Cultura e peperoncini

peperoncini

di Pier Paolo Tarsi

Vi racconto una storiella che vi fa capire cosa sia veramente cultura, e intendo tutte le declinazioni immaginabili della parola cultura, quella dell’homo economicus, dell’homo faber, l’humanitas in generale, la cultura pratica come quella teorica, quella spirituale come quella materiale, la cultura che dà forma a un uomo nella sua totalità.

Questa storia vi mostra dove queste dimensioni intrecciate in quel che siamo si manifestino davvero, non nei convegni, nelle aule, nei simposi, ma nei comportamenti minuti e quotidiani, azioni che ci dicono quanto un individuo sappia o meno riconoscere un valore (etico, economico, qualitativo, materiale, ecc.) nelle cose che incontra. Vedo da questa veranda mio padre coltivare per mesi con passione e fatica un orto nutrito solo di acqua e sole.

L’ultima settimana l’ha trascorsa a raccogliere da quell’orto dei peperoncini piccanti, a comporli in mazzi a cinquantine (roba da mangiarne con un mazzo per due inverni), a legarli e riporli con cura in una cassetta da portare nel suo negozio. “A quanto li venderai, papà?” gli chiedo ieri. “A un euro e cinquanta” mi risponde. “Ma sei pazzo?” gli dico. “Perché?”. “Tanto lavoro, tanta cura, tanta acqua, hai dovuto tirare via i fili d’erba uno alla volta per mesi per non usare la chimica e li vendi a quel prezzo?”. “Eh, lo so, eppure la gente non dà valore, non li compreranno nemmeno a quel prezzo”. “Impossibile – gli dico io – se vado a comprare cento grammi di peperoncino triturato e confezionato industrialmente in una bustina lo pago già di più, e non è certo coltivato come questo”.

“Vedrai”, mi dice dall’alto di una esperienza scrutata attraverso un sorriso di chi la sa lunga, più lunga di me. Oggi a pranzo mi ricordo di questa discussione di ieri, e gli chiedo “Beh, li hai venduti i peperoncini?”. “Solo un mazzo”. “Uno?”. “Si, a un euro, perché un euro e cinquanta non ha voluto proprio darmelo, e non mi andava di discutere”.

Mio padre fa il fruttivendolo da una vita, la cultura della gente sa valutarla molto più di un rettore del migliore ateneo al mondo; non gli occorrono report pieni di cifre e altre stupidaggini, ti pesa una persona come fosse una cassa di pere: gli basta uno sguardo, o al più scambiarci due parole, senza nemmeno replicare – è un taciturno mio padre – perché comprenda senza margini di errore le dimensioni e lo spessore di chi ha di fronte. Mio padre è un tipo molto paziente, a volte mi fa persino incazzare per quanto paziente sia. La discussione è continuata tra un boccone e l’altro, arricchendosi di dettagli: quella stessa persona che ha preso in questione uno sconto di cinquanta centesimi, ottenuto ciò che voleva, è entrato nel bar vicino, dove ha speso – e gli saranno in questo caso sembrate poco – due euro almeno in una birra industriale fatta di acqua distillata e aromi aggiunti. Capite quanto valgono i nostri aulici richiami alle buone pratiche agricole, le nostre lezioni di economia sostenibile, i nostri lunghi discorsi sul concetto di salute, sul rispetto dell’ambiente, sulla qualità della vita, e così via, all’infinito? Non valgono un cazzo. E sapete perché non valgono? Perché non sappiamo attribuire valore alle cose nel loro rapporto e nelle proporzioni, perché il dato economico impera sullo spessore culturale e sull’utilità vera che le cose e il tempo hanno: le cifre dettano il valore, quando è la cultura che dovrebbe dettare le cifre.

E’ per questa ignoranza profonda se, al di là delle cartoline turistiche, siamo una terra e una cultura al tramonto, è per questa ottusità che svendiamo la storia, il paesaggio, il saper fare; è per questa grettezza mentale che svendiamo e prostituiamo la fertilità e le risorse. Siamo, in poche parole, ignoranti come capre, le quali, almeno, sanno a quale erba puntare, aiutandole in questo discrimine la saggezza millenaria dell’istinto. Sapete come si è concluso il pranzo con mio padre? Lui, come sempre sereno e sorridente, avvezzo a questi fatti del resto già previsti e messi in conto, ha concluso così: “se quel peperoncino ti fa tanto incazzare, non lo venderò più, lo regalerò a chi ne apprezza il valore”. E questa, signori, è CULTURA.

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