George Berkeley e Lecce

di Pier Paolo Tarsi

George Berkeley, dopo averle visitate – rigorosamente, da buon filosofo empirista! – non aveva dubbi su quale fosse la città più bella d’Italia.
«Signore,
sono appena tornato da un viaggio attraverso le parti più remote e sconosciute d’Italia. Le celeberrime città di cui Sua Signoria è perfettamente a conoscenza.
Forse però Lei non sa che la città più bella d’Italia si trova in un remoto angolo del tacco. Lecce (anticamente Aletium) è di gran lunga la città più ricca di ornamenti architettonici tra tutte quelle che ho visitato. Le case più semplici sono costruite con pietre tagliate, porte decorate, case rustiche. Gli ornamenti attorno alle finestre sono di ordine dorico e corinzio, le balaustrate sono in pietra. I bellissimi conventi che ho visto a Lecce non li ho ritrovati in nessuna altra parte d’Italia, per quanto a volte le decorazioni risultino addirittura superflue.
Prevalgono gli ornamenti di ordine corinzio, il più amato dagli abitanti. Lo si ritrova infatti anche sulle porte della città, stupende.
La città non si affaccia sul mare e quindi non ha un commercio florido, ragion per cui gli abitanti non sono più di 16.000. Sono persone civili ed educate, sembra che abbiano ereditato l’amabilità degli antichi greci che in passato hanno abitato
queste parti dell’Italia.
Saprà che nella maggior parte delle città italiane i palazzi sono effettivamente molto belli, ma le case ordinarie sono di scarso rilievo. Anche a Roma è così. A Lecce invece il buon gusto è generalizzato e caratterizza perfino le più umili delle abitazioni. Ho visto tante altre città notevoli, tra le rimanenti cinque bellissime città in un giorno solo, la maggior parte di esse costruite con marmo bianco i cui nomi sono ignorati dagli inglesi.
La stagione dell’anno (molto più mite di quel che mi aspettavo) e i tanti splendidi paesaggi di Puglia, Peucezia e l’antica Calabria hanno reso questo viaggio davvero piacevole. Devo ricordare anche i bei resti dell’antichità che ho visto a Brindisi,
Taranto, Venosa (città natale di Orazio), Canne, famosa per l’importante vittoria riportata da Annibale e tanti altri posti, in ognuno dei quali eravamo visti come creature cadute dal cielo, a volte eravamo seguiti da cospicui gruppi di curiosi cittadini che ci accompagnavano per le strade. La paura dei banditi che dissuade tanti stranieri dal visitare queste terre non è che uno spauracchio.
Al mio ritorno a Napoli ho trovato il Vesuvio in uno stato preoccupante che non è ancora scomparso del tutto.
Prego Sua Signoria di comunicarmi quale strada intendono percorrere Lei, la mia Signora e Mrs Parker, in maniera da poterci incontrare per il viaggio di ritorno.
Porga loro i miei saluti.
Testaccio, isola di Inarime,
I settembre N.S. 1717»

Le immagini iconiche del territorio salentino, by Lamas (Andrea Greco)

Convitto Palmieri

 

di Pier Paolo Tarsi

Se fosse possibile scrivere qualcosa di univoco ed esauriente intorno alle opere di Lamas, ebbene, quelle, crediamo, semplicemente non sarebbero opere di Lamas. Così è per le immagini iconiche del territorio che ritroviamo nella serie delle illustrazioni digitali da lui firmate: costruzioni, scorci di paesaggi, architetture, vedute ed elementi tipici, tratti caratterizzanti o fortemente rappresentativi dell’immaginario locale e pugliese che, nelle sue mani, non hanno più nulla di consueto, pur restando perfettamente immutati nella loro immediata riconoscibilità, identificabili ed intimi proprio come lo spettatore li avverte.

Copertino

 

Modi inconsueti – che oscillano fra tutte le sfumature possibili tra il ludico e il nostalgico – di manifestare ciò che è da sempre familiare, reinventandone totalmente la superficie e trasfigurandone in un sogno digitale colori, contrasti e luci, senza tuttavia intaccare, anzi, stranamente, amplificandone l’identità propria, la specifica atmosfera e gratificando un senso nucleare di attaccamento degli spettatori per lo scenario delle loro esistenze che riappare in questo sorprendente abito.

Lecce

 

Umili o solenni, naturali o artificiali, antichi ma tirati a lustro o recenti ma trascurati, unici come i profili e le forme di certi edifici monumentali o come alcuni celebri scorci, oppure prodotti in serie o potenzialmente anonimi come le linee dei tralicci, le pale eoliche o le forme di una periferia industriale, ogni elemento presente in questo sogno a colori animato e non di Lamas riesce a penetrare le pieghe più intime dei suoi luoghi d’origine e restituirle in un linguaggio del tutto nuovo ma fedele all’essenziale.

Instagram:

@lamaslamas

Gallipoli

Porto Selvaggio
Torre Colimena

Riproduzione vietata

Il problema difficile della rivalutazione delle costruzioni a secco nel Salento

di Pier Paolo Tarsi

 

Ed ora, dopo il clamore?

Il problema difficile della rivalutazione delle costruzioni a secco nel Salento.

Le più tardive bocche si compiacciono ancora in queste ore per il recente riconoscimento da parte dell’Unesco delle costruzioni a secco quali patrimonio dell’umanità. Dopo la consueta sbornia mediatica condita da immancabile cassa di risonanza social, dopo l’entusiastica accoglienza della gradita notizia da parte dei tanti salentini “presciati” per l’ennesima conferma delle qualità del proprio territorio (stuprato e quotidianamente calpestato, si sa, ma “lu presciu” qui non si cura), cosa resterà dunque di questo formale riconoscimento?

Conviene, con risoluto disincanto, porci quanto prima tali domande come saprà bene chi è da sempre attento alla valorizzazione del territorio e comprende, oggi più che mai, l’opportunità di cogliere l’attimo e continuare a insistere, ad imporre l’importante tema all’attenzione pubblica e della classe dirigente, prima che l’una e l’altra si volgano frettolosamente altrove.

Che sia giusto e opportuno far così ce lo conferma del resto proprio l’agire della Fondazione Terra d’Otranto, la quale, nella persona del suo infaticabile presidente Marcello Gaballo, ha organizzato il primo convegno locale sulla questione il 13 gennaio 2019, a Nardò, a pochi giorni dal detto riconoscimento Unesco.

Ben fatto caro amico. Ma ora? Che fare? Si è tutto già concluso, consumato con la rapidità con cui fagocitiamo la notizia del giorno, o si è solo avviato un percorso come auspichiamo tutti? Dobbiamo lasciare che il sipario sul tema cali, come è prevedibile se non inevitabile di questi tempi accada, oppure quanto è appena stato dovrebbe servirci per innescare un incendio da mantenere a lungo vivo?

Nel dubbio non abbiam che da chiedere al buon Cecco, ed il responso è e fu sempre questo: ardere il mondo! Occorre allora, crediamo, porgerci subito ed entrare senza indugi nel vivo di alcune questioni rilevanti: quale percorso meditato e quale progettualità territoriale dovrebbe seguire nel Salento ai riconoscimenti dell’Unesco?

Per i molti o pochi salentini che, decenni prima che si pronunciasse l’Unesco, già coglievano da sé la rilevanza del patrimonio architettonico a secco, l’occasione è certo favorevole per ridestare l’attenzione pubblica e della politica intorno a domande che da tempo avremmo già dovuto risolvere come salentini e che ora pertanto non possiamo permetterci più di rimandare o far ricadere nell’oblio.

Come tutelare realmente e valorizzare efficacemente questo patrimonio evitandone la dispersione, al di là dei bagordi mediatici passeggeri e al di là anche delle leggi di tutela già da tempo in vigore o dei controlli già operativi sul rispetto delle stesse?

Il problema è solo in apparenza banale e semplice, meglio ancora non è affatto accostabile senza una approfondita riflessione che qui proveremo a delineare.

Possiamo constatarlo con un minimo di premesse che ci permettano di intuire le dimensioni reali e il cuore nevralgico della questione.

Partiamo da un esempio immaginifico e fantasioso che, se all’inizio sembrerà allontanarci dal problema e senza dubbio annoierà gli impazienti, come un buon investimento dovrebbe in realtà fruttarci molto e permetterci di illuminare il nucleo più profondo e arduo della questione concretissima che abbiamo di fronte. Immaginiamo, con un piccolo sforzo di fantasia, neanche tanta per dire il vero, che un uomo preistorico precipiti in un’aula scolastica e domandiamoci: quale esperienza avrebbe mai in quella situazione il nostro? Cosa vedrebbe veramente attorno a sé questo supposto individuo? Quale (arido e deprivato!) paesaggio contemplerebbe? Non è difficile comprenderlo: percepirebbe e distinguerebbe senza dubbio, come forse persino a un animale riuscirebbe, gessi, lavagne, penne, matite, gomme, fogli di carta ecc., o meglio una collezione di oggetti fisici scissi, dei quali però non comprenderebbe minimamente l’uso, le funzioni e i reciproci rimandi oggettivi che connettono strettamente un utensile all’altro in un sistema unitario, organico, ordinato e complessivamente sensato di relazioni: in breve, di tutte quelle cose che pur vedrebbe non ne intenderebbe minimamente il significato.

Perché tutti quegli utensili possano manifestarsi al nostro in ciò che per tutti noi comunemente sono, egli avrebbe infatti necessariamente bisogno di un nostro intervento, di una chiave d’accesso che gli consenta di cogliere, in un sol colpo (si fa per dire!), il senso di tutto ciò che pur avendo sotto gli occhi gli sarebbe ancora di fatto precluso nella sua dimensione propria, quella cioè che chiamiamo normalmente culturale.

Qual è questo ingrediente che potremmo definire l’autentica ragion d’essere in quell’aula di ognuno – e di tutti! – quegli oggetti? La risposta è ovviamente la scrittura! Se e solo se il nostro uomo primitivo fosse accompagnato da qualcuno nella scoperta dell’esperienza della scrittura, potrebbe allora finalmente vedere davvero, comprendere cosa vede, potrebbe cioè accedere in una cornice unitaria di senso che dissolverebbe il mistero che quegli oggetti nascondono, rischiarando ai suoi occhi il rimando di un gesso alla lavagna o a un cancelletto, il significato di un foglio di carta connesso a quello di una penna o di una matita, o ancora la relazione tra questa con una gomma e così via. Tutti quegli oggetti infatti hanno un significato preciso e svolgono una funzione determinata ed esplicita solo in un mondo in cui esiste la scrittura, una pratica che li lega e li interconnette in una trama di rimandi reciproci e oggettivi, uguali per tutti coloro che abitano un mondo storico in cui esiste la scrittura.

Detto in altre parole: la scrittura (prodotto storico, umano, invenzione culturale) è la ragion d’essere di una forma di vita in cui quegli oggetti possono unicamente esistere come utensili, prodotti storico-culturali, incarnazione di precisi significati condivisi da chi è nato nella nostra civiltà alfabetica ma non accostabili da nessuna intelligenza con la mera percezione.

A questo punto possiamo finalmente tornare al nostro problema di partenza, riformulando la domanda iniziale sul patrimonio salentino in un modo più preciso e penetrante, ovvero in grado di farci rilevare il vero problema da affrontare, il quale non consiste tanto in meri riconoscimenti formali o leggi di tutela (per quanto importanti e necessari naturalmente, non vogliamo infatti minimamente svalutarne il valore, semmai indicarne l’insufficienza): cosa unicamente e unitariamente tiene insieme e connette reciprocamente le pajare in tutte le varianti e destinazioni, i muretti, le tante opere rurali a secco, gli strumenti che servono alla loro manutenzione, le arti e le professioni che servono alla loro realizzazione, le abitudini, gli scopi, le motivazioni, le pratiche e i saperi che servono a conservarle e preservarle?

Quale è la chiave d’accesso a questo mondo architettonico rurale, a questo immenso patrimonio di opere che in questi giorni, sollecitati dalla bella novità, celebriamo ma che come l’uomo primitivo in quell’aula, anche noi rischiamo di osservare come meri oggetti, magari belli, meritevoli di apprezzamento, ma senza afferrarne più l’autentico significato? Qual è il mistero che anima quell’insieme?

Qual è il suo segreto, la “scrittura” da rinvenire questa volta? La risposta è anche qui ovvia: la ragion d’essere di tutto ciò è la forma di vita propria del mondo contadino antico che in quel linguaggio architettonico a secco si è espresso e che quel patrimonio ha prodotto, il suo segreto è una civiltà cancellata, storicamente tramontata.

Si tratta del mondo proprio di gente con un modo di lavorare, produrre, spostarsi, misurare, organizzare lo spazio e il paesaggio, di uno scenario di sopravvivenza in cui ogni costruzione a secco, ogni opera, aveva il suo proprio autentico significato e la propria specifica, necessaria, preziosa, insostituibile funzione e utilità per affrontare con fatica una dura esistenza.

Così come in un mondo senza scrittura non avrebbe alcun senso fabbricare, riparare, acquistare e utilizzare penne, cancelletti, lavagne, matite, gomme, quaderni, fogli, gessi, ovvero tutti quegli oggetti che senza scrittura sarebbero destinati a sparire (a proposito, che stia già accadendo tutto ciò con la “nuova forma” di scrittura che impone la rivoluzione digitale in corso?!), in un mondo in cui non c’è più quella forma specifica di esistenza agricola che nei secoli ha plasmato il paesaggio salentino, non potranno – come se nulla fosse cambiato! – continuare a preservarsi a lungo e in gran numero le sue testimonianze sparse sul territorio, cioè pajare, furnieddhi, maestranze che sappiano edificarle, manutenerle, ripararle (ve ne sono più in vita?).

Essendo venuto meno quel mondo contadino che le ha prodotte, è plausibile allora sperare di conservare con uno sforzo condiviso queste diffuse testimonianze di un patrimonio dell’umanità solo inventando noi tutti ex novo una forma unitaria e alternativa che, in vece della prima ormai perduta, le tenga nuovamente insieme, le porti a nuove funzioni e possibilità e ci sostenga veramente e in modo condiviso e perdurante in uno sforzo minimamente plausibile di tutelarle!

Qual è questa forma di cui stiamo cercando di mettere in luce l’urgente necessità come di una scrittura che porti alla vita gli oggetti muti in un’aula che è il nostro intero paesaggio?

Può assumere questa, ad esempio, le sembianze di un rilancio dell’agricoltura, di un cosiddetto “ritorno alla terra”, tanto sulla bocca di tutti quanto nelle mani di nessuno? Ne dubitiamo: un “ritorno alla terra” sarebbe in ogni caso un’altra forma di vita agricola, una “scrittura” totalmente diversa del paesaggio rurale, l’edificazione di un “ecosistema” profondamente differente da ciò che vorremmo preservare rigenerando.

Alcuni esempi tanto banali quanto crudi dovrebbero bastare per rendercene conto: un imprenditore agricolo cosa se ne farebbe di un ricovero per attrezzi da tempo scomparsi (da reperire, nella migliore delle ipotesi, nei musei etnologici!)? Di ben altri spazi e rifugi avrebbe infatti egli bisogno! Cosa se ne farebbe questi di un rifugio temporaneo per la notte, nato per le esigenze di un contadino ormai inesistente, privo ad esempio di mezzi di spostamento rapidi e motorizzati come i nostri, impossibilitato pertanto a tornare nella propria dimora sul far della sera?

Complesso di pajare con forno (foto nicola febbraro)

 

Ancora: potrebbe essere la forma di vita che andiamo cercando un nuovo modello di fruizione turistico-abitativa cui indirizzare il paesaggio rurale quale scenario certamente mirabile, seppur non immediatamente predisposto per soggiorni vacanzieri sostenibili? Tale sfida è già più plausibile ai nostri occhi ma ancora una volta non garantita, ardua e tutta da immaginare e inventare: non ci sono infatti, almeno per quanto ne sappiamo, molti modelli attinenti a cui facilmente ispirarsi. Il celebre caso di Alberobello ad esempio, la nota città dei trulli che dell’architettura a secco ha fatto la sua gloria nel mondo (ma anche la sua morte per rinascere triste souvenir!), non può essere minimamente riproposto nel Salento per diverse ragioni che rendono i due contesti incommensurabili.

Ne ricordiamo qua solo una ben nota agli studiosi del paesaggio: la vicinanza delle campagne ai numerosi centri abitati salentini ha determinato nei secoli passati una dispersione delle costruzioni a secco nel nostro territorio e una destinazione temporanea delle stesse, a fronte di una concentrazione evidente in Valle d’Itria o in terra di Bari, contesto ben differente questo che ha agevolato la nascita di borghi interi di pietra e di unità architettoniche abitabili stabilmente. In conclusione, le domande vere sulle quali la comunità salentina intenta a interrogare le possibilità di un futuro sostenibile per le costruzioni a secco – e in primis la classe dirigente – dovrebbe orientarsi sono, crediamo, quelle qui sintetizzate e così ripercorribili: come ripensare, come “rifunzionalizzare”, come riconcepire nell’ambito di una nuova identità e cornice unitaria ogni elemento del paesaggio rurale da preservare in stretta relazione agli altri, conservandolo nel suo nuovo significato e nella sua nuova necessità vitale per la comunità locale?

Come destinare ogni meraviglia di pietra che il passato ci ha saputo donare a un nuovo e rispettoso destino funzionale tale che ci motivi tutti indistintamente a tutelarlo per davvero, a servircene nuovamente non come mero oggetto da museo, non come mera testimonianza di un’aula senza scrittura, non come mirabile nostalgia in rovina, e non come rudere rimesso a nuovo, ma come elemento vivificato del nostro mondo attuale e presente?

Questi i veri interrogativi che la politica attuale deve affrontare, prima che quel che resta vada perduto, prima che il clamore si dissolva di nuovo, prima che cali ancora una volta il sipario. Questo è il compito da affrontare con ragionata urgenza, da cui possono discendere sensate ed efficaci azioni concrete, frutto di un progetto unitario.

Le mani di Hassan

di Pier Paolo Tarsi

Hassan è nato dove le pietre hanno un’altra consistenza, dove gli strati della roccia si arroventano al sole del vicino Sahara e i muri delle città emanano un bagliore bianco, candido come le vesti di chi attraversa da secoli il silenzio del deserto.

Dal Marocco, dove Hassan appunto nasce, non ci separa ma ci unisce il mare, e le mani pregne della medesima antica pazienza dei tanti sud, gravide di arte e di passione come quelle di questo ragazzo, sono una riformulazione unica di questo primordio di comunione antica e qui rinnovata, incisa e scolpita nella tenera pietra nostrana, quella leccese.

In principio, è stato scritto, era l’azione: l’uomo, da sempre, si va attuando e facendo da sé modificando ciò che incontra; col suo fare il mondo delle cose va costituendosi in spazi abitabili e nicchie di significati che lo definiscono e lo specificano come essenza culturale per natura. Ed è un semplice corollario di questo principio generale l’evidenza che Hassan va facendo e tessendo con le sue proprie mani la propria essenza o identità di artista e artigiano salentino, seppur venuto da lontano.

Ricalcando pratiche e mestieri che noi andiamo invece perdendo, va definendosi come la parte più intima del nostro essere salentini mentre noi già la smarriamo, e lo fa dialogando e plasmando proprio la materna e più tipica pietra che la nostra terra offre. Doni del deserto, trasportateci, come sempre le cose più preziose, dal mare, le sue mani apprendono e acquisiscono quanto di meglio hanno compiuto prima di lui quelle mani che hanno edificato nei secoli chiese e altari nostrani; ne emulano i gesti, gli inciampi e le perizie, l’improvviso impuntarsi, il deciso sferzare o i carezzevoli sfreghi, delineando così profili e incidendo la sostanza della pietra leccese di cui le sue opere sono fatte.

Hassan vive a Copertino ed è pertanto un suo figlio venuto da lontano, giunto qui a ripercorrere le tecniche e le forme della nostra tradizione artigianale, a renderci fieri così in questo rispecchiarci nella bellezza delle nostre opere che ora è lui a mostrarci e svelarci, partecipandone e rinnovandone la creazione nei suoi lavori. Non occorre alcuna retorica dell’inclusione quando è la sintassi stessa delle mani a plasmarla, a tesserla, agendo secondo saperi e pratiche culturali emerse nel Salento ma che appartengono, semplicemente, a chi le attua, arricchendole inoltre di una luce abbagliante che viene da un altrove. Le pratiche non conoscono confini, solo artefici, e le essenze, le identità, non conoscono frontiere, solo persone, attori che le incarnano e le pongono così in essere, rigenerandole in un dinamismo perpetuo e rimettendole in movimento col prestito della propria carne ed esistenza, delle proprie mani. Ecco a voi, allora, semplicemente Hassan Forssane, artigiano della pietra leccese venuto dal Marocco.

Antonio Ferrariis, detto il Galateo, al marchese di Nardò

di Pier Paolo Tarsi

Siamo nel Salento, è appena iniziato il ‘500, il secolo emette vagiti, ha soltanto un anno. Un ormai anziano Antonio Ferrariis, detto il Galateo, ha da poco finito di consumare la sua frugale cena. È fatta di pochi cibi semplici, proprio come consiglia nei suoi testi di medicina e nelle lettere in cui dispensa consigli e pareri agli amici che si affidano alla sua sapienza per lenire i mali della propria carne e dello spirito. Con la scienza medica Galateo cura i primi, con la filosofia si occupa dei secondi. Fuori è ormai buio. Alla luce fioca di un lume inforca una penna, la intinge nel calamaio per scrivere una lunga lettera. È indirizzata al marchese di Nardò e conclude con queste parole: “Perciò, o nobile signore, con la tua saggezza e dottrina, non considerare spregevole per la razza, la condizione, le infermità, gli oscuri natali, per qualche misfatto dei suoi progenitori alcun uomo che non sia gravato da propri vizi”.

Erasmo non ha ancora scritto il suo Elogio della follia, Lutero non ha ancora affisso le sue tesi a Wittenberg. La modernità, ufficialmente, non è ancora del tutto iniziata.

La travagliata (ed anche comica) storia del monumento ai caduti di Copertino

di Pier Paolo Tarsi

La storia del monumento dedicato ai caduti copertinesi è incredibilmente travagliata e ricca di poco chiari impedimenti protrattesi per anni: per quel che ne traspare dai frammenti scrutabili, le vicende che portarono alla sua definitiva edificazione si colorano delle più varie sfumature di pathos, talvolta quelle comiche, proprie della migliore commedia all’italiana, talaltra quelle dell’acuta e pungente tensione.

Le interessanti fonti di natura giornalistica che illuminano fiocamente tali fatti aprono al contempo spiragli sui costumi, sulle dinamiche interne cittadine e, come vedremo, sulle rappresentazioni sociali di alcuni copertinesi proprie dell’arco di tempo che si interpone tra il 1919, anno in cui la costruzione del monumento viene promossa da un comitato cittadino, fino al 1925, quando ne viene finalmente celebrata l’inaugurazione. Come vedremo tuttavia, la storia del monumento ci trascinerà nell’indagine molto oltre quegli anni, addirittura fino alle soglie dei nostri giorni, riconducendoci ad una riflessione su noi stessi e alle nostre attuali responsabilità civiche.

Il primo brano giornalistico, pubblicato in data 13 aprile 1919 su “La Provincia di Lecce”, annuncia la genesi dell’intenzione progettuale di erigere il monumento, indica i promotori di quella che si rivelerà, come vedremo, una vera e propria impresa, e informa infine circa le prime modalità organizzative adottate per lo scopo:

«Un gruppo di militari copertinesi, recentemente tornati dalle aspre fatiche della guerra alle feconde opere di pace, ha pensato di onorare, con la erezione di un monumento, la memoria di quei concittadini che, con l’olocausto della propria vita, hanno scritto la gloria non peritura della nuova Italia. Certamente la cittadinanza darà in questa occasione una vibrante manifestazione di solidarietà e patriottismo, come segni di gratitudine per i suoi figli. Per domenica 13 corr. il Comitato promotore ha invitato tutti i militari congedati e congedandi a intervenire alle ore 17 nei locali dell’Associazione Democratica Popolare per prendere i relativi accordi»

Da quella domenica d’aprile, con un lungo percorso implicante autorizzazioni, delibere comunali, l’approvazione del Vescovo di Nardò (rilasciata in data 23 gennaio 1923) per lo spostamento dell’Osanna allora presente nella piazza prescelta, fino all’arrivo della statua monumentale, dovranno trascorrere più di quattro anni; sullo stesso giornale infatti, in data 30 settembre 1923, leggiamo:

«Fervono i lavori del Comitato pro-monumento ai Caduti, egregiamente presieduto dal dott. Cav. Antonio Pisacane. In questi giorni è arrivata la statua di bronzo che rappresenta un atletico soldato che con la spada in pugno difende la bandiera. L’opera è ispirata e magnifica e ne è autore il vostro valoroso giovane concittadino Raffaele Giurgola certamente destinato a luminoso avvenire»

Gli ulteriori dettagli forniti da questo articolo e che di seguito esporremo saranno clamorosamente smentiti dagli eventi successivi; a tali dettagli si accompagnano inoltre dei coloriti commenti del giornalista a proposito di alcune vicende che potrebbero costituire i primi segnali di preludio a un processo difficile e per certi versi comico che porterà alla più che tardiva inaugurazione del monumento.

«Il monumento – leggiamo – sarà inaugurato il 4 novembre prossimo con una solenne celebrazione di fede e con l’intervento di molte autorità, sorgerà in una vasta e magnifica piazza circondata di alberi e ricorderà agli immemori il sacrifico dei nostri soldati»

Così tuttavia non sarà: sullo stesso giornale, ma addirittura due anni dopo – precisamente il 24 maggio 1925! – un brevissimo, lapidario e arido comunicato ce ne dà conferma:

«Il Municipio ha fissato per oggi la cerimonia per l’inaugurazione del monumento, eretto a spese della cittadinanza, in memoria dei 165 caduti in guerra».

Cosa comportò dunque un così stupefacente ritardo e un così succinto e stanco annuncio finale delle effettive celebrazioni? Una pista per setacciare una plausibile risposta alla nostra curiosità potrebbe essere rinvenuta tra le vicende cui si alludeva prima ed esposte nel già citato pezzo del 30 settembre 1923, il medesimo che annunciava la data di inaugurazione solenne prevista per il 1923 e poi disattesa. Tra quelle righe, andando oltre quanto sopra riportato, leggiamo:

«Anche per questa opera alta e nobile che avrebbe dovuto far tacere tutti gli odi, sono stati i soliti quattro Catoni che hanno cercato di avvelenare la popolazione e hanno informato il Vescovo di Nardò, affermando che il monumento rappresenta un soldato…ignudo e che, quindi, è scandaloso. A parte che l’arte non può immiserirsi in certe grossolane considerazioni, i Catoni e i timorati possono tranquillizzarsi perché il drappo della bandiera sostituisce magnificamente la tradizionale…foglia di fico!!».

Potrebbero essere stati lo scandalo e le conseguenti polemiche dei “quattro Catoni” timorati cui alludeva il giornale già nel 1923 a suscitare un simile differimento di due anni per l’inaugurazione ufficiale? Così potremmo concludere, almeno se ci basiamo su quanto narrato dalle fonti qui usate e su ciò che da quelle se ne può inferire. Ad ogni modo, al di là dello stupore e del mormorio scandalizzato dei Catoni copertinesi dell’epoca, il giusto e simbolico riconoscimento al valore e alla memoria dei caduti fu infine inaugurato nella grande piazza alberata di Copertino.

Nemmeno con ciò, tuttavia, ebbero termine le travagliate vicende del monumento: negli anni del secondo conflitto mondiale la bronzea statua del Giurgola rischiò infatti di essere smantellata a causa delle requisizioni dei materiali metallici necessarie per lo sforzo bellico. Una lettera[1] del suo stesso artefice inviata al Podestà ci offre testimonianza del reale pericolo che la statua rientrasse nell’elenco degli oggetti in bronzo da destinare alla raccolta:

«Lecce, 19 novembre 1940 Al Sig. PODESTà. è a mia conoscenza che si chiedono informazioni ai Comuni sul peso dei bronzi dei Monumenti ai caduti, da cedere alla Patria. Quale progettista del Monumento ed esecutore della scultura in bronzo del medesimo in questo Comune, Vi prego di volermi tenere informato quando la statua deve essere smontata. Faccio presente che volendo servirei dello stesso modello per realizzare la riproduzione in marmo o in altra materia sarebbe necessario procedere al calco della statua prima di inviarla ai rottami. Ciò perché si realizzerebbe una grandissima economia nei raffronti della esecuzione della nuova opera, che dovrebbe sostituire quella rimossa. In attesa di un cenno di risposta Vi saluto cordialmente. Scultore Prof. Raffaele Giurgola»

Fortunatamente, solo la ringhiera in ferro che in origine circondava il monumento venne di fatto requisita ed il pericolo di una distruzione della statua fu effettivamente scongiurato dopo la comunicazione prefettizia del 12 ottobre 1941[2]:

«Si avverte che, per superiore disposizione, i monumenti in bronzo ai Caduti, o dedicati a personaggi di rilevante importanza storica, o comunque in particolare attaccamento alla popolazione, non devono essere per ora rimossi. […] Si avverte, infine, che nessuno dei monumenti stessi dovrà essere demolito se non quando la sostituzione sia pronta. Assicurante. Il Prefetto»

Dopo i tanti travagli di un storia dalle tinte varie qui brevemente ripercorsa, l’ormai quasi centenario monumento ai caduti copertinesi è giunto ai nostri giorni e, con esso, giunge a noi cittadini anche la piena responsabilità e il dovere della sua preservazione e cura a beneficio della memoria delle future generazioni. Al realistico timore che oggi l’incuria e l’indifferenza possano giungere con la loro portata annientatrice persino là dove le estreme ragioni della guerra non osarono, rispondiamo con queste pagine volte sia a far cogliere il complesso valore simbolico incarnato dal monumento consegnatoci con fatica dai nostri avi concittadini, sia a richiamare l’impellente necessità di un suo restauro, da realizzare – come ci auguriamo con questa pubblicazione, finalizzata anche al conseguimento di tale scopo concreto – nello spirito solidale e nella responsabilità collettiva che nel tempo hanno animato la comunità copertinese nel compiere condivisi e ben più ardui sforzi di questi.

 

[1] A. Raganato, “Atti di Pubblica amministrazione del Podestà a Copertino”, Università del Salento, a.a.2007-08, pp.56-7.

[2] Ibidem.

19/11/2018

Su segnalazione dell’Arch. Fabrizio Suppressa si integra il testo con alcune foto d’epoca sul monumento ai caduti di Copertino, tratte dal catalogo di una mostra fatta a cura della Pro Loco durante l’ultima festa di San Giuseppe. Lo stesso segnala inoltre che esisteva anche un’altra cancellata a Copertino rimossa durante il fascismo, che era quella che circondava le scuole di via Roma.

Ad ulteriore integrazione pubblichiamo altre foto gentilmente messe a disposizione da  Cosimo Tarantino:

Monumento ai caduti (1958)

Una solidale comunità: i copertinesi negli anni della Grande Guerra

di Pier Paolo Tarsi

Il gravoso tributo di vite e sacrifici versato dalla cittadinanza copertinese nel corso del primo conflitto mondiale si può intuire anche semplicemente dall’imponente numero dei soldati caduti. Nelle pagine che seguono proveremo tuttavia ad andare oltre quelle pur importanti cifre e i relativi avvenimenti militari, cercando di scorgere con l’ausilio delle fonti giornalistiche dell’epoca alcuni volti, le vicende personali e le imprese di quei copertinesi la cui vita fu drammaticamente segnata o spazzata via dal passaggio della grande storia. Questo pur succinto excursus nei fatti e nei protagonisti di quegli anni restituirà, come vedremo, lo spaccato immediato di una comunità altamente dignitosa, solidale e fraterna.

Il 13 Gennaio 1915, un mercoledì sera, i primi soldati copertinesi in partenza sfilarono in parata per le strade del paese, accompagnati da una partecipante folla di concittadini, parenti, amici e persone care che molti, purtroppo, non rivedranno mai più. Avevano tutti vent’anni, come si legge in un comunicato de “La Provincia di Lecce” pubblicato in data 15 gennaio:

«Mercoledì sera i soldati della classe 1895, che partiranno tra giorni, seguiti da una calca di popolo, improvvisarono una solenne manifestazione patriottica. L’assessore Salvatore Trono dalla balaustrata del Palazzo Municipale, disse poche parole inneggianti al valere della nostra armata e poi al Concerto Musicale con tutta la folla percorse le vie del paese tra entusiastiche acclamazioni. L’organizzatore principale della manifestazione, come sempre, il meccanico Vincenzo Raganato, infaticabile».

Quella prima partenza, accompagnata da un così vivace saluto, costituiva solo il preludio di una tragedia collettiva che da lì in poi avrebbe coinvolto per lunghi anni tanto coloro che in quei giorni e in seguito partirono, quanto coloro che restarono, sia gli uni che gli altri trascinati nel sacrificio comune dalla guerra. I tormenti della sorte di alcuni nostri concittadini si dovettero protrarre talmente a lungo che ancora il 2 marzo 1919 – a conflitto ormai da mesi terminato – sul quotidiano locale “La Provincia di Lecce” si pubblicavano comunicati come il seguente, “Per un soldato disperso”:

«Chiunque sappia notizie del soldato Cordella Rosario di Giovanni da Copertino del 115° fanteria 1. Comp. Prigioniero a Kriegsgefa u genenlager Ulm a. D. Germania è pregato di comunicarle alla nostra redazione. Tanto per quietare le ansie della famiglia».

impietosisce allora scoprire tra i documenti che quello stesso soldato, atteso con straziante ansia dalla propria famiglia, sarebbe morto proprio una settimana dopo quel disperato appello, esattamente il «9 marzo 1919, in prigionia per malattia».

La guerra che sconvolse il mondo intero chiamò dunque a raccolta diverse generazioni di copertinesi, intendendo con ciò non solo centinaia di combattenti – tra i quali molti seppero distinguersi con atti d’eroico valore – ma anche i tanti civili che si mobilitarono verso gli avamposti per servire la patria o che, restando in paese, offrirono da lì il contributo della loro preziosa opera. Sempre ne “La Provincia di Lecce” del 2 aprile 1916 leggiamo ad esempio che in quei giorni:

«[…] partirono per il medio e basso Isonzo circa cento operai copertinesi, che saranno adibiti a lavori d’indole militare. Nei luoghi del pericolo e della lotta […] sono corsi ad offrire anch’essi il contributo alla causa della Patria […]».

Su questi manovali inviati nelle zone di guerra non ci è purtroppo dato sapere molto altro, se non la notizia della morte di uno di loro. Più informazioni riusciamo invece a trarre dalle pagine dei giornali su quei concittadini che, instancabilmente, dalle strade del proprio paese contribuirono con sforzi quotidiani, slanci generosi e con impegno sociale al sostegno di quanti erano partiti e dei loro familiari. Animati da un profondo spirito di solidarietà e organizzati ad esempio intorno ad un “Comitato di Assistenza Civile” presieduto dall’avv. Francesco Giove, molti si adoperarono nell’attività di supporto per i nostri soldati. In data 19 novembre 1916 “La provincia di Lecce” informava che tale Comitato aveva deliberato «di abbonare alla Croce Rossa di Roma tre prigionieri al pane mensile che la nobile istituzione si obbliga di spedire dietro pagamento di L. 7.50 per ogni mese». I componenti si dichiaravano inoltre «[…] oltremodo lieti che questa forma di assistenza da noi propugnata nel giornale, cominci a farsi strada e dare i suoi benefici effetti», augurandosi «che l’esempio del Comitato Civile di Copertino, sia largamente imitato dai Comitati della provincia». Gli stessi copertinesi, esempio e sprone all’impegno sociale per la provincia intera, informavano infine nella medesima pagina «che parecchi altri cittadini hanno sottoscritto la loro quota che pagheranno ogni mese durante il periodo di guerra, e ci proponiamo […] di pubblicare i nomi di quanti hanno assunto il nobile impegno […]». Di fatto, solo alcuni giorni dopo, in data 3 dicembre 1916, sullo stesso giornale fu pubblicato un lungo elenco di nominativi di donatori e le relative offerte, il tutto preceduto dalle seguenti parole:

«Assolvendo una promessa fatta in una precedente corrispondenza, pubblichiamo un primo elenco, fornitoci dal solerte segretario del Comitato sig. Ferdinando Galbiati, di quanti hanno sottoscritto in favore dell’Assistenza Civile, lieti se potremo rubare molte altre volta ancora un po’ di spazio al giornale per consimili registrazioni».

Tali esempi mettono in luce la motivata partecipazione di una comunità operosa e impegnata in un sinergico sforzo condiviso di piena solidarietà per i propri uomini. Da un simile sfondo collettivo, possiamo talvolta provare a distinguere alcuni profili individuali, tratteggiandone fiocamente i contorni, intuendone le umane virtù o saggiandone il valore dei sacrifici personali compiuti. Così, semplicemente incrociando gli aridi dati a disposizione di chi voglia scrutare nelle tracce di quei frammenti del passato, possiamo talvolta riuscire a vivificarli, restituendo un nome, un volto o il calore di una storia vissuta all’umanità che è velata dalle cifre e dai freddi elenchi. Ad un simile sguardo non può allora sfuggire che, per citare un esempio, in quell’elenco di solidali benefattori sopra riportato compare un nome che ritroviamo anche in un più funereo e mesto elenco, quello dei nomi dei caduti: Luigi Moschettini. Da simili intrecci tra i residui della storia, riemerge allora da sé l’altezza d’animo di un giovane copertinese, figlio unico di una benestante famiglia dell’epoca, il quale non offrì solo il dono del proprio sostegno materiale alla sua gente, ma, come altri suoi valorosi coetanei, il sacrificio della sua stessa vita. All’appello delle armi, del resto, altri cittadini illustri dell’epoca non esitarono a rispondere, a partire dal prosindaco, destinato al fronte per circa quindici mesi; in un pezzo datato 13 giugno 1915, pubblicato sull’ormai consueto quotidiano, così veniva data notizia della sua partenza:

«Mercoledì scorso, salutato dai familiari e da pochi intimi amici, partì per il fronte, col grado di tenente medico, il dott. Tito De Martino, nostro prosindaco, destinato ad un ospedale da campo».

Di ogni ceto sociale ed età, sia uomini che donne, persone note oppure umilmente nascoste sotto la coltre difficilmente rimovibile del loro anonimato che non ne scalfisce il valore ma, al contrario, lo esalta, gran parte dei copertinesi furono dunque sottoposti alle medesime durezze e ai tremendi sacrifici cui la guerra chiamava. Provando a esplorare leggermente al di sotto di quel velo d’anonimato è in qualche caso possibile svelare altri interessanti profili umani meno noti ma non per questo meno valorosi e operosi nel sostegno della propria comunità. Ci riferiamo ad esempio alla commovente figura di Antonio Trono. Questi non era che un semplice impiegato municipale al quale la guerra aveva strappato via l’unico figlio, il giovane Trono Umberto Amedeo, classe 1896, disperso già nel 24 luglio 1915 sul Monte San Michele durante un combattimento. Antonio, nonostante la profonda ferita subita, dimostrò un’indefessa dedizione al proprio lavoro e al servizio della comunità, svolgendo, oltre ai compiti professionali spettanti e legati all’ordinaria amministrazione, un’ulteriore opera a sostegno delle vedove dei militari caduti per le quali, da solo, si curò di procurare le pensioni. La cittadinanza non mancò di esprimergli un breve ma sentito elogio attraverso la penna del giornalista Pantaleo Verdesca che il 3 dicembre 1916 firmava le seguenti parole su “La Provincia di Lecce”:

«Le varie chiamate alle armi, le concessioni dei soccorsi giornalieri, le innumerevoli informazioni richieste e date alle autorità militari nell’interesse delle famiglie dei richiamati, ha gravato questo ufficio comunale di un lavoro enorme e delicatissimo. Tuttavia nonostante tutto questo, non solo non si sono trascurati gli altri rami di amministrazione, ma con una encomiabile speditezza si è dato corso a ben 37 pratiche di pensione […] Noi sentiamo il dovere di esprimere una parola di vivissimo elogio all’impiegato sig. Antonio Trono, che da solo, si occupa di quanto concerne servizio militare e pratiche pensioni, senza tralasciare gli altri delicati rami assegnatagli dall’Amministrazione Comunale, che ha riposto in lui una grandissima fiducia meritata».

Ciò che quell’elogio omette è la particolare condizione esistenziale in cui quell’uomo, privato dell’unico figlio come evidenziato, si dovette prodigare così intensamente per il soccorso delle famiglie colpite dal lutto: simili elementi aggiuntivi costituiscono, crediamo, preziosi dettagli in grado di restituire le tonalità originarie ai volti sbiaditi di quanti, come il nostro impiegato, nel silenzio operoso del proprio anonimato furono i tanti valorosi seppur invisibili eroi della comunità copertinese in quei terribili anni.

Antonio de Ferrariis, detto il Galateo, al marchese di Nardò

galateo

di Pier Paolo Tarsi

Siamo nel Salento, è appena iniziato il ‘500, il secolo ha soltanto un anno. Un ormai anziano Antonio Ferrariis, detto il Galateo, ha appena finito di consumare la sua frugale cena, fatta di pochi cibi semplici, proprio come consiglia nei suoi testi di medicina e nelle lettere in cui dispensa consigli e pareri agli amici che si affidano alla sua sapienza per lenire i mali della propria carne e dello spirito.

Fuori è ormai buio. Alla luce fioca di un lume inforca una penna, la intinge nel calamaio e scrive una lunga lettera indirizzata al marchese di Nardò per concludere quanto segue: “Perciò, o nobile signore, con la tua saggezza e dottrina, non considerare spregevole per la razza, la condizione, le infermità, gli oscuri natali, per qualche misfatto dei suoi progenitori alcun uomo che non sia gravato da propri vizi”.

Erasmo non ha ancora scritto il suo Elogio della follia, Lutero non ha ancora affisso le sue tesi a Wittenberg. La modernità, ufficialmente, non è ancora iniziata.

La moltitudine perdente

Vernet

di Pier Paolo Tarsi

Giunse il tempo in cui anche per l’umanità nomade la vita dovette prendere una piega stanziale. La millenaria lotta che quella stirpe aveva condotto contro i sedentari non cessò né si dileguò mai, si trasferì soltanto nell’animo della moltitudine perdente. Venneno così alla luce i disadattati, gli eretici, gli insoddisfatti, gli irrequieti, quelli lacerati dal conflitto tra ciò che la vita da quel momento in poi avrebbe loro imposto con la stasi e il ribollire del loro sangue, sempre affamato di un orizzonte, di un altrove inesplorato.

Le relazioni autentiche

chaplin

di Pier Paolo Tarsi

Lo sappiamo tutti, ma come per molte altre esperienze comuni, Bauman descrive il punto meglio di chiunque altro.

“Credo che gli inventori e i venditori di «videocellulari», fatti per trasmettere immagini oltre alla voce e ai messaggi scritti, abbiano fatto male i loro calcoli: non troveranno un mercato di massa per i loro articoli. Credo che la necessità di guardare negli occhi il partner del «contatto virtuale», di entrare in uno stato di prossimità visiva (benché virtuale), priverebbe la comunicazione via cellulare del suo principale vantaggio, quello che le ha permesso di conquistare quei milioni di persone che desiderano ardentemente «stare in contatto», mantenendo allo stesso tempo la distanza… Ciò che questi milioni di persone desiderano ardentemente trova più facilmente appagamento nei «messaggini Sms», che eliminano dallo scambio la simultaneità e la continuità, stoppando così sul nascere la possibilità che questo si trasformi in dialogo autentico, e perciò rischioso. Il contatto uditivo viene per secondo. Il contatto uditivo è un dialogo, ma felicemente privo di contatto visivo, quell’illusione di vicinanza che comporta il pericolo di tradire inavvertitamente (coi gesti, la mimica, l’espressione degli occhi) tutto ciò che i chiacchieranti preferirebbero tener fuori dalla «relazione». Questi rapporti così ridotti, «sterilizzati», si incastrano a dovere con tutto il resto, il mondo liquido di identità fluide, il mondo dove le regole del gioco sono finire in fretta, proseguire e ripartire di nuovo, il mondo di oggetti che generano e brandiscono sempre nuovi e allettanti desideri per soffocare i desideri di un tempo. Il premio è la libertà di movimento, ma un’opzione che non siamo liberi di scegliere è quella di smettere di muoverei. Come già ci aveva avvertito Ralph Waldo Emerson molto tempo fa, quando si pattina sul ghiaccio sottile, la salvezza sta nella velocità.” (Intervista sull’identità, p. 113).

Più che l’assenza di un mercato di massa, penso sarebbe più opportuno dire che, proprio per le ragioni che espone Bauman, questo mercato non ha trovato e non troverà uno sbocco nello spazio delle relazioni informali e “prossime”: il videofonino si è imposto infatti in contesti come i colloqui a distanza di lavoro, e solo in situazioni simili, le quali possono agevolare un mercato di massa seppur specifico. Per le stessi ragioni credo che l’evoluzione inviluppante della cosiddetta realtà ampliata o estesa condivisa a distanza non ci appassionerà minimamente per un utilizzo nella sfera privata, per una chiacchierata “come si stesse sullo stesso salotto” con l’amico per esempio.

Troverà invece usi massicci solo in altri scenari, lontani anni luce dalle relazioni autentiche, come l’assistenza tecnica di un elettrodomestico ad esempio.

Periferie desolate

William Turner

di Pier Paolo Tarsi

Mi sedetti alla penombra su un masso posto sul ciglio e restai a guardare la via di casa con l’intento di prestarle per una volta l’attenzione che, proprio in quel momento, reputai non averle mai concesso. Vi era poco di inconsueto; in lontananza, guardando in direzione del paesino, una aureola luminosa e giallastra attorniava le forme confuse dell’abitato, più in alto quella si confondeva con l’aria in una sorta di nebbia, sfumando infine nell’oscurità che sovrastava il tutto. Dal mio sasso non potevo scorgere il borgo posto al centro di quella nube luminosa ma solo indovinare le forme ultime degli orrori edilizi postumi che lo attorniavano.

Rividi, immaginandole soltanto, le viscere antiche e lastricate che dal cuore del paesino si dipanavano qua e là in percorsi male asfaltati ma più lineari; questi si allungavano verso le periferie desolate o andavano a morire in sentieri bui di campagna come la strada in cui ero seduto, quella di casa. Dietro di me, dall’altra parte rispetto al paesino, niente altro che oscurità e profili di alberi o fogliame che offrivano qualche ultima occasione di un riflesso alla luna, prima del nulla alla vista.

Là dove questa non poteva giungere solo il sottofondo costante dei grilli, il richiamo raro di qualche uccello notturno e l’abbaiare a tratti di un cane lasciavano indovinare altre presenze visibili tra le infinite distese di uliveti che seguivano.

L’aria si era fatta più fresca, misi una mano sulla tasca alla ricerca di un accendino con cui dar fuoco al sigaro che avevo già in bocca ma non lo trovai. Mi alzai in piedi senza pensarci e poggiai le mani su entrambe le tasche, alle mie spalle allora sentii quelle parole investirmi e colpirmi con uno scroscio improvviso di terrore: “Devi accendere?”. Sobbalzai violentemente e certamente urlai, voltandomi. La vidi là, a mezzo metro da me, con un braccio proteso e immobile, un riflesso di luce le illuminava mezzo volto, il resto, separato da una diagonale, più in ombra. “Che ti è preso?” mi chiese, senza muoversi, immobilizzata come me da un terrore di riflesso. Poi abbassò il braccio, uscì dall’ombra completamente muovendo un passo verso me ed io indietreggiai di istinto, ancora in preda al panico che non riuscivo a domare. “Chi sei? Da dove sbuchi?” riuscii a dire, forse urlando e di certo in affanno.

Era la prima volta, dopo quei mesi, che risentivo la mia voce, la avvertii esplodere nell’aria come fosse quella di un estraneo.

Non mi rispose, mi puntò lo sguardo in volto e soltanto mi disse, mentre si chinava un poco “Tieni, te lo lascio qua”, abbandonando l’accendino per terra, tra me e lei. Si risollevò, mi guardò ancora, come se attendesse una mia reazione.

Restai immobile e in silenzio, finché lei allargò le braccia come in segno di rinuncia e, mi parve, sbuffando appena con le labbra che accennavano un sorriso.

Si voltò allora per andarsene, dirigendosi nell’oscurità che vidi presto inghiottirla e renderla invisibile, così come era stata per tutto quel tempo seduta dietro me. Solo in quel momento, mentre moriva nell’aria, avvertii il suo profumo che quella sera dileguava sul ciglio della strada di casa. Si dissipava e una certa nostalgia ne prendeva subito il posto.

Fra Francesco da Copertino, architetto

Fra Francesco da Copertino

“Fra Francesco da Copertino – Seminario Lanfranchi Matera” di Lucio Maiorano, Il Raggio Verde edizioni, Lecce 2017, 50 pp. (ISBN-10: 8899679312; ISBN-13: 978-8899679316)

 

di Pier Paolo Tarsi

Mentre Copertino si appresta ai festeggiamenti in onore del frate che, con la sua prodigiosa enonch mistica santità, rese celebre nel mondo il nome della città, il prof. Lucio Maiorano ha appena dato alle stampe un lavoro dedicato a un altro frate, il meno noto Francesco da Copertino, coevo di San Giuseppe e appartenente alla medesima comunità francescana.

Alla luce di recenti contributi[i] che, come questo, ne vanno gradualmente dissotterrando il profilo dall’oblio storiografico, Francesco inizia ad apparire oggi nella sua autentica luce quale componente di un cenacolo che fece del Seicento il secolo d’oro dell’ingegno artistico copertinese e contribuì a rendere Copertino – come scrive Mario Cazzato nell’Introduzione – “dopo Lecce, il maggior centro artistico di Terra d’Otranto”. Il ricordo di questo frate va accostandosi infatti gradualmente a figure rilevanti come Giovan Donato Chiarello, Ambrogio Martinelli o Fra Angelo da Copertino, interpreti di un fermento particolare che, come testimonia l’ormai indiscusso valore dei loro nomi per gli studiosi, distingueva la cittadina copertinese non solo per l’afflato religioso incarnato dal noto Santo ma anche per l’arte e l’ingegno che, attraverso la mano di questi illustri artefici, plasmavano opere e davano prova di sé in tutti gli angoli del Salento. Fra Francesco, al secolo Cataldo Donato, nello specifico contribuì come abile architetto a incidere il nome di Copertino nella storia e nell’arte di Terra d’Otranto fino al suo estremo confine geografico, la meravigliosa Matera.

Qui, come sancisce ancora oggi l’epigrafe affissa all’ingresso dell’imponente edificio, il frate copertinese, in età ormai matura, progettò il sontuoso Seminario Lanfranchi, presiedendone la realizzazione fino al termine di lavori durati quattro anni. In questo arco di tempo trascorso a Matera egli si misurò e risolse egregiamente non facili problemi di progettazione architettonica legati alla realizzazione di un’opera che doveva da una parte inglobare strutture preesistenti, dall’altra erigersi su un terreno compromesso da grotte sottostanti, infine adeguarsi a nuovi indirizzi urbanistici. Il risultato finale e la grande maestria di Fra Francesco possono essere contemplate ancora oggi, perfettamente rispecchiate nell’equilibrio e nella bellezza di un’opera architettonica nella quale Maiorano conduce agilmente con il suo saggio. Con l’ausilio di un utile e gradevole supporto fotografico, l’autore, dopo aver inquadrato la figura del frate architetto copertinese, guida il lettore negli spazi e negli ambienti del Seminario, ne ripercorre brevemente la storia, soffermandosi tanto sui singoli protagonisti che emergono dallo sfondo, quanto sulle opere contenute e sulle destinazioni d’uso che hanno interessato le sale dell’edificio dalla sua costruzione fino ad oggi. Ne viene fuori una narrazione che, partendo da Copertino e da Fra Francesco, passando per Matera ed il committente, il monsignor Vincenzo Lanfranchi, si innesta e si intreccia tanto con la storia locale e religiosa della città lucana e con i suoi protagonisti, quanto con l’esistenza e la biografia di figure di primo piano e di rilevanza storica nazionale come il poeta Giovanni Pascoli, lo scrittore e pittore Carlo Levi o lo scultore giapponese Kengiro Azuma. Attorno al ricordo della figura del frate copertinese, Maiorano riesce così a tessere un’agile guida che da un lato accompagna nell’esplorazione architettonica e artistica, dall’altro permette di penetrare nella memoria storica del luogo, oggi Museo Nazionale di Arte Medioevale e Moderna della Basilicata e sede del Centro Carlo Levi. Un ottimo e riuscito modo per celebrare il ricordo di Fra Francesco, stimolare la ricerca intorno alla sua figura e ai suoi lasciti, nonché veicolare, attraverso le trame e gli snodi di una storia svelata rapidamente pagina dopo pagina, la testimonianza di un antico legame tra Copertino e Matera plasmato dalle mani e dall’ingegno del frate architetto.

Un legame questo ormai secolare che potrebbe oggi essere opportunamente ravvivato in vista dell’approssimarsi del 2019, anno in cui, come noto, spetterà alla città lucana assurgere al ruolo di Capitale Europea della Cultura e rappresentare una vetrina internazionale in cui il riflesso del “volto” di Fra Francesco da Copertino, riemerso finalmente dall’oblio storico, potrebbe nuovamente gloriare la sua città natale e sorriderle, qualora questa ne sapesse raccogliere sapientemente l’eredità.

 

[i] Si pensi a Francesco da Copertino, Edizioni Universitarie Romane, Roma 2010 del compianto Antonio Fernando Guida, studioso e amico alla cui memoria l’autore dedica non a caso il proprio saggio.

Una domanda eterna: che cosa significa educare?

da freepik
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di Pierpaolo Tarsi

Prima o poi un insegnante o un genitore devono tentare di darsi una risposta delle tante possibili a questa domanda eterna: che cosa significa educare? Prendo spunto per dipanare il discorso da una bellissima frase di don Giussani riportata sulla sua bacheca da uno stimato concittadino, il prof. Luigi Marcelli, uno dei pochi che osa ancora usare facebook per stimolare il pensiero e che ringrazio per avermi offerto lo spunto. “L’educazione è introduzione alla realtà” recita quella frase.

Assolutamente condivisibile, per me, però, prima che introduzione alla realtà, l’educazione è qualcosa di più comprensivo, è introduzione alla libertà.

E’ infatti l’idea complessa di libertà che sta a mio avviso a fondamento di tutto il discorso educativo e pedagogico, come sviluppato nella nostra tradizione filosofica: “libertà da, libertà di, libertà per”.

Educarsi (ex-dux-azione), da questo punto di vista, vuol dire proprio imparare a condursi autonomamente, divenire guida (dux) di se stessi per godere di una buona e virtuosa vita, appropriandosi della propria libertà in tre sensi almeno.

Il primo senso è quello negativo e per certi versi più immediato che possiamo immaginare come il rompere delle catene: qui essere liberi vuol dire non soccombere a vincoli e istinti come quelli che spingono alla violenza con l’altro, non lasciarsi imprigionare da catene come quelle delle dipendenze, ecc. Il secondo senso è quello positivo e ulteriore di “libertà di”, quello per cui non è si solo liberi per sottrazione da qualche limite ma si è liberi di procedere oltre e camminare senza quelle catene, liberi cioè di fare, agire, essere, determinarsi, esprimersi, in breve di attuare delle possibilità che il mondo, la realtà e la società dispiegano di fronte ad ogni persona che va formandosi e va progettando e proiettandosi in un proprio percorso di vita.

In questa seconda accezione positiva di libertà, in cui educazione può essere intesa come introduzione alla realtà (come dice Giussani) e alle possibilità che questa introduzione permette, anche l’idea del limite va ricompresa e riformulata in un altro senso: laddove prima il limite si manifestava nella sua accezione negativa delle catene da rompere, ora il limite è la condizione positiva e abilitante, il vincolo che apre la possibilità stessa, ciò che rende capaci di manifestarsi in qualche dimensione come esseri liberi.

I vincoli quindi sono qui qualcosa di imprescindibile e utile (quello che le pedagogie sessantottine non hanno mai compreso!), non prigioni ma opportunità da introiettare nel processo formativo e fare nostre per imparare ad agire virtuosamente e costruire nel mondo e con gli altri! Per riprendere ancora l’immagine delle catene, qui dovremmo dire che per camminare non ci basta rompere quei lacci ma ci occorre ora saper sfruttare i vincoli che ci pone la realtà, in metafora la gravità e l’anatomia umana per esempio, usando i vincoli delle forze fisiche entro cui siamo inviluppati per muoverci secondo volontà, liberamente!

Può valere qui quanto Kant, proprio per farci comprendere il valore abilitante del vincolo, scriveva in un celebre passo della Critica della Ragion Pura a proposito del volo di una colomba, un’immagine che possiamo far nostra per evidenziare il senso costruttivo e non più negativo del limite. Se una colomba vola non è solo perché non ha vincoli o catene che le impediscano di spiccare il volo ma è anche perché quella si sa servire di altri vincoli reali- la resistenza dell’aria – per innalzarsi in cielo! Privata di questo limite la colomba non solo non volerebbe meglio ma non potrebbe farlo affatto! Allo stesso modo, per esprimermi non ho solo bisogno che determinati vincoli non mi imprigionino – la censura per esempio – ma ho bisogno di altri vincoli che la realtà e la cultura mi offrono a supporto formandomi: le regole del linguaggio per parlare e manifestare le mie opinioni e i miei pensieri ad esempio, o le tecniche elaborate dalla tradizione artistica se voglio dipingere, le norme della società per relazionarmi in certi contesti agli altri ecc.

È in vista di questo seconda accezione di libertà che a scuola trasmettiamo saperi e cerchiamo di far sviluppare competenze, ossia forniamo alle nuove generazioni gli strumenti, le pratiche, le conoscenze affinché ognuno si formi, si dia cioè una propria forma delimitante unica e irripetibile, si abiliti (o si renda capace) in altri termini alla manifestazione della propria libertà in qualche ambito dell’esistenza in cui il soggetto in formazione sia divenuto autonomamente capace.

La terza accezione di libertà, “libertà per”, “per me”, “per te”, “per questo valore, fine, scopo”, può essere infine invocata per richiamare il contesto sociale in cui la libertà dell’uomo, essere relazionale per definizione, può unicamente manifestarsi. È solo stando in società, con gli altri, che posso aprirmi a me stesso e far mie le varie possibilità che offre una cultura: i suoi valori, le sue conoscenze, le sue tecniche e i suoi strumenti in senso lato. Queste strutture culturali che scopro unicamente con gli altri e attraverso gli altri mi permettono di definirmi e concepirmi nel processo riflessivo dell’autocoscienza come essere capace e libero in rapporto con delle alterità nelle quali riconosco altri esseri liberi, individui come me ma separati da me, il cui dominio di libertà non posso calpestare (un altro limite che la realtà, umana in questo caso, mi pone!) nella reciprocità della relazione intersoggettiva compiuta. Ancora una volta incontriamo qui il senso abilitante, costruttivo e non banalmente coercitivo o annichilente del limite, il quale si concretizza e si incarna in questo caso nel volto dell’altro! Questo punto è particolarmente importante.

Riflessivamente, attraverso la richiesta dell’altro di cui non mi è dato disporre in totale arbitrio, mi approprio gradualmente della possibilità di tornare a me stesso e vedermi o affermarmi a mia volta come essere libero, come soggetto cioè che può reclamare per se stesso il medesimo spazio di autodeterminazione e il medesimo rispetto che mi domanda l’altro. Nella relazione intersoggettiva e sociale comprendo inoltre che posso conservarmi in questo dominio personale di libertà solo in funzione e in relazione al rispetto che mi impone al contempo lo spazio di libertà altrui: comprendo cioè che la mia libertà sussiste solo nella misura in cui partecipo e non mi sottraggo a questa dinamica di reciproco riconoscimento di autodeterminazione e di reciproca inviolabilità, di reciproca donazione di libertà, accettando, restando e rinnovando continuamente questo movimento dialettico per cui la mia libertà dipende necessariamente da quella dell’alter. Qui incontriamo la regola aurea che attraversa non a caso tutte le culture, non solo quella cristiana nella formula del “non fare all’altro ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso”. L’incontro autentico con l’altro e il limite che il suo sguardo mi pone è allora il punto di snodo e passaggio dall’arbitrio cieco e inconsapevole della bestia all’autentica e autocosciente libertà umana, quel limite abilitante che mi apre e mi disvela tanto la possibilità quanto i confini reali e tangibili della mia stessa libertà. Confini questi che scopro non poter varcare – ad esempio negando o tentando di sopprimere la libertà dell’altro – senza interrompere così la dinamica del riconoscimento reciproco, mettendo di conseguenza a repentaglio la mia stessa libertà, ad esempio esponendola alla possibilità dell’annientamento da parte dell’alter cui potrei soggiacere.

La mia sfera individuale di libertà e la consapevolezza stessa della mia libertà non devono essere allora concepiti come tratti naturali di un essere isolato e dall’arbitrio illimitato ma come conquista relazionale, effetto e portato di una dinamica sociale perennemente vincolante e riattivata. Non come soggetto isolato e astratto ma solo come essere in società e condizionato dagli altri posso unicamente riconoscere e appropriarmi riflessivamente del mio dominio di libertà personale, posso allora pretenderlo, reclamarlo per me e infine tutelarlo ed estenderlo, a condizione che al contempo lo riconosca, lo tuteli e lo ampli per chi ho di fronte. Tutto ciò, in parte oscurandone il complesso movimento genealogico e intersoggettivo visto, è quanto in genere sintetizziamo dicendo che la libertà di ognuno termina (ossia incontra un felice, salvifico e costruttivo limite) esattamente dove inizia quella dell’altro.

Queste tre declinazioni del concetto di libertà (libertà da, libertà di, libertà per) esplicitano il senso complesso della libertà che i saperi filosofici e pedagogici mettono in evidenza e pongono al centro della formazione della persona intesa nella sua interezza e totalità, ossia tanto negli aspetti cognitivi quanto in quelli affettivo-emozionali, relazionali e volitivi.

Praticare (e non solo pensare) una buona vita non vuol dire altro che aprirsi individualmente, nella totalità emotiva, razionale e volitiva che ogni persona è, alla virtù, educarsi e impratichirsi alla libertà in tutte le accezioni o sensi declinati sopra, nel coinvolgimento pieno di tutte le dimensioni psicologiche ed esistenziali della soggettività immersa nella relazione sociale. Per queste ragioni proprio della libertà faccio il perno centrale dell’educazione, un perno che ricomprende l’idea di educazione come introduzione alla realtà, il punto che sussume tutti i percorsi e le esperienze attivate per educare i cittadini di domani ad una vita virtuosa.

Nell’Emilio, capolavoro della letteratura pedagogica di tutti i tempi, evocando peraltro la riflessione etica di altri giganti del pensiero come Aristotele, così scriveva Rousseau per esplicitare questo profondo nesso tra una vita virtuosa e la libertà: “Che cosa è dunque l’uomo virtuoso? È quello che sa vincere i vincoli dei propri affetti […] D’ora in poi sii libero sul serio; impara a diventare padrone di te stesso; comanda al tuo cuore, oh Emilio, e sarai virtuoso”

Le stagioni di Khalil

copertina khalil

di Pier Paolo Tarsi

Ci sono aspetti delle stagioni che solo certi sguardi riescono a distinguere. Certi autunni, qui, differiscono in profondità dall’inverno più per come ci si dispone al mondo che per i suoi pur palesi mutamenti o per le asprezze che marcano e segnano il passaggio del tempo. Ci sono stagioni che lasciano segni che in superficie sono invisibili, nascosti nelle pieghe del paesaggio o nell’animo dello spettatore, difficili dunque da estrapolare, decifrare e narrare. Si offrono, certo, allo sguardo per lo più marchi evidenti e persino eccezioni a questo scivolare dolce di una stagione nell’altra nel clima mite, fatti inattesi: il candore e l’incanto di una visione innevata ne sono un esempio palese, spettacolo raro nel Salento che incita alla fanciullesca meraviglia di un’occasione da non perdere. Khalil non se la lascia del resto sfuggire. Occorre però, laddove i segni sono languidi e intimi, un lungo esercizio di raccoglimento per tirare fuori l’essenza emotiva delle cose nei diversi momenti e non confonderne i profili. Pensiamo al mare, all’ambiguità stagionale dei suoi perenni bagliori: bisogna qui apprendere ad ascoltare i venti che muovono nell’umidità sospesa con umori diversi, frequentarli per giorni, captarne le storie e i caratteri per distinguere certi intrecci fluenti e certi momenti della sua eterna vita dagli altri.

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Quei venti sono come una folla invisibile di voci, pensieri e racconti drammatici e duri, oppure fantastici e visionari; hanno attraversato i deserti, i mari e i continenti, hanno scompigliato capelli di gente di ogni tipo, hanno accarezzato mani e volti di generazioni di madri e bambini, ne hanno allora di cose da narrare a chi sa tendere l’orecchio. Il nostro mare, paziente ed empatico, accoglie da millenni queste loro storie, ne è talmente intriso che sa mutare colore, forme, ritmi interni, dinamismi e profumi a seconda di chi in quella folla di venti prenda la parola. Khalil ha come imparato istintivamente a disporsi intorno al focolare intimo dove questi convenuti si raccolgono, ci restituisce dalla riva, con discrezione, le istantanee dei discorsi che in quei simposi si consumano e le espressioni del mare in ascolto, persino i dialoghi tra questo e il cielo.

khalil torre uluzzo bassa

Coglie gli argomenti e il vissuto emotivo degli elementi, le smorfie del primo, le reazioni del secondo, immortala i loro pensieri nascosti e ce ne porge degli affreschi. L’uomo, nelle vedute di Khalil, non è mai un figurante ma l’apertura di una prospettiva su una porzione di mondo abitata dagli elementi e dalle cose, il punto zero di un incontro visivo con l’essere che spazio dal micro al macro-mondo, una silenziosa fessura sullo spettacolo delle forze naturali, un osservatore al margine dei dialoghi tra le cose e le forze.

khalil castello copertino interno

È in questo ascolto paziente dell’essere nelle sue manifestazioni che Khalil sembra trovare la sua ispirazione; ogni suo scatto è un invito a poggiare uno sguardo ricettivo su quei fenomeni, è uno sprone delicato a prendere coscienza del bello che semplicemente si dona, si offre a chi sa fare il vuoto facendosi umile spettatore per lasciar parola alla natura. Tale disposizione passa trasversalmente dal paesaggio al dettaglio, si volge con il medesimo rispetto e ascolto a un fiore, a una farfalla in cui vedere tutta la gioia di una primavera dell’animo, oppure, ancora, spazia immutata dalle distese acquee che brillano di un sole estivo fino alle distese di paesaggi di pietra o di nodosi ulivi millenari.

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Attraverso gli occhi di Khalil queste visioni divengono tutte declinazioni molteplici per l’avvio di un cammino meditativo sull’essere, percorsi diversi verso un’unica meta e direzione: il nodo tra noi e la totalità. Anche quando si sofferma su un segno antropico, non vi è mai nello sguardo di Khalil l’intenzione di una celebrazione dell’homo faber, dei suoi prodotti o delle sue architetture: traspare sempre in controluce un delicato inno all’appartenenza dell’umano ad una unità. Il cosmo qui si protende in proprie manifestazioni nelle opere dei suoi figli, tutto guarda e si volge ad un infinito paesaggio dell’essere che ricomprende anche ciò che viene toccato e modulato dalle mani umane.

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Nella fusione sinergica dei paesaggi o in qualche dettaglio antropico o naturale, ogni visione di Khalil invera allo sguardo e allude a un patto tra l’essere e noi, intesi come umili, silenziosi pastori di passaggio, chiamati soprattutto all’ascolto. Le geometrie di un muretto o di una costruzione a secco, le intersezioni di una volta o le tracce dell’umano in genere divengono prospettive che aprono a una contemplazione nostalgica di una totalità e di una unità che tutto riassume senza essere però mai presente. Il risultato è un’esperienza fotografica di un principio indicibile, invisibile e irrappresentabile intorno al quale tutto è però edificato e disposto, un richiamo alla contemplazione assorta di un vuoto, quasi si fosse al centro di una moschea i cui confini sono quelli dell’universo stesso.

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Lo sguardo delicato e meditativo di Khalil è prezioso nello specifico per i salentini anche per altro, per il suo venire cioè da lontano. Il suo è infatti un osservare capace di innescare e portare a compimento ulteriore il processo dinamico e aperto di un’identità, la nostra, è un vedere che ci fa un “noi” nel riflesso della visione altrui. Ogni suo scatto è da questo punto di vista un passo per un dialogo infinito che fonda un patto inclusivo, comprensivo ma non inglobante, quello tra due soggetti che si mantengono reciprocamente in un incontro propulsivo e generatore di nuove e inconsuete visioni del mondo circostante.

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Khalil se ne va infatti per i sentieri del Salento e ci fa vedere il non visto di ciò che nella narrazione immaginativa è il nostro scenario consueto, il Salento che abitiamo e viviamo ogni giorno, spesso ignari dei suoi tratti, in esso dis-tratti. Egli ci dice, illuminandolo pazientemente e con incanto, “anche questo è”, e nel suo indicare ci invita a vedere con gli occhi dell’altro confini più ampi e mai esplorati prima del nostro sé condiviso, delle sue manifestazioni e sfumature. Il suo è allora il dono che apporta sempre lo sguardo rinnovato e incantato di colui che incontra per la prima volta uno scorcio a cui siamo assuefatti, invisibile ormai alla nostra coscienza. A chi appartiene la bellezza del nuovo e più ampio dominio così rivelato? Appartiene, semplicemente, a chi entra in questo gioco e così lo può abitare, farne parte. Se questo Salento ci appare così, scatto dopo scatto, stagione dopo stagione, sotto nuove luci e come rinnovato per effetto di un’altra visione delle cose, non è che a questo dialogo, a questa interazione, che dobbiamo il dono di tanta bellezza: è a quello che siamo debitori. Ogni volta che si consuma il dono là si è almeno in due, là si consuma un abbraccio, un’interazione costruttiva di sguardi, in queste pagine il nostro e quello di Khalil.

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Una lucertola, in un pomeriggio d’estate

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di Pier Paolo Tarsi

Guardo dalla veranda i miei cani che rincorrono una lucertola più scaltra di loro, si rotolano nella terra rossa e arida, incespicando l’uno nelle zampe dell’altro. Sollevano nuvole di polvere, peli, ringhi e guaiti, poi d’improvviso si fermano: il rettile si è infilato in un buco imprendibile. Si abbeverano e tornano a sedersi ai miei piedi come avessero compiuto un’impresa eroica o almeno il loro sacrosanto dovere, quindi attendono forse una qualche mia ricompensa, magari due biscotti o qualche croccantino. Che coglionazzi. Torno a me, alla mia lettura, non è che io, anche se immobile e seduto, sia più quieto e capace di loro nei miei affari oggi. Tento sgraziatamente, sudato e stordito dalla calura, di cogliere nozioni che si incuneano tra le righe di un libro, mi distraggo facilmente, boccheggio e non mi riesce proprio di acchiappare i concetti senza rileggere almeno due, tre volte, come se i significati fossero rettili in fuga e in cerca di riparo. Come sia finito tra le pagine di in un libro che parla di tappeti e calligrafia islamica non lo so più, come diceva un tipo “le origini sono sempre oscure”. Mi distolgo ancora e mi viene alla mente il fatto di quel giornalista che è stato sospeso dall’ordine, giustamente o meno non saprei, per un pezzo giudicato islamofobo: gli costerà due mesi senza paga. Mi è appena tornata in mente una sua frase che aveva a che fare proprio coi tappeti da preghiera, odiosi perché a suo dire impregnati di “puzza dei piedi”. Ma lui, mi chiedo, ne sa veramente qualcosa di quei tappeti e dei significati di quelle selve e labirinti di simboli? Ne dubito, se conoscesse minimamente tali cose sopporterebbe anche la puzza credo, o non ci baderebbe tanto. Conoscere ci porta a sbarrare la strada in noi a certi automatismi ed istintive associazioni. Prendiamo una parola che più o meno tutti noi sentiamo ripetere in caso di attentati, morti e stragi. Corano. Basterebbe arricchire le occasioni in cui incontriamo certe parole per allentare i nostri legacci cognitivi. Basterebbero frasi come quelle che trovo qui, in queste pagine, per evocare in noi altre suggestioni e costellazioni di sensi legati a una parola: “Il prestigio degli scritti coranici era accresciuto dalla dimensione morale della calligrafia, in quanto una bella scrittura era considerata un’espressione di virtù e i calligrafi che copiavano il Corano facevano attenzione a trovarsi in uno stato di purezza rituale prima di iniziare la loro opera”. O ancora: “Interi capitoli del Corano venivano scritti su una foglia, o persino su un chicco di riso, oppure un intero Corano copiato in dimensioni tanto piccole da entrare in un guscio di noce”. Potrei continuare, certo, ma la lucertola si è riaffacciata fuori dal suo riparo, qualcosa di nuovo potrebbe accadere.

Il “Bignamino del Salento per turisti”

di Pier Paolo Tarsi

Il “Bignamino del Salento per turisti”. Eccolo per voi. Fatene buon uso, io tanto vado in montagna quest’anno, orcozio.

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ph Gianni Carluccio

 

Verso est
Per iniziare, da Lecce potrete raggiungere in poco tempo le splendide scogliere quanto le rinomate spiagge di San Foca, della poetica e messapica Roca, dell’animata Torre dell’Orso, della delicata Sant’Andrea e ovviamente d’Otranto, la superba e azzurra perla dell’adriatico, patria degli 800 Santi Martiri decapitati dai Turchi nel 1480, custode per antonomasia delle memorie dei nostri avi e sorgente perenne della cultura greco-latina, bizantina e mediorientale della nostra terra, da secoli, appunto, denominata Terra d’Otranto.

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Procedendo verso Sud sulla litoranea, vi inoltrerete subito nel tratto di costa più suggestivo della penisola salentina: con sullo sfondo le montagne d’Albania che si stagliano all’orizzonte, sarete rapiti dall’impeto di una bellezza indicibile che vi accompagnerà lungo tutto il tragitto. Come fosse un filamento argentato, la strada inanella le varie perle lucenti che si susseguiranno al vostro sguardo.

Grotta della Zinzulusa, Castro
Grotta della Zinzulusa, Castro

 

Dapprima giungerete a Porto Badisco e Castro, dove tutta la storia dell’Occidente è transitata: dall’uomo primitivo, che ci narra ancora di sé nelle grandi grotte della costa – come la grotta Romanelli, quella dei Cervi o, più oltre, l’onirica Zinzulusa in cui potrete inoltrarvi per una visita guidata tra stalattiti e stalagmiti -, ai Messapi, ai Greci e ai Latini, il cui padre Enea qui trovò il primo approdo per generare poi la grandezza di Roma antica.

Complesso di pajare con forno (foto nicola febbraro)
Complesso di pajare con forno (foto nicola febbraro)

 

Proseguendo, tra muretti a secco che tratteggiano giardini pensili a strapiombo sul mare, tra malinconiche e solitarie antiche torri che vegliano da secoli dall’alto, tra pagghiare e furnieddhi che si confondono con il roccioso e fiabesco paesaggio lunare, tra colorati fichi d’India che si inerpicano allegramente sulle opere dell’uomo e della natura, incontrerete dunque il fascino mediorientale e moresco di Santa Cesarea Terme, il mare purissimo e le scogliere di Marina di Andrano, di Tricase Porto, di Marina Serra e così via.

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ph Emilio Nicolì

 

Tra queste località, spiagge dorate si fanno ovunque spazio, circondate da pinete e vegetazione lussureggiante, riparate ad ovest da alture pietrose (le specchie) e declivi di terre ricoperte da ulivi (le serre), sulle quali sorgono costellazioni di poetici borghi, assopiti nell’incanto dell’immediato entroterra. Superate le vertiginose altezze del ponte Ciolo, giungerete infine a scorgere l’estremo faro della splendente Santa Maria di Leuca, il cui bianco riflesso vi preparerà allo spettacolo ultimo e sommo: il sublime incontro con l’infinito Mediterraneo.

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Da Nord a Sud
Nell’entroterra si ergono alti i dorati campanili barocchi di Lecce: dalla superba regina, ammantata dei suoi ricami scolpiti nella pietra leccese e nel carparo, seguendo la direttrice Nord-Sud potrete attraversare tutta la provincia salentina, lambendo incantevoli paesi e cittadine, veri e propri scrigni di bellezza artistica, di storie e di ricchezze enogastroniche.

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Qui potrete ad esempio degustare i prelibati vini di Leverano o esplorare le artistiche meraviglie di Nardò, visitare Copertino, la città del santo dei voli, San Giuseppe, o ancora assaggiare i tipici dolci pasticciotti di Galatina, luogo benedetto da san Paolo e meta delle tarantate alla ricerca della liberazione dalla possessione.

centro storico di Galatina
centro storico di Galatina

 

Procedendo incontrerete Martano, il più popolato dei nove comuni che costituiscono nel loro insieme la Grecìa, una rilevante porzione di Salento che si distingue per la sua specificità culturale e linguistico-dialettale di diretta discendenza greca, rinomata tra i salentini stessi per la peculiarità della sua natura incontaminata, per la bellezza antica e preservata dei suoi borghi, per la ricchezza culturale e paesaggistica rispettate e tramandate, per il suo patrimonio linguistico, culinario ed enogastronomico.

Da qui, ancora, potrete immergervi nell’eleganza di Maglie o nelle ronde scatenate e sensuali di Melpignano, sede della celebre Notte della Taranta; potrete cenare tra gli antichi menhir dell’entroterra idruntino o più a Sud, nelle tipiche trattorie del borgo incantato di Specchia o dei dintorni, fino a ridiscendere ancora nell’estremo punto della terraferma italiana, finibus terrae, la suggestiva Santa Maria di Leuca, là dove l’Italia finisce nel punto in cui il mar Ionio e l’Adriatico si incontrano per fondersi in un immenso abbraccio mediterraneo.

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Verso Ovest
Con la stessa facilità, da Lecce vi potrete immettere in una manciata di minuti sulle principali vie di collegamento in direzione Ovest, puntando verso la costa ionica, verso i rinomati lidi di Porto Cesareo e l’incanto delle sue isole selvagge che da sempre proteggono e custodiscono le sue vivaci riviere.

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Da qui, sedotti dal parco naturale di Porto Selvaggio, estasiati dalle scogliere popolate di luci e imbandite per gli aperitivi di Santa Caterina, incantati dal profumo orientale di Santa Maria al Bagno e dalle antiche fortificazioni diroccate delle Quattro Colonne, verrete attratti dalla magia di Gallipoli, con i suoi lidi in festa, con lo splendore del suo centro storico e i profumi irresistibili delle tradizionali ricette a base di pesce appena portato a riva dai pescatori.

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Più a Sud ancora, potrete rigenerarvi nel mare cristallino e sulle spiagge di miriadi di lidi che si susseguono da Marina di Mancaversa e Torre Suda, passando alle marine della messapica e dorata Ugento, o più oltre ancora, fino a Pescoluse, le cosiddette “Maldive del Salento”.

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Potrete ritemprarvi all’ombra delle antiche sentinelle costiere, le severe e imprendibili torri che nei secoli passati vegliavano sulla Terra d’Otranto cingendola tutta, difendendola dalle incursioni di pirati e saraceni provenienti dal mare: ai piedi dei colossi di pietra scoprirete graziosi villaggi e romantici approdi come Torre Mozza, Torre Pali o San Gregorio, poco prima di giungere nuovamente là dove l’alto faro sovrasta le sontuose e nobili ville moresche di Leuca.

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Copertino si scopre casa delle Sibille

una delle Sibille in S. Maria di Casole
una delle Sibille in S. Maria di Casole

 

di Pier Paolo Tarsi

Copertino si riscopre in possesso di un altro tesoro: il volto delle Sibille di Santa Maria di Casole! C’è sempre un enigma misterioso da svelare quando si tratta delle celeberrime profetesse, vergini che da millenni affascinano la cultura occidentale, dalla Grecia classica a noi, passando per la civiltà romana e la cristianità medievale e moderna. In effetti, risulta già inspiegabile capire come sia potuto sfuggire a tutti gli osservatori, storici e ricercatori locali, l’unicità che hanno invece colto ed evidenziato con questo studio Marcello Gaballo, medico e storico dell’arte locale, e il professore Armando Polito, entrambi colonne portanti della Fondazione Terra d’Otranto.

Grazie proprio al loro sguardo particolarmente attento, da oggi Copertino può vantare una eccezionalità che può divenire, se opportunamente divulgata e valorizzata con politiche culturali serie e a lungo raggio – ossia non estemporanee ma continuative, ben progettate e strutturate -, una ulteriore e nuova ragione per collocare di buon diritto Copertino nel circuito delle mete obbligate nei tragitti turistico-culturali e artistici del Salento e della Puglia.

il convento di Casole a Copertino
il convento di Casole a Copertino

 

Ci auguriamo che i nostri amministratori e gli operatori del settore turistico sappiano cogliere la preziosa opportunità che questa rivelazione apre al loro operato e al nostro territorio. Per dare una concreta idea del perché Santa Maria di Casole possa apparire oggi così speciale, basti pensare che, allo stato attuale delle conoscenze, su tutto il territorio pugliese non sono noti altri cicli completi delle 12 Sibille della tradizione. Anche a livello nazionale possiamo vantare la rarità dell’esempio di Casole: in mancanza di un censimento nazionale ufficiale che ci restituisca un quadro definitivo, pare dobbiamo giungere a Salerno o fino a Bergamo per poter scrutare il fascino affrescato che emana dal ciclo completo di tutte le 12 profetesse. Sappiamo invece ora con certezza che la famiglia al completo delle Sibille ha una casa anche in Puglia, precisamente a Copertino!

Sibilla Europa, in S. Maria di Casole
Sibilla Europa, in S. Maria di Casole

 

Al di là di questa importante e significativa segnalazione, già di per sé sufficiente a far comprendere la rilevanza del luogo e la necessità di scommettere sul fascino attrattivo di Casole – per esempio, riportando quanto prima alla luce tutto il corredo pittorico -, lo studio di Marcello Gaballo e Armando Polito evidenzia anche l’altissimo livello culturale della comunità religiosa che animava il luogo. Ne offrono prova la quantità e la rilevanza dei libri che appartenevano al Convento, parte dei quali si trova oggi nella Biblioteca Vergari di Nardò, i cui frontespizi sono peraltro riprodotti nel testo. Che sia proprio Casole, col suo fascino sibillino, uno degli snodi patrimoniali per rilanciare il potenziale attrattivo di questa città, favorendone un percorso di sviluppo turistico da far lievitare intorno alle inattese nuove risorse?

Questo luogo che ha rappresentato nei secoli un importante volano della cultura, oggi, mentre se ne svelano ulteriori valenze storiche e unicità artistiche, si candida infatti a divenire fonte e impulso di nuovo vigore per l’economia del territorio. Varrebbe dunque la pena investirci per renderlo uno degli altari su cui il nostro passato può celebrare il lascito del testimone ad un futuro sostenibile, tutto ancora da progettare e scrivere tanto per Copertino quanto per il Salento. Dipende solo da noi e dall’intelligenza politica locale a questo punto; la storia, come ci mostra egregiamente questo studio, ha già fatto ampiamente la sua parte, al punto che ci sorprende ancora con eredità di cui non eravamo nemmeno consapevoli. Ora è nostro compito saperle raccogliere, preservare e valorizzare in tutta la loro rarità.

Sibille sul sottarco di S. Maria di Casole
Sibille sul sottarco di S. Maria di Casole

Dobbiamo tutti imparare dai mistici

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ph Mauro Minutello

 

di Pier Paolo Tarsi

Oggi mi è capitato di ascoltare le confessioni e gli sfoghi tutti comprensibili e tutti ragionevoli di cinque persone diverse: un collega di lavoro, un imprenditore dedito al lavoro da una vita e come tanti della sua categoria stanco di lottare, un politico, un ragazzo, un conoscente; tutti i loro discorsi, che ho ascoltato con sincera partecipazione, si concludevano con un “ormai”.

Contesti e persone profondamente diverse, accomunate tuttavia dalla stessa stanchezza, dalla medesima idea di una disfatta imminente che ha già scavato nell’animo e ha già predisposto alla rassegnazione, ognuno schiacciato a modo suo dal peso di anni oggettivamente difficili. Ma cristo, lo vogliamo capire che noi, per il solo fatto di respirare, siamo obbligati a non darci mai per vinti?

Dobbiamo tutti imparare dai mistici il senso dell’abbandono totale a una fede, quella della certa, indubitabile e indiscussa idea che ce la faremo. E’ il compito di chi vive prendersi fino in fondo il diritto di essere ed essere nel migliore dei modi e dei mondi possibili.

Pituddhu pituddhu si azza parete

particolare del muro sul lato sud
particolare del muro sul lato sud

di Pier Paolo Tarsi

Pituddhu pituddhu si azza parete. In italiano sarebbe pietra su pietra si innalza un muro. Ma questa traduzione non è precisa, ed è in questa imperfezione che si apre un orizzonte di significati per la pratica nelle nostre vite. In questa imprecisione c’è un mondo che si potrebbe intravedere come dallo spioncino di una porta, un universo contadino che bisognerebbe comprendere e al quale non è facile dare voce senza tradirlo in immagini languide o retoriche, in cartoline falsate di un al di là storico ormai tramontato.

Lu pituddhu è meno di una pietra, è l’infima sfumata idea della materia rocciosa e tangibile. Per continuare a costruire un muro mettendo pietra su pietra ci vogliono tenacia e pazienza infinita, virtù sicuramente rare e fondamentali. Per innalzare un muro con pituddhi invece ci vuole altro, ci vuole la speranza.

Ed è da qui che potremmo iniziare a cogliere l’incolmabile abisso che si nasconde dietro un’apparentemente piccola sfumatura di sensi.

Orient Express. Il binario è vuoto

di Pier Paolo Tarsi

Nel centro storico di Lecce c’era un vecchio trenino a vapore pronto alla partenza sul binario per l’oriente eppure sempre là, immobile, come fosse un dipinto su una parete. In serata o a tarda notte potevi salire, solo o in compagnia, non importava, trovavi comunque il tuo comodo posto in carrozza. Bevevi qualcosa, gustavi il via vai nello scompartimento, potevi startene in silenzio o fare due chiacchiere con qualche amico o con il macchinista. Poi scendevi dal vagone e tornavi a casa, certo che un’altra notte, passando, avresti trovato il trenino sempre là, fermo, e certo che, a qualunque ora, saresti arrivato comunque in tempo per salirci e accomodarti per un ultimo bicchiere. Per anni molti di noi hanno fatto così, fino ad oggi, quando quel macchinista è infine partito davvero col suo trenino, lasciando dietro di sé una fumata di vapore caldo e denso da far lacrimare gli occhi a chi resta sulla banchina a guardare un binario vuoto.

Addio Rocco, è stato un piacere viaggiare tante notti con te in locomotiva.

 

http://www.lecceprima.it/cronaca/scomparsa-rocco-candido-orient-express.html

Il genio e la circostanza

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di Pier Paolo Tarsi

Una delle costruzioni più dure a morire è l’esistenza del genio individuale, di qualunque natura: scientifico, filosofico, militare, politico, artistico… Ci sono scoperte, invenzioni, imprese e conquiste che identifichiamo con questo o quell’individuo a cui le attribuiamo strettamente solo perché prescindiamo dalla situazione, di fatto questa è una mera semplificazione, un’astrazione. “Io sono io e la mia circostanza”, e con ciò Ortega Y Gasset disse sostanzialmente tutto.

Se guardiamo una regione dall’alto vedremo forse dal principio il profilo addensato e unitario di una città, un agglomerato a cui possiamo dare un comodo nome: una diremo che è Darwin, l’altra Einsten, una Dante, l’altra Cartesio o Steve Jobs e così via.

Tutto questo può essere molto utile e sbrigativo, permettendoci di prescindere dalle circostanze. Ma ovunque ci prendiamo cura di fare l’ingrandimento, se scendiamo per terra e mettiamo i piedi nella storia, ci accorgeremo che non esiste alcuno che possa portare legittimamente da solo il nome di quella città, frutto del contributo di molti uomini che in varie epoche edificarono una via qua, una piazza là, elementi che poi uno trovò il modo soltanto di unire facendone un percorso unitario, quando i traffici intorno a lui premevano per quella soluzione.

È questa propriamente che consideriamo l’atto creativo, la scoperta. Per dirla con Poincaré: “Creatività è unire elementi esistenti con connessioni nuove, che siano utili”. L’uomo non è un dio creatore ma un demiurgo che plasma il mondo e con ciò se stesso. Se davvero pensiamo, per porre un caso, che della “selezione naturale” ci abbia parlato di bello e buono Darwin è solo perché siamo a digiuno dei discorsi tra gentiluomini dell’epoca o trascuriamo le pratiche umane di allevamento che esistevano da millenni prima del nostro, o ancora molto semplicemente non abbiamo mai aperto “L’origine delle specie”.

Con ciò non si vuole negare il merito ad alcuni individui, si vuole solo restituire questi ultimi al tempo e alla storia, ossia a una data relazione e circostanziata interazione con altri simili che propriamente li ha abilitati, li ha resi più o meno capaci in questo o in quello.

Mitigare l’idea del genio e demistificarla non è un atto di invidia ma è un atto liberatorio per le forze cooperative dell’umanità, un atto con una portata etica che dovrebbe informare sempre l’educazione in quanto pone di fronte alla verità che si deve restituire all’umanità nella misura in cui ogni atto creativo è disporre con fatica della circostanza, ossia degli elementi creati dalle fatiche altrui.

Ciò significa che tutto appartiene all’umanità in generale, che tutto ciò che si è fatto dal principio dei tempi si è fatto almeno in due, o non sarebbe mai venuto alla luce.

Pertanto il bene, la fama o la ricchezza che potrebbero conseguire per l’individuo che vogliamo – giustamente – libero e intraprendente per sé stesso, padrone dei frutti della propria iniziativa e fatica, sono piantate nelle fatiche degli altri, dell’umanità tutta, e per definizione sono crediti di questa comunità che vanta interessi.

Decidere il loro ammontare è il fatto politico della giustizia sociale.

 

Il salentino non è che un’identità irrisolta…

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di Pier Paolo Tarsi

La fantasia, si sa, regala infiniti criteri per guardare nuovamente alle cose e agli uomini; nelle sue giocose combinazioni e negli intrecci possibili talvolta illumina aspetti propri del reale altrimenti invisibili, ad esempio qualcosa del carattere degli abitanti di questa terra. Allora, proviamo, immaginiamo due stirpi che convivono, la prima piantata nella terra, la seconda approdata dal mare e come destinata a tornarvi. Il salentino non è che un’identità irrisolta che si riavvolge senza posa tra questi due caratteri, tra un legame con la terra ed uno fatto di speranze e timori con i due mari. Non è gente di mare questa, sta e vive sulla terra, ma come in attesa che il mare non porti sventure, oppure si calmi e il vento sia favorevole per andare non si sa dove. L’ulivo ci dice il suo primo modo di essere, il suo radicarsi, il suo progettarsi nei millenni in un matrimonio con una terra a cui giura fedeltà. Ma fra i tratturi e le fronde si intravede sempre un orizzonte azzurro che cova una minaccia pronta a scompaginare tutto o, altrimenti, promette un’altra esistenza, un’altra occasione.

L’Università del Salento al tempo della Buona Scuola

immagine tratta da: http://www.oldsite.unile.it/ateneo/ateneo/sedi/
immagine tratta da: http://www.oldsite.unile.it/ateneo/ateneo/sedi/

di Pier Paolo Tarsi

Il nostro ateneo al tempo della Buona Scuola: alcune domande che il Magnifico Rettore dell’Università del Salento dovrebbe porsi urgentemente.

Leggo spesso di una perdurante e avanzante crisi del nostro ateneo dovuta a varie e diversissime ragioni, strutturali e contingenti. Una di queste ragioni è la spesso menzionata carenza di una fitta ragnatela di connessioni stabili e produttive con il tessuto territoriale. Non oso minimamente addentrarmi nelle difficoltà che la delicata questione implica, basti qui il richiamo ad una relazione evidente sulla quale certamente converremmo tutti e che non necessita di ulteriori giustificazioni: ogni passo indietro, di qualunque tipo e natura, sia compiuto dall’Università del Salento, costituisce un passo verso il baratro per il nostro territorio. E viceversa naturalmente. La consapevolezza di questo condiviso destino è la ragione per cui bisogna guardare all’ateneo salentino se si tiene alla crescita continua di questo territorio: un progetto questo semplicemente impossibile senza un’operosa università che abiti e vivifichi il contesto con saperi e competenze utili. Proprio a tal proposito un modesto spunto dal punto di vista di un insegnante vorrei fornirlo, sperando di non risultare con ciò supponente. Faccio il docente in una scuola superiore ai “confini” del nostro territorio, Manduria, una cittadina che si sente “leccese” pur essendo “tarantina”. La scuola italiana, come noto, è stata recentemente riformata in molti aspetti, pessimamente a mio parere, ma qua soprassiedo e considero solo un elemento positivo: la formazione continua dei docenti. Ogni insegnante a tal proposito avrà annualmente una somma di 500 euro a disposizione per spese legate solo ed esclusivamente (pena la restituzione) alla sua formazione e all’aggiornamento: libri, strumenti informatici, corsi di formazione. 500 euro per tutti i docenti, di tutti gli ordini e gradi, di ogni disciplina, di ogni scuola del territorio! Mica bruscolini! Al di là di ogni valutazione sulla questione bonus che in questa sede tralascio, credo che questa possa essere un’opportunità concreta intorno alla quale edificare una connessione costante tra università del Salento e insegnanti che operano sulle scuole del territorio. L’offerta di corsi, anche online, creati ad hoc da enti accreditati o altro, è praticamente già sterminata, la qualità degli stessi è spesso però discutibile. Alla luce di ciò, e andando subito al dunque, la questione da porre e affrontare quanto prima per il nostro ateneo è allora, credo, la seguente: cosa offre l’Università del Salento alla luce dei cambiamenti del contesto scolastico che interessa anche il nostro territorio? Cosa fa per intercettare il bonus di migliaia di docenti che vivono qua? Cosa offre l’ateneo alla massa di docenti che vogliono veramente approfittare dell’occasione di una cifra utile a formarsi? Cosa offre l’ateneo a quanti non vorrebbero soltanto comprare un pc all’anno oppure arricchire semplicemente un curriculum di titoli e relativi punteggi da esibire al prossimo dirigente scolastico che dovrà scegliere il suo staff? L’ateneo salentino sta organizzandosi per rispondere adeguatamente con un’offerta formativa pensata per quei docenti che, agendo in tutte (tutte!) le scuole del territorio, intendono innalzare il proprio livello culturale, premessa per meglio formare coloro che costituiscono il futuro del territorio? Non sono forse gli insegnanti gli unici che possono fortificare la preparazione di coloro che un giorno potrebbero rappresentare l’utenza stessa in ingresso dell’ateneo? Facciamo degli esempi concreti che solo chi lavora a scuola può fornire. Attualmente le aree di intervento del docente di sostegno sono di fatto abolite. Il che vuol dire che un docente di chimica impegnato sul sostegno potrebbe dover supportare un alunno con difficoltà di apprendimento in filosofia, o un docente di filosofia dovrebbe spiegare un circuito elettronico a un suo studente. L’Università del Salento, come ogni altro ateneo, offre corsi su singoli insegnamenti. Al momento sono un insegnante di sostegno in un agrario, mi piacerebbe allora molto – e tornerebbe molto utile sia a me che ai miei studenti – poter svolgere esami singoli di chimica organica, di zoologia, di biologia molecolare ecc. senza svenarmi e senza incappare in mille difficoltà organizzative per frequentare quei corsi. Non mi basta – e se mi bastasse non mi accontenterei comunque – quanto ascolto dai pur ottimi e collaborativi colleghi per aiutare i miei studenti in quelle materie: semplificare una lezione implica un possesso di conoscenze ulteriori, un orizzonte molto più ampio sulla disciplina di riferimento della quale si trattano specifiche nozioni o aspetti. Infatti, se c’è qualcosa che è difficile realizzare e richiede padronanza di una materia, è proprio il render semplice un contenuto, il riformularlo in mille maniere agevolando il processo stesso di apprendimento! E se domani passerò in un tecnico industriale? Quali nuove sfide dovrò attrezzarmi ad affrontare sul piano dei contenuti per far meglio il mio mestiere? Magari vorrò e dovrò impratichirmi in elettronica, mai studiata però all’università e nemmeno al liceo, avendo fatto lo scientifico! E quale miglior luogo dell’Università per colmare le mie lacune conoscitive? Così, ad esempio, mi domando: l’Università sta pensando a convenzioni con i docenti e con le scuole in questo senso? Fare un esame singolo attualmente ha un costo di 25 euro a CFU a Lecce, un esame da 9 CFU mi costerebbe 225 euro, poi dovrei acquistare i libri per studiare ecc. Che sia troppo dispendioso per un docente chiamato a formarsi continuamente e su molti, diversissimi, saperi? A Milano mi costerebbe meno, dal secondo insegnamento in poi quasi nulla! Che si possa pensare a convenzioni specifiche per i docenti delle scuole del territorio? Ancora, ammesso che il prezzo mi paia alla portata del mio bonus (lo stipendio è già impegnato, mi serve per sopravvivere ahimé!), come faccio a frequentare quei corsi se non vengono coordinati con le attività mattutine della scuola e spostati nel pomeriggio? Cambiamo esempi, e domande. Oltre ai corsi disciplinari già esistenti, è possibile che l’Università non possa concepire pacchetti formativi interdisciplinari, eterogenei e specifici per singoli aspetti della professione dei docenti, ossia organizzati tanto nei contenuti quanto nei tempi e nell’organizzazione per le particolari esigenze formative di chi opera in una scuola in continuo cambiamento? Perché, per esempio, per un corso di aggiornamento sulla dislessia o sulla valutazione nella programmazione per competenze devo affidarmi a questo o quell’ente formativo, a questa o quella Università online, quando l’ateneo salentino potrebbe predisporre – tanto in presenza quanto online – sulla base di personale e competenze di ogni disciplina di cui dispone, un’offerta formativa costantemente aggiornata, puntuale, mirata, concordata magari con le scuole stesse, meticolosa nella risposta ai bisogni formativi del contesto territoriale, delle scuole e delle reti già costituite fra queste? Perché università e scuole non si incontrano in queste forme di condivisione e scambio dei saperi e delle competenze, della programmazione formativa oltre che sul piano della ricerca sperimentale e persino degli spazi? Perché l’Università non si fa itinerante, non va incontro al territorio, per esempio non pretendendo che i professionisti vadano nelle sue strutture ma inviando le proprie risorse umane nelle strutture altrui per formare in loco, dove opportuno e richiesto? Perché questi steccati così vetusti e limitanti che qualunque ente di formazione ha già superato? In un mondo ormai fondato sulla formazione professionale permanente, cosa offre il nostro ateneo per i professionisti del territorio, a cominciare dagli insegnanti? Perché un’anziana signora che si laurea fa ancora prima pagina nel nostro territorio? Perché l’Università del Salento è organizzata solo intorno al cliché dello studente giovane e disoccupato? Siamo sicuri che un’utenza del genere è l’unica immaginabile o quella su cui primariamente puntare in un paese a natalità zero e in un mondo in cui la formazione si conclude con l’inumazione al camposanto? Le risposte operative a queste domande configurano delle possibilità a mio avviso realizzabili, aprono ponti percorribili, in breve, possono rappresentare spunti in grado di innescare un circolo virtuoso a vantaggio di tutti coloro che intendono vivere, formarsi e credere nel futuro di questo territorio.

Cultura e peperoncini

peperoncini

di Pier Paolo Tarsi

Vi racconto una storiella che vi fa capire cosa sia veramente cultura, e intendo tutte le declinazioni immaginabili della parola cultura, quella dell’homo economicus, dell’homo faber, l’humanitas in generale, la cultura pratica come quella teorica, quella spirituale come quella materiale, la cultura che dà forma a un uomo nella sua totalità.

Questa storia vi mostra dove queste dimensioni intrecciate in quel che siamo si manifestino davvero, non nei convegni, nelle aule, nei simposi, ma nei comportamenti minuti e quotidiani, azioni che ci dicono quanto un individuo sappia o meno riconoscere un valore (etico, economico, qualitativo, materiale, ecc.) nelle cose che incontra. Vedo da questa veranda mio padre coltivare per mesi con passione e fatica un orto nutrito solo di acqua e sole.

L’ultima settimana l’ha trascorsa a raccogliere da quell’orto dei peperoncini piccanti, a comporli in mazzi a cinquantine (roba da mangiarne con un mazzo per due inverni), a legarli e riporli con cura in una cassetta da portare nel suo negozio. “A quanto li venderai, papà?” gli chiedo ieri. “A un euro e cinquanta” mi risponde. “Ma sei pazzo?” gli dico. “Perché?”. “Tanto lavoro, tanta cura, tanta acqua, hai dovuto tirare via i fili d’erba uno alla volta per mesi per non usare la chimica e li vendi a quel prezzo?”. “Eh, lo so, eppure la gente non dà valore, non li compreranno nemmeno a quel prezzo”. “Impossibile – gli dico io – se vado a comprare cento grammi di peperoncino triturato e confezionato industrialmente in una bustina lo pago già di più, e non è certo coltivato come questo”.

“Vedrai”, mi dice dall’alto di una esperienza scrutata attraverso un sorriso di chi la sa lunga, più lunga di me. Oggi a pranzo mi ricordo di questa discussione di ieri, e gli chiedo “Beh, li hai venduti i peperoncini?”. “Solo un mazzo”. “Uno?”. “Si, a un euro, perché un euro e cinquanta non ha voluto proprio darmelo, e non mi andava di discutere”.

Mio padre fa il fruttivendolo da una vita, la cultura della gente sa valutarla molto più di un rettore del migliore ateneo al mondo; non gli occorrono report pieni di cifre e altre stupidaggini, ti pesa una persona come fosse una cassa di pere: gli basta uno sguardo, o al più scambiarci due parole, senza nemmeno replicare – è un taciturno mio padre – perché comprenda senza margini di errore le dimensioni e lo spessore di chi ha di fronte. Mio padre è un tipo molto paziente, a volte mi fa persino incazzare per quanto paziente sia. La discussione è continuata tra un boccone e l’altro, arricchendosi di dettagli: quella stessa persona che ha preso in questione uno sconto di cinquanta centesimi, ottenuto ciò che voleva, è entrato nel bar vicino, dove ha speso – e gli saranno in questo caso sembrate poco – due euro almeno in una birra industriale fatta di acqua distillata e aromi aggiunti. Capite quanto valgono i nostri aulici richiami alle buone pratiche agricole, le nostre lezioni di economia sostenibile, i nostri lunghi discorsi sul concetto di salute, sul rispetto dell’ambiente, sulla qualità della vita, e così via, all’infinito? Non valgono un cazzo. E sapete perché non valgono? Perché non sappiamo attribuire valore alle cose nel loro rapporto e nelle proporzioni, perché il dato economico impera sullo spessore culturale e sull’utilità vera che le cose e il tempo hanno: le cifre dettano il valore, quando è la cultura che dovrebbe dettare le cifre.

E’ per questa ignoranza profonda se, al di là delle cartoline turistiche, siamo una terra e una cultura al tramonto, è per questa ottusità che svendiamo la storia, il paesaggio, il saper fare; è per questa grettezza mentale che svendiamo e prostituiamo la fertilità e le risorse. Siamo, in poche parole, ignoranti come capre, le quali, almeno, sanno a quale erba puntare, aiutandole in questo discrimine la saggezza millenaria dell’istinto. Sapete come si è concluso il pranzo con mio padre? Lui, come sempre sereno e sorridente, avvezzo a questi fatti del resto già previsti e messi in conto, ha concluso così: “se quel peperoncino ti fa tanto incazzare, non lo venderò più, lo regalerò a chi ne apprezza il valore”. E questa, signori, è CULTURA.

Il tedesco in vacanza

da amando.it
da amando.it

 

di Pier Paolo Tarsi

Lo noti il tedesco in vacanza, e non solo per i suoi calzini. Non appena varca i confini del suo Paese e frau Merkel non può più vederlo, il suo super-Io germanico allenta il consueto rigidissimo controllo o se ne resta addirittura in patria insieme al lavoro, traspare allora da ogni gesto o movenza sciapita un nuovo essere umano rilassato; non gli par vero a questo nuovo tedesco di poter svoltare in auto senza “freccia”, gli si stampa in faccia un sorrisetto da monello impunito quando parcheggia un po’ fuori dalle strisce, e quando non c’è nessuno nei dintorni son sicuro che getti anche carte per terra, anzi, sospetto se le porti ogni mattina appositamente in tasca per dar sfogo alla sua nuova libertà. Se ne vedete uno è facile riconoscerlo in genere dal sorrisetto beato e dall’occhio ridente; se non siete del tutto sicuri che sia un tedesco in vacanza potete ricorrere a un test immediato, divertente e semplice semplice: accostatevi al presunto tedesco in vacanza con discrezione e, nel mentre combina una delle sue marachelle, urlate a caso qualche tenera parola della sua madrelingua. Non c’è bisogno di andare a lezione di tedesco, basta un “achtung” o, per i più arditi, un “Sie sah sie“: se vedrete che si il tipo si impala sull’attenti nel tempo compreso tra 1 e 5 nanosecondi, se gli si intristisce immediatamente il volto e se infine la sua schiena diventa un obelisco piantato in mezzo alla strada, ebbene, avete beccato senza alcun dubbio il vostro tedesco in vacanza.

I treni scontratisi in Terra di Bari e la voce di Eliana

puglia

di Rocco Boccadamo

 

Provo una profonda tristezza, giacché, per l’ennesima volta, sia a livello dei massimi sistemi e vertici istituzionali, sia sul fronte dei vocii, ritornelli e sproloqui d’ogni genere attraversanti i canali d’informazione e/o dei fiumi d’inchiostro versati sulle pagine dei quotidiani, ci si è lasciati andare senza controllo e al di là dei confini, addirittura abbandonandosi, da più parti e pulpiti, a odiose spettacolarizzazioni e strumentalizzazioni della vicenda del gravissimo incidente ferroviario fra Andria e Corato, che ha causato ventitré vittime.

Ancora più amaramente, mi viene di temere che non è e non sarà l’ultima stazione di siffatto calvario comportamentale sul piano del pubblico e singolo dire e sentire.

Ma io, comune e povero pugliese, come mi devo porre al cospetto di quanto accaduto, quale contributo può venir fuori dal mio ragionamento, ancorché ispirato, almeno come tentativo, al massimo buon senso?

Beh, intanto non devo aggiungermi al coro di cui anzi e tenermi ancorato, invece, a pochi, chiari, semplici e inoppugnabili dati di fatto.

Con l’aggiunta, semmai, di sparuti suggerimenti, se e in quanto utili e, nello stesso tempo, all’obiettiva portata delle nostre finanze pubbliche.

Niente più: in fondo, non solevano già i nostri “antichi” tagliar corto con l’affermazione, evidentemente ultra sperimentata, che “le chiacchere stanno a zero”.

°   °   °

La mia regione, per buona sorte di tutti e in primis dei suoi abitanti, non si trova affatto ai margini o all’ultimo posto in classifica, come meglio piaccia dire, del tessuto economico – sociale italiano.

E’ chiaro, vi sono carenze (dove non ne esistono?) e, però, a fianco di molteplici risorse, ricchezze naturali o dell’ingegno, intraprendenze.

Credo che sia ora di finirla con le polemiche a tutto campo, occorre guardare e cercare di affrontare i problemi con decisione, uno per volta, secondo una semplice e ragionevole scala di priorità.

La realtà del binario unico, teatro del disastro di questi giorni, non è una grave anomalia della Puglia; al contrario, in base a una tabella diffusa dal “Corriere della Sera”, la presenza, qui, di strozzature nelle rotaie è sotto la media dell’insieme delle regioni italiane.

I controlli sulla marcia dei due treni non hanno funzionato perché obsoleti o inadatti o inefficienti? Bene, basta togliere le deroghe, sul punto, date alle società concessionarie private rispetto alle regole vigenti e operanti sulle linee gestite dall’entità pubblica Rete Ferroviaria Italiana e definite tra le più efficaci e sicure su scala europea.

Errori da parte di taluni addetti? Purtroppo, non è la prima volta che, a monte delle sciagure, ricorrono manchevolezze umane, ma, al riguardo, le autorità preposte devono occuparsene a riflettori spenti, con tutte le prove e disamine possibili, con estrema serenità di giudizio.

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Di fronte al dramma, si è arrivati finanche a lanciare una campagna mediatica regionale a tutto campo, da Lesina a S. Maria di Leuca, per la raccolta di sangue, certamente iniziativa lodevole e d’indubbia valenza, ma per niente da collegarsi, nello specifico, al numero dei feriti bisognevoli di plasma: lo stimolo a donare il sangue va seriamente proposto in ogni dove e durante l’intero arco dell’anno.

Si ferma a questo punto la penna del comune osservatore di strada e narrastorie, rendendosi del resto conto, nella circostanza, di essersi accostato più a una tragedia che a una semplice storia.

Tuttavia, in conclusione di queste note, si ritiene di trascrivere l’intervento, profondo e puntuale da par suo, oggi pubblicato sul proprio profilo Facebook dalla cara amica leccese Eliana Forcignanò, giovane filosofa, poetessa e critica letteraria:

 

“Non dobbiamo temere la morte, perché, quando noi ci siamo, essa non c’è e, quando essa c’è, noi non ci siamo”. Questo scriveva Epicuro, tuttavia mi riesce difficile credere che, nell’istante in cui i due treni si sono scontrati, le vittime non abbiano incrociato, sebbene per qualche istante, il volto della morte. Per loro non vi è stato silenzio: il clangore nefasto dei treni che entrano uno nell’altro, lo stridere delle rotaie, le sirene dei soccorsi, le urla dei parenti, l’inutile frastuono delle polemiche, il cordoglio di tutti noi espresso con parole veementi di sdegno e sofferenza. Eppure, sono questi i casi in cui la parola, per quanto necessaria a un’elaborazione del lutto e a una canalizzazione della disperazione, rimane tristemente impotente. Né potremo mai sapere ed esprimere per mezzo delle parole ciò che hanno provato le vittime, né, forse, riusciamo a esprimere quel che ci tormenta adesso. Da un lato, l’idea che su quel treno potevamo esserci noi o un nostro congiunto; dall’altro, la rabbia verso qualcosa che serba ancora contorni troppo imprecisi per essere assunta come capro espiatorio.

  1. La generica accusa che si può muovere contro la politica, infatti, non ha poi note così diverse da quella che noi abitanti del Meridione siamo soliti muoverle sempre: ossia, di averci abbandonati a un destino “di seconda classe” – è tristemente il caso di dirlo – del quale non possiamo più essere artefici, se non attraverso la scelta individuale di andar via, di lasciare questa terra in cui siamo nati e cresciuti. Ma questa è una vecchia storia: la tiriamo sempre fuori e sempre la guardiamo inabissarsi nel sopravvivere quotidiano, almeno per chi resta. Poi, ti colpisce alla radio il pianto disperato del familiare di una vittima che chiede giustizia e prega: “Non lasciateci soli!” Anche in questo caso ti accorgi di quanto la parola sia impotente a esprimere la sete di giustizia. Si fa supplica la parola, una supplica struggente da cui traspare la rabbia, perché la logica continuazione di quell’appello sarebbe: “Non lasciateci soli anche questa volta”, ma, nei fatti, un destinatario cui rivolgere l’appello non c’è: il potere cambia faccia, la gente riprende la sua vita seppur nello sconvolgimento generale, ma il dolore, acuto e lancinante, appartiene a chi sopporta la perdita di una persona cara e rimane a noi impenetrabile. Allora, la domanda è quella che i Fontamaresi di Silone rivolgerebbero anche a noi: che fare? Qualcosa d’importante lo hanno fatto i donatori di sangue; qualcosa, per quanto di poco conto, può farla ognuno di noi ascoltando quella stanchezza che ci viene dal profondo: la stanchezza di vederci compianti e immiseriti, la stanchezza di dover supplicare per ottenere giustizia, la stanchezza di udire polemiche tanto bieche quanto sterili, perché, se è vero che la parola è impotente, molto può la consapevolezza di essere stanchi: chi è stanco si ferma, rifiuta di portare oltre i pesi, recalcitra. Forse, dovremmo fermarci, rifiutare, recalcitrare dinanzi all’ovvietà di certe consolatorie promesse e pretendere che venga davvero restituita ai nostri morti la dignità di esser caduti in una terra in cui, da sempre, è più facile cadere che rialzarsi. “Gettate foglie sui morti – scriveva il poeta Salvatore Toma – poiché sono essi i veri vivi”.

Lu Torinu

illuminazione

di Pier Paolo Tarsi

Il giorno di San Pietro e Paolo era l’unico giorno dell’anno in cui vedevo questo anziano cugino di mio padre, lu Torino. L’omaccione si presentava alla porta verso l’imbrunire, scambiava due parole con i miei con quel suo vocione profondo, grosso e ruvido, dopo di che mi prendeva in braccio o per mano e mi portava nella sua macchina, una vecchia topolino. Per strada non diceva una parola ma fumava una nazionale dopo l’altro, rigorosamente senza filtro, ogni tanto si girava verso me e aggiungeva soltanto: “appostu Pietrupauluuu?”. Io annuivo e si procedeva così per qualche altro chilometro. Giunti a Galatina parcheggiava verso la stazione, tirava via la leva del cambio in legno (un sistema antifurto ante-litteram) e se la portava in una mano. Con l’altra mano trascinava me tra le bancarelle e le luminarie, fino alla piazza del paese, il centro della festa, dove a un angolo c’era il venditore di scapece. Appena ci vedeva sbucare, quello interrompeva ogni trattativa o vendita in corso e tirava fuori una bottiglia di vino con un pezzo di sedano che fuorisciva dal collo di vetro e tre fette di pane, una per me e le altre due per loro. Mangiavano la scapece accompagnandola con quel pane e si passavano la bottiglia, che ogni tanto finiva anche tra le mie mani, mentre parlavano forse di affari e altre faccende per me incomprensibili. La mia unica occupazione era tenere in mano la mia razione che puntualmente non riuscivo a mandare giù, fino a quando non trovavo il coraggio di dirlo a Torino. Lui allora borbottava qualcosa amaraggiato dal mio rifiuto, non riusciva proprio a capacitarsi che a qualcuno la scapece potesse non piacere; alla fine, sbuffando e alzando le spalle, accettava. Finito lui l’ultimo pezzo di pane, tornavamo alla topolino, infilava la leva del cambio al suo posto e ripartivamo. Sulla via del ritorno, tra una sigaretta e l’altra, la frase diventava “t’ha piaciuta la festa Pietrupauluuu”, io annuivo, e si procedeva così fino a casa. Sono passati più di trent’anni da quelle sere, ma io, ogni 29 di giugno, aspetto ancora che sbuchi la topolino di Torino da un momento all’altro.

 

Sullo spettacolo di Taurino

di Pier Paolo Tarsi

(https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/06/26/antonello-taurino-e-lo-scherzo-del-secolo-a-gallipoli/)

Foto di scena 1

Non giriamoci attorno e andiamo subito alla domanda che il pubblico pagante si fa di fronte a uno spettacolo comico: fa ridere? Si, fa ridere eccome, fa ridere tanto davvero. E già questo, a molti, potrebbe giustamente bastare, sebbene non a Taurino, sospettiamo. Per chi non si accontentasse potremmo dire qualcosa di più intorno a questo far ridere, per esempio potremmo chiederci: fa ridere tutti?

Qua le cose si complicano, e come spesso capita nella vita è proprio la sfiga, quella che ci segue anche a teatro, a regalarci le risposte e le intuizioni migliori sulle cose: in sala (in realtà il meraviglioso Chiostro di San Domenico a Gallipoli) c’era un solo ragazzino, uno solo. Indovinate dove era seduto? Già, alle spalle di chi scrive!

Non era uno spettacolo per lui, tant’è che dopo mezz’ora il ragazzetto parlottava ormai solo, faceva acrobazie scomposte e rumorose sulla sua sedia e delirava preoccupantemente, rifiutandosi ormai anche sua madre di spiegargli perché lei e l’amica se la ridessero tanto. Certo, non pareva un tipo molto sveglio per dirla tutta, ma questo, in ogni caso, ci dice qualcosa sul “come” arrivi a regalarci risate Taurino, ossia qualcosa sulla sua specifica vena comica che non ne fa uno spettacolo per tutti, seppur decisamente per molti. Un limite questo? Niente affatto, una caratterizzazione semmai, da cui partire per qualificare i modi dell’arte di Taurino in questo spettacolo scritto, costruito e interpretato da lui.

Arte, e niente affatto solo arte comica. Anzi, di fronte alla coscienza chiara di questo fatto ci mette la costruzione che Taurino tiene in piedi per quell’ora e mezza che vola, letteralmente: far divertire il pubblico è una cosa molto seria e le competenze da mettere a frutto sono davvero tante, da ricercare anche laddove non ce le aspetteremmo mai. Nell’universo e nella cassetta degli attrezzi dello storiografo per esempio: Taurino, dal mare di Gallipoli, ci trasporta sin dai primi minuti nel porto di Livorno, e lo fa come fosse uno storico di professione, con rigore di fonti, dettagli, documenti di ogni genere, e con in più la capacità di far divertire mentre per mano ci conduce a rivivere il processo da cui, sin dal 1500, emerge un’identità corale, lo spirito, la forma mentis del popolo livornese.

Ci svela così il farsi storico di quella tipicità ridanciana dei livornesi, inconfondibile, provinciale e un po’ sboccata, quel loro sguardo “vernacoliere” sulle cose che alleggerisce tutto, l’origine di quello scarto che rende la vita meno greve, meno pisana per dire, ché con la gravità, si sa, i pisani hanno sempre avuto i loro problemi. Con tali premesse, con questo ricorso ai modi di uno storiografo sui generis, Taurino ci immette nella cornice giusta per rivivere fino in fondo quanto accaduto nei giorni di una noiosa estate dell’84, per comprendere cioè il capolavoro assoluto, il fatto storico per eccellenza dell’uomo livornese, l’apoteosi di quel suo modo di stare al mondo e prendersene gioco: sono i giorni in cui tre ventenni prenderanno in giro la città, la nazione, il mondo intero. Complice il caso, magistrale regista di una storia che si complica ad ogni snodo, si arricchisce di toni e sfumature (persino giallistiche a tratti), di protagonisti, attori e profili più o meno comici – e tragici; e complice un Black&Decker ovviamente, quello con cui i tre realizzarono una delle tre finte teste di Modigliani ritrovate nel canale, intaccando la pietra e la reputazione dei più illustri studiosi.

Quello che ne seguirà sarà “l’undici settembre” della storia e della critica dell’arte italiana e non solo. E se credete che non ci sia nulla di peggio dell’undici settembre, è solo perché non ricordate cosa accadde il 13 settembre dell’84 in quel di Livorno: ve lo spiegherà Taurino, se vorrete.

L’intreccio delle vicende, narrato con padronanza della scena, è complesso e ricco di colpi di scena fino all’ultimo, ma all’attore riesce una difficilissima semplicità e di quanto fosse contorto il mosaico non ve ne accorgerete nemmeno. Giovano alla riuscita anche costanti ausili: sul palco vengono proiettate foto, reperti, stralci di giornali, la voce di Taurino riporta altisonanti giudizi di critici d’arte e pomposi discorsi di assessori “alla scultura”, creando spesso dissonanze assurde e comiche con quanto intanto l’occhio vede o lo spettatore viene scoprendo sui falsi di Modì.

Alla fine vi alzerete molto divertiti, ma anche pieni di dubbi e domande che Taurino stesso sollecita e lascia volutamente aperte: chi ha veramente fatto lo scherzo a chi? Tutto ciò è un dramma, tessuto da un destino un po’ beffardo, o una commedia voluta almeno in parte da uomini? Il problema dell’arte (e non solo) è l’essere o il riconoscimento? Il vero autore di un’opera d’arte è colui che sa tenere lo scalpello in mano (o il Black&Decker) o è il corale tessere di un riconoscimento in cui tutti siamo artefici, più o meno credibili o smentibili?

Le mie donne

mimosa

di Pier Paolo Tarsi

A capo del sistema per cui lavoro vi è una donna (Giannini, ministro del Miur). A capo della mia scuola una donna, la preside. A capo del comune in cui vivo una donna, il sindaco (o la sindaca, per usare una boldrinata). A capo della famiglia in cui sono cresciuto una donna, mia madre. A capo di questi anni della mia esistenza una piccola donna, mia figlia. A me sembrano più indifesi e deboli i panda francamente. Ma non insisto, soprattutto oggi che ho fatto una concessione anche io al significato di questo giorno.

Da due anni faccio sempre lo stesso tragitto, la incontro sia all’andata che al ritorno là, a volte seduta per terra, a volte seduta dentro una vecchia e grossa carretta grigia con targa straniera. Che ci sia pioggia, vento o sole, è sempre al suo posto come fosse un elemento del paesaggio, come gli ulivi che le stanno dietro o il segnale stradale che subito dopo indica la svolta per la mia destinazione. Ho comprato un ramoscello di mimosa anche io oggi, uno solo. Mi sono fermato sul ciglio della strada, nonostante la paura fottuta che passasse qualcuno che potesse riconoscermi e fraintendere. Ho preso il ramoscello comprato per lei e l’ho consegnato senza dirle niente altro che “ciao”, prima di ripartire, lasciando che sia lei a dare il senso che vuole al mio gesto.

Non ne ho alcuno da imporre del resto, non sapendo nulla del perchè sia là, se quella donna senta un qualche bisogno di emancipazione oppure no, se quella condizione sia una sua libera scelta oppure no.

Posso presumere solo che lo abbia gradito dal sorriso in cui si è illuminata, dal bagliore che per un attimo ha ravvivato quegli occhi azzurri e assenti che ogni giorno, al mio rapido passaggio da perenne ritardatario, mi guardano senza davvero vedermi. E dubito sia solo per la velocità.

La barchetta

barchetta

di Pier Paolo Tarsi

Erano due le ragioni per cui quello era divenuto il mio posto. La prima era la gravità. Uscendo da quella scuola che si affacciava su una strada in pendio si poteva procedere in salita o in discesa. In salita, verso destra, si andava verso un bar fighetto. Lì la musica di sottofondo era sempre quella del momento, i baristi e le bariste erano belli e giovani, sorridevano mentre servivano professionisti ben vestiti con le loro valigette 24ore. Tutto tintinnava e brillava là dentro, il corvino dei capelli di una ragazza alla cassa, i bicchieri, le tazze, le macchine per fare la cioccolata. Era tutto così pulito e armonico da vedere, persino le coreografiche decorazioni sulla schiuma di latte nelle tazzine erano impeccabili. Insomma, era tutto tremendamente insopportabile. Uscendo procedevo spedito a sinistra, spedito perché in discesa, non per altro. La mia ora buca, la mia ricreazione, le mie attese in vista di una riunione pomeridiana le trascorrevo con Battista, l’anziano barista dell’altro posto. La seconda ragione. Si stava soli nella sua bettola, e si chiacchierava o si stava in silenzio, a seconda della giornate. Ci si comprendeva al volo. La storia era semplice: quattro ripiani, un frigo, una macchina da cui quello, da secoli, mungeva come da una dea madre un caffè vero, nero, forte, una cosa che avrebbe steso almeno tre o quattro checche dell’altro bar in un solo sorso. Si poteva anche fumare là dentro, Battista le sue Muratti, io il mio mezzo toscano, tanto non sarebbe venuto nessuno a romperci i coglioni, a parte sua moglie di tanto in tanto. Eravamo a 30 metri dalla mia scuola e ancor meno dalla stazione, ma non sarebbe venuto nessuno, si poteva star tranquilli. Beh, oggi sono venuto io però, a trovarti Battista. Dopo tanti anni, costretto a passare dal tuo paese, mi sono poi spinto fin là per te. E tu mi muori così, senza nemmeno un ultimo caffè, senza una delle tue invettive su Berlusconi o un panegirico sulle fabbriche di scarpe che erano state la gloria del tuo paesino. E pensa, che ti ritrovo? Un bar fighetto, come quello là sopra, colorato e lindo, con una ventenne spalmata di fondotinta che sorride e serve birre alla moda a tutti. Per un attimo ho pensato fosse una tua nipote. Macché. Nuova gestione mi dice, e tu da un paio d’anni hai mollato tutto, pure la pelle. Va bene Battista, fatti questo viaggio se così deve essere. In discesa, mi raccomando, dove porta questa prima o poi ci si rivede. Arriverò su questa barchetta che ho fotografato per te, quando vorrà prendere il largo.

Storia di Pallo, pesce rosso filosofo

 

da acquariodigenova.it
da acquariodigenova.it

di Pier Paolo Tarsi

Quando ero piccolo andavo ripetendo che da grande avrei fatto il “dottore degli animali” (veterinario era parola impronunciabile per me), andavo pure collezionando album di figurine del WWF (e non di calciatori) e riviste sugli animali. Il primo libro che mi feci deliberatamente comprare si intitolava “L’enciclopedia del cane”, dovrei ancora conservarlo da qualche parte. Un librone che mi feci mandare per corrispondenza tramite una cartolina preaffrancata che avevo trovato su qualche settimanale che circolava per casa, un acquisto che fu peraltro l’innesco di un invio continuo mensile di libri non richiesti, protrattosi per anni nonostante le disdette, insomma l’inizio di un incubo per tutta la famiglia che si chiamava “Club degli Editori” o qualcosa del genere. Questa però è un’altra storia, che interrompiamo subito. Tra i pochi oggetti del desiderio di un futuro “dottore di animali” c’era anche un grande acquario per i pesci. Andavo continuamente ripetendo a cinque anni o giù di là che ne volevo assolutamente uno. Ebbene, qualcuno se ne ricordò a dir poco tardivamente il giorno del mio diciottesimo compleanno, quando un imponente acquario mi venne regalato, seppur ai miei occhi una cosa del genere era ormai poco più di un ingombro di cui non avrei saputo proprio che fare. Ad ogni modo onorai quel regalo fingendo di apprezzarlo come avrebbe fatto quel bambino che ero stato; comprai, seppur senza convinzione e voglia, una colonia variegata di pesci di ogni tipo e provenienza, delle piante acquatiche e qualche sasso con cui arredare il mio acquario. Sistemai il tutto lungo una parete di quello che era il mio studiolo, proprio di fronte alla scrivania dove da lì a poco avrei iniziato a studiare filosofia. È così che nella mia vita entrò Pallo. Pallo è il nome che quel pesce non ebbe mai da vivo e che gli ho dato ora, mentre scrivo, un po’ come comodo espediente narrativo, un po’ come riconoscimento postumo. Tra i ricercati, raffinati, coloratissimi e costosi pesci esotici che avevo acquistato per riempire di vita quell’acquario, Pallo era invece l’unico esemplare del più comune, umile e banale essere acquatico che potesse esserci in commercio, cioè l’unico pesciolino rosso. Ma non solo: Pallo divenne molto presto anche l’unico superstite di quella colonia di pesci, tutti morti nel giro di una sola settimana dall’acquisto, tutti tranne lui! Dall’ottavo giorno, dopo la suddetta moria, iniziai a entrare in quello studiolo con una speranza che non osavo all’inizio confessare nemmeno a me stesso, per un certo senso di colpa che ne scaturiva: la mia giornata di studio iniziava cioè con l’attesa di veder galleggiare Pallo privo di vita come tutti i compagni che lo avevano preceduto e potermi così liberare senza macchia di quell’acquario, rivendendolo in fretta. Un’attesa però puntualmente tradita: ogni mattina Pallo era là, testardamente attaccato alla vita, alla quale si tenne aggrappato a lungo! Intendiamoci, non che avessi nulla contro il povero Pallo, semplicemente mi inquietava il suo andare avanti e indietro dentro quelle pareti di vetro col suo sguardo fisso sempre addosso a me, seduto là di fronte a lui, piegato sui libri e costretto a star così per non vederlo. Nei riflessi della prigione d’acqua di Pallo iniziai infatti a vedere molto presto la mia miseria da studente, costretto a stare in quei tre metri quadrati di puzzo di fumo e poca luce tutto il santo giorno. Ma non era solo per questo che la sua presenza mi inquietava, c’era molto di più; il suo vano passaggio che non avrebbe mai condotto ad alcuna meta giunse infatti molto presto a valere per me come una denuncia incontestabile della condizione di ogni essere, me compreso: un affannarsi senza senso e senza uno scopo ultimo e definitivo, un girovagare inutile interrotto solo qua e là da momenti di gioia passeggera. Per Pallo quei momenti consistevano in qualche manciata di mangime che ogni tanto mi alzavo a gettargli. Io ero un po’ la sua sorte benevola che ogni tanto si affacciava a gettare il pizzicotto di manna, ed anche questo mio ruolo non voluto mi inquietava, un’attribuzione non richiesta della parte del dio provvidenziale che mi pesava non poco. Se riuscivo a sopravvivere al passaggio nelle pagine di Pascal, di Nietzsche, se riuscivo a non soccombere al pessimismo di un Leopardi o di uno Schopenhauer o all’angoscia di un Kierkegaard, al nichilismo di questo o quell’altro, la visione di Pallo non mi dava invece alcuno scampo. Qualunque espediente intellettuale cui ricorressi per non annegare nel non-senso del vivere che quelle grandi menti con lucidità denunciavano negli scritti che dovevo per forza studiare, nulla poteva invece contro l’inconfutabile argomento che Pallo mi sbatteva in faccia col suo semplice e inconsapevole galleggiare di qua e di là. Mi bastava alzare gli occhi e incontrare il suo sguardo fisso, nudo e crudo come l’amara e spietata verità che rispecchiava, per rinunciare a qualunque lotta e arrendermi all’accettazione, all’infrangersi di ogni mio moto di negazione e ribellione. Vi domandate, immagino, quando sia morto Pallo? Ebbene, Pallo stava là, implacabile e indifferente, il giorno in cui mi laureavo, e là stava ancora mentre accumulavo titoli post-laurea e altre stupidaggini: fu l’ombra di un percorso di studio durato molti anni, e mi lasciò infine soltanto quando insegnare iniziava a divenire il mio compito, quando soprattutto la lezione della sua ombra era divenuta per me serena premessa del buon vivere. Caro maestro terribile che galleggi chissà dove, coi tuoi occhi che scrutavano senza turbamento o un batter di ciglio una verità che ha fatto invece tremare, impazzire e disperare i migliori tra noi uomini, accetta questo mio tardivo riconoscimento, e perdonami se finora non ho avuto l’intelligenza di tributarti l’onore del nome, quello di Pallo, il vero filosofo la cui ombra inquietante mi ha guidato.

Un salentino tra gente di lidi nordici

pizzica

di Pier Paolo Tarsi

Conviene a volte essere tipi stereo. Capita infatti di trovarsi unico salentino tra gente di lidi nordici, con donzelle che ti guardano come fossi un animale esotico, convinte soprattutto che in culla la nonna ti faceva ballare la pizzica dalla mattina alla sera, prima ancora di insegnarti a camminare. Tu assecondi, per non rinunciare al loro interesse per l’esotico, non ci pensi proprio a dire la scomoda verità.

Poi, una sera di bagordi, verso la fine, dalle casse parte la pizzica. Tutte a quel punto si voltano a guardarti, aspettandosi qualcosa di meraviglioso e ipnotico a cui darai vita. Ora, tu sai benissimo che tra i tuoi pochi e scomposti schemi motori acquisiti disponi solo di un vago e sgraziato gesto che deve rispondere alle più svariate esigenze di ballo, dal tango argentino alla mazurca emiliana, dalla dance internazionale alla pizzica o ai balli tirolesi.

Ripensi in quell’attimo a tutte le cose che hai scritto contro la pizzica nel corso degli anni, a tutti gli strali scagliati in direzione della notte della taranta, ed anche allo sguardo severo che gli amici storici ti rivolgerebbero se fossero lì e se ti azzardassi a fare quel che tutte si attendono. Disperato devi tuttavia sorridere, e cercare rapidamente una soluzione.

Non possono valere scuse relative a improvvisi dolori a una gamba o a un’emicrania folgorante. Riguardi le donzelle, chiedi scusa agli amici storici in cuor tuo, e finalmente scomodi il tuo schema motorio “modalità ballo”: “signori, questa che sto per fare è la più antica pizzica che si conosca, altro che le cose moderne che vedete alla notte della taranta, su all together, suuu, venite tutti”. Cerchi di sopprimere le lacrime che vorrebbero scendere, tiri su col naso e ti lanci in un obbrobrio scombinato e insensato per qualche secondo, il tempo che le donzelle si mettano a ballare la pizzica.

Poi t’arresti, assecondi quasi le lacrime “scusate, scusatemi, la nostalgia di casa ragazzi, la lontananza…la nonna che la ballava sempre mentre nfilava tabacco…cambiate canzone per favore, cambiate”

Animal ridens

di Pier Paolo Tarsi

 

Cenni primi

Quanto segue intende essere uno scritto molto serio a proposito di ciò che per antonomasia non pare essere argomento da prendersi seriamente: la magia del ridere. Il mio intento è dimostrare la portata esistenziale del buon umore e dello spirito umoristico, il che è molto distante da un qualsiasi tentativo, che cediamo volentieri al lavoro degli psicologi e dei medici, il quale voglia soffermarsi, ad esempio, sulla portata terapeutica presunta o dimostrata di una “sana” risata. Il lavoro intende essere molto serio caro lettore, per cui sorridi pure!

 

Cenni secondi

La riflessione di chi scrive intorno al ridere e la scoperta della sua fondamentale importanza venne ispirata nei primissimi giorni da studente universitario. Un tempo le matricole assistevano nel loro ingresso presso le Università ad ufficiali prolusioni accademiche, alcune delle quali, come è noto, sono rimaste celeberrime e patrimonio della cultura universale; una usanza questa oramai del tutto estinta ed alla cui mancanza ogni buon studente tenta di riparare come meglio può: da brava matricola il primo giorno in facoltà ascoltai anche io allora il primo discorso tenuto da un docente. Ancora

Gli echi della Magna Grecia e di Bisanzio nell’antologia dedicata al più antico dialetto del Salento

Recensione pubblicata sul Sole 24 ore del lavoro di Brizio Montinaro, Canti di pianto e d’amore dell’antico Salento, Bompiani, Milano 1994-2001.

Un eroico lamento cuore della <gricità>

di Dario Del Corno

A Calimera, un’amena cittadina della Terra d’Otranto che porta nel suo stesso nome il gentile augurio di una “buona giornata”, l’alloro è detto dafni. Così, secondo il mito, si chiamava la ninfa amata da Apollo, che per sfuggire al dio si tramutò nella pianta che incorona i poeti. Per entrambi i nomi, non si tratta di un prestito isolato dall’idioma greco. A Calimera, come in alcuni paesi circostanti ed in altri della Calabria, sopravvive un’isola linguistica dove si parla il <<grico>>, un dialetto che presenta una sostanziale affinità con la lingua della vicina Grecia.

Le tracce di questa derivazione si perdono addietro nel tempo: il Salento fu uno degli approdi privilegiati dagli antichissimi colonizzatori, che tradussero nel nome stesso di Magna Grecia la nostalgia della patria abbandonata e l’ammirazione per il nuovo territorio della loro vita.

Ma la penisola salentina fu anche uno degli epicentri più tenaci della dominazione di Bisanzio in Italia; e ancora nel XIII secolo D. C. i poeti bizantini di Terra d’Otranto, raccolti in una bella antologia da Marcello Gigante (Galatina, 1985), testimoniano la vitalità di una letteratura, che di fronte all’espansione della lingua romanza intendeva rimanere fedele ai modi di una lunga tradizione.
Si discute fra i dotti se il <<grico>> risalga a quei lontani albori della Grecità italica, o se le sue origini vadano piuttosto accostate all’epoca di Bisanzio e alla sua lingua. Per entrambe le ipotesi militano buoni argomenti; ma forse non è necessario ricorrere a una tanto drastica alternativa.

I bizantini sovrapposero un nuovo impulso a una cultura che non aveva mai smarrito il senso della remota ascendenza ellenica, e che proprio per tale

Nella magia del Salento: il viaggio di ricerca di Brizio Montinaro nelle tradizioni arcaiche di Terra d’Otranto

Brizio Montinaro e Massimo Ranieri

Una breve e insufficiente premessa

Sono tante, troppe e spesso immotivate le presentazioni che iniziano con una formula retorica e stereotipa del tipo: «è difficile raccontare, per gli svariati interessi e i tanti meriti, una personalità come…». Non avremmo mai voluto, pertanto, ricorrere a questo logoro topos della scrittura, eppure stavolta vi siamo davvero costretti. È infatti impossibile qui evitare un simile incipit, come francamente impossibile è tratteggiare adeguatamente la personalità di Brizio Montinaro in poche righe che siano, anche minimamente, sufficienti a cogliere la ricchezza che si riflette nei suoi contributi in campi e contesti così diversi, così fortemente eterogenei, al punto che – come si legge nel suo sito web – non sono stati pochi quelli che, prendendo un comprensibile abbaglio, hanno spesso creduto all’esistenza di più omonimi a cui attribuire le tante attività del medesimo individuo. Attore impegnato di cinema e televisione a livello internazionale, artista, uomo di teatro e di spettacolo in tutte le sue forme oltre che scrittore, etnografo ed antropologo raffinatissimo, tutto ciò è contemporaneamente e brillantemente questo salentino. Rinunciando allora, in coerenza, ad aggiungere altro a quanto ogni Spigolatore interessato non possa scoprire direttamente e liberamente dal suo ricco ed esaustivo sito personale  – www.briziomontinaro.it -, in questa sede ci limiteremo soltanto ad indicare, d’ulteriore, un unico tratto umano che abbiamo personalmente riscontrato in Montinaro e che teniamo dunque a testimoniare: la sua completa e generosa disponibilità, qualità alla quale dobbiamo la condivisione senza indugi dei suoi sforzi e delle sue affascinanti – quanto metodologicamente impeccabili – ricerche antropologiche in Terra d’Otranto a beneficio di tutti gli Spigolatori.
Proprio per invitare e approcciare questi ultimi a tali studi – di sicuro interesse per loro-, proponiamo di seguito un pezzo introduttivo al lavoro di ricerca più che quarantennale di Montinaro, un brano originariamente pubblicato su “Quotidiano” dallo studioso Ennio Bonea e qui riportato su gentile concessione del nostro nuovo, prezioso, compagno di spigolature, al quale offriamo così – a modo nostro – il più cordiale e sincero benvenuto.

Pier Paolo Tarsi


Dal tarantismo ai lamenti funebri della Grecìa (morolòja) fino al libro “San Paolo dei Serpenti

di Ennio Bonea

Il “viaggio di ricerca” di Brizio Montinaro, sulla realtà arcaica del Salento immutato per secoli e che oggi sta scomparendo, quello contadino, è iniziato negli anni Sessanta-Settanta da Calimera, suo paese natale, per toccare l’area della cosiddetta “Grecìa Salentina”, comprendente i paesi dove si parlava il dialetto indigeno, detto “grico”, una volta undici poi ridottisi a nove quindi a sette ed attualmente, con rari dialettofoni sopravvissuti alla cancellazione per

FLY SALENTO: salentini con le ali

di Pier Paolo Tarsi

Non è per nulla vero – come vanno i più pessimisti ripetendo – che qualche goccia di meraviglia e, per dir così, di sempre atteso seppur non preteso incanto, non possano senza sforzo alcuno pioverci addosso, dall’alto, senza nulla aver fatto per meritarle. Credetemi, persino i più pigri, arroccati nelle indolenti attese di eventi lieti non rincorsi, accomodati nell’immobilità più o meno quieta dell’accidia, hanno spesso le loro occasioni per rallegrarsi e smuoversi dall’apatico torpore.

Insomma, piccole gioie ci cascano talvolta in testa senza nemmeno cercarle,

Emigranti ieri e oggi

di Pier Paolo Tarsi

 

Un sottile e ininterrotto filo rosso lega in Italia le dinamiche sociali migratorie interne dal dopoguerra ad oggi, emergendo come una durevole tendenza che si fonda, ieri come oggi e nonostante le pur importanti differenze storico-contestuali, sull’incolmato divario economico tra Nord e Sud del Paese.

Tra i dati del recente “Rapporto SVIMEZ sull’Economia del Mezzogiorno”, pubblicato il 16 luglio ‘09, balza agli occhi l’impressionante cifra di 700 mila individui che, tra il 1998 e il 2008, hanno dovuto abbandonare il Mezzogiorno per collocarsi nel mercato del lavoro centro-settentrionale.

Si tratta per lo più di giovani (l’80% ha meno di 45 anni), provenienti nell’87% dei casi – in ordine di consistenza numerica – da Campania, Puglia e Sicilia e diretti principalmente in Lombardia, Emilia-Romagna e Lazio, con un livello di studio medio-alto: il 24% è laureato, il 50% svolge professioni di livello elevato. «Nel mezzogiorno – si legge nella sintesi del rapporto – le debolezze della rete formativa italiana si associano ad un contesto produttivo debole e ad un sistema sociale sostanzialmente bloccato, impedendo così ai progressi quantitativi realizzati nei tassi di istruzione di tradursi in sviluppo economico e civile» (Sintesi Rapporto SVIMEZ).

Dal 1992 al 2004, prosegue il Rapporto, i laureati meridionali che hanno studiato al Nord e lì sono rimasti sono arrivati a toccare il 67% del totale; in vistosa crescita inoltre le partenze dei laureati eccellenti del Sud: se nel 2004 «partiva dal meridione il 25% dei laureati col massimo dei voti, tre anni più tardi la percentuale è balzata a quasi il 38%» (Ibidem).

Sulla scia di questi dati, possono emergere al contempo tanto la continuità quanto la radicale diversità dell’attuale tendenza migratoria rispetto a quella storica che vide il boom tra gli anni Cinquanta-Sessanta: per un verso infatti le impressionanti cifre della grande emorragia di giovani e manodopera di alto livello che dal Sud confluiscono e vengono assorbiti nel Centro-Nord riportano alla memoria i grandi esodi dei primi decenni del dopo-guerra; dall’altro, se, come si legge nel citato rapporto, «è la carenza di domanda di figure professionali di livello medio-alto a costituire la principale spinta all’emigrazione», possiamo immaginare quanto diversamente si connotino dal punto di vista della fisionomia sociologica e antropologica i due fenomeni migratori.

Lo sfondo della grande migrazione interna che interessò il Paese nel Dopoguerra è quello di un’Italia che marciava verso un rapido boom economico fondato sulle attività impiantate nel triangolo industriale secondo una concentrazione che assecondava e rimarcava, ampliandole, più antiche differenziazioni e disparità socio-economiche.

I capoluoghi industriali del Nord-Ovest, come Torino e Milano, erano infatti tra le mete primarie di quelle masse di meridionali che abbandonavano a milioni un meridione contadino in cui vana e illusoria si era rivelata la riforma agraria, attuata dal governo centrista negli anni ‘50: questa, ai primi segni di ripresa industriale, non era riuscita a contenere il fenomeno di migrazione dalle campagne che avrebbe piuttosto assunto proporzioni imponenti proprio alla fine di quel decennio.

Appartiene a tale massa di individui l’emigrante meridionale, il contadino per lo più illetterato e un po’ spaesato, la cui immagine, fedelmente restituitaci dall’immaginario fotografico, documentaristico e cinematografico (implacabilmente neorealista), si completa di una valigia di cartone in stazione, ben legata a contenere forse pochi stracci e tante speranze, già nutrite e coltivate dall’ancella più fedele dell’incipiente civiltà del benessere, la cassa di risonanza fantastica privilegiata della società di massa, ossia la televisione: «Soprattutto tra i più giovani il desiderio delle attrattive offerte da una città divenne dilagante quando dalla televisione del bar di paese apparirono le nuove immagini di un mondo consumistico fatto di vita mondana, di campioni sportivi, di attrici famose, case piene di elettrodomestici, gite domenicali nella Fiat di famiglia» (Fofi G., L’immigrazione meridionale a Torino, Feltrinelli, Milano 1975).

Per molti versi quei sogni e quelle speranze divennero realtà attraverso la realizzazione di un benessere economico dovuto proprio al sudore di quelle braccia volitive.

Quasi tutto da allora è mutato nella forma, quasi niente, si è costretti a concludere, nella sostanza: se infatti, come indica il rapporto SVIMEZ, masse sterminate di giovani sono ancora costrette a spostarsi da un capo all’altro dell’Italia inseguendo i propri sogni di personale realizzazione, quel sottile filo rosso di cui si diceva non si è allora affatto spezzato nei decenni e, ancora oggi, dopo mezzo secolo, segnala come l’ago in una bussola la stessa medesima direzione di allora: da Sud a Nord!

Sono mutati profondamente i particolari e le manifestazioni di uno sfondo divenuto nel frattempo post-industriale: le valigie di cartone colme di stracci e vivande nelle stazioni hanno lasciato il posto ad agevoli trolley riempiti di notebook di ultima generazione o lettori iPod con cui intrattenersi e ingannare l’attesa di un viaggio, il quale potrebbe risultare discretamente lungo e noioso anche nel XXI secolo qualora non si abbia avuto modo di prenotare un volo low-cost su Internet.

Tutto è mutato, tranne forse l’essenziale: quel particolare mondo industriale post-bellico nel cui ambito gli storici hanno rilevato una importante matrice del divario economico nel Paese è definitivamente tramontato nei suoi costituenti, non altrettanto può dirsi tuttavia per il divario stesso che lo caratterizzava.

Individuare le ragioni di ciò è compito di critica e auto-critica che richiede un’analisi complessa dell’intera realtà economico-sociale in cui viviamo, compito che non si tenta nemmeno di accennare qui ma che basti indicare al lettore come impresa conoscitiva cui lo si vorrebbe spronare per il bene del Mezzogiorno stesso.

Un pomeriggio a Poggiardo, anzi no, a Vaste!

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Da tempo mi ero ripromesso per qualche ragione che non rammento più di andare a visitare Poggiardo e quel meriggio assolato, che non volevo occupare con impegni ed incombenze varie per nulla allettanti, mi sembrò ideale per mettere in atto il mio proposito e fuggire così da ogni altra occupazione. Lasciai dunque, portandomi appresso la mia indolenza, il mio paese, Copertino, alla volta della mia destinazione con tra le labbra un toscano ammezzato (il mio inseparabile compagno di viaggio) ed in bocca ancora il gusto di un robusto caffé rigorosamente made in Salento preso al mio solito bar prima della partenza.

Dopo più di mezz’ora in auto sulla sempre deserta SS 664 (di questa solitaria strada che corre in mezzo al nulla al centro della nostra penisola dovremo tornarne a parlare prima o poi, io la trovo fantastica e devo confessare che ogni volta che la percorro mi sento come un novello Jack Kerouac maledettamente on the road!) confluii sulla Maglie-Leuca e presi lo svincolo per Poggiardo. Non ricordo più quanta strada feci una volta uscito dallo scorrimento veloce, so per certo invece che appena entrato a Poggiardo decisi di non fermarmi subito nel paese ma proseguire per iniziare la mia visita dalle frazioni. Era mia intenzione infatti fare le cose per bene, ossia con ordinato rigore logistico e completezza, onorando dunque con una visita prima le appendici di questa cittadina per poi potermi dedicare lungamente al cuore di essa.

Ebbene, vi anticipo sin da ora che le cose non andarono affatto come previsto tant’è che ancora oggi, a distanza di due anni o forse tre dal pomeriggio di cui vi parlo, devo ammettere di non aver mai visitato Poggiardo, nonostante che la determinazione con cui avevo messo in atto il mio proposito quel pomeriggio possa avervi condotto a credere il contrario.

Si sa, la vita è bella perché tocca con l’imprevisto, disordina i nostri progetti contaminandoli col l’imprevedibile e ci conduce così a vie che non avremmo altrimenti mai immaginato di percorrere, a strade che non avremmo mai conosciuto, a incontri che non avremmo mai fatto, mai ricordato, mai potuto narrare. Bisogna accogliere gli imprevisti che il caos degli eventi accidentali, erompendo con la sintassi indecifrabile dell’imponderabile e dell’indeterminato nei nostri intenti, ci dona. Il mistico san Giovanni della Croce era solito dire in proposito «per raggiungere il punto che non conosci, devi prendere la strada che non conosci»; è proprio il caos che regala gli accessi alle vie sconosciute che altrimenti secondo le nostre intenzioni non percorreremmo, così è proprio la contingenza casuale degli accadimenti che mi ha regalato gli eventi e le piccole esperienze di cui vi parlerò.

Attraversata dunque per una via esterna la tanto ambita Poggiardo, alla quale potei offrire solo qualche frettoloso sguardo sugli squarci che tra le abitazioni si aprivano verso il centro vero e proprio della cittadina, proseguii per alcuni chilometri, dopo i quali ritrovai un cartello che mi invitava a svoltare a destra, aVaste, la prima delle varie frazioni che nei miei piani avrei dovuto visitare.

reperti messapici nel museo di Vaste

Dopo duecento metri ero già a destinazione. Mi fermai subito perché sulla mia destra vi era un giardinetto pubblico con al centro un baretto ed accanto a questo un pannello informativo che non avrei sperato di trovare, uno di quelli che riportano le mappe del luogo. Parcheggiai e andai prima a prendere un caffé nel bar, dove, oltre al barista, vi erano due signori. Nella completa indifferenza di questi individui nei miei confronti bevvi frettolosamente l’amata bevanda e uscii, appostandomi accanto al cartellone informativo per dare un’occhiata ed orientarmi velocemente.

il “tesoretto” di Vaste

Non c’era da smarrirsi per la verità, ero praticamente quasi già al centro di Vaste, avrei solo dovuto percorrere i duecento o trecento metri di strada che mi separavano dal punto in cui ero per giungere fino ad una piazza che potevo da lì già intravedere e che costituiva tutto il centro vero e proprio. Realizzai che stando così le cose ci avrei impiegato molto poco a visitare quel luogo e avrei così risparmiato tempo per la visita al pezzo forte. Ma questi miei calcoli si rivelarono, come vi ho già anticipato, del tutto errati.

Fu mentre meditavo su queste cose accanto a quel cartellone che, trascinandosi chissà da dove con una pachidermica lentezza, era giunto lì anche un uomo vecchissimo che mi si avvicinò, magro, vestito con panni troppo pesanti per quella calda giornata di primavera e troppo larghi, munito persino di un cappello. Lo salutai, come si usa sempre fare in luoghi così poco affollati, ed egli mi rispose con un lungo quanto criptico monologo fatto di stanche parole biascicate e per me, soprattutto a quel primo impatto, del tutto incomprensibili. Fu così che conobbi Geremia – scoprii molto più tardi il suo nome. Dopo che quello ebbe terminato il suo monologo – nel corso del quale io ero intento solo a commiserare me stesso per l’impiccio di quell’incontro da cui non sapevo come svincolarmi senza essere brusco o maleducato –  fece una pausa di cui stavo per approfittare per congedarmi salutandolo, quando quello mi chiese, stavolta in modo sufficientemente comprensibile per instaurare un dialogo, da dove venissi. Gli risposi e quando egli udì il nome del mio paese sorrise e ricominciò a vomitare la sua tiritera di parole che non riuscivo nuovamente a cogliere. Ne avevo avuto abbastanza, così risalutai e stavolta con fermezza mi portai all’auto, in cui mi precipitai risoluto a spostarmi da lì, senza più prestare ascolto a quel vecchio. Percorsi alla guida quei pochi metri che mi conducevano alla Piazza e potei finalmente dare inizio alla mia visita di Vaste, completamente deserta ed immersa nel sole giallo di quel caldo pomeriggio.

Su un lato della piazza si affacciava un grazioso castello, le cui antiche mura correvano fino a una chiesetta costruita all’angolo che delimitava il centro. I restanti lati della piazza erano costituiti invece dal prospetto di vecchie case che lì si affacciavano con le loro corti antiche, immerse in una quiete silenziosa, talmente silenziosa che mi sentii obbligato a chiudere con garbo il portellone dell’auto cercando di non far troppo sacrilego rumore. Sulla piazza, leggermente rialzata rispetto alla strada che la attraversava e sulla quale avevo parcheggiato la mia rumorosa e sfatta carretta, vi erano nuovamente diversi cartelloni informativi che non mi sarei ancora una volta aspettato di trovare, disposti a costituire un cerchio. Raccontavano la storia di quel luogo, informavano del passato di quella piazza – oggi dedicata a Dante – che un tempo aveva rappresentato il centro cultuale di un insediamento dei Messapi. Sempre lì trovai informazioni sul castello che avevo di fronte, detto palazzo baronale, le cui sale del piano terra erano adibite a museo di archeologia. Capii inoltre, leggendo il contenuto stampato sui pannelli, che la mia visita non sarebbe più stata così breve come avevo creduto perché avrei dovuto riprendere l’auto e spostarmi verso la periferia di Vaste, nelle circostanti campagne, dove avrei trovato secondo quanto era scritto il cosiddetto Parco dei Guerrieri, ossia il parco archeologico che ospitava la ricostruzione delle antiche mura difensive messapiche di quello che fu uno dei centri più attivi e popolosi di questo antico popolo che dell’estremo lembo d’Italia – e nello specifico di Vaste – aveva fatto la sua terra millenni prima di noi. Dalle parti del Parco dei Guerrieri avrei avuto modo di visitare anche i resti di una necropoli paleocristiana costituito da tombe ricavate nella roccia, disseminate intorno ai resti delle strutture delle fondamenta di quattro chiese sovrapposte e oramai distrutte, la più antica delle quali risaliva al V secolo d.C.

Riordinai mentalmente il materiale di tante scoperte che non mi attendevo – in precedenza avevo infatti solo distrattamente visitato il sito internet di Poggiardo e non avevo colto l’importanza e la ricchezza di siti di Vaste – e decisi di cominciare la mia visita dalla chiesetta posta all’angolo della piazza, in attesa che il museo aprisse dato che, leggendo un biglietto apposto sulla porta, avevo dedotto che ero in anticipo e che avrei dovuto attendere ancora un quarto d’ora per potervi entrare.

Misi dunque in atto quanto deciso, non ricordo nulla di quanto vidi nella piccola chiesa fortunatamente aperta e fruibile, evidentemente non mi colpì particolarmente. Quando fui fuori la sorpresa però mi colse: il vecchio Geremia mi si stava avvicinando nuovamente con il suo lentissimo passo, pensate che aveva impiegato tutto quel tempo a percorre le poche centinaia di metri che mi separavano dal punto in cui lo avevo lasciato mezz’ora prima. Capii che non mi sarei liberato tanto facilmente di lui e gli diedi ancora modo di parlare con me: del resto meritava un po’ di considerazione visto che aveva fatto con le sue stanche membra tutto quello sforzo per venirmi appresso. Devo dire che stavolta non fu al principio molto originale, mi chiese infatti nuovamente da dove venissi, ed io educatamente con pazienza gli nominai ancora Copertino.

Pensai che quel minuto vecchietto dovesse essere affetto da morbo di Alzheimer visto che la stessa domanda me l’aveva posta prima, ma è possibile che mi sbagliassi. Probabilmente la verità era che Geremia non disponeva che di quell’unica strategia comunicativa per attaccare bottone con uno sconosciuto ed esprimere così il suo bisogno di contatto con l’altro: purtroppo siamo spesso portati da un pregiudizio contagiante a considerare quasi sempre la vecchiaia di per sé come una fonte di malattia e i vecchi come delle incubatrici di strani disturbi senili, nonostante la lezione di Cicerone col suo De Senectute o i tanti consigli di un Seneca che da secoli – molto prima dell’attuale medicina e dell’odierna psicologia – ci insegnano coi loro saggi che la vecchiaia è solo un processo naturale della vita, con le sue proprie virtù ed i suoi propri limiti, dunque esattamente il contrario di ciò che per definizione è una malattia, la quale è piuttosto un arresto del naturale scorrere dei processi della vita che viene deviata verso ciò che propriamente può dirsi patologico.

la cripta dei SS. Stefano a Vaste

Fui io poi a porgergli una domanda, gli chiesi quanti anni avesse. Geremia iniziò allora uno dei suoi monologhi a cui oramai mi stavo abituando, dal quale però stavolta qualcosa qua e là riuscii a cogliere. Capii che stava lodando la giovinezza che in lui era trascorsa e che ravvedeva in me, mi invitava a suo modo a godere pienamente dei miei anni; cominciò poi a biascicare una specie di filastrocca in rima di cui riuscii a cogliere solo le parole finali, benché egli la ripetesse a manetta: «…correte, venite da Geremia, solo cose buone e tanta cortesia». Intuii in quel modo che Geremia doveva essere il suo nome e quella rima una sorta di slogan pubblicitario ante-litteram che egli aveva in passato usato per decantare chissà quale mercanzia per i mercati del sud. Gli chiesi allora che lavoro avesse fatto nella vita e da un elenco di nomi di frutti con cui mi rispose capii che Geremia doveva essere stato un venditore ambulante di ciò che elencava. Pensai che quello era stato lo stesso mestiere del mio nonno paterno morto prima che io nascessi e fui tentato di chiedergli se lo avesse per caso conosciuto o incontrato per le vie dei mercatini salentini di un tempo. Ma ciò sarebbe valso a pretendere troppo dal mio vecchio compagno, benché stavolta si fosse riusciti a capire qualcosa l’uno dell’altro. Mi accorsi a quel punto che il museo era stato finalmente aperto, mi congedai così con una pacca affettuosa dal mio fortuito Cicerone di un pomeriggio assolato e percorsi i pochi metri che mi separavano dall’ingresso del museo, giunto al quale vi entrai senza ulteriori indugi.

Appena dentro incontrai un giovane seduto dietro una scrivania, evidentemente il guardiano del museo. Ricordo che appena mi scorse questo si diede cura di fingere una professionale indifferenza e un recitato distacco mentre doveva in realtà essere non poco colpito dalla mia presenza: sarò stato l’unico visitatore per quel giorno, o addirittura per quella settimana – ci scommetterei i pochi spiccioli che ho. Quando salutai, al mio accenno di procedere oltre verso le stanze del museo, egli mi chiese con un leggero accenno di disagio e qualche tentennamento nella voce due euro per poter accedere alla visita e dopo che ebbi pagato mi consegnò diligentemente, con un fare da ragioniere meticoloso, un piccolo biglietto di ingresso come ricevuta.

«Bene – pensai – a quanto pare i Messapi sono di casa qui». I Messapi, su questi si sa complessivamente tanto poco che io colmavo queste lacune archeologiche e storiografiche con dei miei personalissimi ricordi: i Messapi allora mi facevano pensare solo a certe sudate bestiali fatte un anno prima con Tamara, una mia amica, artista padovana di origine armena da trent’anni residente nel Salento, tanto cara quanto instancabile (benché ultrasessantenne), con la quale in un pomeriggio d’agosto – ella presa forse dalle prime avvisaglie di un rimbambimento senile ed io, allora ventisettenne, da un rincoglionimento congenito – avevamo traversato come novelli ricercatori per due ore i siti archeologici dell’insediamento messapico di Roca Vecchia sotto una calura che sfidava i quaranta gradi, rischiando una insolazione ed un ulteriore aggravamento delle condizioni già fragili delle nostre strambe menti. Roca Vecchia, che posto meraviglioso però!

Alle abbandonate riserve delle rovine archeologiche, circondate da una lunga e grigia rete di ferro bucata qua e là su cui compaiono ancora ogni tanto dei cartelli affissi chissà quanti anni prima dalla scuola archeologica dell’Università di Lecce, fanno da contorno le scogliere ricche di ripari, grotte e degli anfratti di mar Adriatico più strabilianti che conosca, al di là dei quali all’orizzonte si intravede nelle giornate limpide il profilo delle alture dell’Albania. E non è un caso che proprio a Roca, a coronarne lo splendore, vi sia la cosiddetta Grotta della Poesia, una conca di acqua azzurra che si apre tra gli scogli, in comunicazione col mare tramite gallerie lunghe diverse decine di metri scavate con permanente pazienza dai secoli nella roccia. Ricordo che un mio amico pittore abbastanza anziano e bizzarro anch’egli, si vantava con me di aver dato in gioventù con alcuni amici il nome a questo posto che secondo lui non ne aveva uno e che egli considerò talmente bello da meritarsi proprio quello. Non so se ciò fosse vero o fosse una delle tante panzane del mio pallonaro amabile amico, né so se sulle guide turistiche si accennerà mai a questo suo battesimo, a me però va bene credere che sia andata proprio così, del resto la Grotta della Poesia meriterebbe davvero l’appellativo che la connota proprio per la sua bellezza.

necropoli di VasteRicordo inoltre che ogni volta che mi recavo alla Grotta, durante un’estate trascorsa a lavorare nell’amena località di Torre dell’Orso posta a pochi chilometri da lì, dato l’isolamento e la relativa difficoltà a raggiungere il posto, era facile trovare i lisci massi della scogliera che circondano il luogo affollati di punkabbestia e soprattutto di giovani donne rigorosamente in topless. Non so come mai in quelle occasioni, forse lo splendore del posto, forse la chiarezza cristallina dell’acqua o l’ilarità che sempre circondava il luogo, mi hanno sempre fatto trasmutare fantasticamente le donne dai seni nudi che lì incontravo in delle ninfe che si rinfrescavano lungo i torrenti dell’Arcadia, ed in quei momenti io credevo d’essere davvero un satiro gaudente che si stava ritemprando dopo aver preso parte ad un orgiastico corteo di baccanti.

Abbandoniamo qui la frescura estiva della Grotta della Poesia e le mie fantasie ellenico-classicheggianti di quei giorni al mare ormai andati, dovute forse all’aere intonsa dei fumi di marijuana dei molti punkabbestia presenti in quel luogo più che alla sua poetica bellezza, per tornare al museo di Vaste di cui dicevamo.

Con quella mia lunga e attenta visita alle varie stanze di quella meravigliosa collezione di ritrovamenti messapici – ma anche di epoca romana e medievale – le mie curiosità sui Messapi furono ampiamente ricompensate, i miei interessi per questi nostri avi ne uscirono rinnovati, arricchiti, rigenerati. Questi, da quel giorno, non sono più stati per me il popolo sulle cui ataviche tracce avevo rischiato l’insolazione ed una morte prematura insieme all’amica Tamara, non più soltanto gli uomini che avevano popolato le bellezze delle nostre coste adriatiche dove avevano edificato i primi porti e i primi insediamenti e su cui poi si erano assestati prepotentemente i Romani: quel giorno, in quelle sale illuminate per me soltanto, potei cogliere lo splendore della loro arte, dei loro manufatti e tutta la ricchezza della loro civiltà nei segni e nei lasciti che nei millenni si erano fortunatamente preservati per giungere fino a noi.

Quando uscii dal museo, rinnovando i miei saluti al custode che era rimasto per tutto quel tempo lì dove lo avevo lasciato, mi resi conto che perduto in quell’incanto vi avevo trascorso quasi due ore.

Tutto quel lasso di tempo non aveva però ancora sopraffatto il mansueto Geremia, il quale era lì in paziente attesa, non avendo evidentemente di meglio con cui occupare la sua semplice giornata che attendere me.

Ne fui tuttavia persino lieto, rabbonito e rasserenato come ero da tutto quello splendore appena goduto che mi aveva messo di buon umore e mi ridisponeva di gran lena al contatto con il mondo, così fui io stavolta ad andargli incontro.

Mentre Geremia farfugliava qualcosa, quando gli fui accanto, cominciò a dirigersi lentamente verso un arco ricavato dalle mura del Palazzo Baronale che conduceva alla parte posteriore dell’edificio da cui ero uscito. Mi invitò in tal modo – senza inutili parole – a seguirlo ed io, che iniziavo ormai ad accettare l’idea di dover rinunciare alla visita di Poggiardo, mi avviai con quel vecchio per le vie sconosciute del suo paese. Attraversato l’arco giungemmo in un piccolo ma grazioso giardino molto curato e incastonato tra le alte mura degli edifici baronali. Chiesi a Geremia se quello fosse stato in passato il cortile interno del Palazzo ma egli si limitò a sollevare le spalle e ad aggiungere, fissandomi negli occhi, “Giardino!”. Capii quanto fosse stupido da parte mia cercare di ottenere informazioni di quel tipo da Geremia, il quale con quel suo fare bonario mi aveva fatto sentire come quegli scienziati che mettono sotto i riflettori delle proprie indagini qualcuno e quel qualcuno, lungi e avulso dagli stessi interessi scientifici che animano i primi, non può che considerarli un po’ svitati, e talvolta a ragione, almeno in quel mio caso.

Ci lasciammo il giardino alle spalle e svoltammo a destra in una viuzza tondeggiante sulla quale a un certo punto il mio compagno si fermò e si mise a chiamare a gran voce su un uscio. Pensai che dovesse essere quella la sua abitazione e stavo per andarmene quando da lì uscirono due giovani donne ed una graziosa vecchietta fortemente ricurva su se stessa ed accompagnata da un bastone.

Dalla reazione di quelle compresi che non eravamo a casa di Geremia ma stavamo facendo una visita alla vecchia. Una delle donne, che quando si rivolgeva a Geremia lo faceva in dialetto, si rivolse a me in italiano (come si usa fare talvolta nel Salento con gli sconosciuti, coi quali non si adopera la confidenziale lingua materna) chiedendomi se fossi un volontario! Beh certo, la domanda era pertinente, cosa ci faceva un ragazzo mai visto prima in quel luogo desolato in pieno pomeriggio in compagnia di un vecchio signore un po’ strambo che non era suo parente? Non poteva che essere un volontario di qualche istituto per opere pie o in servizio civile. Risposi il vero, ossia che ero lì solo per visitare il museo ed esplorare un po’ il posto.

Geremia mi sorprese molto per la lucidità che mostrò in quell’occasione. Con quella vecchietta sorridente egli parlava e si esprimeva in modo molto più chiaro e comprensibile di quanto non avesse prima fatto con me, ad un certo punto le mise persino scherzosamente e con evidente tenerezza il suo cappello in testa, ridendo e provocando il riso di tutti. Seppi dalle ragazze che stavo assistendo alla visita che una volta al mese, da tempo immemorabile, Geremia faceva a questa vecchietta, moglie di un suo defunto amico. Pensai che quella sua strabiliante trasformazione era forse dovuta alla forza di un amore impossibile e non consumato che mi piaceva immaginare nel passato tra i due, o magari, chissà, quei vecchi condividevano semplicemente un mondo di ricordi dentro cui a noi altri spettatori era precluso l’ingresso.

A quel punto però dovetti salutare perché ero deciso a proseguire nella scoperta di quei luoghi, fu quella l’ultima volta che vidi Geremia e non credo che lo rivedrò mai più. Percorsi tutto il viale su cui abitava la sua vecchia amica, svoltai a destra due volte e sbucai nuovamente nella piazza del castello, dove avevo lasciato l’auto. La mia destinazione non poteva essere più Poggiardo, benché stesse iniziando a imbrunire dovevo andare a visitare invece, a tutti i costi, quello che nei brani scritti sui pannelli era chiamato il Parco dei Guerrieri e i dintorni di cui vi ho detto: i miei progetti iniziali si erano definitivamente infranti, sgretolandosi contro gli inattesi splendori che mi stava rivelando quella che avevo creduto una frazione cui dedicare al massimo pochi minuti e che mi trattenne invece fino alle ultime luci del giorno.

Quando da lontano scorsi delle grandi figure in bronzo raffiguranti dei guerrieri, posti sui cumuli delle cinte murarie qualche anno prima, per tutto simili nelle forme a quelli dipinti sulle antiche ceramiche che avevo veduto nel museo, capii di essere giunto nel Parco dei Guerrieri.

profili giganteschi di questi antichi difensori della nostra terra, stagliandosi su un orizzonte che andava tingendosi dell’arancio di un malinconico tramonto, mi riempirono di una strana nostalgia in cui riecheggiavano le grida di battaglia delle genti che prima di noi furono, della guerra che da sempre accompagna la storia dell’umanità, i miei pensieri si tingevano del sangue che ha macchiato per molti secoli una terra martoriata ed esposta alle incursioni, si colmavano delle urla disperate di madri e dei pianti dei loro bambini.

Mi crogiolai non so per quanto in questi pensieri fino a quando ripartii per raggiungere un punto del parco posto in altura e accuratamente recintato, dove avrei potuto visitare le restanti meraviglie di quei luoghi.

Il guardiano del parco mi venne incontro prima ancora che avessi fermato l’auto e mi chiese subito se fossi venuto per conto dell’Università che evidentemente inviava lì ogni tanto qualche ricercatore, ero tentato di dirgli di sì per non dirgli la più banale verità, cioè che ero uno sfaticato pirla qualunque venuto per godersi un po’ di sole da quelle parti a me ignote. Ma me ne trattenei, mi limitai a dire che ero lì per interesse personale, e quando egli mi offrì un via di salvataggio chiedendomi nuovamente, sebbene con un po’ di delusione in viso “Ah ho capito, sei insomma uno studente di beni culturali?”- cosa che evidentemente dava ai suoi occhi un senso alla mia visita – mi ancorai a quella scialuppa e dissi «E certo, beni culturali – e incautamente aggiunsi avendoci preso gusto a mentire- indirizzo paesaggistico! Per quello sono qua» e ciò dicendo tiravo fuori la migliore espressione da studente secchione che potessi fare.

Quest’uomo risultò molto dotto e capace di appagare ogni mia curiosità su quel luogo incantevole. Lì vi avevano abitato in primis le tribù messapiche degli Iapigi e a testimoniarne ancora il loro passato vi era una capanna ricostruita recentemente con rigore scientifico dai ricercatori dell’Università di Lecce, ricalcando le tecniche di costruzione di quell’epoca così remota.

Dopo aver visto da vicino la capanna mi feci accompagnare alla cripta basiliana dei Santi Stefani, una delle tante bellissime opere di quei monaci in fuga da Bisanzio, giunti in seguito alle persecuzioni dovute alle lotte iconoclastiche a trovare un approdo nel Salento, la terra che questi antenati bizantini costellarono di tesori ipogei, spesso nascosti, inattesi, sotterranei, scavati a fatica nella roccia che come un ventre materno ha protetto per secoli le loro silenziose preghiere greche.

Le parole del mio dotto accompagnatore, mentre mi erudiva sui dettagli della meravigliosa cripta, interamente scavata nel tufo e adornata di bellissimi affreschi, mi sembravano vagamente familiari; capii il giorno dopo, riguardando il sito ufficiale del comune di Poggiardo, il perché di quella familiarità: molte delle frasi che avevo udito in quell’umido antro erano riportate nello stesso identico modo sul sito. Non che ciò inficiasse ai miei occhi la dedita professionalità di quell’uomo, doveva pur averle estrapolate da qualche fonte quelle nozioni, solo la cosa mi fece sorridere perché egli aveva cercato in tutti i modi di sembrare naturale nella sua esposizione del giorno prima, senza dare per nulla a vedere che stesse ripetendo un copione a memoria; ciò mi fa ricordare quell’uomo anche con maggiore simpatia di quanto non mi avesse ispirato a primo acchito ed in fondo questa mia scoperta successiva lo metteva solo alla pari permettendogli di saldare i conti con me, il finto studente di beni culturali a indirizzo paesaggistico!

Vi sembrerà incredibile ma sappiate che in ogni luogo del Salento in cui la coscienza del valore del nostro passato si è risvegliata e ci si è adoperati per la sua salvaguardia ho sempre trovato dei logorroici ma amabili guardiani o custodi del posto pronti a erudirvi su ogni dettaglio che concerne il tesoro cui siete giunti. È questo certamente un segno del calore del nostro popolo, un calore che a volte vi impedirà di godere in solitudine e silenzio di certi splendori ma vi ripagherà lautamente con una buona e cordiale compagnia; tutto ciò, però, ho il triste sospetto che sia anche il segno della solitudine di questi personaggi tanto desiderosi di parlarvi, di questi uomini il cui compito è custodire un passato che troppo poco gli stessi salentini si recano ad onorare, ad osservare, ad ascoltare.

Mi recai da solo infine a compiere la mia ultima visita di quel giorno, dedicata alla necropoli paleocristiana e alle piccole fosse dei nostri avi che lì avevano trovato sepoltura, tornando con la morte ad una terra che appartiene tanto a loro quanto a noi che ancora oggi la calpestiamo.

Me ne stavo lì placido mentre mi giungeva il profumo di ulivi misto a quello del mare, segno che in linea d’aria le coste di Porto Badisco e Santa Cesarea non erano poi lontane: sentivo chiaramente nell’aria espandersi le essenze marine dei flutti che si stagliavano sulle rive che un tempo Enea aveva calpestato.

In silenzio passeggiai meditabondo ancora un po’ tra quelle antiche pietre cui ero alla fine di quella giornata giunto, pietre su cui copiose lacrime in passato erano cadute. Cadeva intanto anche il sole al di là dell’orizzonte e annunciava il tempo del mio ritorno a casa.

Mi rimisi in auto per l’ultima volta, riaccesi quel che rimaneva del mio compagno di viaggio – il toscano che non avevo potuto terminare venendo – ed aprii il finestrino per permettere al denso fumo che emanava di fuoriuscire.

Da quella fessura la fresca brezza della sera ormai giunta osava ogni tanto affacciarsi e sembrava portare delle note di una musica udibile appena, una melodia ritmata, forse soltanto immaginata, cadenzata da un ritornello che mi pare facesse così : «…venite, correte da Geremia, solo cose buone e tanta cortesia…».

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°3

Un geniale figlio di Terra d’Otranto: Salvatore Napoli Leone (1905-1980)

di Pier Paolo Tarsi

Il travaglio inquieto che caratterizzò costantemente l’intensa vita di Salvatore Napoli Leone sembra contrassegnare persino il passaggio incidentato del suo ricordo nelle pagine più interessanti della nostra storia recente, meta fino ad oggi impedita e tuttavia spettante di diritto ad una così eccezionale figura.

I tentativi di consegnare alla memoria collettiva quanto qui è finalmente raccolto, narrato e rigorosamente documentato furono in ogni caso vari, al punto che possiamo tracciare una sintetica storia delle tentate biografie del Nostro.

Fu per iniziare egli stesso, negli ultimi anni della sua esistenza, il primo a cimentarsi vanamente con il difficile compito di una simile narrazione; successivamente toccò a Maria Teresa Napoli misurarsi con il tentativo di tramandare la complessa esistenza del padre e provare a illustrarne gli ingegnosi frutti.

Quell’unica figlia del Nostro non riuscì però mai ad andare oltre qualche pagina: non le giovarono infatti un profondo affetto filiale e una salda cultura ad arginare il prorompere delle emozioni e l’impeto dei ricordi che sopraggiungevano a fermare la sua penna ogni volta che si accingeva a consegnare la vita operosa ma sfortunata del padre alla scrittura, operazione che avrebbe implicato una distanza emotiva che le era naturalmente negata.

Tenacemente convinta, ad ogni modo, della rilevanza e della necessità di quel compito mai potuto portare a termine, Maria Teresa consegnò alle sue ultime volontà terrene il desiderio postumo della realizzazione, per opera altrui, di un’attenta e documentata biografia del padre. Tale volontà fu dunque raccolta dagli eredi della donna, i quali, nel fermo proposito di onorare il suo

Piccolissime porzioni di un’antica civiltà contadina. Prefazione a Volti di carta

di Pier Paolo Tarsi

 

Se un albero scrivesse l’autobiografia,

non sarebbe diversa dalla storia di un popolo

Kahlil Gibran

«Prendi una cosa qualsiasi e scoprirai che è legata a tutto il resto dell’universo». L’uomo che un secolo fa scrisse questa frase – così semplice eppur così densa di significati – si chiamava John Muir. Americano di origine scozzese, fu un attivo naturalista ed ecologista ante-litteram, abituato a esplorare paesaggi selvaggi e a lottare col pensiero e con l’azione per la loro salvaguardia da ogni contaminazione. Capace di comprendere gli elementi come inestricabilmente intrecciati e sussistenti solo in relazione l’un con l’altro, Muir voleva insegnarci con quelle parole come ogni cosa in natura si riveli legata all’altra e sussista in equilibrio dinamico solo come parte di un tutto, non potendo affatto esistere se non come elemento di un sistema che la trascende e la ricomprende. La vita, infatti, si genera e si sostiene ovunque solo nel mezzo di relazioni ininterrotte tra anelli e momenti tutti assolutamente essenziali: solo quando ogni frammento è interconnesso al resto di cui fa parte, e finché ne fa parte, siamo di fronte al meraviglioso fluire del complesso naturale vivente. Quanto fin qua accennato chiarisce anche la ragione fondamentale per cui alterare o, peggio ancora, annientare – come tuttavia l’animale sedicente sapiens continua imprudentemente a fare – un solo tratto di questo continuum, una sua sola infinitesimale parte, significhi in realtà mettere a repentaglio l’intero, il tutto, l’ecosistema, il cosmo organizzato. «Qualunque cosa tocchi, lo fai a tuo rischio e pericolo» chiosava appunto lo stesso Muir a conclusione del pensiero con cui abbiamo inaugurato queste nostre riflessioni: distruggere una qualunque porzione dell’esistente, anche quella più apparentemente ininfluente, significa offendere tutta la vita intera. In natura, allora, nulla è secondario, nulla è inferiore o, peggio ancora, inutile, inessenziale: nella parte – anche la più piccola – vi è sempre contenuta la dignità, la nobiltà e la stessa possibilità di esistenza del tutto.

Perché, si starà forse chiedendo il lettore, introdurre un libro di materia narrativa con questi accenni? Che attinenza hanno queste affermazioni sulla vita naturale con le pagine che seguono? Perché indugiare in tali argomenti? Proviamo di seguito a rispondere a tali legittime domande, mostrando come

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