Considerazioni sulla “veduta” di Ugento del Pacichelli del 1703

di Luciano Antonazzo

 

Delle mura messapiche e di quelle bizantine della città di Ugento, negli ultimi decenni, si sono occupati diversi istituti di ricerca e diversi studiosi, sia italiani che stranieri.

Per quanto riguarda le più recenti ed esaustive pubblicazioni dei nostri connazionali, il prof. Antonio Pizzurro ha parlato diffusamente delle mura messapiche nel suo Ugento- Dalla preistoria all’Età Romana[1]. A lui ha fatto seguito il prof. Giuseppe Scardozzi con La cinta muraria di Ugento[2] e da ultimo la prof. Giovanna Occhilupo ha realizzato un importante lavoro dal titolo Ugento – La città medievale e moderna[3] nel quale ha dedicato un capitolo alle Mura medievali, ossia alla cinta muraria bizantina, lunga circa un chilometro, realizzata verso il X secolo per proteggere la parte alta della città.

Per i loro lavori i succitati autori si sono avvalsi della cartografia storica pervenutaci su Ugento: la “veduta” della città del Pacichelli del 1703, la Pianta iconografica dell’antica e moderna città di Ugento, realizzata dall’arch. Palazzi nel 1810 e la Pianta generale dei beni della casa Colosso in Ugento, realizzata dall’ing. Giuseppe Epstein nel 1897.

La dott.ssa Occhilupo nel suo testo rimarca come attorno alle mura della città, sia messapiche che bizantine, vi sia notevole confusione e discordanza tra gli studiosi riportandone le diverse opinioni.

La sua analisi parte dalla veduta della città che il Pacichelli (1634 – 1695) inserì nel secondo volume de Il Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodici province, edito postumo nel 1703.

Veduta della città di Ugento – Pacichelli 1703

 

Si tratta di una pianta pseudo prospettica nella quale la città è vista da Est. In basso è evidenziato il borgo dal quale si diparte una strada che conduce alla fortificazione bizantina. L’accesso alla città per chi proveniva dal borgo era quello di Porta Paradiso, ma accanto a questo il Pacichelli ne riporta un secondo denominato Porta Piccola[4]. Sono quindi riportati gli edifici più importanti della città, indicati numericamente ed elencati in legenda. Alle spalle del centro urbano è raffigurata la cinta muraria messapica con tre porte denominate Porta S. Giorgio, Porta Santa Croce e Porta S. Nicola. Oltre le mura è raffigurato il mare su cui si affacciano altri centri urbani sovrastati da rilievi montani.

Questa pseudo-pianta però non è realistica in quanto vi sono delle incongruenze sia con lo stato dei luoghi che con quanto riportato da diversi documenti, sia anteriori che posteriori al 1703. Che detta riproduzione, assieme ad altre, non fosse del tutto affidabile lo si evince dal giudizio che ne diedero i posteri. Infatti, se il Regno di Napoli in prospettiva agli inizi raccolse molti elogi, successivamente fu oggetto di critiche severe.  Pietro Antonio Antonio Corsignani dichiarò che il Pacichelli incorreva in “vari abbagli”, come era “solito fare in quella sua opera,[Il Regno di Napoli..] affastellata senza discernimento” (1738. I, p.27)[5], mentre Lorenzo Giustiniani giunse a dire che si trattava di opera “con rami rozzi daddovero[6] e mal fatti” e “scritta da uomo acciabattante qual egli era[7]. Altri sollevarono dubbi sulla veridicità delle informazioni da lui riportate nelle sue opere, nelle quali si sarebbe dovuto “distinguere ciò che egli stesso ha veduto, da ciò che ha udito narrare per tradizione[8]. Anche studi recenti hanno accertato che la fama del Pacichelli è da ritenersi in larga misura usurpata. Risulta infatti che egli si limitò a riportare notizie raccolte qua e là, e che i suoi viaggi si svolsero solo dopo che aveva consegnato il manoscritto agli editori[9].

La prima osservazione da farsi è che egli, nel descrivere la città, dice che era “un miglio distaccata dal mare”, mentre in tutti i documenti, più o meno antichi, si dice (come in effetti era ed è) che la città distava dal mare “quattro miglia”; inoltre, nei due scudi ai vertici superiori della pianta non è raffigurato lo stemma di Ugento, benché lo stesso, come documentato, fosse stato adottato dalla città almeno dalla prima metà del ‘500[10].

In terzo luogo, nella cerchia delle mura messapiche indica a N/E della città, col n. 4, Porta S. Nicola, in corrispondenza dell’ex monastero dei Celestini, a Nord del borgo. In realtà questa porta era situata a S/O della cinta muraria bizantina e la conferma si ha, oltre che da innumerevoli documenti, dal fatto che detta porta prese la denominazione dell’esistenza nei suoi pressi di una chiesetta intitolata a S. Nicasio[11], appena fuori le mura.  Ed ancora, nel circuito delle mura messapiche col n. 3 è indicata a N/O porta S. Giorgio, mentre la stessa si trovava esattamente a N/E, nella contrada che da sempre è stata identifica col toponimo Santi Giorgi[12]. A N/E egli colloca invece Porta Santa Croce che certamente prese il nome dalla contrada S. Croce, poi Acquarelli[13], che si trovava a N/O dell’antico centro abitato.

E veniamo alla cosidetta Porta piccola che il Pacichelli colloca a S/E della muraglia bizantina, a poca distanza da Porta Paradiso sita a N/E, dalla quale secondo Salvatore Zecca irruppero in città i turchi nella loro incursione del 1537[14].

Dell’esistenza di questa porta non si è mai avuta cognizione ed il solo a parlarne fu il Pacichelli che ebbe come primo emulo l’arch. Palazzi il quale nella sua Pianta Iconografica di Ugento, la collocò, identificandola col n. 17, alle spalle della cattedrale, al vertice posteriore del suo lato destro (vista di fronte).

Tutti i successivi studiosi e scrittori locali, con dei distinguo, hanno preso per veritiera la “veduta” del Pacichelli, ma nei documenti pervenutici è rimarcato che due erano gli accessi alla città: Porta Paradiso[15] e Porta S. Nicola. Il primo di questi documenti è del 1634; si tratta dell’apprezzo che fece il tavolario Giulio Cesare Giordano in occasione della messa all’asta del feudo di Ugento. Vi si legge: “La città di Ugento […] è posta su una cima di Montetto murata attorno con bastioni, torri et altre fortificazioni, tiene li suoi ingressi per due parti, una dimandata la Porta di Paradiso, nella regione di levante, e l’altra dimandata Porta di Santo Nicola nelle regione di Ponenente […][16].  

Il feudo fu aggiudicato a Don Emanuele Vaaz de Andrada e nel documento della presa di possesso è precisato che la comitiva entrò in città da “Portam dictam del Paradiso” e che attraversando la piazza giunse a Porta S. Nicola[17]. Non vi è menzione di nessuna altra porta.

Oltre un secolo dopo, nell’apprezzo del tavolario Luca Vecchione del 1761, si legge che la città di Ugento si trovava: “quasi nel mezzo del feudo, sopra un dolce colle, da ogni intorno murato: si entra in essa mediante due porte: una detta del Paradiso, che riguarda Oriente, l’altra nominata di Santo Nicola coll’aspetto ad Occidente[18]. Anche qui non si accenna ad altre porte.

È verosimile che qualche decennio dopo vennero aperti altri varchi nella muraglia bizantina, ma fino ai primi dell’Ottocento, quando cominciarono ad essere usurpate le antiche mura bizantine[19], non si è rinvenuta alcuna testimonianza documentale in proposito.

Ma tornando alla famigerata “Porta piccola”, da dove salta fuori?

La spiegazione si trova nei protocolli del notaio Francesco Carida, di proprietà privata. In diversi suoi atti rogati tra il 1679 ed il 1696 troviamo che l’abitazione dei Papadia (corrispondente all’attuale sede degli uffici per il turismo che dà su Piazza A. Colosso e fa angolo von via Barbosa) era sita “in strada ubi dicitur la porta piccola di S. Vincenzo[20], o “ in strada ubi dicitur la porticella di S. Vincenzo[21], “in strada ubi dicitur la Porticella[22], “in strada ubi dicitur la porta piccola della chiesa di S. Vincenzo[23], “in strada ubi dicitur la porticella di S. Vincenzo[24], “ in strada ubi dicitur la porticella[25], “in strada ubi dicitur la porticella della Cattedrale di Ugento[26], “ in strada ubi vulgo dicitur la porticella della chiesa di S. Vincenzo[27], “in strada ubi dicitura la porticella[28], in strada ubi dicitura la porta piccola di Santo Vincenzo[29].

La denominazione ufficiale della strada era via Sferracavalli e come dice il notaio “dal volgo” era detta della

“porticella della chiesa di S. Vincenzo” perché conduceva alla porta secondaria e laterale di accesso alla cattedrale; non si trattava pertanto di un piccolo accesso aperto nella antica muraglia per comodità dei cittadini. Lo conferma anche il fatto che allora, fra il costone roccioso su cui sorge la cattedrale ed il piano sottostante, vi era un dislivello a strapiombo di oltre una decina di metri. Ai piedi di questo costone roccioso, prima che fosse realizzata l’attuale Via dei Cesari, correva un viottolo che permetteva ai contadini di raggiungere i propri poderi che si sviluppavano fino all’incrocio con Via Sallentina, nella contrada Barco. Tale dislivello venne superato solo alla fine dell’Ottocento con una ripida e lunga scalinata, oggi denominata salita Brancia, che si sviluppa in quattro rampe per un totale di una sessantina di gradini.

Tralasciando la disamina della rappresentazione e dell’ubicazione imprecisa di alcuni edifici della città raffigurati nella pianta del Pacichelli, è da attribuirsi dunque agli errori in essa contenuti la gran confusione che si è creata successivamente. Il Pacichelli (o chi per lui) probabilmente prese per buono, o equivocò, quanto riferitogli senza appurarne la veridicità e raffigurò una porta inesistente. A lui seguì il Palazzi il quale nella intestazione della pianta scrisse che la stessa era stata realizzata anche “per supplire alla deficienza delle memorie del primiero lustro di essa Città”. Probabilmente fu per perpetuare una fallace memoria che egli riportò l’esistenza di quella porta nelle mura bizantine mai esistita.

In effetti la città, data la sua esiguità all’interno delle mura, non necessitava di nessuna altra porta oltre le due documentate. Per recarsi nei fondi fuori le mura erano sufficienti le stradine che correvano attorno alla muraglia e per recarsi nei paesi limitrofi o alla marina erano sufficienti le strade che originavano dalle due porte poste ad Est ed a Sud/Ovest dell’abitato e distanti tra loro in linea d’aria circa 250 metri.

 

Delle mura messapiche

Il primo accenno alle mura messapiche è verosimilmente individuabile nel breve passaggio della Stima dei beni della Contea di Ugento, redatta da Troano Carafa nel 1530, in cui si dice: “La città a quattro miglia dal mare è cinta di forti mura con fossato[30].  Esplicitamente delle mura messapiche parla invece padre Secondo Lancellotti nel suo Il Mercurio Olivetano. Testualmente egli scrisse:

“Con l’occasione, che io l’anno 1616. girando per notare l’antichità, e raccorre le cose più degne dè nostri luoghi, mi trovai in queste parti, e mi trattenni l’inverno, fui chiamato a predicare la Quaresima ad Ogento. Hora è questa una città di sì pochi abitatori, che io credo, che non passino il numero di 500. […]. Dicevano gli Ogentini, che già la loro era una gran Città, ma non mi mostravano scrittore antico, che ne parlasse. […]. Ne meno apparivano vestigia di edifitij antichi a Città pretesa sì nobile convenevoli. È posta sopra un colle assai ben pietroso. Quindi, questo è ben vero, vedesi giù alla pianura un terzo di miglio lungi, gran giro di sassi coperti da gli sterpi, e dalle spine, e questo affermavano essere dell’antico Ogento. Io per curiosità fui quivi appresso, e volsi scavare un poco e vidi realmente essere una muraglia di pietre grandi, e quadrate secondo l’usanza di quei tempi, e tanto più stupij della rovina di tanta città, & e ancora quasi d’ogni memoria d’essa”[31].

Dopo quella pseudo prospettica del Pacichelli del 1703, la più datata pianta della città di Ugento si deve all’architetto Angelo Palazzi del 1810. La sua intestazione recita: Pianta iconografica dell’antica e moderna città di Ugento rilevata nel mese di febbraio dell’anno 1810 per supplire alla deficienza delle memorie del primiero lustro di essa Città. Nella planimetria, espressa in canne napoletane e piedi francesi, il sud è rappresentato in alto ed assieme al nucleo cittadino con le mura bizantine e i suoi torrioni, vi sono rappresentati il borgo e le diverse vie di comunicazione. Il tutto è circoscritto dalle mura messapiche il cui perimetro non presenta interruzioni. In alto, a destra, è raffigurato lo stemma antico di Ugento, e alla sinistra e ai piedi della pianta si sviluppa la legenda esplicativa dei diversi elementi raffiguratevi indicati con dei numeri. Il circuito messapico è contrassegnato col n. 1 e nella Annotazione si legge: “Antiche mura rilevate dai ruderi esistenti, e dalle traccie che tuttavia sovrastano, le quali il tempo non ha finora cancellato, della larghezza di circa palmi 18 per quanto si è potuto raccogliere. Il perimetro effettivo di detta città è di miglia italiane due e mezzo, e quarantanove canne lineari. L’estensione di suolo che occupavasi dall’antica città è ỻe [tumulate] 185, e passi quadri 1101, considerato il tomolo di passi quadri 1600 e ciascun passo di palmi 8[32].

Alla base della pianta vi è una dedica appena percettibile non riportata da alcuno degli studiosi che l’hanno visionata e tantomeno è presente nelle riproduzioni che ne sono state fatte a stampa. In essa si legge: “Dedicata al Sig. d.(?) Gius.pe  Colosso”. Si trattava dell’Arcidiacono e Cantore don Giuseppe Colosso sr. (1745-1833), personaggio di profonda cultura ed erudizione che scrisse diverse importanti opere rimaste inedite. Fra queste quella riguardante la storia di Ugento ispiratagli probabilmente proprio dalla pianta del Palazzi dato che egli la intitolò: “Antichità di Ugento esposte da Adelfo Filalete, O sia Rischiaramento su la Pianta iconografica dell’antica e moderna città di Ugento, rilevata dall’Architetto Angelo Palazzi l’anno 1810, e dell’Annotazione su la stessa dal medesimo fatta[33].

A questa pianta fece seguito nel 1897 la Pianta generale dei beni della Casa Colosso in Ugento, realizzata dall’Ingegnere Giuseppe Epstein con scala in metri 1: 10.000. In questa pianta sono raffigurati la città ed i territori circostanti con relativi toponimi, mentre con linee tratteggiate sono rappresentate le parti della muraglia messapica ancora visibile al suo tempo.

Riferisce il prof. Domenico Novembre in una sua pubblicazione che lo stesso Epstein aveva in precedenza ispezionato la cinta muraria e ne aveva stabilito il perimetro in 7 km.[34] A tal proposito Pizzurro, rifacendosi al citato autore, scrive:

“Nel 1889 Apstein (Epstein) misurò le mura e le trovò lunghe m. 7.000, in quanto sosteneva di aver trovato tracce di mura sia nella parte settentrionale (al di là della masseria Crocifisso) sia in quella orientale (al di là della cisterna del Serpe). Purtroppo non ci è giunto alcun rilievo di Apstein né la descrizione del perimetro della cinta muraria da lui rilevata”[35].

Ho il piacere, in questa occasione, di sottoporre all’attenzione degli studiosi proprio quella che ritengo sia una copia dell’originale (e malridotta) pianta realizzata dall’Epstein nel 1889, andata evidentemente perduta. La pianta in oggetto reca l’intestazione “UGENTO dentro le sue antiche muraglie”, mentre allo spigolo inferiore destro si legge. “Rilevò e disegnò Gius. Epstein – ing. l’anno (?) 1889”.

Pianta di “Ugento dentro le sue antiche muraglie” – Ing. G. Epstein 1889

Imm. 2

 

Di detta copia, assolutamente inedita, sono venuto casualmente in possesso e dal suo confronto con le altre due citate è possibile verificare il progressivo disfacimento delle mura messapiche.

È racchiusa in una cornice che misura cm. 39,5 x 30 ed è espressa anch’essa in metri con scala 1: 5.000, ciò che permette, a differenza del variabile valore della canna napoletana, di risalire all’effettiva lunghezza delle mura rilevata dall’Epstein. Misurando i vari tratti del perimetro (comprensivi dei tratti mancanti all’altezza della Cripta del Crocifisso e di quelli verosimilmente corrispondenti alla presenza di porte ubicate sulle strade di accesso alla città), complessivamente il tracciato misura circa 95 cm, corrispondenti sul terreno a circa 4.750 m., misura molto vicina a quella definitivamente accertata di m. 4.900 circa. Risulta pertanto errata e priva di fondamento la lunghezza delle mura messapiche di 7.000 metri attribuitagli.

Vi è rappresentata la città e il territorio compreso entro la cerchia messapica con alcuni toponimi ed il nome dei proprietari dei deversi appezzamenti di terreno.  Non vi è legenda ma per ognuna delle strade è indicato il nome del luogo o abitato verso cui conduce.  Vi sono raffigurate le nuove strade per Taurisano, per Gemini, per la marina di Torre S. Giovanni e per Gallipoli. Vi è delineato il percorso della futura Ugento – Casarano (1893) e la variante D’elia per via Monteforte. Vi è anche indicata l’ubicazione di una “antica tomba” lungo la strada che attraversava la contrada Colonne, poco prima che la stessa ripiegasse a S/O verso masserie Mandorle. Il circuito murario messapico è rappresentato con linee continue, tratteggiate o interrotte, a seconda dello stato delle mura, se intatte, con tracce visibili o inesistenti. Non vi sono indicate torri o porte specifiche. Un lieve differenza nel circuito con quella del Palazzi è riscontrabile nel tratto a sud/est, all’altezza dell’estremità sinistra della Terra dell’Aia. Per il Palazzi le mura formavano una specie rientranza a forma di cuneo fra la strada delle Pastane e la via vecchia per Acquarica. Secondo l’Epstein questa deviazione non c’era ed il percorso da lui tratteggiato proseguiva quasi per linea retta.

Si evidenzia anche come la strada delle Pastane (come appurato dagli studiosi succitati) si sviluppava a ridosso, o al di sopra, delle mura. Si differenzia ancora questa pianta con quella del Palazzi per quel che concerne il tracciato della vecchia via per Taurisano. Questa stradina partiva dalla via della Madonna della Luce (ex Sallentina), dal lato sinistro della chiesetta di S. Lorenzo, ed attraverso i campi giungeva ad incrociare la via per Taurisano che proseguiva, costeggiando le mura, fino all’incrocio tra la via per Melissano e quella per Casarano. Nella pianta dell’Epstein si vede invece chiaramente come questa strada sia stata interrotta dalla creazione di nuovi fondi agricoli. Il tratto occultato di questo sentiero conduceva direttamente a quello che il Palazzi riportò sotto la denominazione di “Torrione di S. Giorgio”, verosimilmente già demolito ai tempi dell’Epstein dato che egli nella sua pianta rappresenta il breve tratto di mura verso la nuova strada per Taurisano con una linea punteggiata. Come ritengono gli studiosi, il torrione prese la denominazione di S. Giorgio dalla porta omonima e nei suoi pressi una ventina di anni fa fotografai una grande lastra in pietra quasi integra che, se non è stata rimossa o distrutta, dovrebbe essere ancora sul posto. Molto probabilmente fungeva da copertura ad una tomba. Se ne riporta l’immagine:

Manufatto in pietra rinvenuto in prossimità del torrione S. Giorgio delle mura messapiche

 

Note

[1] A. PIZZURRO, OZAN UGENTO. Dalla Preistoria all’Età Moderna, Edizioni Del Grifo, Lecce 2002.

[2] G. SCARDOZZI, La cinta muraria di Ugento, Edizioni Leucasia, Presicce 2007. Accanto a questo testo è da menzionarsi l’ultima sua opera dal titolo Topografia antica e popolamento dalla Preistoria alla tarda Antichità – La Carta archeologica di Ugento, Edizioni Quatrini, Viterbo 2021.

[3]G. OCCHILUPO, Ugento – La città medievale e moderna – Metodologie integrate per la conoscenza degli abitati, Claudio Grenzi Editore, Foggia 2018.

[4] Le due porte sono contrassegnate rispettivamente con i numeri 11 e 12.

[5] P. A. CORSIGNANI, Reggia Marsicana ovvero memorie topografiche-storiche di varie Colonie, e città antiche e moderne della Provincia de i Marsi e di Valeria, Presso il Parrino, Napoli 1738, parte I, p. 277.

[6] Daddovero – arc. letterario = davvero

[7] L. GIUSTINIANI, La Biblioteca storica, e topografia del Regno di Napoli, Stamperia Vincenzo Orsini, Napoli 1793, p. 110.

[8] G. TIRABOSCHI, Storia della letteratura italiana del cavaliere abate Girolamo Tiraboschi, presso la Società Tipografica, Modena 1793, l. I, p. 98.

[9] V.: G. DE ROSA – A. CESTARO (a cura) Storia della Basilicata. 3. L’Età moderna, Editori Laterza, Bari (Ed. Digitale: dicembre 2021), p. 137. Le “vedute” utilizzate da Pacichelli sono opera del cartografo Francesco Cassiano da Silva  

[10] V.: L. ANTONAZZO, Gli stemmi della città di Ugento, Tip. Marra, Ugento 2016.

[11] Questa chiesetta bizantina era sita a pochi passi a nord della chiesetta della Madonna del Corallo, fuori le mura.

[12] Not. F. Carida, protocollo del 22/11/1683, c. 139v. Questo atto conferma che la località S. Giorgio era adiacente ad ovest all’Armino, suffeudo che si trovava ad Est del feudo di Ugento; vi si legge infatti “in loco ubi dicitur Santo Giorgio, iusta bona feudi nuncupati l’Armino ex occidente”.

[13] Not. F. Carida, protocollo del 10/1/1684, c. 12r.

[14] S. ZECCA, Portus Uxentinus vel Salentinus, Editore Mariano, Galatina 1963, p. 44.

[15] Se, come detto, Porta San Nicola derivava la sua intitolazione dalla vicina chiesetta di S. Nicasio, Porta Paradiso aveva assunto questa denominazione per la presenza nei suoi pressi di un giardino murato. Infatti il termine “paradiso” deriva dal persiano pairidaeza  (= giardino recintato) reso in greco con  paràdeisos. Il giardino in questione non corrispondeva però a quello realizzato dai conti Pandone sui lati nord ed ovest del castello, ma a quello degli Urso, esistente in parte ancora di fronte all’attuale ingresso al castello stesso.

[16] Archivio di Stato di Napoli, atto del notaio Leonardo Aulisio del 31 gennaio 1643 attinente all’acquisto del feudo di Ugento da parte di Pietro Giacomo d’Amore (Emptio Civitatis Ugenti pro Petro Jacobo de Amore).

[17] ASLe, Sez. Not., 46/39, not. G. F. Gustapane, protocollo del 15 marzo 1636, cc. 197r-216r.

[18]V.: G. OCCHILUPO, Ugento – La città medievale e moderna, cit. Appendice documentaria, p. 155.

[19]V.: L. ANTONAZZO, Trasformazioni urbane a Ugento tra Ottocento e Novecento, Edizioni Leucasia, Presicce 2005.

[20] Not. F. Carida, prot. del 6 gennaio 1679, c. 2v.

[21] Idem. Prot. del 30 ottobre 1683, c. 114r.

[22] Idem, prot. del 4 gennaio 1684, c. 3v, prot. del 11 gennaio 1684, c. 39r.; prot. del 18 settembre 1685.

[23] Idem, prot. del 21 febbraio 1685, c. 3r.

[24] Idem, prot. del primo agosto 1685, c. 60v.

[25] Idem, prot. del 18 settembre 1685, c. 111v.

[26] Idem, prot. del 5 dicembre 1685, c. 142r.

[27] Idem, prot. del 6 gennaio 1693, c. 1r.

[28] Idem, prot. del 3 settembre 1696,

[29] Idem, prot. del 8 luglio 1697, c. 108r.

[30] V.: F. CORVAGLIA, Ugento e il suo territorio, Editrice Salentina, Galatina 176, p. 77. Questo inciso potrebbe far riferimento anche alla cinta muraria bizantina, ma è improbabile data la morfologia del terreno che solo a nord e ad ovest delle mura, per essere pianeggiante, consentì la realizzazione di un fossato prospiciente il castello. Per quanto concerne il fossato antistante le mura messapiche, la sua esistenza per il momento è stata accertata limitatamente ad una porzione del lato est, in contrada Armino.

[31] S. LANCELLOTTI, Il Mercurio Olivetano, overo la Guida per le strade d’Italia, per le quali sogliono passare i Monaci Olivetani, Perugia 1628, pp. 55-56.

[32] La canna napoletana variava a seconda dei luoghi da un minimo di m. 2,14 ad un massimo di m. 2,37. Il Pizzurro, dando alla canna napoletana il secondo valore stabilì il perimetro delle mura messapiche in m. 5.237 (A. PIZZURRO, Ozan …, cit.p. 246). Rifacendosi invece al primo valore la lunghezza delle mura sarebbe stata di m. 4.729, misura più vicina ai circa m. 4.900 stabiliti negli anni Novanta del secolo scorso dagli studiosi.

[33]Ricalca pedissequamente questa operetta, anche nella ripartizione dei capitoli, l’opuscolo Memorie sulle antichità di Ugento 1857, di autore anonimo custodito presso la Biblioteca Provinciale Nicola Bernardini di Lecce ed edito a cura dello scrivente nel 2003 per Edizioni Leucasia.

[34] D. Novembre, Ricerche sul popolamento antico del Salento con particolare riguardo a quello messapico, in Annuario del Liceo Ginnasio “G. Palmieri”, Lecce 1965-66, pp. 78-79.

[35] A. PIZZURRO, Ozan …, cit., p. 247.

Urbanistica in Terra d’Otranto. Il caso di Francavilla e le sue porte urbiche

di Mirko Belfiore

Durante la sua secolare storia, l’abitato di Francavilla poté contare sulla realizzazione di ben tre cinte murarie. La prima, con molta probabilità, fu costruita durante la seconda metà del XIV secolo dopo che, nel 1364, la città ottenne, dal principe di Taranto Filippo II d’Angiò (1329-1374), una concessione per la costruzione di nuove mura, ma di questo tracciato, purtroppo, non rimangono testimonianze.

Alcuni tempi dopo, quando a governare la città giunse il nuovo principe Giovanni Antonio del Balzo Orsini (1401-1463), ritenendo Francavilla non adeguatamente provvista di una perimetrazione difensiva, ordinò la costruzione di una nuova cerchia. Quest’ultima è riconducibile alla descrizione che ne fa l’abate Giovan Battista Pacichelli (1641-1695) il quale, facendo tappa a Francavilla, durante il suo soggiorno nel Regno di Napoli. fra il 1683 e il 1694, ci racconta di come l’impianto urbano fosse organizzato entro mura, torri e sei porte urbiche: “Al numero concorso delle genti, che dalle convicine, e remote parti vennero a farli novelli Cittadini di Francavilla, si formo la Terra circondata da Mura, e Torri, alle qualu furono distribuite sei Porte, tre picciole e tre maggiori, le maggiori furono la prima chiamata Porta grande, hoggi detta Porta della Piazza; la seconda la Porta di Sant’Antonio Abbate, hoggi del Castello; terza, che fu l’ultima a farsi, La Porta Nuova; le tre picciole, la prima fu detta Porta D’Elia, hoggi di San Sebastiano, la seconda Porta di San Carlo, hoggi la Rucirella, e la terza la Porta di S. Nicolò, hoggi detta dal volgo il Cravotto”.

1. Giovan Battista Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva, 1703.

 

2. Veduta di Francavilla, da Giovan Battista Pacichelli, 1703

 

Con i secoli a venire la città non smise di crescere e anzi, sotto l’impulso dei nuovi feudatari giunti da Genova e del ruolo raggiunto dalla stessa Francavilla in Terra d’Otranto, si giunse al superamento della cinta muraria cinquecentesca. La conseguente spinta edilizia incentivò la realizzazione di nuovi quartieri abitativi, congiuntura che spinse il principe Michele III Imperiale a farsi promotore fra il XVII e XVIII secolo, della realizzazione di una nuova cerchia muraria: la terza.

3. Ritratto di Michele III Imperiali Seniore (Anonimo, XVIII secolo, olio su tela, Francavilla Fontana, Castello-residenza).

 

Quest’ultima, oltre a difendere il numero sempre più crescente di una popolazione che ormai raggiungeva il migliaio di fuochi, raggruppò le nuove borgate nate a Sud, Est ed Ovest dell’antico agglomerato quattro-cinquecentesco.

Percorrendo l’asse Sud che, dall’antica piazza del Foggiaro, oggi piazza Umberto I, prosegue attraverso il Burgo Grande, si erge in tutta la sua monumentalità la mole architettonica della Porta del Carmine, eretta intorno alla metà del XVII secolo e situata all’imboccatura di Via Roma (già Via del Carmine), una delle arterie cittadine fra le più scenografiche della città, sulla quale si andranno a inserire i più importanti ed eleganti palazzi della nobiltà francavillese.

4. Porta del Carmine, XVII secolo, prospetto principale.

 

Ad una prima occhiata, si può notare subito la particolarità del suo prospetto, conforme ai canoni dei trattati cinquecenteschi del Serlio e del Palladio e innalzata quasi a voler imitare gli antichi archi di trionfo d’epoca romana. La struttura, deteriorata nella superficie tufacea dall’erosione degli agenti atmosferici, si presenta articolata in tre fornici, tutte contraddistinte da arcate a tutto sesto e fiancheggiate da semicolonne, quest’ultime poggianti su alti plinti e coronate da pregevoli capitelli compositi. Quattro dadi sporgenti e un cornicione aggettante caratterizzano la trabeazione, mentre due ricche cornici rettangolari, poste in asse coi portali laterali, realizzate forse con lo scopo di accogliere scritte mai eseguite, arricchiscono il prospetto principale.

5. Porta del Carmine. Prospetto interno

 

La facciata interna, invece, presenta le medesime modanature ma, in alternativa alle semicolonne, si articola di alcune lesene finemente decorate da festoni floreali.

6. Ritratto di Michele IV Imperiale Juniore – (Anonimo, XVIII secolo, olio su tela, trafugato).

 

Lungo la direttrice Sud-Est che, sempre dalla piazza del Foggiaro, procede lungo l’attuale via Regina Elena e insieme a viale Capitano Di Castri crea quell’arteria viaria che mette in comunicazione il centro della città con il Complesso conventuale di Maria S.S. della Croce, fuori le mura, si posiziona la struttura classicheggiante della Porta della Croce (o di Cagnone).

 

7. Porta della Croce, 1714, Davide De Quarto e Goisuè Pozzerrese, prospetto principale.

 

Costruita secondo le fonti intorno al 1714, dai maestri Davide De Quarto e Giosuè Pozzerrese, essa si caratterizza di un prospetto lapideo a bugnato, composto da una serie di pietre squadrate poste a raggiera che, ricoprendo tutta la facciata, evidenzia gli archivolti dell’arcata a tutto sesto e incornicia in chiave di volta lo stemma feudale dei committenti: gli Imperiale. Le modanature continuano in senso orizzontale lungo tutto il resto del prospetto, venendo interrotte solo dalle due semicolonne, unico elemento verticale. Quest’ultime, incoronate da due corpi lievemente aggettanti e poggianti su semplici basamenti quadrati, concorrono come elementi decorativi a creare un gioco chiaroscurale sulla superficie continua dei pilastri. Il medesimo effetto chiaroscurale si accentua nella doppia modanatura posta a metà della costruzione, da cui parte l’impostazione dell’arco, ripresa nella parte rastremata dalle colonne e conclusa da un capitello dorico.

8. Porta della Croce. Prospetto interno

 

La facciata interna, più sobria, presenta alcune profilature che percorrono in senso verticale i fianchi dell’arcata e in senso orizzontale la trabeazione.

Infine, lungo la direttrice Nord-Ovest posta in posizione diametralmente opposta alla Chiesa dello Spirito Santo, in origine Complesso conventuale dei Frati minori cappuccini, trova posto Porta Cappuccini, già Porta Nuova.

9. Porta Nuova, XVIII secolo, Frà Liborio da Manduria, prospetto principale.

 

Essa, secondo le fonti coeve, fu costruita durante la seconda metà del XVIII secolo e fu con molta probabilità realizzata dallo stesso artefice della chiesa antistante, fra’ Liborio da Manduria. Porta Nuova, rispetto a quella della Croce, si presenta con linee curve e superfici rotondeggianti, frutto di un’interpretazione del barocco più sobria e misurata. La sua struttura imponente è costituita da un’arcata, sempre a tutto sesto, due semicolonne ai lati, poggianti su un alto basamento e coronate da capitelli compositi, e due ali leggermente rientranti arricchite da un fine arriccio al vertice. La trabeazione è sormontata da un frontone, dai profili curvi e rettilinei, mentre la parte sommitale è caratterizzata da un coronamento dalle spigolature aggettanti e un timpano a mezzaluna.

10. Porta Nuova. Prospetto interno

 

Sulla parete interna, l’arco ribassato è mascherato da un arco a pieno centro poggiante su due pesanti lesene. Come per la Porta della Croce, anche questo accesso al borgo seicentesco si presenta oggi isolato e poco valorizzano dalle costruzioni limitrofe, ma contribuisce a rimarcare la teatralità che le porte urbiche francavillesi prospettavano ai viandanti che si apprestavano a varcare le soglie.

A queste architetture civili, vanno aggiunte le ormai scomparse Porta Paludi, Porta Pazzano (o di San Vito), Porta San Lorenzo e Porta San Carlo (o Porta Roccella).

Porta Paludi, situata nel quartiere omonimo e posizionata all’angolo fra via Simeana e la direttrice extramurale di via San Francesco d’Assisi, fu demolita nel 1925 perché: “Oltre a rappresentare uno sconcio evidente, (è)… causa grave di pericolo per la pubblica incolumità, date che, nei tempi di pioggia, quel tratto di strada resta del tutto allagato […] e le acque che là si raccolgono, vanno a formare dei pantani immensi”.

11. Porta Pazzano, foto d’epoca, XX secolo.

 

Porta Pazzano invece, posizionata a Nord-Est dell’abitato seicentesco, sulla strada che collega Francavilla a San Vito dei Normanni, venne demolita nel 1952. Tramite un’istantanea dell’epoca, possiamo ricostruirne solo il prospetto Sud, semplice nelle linee e nella mole, se paragonato alle precedenti. Quest’ultimo, composto da un arco a tutto sesto leggermente ribassato e una trabeazione rettangolare coronata da un piccolo cornicione aggettante, presenta alcune modanature distribuite lungo tutta la facies, le quali, nell’insieme, contribuiscono ad aggiungere un po’ di dinamismo al prospetto, altrimenti essenziale.

Di Porta di Brindisi (o di San Lorenzo), situata a cavallo fra le attuali via San Lorenzo e via Francesco Baracca, costruita dai già citati Davide De Quarto e Giosuè Pozzerrese nel 1714 e Porta Roccella, indicata nella veduta del 1643 come Porta San Carlo, quest’ultima posizionata alle spalle del convento dei Padri Redentoristi sull’attuale via Barbaro Forleo, non abbiamo più tracce; forse danneggiate dal terremoto del 1743, ma ancora presenti in una pianta ottocentesca della città, subirono probabilmente la stessa sorte di Porta Pazzano e Porta Paludi e quindi smantellate.

12. Pianta dell’abitato di Francavilla, con il circuito murario degli Imperiale e le porte di città, pianta del XIX secolo.

 

Presso queste porte urbiche, poste sulle arterie viarie che dagli agglomerati limitrofi confluivano verso il centro di Francavilla, stazionavano i gabellieri. Quest’ultimi, preposti al controllo delle merci sia in entrata che in uscita, oltre che applicare i dazi preposti, sorvegliavano il flusso e il deflusso degli abitanti, impedendone l’ingresso agli indesiderati. L’importanza di queste strutture era tale che persino la larghezza dei traini era regolamentata seguendo l’ampiezza dei varchi.

Spettatrici di avvenimenti quotidiani quanto di fatti cruenti e sanguinosi, le porte urbiche furono testimoni anche di momenti di giubilo: il 29 marzo del 1740, fra due ali festanti, varcò la soglia di Porta del Carmine, il corteo proveniente da Roma con la principessa Eleonora Borghese, nuova consorte del principe Michele IV Juniore: “con lo tiro a sei, da 40 carrozze a un solo tiro, con una bellissima cavalcata di duecento para di cavalli avanti, con una Infanteria di Libardieri, […]appresso poi da 200 contadini armati sotto lo capitano Scilazza, Alfredo Carlo Di Noi, ricevendola dalla Porta sino alla piazza, sotto una bella e sontuosa Archiata fatta da Core di Donna”.

 

BIBLIOGRAFIA

V. Basile, Gli Imperiali in terra d’Otranto. Architettura e trasformazione urbane a Manduria, Francavilla Fontana e Oria tra XVI e XVIII secolo, Congedo editore, Galatina 2008.

F. Clavica e R. Jurlaro, Francavilla Fontana, Mondadori Electa, Milano 2007.

G.D. Oltrona Visconti, Imperialis Familia, con la collab. di G Di Groppello, Piacenza 1999.

G.B. Pacichelli, Del Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodici province, Parrino e Muzio, Napoli 1703, ristampa anastatica a cura di R. Jurlaro, Forni, Bologna 1999.

D. Camarda, Il terremoto del 20 febbraio 1743 a Francavilla e nell’area del basso Ionio, Francavilla Fontana 1997.

V. Ribezzi Petrosillo, F. Clavica, Guida di Francavilla Fontana. La città degli Imperiali, Galatina, Congedo editore, Lecce 1995.

G. Galasso, Alla periferia dell’impero. Il Regno di Napoli nel periodo spagnolo (XVI-XVII secolo), UTET, Torino 1994.

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M.C. Forleo, Da quelle antiche voci: Francavilla Fontana. I suoi uomini, la sua cultura, Schena editore, Fasano 1988

G. Martucci, Carte topografiche di Francavilla Fontana, Oria e Casalnuovo del 1643 e documenti cartografici del principato Imperiali del secolo XVII, S.E.F., Francavilla Fontana 1986.

F. Argentina, La città natia, Schena editore, Fasano 1970.

P. Palumbo, Storia di Francavilla Fontana, Lecce 1869, ristampa anastatica, ed. Arnaldo Forni, 1901.

Lecce e due casi di realtà virtuale ante litteram

di Armando Polito

Oggi la tecnologia ci consente di immortalare e condividere  qualsiasi momento, anche il più banale e meno coinvolgente per gli altri, della nostra vita. Non ci rendiamo conto che proprio la condivisione, che sembra essere il non plus ultra della libertà e della democrazia, rappresenta il cibo quotidiano che ogni giorno ingrassa colossi che eludono il fisco e, quel che è peggio, custodiscono le testimonianze, intelligenti e stupide, della nostra vita. C’è, però, anche il rovescio della medaglia perché in quella messe di dati è celata una potenzialità sbalorditiva di conoscenza che nel breve volgere di qualche decennio, visto il rapido mutare, soprattutto per colpa nostra, di ciò che ci circonda, può costituire una fonte preziosa per la ricostruzione del passato. Così un semplice selfie, per esempio, potrà essere importantissimo non per il dettaglio più importante al momento dello scatto, cioè il nostro volto o la nostra figura, ma il secondario, cioè lo sfondo. Insomma gli scatti condivisi assumeranno l’importanza che hanno le cartoline d’epoca. In riferimento al tema di oggi va detto che prima dell’avvento della fotografia le uniche fonti visive erano le rappresentazioni artistiche (bozzetti, disegni, incisioni, dipinti, sculture) che per la loro natura non garantiscono tutte la certezza di una riproduzione fedele, oggi diremmo fotografica, della realtà. D’altra parte, ad essere sinceri, nemmeno le fonti letterarie spesso consentono un’interpretazione univoca della realtà e in certi casi basta una sola, miserabile variante della tradizione manoscritta per dar luogo ad una ridda di ipotesi contrastanti. Pensate che noia mortale sarebbero i nostri tentativi di conoscere, se per loro le porte del successo si spalancassero più o meno immediatamente e tutto fosse incontrovertibilmente chiaro.

E poi c’è la realtà virtuale che con un realismo abbastanza spinto consente esplorazioni di ogni tipo senza spostarsi nemmeno di un passo e un’immersione sufficientemente attendibile dal punto di vista scientifico nelle testimonianze del passato delle quali nulla (o nei casi migliori pochi resti) rimane di materiale.

Tutta questa premessa per presentarvi la tavola di un libro e per giustificare il titolo che farebbe invidia ad una puntata di Voyager …

Di seguito il frontespizio del libro e la tavola che ne costituisce l’antiporta (per chi volesse consultarlo integralmente: https://books.google.it/books?id=_QSzTrz4uHsC&printsec=frontcover&dq=i+primi+martiri+di+Lecce&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjO1pL-iP_UAhWiB8AKHav_BjkQ6AEIIjAA#v=onepage&q=i%20primi%20martiri%20di%20Lecce&f=false).

Ritornerò dopo a commentare l’immagine. Ora mi preme sintetizzare la struttura del libro, che consta di 147 pagine così distribuite:

pp. 6-37 libro I (Istoria de’ tre santi, e primi martiri della città di Lecce Oronzio, Giusto, e Fortunato)

pp. 38-64 libro II (Istoria de’ santi di Lecce Giusto, Oronzio, e Fortunato

pp. 65-79 libro III (Martirio di Emiliana e Petronilla)

pp. 80- 97 libro IV (Vita di S. Fortunato)

pp. 98-131 libro V (Miracoli e grazie concesse da Dio per intercessione di S. Oronzio)

pp. 132 Oremus

pp. 133-134 Inni in onore del santo

pp.135-140 Memoria della grazia concessa della liberazione del contagio di questa fedelissima città dii Lecce, e sua provincia del glorioso S.Oronzio padrone e protettore, registrata nel libro Rosso dell’istessa

pp.140-147 Questa parte contiene un sintetico ricordo dell’intervento del santo in occasione dei terremoti del 1743 e del 1835.

Tutto questo perché l’edizione del 1835 fu preceduta da quella del 1714, a sua volta preceduta da quella del 1672. Poiché quest’ultima è introvabile (nella scheda dell’OPAC, pur essendo riportato  nelle note generali frontespizio preceduto da antiporta xilografata  A c. O8v. vignetta xilografata S. Orontio Segn.: *8 A-O8, manca qualsiasi indicazione nello spazio riservato alle biblioteche che la custodiscono). passo a quella del 1714 (http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?teca=&id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ASBLE013227).

Essa consta di 110 pagine così articolate:

pp. 3-4 Dedica del Barichelli alla città di Lecce

pp. 5-6 Avviso del Barichelli ai lettori

pp. 7-8 Richiesta di stampa da parte del Mazzei e imprimatur

pp. 9-15 libro I (Lecce Oronzio, Giusto, e Fortunato)

pp.1 6-27 libro II (Dell’istoria de’ santi di Lecce Giusto Oronzio – e Fortunato)

pp. 28-36 libro III (Martirio dfi Emiliana, e Petronilla)

pp. 37-41 libro IV (Dell’istoria de’ tre santi e primi martiri della città di Lecce Orontio Giusto – e Fortunato)

pp. 42-57 libro V (Miracoli e gratie concesse da Dio per intercessione di santo Oronzio

pp. 58-59 Inni in onore del santo

pp. 60-66 Semplice e diligente relazione della rinovata Divozione verso il glorioso Martire di Cristo, Patrizio, e primo Vescovo di Lecce S. Oronzo di Giovanni Camillo Palma Dottor Teologo, & Arcidiacono di Lecce

pp. 67-73 Lettera pastorale di Monsignor Luigi Pappacoda vescovo di Lecce alla sua città, & diocesi

Alla fine di p. 73 c’è la seguente immagine.

Credo che in essa possa ravvisarsi la rappresentazione, per quanto libera, della città vista da Porta Rudie. Lo stesso profilo della porta mi pare sovrapponibile a quello mostrato dalla tavola di Lecce a corredo della seconda parte dell’opera postuma di Giovanni Battista Pacichelli Il regno di Napoli in prospettiva diviso in dodeci provincie, Parrino, Napoli, 1703. Di seguito la tavola e il dettaglio della porta.

 


Riprendo la descrizione interrotta della struttura del volume:

pp.74-90 Ricordi per il vivere cristiano ad ogni stato di persona, del glorioso S. Carlo Borromeo

pp.91 Memoria della colonna

La p. 92 presenta l’immagine di seguito riprodotta.

Da notare nella parte superiore, da sinistra a destra, lo stemma della città di Lecce, quello del vescovo Fabrizio Pignatelli (1696-1734) e uno scudo vuoto.

pp. 93-110 Lecce con la sua provincia de’ Salentini preservata dalla peste negl’anni 1656 e 1690 …

L’immagine che costituisce l’argomento centraledi questo post, dunque, non compare nell’edizione del 1714 ma non doveva, anzi non poteva comparire neppure in quella del 1672. La ripropongo per rendere più agevole la lettura del commento che avevo promesso.

La didascalia recita: S. ORONZIO VESCOVO E MARTIRE. Protettore della Città e della Provincia di Lecce. In Lecce da Gaetano de Blasi.

Al di sotto del margine inferiore destro della raffigurazione si legge: d’Angelo inc.

Molto probabilmente di tratta di Raffaele D’Angelo, incisore napoletano attivo nella prima metà del XIX secolo. Di lui la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli conserva tre stampe:

a) Ritratto a mezzo busto di tre quarti verso sinistra in atteggiamento benedicente di Giuseppe Maria Trama (1790-1848), vescovo di Calvi e Teano.

b) Ritratto a mezzo busto di tre quarti verso sinistra di Francesco Antonio Fasani (1681-1742); in alto a sinistra, su di una nuvola, la Madonna calpesta il serpente.

c) Il beato Vincenzo Romano (1761-1831) prega inginocchiato dinanzi ad un altare.

Del D’angelo è pure un ritratto di suor Serafina di Dio (1621-1699), al secolo Prudenza Pisa. La tavola è inserita nel volume di Salvatore Farace Un gioiello di arte ossia la chiesa di S. Michele Arcangelo detta Paradiso terrestre : con un cenno della veneranda Madre Serafina di Dio e dei monumenti e ricordi di Anacapri, Giannini & Sons, Napoli, 1931.

L’assenza di Raffaele nella “firma” della nostra immagine mi suscita qualche dubbio sulla sua paternità, non sulla  quanto sua cronologia. In altre parole: Gaetano de Blasi avrebbe fatto stampare a sue spese un’incisione che, per via dell’assenza di Raffaele, potrebbe essere un falso.

Del De Blasi nulla ho potuto reperire, se non il fatto che a sue spese fece stampare pure un’altra tavola sullo stesso tema. La riproduco da http://www.vecchiaprovinciadilecce.it/images/small/c3b.jpg.

La scheda presente nel link appena segnalato al dato Autore reca la dicitura Lit. Pötel, come data di stampa 1850 circa, mentre sconosciuto risulta il luogo di stampa e, lacuna secondo me gravissima per un sito “ufficiale”, non c’è nessuna indicazione circa il luogo di custodia. L’unica cosa certa è, come si legge nella didascalia, che la litografia fu realizzata A SPESE DI GAETANO DE BLASI.

Con tutte le perplessità finora espresse non mi rimane che fare l’esame comparativo tra quest’ultima immagine e la nostra.

Il presunto Raffaele D’Angelo, pur apparendomi più rozzo nel tratto, mi appare più coinvolgente da un punto di vista emotivo rispetto al tema rappresentato per tre dettagli, uno paesaggistico, gli altri due umani. Lo spazio extra moenia antistante Porta Napoli appare più selvaggio, incolto e disordinato, La figura femminile a braccia tese orizzontalmente nel vuoto dell’arco (nell’altra immagine, invece, si intravvedono dei fabbricati) sembra esultare alla visione del santo, mentre il giovane in primo piano (si trova più o meno laddove ora sorge l’obelisco) appare congelato nell’atto di impugnare una zappa.Insomma, a costo di sembrare banale: la perfezione tecnica non è toiut court, e non solo in questo campo, sinonimo di convincente interpretazione.

Mi pare molto probabile, poi, che nel modello compositivo i due incisori abbiano tenuto presente Nicolas Perrey e la sua tavola raffigurante S. Gennaro che ferma l’eruzione del Vesuvio del 1631, tavola inserita alla fine del volume di Francesco Balzano L’antica Ercolano, overo la Torre del Greco tolta all’obblio, Paci, Napoli, 1688.

In conclusione: è probabile che la tavola del 1714 in cui ho ravvisato Porta Rudie fosse la stessa che compariva nell’edizione, introvabile come ho detto, del 1672 e che rappresentasse, sia pure in modo sommario, la porta com’era prima della ricostruzione in seguito al crollo della fine del XVII secolo.

Non è da escludere che anche la vecchia porta, come avverrà per quella ricostruita, fosse dedicata a S. Oronzo, il che renderebbe tale tavola più congruente al tema trattato nel volume di quella relativa a Porta Napoli presente nell’edizione del 1835.

Per tornare, infine, alla realtà virtuale del titolo, la ricostruzione del passato appare, secondo me, più convincente nel reale o presunto Raffaele D’Angelo, per la cui immagine, almeno, a differenza dell’altra di Pötel, abbiamo la fonte, oltre che una definizione decisamente più accettabile, per cui mi chiedo che senso abbia pubblicare un documento pressoché illeggibile nei dettagli. E questa non è affatto un’altra storia …

Taranto in una tavola del 1545

di Armando Polito

Probabilmente è la più antica veduta a stampa di Taranto. La tavola è a corredo di In descriptionem  Graeciae Sophiani praefatio, opera  di Nicola Gerbelio uscita per i tipi di Oporino a Basilea nel 1545 (la data si ricava dal colophon che di seguito riproduco dopo il frontespizio).

 

Nicola Gerbelio (Nicolaus Gerbelius il nome latinizzato), umanista tedesco, fece parte di un circuito di famosi uomini di cultura, fra cui Martin Lutero, del quale fu amico, il collaboratore di Lutero  Filipe Melâncton, nonché  Erasmo da Rotterdam, con cui fu in corrispondenza. Fu curatore di parecchie edizioni  di autori antichi latini e greci. Fa eccezione quella da cui è tratta la tavola di Taranto, perché quella che il Gerbelio chiama prefazione è in realtà un’analisi, quasi un commento di Totius Graecia descriptio, una mappa disegnata  da Nicola Sofiano, umanista, grammatico e cartografo greco poco più giovane di lui, e pubblicata più volte a partire dal 1540 (di seguito nell’edizione del 1552 da http://www.europeana.eu/portal/it/record/9200365/BibliographicResource_2000081566928.html?q=totius+graeciae+descriptio).

23bis

 

È tempo, però, di tornare alla nostra mappa di Taranto, giusto per dire che in documenti del genere è chimerico pensare ad una rappresentazione fedele dei luoghi così come all’epoca apparivano, per cui, ai miei occhi la tavola appare un ibrido immaginario tra una città magno-greca ed una cinquecentesca.

Per chi volesse affermare il contrario, faccio seguire, al fine di agevolare l’eventuale analisi comparativa, le due mappe della città inserite tra le pagine 160 e 181 del secondo volume de Il regno di Napoli in prospettiva, opera postuma di Giovanni Battista Pacichelli (1634-1695), Perrino, Napoli, 1703. Non credo che in poco più di un secolo (in passato lo stravolgimento dei luoghi, fatta eccezione per qualche invasione vandalica, non aveva il ritmo forsennato assunto oggi) i cambiamenti siano stati così imponenti. Ad ogni buon conto: ogni pertinente riflessione sarà ben accetta.


_______________

1 Sulla presunta Rudie tarantina vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/08/la-toponomastica-della-provincia-di-taranto-in-una-carta-del-1589/

2 In Tolomeo (II secolo d. C.), Geographia, III, 1, 64 è registrata Βαῦστα (leggi Bàusta) che il Cluverio (1580-1622) lesse Βαοῦτα  (leggi Baùta), da cui *Bavota (forse proprio per suggestione del Bavota che compare nella nostra carta), ripreso dal Rohlfs per il quale Parabita potrebbe derivare da πέρα Βάβοτα (leggi pera Bàbota)=oltre Bavota. Tale identificazione, però contrasta con le coordinate geografiche che Tolomeo dà per Βαῦστα, che oggi si tende ad identificare con Vaste.

Riflessioni sulle reliquie della passione di Cristo della chiesa di Santa Maria del Tempio in Lecce

di Giovanna Falco

 

In occasione della Settimana Santa 2012 su Spigolature Salentine è stato pubblicato l’articolo Lecce e gli strumenti della Passione di Cristo: araldica religiosa e reliquie[1], dove elencando i frammenti sacri attestati nel 1634 da Giulio Cesare Infantino nelle chiese leccesi, si citano anche quelli conservati nella chiesa di Santa Maria del Tempio[2].

Approfondito l’argomento, è stato possibile apprendere ulteriori notizie inerenti reliquie e reliquiari custoditi, forse sino ad una delle soppressioni ottocentesche, nella sagrestia della chiesa dei padri Riformati, e mettere a confronto le testimonianze tra loro discordanti a causa della natura delle fonti: relazioni francescane e descrizioni che, pur se scritte da testimoni oculari, non possono essere considerate attendibili in mancanza di documenti che ne attestano la veridicità.

Infantino cita  «Il Santissimo Chiodo del Signore. Una Spina della Corona di Christo. Due pezzotti del legno della Santa Croce»[3]. Nel Chartularium della Serafica Riforma di S. Nicolò la relazione di padre Gonzaga del 1646 riporta le «una Spina ed un Chiodo di Nostro Signore»[4], così come padre Giovan Battista Moles da Turi nel 1664: «una Spina Coronae Christi Domini Salvatoris nostri, unusque Clavus»[5]. L’abate Giovan Battista Pacichelli del 1686 enumera oltre al Chiodo «una spina insanguinata del Signore, un pezzo del Santo Legno della Croce»[6]. Negli anni Venti del Settecento, infine, padre Bonaventura da Lama elenca: «due spine della corona di Cristo Signore nostro, ed uno de’ chiodi che lo trafissero» e «una piccola Croce, tutta di legno della Croce di Nostro Signore»[7].

Dal confronto si nota come tutte le fonti concordano sulla presenza del Chiodo, ma non c’è corrispondenza sul numero delle Spine (padre da Lama a differenza degli altri ne cita due), né sul legno della Croce. Le relazioni seicentesche del Chartularium, pur se successive alla Lecce sacra,non menzionano questa reliquia. Infantino, inoltre, fa riferimento a «Due pezzotti del legno della Santa Croce», ma solo «un pezzo» è menzionato da Pacichelli. Queste due ultime testimonianze differiscono da quella di padre Bonaventura da Lama:

«Essendo poi morto in questo Convento il Padre Antonio da Castellaneta Predicatore dei Riformati, l’anno 1675, lasciò una piccola Croce, tutta di legno della Croce di Nostro Signore, datali da un Paesano, qual diceva con fede giurata, che soleva tenerla in petto Urbano VIII»[8].

Ritratto di Urbano VIII di Bernini (1632), tratto da commons.wikimedia.org http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bernini-Urban8.jpg
Ritratto di Urbano VIII di Bernini (1632), tratto da commons.wikimedia.org
http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bernini-Urban8.jpg

A differenza dell’abate Pacichelli, che riferisce quanto gli fu raccontato durante la sua visita al convento, cioè che la reliquia era stata donata ad un frate «dalla Principessa Donna Olimpia Panfili»[9], padre da Lama cita “una fede giurata” probabilmente conservata nell’archivio francescano.

È stato possibile appurare che dal 1635 al 1645 fu vescovo di Castellaneta Ascenzio Guerrieri, già «Cappellano Segreto d’Urbano VIII»[10], canonico della basilica di Santa Maria in Cosmedin e precettore del cardinal nepote Francesco Barberini[11]. Dato che si è a conoscenza di almeno un altro manufatto simile a quello leccese,  «due particelle del Sacro Legno della Santa Croce di Nostro Signore Gesù Cristo adattate in forma di croce»[12] donate da Urbano VIII (1623-1644) a Barberini, non è del tutto inverosimile supporre che il vescovo di Castellaneta abbia posseduto la reliquia pervenuta successivamente alla chiesa di Santa Maria del Tempio.

Nel 1629 il papa trasferì nella basilica di San Pietro alcuni frammenti della Croce, ribadendone il valore cultuale con la bolla del 9 aprile Ex omnibus Sacris Reliquiis:

«Urbano, estraendo da una Croce del Santo Legno della Croce, che si conserva nella chiesa di s. Ananstasia, e da un’altra parimente conservata nella Chiesa di s. Croce in Gerusalemme, alcune particelle, le fece includere in una Croce di argento, di preziose pietre ornata, e di questa fece un dono alla Basilica Vaticana, ordinando che fosse collocata fra le Reliquie maggiori, e mostrata ne’ consueti giorni al popolo, dopo la Sagra Lancia, e prima della Sagra Veronica, con Indulgenza plenaria ogni volta, che si mostrassero queste tre sacrissime Reliquie»[13].

La reliquia di Santa Maria del Tempio, dunque, potrebbe essere uno dei frammenti della Sacra Croce portati, secondo la tradizione, da san Girolamo e sant’Elena a Roma e custoditi, rispettivamente, nella basiliche di Sant’Anastasia e di Santa Croce in Gerusalemme. Accurate ricerche potrebbero confermare o smentire questa ipotesi.

Interno basilica Santa Croce in Gerusalemme in Roma, tratto da commons.wikimedia.org
Interno basilica Santa Croce in Gerusalemme in Roma, tratto da commons.wikimedia.org

In qualche modo la storia della chiesa di San Giovanni in Gerusalemme si era già intrecciata con quella di Santa Maria del Tempio anche attraverso le vicende del Chiodo: Raimondello Orsini del Balzo, cui padre da Lama attribuisce la donazione della sacra reliquia, intorno al 1386 commissionò per la basilica romana il trittico reliquiario detto altare di San Gregorio[14].

Il Chiodo «assai grosso con la punta tagliata»[15] ove «si vedono stille di sangue»[16], all’epoca di Infantino era riposto «in un bel vaso d’oro, fatto da una collana d’oro offerta à quest’effetto dal Principe di Taranto la prima volta, che adorò questa Santa Reliquia»[17]. Data l’epoca di fondazione del convento (1432), nel 2012 si è attribuito l’atto di devozione a Giovanni Antonio Orsini del Balzo. Nel 1664 padre Moles scrive «Clavus repositus ab Excellentissimo Domino Joanne Antonio Baucio Ursino Comite Lytij ut supra»[18], perché gli assegna erroneamente anche la fondazione di Santa Caterina in Galatina[19]. Senza alcun dubbio Bonaventura da Lama reputa che il Chiodo fu donato con «la Pace, che teneva seco il Conte di Lecce, Raimondo»[20], morto nel 1407.

National gallery in Washington d.c., Gian Lorenzo Bernini, monsignor Francesco Barberini, 1623 circa, tratto da commons.wikimedia.org http://commons.wikimedia.org/wiki/File:National_gallery_in_washington_d.c.,_gian_lorenzo_bernini,_monsignor_francesco_barberini,_1623_circa.JPG
National gallery in Washington d.c., Gian Lorenzo Bernini, monsignor Francesco Barberini, 1623 circa, tratto da commons.wikimedia.org

Non è dato sapere se l’atto di devozione sia da attribuire a Raimondello o ai suoi eredi, sta di fatto che, attenendosi a quanto tramandato dalle fonti, ci si chiede perché una reliquia reputata così importante sia stata offerta alla Madonna del Tempio e non alla basilica di Santa Caterina in Galatina fondata da Raimondello e dotata dagli Orsini del Balzo di numerosissimi frammenti sacri, tra cui una Spina, una scheggia della colonna della flagellazione e un’altra fede appartenuta a Raimondello[21], né alle leccesi chiese di Santa Croce (dove fu sepolta Maria d’Enghien) o di San Giacomo nel Parco (fondata da Raimondello)[22]. Forse la famiglia nutriva una particolare venerazione per una immagine miracolosa della Madonna del Tempio, attribuita nel 1647 da padre Diego Tafuro da Lequile a San Luca[23], conservata in «un’antichissima Cappella che per antica tradizione si dice esse stata de’ Principi di Taranto»[24], ricadente nei giardini del convento di Santa Maria del Tempio.

Blasone Orsini del Balzo, tratto da commons.wikimedia.org
Blasone Orsini del Balzo, tratto da commons.wikimedia.org

I leccesi nutrivano una forte venerazione per la reliquia, perché «per quem Clavum Cives Lytientium multa, et continua beneficie recipiunt»[25] e il «Venerdì Santo la sera, concorre tutta la Città, a baciare il Santo Chiodo, ed insieme la Croce, e le Spine, tutte quel giorno rubiconde»[26], riposte dopo il 1634 in un unico reliquiario d’argento, una croce scrive Pacichelli, un’Ostensorio secondo padre da Lama, che aggiunge:

«Nel Chiodo anche si vedono stille di sangue, né mai l’acqua toccata dal Chiodo per bisogno d’Infermi, che la chiedono con divozione, ha potuto per lo spazio di tanti anni cancellare, o generare, com’è solito del ferro, la ruggine»[27].

L’usanza di immergere nell’acqua il sacro Chiodo «per divozion de gl’infermi» è riportata anche da Pacichelli, che con disappunto ricorda «non però datasi a me questa a gustare per la poltroneria di un laico sagrestano»[28].

 

[1]https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/31/lecce-e-gli-strumenti-della-passione-di-cristo-araldica-religiosa-e-reliquie-2/

[2] Cfr. G. C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979). Sulle reliquie in Santa Maria del Tempio cfr https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/17/una-passeggiata-a-lecce-di-fine-seicento-labate-giovan-battista-pacichelli-descrive-la-citta-terza-ed-ultima-parte/  .

[3] G. C. Infantino, op. cit., p. 210.

[4] B.F. Perrone, Chartularium della Serafica Riforma di S. Nicolò. Documenti inediti sulla presenza dei Frati Minori in Puglia e a Matera dal 1429 al 1893, p. 80.

[5] Ivi, p. 130.

[6] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi dell’abate Pacichelli (1680-7), Galatina 1993, p. 76. Riguardo l’opera dell’abate Pacichelli cfr. su questo sito https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/05/una-passeggiata-a-lecce-di-fine-seicento-labate-giovan-battista-pacichelli-descrive-la-citta/  e La Terra d’Otranto ieri e oggi, 14 articoli di Armando Polito di cui l’ottava parte è dedicata a Lecce https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/17/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-814-lecce/

[7] B. Da Lama, Cronica de’ Minori osservanti riformati della provincia di S. Nicolò, a cura di L. De Santis, Lecce 2002, 2 voll., vol. II, p. 56.

[8] B. Da Lama, op. cit., p. 56.

[9] M. Paone, op. cit., p. 76. Olimpia Maidalchini Pamphili (1592-1657) era la discussa cognata di Giovan Battista, papa Innocenzo X (1644-1652), e nel suo testamento devolse un congruo lascito affinché fossero celebrate messe presso le chiese dei Minori Riformati a Roma e a Viterbo, cfr. http://212.189.172.98:8080/scritturedidonne/Testamenti/Pamphili/pdf/MaidalchiniO.pdf .

[10]G.M. Crescimbeni, L’Istoria della basilica diaconale, collegiata e parrocchiale di S. Maria in Cosmedin di Roma, Roma 1715, p. 274.

[11] Cfr. http://web.tiscali.it/enteliceoconvitto/moticense6/5Flaccavento.htm

[12]S. Crepaldi, Santi e Reliquie. Devozione popolare nella diocesi novarese, Cologno Monzese 2012, p. 147. La reliquia, dopo svariati passaggi di proprietà, nel 1717 fu offerta da mons. Lorenzo Gallarati alla comunità di Tornaco nella diocesi di Novara (cfr. Ibidem). Lo stesso pontefice devolse nel 1634 «una Croce di argento con un pezzetto del legno della Santa Croce» alle monache carmelitane della chiesa di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi di Firenze (G. Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine divise ne’ suoi quartieri, Tomo I, Firenze 1754, p. 324).

[13]G. De Novaes, Elementi della storia de’ sommi pontefici da san Pietro sino al felicemente regnante Pio papa VII, Tomo 9, Roma 1822, p. 222. È la reliquia con cui la mattina del Venerdì Santo in San Pietro è data la benedizione solenne. Puntuali notizie sulle reliquie maggiori della Basilica di San Pietro e la loro provenienza sono in F. Cancellieri, Descrizioni delle funzioni della Settimana Santa nella Cappella Pontificia, Roma 1818, pp. 144-152.

[14] Cfr. http://www.cassiciaco.it/navigazione/monachesimo/conventi/monasteri/italia/toscana/fivizzano/bosco.html. Per l’immagine del reliquiario cfr. http://pesanervi.diodati.org/pn/?a=302.

[15] M. Paone (a cura di), op. cit., p. 76.

[16] B. Da Lama, op. cit., p. 56.

[17] G. C. Infantino op. cit., p. 211.

[18] B.F. Perrone, op. cit., p. 130.

[19] Cfr. Ivi, p. 129.

[20] B. Da Lama, op. cit., p. 56. Sulla suppellettile liturgica denominata pace, cfr. http://www.silvercollection.it/pace.html

[21]https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/04/26/note-sulla-chiesa-e-sul-tesoro-di-s-caterina-dalessandria-in-galatina/

[22]Cfr. P.F. Palumbo,  LibroRosso di Lecce. Liber Rubeus Universitatis Lippiensis, 2 voll. Fasano 1997, vol. I, p. 61. Nella sagrestia del convento francescano era conservato anche «Il dito di San Giacomo Apostolo, che lo tiene in petto, in Statoa di mezzo busto» (B. Da Lama, op. cit., p. 56).

[23] Cfr. Cfr. B.F. Perrone, op. cit., p. 102.

[24] G. C. Infantino, op. cit., pp. 208-9.

[25] B.F. Perrone, op. cit., pp. 130-131.

[26] Da Lama, op. cit., pp. 56-57.

[27] Da Lama, op. cit., pp. 56-57.

[28] M. Paone (a cura di), op. cit., p. 76.

 

Una sponsorizzazione femminile dell’anfiteatro di Rudiae nella travagliata storia di una fantomatica epigrafe (CIL IX, 21)? (Prima parte)

di Armando Polito

immagine tratta da http://www.leccesette.it/archivio/img_archivio1682013151042.jpg
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Prima che le risultanze archeologiche ne dessero conferma, l’unica notizia  sull’esistenza di un anfiteatro a Rudiae era quella lasciataci da Girolamo Marciano (1571-1628) nella sua Descrizione, origine e successi della provincia d’Otranto uscita postuma a Napoli per i tipi della Stamperia dell’Iride nel 1855, dove, a pag. 502, si legge: Io ho visto e letto un instrumento mostratomi dal curiosissimo Francesco Antonio De Giorgio mio amico, nel quale si legge che l’anno 1211 a 10 di dicembre Gaita moglie di Orazio Ruggiero di Rudia dimorante in Lecce donò un pajo di case al monastero di S. Niccolò e Cataldo. Dal quale si raccoglie che sebbene la città di Rudia fu distrutta l’anno 1147 da Guglielmo il Malo, tuttavia insino al detto anno 1211, e forse più se ne mantennero in piedi gli avanzi, dappoichè gli abitatori non si ridussero totalmente dentro la città di Lecce. Delle reliquie di questa città oggi non si vede altro che rottami di pietre ed il sito dell’anfiteatro, in cui non sono molti anni fa fu ritrovato un marmo, che oggi si conserva in casa del signor D. Vittorio Prioli1 in Lecce con questa iscrizione:

OTTACILLA M. F. SECUNDILLA

       AMPHITEATRUM

Non si legge altro che questo nel marmo, non essendo intero, ma in molte parti spezzato.

Da quanto appena riportato risulta che l’epigrafe era viva e vegeta fino a buona parte della prima metà del secolo XVII e che il suo rinvenimento, a Rudiae, doveva essere avvenuto presumibilmente (altrimenti, come intendere non sono molti anni fa?) nella seconda metà del secolo XVI2.

Pellegrino Scardino, Discorso intorno l’antichità e sito della città di Lecce, Stamperia G. C. Ventura, Bari, 1607, pag. 12: Fuori della Città presso le mura, in un luogo, dove oggi si vede il convento dei Frati Scalzi di San Francesco, era a’ tempi passati l’Anfiteatro per gli spettacoli del Popolo, del quale, benche oggi nessuna parte ne sia in piedi, nientedimeno fra le cose guaste, e rovinate ne appariscono alcuni segni. Acquista di ciò fede al vero un Marmo ritrovato fra gli edifici sotterranei con inscrittione che comincia OTTACILLA M. F. SECUNDILLA/AMPHITEATRUM non si legge più di questo nel Marmo, non essendo intero; ma in molte parti spezzato e lacero, mercè degli anni che a lungo andare rodono a guisa di tarlo ogni cosa.  Conservava gli anni a dietro questo picciolo Marmo nel suo leggiadretto Museo, degno di vedersi per la varietà dei libri e di molte cose antiche, il signor Ottavio Scalfo, medico e filosofo singolarissimo, la cui acerba ed immatura morte oscurò in buona parte non solo la gloria delle Muse, ma tolse ancora al Mondo la maniera dei più nobili e cortesi costumi. Oggi, fra la compagnia d’altri marmi si vede ricoverato dal signor Vittorio de Priuli, gentiluomo Leccese, sottile investigatore delle cose antiche, il quale, infiammato di ogni virtuoso pensiero, si rende huomo singolare in ogni maniera di alto e liberale mestiere.  

Nonostante l’ambiguità di edifici sotterranei lo Scardino collega senza esitazione il marmo all’anfiteatro di Lecce e in più ci fornisce la notizia che il marmo era stato custodito prima da Ottavio Scalfo3 e poi, confermando il Marciano, da Vittorio Prioli.

Giulio Cesare Infantino (1581-1636), Lecce sacra, Micheli, Lecce, 1634 (cito dall’edizione anastatica Forni, Sala Bolognese,1979, p. 213): Fuori le mura della Città di Lecce, e propriamente nel Parco, è l’antica, e Regia Cappella di S. Giacomo Apostolo, Protettore delle Spagne: la qual Cappella in questi ultimi anni, cioè nel 1610 fù conceduta insieme con un giardino, e parte delle stanze a’ Padri Scalzi di San francesco, i quali hoggi vi dimorano, havendo dato buon principio alla fabrica de’ loro Chiostri. E Cappella assai divota, massime dapoi che i detti Padri vi vennero ad habitare, per essere molto assidui alle confessioni, & altre loro religiose osservanze. Quivi era ne’ tempi antichi un’Amfiteatro per gli spettacoli del popolo, del quale benche hoggi niuna parte ne comparisca, pure frà le cose guaste, e rovinate ne compariscono alcuni segni. Testimonio ne fa un marmo antico, ritrovato sotterra, se ben spezzato, e lacero,che gli anni à dietro conservava appresso di sé con molt’altre cose antiche, degne da vedersi, Ottavio Scalfo Medico in questa Città, e Filosofo singolarissimo, honor di questa Provincia: hoggi si conserva in casa di Giovanna Paladini che fù moglie di     D. Vittorio Prioli, gentil’huomo Leccese, Conte Palatino, & à suoi tempi diligente investigatore delle cose antiche, il cui principio è questo

Ho riportato in formato grafico il resto del testo4 riguardante proprio la nostra epigrafe perché il lettore comprenda più agevolmente come la questione, già complicata di per sé, deve fare i conti con problemi accessori. Un esempio per tutti: quell’Amphiteatrum riportato in tal modo fa pensare che fosse leggibile (da chi?) solo la A e che il resto fosse integrazione (di chi?). In più compare un RE. P. R. che, come vedremo nella prossima puntata, non è presente nella trascrizione del CIL.

Giovan Battista Pacichelli (1634-1695), Il regno di Napoli in prospettiva, Parrino, Napoli, 1703, v. II, pag.. 167 e 168: Accenna Livio, che Lecce, detta ancor Licia, e Lupia, doppo il dominio de’ Salentini, ubbidì al Senato di Roma, e Colonia de’ Romani la testifica Plinio, & un Marmo ritrovato nelle rovine della distrutta Rudia l’autentica.

C. Claudio C. T. M. N. Neroni Cos./ob rem felicissime in Piceno adversus Poenorum/ducem Asdrubalem gestam Sen. Pop.& militum/statio Lupien. A. H. P.5

 [Lecce] esperimentò le vicende della fortuna con l’altre Città distrutte dal re Guglielmo il Malo l’anno 1147, come nota Antonello Coniger nella sua Cronica6 , assieme con la sua Compagna Rudia fabricate ad un tempo dal sudetto Malennio, che per somministrarsi scambievolmente i soccorsi, le congiunse con una strada sotterranea7 , che anche ritiene il nome di Malenniana e se ne scorgono alcuni vestiggi.

Trascurando l’ultimo autore che, fra l’altro, crea un po’ di confusione mettendo in campo l’epigrafe rudina di cui mi sono occupato non molto tempo fa (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/05/01/lepigrafe-di-rudie-ovvero-cil-ix-23-un-maquillage-ben-riuscito-pero/), un bilancio potrebbe così essere stilato: non sappiamo se la testimonianza del Marciano fosse stata già redatta alla data di pubblicazione del lavoro dello Scardino, ma anche se così non fosse stato è da presumere che un umanista del calibro del Marciano abbia trascritto de visu il testo dell’epigrafe ed è difficile immaginare che si sia inventato la contestualizzazione del reperto che, comunque, risulta, come s’è visto, meno generica di quella dello Scardino. Quando, poi, all’assenza o ai dubbi di contestualizzazione si aggiunge pure la scomparsa del reperto, la frittata è fatta.  Così passano i secoli e le memorie spesso sono costrette ad intrecciare le loro nebulosità  non per colpa loro ma degli uomini. Ѐ il caso della nostra epigrafe che, nel frattempo dimenticata e pure fisicamente perduta, ritorna in auge nel 1938 quando, durante la risistemazione dell’anfiteatro di Lecce (Lupiae), venne rinvenuta un’iscrizione oggi, anch’essa, scomparsa:

TRAIANI

IMP III CO

PATRE LIBE

Da allora la costruzione dell’anfiteatro di Lecce, che prima quasi concordemente era stata attribuita ad Adriano, fu da parecchi studiosi attribuita a Traiano. Ci fu pure chi si spinse oltre: G. Paladini8 e R. Bartoccinila considerarono in relazione con la nostra. L’operazione apparve arbitraria già al Susini (Fonti per la storia greca e romana del Salento, Tipografia della S.T. E. B., Bologna, 1962, p. 107) e M. Bernardini (La Rudiae salentina, Editrice salentina, Lecce, 1955, pp. 37-38) dal canto suo rivendicò la probabile provenienza rudina della nostra epigrafe; anche a me pare un’operazione discutibile sul piano metodologico ma alla resa dei conti inaccettabile perché non tiene in alcun conto la testimonianza del Marciano nella quale più chiara non poteva essere la contrapposizione tra Lupiae e Rudiae, tanto più che il brano citato fa parte del capitolo XXIII che ha per titolo Della città di Rudia, sua origine e distruzione. Tuttavia, per onestà intellettuale e prima che qualcuno me lo faccia presente, debbo dire che il lavoro del Marciano fu pubblicato, come s’è detto, postumo con aggiunte del filosofo e medico Domenico Tommaso Albanese di Oria (1638-1685), come recita il frontespizio; secondo me è piuttosto improbabile che una delle aggiunte abbia riguardato, integralmente e pesantemente, proprio questo capitolo.

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/09/una-sponsorizzazione-femminile-dellanfiteatro-di-rudiae-nella-travagliata-storia-di-una-fantomatica-epigrafe-cil-ix-21-seconda-ed-ultima-parte/

__________

1 Nelle immagini sottostanti uno scorcio dell’omonima via, Palazzo Prioli al civico 42 (settembre 2011; oggi, dopo il restauro, è sede del resort Mantatelurè)  e il dettaglio dello stemma della famiglia Prioli.

 

Vittorio Prioli, appartenente ad una famiglia di origini venete, fu una delle figure di spicco della cultura leccese tra XVI e XVII secolo. Fu sindaco nel 1593; il suo nome compare più volte negli atti del processo di beatificazione del gesuita Bernardino Realino di Lecce (Sacra rituum congregatione Eminentissimo et Reverendissimo Domino  Cardinali Pedicini relatore Neapolitana seu Lyciensis beatificationis et canonizationis venerandi servi Dei Bernardini Realini Sacerdotis Professi Societatis Jesu, Summarium super virtutibus, Tipografia della Reverendissima camera apostolica, Roma, 1828, passim) come donante di una cassa di cipresso foderata di tela d’oro in cui fu trasferito il gesuita a due mesi dalla morte avvenuta, appunto, il 2 luglio 1616. Egli  era sicuramente vivo alla data del 1627 perché nel catasto di Monopoli di quell’anno, carta 489 v.,  Giovanni di Francesco Palmieri risulta debitore di ducati 233, 1, 13 nei confronti del monastero di San Giovanni Evangelista  di Lecce e di ducati 116, 3, 6 a don Vittorio Prioli della stessa città).

Per le sue mani potrebbe essere passato, oltre alla nostra epigrafe, anche il manoscritto delle Cronache di Antonello Coniger (Ferdinando Galiani, Del dialetto napoletano, Mazzola-Vocola, Napoli, 1779, p. 109: … si conserva ms. presso del Signor Conte D. Vittorio Prioli; per motivi temporali dovrebbe trattarsi di un discendente del nostro).

E proprio nelle  Cronache del Coniger all’anno 1511 si legge: In questo anno alo primo de maggio fo morto mio fratello Gio. Francisco Coniger, & per non haver fillij lecitimi ho successo io Antonello Coniger, & alla Baronia. In questo anno alle 29 di Maggio lo dì della Sensa (?) venne uno Corsaro de Turchi cum dui barcie, una Galera e cinq. fusti  in San Cataldo pigliò la Turre per forza, amazò tutti trovati dentro, mise foco a magazeni, & pigliò più di cento butti pieni di Oglio di Citatini di Lecce, tra li quali Messer Vittorio de prioli ncinde ebbe cinquanta, & cinq. Molto probabilmente il Vittorio de prioli qui nominato era il nonno del nostro.

C’è da pensare che mai il Prioli sospettò che l’iscrizione da lui custodita potesse riferirsi all’anfiteatro di Rudiae leccese, se è attendibile quanto afferma Jacopo Antonio Ferrari (1507-1587) nell’ Apologia  paradossica (Mazzei, Lecce, 1707; cito dalla seconda edizione, stesso editore, stesso luogo, del 1728, p. 141) : Rodia è quella che scrisse Strabone d’essere situata meno di diece miglia lontana da Brindisi, le cui vestigie essendo per molti secoli a pochissimi note, per trovarsi tra la terra di Misagne ed il Castello di Latiano, li signori Claudio Francone Signore di detto Castello di Latiano, e ‘l Signor Vittorio Prioli suo affine nostri Patrizj Leccesi dottissimi, essendo insieme andati a ritrovare tra quei boschi di olive, che ora l’hanno coverte, l’hanno parimente vedute, e chiaritisi d’essere quella, per ritenere quel deserto luogo il suo antico nome di Rodia presso de’ popoli vicini e de’ pastori, che là pascono la loro gregge.

Un’altra notizia sugli interessi antiquari del nostro è contenuta in Girolamo Marciano, op. cit., p. 28: Si conserva un marmo di queste antiche lettere [messapiche] nella città di Lecce in casa del chiarissimo e diligentissimo investigatore delle memorie antiche dott. Vittorio Prioli con una sottoscrizione di suo zio dott. Scipione De Monti, dal quale furono ritrovate in un antico muro della città di Lecce, e dal medesimo con diligenza conservata.  

Per le mani del Prioli dovette passare anche un manoscritto realizzato appositamente per lui; esso sarà oggetto di studio in un prossimo post ispiratomi da una segnalazione di Giovanna Falco, che qui pubblicamente ringrazio.

2  Non  riesco a capire, anche per l’esplicito riferimento al Marciano nella stessa edizione da me utilizzata per la citazione,  la datazione proposta da Mariagrazia Bianchini in Diritto e società nel mondo romano, 1. Atti di un incontro di studio, Pavia, 21 aprile 1988, New Press, Como, 1988, pag. 83, nota 40: Si ha notizia che l’iscrizione (CIL IX, 21), rinvenuta a Rudiae sulla fine del XIV secolo nel “sito dell’Anfiteatro” (vd. G. MARCIANO, Descrizione, origine e successi della terra d’Otranto, Napoli, 1855, 502) …

3 Una scheda dedicata ad un Ottavio Scalfi, letterato, poeta, dedito agli studi filosofici e medici nato a Galatina è presente nel Dizionario Biografico degli Uomini Illustri di Terra d’Otranto di Francesco Casotti, Luigi De Simone, Sigismondo Castromediano e Luigi Maggiulli, Lacaita, Manduria e Roma, 1999; essendo vissuto dal 1539 al 1612 sarà stato un omonimo parente del nostro per il quale lo Scardino parla di morte acerba ed immatura. Quest’ultima non può essere considerata neppure una formula di cortesia a sottolineare il fatto che sempre acerba e prematura è la morte di un uomo di grande levatura, perché l’Ottavio della nostra scheda era ancora in vita quando (1607) uscì il lavoro dello Scardino. Non è da escludere, tuttavia, che la data di morte nella scheda sia da correggere in 1602, anche perché il resto della stessa così prosegue: Riunì in un museo privato varie antichità della provincia che dopo la sua morte passò nelle mani del Conte Vittorio de Priuli. Nella bibliografia che correda la scheda è citato il testo Galatina letterata di Alessandro Tommaso Arcudi, uscito per i tipi di Giovan Battista Cilie a Genova nel 1709, testo chiaramente utilizzato nella compilazione della scheda ed al quale, perciò, è ascrivibile l’errore, se di errore  si tratta, prima ipotizzato. D’altra parte non dovrebbe essere l’unico se alla fine della trattazione della vita di Ottavio Scalfo (pp. 130-131) l’Arcudi, che all’inizio aveva indicato come data di nascita il 1539, scrive:  Nella quale città [Lecce] sodisfece al comune tributo della natura nel 1612 all’età di 65 anni.

4 Ringrazio la signora Giovanna Falco (la stessa di prima …) per avermi segnalato la testimonianza dell’Infantino ed avermi fornito la copia fotostatica del brano riguardante l’argomento.

5 Questa iscrizione non è registrata nel CIL (a suo tempo il Mommsen la giudicò falsa). Il Pacichelli molto probabilmente la trae dal Marciano (op. cit., pag. 520) che scrive:  E così anche si legge in alcuni marmi, come in uno ritrovato secondo il Ferraris (non si tratta di Antonio De Ferrariis più noto come il Galateo, ma di Iacopo Antonio Ferrari che nella sua Apologia paradossica, Mazzei, Lecce, 1707,  la riporta così: C CLAVDIO C. F. M. N./NERONI COS./OB REM FELICISSIME IN PICENO/ADVERSVS POENORVM DVCEM/ASDRVBALEM GESTAM , SEN./POP. ET MILITVM STATIO LVPIENS./A. H. P.) tra le rovine di Rugge, città distrutta a sé convicina, che dice così:

C. Claudio C. T. M. N. Neroni Cos. ob rem felicissime/in Piceno adversus Poenorum/ducem Asdrubalem /gestam Sen. Pop.& militum statio Lupien. A. H. P.

Da notare come i tre testi differiscono nella disposizione delle linee.

6 A voler essere precisi nel Coniger si legge: 1157 Rugieri Duca di Calabria primo genito de Re Gullielmo per non li haver voluto dare obedienza la Cità di lecce, e tutte le altre Terre del Duca di Athena, & Conte de lecce; ne ad Re Rogieri, ne a Re Gullielmo suo padre, per retrovarse in Francia detto Duca di Athena, venne in campo ad Lecce cum molto esercito dove la tenne assediata anni tre, infine la pilliao per tradimento chi fe lo Camberlingo, entrò dentro, el Duca di Calabria ditto Rogieri jettao le mura, & tutte le case atterra reservato quell l’adomandao di gratia, & a lui li fe talliare la testa, pillao tutte altre terre, & fe jettare case, & mure chi erano del Duca de Athena, como ad Rugge, Balisu, Vste, & Colomito, & fe bandoZenerale, che nisciuno possa fare case in ditta Cità, & Terre se non alte da terra una canna & mezza al più, e le porte fossino senza archi, & quelle de legname ad stantoli, & questo che le casamente alte chi erano in Lecce li fero …. Essendo dentro che non da faci.

7 Già il Galateo nel De situ Iapygiae aveva scritto:  Duas urbes idem populus habitat, ut de Neapoli dicunt, & Palepoli; quin etiam inter ipsas fama est subterraneas fuisse specus, per quas mutua auxilia sibi invicem cum opus erat, praestabant. Inter has urbes minus quam duorum millium passuum spatium interiacet. Rhudiae, seu Rhodeae, & a Stephano Ρόδαι, seu Rui, per literam I vocalem, sive per j literam consonantem crasso quodam, ut mos est, regionis sono Rugae dicuntur: unde Lupiarum porta, & quarta pars urbis, quam Pittacion Graeco nomine appellant, Rhudiarum dicuntuur. Hae penitus interiere, ut vix cognoscas quo loco fuerint, tantum nomen restat inane … harum aedificia tempus obruit, & rusticus antiquitatum omnium eversor eversat aggeres. Alicubi murorum cernuntur sepulchra innumera fictilibus vasculis, & ossibus plena. Huius urbis nomen & fama apud complures homines, ut & ipsa, cecidit; nunc tota aut feritur, aut oleis consita est …(Lo stesso popolo abita due città [Lecce e Rudie], come dicono di Napoli e di Palopoli; anzi si dice che tra le stesse ci siano state cavità sotterranee attraverso le quali si davano aiuto l’un l’altra all’occorrenza. Tra queste città c’è uno spazio di meno di due miglia. Si dice Rudie o Rodee, e secondo Stefano Ρόδαι [leggi Ròdai], o Rui, Rute per mezzo della i vocale o della consonante in un  suono grossolano  della regione, com’è costume; perciò la porta di Lecce e il quartiere della città che con parola greca chiamano pittagio sono dette di Rudie. Essa è completamente perduta, sicché a stento riconosceresti in quale luogo si trovasse e ne resta solo il vuoto nome …  il tempo ha sotterrato i suoi edifici e il contadino distruttore di ogni antichità rivolta i terrapieni. In qualche luogo si scorgono innumerevoli sepolcri in muratura pieni di piccoli vasi di terracotta e ossa. Il nome e la fama di questa città presso molti uomini, come essa stessa, decadde; ora viene tutta vandalizzata o coltivata ad oliveto …).

8 Guida storica ed artistica della città di Lecce, 1952. L’autore giunge alla conclusione che Otacilla Secundina eresse la fabbrica di Lecce sotto Traiano.

9 All’epoca della scoperta dell’anfiteatro (1929) il Bartoccini era sopraintendente e la primitiva attribuzione della costruzione ad Adriano porta la sua firma (Il teatro romano di Lecce, estratto da  Dioniso, XIII, 1, 1935) anche se era stato Cosimo De Giorgi (Lecce sotterranea, Stabilimento tipografico Giurdignano, Lecce, 1907, pp. 193-197) il primo ad ipotizzarlo. Dopo la scoperta del 1838, però, il Bartoccini, considerando la nuova epigrafe integrazione della nostra, attribuì a Traiano l’edificazione della fabbrica (Apud Susini, op. cit, p. 107) e a Otacilia Secundilla solo il ruolo di intermediaria nella sovvenzione.

La Terra d’Otranto ieri e oggi (8/14): LECCE

di Armando Polito

Il toponimo

La forma più antica è greca, cioè Λουπίαι (leggi Lupìai), ed è attestata in un frammento della Vita di Cesare di Nicola Damasceno (I secolo a. C.): Cesare [Ottaviano] salpò con le navi che aveva a portata di mano mentre era ancora in corso pericolosissimamente l’ inverno e, attraversato il mare Ionio, raggiunse il più vicino promontorio della Calabria dove nulla di chiaro era stato annunziato agli abitanti sulle ultime novità da Roma [l’uccisione di Giulio  Cesare]. Sbarcato dunque lì, proseguì a piedi verso Lecce.1

Λουπίαι continua in Strabone (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Geographia, VI, 3, 6: Si è parlato sufficientemente delle piccole città sulla costa; nell’interno si trovano Rudie, Lecce …2

La forma latina esatta trascrizione della greca è Lùpiae, la cui attestazione più antica è in Pomponio Mela (I secolo d. C.), Chorographia, II, 66: … in Calabria Brundisium, Valetium, Lupiae … (… in Calabria Brindisi, Valesio, Lecce …).

In Giulio Capitolino, uno dei sei storici della Historia Augusta (compilazione del IV secolo d. C.), ricorre la forma Lòpiae3.

In Tolomeo (II secolo d. C.), Geographia, II, 12 ricorre la forma Λουππίαι (leggi Luppìai).

Tutte le forme fin qui riportate sono di numero plurale.

La trascrizione latina al singolare della variante tolemaica si ha nella Tabula Peutingeriana (copia del XIII secolo  di un originale del IV secolo d. C.), VIII,  7, dove compare Luppia (da leggere Lùppia), evidenziato in rosso nell’immagine sottostante.

 

Nella Cosmographia dell’Anonimo Ravennate (VII secolo d. C.) ricorre il singolare Lùpia in IV, 31 e il plurale  Lupiae in V, 1.

Nei Geographica, di Guidone (XII secolo d. C.) ricorre in 28 Lictia4 e in 71 Liccia5.

Questa forma antica che cronologicamente è la più vicina appare come la madre di Lecce e consente di tracciare la seguente probabile trafila:  Λουπίαι (Nicola Damasceno)>Lùpiae (Pomponio Mela)>Liccia [Guidone,  con passaggi –u->-i– e –ppi->-cci– come in sacciu (io so) dal latino sapio]>*Liccie (recupero dell’originario numero plurale)]>Lecce.

Per completare questa sezione va detto che Lupia venne associato a lupa da Iacopo Antonio Ferrari (XVI secolo) che in Apologia paradossica,  Mazzei, Lecce, 1702 (cito dalla seconda edizione, stessi editore e luogo, uscita nel  1728, pagg. 253-255) così scrive: Che dunque la Città di Lecce sia, Signor Eccelso, stata una delle tre stazioni d’Italia, noi ne crediamo d’averlo assai ben provato con quel testimonio di C. Plinio, che ‘l disse più chiaro dell’altre6, a cui noi ci aggiugneremo il conghietural giudizio delle sue antichissime insegne della lupa fosca posta sotto l’ombra d’una gran quercia verde carca di ghiande d’oro in campo bianco, animal imperioso, e non soggiacente, dedicato dalla cieca antichità a Marte, e così parimente lo arbore della quercia, per esser durissima, di lunga vita, e che non fa punto stima del furor de’ venti, portatale questa insegna dalli suoi antichi Triumviri nel vessillo, con cui condussero la sua Colonia de’ Cittadini Romani, secondo l’antico costume Romano, e lasciatala per sua perpetua insegna; conciossiecchè i Romani, quando mandavano le lor Colonie o de’ lor propri Cittafini, o de’ Sotj loro del nome latino eliggevano prima i loro Triumviri cioè tre commissarj, i quali eseguendo il mandato d’un consiglio de’ diece uomini, a chi era del Senato, o dalla plebe Romana questa partenza per una antica legge data, riferita da Cicerone in tal sentenza: Decem viri quae municipia, quasque colonias velint, ducant colonos, quos velint, et eis agros dividant quibus in locis velint. Che al volgar dice: I Decemviri tutti quei municipij, e tutte quelle Colonie, che a loro piacerà, le conducano, li Coloni che vorranno, e loro spartino li terreni, che vorranno, andavano dove erano da questi mandati alli territorj descritti propri del popolo Romano, e vi conducevano quei poveri Cittadini Romani, overo i di loro compagni del nome latino, ed a quei designavano le nove Città per abitazioni, e spartivano per iugeri, cioè per tumoli, o moggi di terra i loro territorj, acciocchè con quei avessero essi potuto, ed i loro figlioli vivere, e campare; e perché soleva essere a loro frequente l’uso dei vessilli, con cui conducevano le Colonie, mentre alcune volte portavano in quelli dipinto un Leone, altre volte un Dragone, e spesso un Tauro, alla nostra Città vi portarono la Lupa dipinta sotto quella quercia, fosse per rendersi conforme al nome della Città, che LUPIA era quella, e la quercia per dimostrare con quel gieroglifico di quella, e di questa che la natura della nostra Città sia imperiosa, e che più presto elle comandi all’altre  Città che obbedisca altrui, per essere natuuralmente inchinata al mestiere dell’arme, e per l’albero, che quanto più si cerca di sbatterlo con tagliarli li rami, tanto più ingrandisce, e fassi ricco di rami, di fronde, e di frutta. Ed ecco il testimonio infallibile, che Lecce fu Colonia de’ Romani, di quella marmorea iscrizione ritrovata in Napoli , la quale la portò il Galateo alla sua Iapigia, e che ora sta a Santa Maria della Libera7.

Antonio De Ferrariis detto il Galateo nel De situ Iapygiae pubblicato la prima volta a Basilea per i tipi di Perna nel 1558: Solum pingue et frugum omnium ferax, unde fortasse Lupiae, ab eo quod est LIPARON8, id est pinguae, dictae sunt (Il suolo è pingue e ricco di ogni frutto, donde forse fu detta Lupiae dal fatto che è fertile, cioè pingue). Senza scomodare LIPARON, che comporterebbe la spiegazione non facile dell’evoluzione fonetica, è strano che l’umanista di Galatone non abbia pensato direttamente al primitivo λίπος.

Ci fu poi chi pensò bene di arcaicizzare la congettura del Ferrari a meno di 150 anni dalla sua formulazione, molto probabilmente partendo dall’idea (ancora oggi comune a molti pseudostudiosi …) che più antico è più bello; solo che bisogna provarlo, almeno citando uno straccio di fonte e senza confondere le idee al lettore sprovveduto o semplicemente troppo fiducioso . Ecco cosa Luigi Tasselli (1630-1694) scrive in Antichità di Leuca, II, XV, Eredi di Pietro Micheli, Lecce, 1693, pag. 240:se io volessi scrivere, chi fu il vero, e germano fondatore di questa Illustrissima Città, mi arriva in questo Pomponio Mela, Mario Massimo suo commentatore, Giulio Capitolino, Eutropio, e Antonio Galateo de situ Iapygiae, che mi accertano essere stata fondata e Lecce, e Rugge da Malennio Re 107 anni prima della guerra di Troia in quel luogo dove si vede9; e perché nel luogo disegnato s’incontrò disgratiatamente Malennio Re con una Lupa stesa sotto una Quercia, quindi si fu, che le diede per sua impresa una Quercia con di sotto una Lupa, Lupas, Lypias, Lopias, Lupium, Lyspiam, Lypiam e Aletium10 ancora, hebbe su quei principii a chiamarsi Lecce; la quale poi da Licio Idomeneo fu amplificata; onde n’hebbe ancora il titolo di quasi Fondatore.

La lupa si avviava ad essere una fissa perché venne ripresa dal dottissimo Alessio Simmaco Mazzocchi che in Commentariorum in Regii Herculanensis Musei aeneas tabulas Heracleenses pars I, Gessari, Napoli, 1754, pag. 524, partendo dall’affermazione di Pausania (II secolo d. C.) secondo la quale il nome più antico di Lecce era Sibari11, realizza una cucitura, di cui non sarebbe capace il più disinvolto dei sarti, solo sulla base di alcune assonanze:  Scitum est Lupum Hebraice Zeeb, sive contracte Zeb vocari. Usitatum est autem ferarum animantium vocabulis addi  Bar, hoc est Agri sive Saltus aut Silvae. In Paraphrasi Chald. Psalmi L. 10 Thor bar est Taurus saltuum sive taurus silvestris, de quo ibidem subjicitur: Qui depascit unoquoque die montes mille. Pari ratione Zeb-bar sive (lenita scilicet Z in pronuntiatione) Sebbar erit lupus saltuum. Tyrrhenis autem (qui aevo antiquissimo tota Italia dominabantur) nulla amicior vocalis quam U fuit. Itaque ex Sebar fecere Συβαρ, Sybar. Cetera vocabulo addita ad Graecae terminationis modulum pertinet (È noto che in ebraico lupo si dice zeeb o, in forma contratta, zeb. Si usa poi aggiungere ai nomi degli animali bar , cioè campi o balze o selve. Nella parafrasi di un salmo caldeo alla line 10 thor bar equivale a toro delle balze o toro selvatico, intorno al quale ivi è aggiunto: Quello che in ciascun giorno pascola in mille monti. Per un simile motivo Zeb-bar oppure, lenita Z nella pronuncia, Sebbar corrisponderà a lupo delle balze. Ai Tirreni poi che da età antichissima dominavano in tutta l’Italia, nessuna vocale fu più gradita della u. E così da Sebar fecero Συβαρ, Sybar. Le restanti lettere sono pertinenti al modello della terminazione greca).

Riassumo quanto fin qui detto dal Mazzocchi: da un orientale Zeb-bar si sarebbe sviluppato prima il tirrenico Subar che in greco sarebbe diventato Σύβαρις (leggi Siùbaris). Riassumo ora per brevità pure la conclusione lasciandola al giudizio del lettore: nel passaggio dal mondo greco a quello romano sarebbe stata operata una sorta di traduzione del primo originario componente,  favorita dal fatto che in greco lupo è λύκος e in latino lupus; e così si sarebbe passati da Sibari a Lecce, sempre terra di lupi.

Chiudo questa parte con la segnalazione, mio malgrado, del link  http://www.iltaccoditalia.info/nws/?p=11431 dove il lettore potrà trovare nel periodo conclusivo del post un esempio eloquente di quanti danni possa fare col trascorrere del tempo una notizia campata in aria e maldestramente manipolata, lascio giudicare al lettore se in buona o in mala fede.

Di buon grado, invece, segnalo l’ottimo lavoro di Giovanna Falco; il lettore troverà le tre parti in cui esso si articola in

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/05/una-passeggiata-a-lecce-di-fine-seicento-labate-giovan-battista-pacichelli-descrive-la-citta/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/07/una-passeggiata-a-lecce-di-fine-seicento-labate-giovan-battista-pacichelli-descrive-la-citta-seconda-parte/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/17/una-passeggiata-a-lecce-di-fine-seicento-labate-giovan-battista-pacichelli-descrive-la-citta-terza-ed-ultima-parte/

Ed ora la parola passa al Pacichelli.

Pacichelli  (A), pagg. 169-173

 

Pacichelli (B, anno 1682 e 1684; C, anno 1686)

Qui et a Lecce a’ preti si dà titol di papa: per esempio papa Francesco, e così ciascun del suo nome, forsi alludendo alle lor comodità e benefici, mentre son ricchi almen di circa a dugento ducati di rendite.

Più avanti nella stessa provincia, scendendo per poche miglia in terra dal mare, ove torna meglio in acconcio, andai a vedere la bellissima e real città di Lecce, ne’ Salentini, fondata da Malennio, re loro, ed accresciuta da Littio Idomeneo, conforme stima il Padre Antonio Beatillo Giesuita nella Vita di Sant’Irene, e il Padre De Anna in quella del venerabile Padre Bernardino Realino. Più a lungo però scrivon il Galateo, con le antichità della provincia De situ Japigiae, e l’Infantino in 4 nella Lecce sacra. Ivi la fede si radicò per le gloriose operazioni di Sant’Oronzio, suo cittadino, oggi gran protettore, e Fortunato, di lui fratello, allievi di San Giusto, un de‟ discepoli del Signore, e Vescovi successivamente. Ha ella tre miglia di giro, con vie larghe e ben lastricate, giardini, fontane, fabriche nobili della pieta, che si cava nel suo fertile territorio, ch’è dolce e si lavora a guisa di legno con pialla. Non sa invidiar Napoli nello splendore e magnificenza delle chiese e de’ chiostri di tutti gli ordini, col sontuoso collegio della Compagnia dedicato alla Circoncisione, e il tempio vaghissimo de’ Teatini a Sant’Irene protettrice, con sette monasteri di Suore, tre spedali e varie confraternite. La Catedrale, col titolo della Vergine Assunta e piazza avanti, è stata rinovata nel 1658 dal Vescovo Monsignor Luigi Pappacoda, in forma sì nobile e vasta, con le cappelle ricche di marmi, gli epitafi delle quali, con quel della fronte, si trascrivon dal Abate Francesco De Magistris In Statu Rerum Memorab. Neap. I, numero 43, foglio 29, che non cede ad altre di questo dominio. La piazza grande ha il Seggio chiuso, di ferro, fontana e piramide, con la statua di Sant’Oronzio, sendo sparse le botteghe de’ negozianti. Poco discosto è il castello con fosso, ponte e presidio spagnuolo, assai valido. Han concetto le sue belle coperte di bombace per la state. Stimasi la più cospicua e più popolata città del reame, ove soggiornavan quantità di nobili e ricche fameglie, con molto lusso e con galanteria verso de’ forestieri, numerandosi a 3300 i fuochi. Vi risiede il Preside col suo tribunale, il Vescovo gode vasta giurisdizione in ventisette castelli, de’ quali Squinzano si appressa ad ottocento case, e Campiano a mille, in clima abondante e salubre. È munita ancor con la fossa, e ben regolate mura con varie torri.

Volle vedermi cavalcare il medico, ed io, ringraziatolo, me gli offersi, sollecitando per nove miglia di aggradevoli oliveti e di qualche minor casale l’arrivo a Lecce, scoverta nella torre quattro miglia avanti, quasi con maestoso invito, ma superiore alla fama che ne corre. Alle 21 ora, entrato in questa metropoli della Provincia di Otranto, fei cercar dell’Abate Don Scipione de Raho, cui recava lettere da Taranto. E mentre nel venerdì, alla funzion della Buona Morte, presi la benedizzione a caso da’ Padri della Compagnia, lo rinvenne il mio cameriere ne’ Teatini. Egli non permise che in alcun chiostro io mi fermassi, conforme l’avea fatto richiedere, ma mi volle e condusse subito in sua casa, che ha forma di palazzo, chiamando l’unico suo nipote, ritornato dalla Laurea Legale di Roma, e mi offerse cioccolata, o vin fresco, o acqua e conserve, mostrandomi (con intendimento discreto) le altre comodità. Gustai del vin rosso con due biscottini e, perché il cavallo poco prima e in pianura mi era caduto addosso, mi fei fare una chiarata, non permettendo ch’ei chiamasse chirurgo, sì come volea. Si cenò per tempo, seco solamente, in quella stessa stanza terrena, del pesce tonno, apparecchiato in varie guise con sollecitudine, dandomi luogo da giacere con libertà, e col camerieri nella contigua. Fattami rader la barba la mattina e trovandomi alleggierito nella gamba (ch’era la destra), uscii seco in carrozza. Guardammo l’interiore la mattina e la sera la parte di fuori, accorciando io la dimora mentre si riscaldava la stagione. Di due miglia e mezo si misura il giro di questa città, con quattro porte, buona cortina di mura e castello, inchiudendo non più di nove mil’anime, tutte civili verso il forastiero, diminuite dopo il contagio e la mortalità del 1679, con fameglie antiche e riguardevoli, alcuni Baroni però che col feudo di pochi carlini, altri col solo dottorato, han luogo nel Magistrato supremo. Vi ha trecento carrozze, mantenute con poca spesa. Le fabriche son di pietra bianca, che nasce là, si lavora con pialla e riceve impression di figure col coltello, della quale vidi curiose gelosie. Non si alzan molto a cagion del peso, che fa cadere spesso le mura ed i volti. Son provvedute di giardini di agrumi quasi tutte, e di cisterne per l‟acqua, sendo questo liquore in molti pozzi salmastro e in varie sorgenti profonde caldissimo, e scarseggiandosi di neve, che vien da Martina, 20 miglia lontano, a prezzo talvolta di un carlino il rotolo. Ogni chiesa ha la facciata, ed alcune bellissima, di pietra con le statue e cornici alla romana. Quella di Santa Irene, protettrice della città, offiziata da’ Padri Teatini, è maestosa, con le cappelle sfondate, in una delle quali presso la porta tre tele di San carlo Borromeo e, nella croce alla sinistra, San Gaetano, dipinti a Parma da un loro laico, ha un cornicione largo, ma il tetto desidera il volto o ‘l soffitto. Nell’abitazione una picciola libreria senza rarità. Vasto è il collegio de’ Pagri Giesuiti, con la fronte di grata apparenza, ma dentro è sconcio ne‟ dormitori, non piacendo che alcuni camerini nuovi, i passeggi ne’ chiostri da basso con la stanza cangiata in cappella dal Venerando Padre Realino da Carpi, sepolto ivi non si sa dove, presso alla sagrestia, restando finita di corpo grande la chiesa, nella piazza della quale il palazzo di buon’aspetto del fratello dell’Abate Cristalli di Nardò, già crocifero di Papa Alessandro VII. Bellissimo è il monastero e magnifica, forsi più di tutte, la chiesa di Santa Croce de’ Celestini, vicino alle mura, che vidi coperta di setini, col trono dell’Abate per la festa del Santo lor fondatore. Osservai quattro parochiali, una delle quali vaghissima nella maggior piazza, che ha la statua, e questa di marmo, dell’Imperador Carlo V, una fonte artifiziale con quella del Re di Spagna Carlo II, e una colonna trasferita da Brindisi, e già ivi consegrata ad Ercole, diminuita, però, con la statua di rame di Sant’Oronzo, valutata 300 ducati, benché tutta la spesa di questa mole e sua trasportazione arrivi a ventimila. Ne’ quadri più nobili del piedestallo sono incise le inscrizzioni, che riferisco. E ultimamente, nell’anno 1684, in tempo del Signor sindico Domenico Stabile, che vi cooperò non poco e ne ritiene dal Signor Costantino Bonvicino dedicata, con altre quattro statue de’ protettori non ancora intagliate, né fuse a gli angoli della base, e de’ balaustri, l’idea. Così, dunque, da un lato:

COLUMNAM HANC, QUAM BRUNDUSINA

CIVITAS SUAM AB ERCULE OSTENTANS

ORIGINEM PROFANO OLIM RITU IN SUA

EREXERAT INSIGNIA, RELIGIOSO TANDEM

CULTU DIVO SUBIECIT ORONTIO, UT

LAPIDES ILLI QUI FERARUM DOMITOREM

EXPRESSERANT, CELAMINE, VOTO, AEREQ;

LUPIENSIUM EXCULTO, TRUCULENTIORIS

PESTILENTIAE MONSTRI TRIUMPHATORE

POSTERIS CONSIGNARENT

 

E dall’altro:

SISTE AD HANC METAM FAMAE

AUGUSTUM QUONDAM ROMANI FASTUS,

NUNC ELIMINATAE LUIS TROPHAEUM

COLUMNAM VIDES, POTIORI NUNC HERCULI

D. ORONTIO SACRAE. NON PLUS ULTRA

INSCRIBIT ORONTIUS SCAGLIONE, PATRITIUS

NON SINE NUMINE PRIMUS, HUTUSCE

NOMINIS PATRIAE PATER. STATUA

AB ALTERA BASI. ILLAM CUM STATUA

EREXIT. ANNO DOMINI SALU. MDCLXXXIV

 

Si denominan le accennate parrocchiali il Vescovado, Santa Maria della Porta (che ha una Vergine devotissima), Santa Maria della Grazia in piazza, e Santa Maria della Luce.

Sette sono i chiostri delle donne, oltre la Clausura delle Convertite, e dodeci degli uomini, ciascun de’ quali osservai e spezialmente la cappella ne’ Conventuali, o stanza bassa, vicina al giardino, abitata da San Francesco, e la memoria di lui in marmo, con un albero di melangoli che piantò.

In Sant’Angelo de gli Agostiniani l’infermaria e la cappella del Giugno, autor del bel libro degli epigrammi che intitola Centum Veneres, mancato nel marzo dell’anno corrente 1686, soggetto che fioriva in amendue le Academie di questa città, cioè a dire ne’ Trasformati, che han per simbolo Dafne, e negli Spioni, che portan per impresa il cannocchiale con le parole Scrutabor Naturalia, e spiegano materie meteorologiche. Di lui si legge nel chiostro così:

D.O.M.

VENERAB. D. AUGUSTINI FRATRES

HUIC MOLI AEGROTANTIUM INFIRMANTI

SI QUI HYGEAE AUT MACHAO ARTE EGERENT

NOSOCOMIUM AERE SIBI SUFFECTO

A IO: BAPT. IUNIO I.C. LYCIEN. PATRITIO

PRO EIUS ARAE DEIPARAE AC SANCT. DICATAE

CENSU, DOTEQ; COLLATA

PACTO MISSARUM PROVENTU

IUNIOR. FAMIL. PIETAT. ERGO

SUPPOSUERE ANNO DOMINI M.D.C. LXXXII.

 

Nel destro lato della chiesa, la seconda cappella da lui dedicata alla Reina del Carmelo esponea fronte un’aquila con doppia corona su le due faccie coronate con un diadema, sotto la quale Pietas et Iustitia, et appresso così:

D.O.M.

AETER. NUM.

DIU TANTUM UT SAPERET PRORSUSQ. DEDISC. HUMANA

CASURA AETHE. SUB SOLE UNIVERSA

AEVITER UBI SINE DEO NIHIL

ALCYON VEL MAGNI NEUTIQ. DIES

RELIGI. ITAQ. IPSE MERITO PERAM. UNUS COLEN. UNA

GENS HIC IUNIA

AEDIC. HANC SACR. OB PIET. EXTRUCT. SCITEQ. ERECTAM

PEC. SANE SUA INNOC. AT TAM PARTA.

FOR. TAM. ADUOC. QUAM IN MAGIST. MUN

FID. QUIP. IN CULP. PROFESS. HAUD ELOQUENT.

AVERRUNC. EXTERNOR. AFFECTIB.

OPTAT. SUPPLEXQ. LIT. EXORAT.

ANNO DOM. MDCLXXVII.

 

Dentro la cappella, ch’è molto vaga e divota, si legge a destra in un marmo:

QUOUSQUE TREMESCES VIATOR?

MORTALES ETENIM AEQUE OMNES

DIU SANE VIXIT QUI BENE. QUI MALE, NEC VIXIT DIU

VIRTUTE TANTUM VIVITUR. SUA QUISA; MORITUR

MORTE.

IUNIORUM TAMEN, EN HIC OSSUA, EN HIC CINERES

INEVITABILI HUMANAM IN SORTEM EDICTO

OMNIUM CUI PRORSUS INTEREST PARENDUM

NATUS ES? NIL NISI MORIENDUM RESTAT.

NULLI NAMQ. DETUR MISSIO. MIGRANDUM OMNINO

TIBI HINC SAPIS NON IMMEMOR AT SIBI

SUISQ. IO. BAP. IUNIUS I.V.C. LYCIENS. PATRITIUS

HOC QUIDEM VIVENS PROSPEXIT SEPULCHRO

ANNO SAL. HUM. M. DC. LXXVII.

 

A sinistra in questa forma:

DEO UNI AC TRINO

CARMELITARUM DEIPARAE COELITIBUS UNA

SOCIATIS

NOMINE NON IMPARIBUS. DISPARIBUS MINUS

VIRTUTE

INULTA UTERQ; ADEO EXECRATUS EST FLAGITIA

MINOR UT ALTER FIT CAPITE. EX FORO ALTER

EX TORRIS

UNIUS ITAQ, AEMULATUS EXEMPLAR

ELIMINATIS ALTERIUS NEC. MORIBUS

PERTICOSAM QUO ABIGERET. TUNICATAM QUO

INDUER. QUIETEM

FORENSI HAUD EXOCULATUS PULVERE

CAUSAR. VELUT MILES CAUSIDIC. PROTINUS

EXESSIT. ABSTI. ARENA

HINC SACELLUM HOC. DIC. DOT. IO. BAPT. IUNIUS

I.C. LYC. PATRITIUS

SUI SUORUMQ, PIETATIS ITEMQ; RELIGIONIS

TESTIM.

A.R.H.M. MDC. LXXVII

 

Nel pavimento, poi, che cuopre il sepolcro:

ACCOLAE CIVES ADVENAE

OSSUA EN HIC TAND. UNA ET CINERES

PATRITIAE IUNIOR. LYC. FAMILIAE

QUORUM TOT SANE VIVORUM

SCITUS UBIQ; QUISQ; EMICUIT. LIT. AMUSUS NEMO

ADEO QUOD PRAETER VIRTUTEM

NEMINEM SIBI MERITO SCRIPSIT HAEREDEM

LITARUNT AT UT CAETERIS.

GRAPHIARIO IURIS ERGO HOC HUMANUM LAPIDE

SUA ETENIM QUEMQ; VICISSIM OPPRIMIT DIES

QUORS. TERRA ET PULU NUNC SUPERBITIS AD VANA?

NOSTRO QUAM NIL SUMUS QUISQ; VESTRUM EDISCAT

EXEMPLO

DEO VIVENDUM DECUSQ; NAM CUIQ; SUUM.

POSTERITAS DUBIO PROCUL REPENDET, ET

AETERNITAS

AN. SAL. HUM. MDCLXV.

 

In fine, di raro vidi al di dentro la casa oggi nobilitata, che dicon già fosse di Sant’Oronzo. Passai quindi a veder fuori, dopo desinare e preso riposo, il magnifico monastero de’ Padri Olivetani, col chiostro nobilissimo, giardino, massarie e feudi uniti, un de’ quali frutta solamente carlini, foresteria da prencipi, bellissimo quarto dell’Abate, poco anzi Procuratore in Napoli, che volle accompagnarmi e farmi vedere il vago e da lui ripolito tempio, con cupola e torre alta, con le statue a di [sic] altari in tre picciole navi, e la sepoltura di Ascanio Grandi poeta, gli antenati del quale servirono in primo luogo nella Segreteria del Conte Principe Tancredi. Avanti la sua facciata, son costituite di fabrica botteghe in gran numero per la fiera, che si disputa nel Regal Consiglio con la città di Bitonto. Posseggon que’ Monaci la torre o ’l giardino del sudetto Tancredi. Passai dopo al convento e alla bella chiesa de gli Scalzi di Sant’Agostino: ha quella per nome il tempio, con vago e vasto chiostro de’ Riformati di San Francesco in numero di 60 ben trattenuti, che mi mostrarono una spina insanguinata del Signore, un pezzo del Santo Legno della Croce, donato ad un de’ loro frati dalla Principessa Donna Olimpia Panfili, et un chiodo assai grosso con la punta tagliata, che sembrava nuovo, del medesimo nostro Redentore, costumato ad infondersi nell’acqua per divozion de gl’infermi, non però datasi a me questa a gustare per la poltroneria di un laico sagrestano, il tutto custodito in una croce di argento fra le supellettili della sagrestia. Al Lazzaretto, governato dalla città, ove osservai alcuni sucidi lebbrosi, da me non mai più veduti. A San Giacomo, chiesa allegra de’ Riformati di San Pietro di Alcantara, che sono venti et hanno bellissime tele a gli altari. Ameno e vasto è il lor giardino con una grotta dedicata oggi al Santo e alla sua statua, già piena di terra, la quale vuotandosi tre anni sono, scoverse, forsi non senza presagio de’ sinistri avvenimenti del Turco nella Pannonia e Peloponneso, piccioli e galanti specchi, quasi mosaici nelle mura, e fra essi nel volto, in buon carattere maiuscolo, nel petto di un’aquila e sovra una cometa, queste parole:

CUM FONTE, ET ANTRO DOMINUS FRUETUR

OTTOMANI SUPERBIA OCCIDET

Dicono che vi fosse una fonte, vivendo l’accennato Conte Tancredi, vicina ad una chiesetta vecchia, e molti bell’ingegni han preso quinci a poetare della prossima distruzzione della tirannia de’ musulmani. Io, quantunque in Napoli avessi giudicato spurio et imaginario questo concetto, lo conobbi per legitimo, deducendosi dal tempo, che si vede esser lontano dalla memoria, e da’ registri anche de’ nostri vecchi. Qui, fra gli alberi, è un delizioso passeggio di carrozze la sera, e fra tre strade una vaga fontana a forza di argani. V’incontrai fra molti il Preside, pure in carrozza, con un de gli Auditori, in questa residenza, della provincia di Otranto, e due Alabardieri dietro. I Cappuccini, al numero di 50, m’introdussero nel lor convento, su l’ora dell’Ave Maria, ch’è il primo della provincia, a veder la speziaria, l’infermaria e la biblioteca. Lasciai un miglio fuori i Domenicani nel lor convento col noviziato e chiesa grande, offiziata da venti Padri, restandone un altro dentro. E non entrai nell‟accennato castello fabricato da Carlo V, che passò in città per la porta chiamata Reale. Ma chi vuol saper più, legga la Lecce Sagra del Signor Francesco Bozi, patrizio, e attenda in breve la Lecce Moderna di Don Giulio Cesare Infantino, curato di Santa Maria della Luce. Doleasi il Signor Abate de Raho che io non volessi dimorar seco la domenica, e di non aver pronta qualche galanteria da donarmi, sì come sarebbe stato un de’ forzierini, o scrittori di pelle figurata e dorata nelle coverte o tabacchiere di paglia istoriate, che da 25 carlini son discese al valor di un tarì. Pur donommi un paio di guanti di Roma e alcune confitture, e volea per lo rinfresco far lavorar un pastone. Mi fé veder l’abito e il medaglione dell‟Ordine della Milizia Cristiana dell’Immacolata Concezzione, fondato in tempo e co’ privilegi di Papa Urbano Ottavo, conforme al bollario, non ammesso da que’ censori che supponeano tali esenzioni diminuisser in sommo il regal vassallaggio. Portommi nel quarto superior della casa a vedere i ritratti al vivo e in piedi de’ suoi genitori, cioè del Signor Mario de Raho, nobile antico, che, senza curarsi di que’ seggi, riseder volle in Lecce, ed era vestito col robbone di quella milizia. Egli, con dispensa pontificia, vi professò e fu promosso al sacerdozio, restando viva la Signora Andriana Ricci, sua consorte, in quello stesso quarto, disgionta da lui, che soggiornava di sotto, avendo ella votato castità perpetua nelle mani di Monsignor Girolamo de Coris, Vescovo di Nardò, ginocchiata avanti di lui e del suo intiero capitolo, con le mani giunte. Qualche volta si parlavano, e mangiavano insieme per la Pasqua.

Osservai dalle sue stanze (non curando riposarmi per profittar nel discorso) in quattro aspetti vaghissimi, molte città, fino il campanil di Lecce, che costa quindeci mila ducati.

Pervenni a Lecce in tre altre. Ivi fu la mia pausa, fino alla metà del giorno seguente, in casa del compitissimo Abate Don Scipione de Raho. Con esso lui tornai a visitar vari amici, spiccando fra loro la cortesia e la bellezza nelle donne. Mostrommi egli di nuovo il soffitto nella chiesa Madrice, e la cappella del Santissimo Crocefisso, col sepolcro composto di meravigliosi lavori di quella delicata pietra, per memoria e per cenno di Monsignor Vescovo Pignatelli. Seco io andai a rallegrarmene, scusandolo della restituzion della visita, con gradir le più benigne offerte, mentre mi raccontò gli sconcerti de’ suoi Diocesani, armati di centinaia di scoppette per resister al Sagro Sinodo convocato, e m’invitò alla bella funzione della prima pietra alla chiesa delle Monache di Santa Chiara.

 

 

Pacichelli, mappa

 

immagine tratta ed adattata da Google Maps
immagine tratta ed adattata da Google Maps
immagine tratta da http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/b/b9/Lecce_from_the_air.jpg
immagine tratta da http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/b/b9/Lecce_from_the_air.jpg

A Duomo e Vescovato (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Puglia_Lecce1_tango7174.jpg)

B    Regio Castello/Castello di Carlo V (mappa/http://www.mondimedievali.net/castelli/puglia/lecce/lecce.htm)

C   Piazza, Colonna con S. Oronzio, statua di Carlo V a cav., e fontana con altra statua del Re/Piazza s. Oronzo (mappa/adattamento da http://farm3.staticflickr.com/2427/3556658537_7380b5809a_o.jpg)

Da notare nel dettaglio della mappa le due statue equestri: la prima dell’imperatore Carlo V, la seconda, con fontana, di Carlo II (Nostro Signore è detto nella didascalia e Carlo II morì nel 1700, il che dovrebbe render certa la presenza delle due statue nella piazza almeno fino alla metà del XVIII secolo). Memoria di una fontana ancora più antica e funzionante ad energia animale (e agli animali in questione, come si vedrà, non si faceva mancare il biscottino …) è nelle Cronache di M. Antonello Coniger (vissuto tra il XV ed il XV secolo; cito dall’edizione apparsa in Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura Gio. Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò ristampate ed annotate da Michele Tafuri, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1851, v. II, pag. 512):

1498 … In questo anno ne la Cetà de Lecce uno ammaistrò dui cani de manera, che soli tiravano acqua a la fontana de la Piazza de Lecce in abondancia, ben vero l’huomo le dava le Calette.                                                                                                                                                                                                                                                                  

11

 

D   Seggio/Sedile (mappa/http://mw2.google.com/mw-panoramio/photos/medium/5332140.jpg)

 

E  S. Irene (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Lecce_Chiesa_di_Sant%27Irene_dei_Teatini.jpg)

 

F  Colleggiata de’ Gesuiti/Palazzo di giustizia (mappa/immagine tratta da http://www.arte.it/foto/500×375/9e/5114-038.jpg)

 

G  Mo di S. Croce/Palazzo dei Celestini/S. Croce  (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Basilica_di_Santa_Croce_e_Celestini_Lecce.jpg)

H  Sp(eta)le della Trinità/S. Nicola (mappa/immagine tratta ed adattata da Google Maps)

I  Porta Reale/Porta Napoli (mappa/immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Porta_Napoli_a_Lecce.jpg)

 

K Porta di Rugge/Porta Rudiae (mappa/immagine tratta da http://www.isoladipazze.net/images/lecce_portarudiae.jpg)

Stemma di Lecce (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Lecce-Stemma.png)

D’argento alla lupa passante di nero, attraversante il fusto di un albero di leccio di verde, sradicato e ghiandifero d’oro (D.P.R. 20 aprile 1942)

Da notare la diversa direzione di marcia della lupa. Lo stemma, comunque, sembra il frutto di un’ambiguità glottologica, dal momento che l’etimo, di cui si è parlato, di Lupiae da lupa, tenendo conto della variante è foneticamente sovrapponibile a quello da leccio. Quest’ultima proposta, comunque, a mio avviso, dev’essere considerata come paretimologica, propiziata, cioè dalla sovrapposizione popolare, probabilmente antica, di lezza/lizza nome dialettale del leccio: infatti, tenendo presente che leccio è derivato dal latino ìlìceu(m)=della quercia, aggettivo neutro da ilex=quercia, la congruenza fonetica di quest’ultimo con la forma latina di partenza Lupiae mi appare di problematica dimostrazione. Ad ogni modo:  è evidente come nella creazione dello stemma l’autorità presunta o reale del Ferrari prima  e del Tasselli poi abbia avuto un peso determinante.

 

Prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/19/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-114-presentazione/

Seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/23/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-214-alessano/

Terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/05/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-314-brindisi/

Quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/09/la-terra-dotranto-ieri-414-carpignano/

Quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/14/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-514-castellaneta/

Sesta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/20/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-614-castro/

Settima partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/05/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-714-laterza/

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1 Fragmenta historicorum Graecorum, Didot, Parigi, 1849, v. III, pag. 436: Καῖσαρ δ’ἀνήχθη τοῖς  ἐπιτυχοῦσι πλοίος, χειμνῶος ἔτι ὄντος σφαλερώτατα, καὶ διαβαλὼν τὸν Ἰόιον πόντον, ἴσχει τῆς Καλαβρίας τὴν ἔγγιστα ἄκραν, ἔνθα οὐδέν πω σαφὲς διήγγελτο τοῖς  ἐνοικοῦσι τοῦ ἐν Ρὠμῃ νεωτερισμοῠ. Ἐκβὰς οὖν ταύτῃ πεζὸς ὥδευεν ἐπὶ Λουπίας. Λουπίας è accusativo di Λουπίαι.

2  Τὰ μὲν οὖν ἐν τῷ παράπλῳ πολίχνια εἴρηται. ἐν δὲ τῇ μεσογαίᾳ Ῥοδίαι τέ εἰσι καὶ Λουπίαι

3 Vita di Marco Aurelio Antonino (I, 8): Cuius familia in originem recurrens a Numa probatur sanguinem trahere ut Marius Maximus docet; item a rege Sallentino Malemnio, Dasummi filio, qui Lopias condidit (Si accetta che la sua [di M. Antonino] famiglia andando a ritroso nell’origine traesse il sangue da Numa, come insegna Mario Massimo; parimenti dal re salentino Malennio, figlio di Dasummo, che fondò Lecce]). Lopias è accusativo di Lopiae.

4 Dehinc urbs Lictia Idomenei regis … (Poi la città Lecce del re Idomeneo …). Peccato che nella Mappa di Soleto la posizione geografica non coincide con quella dell’attuale Lecce, perché il ΛΙΚ (leggi LIK) evidenziato in rosso nell’immagine sottostante sarebbe stato l’abbreviazione perfetta di Lictia.

 

5 … Brundisium, Liccia, Ruge, Ydrontus, Minervum … [ …Brindisi, Lecce, Otranto, Castro (?) …].

6 Qui il Ferrari non so se volutamente o meno  si lascia prendere la mano dagli intenti apologetici e confonde Lecce con Alezio, con una forzatura che potrebbe pure essere accettabile se fosse corroborata (ma così non è) dalla  tradizione manoscritta.  Ecco il brano originale di Plinio (Naturalis historia, III, 11): Oppida per continentem a Tarento Uria, cui cognomen ib Apulam Messapiae, Aletium, in ora vero Senum, Callipolis, quae nunc est Anxa, LXXV a Taranto, inde XXXIII promuntorium quod Acran Iapygiam vocant, quo longissime in maria excurrit Italia. Ab eo Basta oppidum et Hydruntum … (Città interne [a partire] da Taranto: Oria detta di Messapia per l’omonima apula, Alezio; sulla costa invero Seno, Gallipoli, che ora è Anxa, a 75 miglia da Taranto, quindi a 33 miglia il promontorio che chiamano  estremità iapige, dove l’Italia si protende più lontano nel mare. Da esso la città di Vaste e Otranto …).

7 Ecco il testo dell’iscrizione che fu rinvenuta a Pozzuoli (CIL, X, 1795):

 

M(arco) Bassaeo M(arci) f(ilio) Pal(atina) / Axio / patr(ono) col(oniae) cur(atori) r(ei) p(ublicae) IIvir(o) mu/nif(ico) proc(uratori) Aug(usti) viae Ost(iensis) et Camp(anae) / trib(uno) mil(itum) leg(ionis) XIII Gem(inae) proc(uratori) reg(ionis) Cala/bric(ae) omnibus honorib(us) Capuae func(to) / patr(ono) col(oniae) Lupiensium patr(ono) municipi(i) / Hudrentinor(um) universus ordo municip(um) / ob rem publ(icam) bene ac fideliter gestam / hic primus et solus victores Campani/ae preti(i)s et aestim(atione) paria gladiat(orum) edidit / l(ocus) d(atus) d(ecreto) d(ecurionum)

Traduzione: A Marco Basseo Axio, figlio di Marco, della (tribù) Palatina, patrono della colonia, curatore dello stato, duumviro generoso, procuratore di Augusto per la via Ostiense e Campana, tribuno militare della XIII legione Gemina, procuratore della regione calabrese, con tutti gli onori designato a Capua patrono della colonia dei Leccesi, patrono del municipio degli Otrantini, tutto l’ordine dei concittadini per il potere pubblico bene e fedelmente esercitato. Qui primo e solo. I Vincitori. Con l’apprezzamento e la stima della Campania allestì gli spettacoli dei gladiatori. Il luogo fu dato per decreto dei decurioni.

A Lupiensium, genitivo plurale, corrisponde un nominativo plurale Lupienses, a sua volta forma sostantivata di un aggettivo Lupiensis/Lupiense. Tenendo presente che Athenienses deriva da Athenae va da sé che Lupienses suppone una derivazione da Lupiae attraverso un  originario *Lupiienses con la naturale contrazione delle due vocali simili.

A proposito di etnici va ricordato che un Lyppiensie  e un Lyppiensis (che suppongono un Lyppia o un Lyppiae) sono presenti, rispettivamente,  nella prima redazione (IV secolo d. C.) e nella  seconda (IV-V secolo d. C.) del  Liber coloniarum (in F. Blume, K. Lachman e A. Rudorff, Die Römische Feldmesser, Reimer, Berlino, 1848, pagg. 211 e 262).

8 È la trascrizione del greco λιπαρόν (leggi liparòn) neutro dell’aggettivo col significato di grasso, ricco. La voce, a sua volta, è derivata dal sostantivo λίπος (leggi lipos)=grasso (dal quale in italiano il segmento lipo– che entra in molti composti, nonché, con lo stesso significato,  il salentino lippu/llippu).

9 Fin qui andiamo bene; però, tutto ciò che segue, come il lettore sarebbe indotto a credere, non è da ascrivere a nessuno degli autori appena citati ma è pura invenzione (in assenza di riferimento a qualsiasi straccio di fonte, magari orale, sono obbligato a pensarlo) del Tasselli.

10 La serie toponomastica è tratta quasi tal quale dal De situ Japygiae del Galateo dove si legge: Urbem hanc alii Lupias, alii Lypias, alii Lopias, alii Lupium, alii Lispiam, alii Lypiam, alii Aletium, alii Licium, alii Lictium a Lictio Idomeneo, alii Liceam.

11 Graeciae descriptio, VI, 19, 9: Ὁπόσοι δὲ περὶ Ἰταλίας καὶ πόλεων ἐπολυπραγμόνησαν τῶν ἐν αὐτῇ, Λουπίας φασὶ κειμένην Βρεντεσίου τε μεταξὺ καὶ Ὑδροῦντος μεταβεβληκέναι τὸ ὄνομα, Σύβαριν οὖσαν τὸ ἀρχαῖον (Quanti si sono occupati dell’Italia e delle sue città dicono che Lecce sita tra Brindisi ed Otranto ha cambiato nome, essendo anticamente Sibari).

 

La Terra d’Otranto ieri e oggi (7/14): LATERZA

di Armando Polito

Il toponimo

Sul sito del comune (http://www.comune.laterza.ta.it/index.php?action=index&p=26) leggo: Per quanto concerne il nome di Laterza, vi sono tre ipotesi. Una prima ipotesi asserisce che Laterza derivi da “Letentia”, luogo di caverne e nascondigli. Altra ipotesi è quella secondo la quale tale nome deriverebbe dal latino “Tertiani”, i militi della terza legione romana che ivi fissarono il loro accampamento. La terza, la più suggestiva, farebbe risalire il nome della cittadina da “Laerte”, padre di Ulisse, in onore del quale i cretesi, fuggiti dopo la guerra con i micenei, fondarono in loco una colonia. La seconda è, tra le ipotesi, la più accreditata, avvalorata del fatto che la cittadina di Laterza è situata lungo la via Appia nuova che unisce Taranto a Roma, ricalcando il tracciato dell’Appia antica, in alcuni tratti ancora visibile.

Per quanto riguarda la prima ipotesi (Letentia) l’ignoto autore ha probabilmente pensato al latino latentia=cose che si nascondono, participio neutro plurale di latère=nascondersi; che letentia sia o non sia errore di scrittura (certamente è un’invenzione perché in latino non esiste), appare evidente come in latentia si sia conservata la prima a di Laterza; ma come giustificare, poi, il passaggio –n->-r-?.

Per la seconda va detto che tutt’al più Laterza non deriverebbe da Tertiani, ma direttamente da tertia (legio)=terza (legione).  Il Pacichelli con la grafia DELLA TERZA in A sembra seguire quest’ipotesi. Bisogna però supporre che il nome originario latino fosse Tertia (e sarebbe dovuto comparire in qualche documento) e che solo in epoca relativamente recente, volgarizzato il presunto Tertia in Terza, dall’aggiunta dell’articolo e dal suo successivo inglobamento sarebbe nato Laterza.

Per l’ultima (da Laerte) rinvio il lettore a quanto dice il Pacichelli (pure lui senza citare la fonte ridotta ad un generico chi vuol che ne sia stato autore in A).

Prima, però, mi permetto di aggiungerne una mia: da un *latèrcia, per sincope del latino laterìcia (da later=mattone), aggettivo neutro plurale sostantivato=cose relative ai mattoni; è ipotizzabile che prima di produrre le sue raffinate ceramiche la popolazione si sia fatta le ossa con i semplici mattoni di terracotta.

Pacichelli (A), pagg. 189-191

Pacichelli, mappa

immagine tratta ed adattata da Google Maps
immagine tratta ed adattata da Google Maps

 

immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Laterza_Apulia.jpg
immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Laterza_Apulia.jpg

A Capuccini/S. Maria degli Angeli (mappa/immagine tratta ed adattata da Google Maps)

B Castello/Palazzo marchesale (mappa/immagine tratta ed adattata da Google Maps)

 

C Chiesa madre/S. Lorenzo martire  (mappa/http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/diocesi/parrocchie/foto/id_47/p2/LaterzaSanLorenzoMartire.jpg)

D Fontana (mappa/http://www.laterza.org/images/arte_cultura/fontana2-b.jpg)

 

 

Nell’ordine: (dalla mappa) lo stemma dei Perez-Navarrete (al tempo del Pacichelli era marchese di Laterza Nicolò Perez-Navarrete, lo fu dal 1681 al 1716, discendente per linea materna del primo marchese di Laterza,  Pietro D’Azzia) e quello della città (con il motto Fideles Laertini); (da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Laterza_(Italia)-Stemma.png) lo stemma attuale.

 

Nell’immagine che segue (tratta da http://www.laterza.org/Comune/fotoPop.asp?ID=1019&ID_ARG=51&pagina=1): dal palazzo marchesale l’affresco di S. Anna che inferiormente reca ai lati la riproduzione dei due stemmi (a sinistra quello dei Perez, a destra quello della città).

(CONTINUA)

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La Terra d’Otranto ieri e oggi (4/14: CARPIGNANO)

di Armando Polito

Il toponimo  

A prima vista per la sua terminazione in –ano si direbbe un prediale; Carpinius risulta attestato nel CIL (Corpus inscriptionum Latinarum),  01, 02661; 03, 10721; O4,00017; 16, 00024. Altri mettono in campo la radice messapica karp=roccia.

Pacichelli (A), pagg. 178-179

 

Pacichelli, mappa

 

immagine tratta ed adattata da Google Maps
immagine tratta ed adattata da Google Maps

 

 

 

A    Chiesa madre/M. SS. Assunta (mappa/https://ssl.panoramio.com/photo/13271858)

 

E   S. Rocco (mappa).

Su preziosa segnalazione dell’amico Sandro Montinaro ho corretto  la precedente didascalia in cui avevo erroneamente identificato la chiesa di S. Rocco con la cripta bizantina di Santa Cristina in largo Madonna delle Grazie (ne ho perciò eliminato la foto che prima vi compariva), citandolo alla lettera: La chiesa di San Rocco (E) non ha nulla a che fare con la cripta bizantina di Santa Cristina sita in largo Madonna delle Grazie. La chiesa, oggi non più esistente, sorgeva dove attualmente è il Municipio (XIX sec.). A testimonianza abbiamo: il toponimo (via San Rocco), l’edicola votiva in via San Rocco (proprio nelle mura dell’edificio comunale) e la tela raffigurante il Santo conservata nella Chiesa Parrocchiale di Carpignano. La tela ha, in basso a destra, l’arme civica di Carpignano.

 

F S. Giovanni Battista/Madonna della Grotta (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Carpignano_Madonna_della_Grotta.jpg)

Per saperne di più: https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/07/02/carpignano-salentino-il-santuario-della-madonna-della-grotta/

 

 

G   Palazzo del duca/Palazzo Ghezzi, via Roma (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Palazzo_Ghezzi_Carpignano_Salentino.jpg)

 

Nell’ordine: (dalla mappa) la dedica All’Eccellentis. Sig.r D. Angelo Ghezzi Duca di Carpignano &t c(etera),lo stemma della famiglia (riprodotto nell’immagine di coda tratta da http://www.retaggio.it/onomastica/g/ghezzi-origine-cognome.asp), lo stemma della città e lo stemma attuale (da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Carpignano_Salentino-Stemma.png).

 

(CONTINUA)

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La Terra d’Otranto ieri e oggi (3/14): BRINDISI)

di Armando Polito

Sul toponimo ed altro vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/09/brindisi-e-il-suo-porto-cornuto/

Pacichelli (A), pagg. 155-157:

Pacichelli (B, anno 1684 e C, anno 1686  e 1687)

[Lecce] è munita ancor con la fossa, e ben regolate mura con varie torri.  Meglio però per tal riguardo di fortificazioni è considerabile alcune miglia più oltre, et al lido del mare, Brindisi, col suo doppio e importante castello, cioè tre miglia in circa nell’acque, dove si chiama il Forte, di vasto giro, comod’abitazione, con gli opportuni ripari, meglio disposti  in tutto il reame, e ben presidiato; l’altro nel continente, chiamato castel di terra. Stimasi ancora il suo porto per la sicurezza, e la campagna per la buona qualità della frutta, per la lana et il miele. Non ha dubbio però che non sia ancor ella diminuita in sommo dal concetto antico, che godea de’ Romani, i quali l’elessero per un de’ luoghi delle lor delizie, onde da incerto autore fu distesa la nobilissima via Appia, frequentata ne’ viaggi della Grecia e di Oriente, e la Trajana, che conduce a Lecce ed Otranto, sì come vuole Camillo Peregrino nella Campania Felice al disc. 2, 31 e ne scrive molto Giovanni Giovane al capitolo 7 dell‟opera citata. Perciò dentro di lei, vicino particolarmente alla porta di Lecce, si veggono molte vigne, con gli orti de’ verdumi e meloni. Rassembra la sua forma una testa di cervo, e di essa non mancano rapporti de gli storici. È ancor soggetta al Monarca di Spagna, e tassata a 1428 fuochi. Nella metropolitana, che ha il sol suffraganeo di Ostuni, dedicata da Papa Urbano II alla Beata Vergine ed al Santo Martire Teodoro, ambedue protettori, vien custodito il corpo di esso, con quello di San Leucio, suo Vescovo, la lingua del Dottore San Girolamo, e un braccio di San Giorgio, restando fuor di città la Catedrale antica dedicata a San Leucio stesso, dove forsi estendevas‟il corpo dell‟abitato. Si costuma ivi di portar per la festa il Santissimo Sagramento a cavallo, sendo questo coperto, e condotto ne’ tempii pel freno daì principali Ministri regi, fin da che il Re San Luigi ricuperò da Saladino l’Ostia Sagra, lasciatagli per ostaggio. Veggonsi i ruderi della casa di Pompeo. Reliquia più memorabile dell‟antichità, oggi però non si scorge che una delle due colonne, sendo l’altra rovinata, ch’è fama ergesse Brento, figliuolo di Ercole, o la posterità in onor suo, come a proprio ristoratore. Nella porta reale si vede una minima parte del palazzo, che chiaman di Cesare, e che i più avveduti stimano fabricato dal Duca di Atene, figliuolo del Re Carlo d‟Angiò. Mostrano molti tempii vestigi assai vecchi, e particolarmente la Maddalena de’ Domenicani, San Paolo de’ Conventuali, la Madonna del Casale de’ Riformati, e la Commenda di San Giorgio di Malta. Giudico poi favolosa l’opinione del volgo, che una torre s’incurvasse alla Sagrosanta Eucaristia nel passaggio a cavallo dell’Arcivescovo, che la prese dal vascello, ove fu condotta dallo stesso Santo Re di Francia, che nella forma esposta l’avea lasciata a Saladino Re di Egitto, di cui era stato prigioniero nella conquista di Terra Santa. Veggansi però le memorie particolari, vecchie e nuove di Brindisi, descritte in un tomo in 4 dal Padre maestro Andrea della Monaca, dell’ordin Carmelitano nel 1674, sotto il torchio di Lecce diffusamente. Fra le case de‟ nobili, che son sopra a quindeci, i Pacuvii si gloriano della discendenza dal celebre poeta tragico Marco Pacuvio, nipote d’Ennio, che co’ suoi natali e con le opere accrebbe onore alla nazione e alla patria.

Osservai dalle sue [del convento dei Domenicani di Ceglie] stanze (non curando riposarmi per profittar nel discorso) in quattro aspetti vaghissimi, molte città, fino il campanil di Lecce, che costa quindeci mila ducati, e nella lingua del mare il castel di Brindisi, che dicono comprenda 300 piazze, custodito da 250 fra colobrine e cannoni, restando la città sotto, col forte di terra guardato con 30 pezzi, il qual porto sicura trattiene di buona voglia le galee e, tal volta, le galeazze de’ Veneziani. A Brindisi, città oggi spopolata e ristretta, partita in colli e valli, col camino di 24 miglia, si desinò il martedì fra’ Padri Scalzi del Carmine, applicati a spedir un illustre edifizio e di chiesa e di casa. Vi abitavan due di Altamura, i quali per cenno dell’umanissimo Priore, mi assisteron quanto volli, scrivendo io (con occasion del Procaccio) a Napoli, e sciogliendomene poi nel giorno prossimo, dopo aver adorato ne’ Predicatori il miracoloso crocefisso di legno grande, spirante con gli occhi al cielo e piaga nel costato, che recò di Gierusalemme più di quattro secoli addietro il nobile veneziano Giovanni Capello; veduto l’Arcivescovado, che serba la lingua di San Girolamo, e il corpo del Martire San Teodoro, dal quale suol uscire, sovra un cavallo bianco mansueto, il Prelato, vestito di ricco piviale col corpo venerabile del Signore, incensato dagli Accoliti, e sotto il baldacchino sostenuto da sei Canonici nella maggior solennità, a cagione che così venne accolto il Signore da una nave dalla spiaggia, sì come scrive Carlo Verano nelle Historiae di Brindisi; la casa di Pompeo, assai larga e bene scolpita, con fontana; una delle colonne col capitello istoriato, che sostenean già il fanale nel porto; il forte di mare, unito al castello alfonsino, che per fiancheggiar l’Italia nel 1583, in tempo del Re Filippo II, ingrandì, presiedendo alla provincia, il Duca d‟Airola Caracciolo, due miglia discosto; e quel di terra, opera degli Aragonesi e Tedeschi, vasto ed antico, nel quale il Console Veneziano, carcerato per leggiera cagione, ci raffrescò e con sorbetti e con moscadelli di candia, non invidiati però da’ vini naturale del luogo. Si dié d’occhio alle fabriche, non troppo insigni, e alle strade, non ragguardevoli; alla chiesa degli Angeli, con celebri reliquie e supellettili preziose, fatta edificar e dotar per le Suore Capuccine dalla Casa Elettorale di Baviera, e all’altra delle Benedettine, custode pur di molte sagre reliquie, che fé mostrarmi, con due buoni palazzi, il Canonico Commissario della Nunziatura.

 

Pacichelli (A)

immagine tratta ed adattata da Google Maps

 

 

1   Duomo (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Brindisi_cattedrale.JPG)

 

3  Carmine1/S. Teresa  (mappa/http://www.comune.brindisi.it/turismo/images/phocagallery/chiese/santa_teresa/thumbs/phoca_thumb_l_santa_teresa_003.jpg?)

 

4    Castello di Terra/Castello svevo (mappa/http://www.mondimedievali.net/castelli/puglia/brindisi/brindm13.jpg)

 

5    Fortezza di mare/Castello alfonsino (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Brindisi_molo_vecchio_zoom.jpg)

 

8     Porta di Messagne/Porta di Mesagne (mappa/http://www.brindisiweb.it/fotogallery/comera_porta_mesagne.asp)

Nella mappa compare Porta Reale che fu demolita in occasione della bonifica del porto operata da Andrea Pigonati dal 1776 al 1780 su incarico diretto del re Ferdinando IV; non compare, invece, Porta Lecce (com’era negli anni ’30 e com’è oggi nelle foto che seguono tratte da http://www.brindisiweb.it/fotogallery/comera_porta_lecce.asp dove il lettore troverà una preziosa documentazione fotografica anche sulle trasformazioni subite dalle due porte superstiti).

 

 

 

 

10    Cappuccini (mappa/immagine tratta ed adattata da Google Maps); notizie storiche in: http://www.brindisiweb.it/arcidiocesi/chiese/brindisi/smariafontana/cappuccini.pdf

http://www.viaggiareinpuglia.it/at/1/castellotorre/90/it/Castello-Svevo-di-Brindisi

 

12    S. Maria degli Angioli/Santa Maria degli Angeli (mappa/http://www.comune.brindisi.it/turismo/images/phocagallery/chiese/santa_maria_degli_angeli/thumbs/phoca_thumb_l_chiesa_angeli.jpg)

 

 14   Le colonne romane (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:End_Of_Via_Appia_In_Brindisi.jpg)

Chiudo con lo stemma attuale (nella mappa compaiono due scudi vuoti).

immagine tratta da http://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/5/55/Brindisi-Stemma.png

(CONTINUA)

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Seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/23/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-214-alessano/

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1 Andrea della Monaca, Memoria historica dell’antichissima e fidelissima città di Brindisi, Pietro Micheli, Lecce, 1674, pagg. 633-634: [A causa dell’invasione della lega di Francesi, Veneziani e Romani poco dopo il 1500] Rimase la Città nuda affatto d’ogni sostanza, eccetto di quella poco che nelle Rocche s’era salvata, e disfatta in gran parte degl’edifici dall’artegliarie del Castello. Frà l’altre rovine, che fero quelle Bombarde, notabile fù quella della Chiesa e Monasterio de’ Padri Carmelitani, ch’era à canto al mare nella riva interna del destro corno appunto sotto il fianco della trincera nemica in Sant’Eligio, dalla quale fù battuta la Rocca, poichè non vi restò pietra sopra pietra, à fin che il nemico non se ne potesse servire per fortificarvisi, piantandovi nuova batteria. Ma la prima cosa, che fece la pietosa Città, cominciando à respirare fù il provedere quei Padri d’altra habitatione, e d’altra Chiesa, e trovandosi ch’aveva modernamente fabricato il Tempio di San Rocco per voto della liberazione della Peste passata [1526], dispose, che i predetti Padri fondassero ivi il loro Monasterio in luogo dell’antico, dal qual tempo, cioè dagl’anni mille cinquecento, e ventinove cominciò quella Chiesa ad intitolarsi Santa Maria del Carmine. Il vecchio Monasterio, ch’aveva diverse membra, come camere, Dormitorij, & Officine, benche tutte dirute, la Fontana di Sant’Angelo Martire, e due Giardini, non essendo più utile à cosa alcuna, fù dato da’ padri, doppo alcun tempo, à censo perpetuo per annui feudi nove à Pietro, e Paolo Strabone Brundusino, e l’Istrumento fù fatto da Notaro Nicolò Tacconenell’anno mille cinquecento cinquanta sei, che si conferma nell’Atchivio del Monasterio de’ Padri del Carmine, nel quale vi furono edificate molte case, ch’oggidì sono da’ Cittadini habitate, benche col tempo si sia trasferito il dominio di quello à molte persone, ma sempre col medesimo peso. Si trattennero per sé i Padri il Giardino grande, che è contiguo al detto Monasterio, non dandoli l’animo d’alienarsi totalmente dall’antico lor domicilio, per la memoria del glorioso Martire Sant’Angelo, che calcò quella terra, e respirò quell’aria. Ne riportorno i medesimi Padri la sacra, e miracolosa Imagine della Vergine del Carmine alla nuova Chiesa, con tutto che fusse effigiata nel muro, la quale restò illesa senza pur essere colpita da tanti tiri d’Artigliarie, che diroccorno la Chiesa, & il Monasterio, riserbandosi miracolosamente intatta trà tante rovine, vedendosi perder la forza, e cadere à prè dell’Altare della Vergine le palle de’ Cannoni, e Columbrine, ch’erano della Rocca tirate. Oltre di ciò, si compiacque la benignità dell’Imperatore [Carlo V] d’ordinare che siano sodisfatti à i Padri tutti i danni patiti nella rovina del loro Monasterio per agiuto della fabrica del nuovo Convento, secondo la stima de’ periti, eccetto le travi, tavole, porte, fenestre, & altre materie tali, che, potevano servire alla nuova habitatione, in conformità del che ne spefì Ferrante Loffredo Preside della Provincia gl’ordini necessarij alli Regij Officiali, & ad Antonello Coci Sindico, & à gl’Eletti della Città di Brindisi nell’anno mille cinquecento cinquanta trè, quale nel medesimo Archivio si conservano.    

Una passeggiata a Lecce di fine Seicento. L’abate Giovan Battista Pacichelli descrive la città (seconda parte)

La veduta di Il Regno di Napoli in prospettiva è tratta da http://www.vecchiaprovinciadilecce.it/
La veduta di Il Regno di Napoli in prospettiva è tratta da http://www.vecchiaprovinciadilecce.it/

di Giovanna Falco

 

Gli appunti contenuti nelle varie opere di Pacichelli sono dettati dal gusto e della curiosità e danno la sensazione a chi li legge di tornare in dietro nel tempo e di percorrere insieme con lui le vie della città e del suo circondario.

Venerdì 17 maggio 1686[i], Pacichelli giunge da Campi a Lecce, «scoverta nella torre quattro miglia avanti, quasi con maestoso invito, ma superiore alla fama che ne corre»[ii], cioè dalla stessa direzione da dove è stata ritratta la veduta pubblicata in Il Regno di Napoli in prospettiva.

«Alle 21 hora» entra «in questa Metropoli della Provincia di Otranto»[iii] in groppa a un cavallo affittato da un soldato ad Altamura: un animale «di buono, e grande aspetto, mà vitioso nell’inciampare ad ogni passo»[iv], tant’è vero che poco prima di entrare a Lecce, gli era caduto addosso[v]. È accompagnato dal suo «Cameriero, accoppiandosi meco per guida à piedi un tale Bello Tonno (sopranomi de’ frequenti ad Altamura) applicato ò correr co’ dispacci per le Provincie»[vi].

Pacichelli si reca presso la chiesa dei Gesuiti ad assistere alla funzione della Buona Morte, quindi incontra l’abate Scipione De Raho che «non permise, che in alcun Chiostro io mi fermassi» e lo «condusse subito in sua casa, che hà forma di palazzo»[vii] in corte dei Malipieri[viii].

Il mattino seguente i due abati escono per visitare la città, ma è improbabile che il loro itinerario sia coinciso con il succedersi dell’esposizione dei luoghi indicati nella lettera del 1686 e in Il Regno di Napoli in prospettiva.

Chiesa del Gesù
Chiesa del Gesù

La prima chiesa a essere illustrata è quella dedicata alla protettrice Sant’Irene, officiata dai padri Teatini, «maestosa, con le cappelle sfondate»[ix], circondata da un largo cornicione, «mà il tetto desidera il volto o’l soffitto»[x].

Nella chiesa Pacichelli si sofferma ad ammirare «presso la porta trè tele di S. Carlo Borromeo, e nella Croce alla sinistra S. Gaetano, dipinti à Parma da un loro Laico»[xi], affermazione che contrasta con l’attribuzione delle quattro tele e con l’ubicazione dell’altare di San Gaetano, situato nel transetto destro della chiesa, di cui Infantino aveva trascritto il testo della lapide in onore del Santo, datata 1630[xii]. Infantino, inoltre, aveva specificato: «habitano in questa Casa per ordinario quaranta Padri»[xiii], mentre Pacichelli accenna solo alla «mediocre Biblioteca»[xiv].

Il «sontuoso Collegio della Compagnia dedicato alla Circoncisione»[xv], ha la facciata che «par che superi quella del Collegio Romano»[xvi]. Pacichelli lo ritiene «sconcio ne’ Dormitori»[xvii], reputati invece nel 1703 «commodi, con le Camere, con Chiostri à basso per passeggiarvi, ove han luogo le vaste Scuole, e la stanza cangiata in Cappella del P. Realino, sepolto ivi, non si sa dove»[xviii], «presso alla Sagrestia, restando finita di corpo grande la Chiesa»[xix], con, descrive Infantino, «bella, signoril, & ampia prospettiva» che si affaccia su una piazza, realizzata dopo aver «buttato à terra un gran Palagio, che stava incontro»[xx].

Il Duomo
Il Duomo

In piazza Duomo, Pacichelli osserva il palazzo vescovile, «veramente Cardinalizio»[xxi], la cui facciata, realizzata dal vescovo Scipione Spina, era stata descritta da Infantino come «una bella Galleria con bellissimo ordine di colonne à torno à torno, con balaustri à basso, e sopra»[xxii]. Pacichelli descrive il «novello tempio», rinnovato «nel 1658 dal Vescovo Monsignor Luigi Pappacoda in forma sì nobil’e vasta, con le cappelle ricche di marmi»[xxiii], tra queste ammira quella «molto vasta di S. Oronzio Vescovo Protettore»[xxiv], e nel 1687, oltre al soffitto, quella del «SS. Crocefisso col sepolcro composto di meravigliosi lavori di quella delicata pietra, per memoria, e per cenno di Monsig. Vesc. Pignatelli»[xxv]. Scende anche nel soccorpo che «apparisce ornato dal fù Monsignor Vescovo Luigi Pappacoda ivi sepolto»[xxvi], ma già «maravigliosamente abbellito», ai tempi di Infantino grazie alle «elemosine raccolte per Gio. Griffoli nobile Senese all’hora Vicario»[xxvii].

5 Basilcia di Santa Croce

Pacichelli reputa «magnifica forsi più di tutte la Chiesa di Santa Croce de’ Celestini vicino alle mura»[xxviii], che «spicca per la facciata nobilissima del Gran Tempio, e per l’architettura del Monistero; v’è in essa frà l’altre un’antica Cappella della Nobil Famiglia Sementi, con un miracoloso Quadro de’ Santi Benedetto, e Mauro, essendo tutta la chiesa adorna di nobili pitture, ed intagli»[xxix]. A proposito di questo altare Infantino aveva scritto: «la Cappella di San Benedetto, sotto la cui regola militano i Padri Celestini, Altar privilegiato de’ Sementi», «è hoggi del Dottor Francesco Maria Seme(n)ti, figliuolo di Gio: Lorenzo, e fratello di Donato Antonio, e Leonardo, di buona memoria, il primo Dottor in Teologia, & in legge, & il secondo Dottor di leggi»[xxx], probabilmente è lo stesso Donato Antonio cui è dedicata la veduta di Lecce di Il Regno di Napoli in prospettiva.

Riguardo alle quattro parrocchiali, istituite nel 1628 dal Visitatore Apostolico Andrea Perbenedetti[xxxi], oltre a quella già illustrata del Vescovado, Pacichelli accenna alla chiesa di Santa Maria della Luce, e menziona quella Santa Maria della Porta, che «hà un’Immagine dispensatrice di Grazie»[xxxii], «che hora si vede dentro quei indorati cancelli di pietra Leccese, fabricata da diverse carità, e limosine»[xxxiii] così come si apprende da Infantino, e la chiesa di Santa Maria della Grazia, di cui Infantino decantò l’ «intempiatura di sì bei lavori, che non credo si trovi simile in tutto quanto il Regno»[xxxiv], e Pacichelli definì «vaghissima nella maggior piazza»[xxxv].

La piazza era stata descritta da Infantino «molto spatiosa, ampia, lastricata, e bella, e circondata anche da ricchi fondachi, portici, e botteghe»[xxxvi], arricchita dalla fontana «con la Lupa insegne della Città»[xxxvii] (ubicata nel 1686 fuori porta San Biagio), dal «superbissimo Seggio di sontuose fabriche di diversi lavori», al quale «s’ascende magnificame(n)te per molti gradi, e su questi vi è una balaustra di ferro alta, e di bel lavoro attorno», sormontato da un «bellissimo Orologio con due statue di pietra Leccese, che sostengono la Campana»[xxxviii] e «all’incontro è il Tribunale della Regia Bagliva»[xxxix]. Dentro alcune botteghe, annotava ancora Infantino, «si veggono le reliquie di antichissimi edificij, detti volgarmente i borlaschi, machina superbissima in forma di Teatro, simili à gli antichi Teatri Romani»[xl]. Nel 1684 Pacichelli aveva sbrigativamente accennato: «la piazza grande hà il Seggio chiuso di ferro, fontana, e piramide, con la statua di Sant’Orontio, sendo sparse le botteghe de’ Negotianti»[xli], mentre nel 1686 oltre a citare la «Statua, e questa di marmo, dell’Imperador Carlo V una fonte artifitiale con quella del Rè di Spagna Carlo II», si sofferma sulla «colonna trasferita da Brindisi, e già ivi consegrata ad Hercole, diminuita però, con la Statua di rame di S. Oronzo valutata 300 ducati, benche tutta la spesa di questa mole, e sua trasportazione arrivi à ventimila. Ne’ quadri più nobili del piedistallo sono incise le Inscrittioni» e «nell’anno 1684 in tempo del Signor Sindico Domenico Stabile che vi cooperò non poco, e ne ritiene dal Signor Costantino Bonvicino dedicata, con altre quattro Statue de’ Protettori non ancora intagliate né fuse à gli angoli della base, e de’ balaustri, l’idea»[xlii]. Pacichelli trascrive nel 1686 il testo di due epigrafi[xliii] e un altro nel 1703[xliv], quando la statua del santo è descritta in bronzo e si legge che il popolo: «per haver dimostrata la presentanea protezzione nel 91 e 92 nel Contaggio della prossima Provincia di Bari, v’impresse nella faccia della base questo Epigrafe; semper Protexi, et Protegam, havendo sempre la sua Patria di Grazie, e di Miracoli arricchita»[xlv].

Chiesa di Santa Maria delle Grazie
Chiesa di Santa Maria delle Grazie

Della chiesa di San Francesco della Scarpa dei Conventuali, Pacichelli menziona la «stanza bassa vicina al Giardino, habitata da S. Francesco»[xlvi], quando, così come riferì Infantino, il santo oltre a mandare a Lecce i suoi frati, «volle con la sua propria persona anche honorarla, nel ritorno ch’egli fece da Soria»[xlvii]. Pacichelli puntualizza, così come si evince anche dalla lettura di Lecce sacra, che la cappella fu «migliorata in un Sagro Oratorio»[xlviii]. Nel giardino l’abate nota l’«Arancio piantato da P. S. Francesco»[xlix], il cui frutto, aveva precisato Infantino «mangiato dagli Infermi con fede, ben spesso si guariscono»[l].

Pacichelli osserva nel complesso monastico di «S. Angelo de gli Agostiniani l’Infermaria e la cappella del Giugno»[li], dove era stato sepolto Giovan Battista Giugni, morto a marzo dello stesso anno, cui era stata dedicata una lapide nel chiostro, di cui riporta il testo. Giugni aveva fiorito «in amendue le Academie di questa Città»[lii], cioè quella dei Trasformati e quella degli Spioni. Pacichelli descrive accuratamente la cappella di questa famiglia, ubicata «nel destro lato della Chiesa, la seconda cappella da lui dedicata alla Reina del Carmelo»[liii], trascrivendo i testi incisi su quattro lapidi. Non fa testo la descrizione di Infantino, perché la chiesa fu ricostruita nel 1663.

«In fine di rado vidi al di dentro, la casa hoggi nobilitata, che dicon già fosse di Sant’Oronzo»[liv]: il palazzo dei Perrone (nell’omonima via), che «furono quelli che si fecero ritenere discendenti da S. Oronzo Protettore di Lecce e che inventarono la leggenda dell’Angelo col tortano cui prestò fede il buon Padre Pio Milesio»[lv].

(CONTINUA)

prima parte:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/05/una-passeggiata-a-lecce-di-fine-seicento-labate-giovan-battista-pacichelli-descrive-la-citta/

terza ed ultima parte:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/17/una-passeggiata-a-lecce-di-fine-seicento-labate-giovan-battista-pacichelli-descrive-la-citta-terza-ed-ultima-parte/


[i] La data si desume dalla circostanza che Pacichelli trova la chiesa di Santa Croce «coperta di setini, col Trono dell’Abate per la festa del Santo lor fondatore». La festività di San Pietro Celestino ricorre il 19 maggio, che nel 1686 cadeva di domenica (M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 162).

[ii] Ivi, p. 158. Nel 1686 Pacichelli afferma che la torre campanaria del duomo «costa quindeci mila ducati» (Ivi, p. 185), mentre nel 1703 è «valutata 15 m. scudi » (G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit., p. 169).

[iii] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit.,p. 159.

[iv] Ivi, p. 142.

[v] Cfr. Ivi, p. 159

[vi] Ivi, p. 142.

[vii] Ivi, p. 159.

[viii] Nel 1631 il palazzo ricadeva nell’isola delli Condò della parrocchia di Santa Maria de la Porta, e vi abitavano Mario de Raho con la moglie Andriana Riccio, Leonardo Riccio e una schiava (Cfr. lo Status animarum civitatis Litii 1631, manoscritto conservato presso l’Archivio Vescovile di Lecce).

[ix] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit.,p. 160.

[x] Ibidem.

[xi] Ibidem.

[xii] Cfr. G.C. Infantino, op. cit., p. 35.

[xiii] Ivi, p. 33.

[xiv] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 169. Ritenuta senza rarità nel 1686.

[xv] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 116.

[xvi] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 169.

[xvii] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 160.

[xviii] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 169.

[xix] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 160.

[xx] G.C. Infantino, op. cit., p. 170.

[xxi] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 169.

[xxii] G.C. Infantino, op. cit., p. 10.

[xxiii] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 116. «Gli epitafi» delle cappelle, «con quel della fronte si trascrivon dal Ab. Franc. De Magistris in Statu Rerum Memorab. Neap. I, num. 43, fol. 29 che non cede ad altre di questo Dominio» (Ibidem).

[xxiv] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 169.

[xxv] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 222.

[xxvi] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit., p. 169.

[xxvii] G.C. Infantino, op. cit., p. 7.

[xxviii] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 162

[xxix] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit., pp. 169-70.

[xxx] G.C. Infantino, op. cit., p. 120.

[xxxi] Cfr. F. De Luca, La visita apostolica di Andrea Perbenedetti nella città e diocesi di Lecce, in «Kronos: periodico del DBAS Dipartimento Beni Arte e Storia», n. 8, 2005, pp. 31-68

[xxxii] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 170.

[xxxiii] G.C. Infantino, op. cit., p. 71.

[xxxiv] G.C. Infantino, op. cit., p. 109.

[xxxv] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 162.

[xxxvi] [xxxvi] G.C. Infantino, op. cit., p. 111.

[xxxvii] Ibidem.

[xxxviii] Ivi, p. 112.

[xxxix] Ivi, p. 113.

[xl] Ivi, pp. 111-12.

[xli]  M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., 117.

[xlii] Ivi, pp. 162-163.

[xliii] «Così, dunque, da un alto: columnam hanc, quam brundusina / civitas suam ab ercule ostentans / originem profano olim ritu in sua / erexerat  insignia, religioso tandem / cultu divo subiecit orontio, ut / lapides illi qui ferarum domitorem / expresserant, celamine, voto, aereq; / lupiensium exculto, truculentioris / pestilentiae monstri triumphatore / posteris consignarent. E dall’altro: siste ad hanc metam famae / augustum quondam romani fastus, / nunc eliminatae luis trophaeum / columnam vides, potiori nunc herculi / d. orontio sacrae. non plus ultra / inscribit Orontius Scaglione, patritius / non sine numine primus, hutusce / nominis patriae pater. statua / ab altera basi. illam cum statua / erexit. anno domini salu. mdclxxxiv» (Ivi, p. 163). Il primo testo è inciso alla base della colonna sul lato prospiciente l’anfiteatro, il secondo è sul lato di fronte al Sedile.

[xliv]«in un de’ lati il presente attestato, D. Orontio Protochristiano, Prothopraesuli, Prothomartyri Liciensi ab averuncatam à Patriae solo totaque Salentina Regione pestilentiam in anno MDCLVI Italiam provinciatim desolantem Columnam hanc Clerus Ordo Populisque Lyciensis erexit ut in Columna ad suor um munim Divus ipse excubaret Orontius, habexentique posteri perenne Urbis devictissimae pro tanto beneficio monimentum» (G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 170). Il testo è ancora leggibile alla base della colonna, sul lato addossato all’edicola di giornali.

[xlv] Ibidem.

[xlvi] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 164.

[xlvii] G.C. Infantino, op. cit., p. 47.

[xlviii] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 170.

[xlix] Ibidem.

[l] G.C. Infantino, op. cit., p. 80.

[li] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 164.

[lii] Ibidem.

[liii] Ivi, p. 165. L’altare dovrebbe essere quello ora dedicato alla Madonna del Rosario.

[liv] Ivi, p. 167.

[lv] A. Foscarini, Lecce d’altri tempi. Ricordi di vecchie isole, cappelle e denominazioni stradali (contributo per la topografia leccese), in “Iapigia”, a. VI, 1935, pp. 425-451: p. 430.

Una passeggiata a Lecce di fine Seicento. L’abate Giovan Battista Pacichelli descrive la città (parte prima)

La veduta di Il Regno di Napoli in prospettiva è tratta da http://www.vecchiaprovinciadilecce.it/
La veduta di Il Regno di Napoli in prospettiva è tratta da http://www.vecchiaprovinciadilecce.it/

 

di Giovanna Falco

 

Il Regno di Napoli in prospettiva dell’abate Giovan Battista Pacichelli[i], pubblicato postumo nel 1703[ii], è noto per lo più per le vedute prospettiche delle città che lo corredano e per le tavole delle dodici provincie che formavano il regno[iii]. L’opera si basa su lettere inviate dall’abate ad amici e conoscenti durante i suoi viaggi, pubblicate nel 1685 e nel 1691, in Memorie de’ viaggi per l’Europa Christiana e in Memorie novelle de’ viaggi per l’Europa cristiana[iv].

Le notizie su Lecce, riportate nella Parte seconda di Il Regno di Napoli in prospettiva, nel capitolo dedicato alla settima provincia del Regno di Napoli, cioè Della Japigia o Terra d’Otranto[v], sono state raccolte dall’autore durante tre viaggi compiuti nel 1684, nel 1686 e l’anno successivo e raccolte nelle Memorie anzidette[vi].

Nella primavera del 1684 Pacichelli è a bordo di una feluca e, «scendendo per poche miglia in terra dal mare, ove torna meglio in acconcio»[vii], probabilmente sbarca a San Cataldo: «porto picciolo, verso scirocco, sette miglia da Lecce, col Castello guardato da’ Soldati Italiani e dal Castellano del Rè Cattolico, nominato Porto di San Cataldo, perché in esso approdò quel Santo»[viii]. Nel 1686 l’abate, giunto da Campi a cavallo, si sofferma più a lungo nella descrizione di Lecce: visita la mattina i luoghi all’interno delle mura e il pomeriggio quelli all’esterno. Nel maggio 1687 entra in città dalla via di Lequile e dedica gran parte delle circa ventiquattro ore ivi trascorse «a visitar vari Amici, spiccando frà loro la Cortesia, e la Bellezza nelle Donne» e a intrattenersi con il vescovo Michele Pignatelli, che «raccontò gli sconcerti de’ suoi Diocesani, armati di centinaia di scoppette per resister al sagro Sinodo convocato» e lo invita «alla bella funzione della prima pietra alla Chiesa delle Monache di Santa Chiara»[ix].

Le notizie riportate da Pacichelli, ritenuto da Cosimo Damiano Fonseca un poligrafo «con una spiccata tendenza alla versatilità alla curiosità, al gusto della notazione erudita, senza eccessive pretese di rigore filologico, di verifiche puntuali, di vaglio critico»[x], sono da verificare, così come si evince in particolar modo quando indica le fonti da cui ha tratto le notizie storiche di Lecce. Nel 1684, ad esempio, cita correttamente «l’Infantino in 4 nella Lecce Sacra»[xi], ma nel 1686 si confonde e scrive: «chi vuol saper più, legga la Lecce Sagra del Sig. Francesco Bozi Patritio, e attenda in breve la Lecce Moderna di D. Giulio Cesare Infantino Curato di S. Maria della Luce»[xii], errore riportato anche in Il Regno di Napoli in prospettiva, dove menziona alcuni storici che hanno dissertato sulle antichità di Lecce[xiii]. In alcune note è palpabile l’arguzia che caratterizza l’autore, sia quando si sofferma a descrivere particolari anche superflui, come ad esempio l’abbigliamento di Scipione De Raho quando si accomiatò da lui, accompagnandolo «fuori dalle porte in berrettino, e pianelle»[xiv], sia quando illustra gli usi e costumi dell’epoca.

Sta di fatto che le sue annotazioni, nonostante alcuni refusi e inesattezze (alcuni evidenziati, altri da evidenziare, mettendoli a confronto con studi recenti), sono fondamentali perché descrivono la città a fine Seicento, in particolar modo se si mettono a confronto con Lecce sacra di Infantino, opera pubblicata una cinquantina di anni prima.

Lecce. Palazzo De Raho
Lecce. Palazzo De Raho

Lecce ha le «muraglie sostenute da Torri, Fosse, Cortina, e fortificazioni alla moderna con quantità di Baloardi, e Castello inespugnabile», con le «quattro Porte magnifiche, cioè a dire la Regale, o di S. Giusto, di S. Oronzo, di S. Biagio, e di S. Martino»[xv]. La città ha «trè miglia di giro, con vie larghe, e ben lastricate, giardini, fontane, fabriche nobili della pietra, che si cava nel suo fertile territorio, ch’è dolce e si lavora à guisa di legno con pialla. Non sà invidiar Napoli nello splendore, e magnificenza delle Chiese e de’ Chiostri di tutti gli Ordini»[xvi]. Già Infantino aveva rilevato che Lecce «vien stimata un picciol Napoli»[xvii].

«Le fabriche», dunque, «son di pietra bianca, che nasce là, si lavora con pialla, e riceve impression di figure col coltello, della quale vidi curiose Gelosie. Non si alzan molto, a cagion del peso, che fà cadere spesso le mura ed i Volti»[xviii].

La città è dotata di «trecento Carrozze, mantenute con poca spesa»[xix] (concetto ribadito anche nel 1703) e l’approvvigionamento idrico è dovuto a cisterne e pozzi[xx]. Tra i prodotti manifatturieri sono menzionati le «le belle coperte di bombace per la state»[xxi], i «Forzierini, ò Scrittori di pelle figurata, e dorata nelle coverte» e le «Tabacchiere di paglia historiate, che da 25 carlini son discese al valor di un tarì»[xxii].

La popolazione: «stimasi la più cospicua, e più popolata città del Reame, ove soggiornavan quantità di Nobili e ricche Fameglie, con molto lusso, e con galanteria verso de’ Forestieri, numerandosi à 3300 i fuochi»[xxiii] (declassata a una «delle più popolate del Regno»[xxiv] nel 1703), «inchiudendo non più di nove mil’anime, tutte civili verso il Forastiero, diminuite dopo il contagio, e la mortalità del 1679, con Fameglie antiche e riguardevoli; alcuni Baroni però che col Feudo di pochi carlini, altri col solo Dottorato, han luogo nel Magistrato supremo»[xxv]. Dopo avere affermato che Lecce è stata «Patria di gloriosi Eroi, così in Santità, come in Lettere, & armi»[xxvi], Pacichelli dedica tre pagine di Il Regno di Napoli in prospettiva a personaggi illustri leccesi ed elenca un gran numero di famiglie nobili[xxvii], così come aveva fatto Infantino quando aveva illustrato la chiesa di Santa Maria dei Veterani[xxviii].

Lecce. Chiesa di Sant'Irene, stemma di Lecce
Lecce. Chiesa di Sant’Irene, stemma di Lecce

A Lecce, oltre a risiedere il Preside con il suo Tribunale e il Vescovo che «gode vasta giurisditione in ventisette castelli»[xxix], secondo Pacichelli sono presenti «sette monasteri di Suore, trè spedali, e varie confraternite»[xxx], «la Clausura delle Convertite, e dodeci degli huomini»[xxxi]. Tra i monasteri femminili (tutti già fondati tranne quello delle Alcantarine), nel 1703 l’abate cita quello delle domenicane dei Chietrì[xxxii] e di «Santa Maria Nuova»[xxxiii] e, come si è già detto, nel 1687 quello di Santa Chiara. Non fa alcuna menzione al «refugio di povere verginelle»[xxxiv] di San Leonardo, né può citare il Conservatorio di Sant’Anna fondato in seguito. Si sofferma solo su dieci delle dodici case religiose maschili da lui indicate, accennando solo al domenicano San Giovanni Battista dei padri Predicatori e all’agostiniano Santa Maria di Ognibene (non ancora fondato all’epoca di Infantino). Non include nelle sue dissertazioni, però, i conventi dei Carmelitani (Santa Teresa e Santa Maria del Carmine), dei Fatebenefratelli (San Giovanni di Dio), dei Paolotti (Santa Maria degli Angeli), dei Minori Osservanti (Sant’Antonio da Padova), degli Osservanti (Santa Maria dell’Idria) e dei Cappuccini di Santa Maria di Rugge.

(CONTINUA)

seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/07/una-passeggiata-a-lecce-di-fine-seicento-labate-giovan-battista-pacichelli-descrive-la-citta-seconda-parte/

terza ed ultima parte:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/17/una-passeggiata-a-lecce-di-fine-seicento-labate-giovan-battista-pacichelli-descrive-la-citta-terza-ed-ultima-parte/

 


[i] Giovan Battista Pacichelli (1641-1695) Dottore in Diritto Civile e Canonico e laureato in Teologia, ricoprì l’incarico di Uditore Generale presso la Nunziatura Apostolica di Colonia, da dove intraprese numerosi viaggi in Europa. Ritornato in Italia e resosi conto di non poter fare carriera presso la corte del Papa, si recò a Parma, dove svolse le funzioni di Consigliere del duca Ranuccio II Farnese e di Uditore Civile della Città e dello Stato. Trasferitosi a Napoli, in seguito, nel 1683, rivestì l’incarico di Ablegatus del duca di Parma, da qui intraprese numerosi viaggi in Italia meridionale. Le notizie sulla vita di Giovanni Battista Pacichelli sono tratte dalle opere di Cosimo Damiano Fonseca, Michele Paone ed Eleonora Carriero (cfr. C.D. Fonseca L’Abate Giovanni Battista Pacichelli (1641-1695), in C.D. Fonseca (a cura di), Puglia di ieri. Il Regno di Napoli in prospettiva dell’Abate Gio: Battista Pacichelli, Bari s.d., M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi dell’abate Pacichelli (1680-7), Galatina 1993, E. Carriero (a cura di), Giovanni Battista Pacichelli. Memorie dei viaggi per la Puglia (1682-1687), Edizioni digitali del CISVA 2010).

[ii] Il titolo completo dell’opera è Il Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodeci provincie, / In cui si descrivono la sua Metropoli Fidelissima Città di Napoli, e le cose più notabili, e curiose, e doni così di natura, come d’arte di essa: e le sue centoquarantotto Città, e tutte quelle Terre, delle quali se ne sono havute le notitie: con le loro vedute diligentemente scolpite in Rame, conforme si ritrovano al presente, oltre il Regno intiero, e le dodeci Provincie distinte in Carte Geografiche, / Con le loro Origini, Antichità, Arcivescovati, Vescovati, Chiese, Collegii, Monisterii, Ospidali, Edificii famosi, Palazzi, Castelli, Fortezze, Laghi, Fiumi, Monti, Vettovaglie, Nobiltà, Huomini Illustri in Lettere, Armi, e Santità, Corpi, e Reliquie de’ Santi, / E tutto ciò, che di più raro, e pretioso si ritrova, coll’ultima Numeratione de Fuochi, e Regii pagamenti: con la memoria di tutti i suoi Regnanti dalla Declinatione dell’Imperio Romano, e di tutti quei Signori, che l’han governato. / Con i Nomi de’ Pontefici, e Cardinali, che sono nati in esso; Catalogo de’ sette Officii del Regno, e serie de’ Successori, e di tutti i Titolati di esso, col reassunto delle Leggi, Costitutioni, e Prammatiche, sotto le quali si governa. / Con l’Indice delle Provincie, Città, Terre, Famiglie Nobili del Regno, e quelle di tutta Italia. / Opera postuma divisa in tre parti dell’Abate Gio: Battista Pacichelli / Parte seconda / Consecrata all’Illustriss. Et Eccellentiss. Sig. il Sig. / D. Francesco Caracciolo Conte di Bucino Primogenito dell’Eccellenntiss. Sig. Duca di Martina, & c. / In Napoli. Nella Stamperia di Dom. Ant. Parrino 1703.

[iii]Nella lettera «Al Sig. Michele Luigi Mutii publico Stampatore in Napoli. / Consulta, e Giudizio per la stampa del REGNO DI NAPOLI IN PROSPETTIVA, Opera fresca dell’Autore», inviata da Portici il primo settembre 1691, Pacichelli scrive: «Sua è la cura di promuovere i disegni delle Città e Terre, e di fargli scolpir nel rame, dopo i già incisi delle Provincie: resta à me la sol’operatione, hormai compiuta, nello schiccherarne della sostanza» (G. Pacichelli, Lettere familiari, istoriche, & erudite, tratte dalle memorie recondite dell’abate d. Gio. Battista Pacichelli in occasione de’ suoi studj, viaggi, e ministeri, Napoli 1695, 2 voll., vol. I, pp. 188-9) I dodici “incisi delle Provincie” cui allude l’abate, sono una rielaborazione semplificata di quelle di Francesco Cassiano de Silva, pubblicate nell’Atlante di Antonio Bulifon del 1692 (Cfr. C.D. Fonseca L’Abate Giovanni Battista Pacichelli (1641-1695) cit.) . Riguardo alla veduta prospettica di Lecce non si conosce l’autore. Non può essere Cassiano de Silva perché la veduta prospettica da lui eseguita è differente (cfr. Il delfino e la mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto – luglio 2012, anno I, n. I, p. 90).

[iv] Cfr. G.B. Pacichelli, Memorie de’ Viaggi per l’Europa Christiana scritte à Diversi in occasion de’ suoi Ministeri, 5 vol., Napoli 1685 e  Memorie novelle de’ Viaggi per l’Europa Christiana comprese in varie lettere scritte, ricevute, ò raccolte dall’Abbate Gio: Battista Pacichelli in occasion de’ suoi Studi, e Ministeri, 2 vol., Napoli 1691. Le due opere sono suddivise in singoli capitoli (ognuno per Stato visitato), accompagnati da una lettera dedicatoria ad amici e conoscenti.  La cospicua corrispondenza dell’abate è stata poi raccolta nelle Lettere familiari (Cfr. G.B. Pacichelli, Lettere familiari cit.).

[v] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit., pp. 150-191, e in particolare pp. 167-173. L’incisione in rame della veduta di Lecce è pubblicata tra le pagine 166 e 167.

[vi] La prima è tratta dalle Memorie de’ Viaggi per l’Europa Christiana e precisamente la LXXXIV «Naviagatione dilettevol’ e divota della costa di Amalfi, in Calabria, ed a Brindisi» scritta da Ostuni il 10 aprile 1684 e indirizzata a  monsignor Giacomo de Angelis (Memorie de’ Viaggi, IV, pp. 360-377). Le altre due lettere sono pubblicate nelle Memorie novelle de’ Viaggi per l’Europa Christiana, scritte rispettivamente da Pacichelli da Napoli il 25 ottobre 1686 e indirizzata all’abate Francesco Battistini «Tornando in Puglia, vede il Bello di Capo d’Otranto, Basilicata e Principato Inferiore» (Memorie novelle de’ Viaggi, II, pp. 141-153) e da Altamura il 28 maggio 1687 e indirizzata a padre Tommaso di Costanzo «Pellegrinaggio alla Madonna di Leuca, esponendo le Provincie di Otranto e Lecce» (Memorie novelle de’ Viaggi, II, pp. 154-179) (cfr. C.D. Fonseca L’Abate Giovanni Battista Pacichelli (1641-1695) cit., E. Carriero (a cura di), op. cit.). I viaggi pugliesi sono stati pubblicati anche da Michele Paone, da cui sono stati tratti gli stralci riportati nel testo (Cfr. M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit.).

[vii] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 115.

[viii]G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit.,p. 171.

[ix] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 222.

[x] C.D. Fonseca L’Abate Giovanni Battista Pacichelli (1641-1695) cit.

[xi] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 115. Cfr. G.C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979.

[xii] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 170. In nota Paone rileva l’errore e chiarisce che Carlo Bozzi (e non Francesco) nel 1672 diede alle stampe l’opera agiografica I Primi Martiri di Lecce (Cfr. Ibidem, n. 174).

[xiii] Cfr. G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit, p. 168. Pacichelli Accenna alla storia di Lecce dalla fondazione all’epoca normanna e cita, oltre Bozzi e Infantino, il “Galatea”, Marciano, il “Volterrano”, Giulio Capitolino, Plinio, Antonello Coniger, Antonio Beatillo, P. de Anna (Cfr. Ivi, pp. 167-68).

[xiv] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 176.

[xv] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit, p. 168.

[xvi] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., pp. 115-16. Nel 1686 il giro delle mura diventa di due miglia e mezzo, per tornare di tre miglia nel 1703.

[xvii] G.C. Infantino, op. cit., p. 3.

[xviii] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 160.

[xix] Ibidem.

[xx] Cfr. Ibidem. Anche nel 1703 Pacichelli si sofferma a parlare dei pozzi e cisterne (cfr. G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 169).

[xxi] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 117.

[xxii] Ivi, p. 170.

[xxiii] Ivi, p. 117.

[xxiv] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit., p. 168.

[xxv] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 159. Descrizione simile a quella riportata nel 1703 (Cfr. G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 168).

[xxvi] Ivi, p. 171.

[xxvii] Cfr. Ivi, pp. 171-173

[xxviii] Cfr. G.C. Infantino, op. cit., pp. 126-168.

[xxix] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p 118.

[xxx] Ivi, p. 116.

[xxxi] Ivi, p. 164.

[xxxii] «Peregrina Creti fondò il Convento di S. Maria della Visitazione, detta volgarmente de’ Chieti di Vergini Claustrali, & Educande, e vi si legge su la Porta vecchia del Monistero questa Inscrizzione, Diva Mariae Sacram Edem, cui se devovit Peregrina de Criti Vestalis pia propiis sumptibus erexit pro sua, suorumque salute 1505. Kalend. Julii» (G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 173).

[xxxiii] Ivi, p. 167. Lo cita a proposito del «Marmo colà scoverto nelle fondamenta del Chiostro» trascrivendo due righe del testo riportato anche da Infantino, ma integralmente (Cfr. G.C. Infantino, op. cit., p. 89).

[xxxiv] Ivi, p. 85.

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