi.

Quello che ne seguirà sarà “l’undici settembre” della storia e della critica dell’arte italiana e non solo. E se credete che non ci sia nulla di peggio dell’undici settembre, è solo perché non ricordate cosa accadde il 13 settembre dell’84 in quel di Livorno: ve lo spiegherà Taurino, se vorrete.

L’intreccio delle vicende, narrato con padronanza della scena, è complesso e ricco di colpi di scena fino all’ultimo, ma all’attore riesce una difficilissima semplicità e di quanto fosse contorto il mosaico non ve ne accorgerete nemmeno. Giovano alla riuscita anche costanti ausili: sul palco vengono proiettate foto, reperti, stralci di giornali, la voce di Taurino riporta altisonanti giudizi di critici d’arte e pomposi discorsi di assessori “alla scultura”, creando spesso dissonanze assurde e comiche con quanto intanto l’occhio vede o lo spettatore viene scoprendo sui falsi di Modì.

Alla fine vi alzerete molto divertiti, ma anche pieni di dubbi e domande che Taurino stesso sollecita e lascia volutamente aperte: chi ha veramente fatto lo scherzo a chi? Tutto ciò è un dramma, tessuto da un destino un po’ beffardo, o una commedia voluta almeno in parte da uomini? Il problema dell’arte (e non solo) è l’essere o il riconoscimento? Il vero autore di un’opera d’arte è colui che sa tenere lo scalpello in mano (o il Black&Decker) o è il corale tessere di un riconoscimento in cui tutti siamo artefici, più o meno credibili o smentibili?

Libri| Nostro ulivo quotidiano

scattidautore

 

E’ stato pubblicato pochi giorni fa il volume di Elio Ria, Nostro ulivo quotidiano, a cura di Marcello Gaballo, per le edizioni della Fondazione Terra d’Otranto, inserito nella collana Scatti d’Autore, n°2. in quarto| 112 pagine| colore, cartonato. Impaginazione di Mino Presicce, fotocomposizione Biesse – Nardò, stampa Pressup. Foto di Fabrizio Arati, Mauro Bellucci, Maurizio Biasco, Lucio Causo, Coordinamento Forum Salute, Stefano Crety, Marcello Gaballo, Roberto Gennaio, Linda Iazzi, Walter Macorano, Lucio Meleleo, Tommy Mezzina, Francesco Politano, Mino Presicce, Pier Paolo Tarsi. Foto di copertina di Maurizio Biasco.

ISBN: 97888 906976 8 5

Edizione non commerciale, riservata alle biblioteche e ai soci della Fondazione.

 

Prefazione di Marcello Gaballo – Fondazione Terra d’Otranto

Scatti d’Autore è la nuova collana edita da Fondazione di Terra d’Otranto, che persegue l’obiettivo – attraverso le parole e le immagini – di valorizzare e promuovere la cultura salentina con i suoi autori più rappresentativi in ambito letterario, filosofico e artistico.

La grandezza della parola dipende dallo splendore delle immagini e dalla capacità cognitiva di raccogliere argomenti misuratori del Salento, che è luogo blindato di generosità e splendidezza, ma è anche sostanza d’ispirazione per poeti e artisti. Il mare, i porti, le chiese, i campanili, le piazze, i vicoli, i paesi, sono le cartoline di un mondo fiabesco che incarnano la pazienza del tempo e non hanno necessità di urgenza di fare a pezzi le tradizioni e i costumi di una comunità sempre devota a Dio.

Il secondo volume “Nostro ulivo quotidiano” dedicato all’albero di ulivo è scritto da Elio Ria. Le immagini sono di vari fotografi salentini che hanno voluto donare i loro scatti a corredo del presente lavoro.

Ria si distingue per la sua prosa erudita, pregna di allusioni e ironica nelle allegorie, corredata da una poesia metafisica che sembri lo affascini e lo nutri di piacere del sapere. Attento osservatore della propria terra sa incastonare le quotidianità della vita con le tradizioni che tuttora resistono e s’impongono nel Salento. Riservato e incline al silenzio, rifugge da ogni moda stravagante di letteratura, indagatore e archeologo delle parole crede nella modernità con moderazione, ha un naso eccezionale per le cose interessanti, ha la capacità di condensare minuziosamente i concetti e di sintetizzare le complessità esistenziali libero da ogni condizionamento politico e/o religioso. Ama narrare ciò che è invisibile per attualizzarlo e declamarlo in forma poetica. Offre ai suoi lettori un intrattenimento di lettura piacevole poiché ogni sua cosa è realizzata da un intimo godimento, il giubilo di chi fa ciò che gli piace fare.

Nelle sue omissioni volute si può cogliere la riflessione come fonte di emozione poetica e l’erudizione come retorica cortese – ma mai come pedanteria. Guarda sempre con passione tutto ciò che è minore in confronto a ciò che è maggiore, giacché dalle cose minime risultanti insignificanti sa estrapolare significativi e sostanziali frammenti di allegorie e di memorie.

Il libro è un mondo racchiuso in sé stesso, con le immagini dell’albero di ulivo e di una campagna in sofferenza; dove però prevale innanzitutto il senso civico di responsabilità del poeta per la sua terra, il quale avverte l’impegno di un agire per il meglio, nonché il monito ad una scelta di vita più consona alle regole della natura. Xilella fastidiosa è il killer che decreta la morte degli alberi, mettendo in serio pericolo l’ecosistema. Nelle parole del libro si addensano le atmosfere recondite e quelle sonore dell’uomo che riflette sulla realtà e tenta di interpretarle, poiché incombe un futuro senza futuro e il Salento rischierebbe una menomazione ambientale incommensurabile.

L’ulivo è l’albero simbolo del Salento, il gigante, che nei secoli ha germogliato ricchezza, orgoglio di natura, bellezze figurative, idea di poesia. L’omaggio editoriale è tutto per esso, significando in tal modo l’attenzione e l’interesse di questa Fondazione ai beni naturali della propria terra.

Le mie donne

mimosa

di Pier Paolo Tarsi

A capo del sistema per cui lavoro vi è una donna (Giannini, ministro del Miur). A capo della mia scuola una donna, la preside. A capo del comune in cui vivo una donna, il sindaco (o la sindaca, per usare una boldrinata). A capo della famiglia in cui sono cresciuto una donna, mia madre. A capo di questi anni della mia esistenza una piccola donna, mia figlia. A me sembrano più indifesi e deboli i panda francamente. Ma non insisto, soprattutto oggi che ho fatto una concessione anche io al significato di questo giorno.

Da due anni faccio sempre lo stesso tragitto, la incontro sia all’andata che al ritorno là, a volte seduta per terra, a volte seduta dentro una vecchia e grossa carretta grigia con targa straniera. Che ci sia pioggia, vento o sole, è sempre al suo posto come fosse un elemento del paesaggio, come gli ulivi che le stanno dietro o il segnale stradale che subito dopo indica la svolta per la mia destinazione. Ho comprato un ramoscello di mimosa anche io oggi, uno solo. Mi sono fermato sul ciglio della strada, nonostante la paura fottuta che passasse qualcuno che potesse riconoscermi e fraintendere. Ho preso il ramoscello comprato per lei e l’ho consegnato senza dirle niente altro che “ciao”, prima di ripartire, lasciando che sia lei a dare il senso che vuole al mio gesto.

Non ne ho alcuno da imporre del resto, non sapendo nulla del perchè sia là, se quella donna senta un qualche bisogno di emancipazione oppure no, se quella condizione sia una sua libera scelta oppure no.

Posso presumere solo che lo abbia gradito dal sorriso in cui si è illuminata, dal bagliore che per un attimo ha ravvivato quegli occhi azzurri e assenti che ogni giorno, al mio rapido passaggio da perenne ritardatario, mi guardano senza davvero vedermi. E dubito sia solo per la velocità.

Sul Parlangeli

immagine tratta da: http://www.oldsite.unile.it/ateneo/ateneo/sedi/
immagine tratta da: http://www.oldsite.unile.it/ateneo/ateneo/sedi/

 

di Pier Paolo Tarsi

Distinzioni minime: spazio e luogo

Come un uomo non è riducibile al suo corpo, così un luogo non è riducibile a uno spazio fisico. Perché questo sia un luogo occorre anzitutto almeno una motivazione che lo abiti e lo organizzi, ci vuole almeno un significato complessivo che lo animi dotandolo di una identità funzionale minimale. Questo è un luogo per lo studio, quello un luogo di culto, quell’altro un luogo per lo svago, ogni luogo è tale per almeno un fine che gli attribuiamo, ossia per un significato totale, identitario, connotante, sulla base del quale lo spazio è palesemente organizzato nei suoi elementi tangibili. Il luogo è dunque la forma che organizza lo spazio fisico, la sua entelechia. È nel luogo che si accomodano e si incontrano propriamente le persone, è ai luoghi che ci affezioniamo, è questo, e non lo spazio, lo sfondo sul quale si stagliano le nostre esperienze vissute. Tali esperienze si sedimentano nel tempo in memorie che, nel persistere identico per tutti dello spazio, ampliano invece continuamente i confini dell’altro, lo diversificano e lo pluralizzano in tanti micro-luoghi quante sono le persone e i loro incontri, apportandovi inoltre motivazioni ulteriori non ricomprese nel fine originario. Si da allora il caso che vi siano, persino nel recinto circoscritto delle nostre case, porzioni di spazio che non sono mai diventate porzioni di un luogo per noi o qualcuno. Ci sono intere sale o angoli che non si sono mai prestati ad un nostro sguardo interessato, ad un significato qualunque, ad un frammento di memoria; ci sono vedute su questo spazio tracciato dai geometri e dai documenti che possiamo scoprire con stupore e possiamo abitare solo dopo questo nuovo ingresso. Il nostro luogo-casa è ritagliato entro lo spazio-casa complessivo, ma non coincide mai con esso. Ciò di cui possiamo veramente dire “è il posto in cui viviamo” è il nostro luogo personale, un ritaglio entro uno spazio oggettivo di cui sanno qualcosa solo gli atti notarili o i contratti d’affitto ma che noi di fatto non viviamo, non abbiamo conosciuto né testimoniato, non abbiamo mai investito di vissuti e significati, uno spazio che non ci è mai appartenuto, nel quale non vi abbiamo mai preso dimora. Ciò di cui possiamo testimoniare è solo il nostro luogo in quello spazio. La sedia che è lì, la porta che le è accanto sono elementi nello spazio a tutti accessibile. Ma il filo di ricordi che dipana da quella sedia, il suo significare per me, la connessione che mi riporta a chi me l’ha donata, mi appartengono personalmente come una parte del luogo in cui soggiorno solo io. Posso cedere, vendere o affittare il mio spazio-casa ma non il mio luogo-casa, perché questo emana da tutta la mia personalità e dalla mia storia di singolo e dalla storia di chi mi è intorno: è più di un semplice bene immobile il cui possesso mi è riconosciuto dalle leggi o dai costumi, è un bene personale, è mio in un senso più inalienabile della proprietà, non posso che portarlo necessariamente con me come fosse il mio corpo, mi appartiene come un’estensione personale, è un habitus su misura.

Parlangeli: lo spazio

Il Parlangeli è un posto raccapricciante. Ogni volta che ne varco la soglia, qualunque sia il mio stato d’animo, percepisco come fosse la prima volta chiaramente lo scandalo di questo orrore spigoloso, di questo nido grigio e monotono di cemento, di questo incubo ordinato e immobile. Il palazzo è una coazione a ripetere di poche figure squadrate con una sola concessione alla rotondità: una rampa di scale a chiocciola posta a intervalli regolari, una spirale psichedelica che sfocia in una cupola nera. Ogni scala è una voragine, una pausa posta tra le geometrie quadrate prima che riprenda lo spartito, il ritornello ossessivo di rettangoli e quadrati riproposti in identiche proporzioni ed esibiti nelle medesime, costanti combinazioni. Qui un ingresso vale l’altro, un piano vale l’altro, un ascensore vale l’altro (a meno che uno non funzioni per davvero!), una rampa di scale vale l’altra, un’aula vale l’altra, uno studio vale l’altro, una finestra vale l’altra: ogni cosa è perfettamente indistinguibile dalla corrispondente, ognuna è perfettamente equivalente all’altra per forma, dimensione, incolore e pallore. Ovunque si diriga lo sguardo la scena che si offre è quella di uno spettacolo di un fiume amorfo e ipnotico di regolarità tra cui non ha alcun senso preferire qualcosa a un’altra, non ha senso scegliere nulla. Tutto è predisposto alla luce di una maniacale uguaglianza, ogni elemento sembra cospirare contro il principio logico dell’identità degli indiscernibili, come se tutto volesse tendere al tentativo di una sua falsificazione fisica: il risultato è un’empirica congiura architettonica a Leibniz, una smentita del suo sistema. Se non vi fossero quelle targhette incise ad indicare con un numero decimale il piano, con una unità la successione e, infine, con una lettera il settore, nessun essere umano potrebbe minimamente orientarsi nel mezzo di un universo così privo di segni distintivi o differenze a cui ancorarsi per collocarsi, nessuno potrebbe capire in qualche altro modo da dove viene e dove va: mi domando se non sia proprio per queste ragioni e per una cinica allusione che sia stato scelto quel dannato palazzo per insediare proprio il corso di laurea in filosofia.

Parlangeli: il luogo

Che ci si creda o no, ed è una prova ulteriore della distinzione iniziale, anche in uno spazio così terrificante possono sorgere luoghi importanti, significativi, piacevoli e irrinunciabili per chi vi soggiorni. Per descrivere questi luoghi dovrei certo restituire al lettore ragnatele di memorie di molti anni della mia esistenza, da studente prima e, dopo anni trascorsi altrove, da dottorando poi; dovrei così far nomi e cognomi di amici e compagni preziosi, narrare aneddoti e fatti più o meno improbabili. Ma è preferibile credo limitarmi a qualche fotografia, a qualche istantanea che lascia supporre, suggerisce, testimoniando per frammenti qualcosa che è stato, come fanno le immagini fisse estrapolate da una storia più vasta e vivida di una generazione di studenti, una delle tante che appartengono irrimediabilmente al luogo. Ed allora ciò che prima restava indistinto, anonimo, impersonale e ripetitivo nella resa dello spazio, immediatamente si colora di decise distinzioni se coi ricordi mi addentro nello stesso palazzo sub specie loci. Ora ogni cosa è davvero unica e irripetibile, ha un colore netto ed una personalità definita e conosciuta, familiare, racchiude una memoria chiara. Il quarto piano ad esempio, non era affatto un piano come gli altri, era il “nostro” piano, quello cioè della tribù degli studenti in filosofia. Anche il secondo ci apparteneva molto, soprattutto fino a quando c’era lì il bar di R., un tipo bravino nel fare il caffè ma straordinario nel rullarsi perfettamente la sigaretta con una sola mano. L’altra gli mancava. Mi chiedo ancora oggi come diavolo ci riuscisse. Il secondo piano era dunque un avamposto, una frontiera tra studenti di filosofia e iscritti ad altri corsi di laurea e pertanto indegni della minima considerazione da parte di menti impegnate nella ricerca della verità come noi, intellettualmente disprezzati, ma solo intellettualmente trattandosi spesso di graziose studentesse di pedagogia o simili. Il primo e il terzo piano non erano invece affar nostro. Per quanto mi riguardava sentivo talmente estranei quei piani che, per dirne una, se dovevo correre in bagno e si dava il caso che al quarto o al secondo fossero tutti occupati, mi era difficile persino rendermi conto che c’erano altre possibilità. Si dice che i filosofi vivano nei cieli: ma come si fa ad essere piantati per terra quando ci si è formati al secondo piano di un palazzo senza un primo piano a reggerlo, e con un quarto piano edificato senza un terzo? Nemmeno nell’Iperuranio si starebbe talmente sospesi!

Il piano terra era invece territorio di tutti, era soprattutto quello delle biblioteche e di qualche aula più capiente. Nelle biblioteche non esistevano badge elettronici e tesserini magnetici: al loro posto c’era essenzialmente lui, S., il bibliotecario dalla memoria infallibile o “lulliana”. S. ti trattava come un vecchio zio brusco ma infinitamente buono, ti dava pazientemente i libri, e senza segnarsi nemmeno il tuo nome un giorno ti beccava nel bar e ti guardava male al punto che il caffè che stavi sorseggiando ti andava storto: quello era il segnale che il prestito era scaduto da molto, troppo tempo. Non era necessario che un software inviasse email automatiche alla tua casella elettronica come avviene oggi. La tecnologia era tutta lì, nella memoria e negli sguardi di S. Non occorrevano nemmeno parole spesso. Forse però è ora di finirla, prima che queste istantanee diventino un album di ricordi o peggio prendano a rincorrersi in un flusso nostalgico. Menzionerò soltanto l’ironia che il Parlangeli sa riservare. Tornandoci anni dopo per il dottorato, ad esempio, mi trovai a frequentare quasi esclusivamente il terzo piano. Chi l’avrebbe mai detto?

Al mio ritorno incontrai S. all’ingresso, seduto su un parcheggio in ferro per biciclette. La cosa mi colpì per la sua stranezza e così mi fermai, scoprendo che il mio primo giorno da dottorando coincideva col suo primo da pensionato. Per la prima volta in quella circostanza scambiammo due parole non riguardanti prestiti librari in sospeso. Non seppe resistere quel giorno alla forza di un’abitudine scavata una vita. Come non comprenderlo? Lo salutai con un affetto sentito ma non manifestato, proprio come si fa con uno zio burbero che non si vede da anni, anche se credo che lui non sapesse il mio nome. Ma su questo non ci scommetterei, con una memoria del luogo come la sua non si sa mai. Un’ultima cosa resta da dire, in merito alla provvisorietà eterna del Parlangeli, ormai proverbiale. Anche all’inizio di quest’anno, come negli ultimi diciotto, ossia sin dal tempo in cui ero una matricola, è stato puntualmente annunciato l’imminente sgombero delle attività universitarie dal palazzo. Non passo da lì da molti mesi ormai, sono però sicuro che anche l’anno prossimo leggerò lo stesso annuncio: su questo ci scommetterei, puntando tutto stavolta.

Il Salento dei tumori e la “decarbonizzazione”: un nodo sempre più intricato per Emiliano

Ulivi vita millenaria da salvare - ''l'Ulivo urlatore'' - Salento, entroterra otrantino, ARCHIVIO FORUM AMBIENTE E SALUTE
ARCHIVIO FORUM AMBIENTE E SALUTE

 

di Pier Paolo Tarsi

 

C’è del marcio nel Salento, c’è da molto tempo ad esser proprio pignoli, il fatto nuovo è che adesso… c’è del marcio nel Salento! Confusi? Tranquilli, si tratta solo di una normalissima esperienza di déjà-vu oppure, peggio, il preludio di un eterno ritorno. È la stessa sensazione alla quale i salentini si stanno già abituando, ad esempio leggendo dei risultati del clamoroso Report Ambiente Salute, recentemente reso pubblico alla presenza di Emiliano in persona. Questo Report infatti non svela ma al più aggiorna, conferma e precisa uno scenario cupo di cui il territorio è ben consapevole da anni: come a dire, repetita iuvant. Del resto, tutto ciò non dovrebbe sorprendere nemmeno i lettori del nostro sito: basta loro una ripassata di questo nostro articolo comparso meno di tre anni fa per accedere al déjà-vu (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/11/05/vieni-a-ballare-in-puglia-se-ne-hai-il-coraggio/). Tuttavia, l’aspetto forse innovativo in questo Report rispetto al passato sembra essere la sua più esplicita indicazione e la modellizzazione di relazioni tra il triste primato salentino per tumori polmonari, la specificità geografica del territorio e il contestuale inquinamento dell’aria. Emerge (eureka!) da tale quadro la necessità di una rapida “decarbonizzazione” pugliese per ridurre i contaminanti: per Emiliano è ormai una parola d’ordine, un imperativo. Sorgono qui per noi almeno due piste di interrogativi e riflessioni.

La prima pista è quella che guarda d’obbligo all’epoca appena conclusasi in Puglia, il decennio di Vendola. Un nodo centrale della sterminata ragnatela di narrazioni delle quali dava prova l’ex-governatore SEL di Puglia era sicuramente l’ecologia, tanto da fregiarsene nel nome stesso del suo partito. Viene il dubbio però che si trattasse soprattutto di ecologia oratoria o nominale. Come mai infatti durante questa lunga stagione non si è avviato alcun profondo processo di “decarbonizzazione” della Puglia? Non se ne ravvedeva l’urgenza? Eppure, già nel 2006, quando Vendola ancora rodava il suo primo governo, in un rapporto INES disponibile sul sito dell’ARPA Puglia (Si veda “LE EMISSIONI INDUSTRIALI IN PUGLIA – Rapporto sulle emissioni in atmosfera dei complessi IPPC”, Cap. 3”) erano riportati dati che, ci pare, avrebbero suggerito il palese bisogno di un energico processo di riconversione a chiunque, figuriamoci ad un ecologista!

Vediamone alcuni: la Puglia da sola produceva il 91,96% di tutte diossine prodotte in Italia, mentre una regione come Lombardia raggiungeva il 4,32%. Il primato assoluto italiano della Puglia valeva anche per emissione di anidride carbonica (il 21,23 %, una regione come la Lombardia si fermava al 13,24%, il Lazio al 6,07%), emissioni di Monossido di Carbonio (81,11%, seconda la Lombardia con il 3,69%), emissioni di Particulate Matter (Puglia 62,23%, seconda classificata la Sardegna, con il 7,91%), ancora, emissioni di Benzene col 46,13% (seguiva la Sicilia col 26,16%, terza la Lombardia col 9,87 %), ossidi di azoto (prima la Puglia, col 19,63%, seguita da Sicilia, con l’11,65%), ossidi di zolfo (prima classificata ovviamente la Puglia con il 23,27%).

La seconda pista di riflessioni tende a guardare all’oggi e all’immediato futuro, un orizzonte le cui variabili iniziali sono le più audaci conclusioni nelle penne di chi stende i report e un anti-renziano al governo della Puglia al posto di Vendola, divenuto quest’ultimo nel frattempo un baby privilegiato interessato a X-Factor e alla farneticazione cosmopolitica. Chi si dedica a questioni più importanti e urgenti per il destino dei pugliesi, tipo la vicenda TAP, sa che Emiliano ha avanzato formalmente una controproposta in modifica del progetto avallato dal governo centrale.

Il piano di Emiliano – preannunciato in campagna elettorale, presentato a dicembre e da allora in attesa di un una risposta di Renzi – prevede uno spostamento dell’approdo del gasdotto da San Foca (Lecce) a Brindisi, una mossa questa che spianerebbe la via della decarbonizzazione e della riconversione al metano dei siti più inquinanti presenti proprio a Brindisi (Cerano e Petrolchimico) e a Taranto (Ilva, convertibile in parte). Oltre a placare le forti proteste degli ambientalisti salentini, preoccupati dell’impatto ambientale devastante di TAP a San Foca (tanto sulle coste quanto sulle distese di uliveti dell’entroterra già assediati peraltro per la questione Xylella), questo piano ridimensiona anche i margini di argomentazione polemica degli oppositori come i pentastellati, i quali guardano sostanzialmente a una “decarbonizzazione” senza gas. In questo contesto preciso si inserisce il già menzionato Report di alcuni giorni fa. Prima della sua declamazione ufficiale il quadro era il seguente per Emiliano: da una parte c’era l’attesa di una risposta di un Renzi per nulla propenso a darla vinta all’inviso interno, l’ideatore di un probabilmente felice compromesso dei bisogni del governo e del territorio; dall’altra vi era un fronte di protesta in parte sopito e in parte circoscritto dal compromesso proposto dal governatore di Puglia. Il clamore e le varie reazioni a catena innescate dal Report giungono dunque come un rullo compressore che preme sia sul silenzio di Renzi, sempre più imbarazzante di fronte alle cifre da eccidio salentino per tumore, sia come un ulteriore colpo ai già risicati margini argomentativi dei pentastellati. L’urgenza della “decarbonizzazione”, rimarcata e amplificata dal Report, si ripercuote immediatamente sulla questione TAP, anello centrale nella visione di Emiliano e chiave di volta per chiudere molti conti. Questi ne è talmente consapevole che, negli stessi giorni in cui forte risuona l’eco e l’impressione di questo Report, da una parte propone la via di un decreto speciale per recepire le sue proposte di modifiche (http://www.ansa.it/puglia/notizie/2016/02/18/emilianosi-dl-per-approdo-tap-brindisi_134a5971-17a8-431f-acb1-41b2b3ee0eba.html), dall’altra tratta di TAP anche in Commissione parlamentare antimafia (http://www.regione.puglia.it/index.php?page=pressregione&opz=display&id=20000), inanellando il collegamento da un discorso all’altro come fosse alle prese con il più tipico percorso di una tesina da esaminando: in succo, la realizzazione di un approdo della TAP a San Foca favorirebbe secondo Emiliano gli interessi mafiosi nel territorio, dunque la soluzione auspicabile è ancora una volta la sua, Brindisi! Consegnando questo Report all’opinione pubblica alla sua stessa presenza, il governatore preme insomma con un solo colpo su Renzi affinché non ignori ulteriormente la controproposta, smorza il potere polemico che potrebbe crescere intorno agli scetticismi dell’opposizione pentastellata e segna il primo vero punto agli occhi di molti pugliesi sul suo predecessore, battendolo su una battaglia dalle tinte ecologiche, un attributo quest’ultimo che da nominale diverrebbe forse più ontologicamente fondato nell’azione di Emiliano. Tutto fin qua lascia presagire uno scacco matto con una sola mossa sui tavoli da gioco di tutti gli avversari, esterni e interni, passati e futuri. Sembra vicina la luce per Emiliano finché non arriva, proprio in queste ore, il colpo di scena, l’imprevisto capace di rimettere tutto o almeno molto in discussione, complicando enormemente la partita in gioco.

Cosa? È presto detto: la firma in data 24 febbraio 2016 dell’intesa per un nuovo gasdotto con approdo previsto nell’incantevole Otranto, nei pressi di San Foca! Ancora un déjà-vu? L’inizio di un ennesimo eterno ritorno? Giudichino i lettori. Di certo gli argomenti di Emiliano sugli interessi mafiosi sono già vanificati, colpiti a distanza di poche ore dalla capitale. Di certo nel Salento ambientalisti e i sostenitori di una via alla decarbonizzazione senza gas avranno nuove importanti ragioni dalla loro, e non poche, ci pare. Renzi può forse riprendere fiato, ma i salentini? Ciò che Renzi prospetta loro è un futuro terribile, da incubo: un Salento che respirerà la stessa aria di oggi e in più terra d’approdo di gasdotti (almeno due al momento) che avranno un impatto negativo sull’attrattività locale e sul paesaggio. E mentre i pentastellati rifiutano l’uno e l’altro (“decarbonizzazione” senza metano), Emiliano si colloca in mezzo: TAP si, ma a Brindisi, primo passo di un (non sappiamo quanto fattibile ma comunque annunciato) percorso di “decarbonizzazione” dei poli maggiormente inquinanti.

Un compromesso finora ragionevole e vincente agli occhi di chi scrive (non proprio un simpatizzante di Emiliano) in quanto accoglie il gasdotto come vuole il governo centrale, smorza le proteste che si addensano intorno a San Foca per il territorio, e appare più concreto e meno utopico della visione pentastallata, soprattutto dopo l’impressione suscitata dal nuovo Report Ambiente Salute (non a caso, crediamo, reso pubblico alla presenza di Emiliano) che evidenzia l’urgenza di una decarbonizzazione in riferimento ai tassi di tumori polmonari nel Salento.

Il fatto nuovo è questa intesa appena firmata a Roma per un nuovo gasdotto che interessa Otranto. Questo crea una crepa nella soluzione del governatore, il quale portando TAP a Brindisi non risolverebbe comunque il problema dell’impatto di un approdo nel basso adriatico salentino. Una crepa che, se da una parte fa sorridere forse Renzi, dall’altra potrebbe ridonare vigore all’idea più radicale di una “decarbonizzazione” senza gas, una proposta magari meno immediatamente traducibile in azione ma unicamente in grado di salvaguardare al contempo la salute e il paesaggio salentino.

Il Salento e… la polvere nascosta sotto il tappeto

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di Pier Paolo Tarsi

Ai pugliesi, e in particolare ai salentini (li osservo da anni, fidatevi di quello che dico), piace vivere nel meraviglioso mondo di Amelie. Gli addetti ai lavori lo sanno bene, li hanno compresi bene e fanno di tutto per tenerli in quel recinto incantato e carezzevole come fruitori e amplificatori di una immagine che compiace i locali mentre trascina turisti e muove in parte l’economia. Non bisogna negare infatti che tutto ciò ha i suoi lati positivi: chi scrive ha fatto il commesso abbastanza a lungo per non sapere che il venditore più convincente è quello intimamente convinto del valore di quanto propone. Pubblicate un video che celebra le bellezze nostrane o le ricchezze enogastronomiche di questo lembo e vi ritroverete un esercito di gente sinceramente convinta che con quello appesta i social o gli smartphone degli amici lontani, persino quelli degli zii emigrati che torneranno in estate. Ora, questa orda di fondamentalisti convinti in buona fede della propria rappresentazione porta benefici indiscutibili, e porterebbe sostanzialmente quelli se fosse minimamente consapevole del suo carattere riduttivo, parziale, soprattutto strumentale e immaginifico.

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Gli stessi salentini che spediscono e condividono tera-giga di video in cui si celebra tanta bellezza (indiscutibile seppur patinata) detestano infatti che si ricordi loro che quell’idea somiglia alla sala con la polvere nascosta sotto il tappeto in occasione delle visite degli ospiti: una polvere che va sicuramente tenuta nascosta all’invitato, ma che prima o poi bisogna adoperarsi a spazzare via! Niente, non vogliono saperne della polvere, di vivere nella regione con l’aria più inquinata d’Italia secondo tutti i dati ufficiali, non vogliono sentirsi dire che calpestano una terra di fuoco, deturpata dall’abusivismo, consumata da modelli di sviluppo anacronistici, asfissiata dai fumi dell’Ilva, dal carbone di Cerano, violentata dai pesticidi, insomma, una terra ferita che ha le stesse prospettive di un malato terminale. Niente, a loro basta la prospettiva in cui li pone il video del giorno, detestano anzi chiunque li riporti ad una immagine più realistica e comprensiva sulla quale dovrebbe innestarsi una qualunque possibilità di un futuro. Questo esercito, apparentemente innocuo nella sua buona fede e persino utile a smuovere l’economia, finisce dunque per fare il gioco di una certa politica che della rimozione ha fatto il suo atteggiamento premiante e vincente: la macchia, il lato oscuro, il problema sono tratti da rimuovere e affibbiare ai perdenti che ne parlano, oscuri sentimenti e presagi non contemplati e non compatibili con un intaccabile e ottuso ottimismo in cui pascere elettori al motto renziano de “al bando i gufi”. A proposito, oggi è questo il video da gustare, la Puglia di oggi è quella del Bit, siamo salvi anche oggi da quella reale:

Costruzioni a secco che caratterizzano fortemente il nostro territorio

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di Pier Paolo Tarsi

Avere un tesoro…e non saperlo!
Le pagghiare o pajare o furnieddhi sono delle costruzioni a secco che caratterizzano fortemente il nostro territorio tanto quanto i sacri ulivi, dai quali sono spesso circondati, anche nel nostro immaginario. Costituiscono un patrimonio storico, culturale e paesaggistico di cui non siamo spesso consapevoli noi stessi.

I furnieddhi sono stati i rifugi per i contadini che hanno edificato la nostra civiltà con fatica ed oggi sono testimoni importanti del nostro sentire più intimo e del nostro passato. Anche se non è noto a tutti, queste dimore si differenziano fortemente per dimensioni, caratteristiche strutturali e soluzioni architettoniche adottate da zona in zona, pertanto una pagghiara presente nel territorio di Copertino non sarà affatto uguale ad una del territorio di un altro Comune (ci sono ottime pubblicazioni per chi fosse interessato ad approfondire). In quanto copertinesi, abbiamo allora il dovere di difendere e valorizzare questo patrimonio di cui siamo gli unici eredi e custodi, preservandolo dalla sua scomparsa dovuta al tempo, all’incuria o peggio alla volontà folle di chi abbatte i furnieddhi o addirittura li sostituisce furbescamente con costruzioni moderne camuffate da antiche dimore a secco per raggirare le leggi.

Un’azione saggia e intelligente di tutela e valorizzazione collettiva non solo è un atto dovuto, nel rispetto dei nostri avi e del nostro paesaggio, ma è un’azione che avrebbe ricadute ottime per ogni copertinese in quanto: 1) incrementerebbe il valore delle campagne; 2) si incentiverebbe il flusso di visitatori e turisti nelle nostre zone; 3) si instaurerebbe un circolo virtuoso che permetterebbe il ritorno di antichi mestieri che vanno del tutto scomparendo (i costruttori di muretti a secco e furnieddhi) e che invece potrebbero occupare nuove giovani leve, a vantaggio dell’economia di tutti e di un benessere sostenibile, rispettoso della natura e della storia.

Se non ci credete, provate a comprare una pagghiara a pochi passi da casa, ossia nelle zone di Leuca o in altri posti del Basso Salento dove la coscienza del valore di questo tesoro è stata acquisita, scoprirete che costano talvolta più di una villa di lusso con piscina!

La barchetta

barchetta

di Pier Paolo Tarsi

Erano due le ragioni per cui quello era divenuto il mio posto. La prima era la gravità. Uscendo da quella scuola che si affacciava su una strada in pendio si poteva procedere in salita o in discesa. In salita, verso destra, si andava verso un bar fighetto. Lì la musica di sottofondo era sempre quella del momento, i baristi e le bariste erano belli e giovani, sorridevano mentre servivano professionisti ben vestiti con le loro valigette 24ore. Tutto tintinnava e brillava là dentro, il corvino dei capelli di una ragazza alla cassa, i bicchieri, le tazze, le macchine per fare la cioccolata. Era tutto così pulito e armonico da vedere, persino le coreografiche decorazioni sulla schiuma di latte nelle tazzine erano impeccabili. Insomma, era tutto tremendamente insopportabile. Uscendo procedevo spedito a sinistra, spedito perché in discesa, non per altro. La mia ora buca, la mia ricreazione, le mie attese in vista di una riunione pomeridiana le trascorrevo con Battista, l’anziano barista dell’altro posto. La seconda ragione. Si stava soli nella sua bettola, e si chiacchierava o si stava in silenzio, a seconda della giornate. Ci si comprendeva al volo. La storia era semplice: quattro ripiani, un frigo, una macchina da cui quello, da secoli, mungeva come da una dea madre un caffè vero, nero, forte, una cosa che avrebbe steso almeno tre o quattro checche dell’altro bar in un solo sorso. Si poteva anche fumare là dentro, Battista le sue Muratti, io il mio mezzo toscano, tanto non sarebbe venuto nessuno a romperci i coglioni, a parte sua moglie di tanto in tanto. Eravamo a 30 metri dalla mia scuola e ancor meno dalla stazione, ma non sarebbe venuto nessuno, si poteva star tranquilli. Beh, oggi sono venuto io però, a trovarti Battista. Dopo tanti anni, costretto a passare dal tuo paese, mi sono poi spinto fin là per te. E tu mi muori così, senza nemmeno un ultimo caffè, senza una delle tue invettive su Berlusconi o un panegirico sulle fabbriche di scarpe che erano state la gloria del tuo paesino. E pensa, che ti ritrovo? Un bar fighetto, come quello là sopra, colorato e lindo, con una ventenne spalmata di fondotinta che sorride e serve birre alla moda a tutti. Per un attimo ho pensato fosse una tua nipote. Macché. Nuova gestione mi dice, e tu da un paio d’anni hai mollato tutto, pure la pelle. Va bene Battista, fatti questo viaggio se così deve essere. In discesa, mi raccomando, dove porta questa prima o poi ci si rivede. Arriverò su questa barchetta che ho fotografato per te, quando vorrà prendere il largo.

Sono veramente, indiscutibilmente, arrivate le feste!

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di Pier Paolo Tarsi

Mi infilo in quello sgabuzzino che apro tre o quattro volte l’anno e raccolgo quei sacchi neri dove avevo riposto tutto, giusto un po’ prima della scorsa Pasqua. Libero l’angolo dove il mio capolavoro dovrà venire alla luce e anometiddiu comincio. Faccio la prova della prima serie di luci, non funziona, figurati! Per un attimo mi compiaccio profondamente che siano sottopagati quei fottuti operai cinesi, imparassero a fare cose durature! Mi ricordo del cacciavite, il mio unico attrezzo per ogni lavoro di casa (dovrebbe dare l’idea della mia intraprendenza nel fai-da-te). Non è a croce, e nemmeno a taglio, è semplicemente spezzato, non pervenuto insomma, per le mie necessità è sempre stato abbastanza però, potrei persino difendermi da un armadillo inferocito un giorno, vi pare poco? Provo con quello a smontare la scatolina in cui termina il filo delle lampadine e addirittura ci riesco. Provo a collegare un filo staccato, collego alla presa e per poco non ci resto secco nella sfiammata che ne segue. “Fanculo, non ci esco di casa manco morto”, decido di farmi bastare l’altra serie (già, l’altra serie!). Comincio a comporre l’opera, apro l’albero artificiale, ne distendo i rami, ci appendo le solite palle rosse decorate e tutte le carabattole variopinte, qualche angelo e qualche pigna finta. Dopo una mezzoretta, ai piedi ci metto una capanna, due pecorelle che non stanno in piedi, una madonna e un sangiuseppe, un bue e un asinello, una culla e due re magi (il terzo è disperso, non esco, non esco ho detto!). “È fatta quasi, è fatta dai..” – nemmeno il tempo di pensarlo e suonano al citofono. No! Lo zio M., lo zio M. cazzo! Lo zio M. ha deciso da un paio di mesi a sta parte di fare finalmente il gran salto dal telefonino allo smartphone, e ha deciso naturalmente che dovrò immetterlo io nella nuova era. Col computer ho impiegato solo sette anni a fargli capire come si manda una mail, e ciò nonostante mi chiama ogni volta che deve inviarne una. Niente, respiro profondamente e mi rassegno a una mezzora di inutile consulenza informatica e divagazioni sul senso della vita. Sono ad ogni modo là col puntale di polistirolo dell’albero in mano, pronto a godermi il momento imminente in cui dovrò riporre la ciliegina sulla mia torta quando, alle spalle, sento la voce dello zio M. che entra: “Hei, hai visto che hai una ruota della macchina forata?”. “Forata?”. “Si, vieni a vedere”. Esco col puntale dorato e brillantato in mano e non ci sono più dubbi: sabato sera andato! Impossibile trovare un gommista aperto! Una illuminazione mi risolleva: anche se molto sgonfio ho visto un ruotino prima in quello sgabuzzino e vado a prenderlo. C’è, che culo, c’è! Seppure molto sgonfio c’è davvero! Lo zio M. decide saggiamente di tornare un’altra volta ed io mi metto a smanettare, sudo come un camionista australiano finché non riesco a infilare quel ruotino. Vado a raccogliere crick e l’altra ferraglia necessaria a cambiare la gomma e a quel punto mi accorgo che il cane sta sgranocchiando quel che rimane del puntale di polistirolo che avevo poggiato per terra! Ormai è ridotto a brandelli! “Porc….nel canile ti dovevo lasciare, nel canile, maledetto!”. Fa nulla, “anche senza un puntale sarà un lavoro accettabile” penso mentre rientro a casa soddisfatto! Le mani imbrattate come un minatore mi costringono a un’ultima incombenza prima di dedicarmi a gustare il mio capolavoro, lavarle. Sapone finito, ecchecazzo! Non importa, anche zozzo voglio contemplare l’opera, me lo merito: vado a collegare la seconda serie di luci (ve la ricordate?!) e niente, buio totale, nemmeno un bagliore nell’universo oscuro! L’imprevisto sul lavoro di riparazione della prima serie mi aveva distratto e non ho più pensato a testare l’altra prima di procedere all’addobbo! Tutto da rifare, non ci posso credere! Sporco e sudato me ne sto accovacciato al buio sotto l’albero a chiedermi: quali scienza che indaga il caos può spiegare tutte queste sfighe intrecciate? Nessuna, solo questa è la ragione: sono veramente, indiscutibilmente, arrivate le feste!

Storia di Pallo, pesce rosso filosofo

 

da acquariodigenova.it
da acquariodigenova.it

di Pier Paolo Tarsi

Quando ero piccolo andavo ripetendo che da grande avrei fatto il “dottore degli animali” (veterinario era parola impronunciabile per me), andavo pure collezionando album di figurine del WWF (e non di calciatori) e riviste sugli animali. Il primo libro che mi feci deliberatamente comprare si intitolava “L’enciclopedia del cane”, dovrei ancora conservarlo da qualche parte. Un librone che mi feci mandare per corrispondenza tramite una cartolina preaffrancata che avevo trovato su qualche settimanale che circolava per casa, un acquisto che fu peraltro l’innesco di un invio continuo mensile di libri non richiesti, protrattosi per anni nonostante le disdette, insomma l’inizio di un incubo per tutta la famiglia che si chiamava “Club degli Editori” o qualcosa del genere. Questa però è un’altra storia, che interrompiamo subito. Tra i pochi oggetti del desiderio di un futuro “dottore di animali” c’era anche un grande acquario per i pesci. Andavo continuamente ripetendo a cinque anni o giù di là che ne volevo assolutamente uno. Ebbene, qualcuno se ne ricordò a dir poco tardivamente il giorno del mio diciottesimo compleanno, quando un imponente acquario mi venne regalato, seppur ai miei occhi una cosa del genere era ormai poco più di un ingombro di cui non avrei saputo proprio che fare. Ad ogni modo onorai quel regalo fingendo di apprezzarlo come avrebbe fatto quel bambino che ero stato; comprai, seppur senza convinzione e voglia, una colonia variegata di pesci di ogni tipo e provenienza, delle piante acquatiche e qualche sasso con cui arredare il mio acquario. Sistemai il tutto lungo una parete di quello che era il mio studiolo, proprio di fronte alla scrivania dove da lì a poco avrei iniziato a studiare filosofia. È così che nella mia vita entrò Pallo. Pallo è il nome che quel pesce non ebbe mai da vivo e che gli ho dato ora, mentre scrivo, un po’ come comodo espediente narrativo, un po’ come riconoscimento postumo. Tra i ricercati, raffinati, coloratissimi e costosi pesci esotici che avevo acquistato per riempire di vita quell’acquario, Pallo era invece l’unico esemplare del più comune, umile e banale essere acquatico che potesse esserci in commercio, cioè l’unico pesciolino rosso. Ma non solo: Pallo divenne molto presto anche l’unico superstite di quella colonia di pesci, tutti morti nel giro di una sola settimana dall’acquisto, tutti tranne lui! Dall’ottavo giorno, dopo la suddetta moria, iniziai a entrare in quello studiolo con una speranza che non osavo all’inizio confessare nemmeno a me stesso, per un certo senso di colpa che ne scaturiva: la mia giornata di studio iniziava cioè con l’attesa di veder galleggiare Pallo privo di vita come tutti i compagni che lo avevano preceduto e potermi così liberare senza macchia di quell’acquario, rivendendolo in fretta. Un’attesa però puntualmente tradita: ogni mattina Pallo era là, testardamente attaccato alla vita, alla quale si tenne aggrappato a lungo! Intendiamoci, non che avessi nulla contro il povero Pallo, semplicemente mi inquietava il suo andare avanti e indietro dentro quelle pareti di vetro col suo sguardo fisso sempre addosso a me, seduto là di fronte a lui, piegato sui libri e costretto a star così per non vederlo. Nei riflessi della prigione d’acqua di Pallo iniziai infatti a vedere molto presto la mia miseria da studente, costretto a stare in quei tre metri quadrati di puzzo di fumo e poca luce tutto il santo giorno. Ma non era solo per questo che la sua presenza mi inquietava, c’era molto di più; il suo vano passaggio che non avrebbe mai condotto ad alcuna meta giunse infatti molto presto a valere per me come una denuncia incontestabile della condizione di ogni essere, me compreso: un affannarsi senza senso e senza uno scopo ultimo e definitivo, un girovagare inutile interrotto solo qua e là da momenti di gioia passeggera. Per Pallo quei momenti consistevano in qualche manciata di mangime che ogni tanto mi alzavo a gettargli. Io ero un po’ la sua sorte benevola che ogni tanto si affacciava a gettare il pizzicotto di manna, ed anche questo mio ruolo non voluto mi inquietava, un’attribuzione non richiesta della parte del dio provvidenziale che mi pesava non poco. Se riuscivo a sopravvivere al passaggio nelle pagine di Pascal, di Nietzsche, se riuscivo a non soccombere al pessimismo di un Leopardi o di uno Schopenhauer o all’angoscia di un Kierkegaard, al nichilismo di questo o quell’altro, la visione di Pallo non mi dava invece alcuno scampo. Qualunque espediente intellettuale cui ricorressi per non annegare nel non-senso del vivere che quelle grandi menti con lucidità denunciavano negli scritti che dovevo per forza studiare, nulla poteva invece contro l’inconfutabile argomento che Pallo mi sbatteva in faccia col suo semplice e inconsapevole galleggiare di qua e di là. Mi bastava alzare gli occhi e incontrare il suo sguardo fisso, nudo e crudo come l’amara e spietata verità che rispecchiava, per rinunciare a qualunque lotta e arrendermi all’accettazione, all’infrangersi di ogni mio moto di negazione e ribellione. Vi domandate, immagino, quando sia morto Pallo? Ebbene, Pallo stava là, implacabile e indifferente, il giorno in cui mi laureavo, e là stava ancora mentre accumulavo titoli post-laurea e altre stupidaggini: fu l’ombra di un percorso di studio durato molti anni, e mi lasciò infine soltanto quando insegnare iniziava a divenire il mio compito, quando soprattutto la lezione della sua ombra era divenuta per me serena premessa del buon vivere. Caro maestro terribile che galleggi chissà dove, coi tuoi occhi che scrutavano senza turbamento o un batter di ciglio una verità che ha fatto invece tremare, impazzire e disperare i migliori tra noi uomini, accetta questo mio tardivo riconoscimento, e perdonami se finora non ho avuto l’intelligenza di tributarti l’onore del nome, quello di Pallo, il vero filosofo la cui ombra inquietante mi ha guidato.

Difesa di un ateo dell’ora di religione cattolica a scuola

Caravaggio San Tommaso

di Pier Paolo Tarsi

Spiego, da docente di fede atea e di professione filosofica agnostica, perché ritengo utile e più attuale che mai l’insegnamento della religione cattolica apostolica romana a scuola. È certamente doveroso studiare anche le altre religioni e dare spazio a tutte, non solo perché nelle classi ci possono essere alunni di diverse fedi che in tal senso si vedranno accolti e riconosciuti, ma anche perché ognuno comprenda le visioni e le idee degli altri cittadini del mondo, prerequisito per (ri)conoscerle veramente.

Laicità non vuol dire eliminare tutte le fedi ma tutte accoglierle, nel presupposto unico e irrinunciabile che tutte accolgano, a loro volta, il principio di esistenza e libera manifestazione delle altre. E allora, perché non trasformare semplicemente l’ora di religione cattolica in qualcosa come la storia e l’analisi dei sistemi religiosi? Perché sarebbe un errore da almeno tre punti di vista intrecciati l’un con l’altro: storico-sociologico, formativo e didattico.

Sarebbe un errore storico perché la società italiana vive da tempo quel che si dice un inarrestabile processo di secolarizzazione. Ciò significa che sempre più sfilacciato si fa il tessuto della pervasività della visione religiosa cattolica e dei suoi principi nella pratica e nella conoscenza diretta dei futuri cittadini italiani. Ebbene, proprio perché si manifesta un simile processo, è importante affrontare oggi una sfida culturale (e non religiosa!), formativa (e non catechistica!): i futuri italiani avranno sempre più difficoltà ad accedere al linguaggio teologico cristiano e nei tanti mezzi in cui esso si esprime (arte, architettura, filosofia, letteratura, ecc.).

Togliete al lettore di Dante o Manzoni, togliete a chi contempla le tante opere d’arte delle nostre città, a chi studia Tommaso e Sant’Agostino – ovviamente – ma anche un Giordano Bruno o un Nietzsche una conoscenza approfondita della cultura cristiana e avrete combinato un disastro! Questo è appunto l’errore formativo.

Sarà in una certa misura inutile portare gli studenti a visitare musei, cattedrali, affreschi, come inutile sarà analizzare con loro tanti testi letterari e filosofici se li avrete privati del linguaggio con cui sono in parte (o in polemica al quale sono) costruiti, edificati e scritti i primi.

Molti dei poeti, degli artisti, pensatori, scrittori o pittori immensi che li apriranno alla vita dello spirito si esprimono proprio con l’alfabeto cristiano, del quale non possiamo e non dobbiamo allora privarli.

Del resto, vi domando, fareste un viaggio di arricchimento e conoscenza in Giappone senza aver prima letto o provato a capire qualcosa sul buddismo zen? Cosa cogliereste veramente di tanta parte del teatro, della poesia, dell’architettura, della pittura, dei giardini, dei rituali e dei costumi giapponesi senza passare da là? Nulla credo, o almeno non abbastanza da gustarne duraturi frutti. E allora, come potete pensare che i nostri figli possano, invece, incontrare tutti i giorni un mondo da due millenni cristiano senza conoscere a fondo il cristianesimo? Come potrebbero, inoltre, giungere a metterlo in discussione senza averlo prima almeno compreso? Veniamo così all’errore didattico, che a questo punto dovrebbe essere molto evidente.

Non è ammissibile dedicare allo shintoismo o all’islam o al buddismo lo stesso tempo che è invece giusto (per quanto detto sopra) dedicare alla religione cristiana cattolica! Quando i nostri alunni saranno fuori dalle aule – almeno nel momento storico in cui scriviamo – non incontreranno moschee né templi buddisti e shintoisti ma chiese, arte sacra ispirata al cattolicesimo, simboli e riferimenti di una civiltà cristiana.

Se è al mondo reale che abbiamo il dovere in primis di formarli, a una comprensione dello stesso, allora è didatticamente importante e indispensabile che il poco tempo da dedicare allo studio della religione sia utilizzato maggiormente (ma non esclusivamente!) per quella cultura religiosa che serve loro più delle altre a comprendere ciò che hanno intorno: il cattolicesimo appunto.

E questo vale anche per quegli alunni di altre fedi che abitano le aule: ciò che vedranno intorno a loro non dipenderà dai valori che professano o che hanno ereditato dalla propria famiglia. Uno studente buddista non incontrerà attorno a sé templi né opere d’arte ispirate ai principi del Budda: non prendere in considerazione questo dato di fatto, non riconoscerlo è assurdo e fallimentare sia per i formatori che per i genitori.

È strano come, a settanta e più anni da un celebre scritto di Croce – non certo un filosofo bigotto!- si rivela oggi, credo, ancor più urgente e attuale ribadire perché non possiamo -nemmeno io, ateo- non dirci cristiani. Le persone comprendono benissimo come 20 anni appena di Internet abbiano cambiato le loro vite, ma le stesse poi, stranamente, credono di non essere affatto lambite (dentro e fuori si sé) da 2000 anni di cristianesimo.

Molti, mi pare, nel timore di tradire i presupposti laici e pluralisti della democrazia e della scuola pubblica italiana, sacrificano così in questi giorni una ragionata e pacata riflessione all’altare del furore laicista, opposto dogmatico di un altrettanto sterile bigottismo.

Il ragionamento che qui invito a fare intende invece sfuggire a questa radicalizzazione paralizzante e cieca delle posizioni, l’una contro l’altra armata: non è affatto il punto di vista di un oltranzista e tradizionalista uomo di fede, ma quello di chi deve responsabilmente formare (come genitore e docente) dei ragazzi italiani a comprendere il proprio mondo, ossia un mondo intero frutto di secoli di opere, modi di pensare e concepire l’individuo, l’essere delle cose, i rapporti umani, il diritto, l’arte ecc. cristiani!

Non c’è nulla di più ingenuo che non tenerne conto, niente di più cieco dell’idea di poter o addirittura dover oggi fare a meno della cultura cattolica quale strumento essenziale per la lettura del nostro immediato reale. E a ricordarlo, per una volta, lasciate che sia un ateo, un ateo cristiano si potrebbe dire, nel senso che è proprio rispetto all’universo cristiano-cattolico in cui sono cresciuto che ho elaborato persino il mio ateismo, la mia forma intima e personale.

Anche questo è un dato di fatto, da cui non si può prescindere nell’inconsapevole e ingenua illusione obiettivista e laicista che per essere giusti e imparziali si debba, o soltanto si possa, parlare “da nessun luogo”, “da nessun punto di vista”.

 

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