L’epigrafe di Rudie, ovvero CIL, IX, 23: un maquillage ben riuscito, però …

di Armando Polito

foto di Corrado Notario
foto di Corrado Notario

Questo post può essere considerato la ripresa, ripromessami su ispirazione del commento di un gentile lettore, di ciò che era rimasto in sospeso in uno precedente (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/08/la-toponomastica-della-provincia-di-taranto-in-una-carta-del-1589/).

CIL, IX, 23 non è, come i non addetti ai lavori sarebbero giustificatissimi a credere anche per suggestione del resto del titolo, un prodotto cosmetico di ultima generazione capace di nascondere, fin quasi a farle scomparire, le ineluttabili tracce del tempo. CIL è l’acronimo di CORPUS INSCRIPTIONUM LATINARUM, cioè la raccolta più autorevole e completa che registra tutte le iscrizioni latine (di ogni natura, dall’epigrafe che celebra le gesta del grande imperatore al graffito apposto su un muro magari da uno schiavo destinato per sempre a restare anonimo) rinvenute nel territorio dell’impero romano, ordinate geograficamente (nel nostro caso IX contraddistingue la regio II, cioè l’Apulia e la Calabria) e progressivamente (nel nostro caso 23). Il CIL può essere considerato un’opera destinata a restare incompiuta nel senso più nobile (perché più raro …) della locuzione, dunque lontana anni luce da un’autostrada o qualsiasi altra opera pubblica che attende da decenni di essere completata e resa fruibile; l’unico rialzo, però, che essa conosce è quello della conoscenza e questo rialzo non ammette appalti truccati, variazioni in corso d’opera e tangenti perché è costituito solo dai nuovi dati che fisiologicamente e giorno per giorno entrano a farne parte. Per questo dal lontano 1863, anno di pubblicazione del primo volume, l’opera è giunta attualmente al XVII volume, a parte i continui aggiornamenti inclusi nei supplementi ai singoli volumi. Si tratta, dunque, di un’immensa base di dati, locuzione che evoca immediatamente l’informatica. Come non pensare, dunque, ad un progetto ufficiale1 di informatizzazione del catalogo che costituisca anche l’occasione per integrazioni e aggiornamenti, in tempo più o meno reale, ormai indispensabili, non solo di natura iconica (nel CIL attuale in versione cartacea non compaiono foto delle iscrizioni originali ma solo la loro trascrizione, qualche nota e, qualche volta, disegno dell’intero supporto; andrebbe da sé che laddove nella versione digitale non ci fosse riproduzione fotografica l’originale sarebbe da considerare perduto)?

Il IX volume uscì a Berlino nel 1883 (per la versione digitalizzata: http://arachne.uni-koeln.de/Tei-Viewer/cgi-bin/teiviewer.php?scan=BOOK-1318078-0001_890296) e si avvalse del fondamentale e prestigioso contributo di Theodor Mommsen che effettuò anche ispezioni in loco.

Dopo questa premessa fatta nella speranza di suscitare curiosità, se non passione, soprattutto in qualche giovane lettore, qui tenterò di stilare una breve storia della nostra epigrafe partendo proprio dalla scheda che appare nel volume appena citato.

Da essa si apprende che l’epigrafe fu rinvenuta (reperta) a Rudie (Rugge) tra Lecce e Monteroni (inter Lecce et Monterone) e che a quel tempo (nunc=ora) si trovava a Monteroni nel palazzo baronale (Monterone in aedibus baronalibus). Dopo aver detto che sempre lì è attualmente custodita, incastrata su un muro, saltandone provvisoriamente il testo, passo alle altre informazioni contenute nelle righe in calce. Apprendiamo così che il Mommsen la trascrisse dall’originale (descripsi ); che Michele Arditi ne aveva mandato il testo al Marini con una lettera datata Napoli, 22 maggio 1790 secondo quanto risulta dall’epistola 40 del codice Vaticano 9140 [Marinio misit Mich. Arditius Neapoli 22 Mai 1790 (cod. Vat. 9140 ep. 40)] in base a due copie del testo che gli erano state mostrate (ad exempla duo sibi exhibita); che l’epigrafe era stata pubblicata dal Marini nel suo volume sugli Arvali a pag. 21 lodando l’informatore (?) Daniele (ed. Marini Arv. p. 21 auctorem laudans Danielem); che il Lupoli l’aveva pubblicata nel suo lavoro sull’iscrizione di Corfinio, seconda edizione, pag. 321, opuscolo pag. 21 (Lupoli insc. Corf. Ed. 2 p. 321, opusc. p. 21); che, infine, era stata pubblicata pure dall’Orelli col numero 134. 3858 (Orelli 134. 3858). L’ultimo rigo della scheda è da interpretarsi così: fine della prima linea (1 fin.) CERI/II nella lettura dell’Arditi (CERI/II Ard.), CER … nella lettura del Marini e mia (CER … Mar. ego).

A dimostrazione dell’interesse suscitato dall’epigrafe debbo qui aggiungere che essa fu pubblicata pure da Pietro Napoli-Signorelli, Supplimento alle vicende della coltura delle Sicilie, Orsini, Napoli, 1793, pagg. 71-73:  A rinnovar questa contesa sulla Rudia patria di Ennio interminabile (perché alla fin fine non può trattarsi se non per congetture) sento che surto sia un nuovo atleta nella provincia Idruntina per conservare alla moderna Rugge il vanto di aver prodotto Ennio. Egli è questo l’erudito sig. decano di Maglie don Oronzo Macrì [1738-1827] che dicesi averne distesa una dissertazione latina inviata al degno vescovo di Oria mons. Don Alessandro Kalefati. In sostegno di Rugge adduce il sig. Macrì l’antica tradizione, le monete che tutto dì si scavano in que’ contorni, la via sotterranea che mena da Lecce a Rugge, le lucerne e i vasi che vi s’incontrano, parte de’ quali si conservano in Monteroni dall’erudito nobile uomo don Alessandro Maria Lopez y Royo, e finalmente una iscrizione in marmo de’ tempi dell’imperadore Adriano disotterrato (dicesi) l’anno 1790 appunto nel luogo dell’antica Rudia indicata dal Galateo. In questa lapida che è piaciuto al prelodato sig. decano Macrì di comunicarmi, parlasi di Rudia come municipio, e vi si fa menzione di un Marco Tuccio juniore della tribù Fabia da Adriano dichiarato cavaliere, il quale era uno dei quattro decurioni di Rudia, la cui memoria volendo onorare il di lui padre che gli sopravvisse e pur chiamavasi Marco, stimò di stabilire (in vece del solito banchetto funebre, o viscerazione) un capitale perché della rendita se ne distribuissero in onore della memoria del figlio venti sesterzi ad ogni decurione, dodici agli augustali, dieci ai mercuriali, ed otto a ciascuno del popolo. Io la trascrivo perché ne giudichino gli eruditi leggitori:

 

Riservandomi di tornare sulle note 1 e 2 procederò ora all’esame comparativo degli autori citati nella scheda del Mommsen informando il lettore che, purtroppo, non mi è stato possibile leggere il testo della lettera del 1790 e che è risultata introvabile la seconda edizione del testo del Lupoli (nella prima non c’è traccia dell’iscrizione); tuttavia, il fatto che il Mommsen citi a proposito della nostra epigrafe il Lupoli (del quale pure aveva smascherato prima la falsificazione di altre epigrafi) depone a favore della sua autenticità (l’archeologia deve fare i conti pure con le miserie o le ricchezze dell’animo umano …).

Luigi Gaetano Marini, Gli atti e monumenti de’ fratelli Arvali, Fulgoni, Roma, 1795, v. I, pag. 21 (immagine tratta da http://books.google.it/books?id=dmYLAAAAYAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:8mzP2v4fMI0C&hl=it&sa=X&ei=XT9GU4r3JYrDtQaCroGoCA&ved=0CDoQ6AEwAQ#v=onepage&q&f=false).

 

Il Marini, dunque, si occupò di passaggio della nostra epigrafe inviatagli cinque anni prima dall’Arditi e la utilizzò per documentare che il titolo attribuito ad Adriano in un’altra di sacratissimus princeps non era un apax. Importante, però, quel trovata or ora nelle ruine di Ruge, illustre Patria di Ennio. Non c’è ombra, invece, di auctorem laudans Danielem riferito dal Mommsen nella sua scheda.

Giovanni Gaspare Orelli, Inscriptionum Latinarum selectarum amplissima collectio, Typis Obellii, Evesslini et sociorum, Turici, 1828, v. II, pag. 187 (immagine tratta da http://books.google.it/books?id=D7sdPrVBFUsC&printsec=frontcover&dq=editions:szia1HpVxBcC&hl=it&sa=X&ei=zuxHU5P6KuHb0QXZmIHQDw&ved=0CEEQ6AEwAg#v=onepage&q&f=false):

 

Come indicato alla fine, l’Orelli si limita a citare il Marini ed aggiunge solo il suo commento (sic) al BUB. per PUB. all’inizio della seconda linea.

La trascrizione del Mommsen si ripete tal quale anche in Herman Dessau, Inscriptiones Latinae selectae,  Weidmann, Berlino, 1902, v. II, parte I, pag. 607 (immagine tratta da https://archive.org/stream/inscriptionesla00dessgoog#page/n616/mode/2up):

Non ci dice nulla in più di quanto sapessimo rispetto a Rugge, ubi fuerunt Rudie, rep. (trovata a Rugge, dove ci fu Rudiae) ma è importantissimo IX 23 vidit Mommsen (IX 23 vide il Mommsen) perché la conferma dell’autopsia è un elemento in più sull’autenticità dopo quanto si è detto a proposito del Lupoli.

Archiviata, si spera definitivamente, l’autenticità non mi rimane che comparare, prima di tradurlo e commentare, il testo letto a suo tempo dal Mommsen e quello che attualmente si legge, evidenziando in rosso le differenze.

Faccio notare come M presenta, tra le differenze grafiche più spiccate, l’apice intermedio meno abbassato di quello di tutte le altre M (certe …) e una curvatura del primo tratto verticale. Confrontando poi la T di TUCCIUS con le rimanenti, non ho difficoltà ad affermare che le due lettere sono state quanto meno integrate nel tratto superiore.

 

Per LL da notare la leggera curvatura a sinistra della linea verticale della prima L (che fa coppia con la curvatura di M messa prima in luce) e lo spazio eccessivo tra queste due lettere, spazio che avrebbe potuto benissimo ospitare una A (ne vedo, l’ho evidenziato nel dettaglio che segue, la traccia della base della prima linea inclinata proprio nel punto di frattura ed abrasione, condizione antica che appare confermata nella nota 2 della scheda del Napoli-Signorelli) secondo la congettura del Mommsen (per il lettore comune ma interessato mi pare doveroso precisare che nella relativa scheda il minuscolo di al, infatti, ne indica proprio il carattere congetturale).

CERILLI, poi, potrebbe essere solo genitivo della seconda declinazione e supporre un nominativo CERILLUS. Tale cognomen, però, non trova nemmeno un’attestazione, dico una sola, in tutto il CIL. A parte queste considerazioni di natura strettamente epigrafica, ancora più stringente è una considerazione di natura grammaticale perché un genitivo CERILLI nel contesto appare come un pesce fuor d’acqua. CERIalI, invece, non solo soddisfa (come dativo da un nominativo CERIALIS) la grammatica ma nel CIL risulta cognomen attestatissimo non solo nelle epigrafi “ufficiali” di tutto l’impero ma anche nei graffiti pompeiani2. Per gli stessi motivi è improponibile la lettura CERI[AT]I riportata nel database cui si accede da http://www.manfredclauss.de/it/index.html e che registra, fra l’altro,  la nostra epigrafe come rinvenuta a Lupiae (Lecce) e non a Rudiae (Rudie).

Da notare come la barra superiore (che indica la moltiplicazione per 1000) di LXXX coinvolge  in entrambe le immagini pure la successiva N.

Inspiegabile la barra superiore che compare per N nella lettura del Mommsen, tanto più dopo la corretta lettura della N finale della linea precedente.

Valgono, relativamente ad N, le osservazioni fatte per la linea precedente.

Per quanto fin qui detto ecco quella che dovrebbe essere secondo me la corretta lettura con lo scioglimento delle abbreviazioni (ad eccezione di  HS che vale SESTERTIORUM):

 

A [?3] TUCCIO4 CERIALE, FIGLIO DI MARCO, DELLA TRIBÙ FABIA,

FORNITO DI CAVALLO PUBBLICO5 DAL SANTISSIMO

PRINCIPE ADRIANO AUGUSTO,

PATRONO DEL MUNICIPIO, QUADRUMVIRO

EDILE, PARIMENTI EDILE DI BRINDISI.

MARCO TUCCIO AUGAZONTE6

ALL’OTTIMO E PIISSIMO FIGLIO PER LA CUI

MEMORIA PROMISE AI CTTADINI DI RUDIE7

80.000 SESTERZI AFFINCHÉ DALLA LORO RENDITA NEL GIORNO DELLA NASCITA

DI SUO FIGLIO OGNI ANNO A TITOLO DI CELEBRAZIONE FUNEBRE8

SI DISTRIBUISCANO AD OGNI DECURIALE9 20 SESTERZI,

AGLI AUGUSTALI10 12, AI MERCURIALI11 10 SESTERZI.

ALLO STESSO MODO AL POPOLO 8 SESTERZI A TESTA.

SUOLO CONCESSO PER DECRETO DEI DECURIONI.

In sintesi: MARCUS TUCCIUS AUGAZO, liberto di MARCUS TUCCIUS12, in memoria del figlio MARCUS TUCCIUS CERIALIS, che aveva ricoperto cariche importanti, promette ai cittadini di Rudiae 80.000 sesterzi, la cui rendita dovrà essere distribuita ogni anno, in una misura espressamente indicata, a favore di corporazioni politico- religiose e di tutti i restanti cittadini (da notare come l’ordine di citazione corrisponde a quello d’importanza).

Nell’iscrizione mi ha colpito il promisit (perfetto) in correlazione col presente congiuntivo dividatur invece dell’imperfetto (divideretur), regola costantemente rispettata in tutto il CIL. Si tratta, dunque, di un apax che conferisce un tocco di inusitata originalità alla nostra epigrafe (come se il perfetto promisit corrispondesse ad un presente storico promittit e avesse delegato a questo (che, per quanto storico, formalmente sempre presente rimane) il compito di rappresentarlo sintatticamente, col risultato di  sottolineare felicemente il permanere nel tempo della freschezza dell’impegno; perciò ho mantenuto nella traduzione questa scelta sintattica. Certo, non sappiamo se il popolo godette effettivamente della generosità di Marco Tuccio Augazonte (e per quanto tempo …), ma quantomeno le sue intenzioni liberali furono preziose perché consentirono di tramandare un documento concreto della memoria di Rudie13. La formula finale L. D. D. D. sembra alludere alla concessione di suolo per collocarvi molto probabilmente la base di una statua o, più semplicemente, un cippo recante l’iscrizione.

Peccato che non sia possibile fare delle deduzioni sulla popolazione di Rudie al tempo dell’impero di Adriano (117-138), perché l’unico dato riguarda la somma donata (80.000 sesterzi), la cui rendita doveva essere distribuita ogni anno nel modo indicato.  Ciò autorizza a pensare ad una rendita fissa, come se l’amministrazione cittadina  fosse una banca ante litteram. Anche se così fosse, non conosceremmo, comunque, quello che oggi viene detto tasso di interesse attivo e, anche se lo conoscessimo, nessun calcolo attendibile sarebbe possibile perché ignoriamo il numero di decuriali, augustali e mercuriali. Una cosa è certa: la somma promessa era considerevole, anche se è impossibile, almeno per me, dire a quanti euro potrebbe corrispondere oggi.

immagine tratta da http://www.wildwinds.com/coins/sear5/s3611.html#RIC_0586c
immagine tratta da http://www.wildwinds.com/coins/sear5/s3611.html#RIC_0586c

Sesterzio dell’epoca di Adriano. Al recto: busto drappeggiato dell’imperatore, volto a destra e  laureato; legenda: IMP(ERATOR) CAESAR TRAIANUS HADRIANUS AUG(USTUS) P(ONTIFEX) M(AXIMUS) TR(IBUNICIA) P(OTESTATE) CO(N)S(UL) III. Al verso: la dea Moneta reggente una bilancia con la destra e la cornucopia con la sinistra; legenda: MONETA AUGUSTI; a sinistra S(ENATUS), a destra C(ONSULTU).

Non mi rimane che tornare al titolo con una considerazione finale: non so quando le integrazioni della prima linea siano state aggiunte ma fortunatamente è principio oggi consolidato, almeno credo …, che, oltre alla imprescindibilità da una documentazione rigorosa del contesto di ritrovamento che la moderna tecnologia consente (va da sé che la tecnologia, quando è usata non dico da un incompetente o da un superficiale ma più semplicemente da chi non si rende conto che i tempi di Leonardo sono solo un pallido ricordo e che l’estrema parcellizzazione del sapere, leggi specializzazione, richiede l’incontro e, se necessario, lo scontro con saperi differenti ma collaterali, può provocare danni immani), anche il più spinto dei restauri non potrebbe permettersi un intervento come quello palesemente operato sulla nostra epigrafe. Esso sarebbe non solo ascientifico ma criminale, perché costringerebbe lo studioso ad una fatica supplementare, come se già spesso non fosse immane quella necessaria per cavar qualcosa di fondato da un manufatto che, come nel nostro caso, paradossalmente, può essere considerato integro se si presenta ai nostri occhi mutilo così come apparve a quelli di chi per primo lo rinvenne e sul quale ogni intervento che non fosse solo rigorosamente anastilotico (consistente, cioè, nella semplice ed esclusiva ricomposizione dei pezzi originali) sarebbe, come secondo me lo è stato nel nostro caso, uno stupro14.

_____________

1 Non sono mancate iniziative meritorie in tal senso, che, pur con i loro limiti (non esclusi, come vedremo, probabili errori di trascrizione), rappresentano l’unico strumento sistematico nel mare magnum di quelli messi a disposizione dalla rete.

2 Solo tre tra i  numerosissimi esempi di propaganda elettorale:

IV, 07669: A(ULUM) TREBIUM VALENTEM AED(ILEM) CERIALIS /ACRATOPINON CUM CASSIA ROG(AT)

(Ceriale insieme con Cassia invita a votare Aulo Trebio Valente bevitore di vino puro)

IV, 07670: LOLLIUM/CERIALIS FAC AED(ILEM)

(Ceriale, vota Lollio come edile!)

IV, 076, 71: PAQUIUM IIVIR(UM) O(RO) F(ACIATIS) CERIALIS ROG(AT)

(Vi prego di votare come duumviro Paquio. Ve lo chiede Ceriale)

È la conferma che Cerialis è un cognomen, quasi sicuramente variante di Cerealis=di Cerere; solo che mentre questo è un cognomen latino, Augazo, come vedremo è di origine greca e mostra che colui che lo portava doveva essere un liberto.

3 Il dubbio nasce dal fatto che la lettera mancante, riferentesi al praenomen può essere, per motivi statistici legati alle epigrafi citate nella nota successiva, M (abbreviazione di MARCO=a Marco), Q (abbreviazione di QUINTO=a Quinto) ma anche, più probabilmente per motivi di spazio, C (abbreviazione di CAIO=a Caio). Tuttavia, la tendenza di trasmissione del praenomen di padre in figlio privilegia MARCO.

4 La gens Tuccia nel CIL è ben attestata, particolarmente a Roma, cui si riferiscono tutte le iscrizioni che riporto di seguito:

VI, 01911: [Dis] Manib(us) / [3 Tucciae] Cn(aei) lib(ertae) Doridi / [Cn(aeus) Tucci]us Agathopus / lictor et / Fictoria C(ai) f(ilia) Atticilla / vernae suae fecerunt / et sibi posterisque suis et / Cn(aeo) Tuccio Peplo lictori; VI, 08874: D(is) M(anibus) / M(arco) Ulpio Aug(usti) / lib(erto) Achilleo / praeposito / lecti<c=K>a[riorum] / [6] / [6] / [3] co(n)iugi / fecit // D(is) M(anibus) / C(aio) Tuccio / Cosmo Tuccia / C(ai) f(ilia) Secundina / patri pientis/simo fecit; VI, 10011a: D(is) M(anibus) / M(arco) Tuccio Eutycheti / Ti(berius) Natronius / Honoratus / praeceptori piissimo / b(ene) m(erenti) inscripsit; VI, 11499: D(is) M(anibus) / Alphenia Hygia / L(ucio) Tuccio Corintiano / fil(io) bene merenti fecit / qui vixit ann(os) / XXII m(enses) VII d(ies) V; VI, 27793: D(is) M(anibus) / Cn(aeo) Tuccio Euanthio / permissu [; VI, 27694: D(is) M(anibus) / Q(uinto) Tuccio Felici Q(uintus) Tuccius / Feli[x] patri pientissimo fecit / [et] sibi et suis lib(ertis) libertabusque posteris/que eorum; VI, 27699: M(arco) Tuccio M(arci) l(iberto) Lenaeo / ex testamento arbitratu / Cn(aei) Corneli |(mulieris) l(iberti) Lucini / Tucciae M(arci) l(ibertae) Laudicae / Gessiae A(uli) l(ibertae) Erotinis / M(arci) Tucci M(arci) l(iberti) Philarguri; VI, 27703: M(arco) Tuccio Venusto / M(arcus) Tuccius Faustus / patri; VI, 27712: D(is) M(anibus) / Tuccia / Pannychis / C(aio) Tuccio Primo / patrono dulciss/imo et b(ene) m(erenti) fecit / et sibi et libertis / libertabusque / eorum; VI, 28575a: Dis Manibus / Vergiliae Auctae patr(onae) / M(arco) Furio Clementi / Servilio Eroti coniug(i) / M(arco) Tuccio Amaranto / Vergilia Syntyche / bene merentibus / fecit / et sibi

5 Equus publicus (in contrapposizione all’equus privatus) era il cavallo fornito e mantenuto dallo Stato , privilegio di alcuni cavalieri per diritto ereditario. E, senza escludere nemmeno il diritto ereditario …, chissà perché il mio pensiero corre alle auto blu …

6 Ho conservato la lettura del Mommsen ma secondo me la trascrizione più corretta dovrebbe essere AUGAZO[N] e non AUGAZO, in base a quanto mostrano le altre attestazioni di questo cognomen nel CIL, tutte rinvenute a Roma: VI, 07642T(ito) Aelio / Augazo[nti] / sum(mae) rud(i) ludi m[agni]; VI, 07895: D(is) M(anibus) / Augazon vixit annis VI / diebus XXVII pater et / mater filio / pientissimo; VI, 34589: Au]/gazon et [3] / Hegemonias [3] / filio piissi[mo 3] / v(ixit) a(nnos) XVII m(enses) [3] / d(ies) XI[

A proposito di questo cognomen Il Napoli-Signorelli nella nota 2 della scheda riprodotta dal suo testo non era andato al di là di una pur valida intuizione, sia pure espressa in forma dubitativa: Parola che non si capisce; e forse qualche cognome male interpretato per la rottura del marmo.

AUGAZON, infatti, è la trascrizione fedele del greco ἀυγάζων (leggi augazon), participio presente di ἀυγάζω (leggi augazo)=illuminare, a sua volta da  ἀυγή=splendore. AUGAZO(N), perciò, significa l’illuminatore, a dispetto di quanti, probabilmente, suggestionati dal suono, pensavano chissà a che cosa …

Aggiungo, infine, che, se dalle risultanze epigrafiche fosse emerso accanto ad un Augazon/Augazontis (da cui la mia traduzione con Augazonte) anche un Augazo/Augazonis, avrei potuto parlare di un fenomeno analogico simile a quello che vede il greco λέων/λέοντος (leggi lèon/lèontos) di fronte al latino leo/leonis, avrei letto senza il minimo dubbio AUGAZO e non AUGAZO[N] e tradotto non con Augazonte ma con Augazone, a costo di incrementare il già ventilato rischio di evocazione di altro indotto dal suono. E ora qualcuno si azzardi a dire che non rispetto nemmeno i morti …

7 Ho sciolto in RUDINIS l’abbreviato originale RUDIN sulla scorta della forma aggettivale tramandataci da Cicerone, Pro Archia, 22: Carus fuit Africano superiori noster Ennius, itaque etiam in sepulcro Scipionum putatur is esse constitutus ex marmore. At eis laudibus certe non solum ipse qui laudatur, sed etiam populi Romani nomen ornatur. In caelum huius proavus Cato tollitur: magnus honos populi Romani rebus adiungitur. Omnes denique illi Maximi, Marcelli, Fulvii, non sine communi omnium nostrum laude decorantur. Ergo illum, qui haec fecerat, Rudinum hominem, maiores nostri in civitatem receperunt … (Ennio fu caro all’Africano Maggiore e così si ritiene pure che nel sepolcro degli Scipioni fu posta una sua statua in marmo. Ma grazie a quelle lodi certamente è celebrato non solo colui che è lodato ma anche il nome del popolo romano. Catone, proavo di questi, è innalzato al cielo: un grande onore si aggiunge alle gesta del popolo romano. Infine tutti quei Massimo, Marcello, Fulvio sono esaltati non senza comune lode di tutti noi. Dunque i nostri antenati accolsero in città colui che aveva fatto tutto ciò, l’uomo di Rudie …) e dal famoso frammento del Libro XII degli Annales dello stesso Ennio tramandatoci dallo stesso Cicerone, De oratore, III, 42: Nos sumus Romani, qui fuimus ante Rudini (Noi siamo romani, noi che fummo di Rudiae).

Non mi pare perciò accettabile l’integrazione RUDIN(IBUS) proposta nel database (lo stesso del precedente CERI[AT]I) con accesso da http://www.manfredclauss.de/it/index.html; essa suppone un nominativo RUDINES (della terza declinazione, quando, invece, l’infisso –in– è tipico di forme aggettivali della seconda), ma da RUDIAE mi sarei aspettato, tutt’al più, con un infisso –iens-, RUDIENSES e, quindi, RUDIENSIBUS, come da ATHENAE è ATHENIENSES e, quindi, al dativo, ATHENIENSIBUS e come, per restare in zona …, da LUPIAE è LUPIENSES e, al dativo, LUPIENSIBUS.

8 Livio (I secolo a. C.), Ab urbe condita libri, XXXIX, 46: P. Licinii funeris causa visceratio data, et gladiatores centum viginti pugnaverunt, et ludi funebres per triduum facti, post ludos epulum (In occasione del funerale di P. Licinio fu offerta la visceratio,  combatterono centoventi gladiatori, si svolsero giochi funebri per tre giorni, dopo i giochi ci fu un banchetto) .

Servio (IV secolo), Commentarii in Aeneidos libros, I, 211: VISCERA NUDANT:  Viscera non tantum intestina dicimus, sed quicquid sub corio est, ut in Albano Latinis visceratio dabatur, id est caro (Mettono a nudo i visceri. Chiamiamo visceri non solo gli intestini ma tutto ciò che è sotto la pelle, come nel territorio di Alba Longa era offerta la visceratio, cioè carne); VIII, 180: VISCERA TOSTA FERUNT: Visceratio est epulum quod fieri solebat in sacrificiis, non ex visceribus tantum, ut vulgus putat, sed ex qualibet carne; nam viscera sunt quidquid inter ossa et cutem, seu sub corio est (Recano visceri arrostiti: La visceratio è un banchetto che soleva avvenire nei sacrifici, non soltanto con visceri, come comunemente si crede, ma con qualsiasi carne; infatti i visceri sono tutto ciò che è tra le ossa e la cute, sioè sotto la pelle).

La visceratio, dunque, originariamente legata ad un rito funebre, è passata nella nostra epigrafe da un carattere contingentemente celebrativo ad uno virtualmente commemorativo. Va da sé che non era da tutti offrire la visceratio una sola volta, figuriamoci una volta all’anno. Molto probabilmente la carne offerta era cruda, come fa supporre la distinzione tra visceratio ed epulum (banchetto vero e proprio) in CIL VIII, 01321: [Pro salute Imp(eratorum) Caes(arum) M(arci) Aureli] / Antonini [[A[u]g(usti) et [L(uci) Aure]l[i] C[om]]]/[[modi]] Aug(usti) totiusq(ue) do/mus eorum C(aius) Volcius Quie/tus aram a solo ex HS D / n(ummum) s(ua) p(ecunia) f(ecit) idemq(ue) dedicavit / et ob dedicatione(m) con/gentilibus et sacerdoti/b[us] viscerationem et epu/[lum dedit (Per la salvezza degli imperatori Cesari Marco Aurelio Antonino Augusto e Lucio Aurelio  Commodo Augusto e di tutta la loro famiglia Caio Volcio Quieto eresse dalle fondamenta a sue spese un’ara con 500 sesterzi e lo stesso la  dedicò e per la dedica offrì a i familiari e ai sacerdoti la visceratio e un banchetto).

Il virtualmente commemorativo che prima ho usato è riferito al fatto che il denaro ha sostituito la carne (nomine viscerationis), cruda o cotta che fosse.

9 Nel database già citato a proposito di CERI[AT]I la lettura è DECURION(IBUS); detto  che nel CIL s’incontra: X, O5348 DECURIALIB(US); XIV, 00353 DECURI[…… ] [.. ]RARIS che obbligatoriamente va integrato con DECURI[ALIBUS] [CE]RARIS; XIX, 00642 DEC(URIONI), DECUR[…] da integrare in DECURION(UM)  e DECURIONIB(US), DEC[.]RIALIBUS SCRIBIS CERARIS da integrare in DECURIALIBUS SCRIBIS CERARIS, anche per i successivi AUGUSTALES e MERCURIALES che sembrano designare categorie di eligendi più che di eletti, io sarei più propenso ad integrare con DECUR(IALIBUS)=ai decuriali, più che con DECUR(IONIBUS)=ai decurioni. Le epigrafi forniscono esempi di specializzazione dei decuriales: oltre ai già citati DECURIALES CERARII=scribi,  in CIL, VI, 01008 i DECURIALES PULLARII=custodi dei sacri polli (questi ultimi anche in Cicerone, Ad familiares, X, 12 e De divinatione , II, 34, 73) e in Livio, Ab urbe condita, X, 40).

10 Gli Augustali erano una sorta di sacerdoti cui era affidato il culto di Augusto. Nei municipi costituirono una vera e propria casta che si interpose tra i decurioni e la plebe cittadina, dunque il loro potere probabilmente era anche politico.

11 I Mercuriales erano i componenti il collegio dei commercianti. Come per gli augustali l’ordine, nato con finalità religiose, finì probabilmente per assumere anche connotazioni politiche. Lo fanno supporre già Tito Livio, Ab urbe condita, II, 27, 5-6: Certamen consulibus inciderat, uter dedicaret Mercuri aedem. Senatus a se rem ad populum reiescit: utri erorum dedicatio iussu populi data esset, eum praeesse annonae, mercatorum collegium instituere, sollemnia pro pontifice iussit suscipere (Sorse una diatriba tra i consoli su chi dovesse consacrare il tempio di Mercurio. Il senato rimise la decisione al popolo: comandò che colui al quale la consacrazione fosse stata attribuita per volere del popolo presiedesse all’annona, istituisse il collegio dei commercianti, si assumesse le celebrazioni al posto del pontefice) e Cicerone, Ad Quintum fratrem, II, 5): … Sed eodem die vehementer actum de agro Campano clamore senatus propr concionali. Acriorem causam inopiam pecuniae faciebat, et annonae caritas. Non praetermittam ne illud quidem. M. Furium Flaccum, equitem Romanum, hominem nequam, Capitolini et Mercuriales de collegio eiecerunt, praesentem, ad pedes uniuscuiusque iacentem (Ma nello stesso giorno si trattò animatamente dell’agro campano con un clamore in senato simile a quello delle assemblee popolari. La scarsezza del denaro e la carenza di viveri rendeva la discussione più aspra. Non tralascerò neppure quanto segue. I capitolini e i Mercuriali cacciarono dal collegio M. Furio Flacco, cavaliere romano, uomo dappoco, mentre era presente e si prostrava ai piedi di ciascuno).

12 Il liberto assumeva il praenomen ed il nomen del padrone, seguito nelle epigrafi dal genitivo del praenomen e da L o LIB (abbreviazioni di LIBERTUS). Il lettore noterà che tra TUCCIUS ed AUGAZO c’è uno spazio eccessivo e che si direbbe abraso,

 ma sufficiente a giustificare una linea originaria che di seguito mi son permesso di ricostruire.

M(ARCUS) · TUCCIUS · M(ARCI) · L(IBERTUS) · AUGAZO

Ne approfitto per far notare lo spazio eccessivo esistente pure nella penultima linea tra VIRITIM e HS, integrabile con un LEG(AVIT)=lasciò per testamento, secondo la sottostante ricostruzione virtuale.

13 L’unica altra attestazione epigrafica da me conosciuta è in un’epigrafe rinvenuta a Brindisi (CIL, IX, 00076): [M(arcus) An]tonius / [I]ul(i) l(ibertus) Rud/[in]us / [v(ixit) a(nnos)] XXXVIII / [h(ic)] s(itus) / [3]dia Hygine / [v(ixit) a(nnos)] XXXV h(ic) s(ita)

Nessun contributo serio ma solo amarezza può dare, invece, ciò che si legge in Giovanni Donato Rogadei, Dell’antico stato de’ popoli dell’Italia Cistiberina che ora formano il Regno di Napoli, Porcelli, Napoli, 1780, pag. 240: E nel vero, non può egli dubitarsi, di esservi stata Rudia vicino Lecce per essersi da circa anni cinque addietro rinvenute molte anticaglie, ed infra esse una iscrizione, che favellava di Rudia, la quale fu infranta da coloro, che in Lecce la conduceano.

14 Oggi che stupri di tal genere sono inconcepibili (?) rimane il problema della corretta divulgazione (tanto più in un paese come il nostro che può vantare una ricchezza culturale unica al mondo ma ne esibisce solo vergognosamente l’ignoranza e la connessa incapacità a difenderla e renderla produttrice di ulteriore ricchezza, anche non culturale), che deve fare i conti con le ristrettezze del bilancio.  Mentre, paradossalmente, dilaga la moda dei totem elettronici (la loro installazione e manutenzione, quando quest’ultima c’è, è un vero affare …), il problema può essere risolto con costi irrisori col sistema antico, ponendo, cioè, accanto agli originali più importanti sopravvissuti, un modestissimo pannello/copia con tutte le integrazioni possibili e immaginabili.

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4 Commenti a L’epigrafe di Rudie, ovvero CIL, IX, 23: un maquillage ben riuscito, però …

  1. Ottima analisi lessico-grafica ed ermeneutica della principale (se non unica) epigrafe Rudina di epoca imperiale. Grazie!

    Colgo l’occasione per sottoporre alla vostra attenzione un’altra epigrafe, questa volta Lupiense, della quale ho trovato poco e forse non è presente nemmeno nel CIL.
    L’epigrafe è riportata nella seguente pagina:

    https://www.facebook.com/KlohiZis/photos/a.410069929040713.86396.406836222697417/629433610437676/?type=1&theater

    • L’iscrizione da lei indicata non poteva essere inserita nel CIL essendo, tutt’al più, di epoca medioevale. Se la notizia riportata dal Bacco non è una delle tante bufale circolanti in quell’epoca (e non solo …) l’iscrizione, comunque, sempre che non fosse un falso …, è da considerarsi perduta. In essa, in un gioco simile a quello delle scatole cinesi, si fa riferimento ad un’iscrizione più antica (ut marmor docuit hic olim forte repertum=come ha indicato un marmo qui un tempo scoperto per caso), della quale viene riportato (non citato) il presunto contenuto.

      • Ad integrazione della precedente risposta e ad ulteriore conferma della mia opinione, che a prima vista poteva sembrare gratuitamente maligna, aggiungo quanto Girolamo Marciano (XVI-XVII secolo) scrive in Descrizione, origine e successi della provincia d’Otranto (opera pubblicata postuma nel 1855): “… alquanto pose nel real palazzo di Malennio, il quale dicono che era anticamente ove oggi si vede il monistero di S. Maria della Nuova: un marmo vi fu cavato con una greca iscrizione, che tradotta nella latina lingua diceva in questo modo: … “ (segue il testo in latino che già abbiamo visto).

  2. Se originariamente fu scoperta un’epigrafe più antica (evidentemente scritta in lingua Messapica più che Greco) allora la leggenda di Lictio Idomeneo avrebbe una prova più “solida” ;)

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