Taranto e la guerra greco-gotica: narrazioni, strategie e questioni

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Domenico Salamino, Taranto e la guerra greco-gotica: narrazioni, strategie e questioni

 in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 35-83.

  1. Giustiniano.Belisario. Massimiano

ITALIANO

Città di antica tradizione, di grande importanza strategica e sede episcopale, durante la guerra gotica Taranto subirà molte importanti trasformazioni urbanistiche ad opera del generale Giovanni. A documentarle è Procopio di Cesarea, fondamentale e unica fonte contemporanea agli avvenimenti. In questo contributo si tenta una sua rilettura ampliando l’osservazione al confronto con la scienza militare di età giustinianea e alla luce dell’archeologia. L’obiettivo di questo studio è quello di costruire un approccio interdisciplinare utile all’emersione delle molte questioni suscitate dalle diverse fonti.

 

ENGLISH

A city of ancient tradition, of great strategic importance and episcopal office, during the Gothic War Taranto will undergo many important urban transformations by General Giovanni. Procopio is the only and fundamental source of this event. This contribution attempts to re-read it by expanding observation to military strategy and urban archeology. Study proposes an interdisciplinary approach, useful for analyzing the various historical issues.

il delfino e la mezzaluna 6_7

Storia della ricerca e della scoperta della città romana di Genusia

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

Giambattista Sassi, Storia della ricerca e della scoperta della città romana di Genusia

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 85-97.

 Foto 2

ITALIANO

La ricerca archeologica e documentaria realizzata a partire dall’anno 2004 ha provato l’esistenza della città romana Genusia, già attestata da Plinio nella Naturalis Historia, in seno ai confini amministrativi dell’attuale comune di Ginosa, in provincia di Taranto. In particolare l’esecuzione di quattro campagne di scavi archeologici ha consentito di individuare in maniera puntuale il sito nella contrada Madonna Dattoli. Qui sono state indagate e portate alla luce strutture afferenti una

chiesa paleocristiana, un piccolo ninfeo, un acquedotto sotterraneo collegato ad un castellum aquae, due fornaci ed un grande ambiente porticato. Le attestazioni epigrafiche testimoniano la vita del municipium fino ad almeno tutto il IV secolo d.C.; sarà probabilmente nel secolo successivo che avviene l’abbandono dell’abitato romano ed il trasferimento della popolazione all’interno dei villaggi rupestri di Casale e Rivolta.

 

ENGLISH

The archaeological and documentary research made from the 2004 year has proved the existence of the Roman Town Genusia, already certified by Plinio in the Naturalis Historia, within the administrative boundaries of the present town Ginosa in the district of Taranto. In particular the realization of four campaigns of archaeological excavations has allowed to localize precisely the site in the «Madonna Dattoli’s» land. Here have been investigated and brought to light some structures concerning an early Christian church, a little nymphaeum, an underground aqueduct connected to a castellum aquae, two furnaces and a big porticoed environment. The epigraphic certificates testify the life of the municipium up to the fourth century A.D.; it will be in the following century that the desertion of Roman built-up area and the people’s moving to the interland of the rupestrian villages Casale and Rivolta happen.

il delfino e la mezzaluna 6_7

Grande guerra e abbattimento delle barriere domestiche in Terra d’Otranto

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Salvatore Coppola, Grande guerra e abbattimento delle barriere domestiche in Terra d’Otranto, in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 7-33

  Foto 5 bis

ITALIANO

Pochi eventi nella storia recente hanno avuto un impatto così dirompente come il primo conflitto mondiale.

Eccezionali mutamenti dal punto di vista politico, diplomatico, culturale, economico, sociale si concretizzarono in questo periodo e si svilupparono negli anni a seguire. Tra le numerose tematiche indagate dalla storiografia, il ruolo delle donne negli anni di belligeranza è andato assumendo in questi anni un posto di assoluto rilievo. Il presente saggio, sulla scia delle nuove prospettive storiche «dal basso», studia l’impatto avuto dalla guerra sulla donna salentina puntando l’attenzione sulla nuova partecipazione attiva non solo alla vita lavorativa, ma anche alle proteste ed alle rivendicazioni legate al carovita, ai sussidi, all’operato delle autorità. Un protagonismo che colse in parte impreparate le classi dirigenti e che di fatto costituì la prima tappa per un processo di sindacalizzazione e politicizzazione che andò concretizzandosi nei decenni successivi.

 

ENGLISH

Few events in the recent history have had a so devastating impact as the First World War.

Exceptional changes from the political, diplomatic, cultural, economic, social point of view took shape in that period and developped in the following years. Among the numerous topics investigated by historiography the women’s role in the war years has assumed a place of absolute prominence. This essay, in the wake of the «from below» latest historical perspectives, studies the war impact on the Salentina woman focusing on the new active participation in the working life and also in the protests and in the claiming connected to the cost-of-living, to the grants, to the authorities’ conduct. A lime-light that caught partly off-guard the ruling classes and that established the first stage of an unionization and politicization process that concretized in the following decades.

 

Keyword

Salvatore Coppola, Grande Guerra Salento, proteste donne Terra d’Otranto.

Un nuovo numero doppio per “Il Delfino e la Mezzaluna”

il delfino e la mezzaluna 6_7 

La Fondazione Terra d’Otranto inaugura l’attività editoriale del 2018 con il nuovo numero de Il Delfino e la Mezzaluna. Un numero doppio, di circa 450 pagine (formato A/4, copertina a colori, fotocomposto ed impaginato dalla Tipografia Biesse di Nardò) che prosegue, nel segno della continuità ma con alcune piccole novità, l’opera avviata nel 2012.

Come di consueto (in questo, appunto, la continuità) i contributi raccolti spaziano dalla storia dell’arte alla letteratura, dall’archeologia alla zoologia, dalla storia antica a quella contemporanea, ecc. I saggi, organizzati secondo nuove sezioni tematiche che rappresentano la principale novità editoriale, sono l’espressione del lavoro sia di autori da anni coinvolti nelle attività della Fondazione sia di “nuove” firme. Ecco dunque cosa potrete leggere in questo numero:

 

Sezione I – Storia

Coppola S., Grande guerra e abbattimento delle barriere domestiche in Terra d’Otranto

Salamino D., Taranto e la guerra greco-gotica: narrazioni, strategie e questioni della transizione

Sassi G., Storia della ricerca e della scoperta della città romana di Genusia

Valente N., La penisola salentina nelle fonti narrative antiche

 

Sezione II – Personaggi

Carbone L., Della fama di Marcantonio Zimara e della fortuna editoriale dei suoi Problemata. Annotazioni aggiunte alla bibliografia di e su Zimara

Moscheo R., Giovan Paolo Vernaleone da Galatina

 

Sezione III – Natura, Ambiente e Paesaggi

Landriscina S., Le specchie di Calone e Cerrate: storia degli studi e nuove acquisizioni sul contesto topografico

Protopapa F., Il geco salentino

Palumbo A., S. Isidoro: non solo spiaggia ma anche Sarparea e spundurate. Storia e biodiversità da conoscere, proteggere, raccontare

 

Sezione IV – Letteratura

Di Seclì A., Ugo Orlando. Poesie

Presicce A., Su The castle of Otranto, primo romanzo gotico

Rizzo C., Luigi Ruggeri alla fine di un mondo

 

Sezione V – Arte

Ble Domenico, L’Immacolata Concezione giordanesca conservata nella chiesa dell’Immacolata a Latiano

Bolognese A., L’ovale della Madonna Immacolata di Liborio Riccio: cronaca di un restauro

Caringella M., Una proposta per Catalano nella collegiata di Grottaglie e una notula sul D’Orlando

Di Furia U., Una rara presenza pugliese dei fratelli Sarnelli: la Madonna col Bambino tra san Pietro martire e san Giacinto nella chiesa madre di Corigliano d’Otranto

Palumbo A., Tra reale e fantastico: intervista all’artista Daniele Minosi

Quaranta R., La grande tela dell’Annunciazione della collegiata di Grottaglie. Un restauro e una riscoperta

 

Sezione VI – Spigolature di Terra d’Otranto

Antonazzo L., Per la storia del santuario di santa Marina a Ruggiano

Corvaglia G. – Pedone B. – Rizzo R.C. – Tarantino G., I frantoi e i luoghi dell’olio a Spongano

Giacovelli D., Spicilegium Castianense I

Musio S., L’Università Civica e lo stemma di Tricase

Polito A. – Gaballo M., Leonardo Prato: l’arco a Lecce e il monumento funebre a Venezia

Semeraro M., Note di araldica: lo stemma della principessa di Francavilla Irene Delfina di Simiana

Valente N., Gli antichi toponimi dell’isola di Sant’Andrea

 

A tutti gli autori e a chi, a vario titolo, ha contribuito alla realizzazione dell’opera (dai fotografi Maurizio Biasco (di cui è la foto di copertina), Khalil Forssane, Emilio Nicolì, Lino Rosponi e Foto Tasco di Brindisi ai consulenti linguistici Maria Costanza Baglivo ed Elena Serio) va il nostro più sentito ringraziamento.

 

La rivista, come noto, ha un suo codice ISSN ed è registrata al Tribunale di Lecce. Fuori dal commercio e riservata ai soci della Fondazione nonché alle principali biblioteche provinciali, regionali e nazionali, può essere richiesta inviando una mail a ildelfinoelamezzaluna@gmail.com riportando l’indirizzo di spedizione ed allegando copia di un versamento di 22 euro per ciascuna copia desiderata, quale rimborso per le spese di stampa e di spedizione. Il bollettino o il bonifico dovranno essere intestati alla Fondazione Terra d’Otranto, cc postale 1003008339/ IBAN IT30G0760116000001003008339.

 

Marcello Gaballo – Presidente della Fondazione Terra d’Otranto

Alessio Palumbo – Direttore de Il Delfino e la Mezzaluna

L’obelisco di Porta Napoli a Lecce (4/5)

Marcello Gaballo e Armando Polito

DISTRETTO DI BRINDISI

1) “Il Desco e la statua di Bacco con corona convivale, col motto Brundusini Cretenses1; 2) Amore colla cetra, e col motto Brundusini sub Partheniis Tarentinis2 3) Il Delfino, che indossa Taras colla cetra in mano, e col motto Brundusini sub Romanis.34

 

La fonte utilizzata è  Strabone, Geographia, VI, 3, 6: Βρεντέσιον δ᾽ ἐποικῆσαι μὲν λέγονται Κρῆτες οἱ μετὰ Θησέως ἐπελθόντες ἐκ Κνωσσοῦ, εἴθ᾽ οἱ ἐκ τῆς Σικελίας ἀπηρκότες μετὰ τοῦ Ἰάπυγος λέγεται γὰρ ἀμφοτέρωςοὐ συμμεῖναι δέ φασιν αὐτούς, ἀλλ᾽ ἀπελθεῖν εἰς τὴν Βοττιαίαν. Ὕστερον δὲ ἡ πόλις βασιλευομένη πολλὴν ἀπέβαλε τῆς χώρας ὑπὸ τῶν μετὰ Φαλάνθου Λακεδαιμονίων, ὅμως δ᾽ ἐκπεσόντα αὐτὸν ἐκ τοῦ Τάραντος ἐδέξαντο οἱ Βρεντεσῖνοι, καὶ τελευτήσαντα ἠξίωσαν λαμπρᾶς ταφῆς (Dicono che abitarono Brindisi i Cretesi, quelli giunti con Teseo da Cnosso o quelli che si erano allontanati insieme con Iapige dalla Sicilia (si racconta infatti in entrambi i modi); dicono che questi non vi rimasero ma partirono per la Bottiea. Successivamente la città governata da un re perse molto del suo territorio ad opera degli Spartani [venuti] con Falanto, ma i Brindisini lo accolsero ugualmente quando fu cacciato da Taranto e dopo la morte lo onorarono di una splendida tomba).

 

Questo lavoro è stato pubblicato integralmente nel periodico della Fondazione  Terra d’Otranto Il delfino e la mezzaluna, anno III, n. 1 (ottobre 2014), pp. 171-189. 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/20/lobelisco-porta-napoli-lecce-1-4/

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/23/lobelisco-porta-napoli-lecce-24/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/25/lobelisco-porta-napoli-lecce-35/

Per la quinta parte: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/04/lobelisco-porta-napoli-lecce-55/

 

 

___________

1 I Brindisini Cretesi. “…doveva quindi naturalmente avvenire, che la vittoria portasse al vincitore non solamente il vantaggio dell’acquisto delle proprietà reali de’ vinti, ma quello ancora delle loro persone. Quindi l’origine de’ servi addetti alla gleba…Questa specie di servi aveva però alcune leggi favorevoli  alla loro libertà…nella cui esecuzione si dovevano pure osservare alcune pubbliche solennità dopo un certo tempo di servitù definito dalle leggi….di tal genere fu…la nostra famosa Brunda, o Brendais, ossia il convito dei nostri antichi servi indigeni addetti all’agricoltura sotto il dominio de’ Cretesi…Il luogo dunque destinato alla festività…fu la maremma di Brindisi…si è espresso il convito detto Brunda nella lingua Messapia coll’antico Sigma, perchè questa figura si ebbero tutti i Deschi dell’antichità. Si è sormontato ancor questo simbolo colla figura di Bacco, avente nella destra una corona convivale, dappoichè si sà, ch’egli era Conviviorum Deus” (Luigi Cepolla, op. cit., pagg. 11-12).

2 I Brindisini sotto i Parteni di Taranto.”Il lusso,che nella maggior floridezza della repubblica Tarantina s’introdusse in ogni parte del di lei stato fu causa, ch’ella fosse stata sin dall’ora tacciata di mollezza, e di ogni genere d’intemperanza. La città di Brindisi, e di Oria, come quelle che obbedivano ai Tarantini, presero anche a gareggiare con loro nella mollezza, e nel lusso. Quindi è, che gli Oritani assunsero anche per loro emblema Amore colla cetra: questo medesimo emblema fu comune ancora alla Città di Brindisi sino all’epoca de’ Romani” (Luigi Cepolla, op. cit. pagg. 12-13).

3 I Brindisini sotto i Romani. “In tal’epoca [dei Romani] la Città di Brindisi continuò a servirsi dell’istesso originario emblema dei Tarantini Achei, cioè, del Delfino, che indossa [=porta sul dorso] Taras, perchè i Cretesi lo conservarono anch’essi sotto il dominio deì medesimi Achei; e ne scambiò ella solamente nelle mani di Taras il tridente con la cetra per alludere al secondo periodo della sua storia antica, nella quale ebbe essa questo emblema”(Luigi Cepolla, op. cit., pag. 14).

4 Luigi Cepolla, op. cit., pag. 4.

L’obelisco di Porta Napoli a Lecce (1/5)

di Marcello Gaballo e Armando Polito

Il ritmo frenetico della vita moderna scandito dall’uso sistematicamente esagerato e controproducente per tutti e per tutto (basta pensare al danno ambientale e alla paradossale perdita di tempo dovuta alle difficoltà di circolazione a causa del numero esorbitante dei veicoli in movimento in un certo tempo e in un certo tragitto) dell’auto ha precluso ogni possibilità di meditare su alcuni aspetti del paesaggio, naturale o no, nonché dell’arredo urbano in cui ad una semplice epigrafe e, nei casi più complessi, ad un vero e proprio monumento era affidato il compito di tramandare una memoria e di risvegliare con essa in chi si trovava a passare (a piedi!) nei paraggi la curiosità e, dunque, la voglia di approfondire e conoscere.

Oggi, per esempio,  un malcapitato obelisco che si trovi al centro di un quadrivio sembra assolvere ad una funzione più tecnica che storico-artistica, quella di consentire l’eliminazione dei semafori, ridotto al rango di una semplice rotatoria a costo zero. Poteva sottrarsi a questa fine l’obelisco di Porta Napoli a Lecce che, in fondo, per quanto si dirà, pur nella dominante valenza commemorativa del potere, aveva fin dalla nascita tutte le caratteristiche di una rotatoria?

Non è fuori luogo, a tal proposito, far notare come l’area gradinata su cui sorgeva il monumento era quadrata (la foto d’epoca è tratta da Giuseppe Gigli, Il tallone d’Italia, I, Lecce e dintorni, n. 61 della serie Italia artistica diretta da Corrado Ricci, Istituto italiano d’arti grafiche editore, Bergamo, 1911; tutte le altre corredanti il testo sono degli autori e di Corrado Notario), mentre quella attuale, esagonale, rivela l’avvenuta mutilazione degli angoli del quadrato originario.

Non sappiamo quando tale mutilazione avvenne. Ricordiamo che il monumento venne realizzato per celebrare la visita a Lecce nel 1822 di Ferdinando I di Borbone1, ma, se tutte le fonti sono concordi nell’attribuire la sua realizzazione allo scultore Vito Carluccio di Muro Leccese, estremamente variabile è il range temporale del periodo di esecuzione (1820-1842).2

Ma già prima il monumento era stato oggetto di “manomissione” se in un trafiletto de Il cittadino leccese del 13 dicembre 1870 si legge, col titolo Senso comune, sottotitolo Decoro e bellezza della città: “Uscendo dalla porta detta di Napoli, v’imbattete in una specie di costruzione che, pel tempo in cui fu fatta, non era poi delle più spregevoli. Vogliamo parlare dell’obelisco, posto nel punto d’intersezione delle due strade che corrono l’una verso Taranto e l’altra intorno della città. Ora noi crediamo che quell’obelisco, quelle mezze colonne stirate ed ornate con vasi di fiori, e quei canapè di pietra leccese che veggonsi collocati simmetricamente, in giro di esso, furono con una spesa non lieve (si figurino!) eseguiti non a solo fine di abbellire e decorare convenientemente quel luogo, ma a qualche altro ancora, che osservando il malvagio stato in cui vediamo ridotto quel quadrivio, non sapremmo ben diffinire; e vorremmo esserne istruiti dalla cortesia di chi non dovrebbe ignorarlo. Attenderemo adunque che il nostro giustissimo desiderio fosse appagato, per dire su quel luogo, e su l’obelisco di porta a Napoli un’ultima parola”.3

Non abbiamo la pretesa con questo modestissimo contributo, che nulla aggiunge a ciò che da sempre è noto a chi di queste cose si interessa per lavoro o per passione, di contenere e tanto meno di invertire una tendenza in atto; non ci auguriamo neppure che, in concreto, un automobilista rallenti in prossimità di questo monumento per lanciare uno sguardo, per quanto fugace, suscitando le ire di chi lo segue e propiziando pure qualche incidente. La nostra fatica non sarebbe stata vana se solo fossimo riusciti attraverso queste poche note ad educare, prima di tutti noi stessi, ad abbandonare, per quanto è possibile, l’inveterata abitudine di considerare non più degno di considerazione ciò che si vede ogni giorno e del quale crediamo di conoscere tutto.

Nella lettura del monumento che ci accingiamo a fare non ci lasceremo sfuggire la fortunata circostanza che il suo stesso progettista4 ce ne ha lasciato, in un opuscoletto5 dal titolo un po’ altisonante, ampia descrizione insieme con l’interpretazione dei singoli dettagli; fortunata circostanza perché così si eviterà il rischio di superfetazione sempre in agguato quando si tenta di commentare qualsiasi manufatto artistico, da una poesia ad una statua,  da una pittura ad una cattedrale o, come nel nostro caso, un obelisco; il che non significa, altrimenti sarebbe plagio, che rinunceremo a riportare le nostre riflessioni, anche perché non di  tutti i dettagli è presente nell’opuscoletto la descrizione e l’interpretazione.

Prima di cominciare, però, dobbiamo segnalare la strana notizia che Pietro Palumbo ci ha lasciato in Storia di Lecce, (citiamo dall’edizione Congedo, Galatina, 1991, 2a ristampa fotomeccanica della prima edizione uscita a Lecce nel 1915 per i tipi dello Stabilimento tipografico Giurdignano, p. 306): In quelle (le facce) dell’obelisco furono messi gli emblemi dei quattro capoluoghi della Provincia e le relative iscrizioni latine furono composte da Monsignor Rosini vescovo di Pozzuoli e dall’Abate don Angelo Antonio Scorti6.

Per comodità espositiva divideremo il monumento in nove parti: un’area a forma di ottagono irregolare (a) articolata, mediante tre gradini su ogni lato in tre piani sull’ultimo dei quali poggia un parallelepipedo a base quadrata (b) che ne regge uno simile ma di dimensioni ridotte  press’a poco della metà (c); segue una base con una cornice convergente all’interno (d) che regge una parte cubica (e) sormontata da una cornice aggettante (f); a seguire un parallelepipedo (g) da cui  si diparte un tronco di piramide (h) sul quale poggia la parte terminale cuspidata (i).

Sulla faccia di c rivolta verso Porta Napoli c’è una lunga iscrizione della quale ci occuperemo più in là.

Sulle quattro facce del cubo (e) è rappresentato lo stemma della Terra d’Otranto (ora della Provincia di Lecce) che mostra un delfino mentre azzanna la mezzaluna7 sul campo dello stemma d’Aragona con i quattro pali originari, però, diventati bande oblique per la diversa postura del delfino,  ma anche per creare una sorta di continuità con le bande delle tre altre consimili raffigurazioni.

Le facce del tronco di piramide si presentano divise in cinque settori, i primi tre dei quali, per ogni faccia, sono dedicati ai quattro distretti dell’antica Terra d’Otranto: Lecce, Gallipoli, Taranto e Brindisi, con un orientamento direzionale  coincidente con quello dei rispettivi percorsi di cui l’obelisco rappresenta contemporaneamente il punto di arrivo da e il punto di partenza per. La decorazione per gli altri due settori di ogni faccia è comune a quella delle altre (dal momento che celebra caratteristiche comuni), perciò verrà riprodotta, più avanti, solo quella del distretto di Lecce.

Di essa così scrive il progettista nel suo opuscolo (op. cit., pag. 3): ”Nella cima della Colonna si deve scolpire l’effigie della Costellazione Celeste, che domina la provincia di Terra d’Otranto, ossia il Leone, il quale deve contenere tutto il suo corpo, compresa anche la coda, ventisette stelle, col motto allusivo Benigno hoc sydere nati. Appresso vi si deve scolpire dell’uva intrecciata con frondi di ulivo, e col motto parimenti allusivo Bacchi, et Minervae munera indigenis propria”. In realtà di stelle ne compaiono otto, dislocate correttamente come mostra il raffronto con la mappa astronomica.

Inoltre, come si vedrà più avanti, le fronde di ulivo saranno accoppiate anche a dei fasci di spighe di grano. Com’è noto, il Leone che, insieme con il Sagittario e l’Ariete è un segno di fuoco, copre il tempo tra il 23 luglio e il 23 agosto e perciò ben si addice a simboleggiare, al di là delle idee di potenza e dominio, il clima della nostra terra e in particolare i frutti che si raccolgono proprio nel periodo prima indicato (il grano) o che in tale periodo vivono una fase fondamentale del loro sviluppo e maturazione (olive e uva). A questa scelta del Cepolla probabilmente non sarà stato estraneo il ricordo della rappresentazione del mese di agosto nel mosaico della cattedrale di Otranto.

 

Questo lavoro è stato pubblicato integralmente nel periodico della Fondazione  Terra d’Otranto Il delfino e la mezzaluna, anno III, n. 1 (ottobre 2014), pp. 171-189. 

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/23/lobelisco-porta-napoli-lecce-24/

Per la terza parte: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/25/lobelisco-porta-napoli-lecce-35/

Per la quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/31/lobelisco-porta-napoli-lecce-45/

Per la quinta parte: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/04/lobelisco-porta-napoli-lecce-55/

                                  

______________

1 Così si legge in Maria Bianca Gallone, Lecce e la sua provincia, Edizioni Sussurro, Lecce, 1968, p. 93; ribadito in Florinda Cordella, Lecce e il Salento, Touring Club Italiano, 2005, p. 25. Questa nota non è presente nella pubblicazione originale ma è stata qui ora aggiunta per presa d’atto di quanto si legge, a firma di Niceta Maggi nel foglio locale Il Bardo, XXIV, 1, Marzo 2015. Di seguito citiamo in grassetto e volta per volta replichiamo in corsivo.

Nel 2015 l’amico Andrea Tondo pubblicò il volume Dal giglio dedi Borbone al Tricolore d’Italia dove fra l’altro dedicò l’Appendice ad una inaspettata “breve cronaca della costruzione dell’Obelisco dedicato al Re Ferdinando I di Borbone che segnava l’inizio della strada Ferdinandiana”. Ebbene, quest’appendice faceva giustizia di molte “leggende” che sul monumento circolavano e purtroppo ancora circolano. Il non aver letto questo fondamentale contributo non ha permesso agli autori di un recente saggio intitolato L’obelisco di Porta Napoli a Lecce (Il delfino e la mezzaluna n. 3) di cadere sugli stessi errori come, per esempio, quello di credere che l’obelisco stesso fu innalzato per una mai avvenuta visita di Ferdinando I a Lecce: in quegli anni, (dal 1822) il re, com’è noto, aveva ben altri problemi e spesso era per lunghi periodi fuori dal Regno. Comunque sia, il problema non è questo.

Premesso che la mancata involontaria lettura di un fondamentale contributo può capitare a chiunque, un “auspicata” aggiunto a “visita” avrebbe forse aiutato a capire meglio l’incongruenza tra il 1822 presente nell’iscrizione tramandataci dal Cipolla e la sua assenza su quella del monumento (L’autore vuole ancora, che il pubblico abbia la conoscenza di una sua latina iscrizione, da lui fatta per l’aguglia medesima, nella quale essa non vedesi scolpita per causa della di lui assenza da Lecce). In parole povere: è pensabile che un simile monumento fosse realizzato senza l’intento di invitare, anche ad alcuni anni dal suo compimento, l’augusto dedicatario che non si sarebbe certo lasciato sfuggire, secondo un’abitudine inveterata e perseverante fino ai nostri giorni, una simile occasione? Che poi la speranza andò delusa perché il re aveva ben altri problemi che non fossero connessi con una banale diarrea è provato anche dall’assenza della notizia di tale visita nei giornali dell’epoca.

Nessuno di questi studi, tranne l’accenno che ha fatto V. Cazzato sul catalogo Foggia Capitale. La festa delle arti nel Settecento (1998) ha messo in evidenza l’humus culturale dal quale proviene una proposta artistica del genere: questa è storia, storia della cultura, che non si trova belleffatta su Internet.

Di seguito il recensore si prolunga sull’humus egizio-napoleonico dell’obelisco che non contestiamo minimamente; aggiungiamo solo che esso, fatte le dovute tare stilistiche, non è affatto un fenomeno nuovo ma, tutt’al più, contingente, visti i famosi precedenti, solo per fare qualche esempio, di Sisto V con la sistemazione ad opera del Fontana degli originali egizi Vaticano (1586), Lateranense (1588), Flaminio (1589), di Pio VI  (con la sistemazione dell’originale egizio Montecitorio (1792). E, se gli esempi precedenti possono essere considerati come un recupero archeologico finalizzato alla celebrazione del potere ecclesiastico, l’obelisco carolino di Bitonto (iniziato nel 1736) ne costituisce il … contraltare laico. Insomma, l’humus evocato dal recensore era tanto banale che non ci è parso opportuno farne cenno. Per quanto riguarda, poi, la “storia della cultura, che non si trova belleffatta su Internet”: la tanto vituperata rete, e il suo uso critico, avrebbe consentito al recensore, “belleffatta” a parte, di riportare del padiglione e degli obelischi quanto meno l’olio di Salvatore Fergola (1799-1874) custodito nella Reggia di Caserta, e non l’anonima stampa mancante di qualsiasi indicazione relativa alla fonte. Dubitiamo che essa appartenga a qualche libro antico in vendita, magari, nella sua libreria e lo stesso dubbio formuliamo per l’immagine a corredo dell’articolo su Alberigo Longo, apparso, sempre a sua firma, sullo stesso numero; e, a proposito di numeri,  ci permettiamo di far notare che il simbolo del Bocchi di cui si parla e lì riprodotto non è il n. 147 ma il n. CXLV, come chiunque potrà controllare, sempre scomodando la rete, in https://books.google.it/books?id=JTi4-NPUQAYC&printsec=frontcover&dq=achille+bocchi&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwikvOOy2PzWAhVMJcAKHbl1B94Q6AEIJjAA#v=onepage&q=achille%20bocchi&f=false.

E quindi, ogni tanto, bisogna studiare lontano dalla comoda, pigra e sviante postazione del proprio computer.

La raccomandazione finale della maestrina mal si concilia con l’assenza nella sua recensione di qualsiasi riferimento all’humus classico (non è questione di spazio …), ben più profondo ed antico di quello napoleonico orgogliosamente sbandierato; ma sarebbe pretendere troppo da chi probabilmente non conosce né il latino né il greco (tanto meno la storia delle rispettive civiltà), ma col suo belleffatta dimostra di non conoscere nemmeno l’italiano … “. E, a tal proposito, sempre sfruttando la rete, notiamo che belleffatto compare solo in Gian Gasparo Napolitano, Troppo grano sotto la neve, un inverno in Canada, Casa editrice Ceschina, Milano, 1936, p. 359 e in Marina Minghelli, I tossici, Armando Editore, Roma, 2008, p. 172. Non ci risulta che il Napolitano e la Minghelli abbiano acquisito autorevolezza tale da far entrare “belleffato” nel novero dei lemmi registrati anche dal più scadente dei vocabolari. Ci riuscirà il Maggi?   

2 Vedi Mario Falco, Il neo classico a Lecce, in La zagaglia, anno X, N. 38 (giugno 1968), p. 217.

3 Già poco dopo la sua realizzazione il monumento era stato oggetto di “attenzione” politica con manifestazioni vandaliche da parte degli antiborbonici. Sull’argomento vedi Nicola Vacca, I Carbonari e l’obelisco di porta Napoli, in Rinascenza salentina, anno II (1934), pagg. 158-160. Gli autori ringraziano la signora Mariagrazia Presicce per aver fornito la copia fotostatica dell’articolo de Il cittadino leccese.

4 Luigi Cepolla, nato nel 1766 a San Cesario di Lecce, era un avvocato, docente di diritto a Napoli,  con la passione dell’archeologia e dell’epigrafia. Ebbe l’onore di vedere esaminate le sue carte dal Mommsen e nello stesso tempo la sfortuna della stroncatura da parte del maestro tedesco che in Annali dell’istituto di corrispondenza archeologica, 1848, volume 20, pagg. 80-81 proposito di alcune presunte iscrizioni messapiche mostrategli dal Cepolla così scrive: Fra le carte di Luigi Cepolla di Lecce, chè molto si diletta di studiare e tradurre le iscrizioni messapiche, rinvenni la seguente….non debbo tacere che di altre due iscrizioni che il Cepolla mi diede…l’una si trovò essere una nota iscrizione osca capovolta, l’altra…contiene un alfabeto greco antico. Tanto questo però che l’iscrizione capovolta furono credute cose messapiche, e come tali tradotte e spiegate. Di una terza iscrizione…lascio volentieri il giudizio ai lettori se sia vera o falsa, messapica o cristiana, e  conclude impietosamente: Che disgrazia di dover attingere notizie importanti da così torbidI fonti!.

Il giudizio negativo sull’attendibilità scientifica del Cepolla verrà ribadito successivamente da L. G. De Simone che in Di un ipogeo messapico scoperto il 30 agosto 1872 nelle rovine di Rusce e delle origini de’ popoli della Terra d’Otranto, Tipografia Editrice Salentina, Lecce, 1872, pag. 25 lo definisce un dotto ma strambo archeologo leccese. Dello stesso parere Luigi Maggiulli e Sigismondo Castromediano che in Iscrizioni messapiche, Tipografia Editrice Salentina, Lecce, 1871, pag. 3 così lo giudicano:  Tuttoché dotto fu strambissimo interpetre delle antichità, i documenti della quale storpiava a piacere, per poscia interpetrarli a piacere. Il Castromediano ribadirà la stroncatura affinando la mira nella sua Relazione della commissione conservatrice dei monumenti storici e di belle arti di Terra d’Otranto per l’anno 1871 al Consiglio provinciale, Tipografia editrice salentina, Lecce, 1872, p. 23 nota 1: … la sua [dell’obelisco] composizione venne ideata da Luigi Coppola. Dotto costui nelle antichità della Provincia alla maniera del secolo passato, ma più che dotto strano, servendosi di alcuni motti latini e della mitologia creò in quel monumento uno dei più intricati geroglifici, che anche leggendo la memorietta spiegativa da lui stesso stampata al proposito, nemmeno s’intende. Altre sue indecifrabili stramberie si scorgono nei brevi e pochi opuscoli da lui pubblicati. Anche se, come tenteremo di dimostrare, indecifrabili stramberie ci pare un po’ esagerato e se la celebrazione della componente cretese poteva forse avvenire in un modo meno prolisso, ci chiediamo, maliziosamente forse, se Coppola invece di Cepolla sia un refuso o una forma originalissima di damnatio memoriae, anche se una coppola vale certamente più di una cipolla …

Pure Nicola Vacca, op. cit. p. 159, era stato poco tenero con lui: Gli emblemi, i simboli dell’obelisco furono ideati ed illustrati stranamente dall’avv. Luici Cepolla.

Quanto ai brevi e pochi opuscoli, oltre la memorietta che citeremo in nota 3: Saggio d’idee filosofiche sopra la quistione più favorita del giorno. Qual è la migliore politica costituzione, Manfredi, Napoli, 1820;  Dissertazione sulla significazione del toro a volto umano usato comunemente per simbolo della Italia, della Sicilia, e di molte altre città greche in alcune loro più antiche medaglie, Nobile, Napoli, 1826; Saggio analitico di varii oggetti di morale, di scienze, di arti, e di bella ed amena letteratura, Chianese, Napoli, 1837; Breve componimento, Fratelli Cannone, Bari, 1841;  Breve cenno fugitivo della storia primitiva di Ugento, s. n., s. l., 1841 (?): Agesilao Milano: Storia del secolo XIX, Giuntini, Catania, 1862.

5 Illustrazioni degli emblemi mito-istorici seguiti d’alcuni motti indicanti le prime tre epoche degli antichi popoli salentini figurati nella nuova aguglia eretta fuori della Porta di Napoli in Lecce del Sig. L. Cepolla, autore della formazione iconografica, ed epigrafica di tutta la storia Antiquario Numismatica della Provincia Salentina, Tipografia di Agianese, Lecce, 1827. Gli autori ringraziano Giovanna Falco peraverne fornito la copia fotostatica.

6 Carlo Maria Rosini, (1748-1836), vescovo di Pozzuoli dal 1797 fino alla morte, filologo. Ecco le sue benemerenze “laiche”: nel 1787 fu nominato da Ferdinando I titolare della Cattedra di Santa scrittura nella Regia Università di Napoli (in sostituzione di Nicola Ignarra nominato precettore del principe ereditario e poi re Francesco I), nel 1817 Presidente perpetuo della Società Reale Borbonica, nel febbraio 1822 presidente della Reale Biblioteca Borbonica, nel settembre dello stesso anno presidente della Pubblica Istruzione. Sterminata la serie delle sue pubblicazioni tra le quali spicca in campo scientifico Dissertationis isagogicae ad Herculanensium voluminum explanationem, Tipografia Regia, Napoli, 1797 (opera continuata dopo la sua morte dallo Scotti). Angelo Antonio Scotti (e non Scorti, come si legge nel libro del Palumbo) (1786-1845), arcivescovo di Tessalonica (dal 1843 fino alla morte), paleologo. Tra le sue numerose pubblicazioni, oltre la continuazione dell’opera del Rosini : Illustrazione di un vaso italo-greco del museo di mons. arcivescovo di Taranto, Stamperia Regia, Napoli, 1811; Memoria sopra un greco diploma esistente nel grande archivio di Napoli, s. n., s. l., 1813 (?); Dissertazione sopra un antico busto, Tipografia Trani, Napoli, 1815; Dissertazione sopra un antico mezzo busto falsamente attribuito ad Annibale cartaginese, Napoli, Tipografia Trani, 1816; Syllabus membranarum, Stamperia Reale, Napoli, 1824. I due si conoscevano e stimavano reciprocamente, stando a quanto si legge in Prospero De Rosa, Elogio istorico di Monsignor Carlo Rosini vescovo di Pozzuoli, Stamperia Reale, Napoli, 1841 (opera dedicata allo Scotti).

7 Questo elemento venne aggiunto dopo la cacciata dei Turchi (popolazione di cui la mezzaluna costituisce uno dei simboli)  ad opera di Alfonso d’Aragona nel 1481.

 

 

 

I gelsi dell’Incoronata: mi piace ricordarli così (1/3)

di Armando Polito

Quando ci lascia una persona cara è quasi d’obbligo l’uso dell’espressione che nel titolo si legge dopo i due punti. In fondo, forse, è anche un modo per esorcizzare l’idea della morte affidando al ricordo i tratti, anche somatici, più belli del defunto. Per i più sensibili questo vale anche se la perdita coinvolge un animale o un vegetale. Per questo, pur non ritenendomi particolarmente sensibile, la morte avvenuta qualche giorno fa dei secolari alberi di gelso dell’Incoronata di Nardò a causa di un incendio, mi ha profondamente turbato. A memoria di una bellezza (quanto più è antica più dovrebbe essere degna di attenzione, cura e buoni sentimenti, ma, purtroppo, non è così …) irrimediabilmente perduta propongo, senza l’aggiunta di foto dello sfacelo,  Ovidio, Piramo e Tisbe e i gelsi dell’incoronata a Nardò apparso poco meno di un anno fa (agosto 2016) sui nn. 4-5, ppg. 145.165, de Il delfino e la mezzaluna, la rivista, per chi non lo sapesse, della fondazione. Con ulteriore amarezza debbo far notare che nulla ha potuto da lassù nemmeno Roberto Malerba (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/04/24/roberto-malerba-luomo-che-sussurrava-alle-piante-e-amava-i-gelsi/), che io, da credente nella Natura, avevo invocato, alla fine del lavoro, come nume tutelare anche dei nostri gelsi.

Quando mi vide star pur fermo e duro,

turbato un poco disse: “Or vedi, figlio:

tra Beatrice e te è questo muro”.            

Come al nome di Tisbe aperse il ciglio

Piramo in su la morte, e riguardolla,

allor che ‘l gelso diventò vermiglio.

(Dante, Purgatorio, XXVII, 34-39)

 

I toponimi sono per lo più legati ad una caratteristica fisica del territorio o al nome di uno dei possessori o a un dettaglio importante, che può essere un albero o un monumento. Non si sottrae a questa legge Nardò e ne fornisco un esempio per ogni caso: Li Patuli (Le Paludi, zona soggetta ad alluvioni), Li Cafari (masseria e terre della famiglia Cafaro), Lu Pepe (zona oggi integrata completamente nell’abitato ma in passato appena al di fuori delle antiche mura, caratterizzata dalla presenza di un esemplare gigantesco di albero di pepe; per le marine ricorderò Lu Frascone, quasi certamente da un gigantesco cespuglio di frasca), L’Incoronata (dalla presenza dell’omonima chiesa).

Voglio soffermarmi su quest’ultimo toponimo per dire che, se non fosse stata portata a compimento proprio nell’ultimo anno del XVI secolo la costruzione della chiesa dedicata a Santa Maria Coronata, forse questa zona oggi periferica dell’abitato di Nardò avrebbe avuto lo stesso destino del Pepe o del Frascone, si sarebbe chiamata, cioè, Li Zezzi (I gelsi), per la presenza di numerosi, maestosi alberi di gelso che, dislocati ai margini di quello che prima era un tratturo e ora una strada asfaltata, hanno deliziato con i loro frutti intere generazioni di fruitori abusivi (violazione di proprietà privata …) di ogni età.

Mi auguro che il loro verde e la loro spettacolare bellezza allietino le generazioni che verranno e non subiscano lo stesso destino della chiesa, in perenne restauro, e dell’obbrobrio costituito dallo scheletro dell’edificio che era destinato ad essere la nuova sede del Municipio e che, invece, rimane una delle tante opere incompiute senza colpevole, di cui la penisola è cosparsa.

In attesa di tempi migliori, anche esteticamente, rispetto a quelli testimoniati nella foto che, come le due precedenti, è di Corrado Notario e Caterina Polito, consoliamoci facendo un tuffo in un passato già in parte evocato dai versi danteschi citati all’inizio.

La mitologia ci ha tramandato innumerevoli storie di sesso   e d’amore in cui la metamorfosi in essenza vegetale costituisce il momento culminante; esso può essere liberatorio, come nel caso di Dafne trasformata in alloro per sfuggire alla libidine di Apollo o consolatorio come nel caso di Calamo e Carpo, rinati, rispettivamente, come canna palustre e come frutto di varie specie dopo che il primo aveva chiesto a Giove di farlo morire perché non in grado di sopportare il dolore derivante dalla morte del secondo per annegamento.

Il repertorio più organico di queste trasformazioni che simboleggiano, al pari della metempsicosi e parzialmente della concezione cristiana dell’al di là, un modo per esorcizzare l’idea della morte intesa non come passaggio ma come momento inesorabilmente definitivo di annullamento, trova la sua celebrazione poetica nelle Metamorfosi di Ovidio (43 a. C.-18 d. C.).

I versi 55-166 del quarto libro contengono la storia di Piramo e Tisbe, che mi piace riportare integralmente nella mia traduzione. La metamorfosi qui assume connotati non usuali, perché coinvolge una specie vegetale e potrebbe far pensare ad una sorta di passaggio da una varietà all’altra di un albero già esistente.

Piramo e Tisbe, uno il più bello dei giovani, l’altra preferita alle fanciulle che l’Oriente ebbe abitarono case vicine, dove si dice che Semiramide avesse cinto l’alta città con mura di mattoni cotti. La vicinanza rese possibile la conoscenza e i primi approcci: col tempo crebbe l’amore. E si sarebbero uniti in matrimonio, ma i loro padri lo vietarono. Ciò che non poterono impedire, ambedue ardevano nell’animo di eguale amore reciproco. Nessuno lo sa: parlano a cenni e segni, e il fuoco più viene nascosto, più, nascosto, divampa. Era solcato da una sottile fessura formatasi da tempo il muro in comune tra le due abitazioni. Quel difetto da nessuno notato per secoli (cosa non vede l’amore?) voi innamorati lo vedeste per primi e faceste strada alle vostre voci; e sicure attraverso esso solevano passare le vostre dolcezze con minimo mormorio. Spesso, dove si erano soffermati Tisbe di qua, Piramo di là, e a vicenda era stato captato l’anelito della loro bocca, dicevano: – O muro invidioso, perché ostacoli gli innamorati? Cosa ti costerebbe lasciarci unire con tutto il corpo o, se questo è troppo, aprirti per poterci scambiare un bacio? Né siamo ingrati: riconosciamo di esserti debitori, ché alle parole è stato dato di giungere alle orecchie amiche -. Pronunciate invano queste parole in un posto diverso, sul far della notte si salutarono e diedero ognuno alla parte sua di muro baci destinati a non incontrarsi. L’aurora seguente aveva rimosso i fuochi notturni e il sole con i raggi aveva asciugato le erbe coperte di brina: si trovarono al solito posto. Allora con un piccolo mormorio lamentatisi a lungo stabiliscono che nella notte silenziosa inganneranno i custodi e tenteranno di varcare la porta e, usciti da casa, di allontanarsi dalla città e, per non perdersi vagando nell’aperta campagna, di trovarsi presso la tomba di Nino e di nascondersi all’ombra di un albero. C’era lì un albero, di candidi frutti ricchissimo un alto gelso, vicino ad una fresca sorgente. Sono d’accordo. E la luce, che pareva andarsene troppo lenta, scende sulle acque e da esse la notte va via. Nelle tenebre l’astuta Tisbe, aperta la porta, esce fuori, inganna i suoi ed a volto coperto giunge al sepolcro e siede sotto l’albero convenuto. La rendeva coraggiosa l’amore. Ecco, viene da una recente strage di buoi  una leonessa con le fauci ancora spumeggianti per placare la sete nell’acqua della vicina sorgente. Sotto i raggi della luna da lontano la babilonese Tisbe la vede e con passo timoroso fugge verso un oscuro antro e mentre fugge lascia per terra il velo scivolatole dalle spalle. Quando la feroce leonessa placò la sete con molta acqua, tornando nelle selve dilaniò con la bocca sporca di sangue il leggero tessuto che aveva trovato per caso senza la ragazza. Uscito più tardi, Piramo scorse nell’alta polvere le orme inconfondibili della fiera e sbiancò in volto. Quando poi trovò pure la veste macchiata di sangue, disse: – Una sola notte condannerà a morte due innamorati. Di noi lei fu la più degna di lunga vita, la mia anima è colpevole: io, o sventurata, ti ho uccisa, io che ti spinsi a venire di notte in luoghi pieni di paura e non venni qui per primo. Dilaniate il mio corpo e col feroce morso divorate lo scellerato cuore, o leoni, qualunque di voi abiti sotto questa rupe. Ma è del vigliacco desiderare questa morte -. Raccoglie il velo di Tisbe e lo porta con sé sotto l’ombra dell’albero convenuto; e, quando versò lacrime e diede baci alla cara veste, disse: – Accogli ora anche il fiotto del mio sangue! -. Si piantò nel ventre il pugnale che aveva al fianco, non ci fu indugio, morente lo estrasse dalla ribollente ferita. Quando giacque supino a terra il sangue schizzò in alto non diversamente da un tubo per un difetto del piombo si spacca e da un foro sottile stridente molta acqua proietta e con colpi sferza l’aria. I frutti dell’albero per lo spruzzo del sangue in nero mutano il loro aspetto e la radice bagnata di sangue tinge di colore purpureo le more che pendono. Ecco, ancora impaurita, per non deludere l’innamorato essa ritorna e con gli occhi e col cuore cerca il giovane, è impaziente di raccontargli che pericoli ha evitato. E come gli occhi riconoscono il luogo e la forma nell’albero, così la rende incerta il colore del frutto: dubita che sia quello. Mentre il dubbio l’assale, tremando vede spasimare sul suolo insanguinato un corpo, ritrae il piede e mostrando un volto più pallido del bosso rabbrividisce come il mare che trema quando è sfiorato da una leggera brezza. Ma dopo che, indugiato, riconobbe il suo amore, percuote tra gli alti gemiti le membra innocenti e, scompigliati i capelli e abbracciato il corpo amato, colmò le ferite di lacrime e al sangue il pianto mescolò e fissando gli occhi sul gelido volto esclamò: – Piramo, quale sventura ti ha strappato a me? Piramo, rispondi!. La tua carissima Tisbe ti chiama; ascoltami e solleva il volto inerte! -. Al nome di Tisbe gli occhi ormai gravati dalla morte Piramo sollevò e dopo averla vista li richiuse. Dopo che lei riconobbe la sua veste e vide il pugnale privo del fodero d’avorio, disse: – La tua mano e l’amore ti hanno perso, o infelice. Pure io ho mano forte per ciò solo, pure io ho l’amore: ed esso  mi darà la forza per uccidermi. Seguirò la tua morte e si dirà che della tua morte sono stata causa e compagna; e tu che alla morte, ahimé, da me sola potevi essere tolto, neppure dalla morte potrai essermi tolto. Perciò allora non siate insensibili alla preghiera di entrambi, o molto infelici genitori mio e suoi, affinché coloro che un amore sicuro, che l’ora estrema unì non impediate che siano composti nello stesso sepolcro. Ma tu, albero, che con i rami lo sventurato corpo di uno solo ora ricopri, sii destinato subito a coprirne due, conserva un segno della disgrazia e pure paràti a lutto sempre conserva i frutti, ricordo di un sangue gemello! -. Disse e, volto il pugnale sotto l’estremità del petto, si lasciò cadere sulla lama che era ancora calda di sangue. La preghiera tuttavia toccò gli dei, toccò i genitori: infatti nel frutto, quand’è maturo, il colore è nero e ciò che resta del rogo riposa in un’unica urna1

L’opera di Ovidio ha goduto nei secoli di un’ininterrotta fortuna, come dimostra il numero incalcolabile di edizioni che nel tempo si sono susseguite, tra cui spiccano, già da quando l’immagine non aveva assunto l’attuale importanza, quelle illustrate. Di alcune delle più antiche riproduco la tavola relativa al nostro tema.

Comincio da un manoscritto. Il codice Bodmer 49, custodito presso l’omonima fondazione a Cologny in Francia, datato al 1460 circa, contiene l’Épître d’Othéa, opera scritta da Christin de Pisan intorno al 1400. Il foglio 59r contiene la miniatura di seguito riprodotta.

4

Secondo il mio punto di vista tra tutte quelle che qui saranno mostrate questa è la tavola più sintetica, efficace e perfino ironica tra tutte quelle che seguiranno. Basta guardare la postura della leonessa che sembra guardare con soddisfazione l’epilogo della triste storia, quasi il sipario calasse con lei che usurpa il ruolo di protagonista ai due umani e la cui coda eretta sembra celebrare l’eccitante trionfo.

Nel 1474 usciva ad Ulm per i tipi di Zainer la traduzione in tedesco del  De claris mulieribus del Boccaccio ad opera di Heinrich Steinhöwe e non poteva mancare una tavola dedicata a Tisbe ed al suo compagno di sventura.

La tavola che segue è tratta da un incunabolo uscito per i tipi di Mansion a  Bruges nel 1484 e custodito nella Biblioteca Nazionale di Francia.

Qui ad ogni piano prospettico ne corrisponde uno cronologico, la cui lettura procede, com’era naturale, dallo sfondo al primo piano; così nel primo, davanti alle torri di Babilonia, Tisbe si nasconde dalla leonessa dietro un masso, nel secondo, vicina a Piramo morente, con la sinistra s’infila la spada nel petto.

Di seguito una tavola tratta da Niccolò degli Agostini, Tutti gli libri de Ovidio Metamorphoseos tradutti dal litteral in verso vulgar con le sue allegorie in prosa, Venezia, Zoppino, 1522.

Da notare la rappresentazione sintetica dei due momenti: nel primo semiquadro la fuga di Tisbe, nel secondo il suicidio, una tecnica che anticipa quasi la ripresa cinematografica come veniva effettuata su pellicola prima che subentrassero la registrazione magnetica prima e quella digitale poi.

La rappresentazione, invece, è più scarna ed elementare e lascia alla sola leonessa che si allontana il compito di riassumere l’antefatto nella tavola a corredo dell’edizione dello stesso autore uscita per i tipi di Bindoni a Milano nel 1538.

La sinteticità è spinta al massimo, invece, un’edizione tedesca con incisioni di Georges Wickram, uscita per i tipi di Schöffer a Magonza nel 1551.

 La tavola ritrae Tisbe nel momento in cui scopre Piramo morente, mentre la leonessa, che con un comportamento improbabile si allontana, allude alla precedente fuga della ragazza.

Per la seconda parte: 

http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/06/17/gelsi-dellincoronata-mi-piace-ricordarli-cosi/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/06/19/gelsi-dellincoronata-mi-piace-ricordarli-cosi-33/

__________________

1 Pyramus et Thisbe, iuvenum pulcherrimus alter,/altera, quas oriens habuit, praelata puellis,/contiguas tenuere domos, ubi dicitur altam/coctilibus muris cinxisse Semiramis urbem./Notitiam primosque gradus vicinia fecit:/tempore crevit amor. Taedae quoque iure coissent:/sed vetuere patres. Quod non potuere vetare,/ex aequo captis ardebant mentibus ambo./Conscius omnis abest: nutu signisque loquuntur,/quoque magis tegitur, tectus magis aestuat ignis./Fissus erat tenui rima, quam duxerat olim,/cum fieret paries domui communis utrique./Id vitium nulli per saecula longa notatum/(quid non sentit amor?) primi vidistis amantes,/et vocis fecistis iter; tutaeque per illud/murmure blanditiae minimo transire solebant./Saepe, ubi constiterant hinc Thisbe, Pyramus illinc,/inque vices fuerat captatus anhelitus oris,/“Invide” dicebant “paries, quid amantibus obstas?/Quantum erat, ut sineres toto nos corpore iungi,/aut hoc si nimium est, vel ad oscula danda pateres?/Nec sumus ingrati: tibi nos debere fatemur,/quod datus est verbis ad amicas transitus aures”./Talia diversa nequiquam sede locuti/sub noctem dixere ”Vale!” partique dedere/oscula quisque suae non pervenientia contra./Postera nocturnos aurora removerat ignes,/solque pruinosas radiis siccaverat herbas:/ad solitum coiere locum. Tum murmure parvo/multa prius questi, statuunt, ut nocte silenti/fallere custodes foribusque excedere temptent,/cumque domo exierint, urbis quoque tecta relinquant;/neve sit errandum lato spatiantibus arvo,/conveniant ad busta Nini lateantque sub umbra/arboris. Arbor ibi, niveis uberrima pomis/ardua morus, erat, gelido contermina fonti./Pacta placent. Et lux, tarde discedere visa,/praecipitatur aquis, et aquis nox exit ab isdem./Callida per tenebras versato cardine Thisbe/egreditur fallitque suos, adopertaque vultum/pervenit ad tumulum, dictaque sub arbore sedit./Audacem faciebat amor. Venit ecce recenti/caede leaena boum spumantes oblita rictus,/depositura sitim vicini fontis in unda./Quam procul ad lunae radios Babylonia Thisbe/vidit et obscurum timido pede fugit in antrum,/dumque fugit, tergo velamina lapsa reliquit./Ut lea saeva sitim multa conpescuit unda,/dum redit in silvas, inventos forte sine ipsa/ore cruentato tenues laniavit amictus./Serius egressus vestigia vidit in alto/pulvere certa ferae totoque expalluit ore/Pyramus: ut vero vestem quoque sanguine tinctam/repperit, “una duos” inquit “nox perdet amantes./E quibus illa fuit longa dignissima vita,/nostra nocens anima est: ego te, miseranda, peremi,/in loca plena metus qui iussi nocte venires,/nec prior huc veni. Nostrum divellite corpus,/et scelerata fero consumite viscera morsu,/o quicumque sub hac habitatis rupe, leones./Sed timidi est optare necem.” Velamina Thisbes/tollit et ad pactae secum fert arboris umbram;/ utque dedit notae lacrimas, dedit oscula vesti,/“accipe nunc” inquit “nostri quoque sanguinis haustus!”./ Quoque erat accinctus, demisit in ilia ferrum,/nec mora, ferventi moriens e vulnere traxit./Ut iacuit resupinus humo  cruor emicat alte,/non aliter quam cum vitiato fistula plumbo/scinditur et tenui stridente foramine longas/eiaculatur aquas atque ictibus aera rumpit./Arborei fetus adspergine caedis in atram/vertuntur faciem, madefactaque sanguine radix/purpureo tingit pendentia mora colore./Ecce, metu nondum posito, ne fallat amantem,/illa redit iuvenemque oculis animoque requirit,/quantaque vitarit narrare pericula gestit./Utque locum et visa cognoscit in arbore formam,/sic facit incertam pomi color: haeret, an haec sit./Dum dubitat, tremebunda videt pulsare cruentum/membra solum, retroque pedem tulit, oraque buxo/pallidiora gerens exhorruit aequoris instar,/quod tremit, exigua cum summum stringitur aura./Sed postquam remorata suos cognovit amores,/percutit indignos claro plangore lacertos,/et laniata comas amplexaque corpus amatum/vulnera supplevit lacrimis fletumque cruori/miscuit et gelidis in vultibus oscula figen/“Pyrame” clamavit “quis te mihi casus ademit?/Pyrame, responde: tua te carissima Thisbe/ nominat: exaudi vultusque attolle iacentes!”./Ad nomen Thisbes oculos iam morte gravatos/Pyramus erexit, visaque recondidit illa./Quae postquam vestemque suam cognovit et ense/vidit ebur vacuum, “tua te manus” inquit “amorque/perdidit, infelix. Est et mihi fortis in unum/hoc manus, est et amor: dabit hic in vulnera vires./Persequar exstinctum letique miserrima dicar/causa comesque tui; quique a me morte revelli/heu sola poteras, poteris nec morte revelli./Hoc tamen amborum verbis estote rogati,/o multum miseri meus illiusque parentes,/ut quos certus amor, quos hora novissima iunxit,/componi tumulo non invideatis eodem./ At tu quae ramis arbor miserabile corpus/nunc tegis unius, mox es tectura duorum,/signa tene caedis pullosque et luctibus aptos/semper habe fetus, gemini monimenta cruoris!”./Dixit, et aptato pectus mucrone sub imum/incubuit ferro, quod adhuc a caede tepebat./Vota tamen tetigere deos, tetigere parentes:/nam color in pomo est, ubi permaturuit, ater,/quodque rogis superest, una requiescit in urna.

Vino su tela. L’arte enoica di Arianna Greco

arianna-greco-com-vinhos-brasileiros

di Arianna Greco

“Amor che move il sole e l’altre stelle”, frase che segna la fine del paradiso dantesco e che ben si adegua a descrivere, invece, il mio inizio. Sì, perché l’idea di usare il vino al posto dei colori nasce proprio da un “amore”, pur continuando ora senza di esso. O, forse, esso c’è ancora ma ha assunto altre forme, altri volti e altre grandezze.

Ma devo fare un passo indietro per raccontare quell’incipit a cui, in fondo, devo tanto.

2012… per me il vino altro non era che un semplicissimo “alimento”, in vendita presso enoteche o supermercati in modo indifferenziato. Una bottiglia valeva l’altra, non guardavo nemmeno che vitigno fosse. Ma, soprattutto, non lo bevevo.

La mia vita privata però ha avuto la fortuna di iniziare un percorso con un uomo la cui quotidianità, ironia della sorte, era incentrata proprio sul vino: per passione e per lavoro. Due mondi lontani i nostri che ho cercato di avvicinare interessandomi a quel “liquido odoroso”, come lo definisce Sandro Sangiorgi, egregio scrittore enoico. Degustazioni, letture di manuali, incontri e scambi d’opinione con addetti ai lavori, tutto parlava di vino. Ma a quel punto i miei “amori” erano due: da sempre quello per la pittura e, da poco, l’amore per quell’uomo. Come fare nostro quel suo mondo? Come avvicinarmi a lui? Attraverso la sua passione, il vino. Ma dovevo filtrarlo attraverso ciò che ero io e per questo motivo ho colto, durante una degustazione, l’elemento che più si confaceva a me: l’esame visivo con le sfumature che si evidenziano, quel rosso rubino con venature granata o a volte violacee, quel rosso porpora, quel rosa cerasuolo…perché allora non cercare di carpire proprio questo aspetto? E così l’idea di intingere il pennello nel vino! Da sola, a Bari nel silenzio di una piccola camera. Certo che a pensarci ora mi vengono i brividi, ora che sono alla vigilia dell’ennesimo evento in cui le mie opere saranno in mostra in Russia, a San Pietroburgo e tra qualche giorno ci sarà la quarta proiezione italiana del film-documentario “Vino su tela. L’Arte Enoica di Arianna Greco”. Un salto enorme che copre un arco di tempo limitato, appena quattro anni. Ma procediamo con ordine e torniamo a quella prima tela. Una piccola tela, appena 30×40 cm. Una donna assorta nei propri pensieri, seno nudo, capelli raccolti e calice pieno in mano, intenta ad osservare quel vino che sapeva essere unico compagno di confidenze. Ricordo che andai ad acquistare appositamente la bottiglia nel supermercato di fronte casa e scelsi un Primitivo di Manduria di un’azienda sconosciuta. Intingevo il pennello e lo posavo sulla tela creando un lago sanguigno per terra…ma quasi subito la sorpresa: il vino a contatto con l’aria si ossida molto più rapidamente di come farebbe in barrique o in bottiglia. Così quel rosso violaceo stava cambiando colore davanti ai miei occhi, piano piano. A distanza di qualche giorno la differenza era già visibile e aumentava nel corso del tempo. Da viola ad arancione! Lì ho capito che dovevo continuare a sperimentare perché quel divenire mi affascinava.

arianna-greco-003-720x400

Ho avuto fortuna fin da subito, fin da quella piccola prima tela che, oggi, è la copertina di un libro “L’amore è come un bicchiere di vino rosso” di F. Biolchini, regista teatrale nonché coregista di Pippo Franco ed è inserita nel “Manuale della Storia Italica” del prof. Franco Niedda Crispo. Dopo la prima …una seconda, una terza tela…ma cambiando vitigno. Dopo il Primitivo di Manduria è stata la volta del Negroamaro e del Nero di Troia, ancora una volta una sorta di preludio a ciò che sarebbe stato: di lì a qualche mese infatti lo scrittore grossetano Andrea Zanfi mi avrebbe chiesto di realizzare la copertina del suo lavoro sulla Puglia Enoica, un manuale in cui racchiudeva la storia di trentanove importanti aziende pugliesi divise in tre sezioni, Primitivo, Negroamaro e Nero di Troia! Proprio i primi tre vitigni da me scelti e gli stessi che poi ho personificato nella copertina de “Le Puglie, storie di Terre e vini”. A quel punto è stato un susseguirsi di vicende. Dopo circa un mese da quell’inizio, la prima richiesta da parte del direttore di un museo, il Piero Taruffi di Bagnoregio (VT). Il dott. Verzaro, da buon sommelier mi chiedeva di realizzare quella che sarebbe stata l’opera simbolo del museo stesso per un intero anno, in un filone che aveva visto in precedenza nomi quali Enzo Naso, autore dei poster della Mille Miglia e di casa Ferrari. E così è stato. A quello ha fatto seguito il museo di Pulcinella in Campania dove ora son presenti mie opere assieme, addirittura, a disegni del Tiepolo e del quale, con cerimonia ufficiale, sono stata nominata “Ambasciatrice nel Mondo”. Sempre in quel primo anno la richiesta di essere presente con una mostra personale a Firenze presso Palazzo Bartolini Salimbeni in occasione di Wine Town, ospite dell’azienda della famiglia Ferragamo e di realizzare un’opera per loro. È nato così “Il Bacco di Arianna”!

bacco

I libri con mia copertina son passati presto da due a cinque e tra questi mi piace ricordare “Isolina, il momento perfetto” scritto da Gianni Mauro, artista eclettico che ha calcato il palco di Sanremo con Rino Gaetano, ha scritto brani per Gabriella Ferri e altri grandi della musica italiana e che ha voluto onorarmi dedicandomi il suo libro.

Dai libri alle etichette per bottiglie di vino: da “Il Capriccio della Marchesa”, un Fiano da invecchiamento, all’opera per 1312 magnum di Taurasi di Villa Raiano, “Il Lotto del Presidente”. Da “Daidalos”, un Moscato di Trani, a “Ligia”, una birra artigianale fermentata con mosto d’uva; fino ad arrivare all’etichetta di uno zibibbo calabro di prossima uscita.

ed-io-cosa-posso-darti-cm-90x120

Mi aspettavo tutto questo turbinio? Decisamente no, ma ne sono entusiasta. Mi è servito a crescere, a comprendere che bisogna credere in sé stessi e nelle proprie passioni anche se queste sembrano ben lontane dal concreto. L’Arte vien vista, anche nella mia famiglia, come un qualcosa in più, un non-lavoro. Per tale motivo io non ho frequentato né un liceo artistico né un’accademia. La mia formazione è stata diversa, liceo classico prima, Odontoiatria e Protesi Dentaria poi. L’Arte poteva esserci ma…in parallelo. Però ora, per me, quel binario parallelo sta diventando il binario principale.

Non mi son fermata alla Puglia né tantomeno all’Italia. L’anno successivo a quello d’inizio è stata la volta del mio primo “live” di pittura col vino ad Hong Kong. Nel frattempo avevo iniziato a prendere confidenza con i live, notando quanto la gente fosse incredula e curiosa nel vedermi reggere un calice in cui vari pennelli facevano bella mostra di sé. Alla fine i live ad Hong Kong sono stati quattro: l’occasione era rappresentata dalla presentazione di una linea cosmetica a base di Barolo. I polifenoli delle uve a bacca rossa sono antiossidanti e antiradicali liberi quindi ottimi ingredienti per prodotti di bellezza: nove prodotti, dall’antietà alla crema schiarente per pelli asiatiche, dal latte detergente al fitoestratto lenitivo e nove mie opere dipinte con Barolo che facevano da testimonial per la linea cosmetica. Un successo inaspettato replicato poi a Milano per la Settimana della Moda presso Chateau Monfort. Addirittura un uomo veniva ogni giorno a trovarmi lì (ad Hong Kong) per osservarmi dipingere e portarmi suoi regali, da monete d’oro a collezioni di banconote, ad una collana di perle! Forse il vino fece il suo effetto, inebriandolo!

cenerentola

Intanto i giorni avanzavano e io cercavo di “classificare” cromaticamente le opere. Notavo che nel corso del tempo il Negroamaro tendeva ad assumere il color marrone mentre la Barbera aveva cromaticità differenti a seconda del produttore: una Barbera prodotta sul Gargano mi dava color rosso mattone mentre una Barbera prodotta in Piemonte tendeva al grigio. Ad un certo punto mi sono chiesta cosa potesse accadere ad un vino invecchiato. Avevo fino ad allora usato vini relativamente giovani, al massimo con cinque o sei anni di imbottigliamento. Mi son recata allora presso un rigattiere dove, in vetrina, avevo intravisto diverse bottiglie…un Barolo del 1976, un Salice Salentino del 1964, un Dolcetto delle Langhe del 1981, un altro Barolo del 1979…ho comprato tutto! La prima ad essere aperta è stata la bottiglia del 1976: aveva un odore strano, diverso dal solito, un odore che non ho più dimenticato da allora. Ma, soprattutto, aveva un colore che a me piaceva. Era ocre e difficilmente bagnava la tela. Ma l’ho lasciato riposare per giorni su quel supporto finché non è stato assorbito. L’opera ottenuta è stata “Come mi vuoi” e raffigurava una donna stesa, nuda anche lei e anche lei intenta a riflettere, a pancia in giù, con ai piedi una sola scarpa col tacco. Il titolo, come in ogni mio dipinto, nasceva da una canzone. Un giorno mi chiamano al telefono “Scusi, cerco Arianna Greco”, “mi dica” rispondo, “è proprio lei?”, “sì, con chi parlo?”, “sono Simona e in questo momento mi sto tatuando sulla schiena un suo dipinto…”…era proprio “Come mi vuoi”. Ovviamente ho conosciuto Simona, una sommelier e donna del vino di Manduria dove gestisce, insieme al compagno Andrea, uno splendido ristorante il cui menù, non a caso, riporta in copertina una mia opera “Incondizionatamente”. Perché la vita non ha condizioni. Non accetta mezze misure.

ho-visto-lanima-mia-cm-50x100

Così la mia sperimentazione continuava e mi son ritrovata ad essere presente in due tesi di laurea. La prima del dott. Jean Pierre Mellone del 2013 “Il mito della velocità”, in cui si discuteva della mia opera per il museo Taruffi. La seconda, di quest’anno, il 2016, “Le molteplici identità socio-culturali del vino: uno sguardo antropologico” della dott.ssa Cristina Ranieri – Università degli Studi di Milano Bicocca, incentrata sul “vino” che da semplice alimento diviene soggetto dotato di una propria agency. Di pochi giorni fa è la richiesta di un’altra ragazza, mia concittadina, laureanda in Conservazione dei Beni Culturali e che mi ha chiesto di essere l’oggetto della sua tesi! Non posso ricevere onore più grande.

il-nerone-della-marchesa-cm-60x90

Sto cercando di perfezionare la mia tecnica e di aumentare la plasticità dei corpi che dipingo. Vorrei che l’espressività delle mie donne riuscisse a non passare inosservata. Non a caso i miei soggetti son principalmente donne. Mi piacciono i volti tristi o eccitati e i corpi che si intrecciano e si contorcono. Ultimamente sto inserendo anche parti di quadro non complete, con angoli non dipinti in cui il vino segna semplicemente dei rivoli colando giù. Mi piace l’idea del divenire, dell’incompletezza in contrapposizione con la precisione del tratto nelle altre parti della tela. Così sono nati “Omnia” e altri dipinti esposti a San Pietroburgo già a marzo di quest’anno presso lo State Hermitage Official Hotel in St Petersburg in occasione del secondo Golden Tour di cui sono stata ospite. La prima volta in Russia è stata nel 2015, a Mosca, dove ho realizzato due opere live in giorni successivi tenendo tre master class organizzati da Andrea Sarasso per importatori e stampa russa di settore. Un’esperienza incredibile…mi ritrovavo ad avere interpreti personali italiano-russo, a firmare autografi, a parlare di vino davanti ad addetti al settore, a far dipingere spiegando loro cosa fosse la pittura col vino e perché applicarlo in un modo o in un altro. Ho notato tanto interesse ed ho conosciuto, addirittura, una donna che aveva prenotato la presenza lì al master class tenuto da ma perché mi seguiva da ben tre anni, dal primo articolo sulla stampa russa!

isolina

Non solo Russia….i miei live e la mia arte hanno fatto tappa anche in Brasile, a San Paolo, per Encontro de Vinhos, la fiera mondiale dei vini che fa tappa in sette città brasiliane, da Rio de Janeiro a Curitiba, a Campinas con evento principale a San Paolo. Il direttivo dell’organizzazione, capeggiato dal giornalista Beto Duarte che ha realizzato più di duecento documentari per la TV brasiliana, ha deciso per il 2016 di affidare ad un’artista internazionale l’incarico di realizzare l’immagine ufficiale dell’evento: e quell’artista sono proprio io! All’inizio non volevo crederci… però ho ideato e dipinto l’opera cercando di portare avanti le mie radici e la mia Terra. Per tale motivo ho scelto due vitigni importanti: Primitivo di Manduria e Salice Salentino quindi, ancora una volta, il mio Primitivo e il mio Negroamaro. L’opera è stata presentata sia in Italia che a San Paolo per la TV nazionale brasiliana e sempre in quell’occasione ho dipinto live con vini brasiliani. Tanto calore, tanto entusiasmo e tanta “italianità” che mi hanno fatto innamorare del Brasile!

Ovviamente le opere dipinte col vino hanno un loro “segreto”: il colore tenderebbe col passare del tempo a venir meno, per tale motivo un’azienda ha ideato appositamente sia un fissativo che un isolante che, applicati, permettono al vino di evolvere assumendo le proprie tonalità ma di bloccarsi e di persistere ad evoluzione avvenuta. Un segreto…che rimarrà tale.

mosca-2015

Grazie a tutto questo mio “girovagare”, a questo tentativo di far conoscere i colori della mia terra, è arrivato un premio importante. Nel corso di questi quattro anni ho ricevuto altri riconoscimenti ma, a mio avviso, quello che ritirerò in Croazia il prossimo novembre ha una valenza di cui a stento mi capacito: in occasione del 34^ European Award for the Tourism nell’ambito del 19th International Tour Film Festival, riceverò l’importante riconoscimento internazionale di Benemerita del Turismo Culturale. Il prestigioso riconoscimento è destinato a coloro che si sono distinti nel comparto del turismo ai vari livelli ed ha avuto per il passato varie personalità come il francese Paul Bocuse e l’italiano Gualtiero Marchesi per la gastronomia; il regista italo-polacco Zanussi e Franco Zeffirelli per i documentari turistici.

Son stati quattro anni intensi e il quotidiano lo è altrettanto. Ad oggi mi ritrovo a programmare un live in Siberia oltre ad altri appuntamenti nostrani come il Primitivo Jazz Festival, il Castro Wine Festival, il Premio Terre del Negroamaro al fianco di ospiti che prima vedevo solo sullo schermo o di cui leggevo online.

A volte leggere “ospite d’eccezione di questa edizione è l’Artista internazionale Arianna Greco…” non mi sembra vero. La strada che devo percorrere però è lunga e tortuosa ma, come recitano le parole che ho tatuato sulla mia pelle, “one life, one chance” e io mi impegnerò per dare il massimo.

prova2

Pubblicato su “Il delfino e la mezzaluna”, nn. 4-5 – 2016

L’epigrafe di Morciano di Leuca in via Ippolitis al civico n. 6

di Armando Polito

Capita non di rado, in Italia come all’estero, di imbattersi in qualche locuzione latina presente sulle pareti esterne di  fabbriche di una certa età, oggi, forse anche all’origine, private.

Sotto questo punto di vista probabilmente a detenere il record mondiale  è proprio una cittadina salentina, Giuliano di Lecce, il cui centro storico pullula di epigrafi. Di una di esse mi sono occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/01/23/unepigrafe-in-via-regina-elena-a-giuliano-di-lecce/ e già allora pensavo di compiere con lo stesso metodo un’indagine sulle altre. Poi le mie difficoltà di deambulazione ed altri interessi sopravvenuti mi hanno distolto. Tuttavia i due ostacoli sono facilmente rimovibili: il primo con l’aiuto delle foto di uno o più lettori che gentilmente potranno inviarle alla redazione con indicazione del loro nome e cognome, nome e numero civico della via; il secondo ostacolo posso rimuoverlo solo io ma è facilmente comprensibile come un’adeguata rimozione del primo costituisca una condizione ineludibile ma  fungerà, lo giuro, da irrefrenabile catalizzatore1.

Qualche mese fa nel mio raro girovagare a briglia sciolte (cioè in modo non mirato) in rete sfruttando Google Maps mi sono ritrovato, non ricordo neppure da dove son partito, a Morciano di Leuca. La mia attenzione è stata subito attratta dallo scorcio dell’immagine di testa (che ho adattato, appunto, da Google Maps), con l’arco trilobato, probabilmente bugiardo, cioé avente una funzione puramente decorativa e non di sostegno (a chi ha specifica competenza  la conferma o la smentita).

Google Maps non mi ha consentito un’ulteriore zoomata sulla lastra con epigrafe che si nota nella parte superiore; fortunatamente ho reperito in rete l’immagine che di seguito riproduco (a suo tempo, pur avendo messo da parte la foto, non mi sono annotato il link e attualmente l’immagine è introvabile).

Si legge, direi agevolmente nonostante la definizione non eccelsa, NEC TE QUESIERIS EXTRA (E non cercarti fuori) e nell’altra linea, con notevole spaziatura tra le cifre, 1562.

Conforto il lettore già in preda all’apprensione promettendogli subito che non spenderò nemmeno una parola (né aprirò una delle mie interminabili parentesi …) sull’annosa quanto, secondo me, idiota contrapposizione tra la cultura umanistica e quella scientifica, né, per scendere terra terra, sull’opportunità o meno della sopravvivenza del latino e del greco tra le materie scolastiche e, soprattutto, della metodologia d’insegnamento-apprendimento.

Voglio con questo mio post solo condividere con lui il mio pensiero critico sulla superficialità e frenesia della vita attuale, in cui ci sono minuti e minuti per postare su Facebook citazioni di ogni tipo ma non c’è mai più di un secondo per rispondere (utilizzando quella stessa rete che in pratica abbiamo sempre con noi in tasca o nel taschino …) alla domanda che inevitabilmente ci si dovrebbe porre quando ci si imbatte in qualcosa di sconosciuto; nella fattispecie: cosa vorrà mai dire quella frase latina?

So che facendo così mi brucerò l’ulteriore attenzione di quei pochi lettori che fino ad ora me ne hanno privilegiato, ma ci sarà pur sempre qualcuno (sono un illuso?) che mi seguirà fino in fondo.

Allora: Nec te quesieris extra si traduce con E non cercarti fuori. Le epigrafi di questo tipo , cioè quelle apposte su fabbriche che hanno più di un secolo di vita (nel caso in cui se ne apponga qualcuna su una fabbrica moderna quasi sicuramente la lingua usata sarà l’inglese …) sono di regola frasi latine tratte da autori classici o dell’Umanesimo e del Rinascimento. Il gusto di queste citazioni celebrò il suo trionfo letterario nei secoli XVI e XVII con il filone di quella produzione emblematica di cui mi sono occupato (con specifico riferimento al Salento) in più riprese:

https://www.fondazioneterradotranto.it/wp-admin/post.php?post=84490&action=edit 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/07/31/la-puglia-e-la-taranta-in-un-repertorio-di-simboli-del-1603/ 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/23/gli-emblemata-di-gregorio-messere-1636-1708-di-torre-s-susanna-13/ 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/17/un-manoscritto-per-lestate-ovvero-un-omaggio-del-1615-destinato-ad-un-leccese-e-finito-in-america-18/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/03/14/guardando-unantica-immagine-di-gallipoli/

Il testo della nostra epigrafe è tratto da Aulo Persio Flacco (I secolo d. C.) e, precisamente, è il secondo emistichio del verso 7 della satira I, in cui, guarda caso!, polemizza contro le mode letterarie del tempo e invita il lettore a non lasciarsi condizionare dall’opinione altrui, quando questa non è adeguatamente motivata, e a non sottovalutare se stesso. Insomma, una lezione di estrema attualità, un elogio dello spirito critico che oggi più che mai può essere traslato dal campo letterario ad ogni altro, a cominciare da quello degli opinionisti da strapazzo e a finire con quello politico e le sue quotidiane fanfaronate, alla cui genialità non credono più nemmeno i cortigiani leccaculo che abbiano conservato un minimo di attività neuronale …

Mi piace ora riportare  di seguito le testimonianze di tale massima nella letteratura emblematica alla quale ho fatto poc’anzi cenno.

Comincio da Symbolorum et emblematum ex aquatilibus et reptilibus desumptorum centuria quarta a Iachimo Medi. Nor.  coepta, absoluta post eius obitum Ludovico Camerario Joachimi filio, s. n., s. l., 1604. Di seguito la p. 98:

In alto il motto che conosciamo (quaesiveris corrisponde alla forma sincopata quesieris che si legge  a Morciano), nella didascalia il distico elegiaco: Non tibi tela nocent latitanti, erumpere at ausum/configunt: temere qui ruit, ille perit (Le frecce non nuocciono a chi si nasconde, ma trafiggono chi ha osato uscir fuori: muore chi si precipita temerariamente).

Il Camerario, dunque, fornisce un’interpretazione non fedele al concetto originale di Persio e, con l’immagine eloquente della chiocciola trafitta dalla freccia, il suo emblema finisce per essere un elogio della prudenza, un invito a non correre avventatamente rischi.

Non a caso lo stesso Camerario aveva sfruttato l’immagine della chiocciola nell’emblema precedente:

La citazione ovidiana compare tal quale, invece, in una stampa del 1650 che fa parte della collezione di Michel Hennin (1777-1863), custodita nella Biblioteca nazionale di Francia da cui (http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8404199s.r=descartes) la riproduco. È un ritratto di Cartesio.
Qui il motto è una citazione, adattata, da Ovidio [Tristia, III, 4, v. 15: Bene qui latuit, bene vixit (Chi si è nascosto bene ha vissuto bene)] : Bene qui latuit (Bene chi si è nascosto) e la didascalia: Exemplo domiporta tibi sit cochlea/quisquis exoptas tuto consenuisse domi (Ti sia d’esempio la chiocciola domiporta [è , nella nomenclatura binomiale, il nome del genere; alla lettera porta della casa, con riferimento all’opercolo], se desideri invecchiare al sicuro in casa). Anche qui va detto che il pensiero originale, come prima quello di Persio, risulta travisato in quanto Ovidio semplicemente invitava un amico a non mettersi troppo in mostra per soddisfare il desiderio di raggiungere traguardi forse troppo velleitari.

La citazione ovidiana compare tal quale, invece, in una stampa del 1650 che fa parte della collezione di Michel Hennin (1777-1863), custodita nella Biblioteca nazionale di Francia da cui (http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b8404199s.r=descartes) la riproduco. È un ritratto di Cartesio.

In Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Bene_vixit_qui_bene_latuit) leggo: “Evidente l’affinità con il consiglio epicureo λάθε βιώσας láthe biôsas, “vivi nascostamente. Era il motto fatto stampare sul suo stemma nobiliare dal grande matematico, filosofo e uomo d’arme René Descartes, Sieur Du Perron, conosciuto come Cartesio“.

Nulla da dire sull’affinità con il consiglio epicureo, anzi ringrazio l’anonimo autore della scheda per avermi risparmiato di dirlo, ma temo che abbia scambiato per motto araldico quello che in Bullettin de la société  archéologique deTouraine, Péricat, Tours, 1896, v. XI, p. 13 viene definito come devise chère à Descartes (motto caro a Cartesio) e che sembra sintetizzare perfettamente la celebrazione di quel posto privilegiato che il filosofo francese aveva riservato alla solitudine fin dal Discours de la méthode. Perfettamente in linea  con Il Cogito ergo sum (Penso, dunque esisto) a tutti noto;  siccome  è pericoloso, però, oltre che fuorviante, unire concetti che anche per la loro sinteticità possono assumere un carattere apodittico, dogmatico, da vero e proprio postulato,  mi permetto di osservare, in rapporto al pensiero solitario che, poi, rischia di diventare pensiero unico …, che solo dal confronto tra i vari pensare la conoscenza può progredire.

Qualche anno dopo il Camerario l’immagine a corredo del motto sarà costituita da due navi sul mare in tempesta; sulla più vicina si scorge un uomo che con un lungo cannocchiale scruta le stelle (le due stelle della noStra epigrafe sono solo una coincidenza con valore puramente decorativo?). Tutto questo in Marci Zverii Boxhornii Emblemata politica et orationes, Jansson, Amsterdam, 1635 (https://www.yumpu.com/la/document/view/20119042/emblemata-politica-amp-orationes-ex-officina):

Ancora qualche anno e alla chiocciola del Cemerario e alle navi dello Zverio subentrerà l’ostrica che il testo a corredo  (è in prosa, abbastanza lungo e non lo riporto per non perdere l’ultimo lettore rimasto a seguirmi …) qualifica come perlifera, a sottolineare che ognuno di noi ha nel suo intimo quella ricchezza (spirituale, naturalmente) che talora cerca in un altro. Di seguito l’immagine da  Idea principis christiano-politici, centum symbolis expressa a Didaco Saavedra Faxardo, Vivien, Bruxelles, 1649 (http://www.fondiantichi.unimo.it/fa/emblem01/saav032.html):

Da notare nel motto, come già nel simbolo precedente e nelle due immagini che seguono, NE invece di NEC. Non cambia assolutamente nulla anche se in Persio si legge nec e non ne.

Tutti gli emblemi fin qui proposti sono successivi al 1562, il che garantisce la scelta autonoma rispetto alla letteratura emblematica e la dipendenza diretta da Servio di chi volle quell’epigrafe a Morciano. Anzi, se tutto non fosse stato casuale, avremmo potuto dire che il portale salentino e la sua epigrafe ispirarono le metafore emblematiche  (con le corrispondenze arco e porta d’ingresso /opercolo, casa/guscio e epigrafe/motto) della chiocciola e dell’ostrica.

In una sorta di amara ripresa per contrasto del timore manifestato all’inizio che le nuove epigrafi dei nostri giorni, se apposte, saranno in inglese, riporto dalla rete le due immagini che seguono insieme con le scarne informazioni presenti nel rispettivo link (https://www.flickr.com/photos/coglaz/14497017535 e https://www.flickr.com/photos/wolflawlibrary/6902192728/in/photostream/): Toulouse, Rue du Taur per la prima e nulla di nulla per la seconda.

 

Le due ultime immagini sono le sole, tra tutte quelle mostrate, emblemi compresi, a riportare il classico quaesiveris (non sincopato e col dittongo) invece di quesieris. Precisazioni che sembrano quasi ridicole rispetto alla serietà (leggi gravità) della situazione attuale (e non mi riferisco solo al terrorismo) che, senza tanti voli pindarici, bizantinesche contorsioni e ardite metafore, obbliga la massima di Persio ad assumere, purtroppo, un significato che, terra terra, è il consiglio di non uscire di casa nella speranza, così facendo, di limitare il rischio di perdere la vita, il che equivale a dire che in duemila anni il nostro degrado morale ha assunto un livello spaventosamente vergognoso; e tutto questo, paradossalmente, proprio mentre il progresso ha quasi annullato le distanze; solo quelle fisiche, purtroppo …

____________

1 A tal proposito vanno citate le seguenti pubblicazioni uscite tutte per i tipi di Congedo a Galatina:

Iscrizioni latine del Salento : Otranto, a cura di Antonio Corchia, 1992

Iscrizioni latine del Salento: Vernole e frazioni, Maglie, Casarano, a cura di L. Graziuso, E. Panarese, G. Pisano, 1884

Iscrizioni latine del Salento: Melendugno e Borgagne, Parabita, Tricase e frazioni, a cura di C. Mancarella , L. Barone, M. Monaco, 1996.

Iscrizioni latine del Salento: paesi del Capo di S. Maria di Leuca, a cura di A. Caloro, M. Monaco, F. Leonio, F. Fersini, 1998.

Iscrizioni latine del Salento: Galatone, Diso e Marittima, Andrano e Castiglione, Lizzanello, Collepasso, Tuglie, a cura di F. G. Cerfeda, D.Marina, M. Paturzo, V. Zacchino, 2000.

Iscrizioni latine del Salento: Trepuzzi, Squinzano, Cavallino, Galatina, a cura di

V. Vissicchio, E. Spedicato, M. E. De Giorgi, 2005.

L’iniziativa è senz’altro meritoria, ma, la sua collana, pur soddisfacente sul piano meramente documentario e, quindi, preziosa per riscontri e studi futuri, avrebbe meritato un apparato critico più ricco di quello che appare in più di un caso piuttosto superficiale, per non dire banale, e non privo di errori.

 

Pubblicato su Il delfino e la mezzaluna, nn. 4-5, agosto 2016

Il delfino e la mezzaluna. Numero doppio per i suoi estimatori

delfino e la mezzaluna

E’ pronto il doppio numero de “Il delfino e la mezzaluna”, ovvero gli studi della Fondazione Terra d’Otranto, diretto da Pier Paolo Tarsi.

Giunto al quarto anno, questa edizione si sviluppa in 314 pagine, per recuperare l’anno di ritardo, sempre in formato A/4, copertina a colori, fotocomposto e impaginato dalla Tipografia Biesse – Nardò, stampa: Press UP, con tematiche di vario genere inerenti le provincie di Lecce, Brindisi e Taranto.

Tanti gli Autori che ancora una volta hanno voluto offrire propri contributi inediti, e meritano tutti di essere elencati secondo l’ordine con cui appaiono nel volume, con il relativo saggio proposto:

Pier Paolo Tarsi, Editoriale

Angelo Diofano, Il fantastico mondo degli ipogei nel centro storico di Taranto

Sabrina Landriscina, La chiesa di Santa Maria d’Aurìo nel territorio di Lecce

Domenico Salamino, Prima della Cattedrale normanna, la chiesa ritrovata la città di Taranto altomedievale

Vanni Greco, Il “debito” di Dante Alighieri verso il dialetto salentino

Francesco G. Giannachi, Un relitto semantico del verbo greco-salentino Ivò jènome (γίνομαι)

Antonietta Orrico, Il Canticum Beatae Mariae Virginis di Antonio De Ferrariis Galateo, una possibile traduzione

Giovanni Boraccesi, Il Christus passus della patena di Laterza e la sua derivazione

Marcello Semeraro, Propaganda politica per immagini. Il caso dello stemma carolino di Porta Napoli a Lecce

Marino Caringella – Stefano Tanisi, Una santa Teresa di Ippolito Borghese nella chiesa delle Carmelitane Scalze di Lecce

Ugo Di Furia, Francesco Giordano pittore fra Campania, Puglia e Basilicata

Domenico L. Giacovelli, Nel dì della sua festa sempre mundo durante et in perpetuum. Il patronato della Regina del Rosario in un lembo di Terra d’Otranto

Stefano Tanisi, Il dipinto della Madonna del Rosario e santi di Santolo Cirillo (1689-1755) nella chiesa matrice di Montesardo. Storia di una nobile committenza

Armando Polito, Ovidio, Piramo e Tisbe e i gelsi dell’Incoronata a Nardò

Alessio Palumbo, Aradeo, moti risorgimentali e lotte comunali: dal Quarantotto al Plebiscito

Marcello Gaballo – Armando Polito, Dizionarietto etimologico salentino sulle malattie e stati parafisiologici della pelle, con alcune indicazioni terapeutiche presso il popolo di Nardò

Marco Carratta, Il mutualismo classico in Terra d’Otranto attraverso gli statuti delle Società Operaie (1861-1904)

Gianni Ferraris, Il Salento e la Lotta di liberazione

Gianfranco Mele, Il Papaver somniferum e la Papagna: usi magici/medicamentosi e rituali correlati dall’antichità al 1900. Dal mito di Demetra alle guaritrici del mondo contadino pugliese

Bruno Vaglio, Alle rupi di San Mauro una nuova stazione “lazzaro” di spina pollice. Considerazioni di ecologia vegetale dal punto di vista di un giardiniere del paesaggio

Riccardo Carrozzini, Il mio Eco

Pier Paolo Tarsi, L’antropologia linguistica della memoria narrata: uno sguardo filosofico all’opera di Giulietta Livraghi Verdesca Zain e Nino Pensabene

Arianna Greco, Arianna Greco e la sua arte enoica. Quando è il vino a parlare

Gianluca Fedele, Gli ulivi, la musica e i volti: intervista a Paola Rizzo

Epigraphica in Terra d’Otranto. L’epigrafe agostiniana nella chiesa dell’Incoronata di Nardò (Massimo Cala). L’epigrafe di Morciano di Leuca in via Ippolitis al civico n.6 (Armando Polito)

Segnalazioni. Il fonte di Raimondo del Balzo ad Ugento (Luciano Antonazzo). La Madonna col Bambino e sant’Anna di Gian Domenico Catalano (1560 ca. – 1627 ca.) in Ugento (Stefano Tanisi). Il pittore Aniello Letizia e le sue prime opere di committenza confraternale nella Gallipoli del ‘700 (Luciano Antonazzo – Antonio Faita). Le origini dell’oratorio confraternale di santa Maria degli Angeli, già sotto il titolo di santa Maria di Carpignano (Antonio Faita).

La foto di copertina è di Ivan Lazzari, ma numerose anche le immagini proposte all’interno, gentilmente  offerte da Stefano Crety, Khalil Forssane,  Vincenzo Gaballo, Walter Macorano, Raffaele Puce.

 

Gli interessati potranno chiederlo previo contributo di Euro 20,00 da versarsi a Fondazione Terra d’Otranto tramite bollettino di Conto corrente postale n° 1003008339 o bonifico tramite Poste Italiane IBAN: IT30G0760116000001003008339 (indicare il recapito presso cui ricevere  la copia).

Per ulteriori informazioni scrivere a: fondazionetdo@gmail.com

Il delfino e la mezzaluna. Si presenta oggi il terzo numero

Il  delfino e la mezzaluna

Sarà presentato oggi, alle ore 10.30, presso la chiesa di San Domenico a Nardò, il terzo numero della rivista della Fondazione Terra d’Otranto “Il delfino e la mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto“.

Saranno gli stessi Autori a presentare il proprio saggio, coordinati dal direttore della rivista Pier Paolo Tarsi.

Particolarmente ricco questo numero, che si sviluppa in 256 pagine,  tutte dedicate alla Terra d’Otranto, dalla preistoria ai nostri giorni. In formato A/4, con copertina cartonata, offre al lettore anche alcune selezioni fotografiche di alcuni validi collaboratori: Fabrizio Arati, Maurizio Biasco, Stefano Cretì, Ivan Lazzari e Mauro Minutello.

Come per i precedenti numeri, la rivista non è in commercio, essendo riservata ai soci e simpatizzanti della Fondazione, che potranno ritirarla in questa occasione. Chi non potrà intervenire può richiederla a info@fondazioneterradotranto.it, versando un contributo volontario tramite conto corrente postale o tramite bonifico. Per i soli soci è previsto anche il dono di una delle pubblicazioni finora edite dalla Fondazione.

Iscritta con numero 17 al Registro della Stampa del Tribunale di Lecce, la rivista è inserita nel catalogo delle pubblicazioni periodiche con codice ISSN 2200-1847. E’ premura della Fondazione, come già successo per i precedenti numeri, di depositarne copia, oltre quelle legali previste per legge, presso le principali biblioteche italiane.

Questi i saggi pubblicati, oltre l’Editoriale del Direttore:

Mariangela Sammarco, Sul santuario rupestre di Santa Maria della Rutta ad Acquarica del Capo (Lecce) : epigrafi, segni e simboli devozionali

Domenico Salamino, Il capitello dell’aquila leporaria nella cattedrale di Taranto: l’itinerario contemplativo dell’anima

Francesco G. Giannachi, Classificazione delle forme verbali perifrastiche del perfetto e del piuccheperfetto usate dagli ellenofoni di Terra d’Otranto

Giovanna Falco, Mario de Raho, cavaliere leccese della Militia Christiana dell’Immacolata Concettione

Domenico L. Giacovelli, Vulnerasti cor meum in uno oculorum tuorum. Riflessioni su un devoto dipinto francescano

Stefano Tanisi, Nuove acquisizioni pittoriche per fra’ Angelo da Copertino (1609-1685 ca.). La Comunione di san Girolamo nella cattedrale di Nardò

Elio Ria, L’arciprete di Lucugnano

Marino Caringella, Un Sellitto misconosciuto tra i “Capolavori dei Girolamini a Lecce”

Ugo Di Furia, Opere inedite in terra salentina di Antonia e Teresa Palomba, sorelle pittrici

Gian Paolo Papi, Dal Salento alla Valnerina: una vicenda, un pittore, due tele

Rosario Quaranta, Francesco De Geronimo e la rapida diffusione della fama di santità e delle gesta meravigliose nei paesi del Nord Europa

Luciano Antonazzo, La cappella ed il dipinto dell’Immacolata coi santi apostoli Pietro e Paolo dell’antica parrocchiale della Trasfigurazione di Taurisano

Maurizio Nocera, Dal mito di Aracne al rito del tarantismo

Marcello Gaballo – Armando Polito, L’obelisco di Porta Napoli a Lecce

Rocco Boccadamo, A Giorgio Cretì: ciao, fratello cantastorie!

Cosimo Barbaro, La fondazione dello spazio funebre nell’Ottocento in Terra d’Otranto

Francesco Tarantino, Maglie “città di giardini”

Gianni Ferraris, A colloquio con Mario Perrotta, per parlare di teatro e di Salento

Restauri. Lavori di restauro di due dipinti su tela della chiesa matrice di Muro Leccese (Alessandra Coppola – Francesca Romana Melodia)

Epigraphica in Terra d’Otranto. L’antico orgoglio di Minervino di Lecce (Armando Polito)

Araldica in Terra d’Otranto. Uno stemma carmelitano a Lecce (Lucia Lopriore)

Segnalazioni. Eugenio Maccagnani e due statue di san Pietro e san Paolo (Valentina Pagano)

Miscellanea. Sei francobolli per ricordare il sesto centenario della Cattedrale di Nardò e della Civitas Neritonensis (Marcello Gaballo)

Edizioni della Fondazione Terra d’Otranto

 

Elio RiaE’ sempre meriggio nel Sud

 

Ordina le nostre pubblicazioni

copertinadelfino bassa risoluzione

Il delfino e la mezzaluna n°1 – 2012

contributo di Euro 15,00 (comprese spese di spedizione)*

Il Delfino e la Mezzaluna per la Fondazione Terra d’Otranto

Ordina


copertina 02

Il delfino e la mezzaluna n°2 – 2013

contributo di Euro 15,00 (comprese spese di spedizione)*

Il Delfino e la Mezzaluna per la Fondazione Terra d’Otranto

Ordina


copertina 03

Il delfino e la mezzaluna n°3 – 2014

contributo di Euro 15,00 (comprese spese di spedizione)*

Il Delfino e la Mezzaluna per la Fondazione Terra d’Otranto

Ordina


 

copertina 03

La Cattedrale di Nardò – 2012

contributo di Euro 2,50 (comprese spese di spedizione)*

La Cattedrale di Nardò

Ordina


 

copertina 03

Pietro Marti (1863-1933) Cultura e Giornalismo in Terra d’Otranto, Fondazione Terra d’Otranto – 2013

contributo di Euro 13,00 (comprese spese di spedizione)*

Pietro Marti (1863-1933) Cultura e Giornalismo in Terra d’Otranto, Fondazione Terra d’Otranto

Ordina


 

copertina 03

Gli argenti della Cattedrale di Nardò

contributo di Euro 25,00 (comprese spese di spedizione)*

Gli argenti della Cattedrale di Nardò

Ordina


 

copertina 03

Salvatore Napoli Leone. Genio in Terra d’Otranto

contributo di Euro 30,00 (comprese spese di spedizione)*

Salvatore Napoli Leone. Genio in Terra d’Otranto

Ordina


 

copertina 03

La chiesa e la confraternita di San Giuseppe a Nardò

contributo di Euro 20,00 (comprese spese di spedizione)*

La chiesa e la confraternita di San Giuseppe a Nardò

Ordina


 

copertina 03

Ortelle e dintorni. Giorgio Cretì e i suoi Pòppiti

contributo di Euro 22,00 (comprese spese di spedizione)*

Ortelle e dintorni. Giorgio Cretì e i suoi Pòppiti

Ordina


 

copertina 03

Sancta Maria de Nerito. Arte e devozione nella Cattedrale di Nardò (1413-2013)

contributo di Euro 40,00 (comprese spese di spedizione)*

Sancta Maria de Nerito. Arte e devozione nella Cattedrale di Nardò (1413-2013)

Ordina


* la Fondazione reinveste il tuo contributo per altre edizioni a stampa dedicate alla Terra d’Otranto.

Il delfino e la mezzaluna. Ecco il terzo numero

Il delfino e la mezzaluna

Sarà presentato domenica 7 dicembre, alle ore 10.30, presso la chiesa di San Domenico a Nardò, il terzo numero della rivista della Fondazione Terra d’Otranto “Il delfino e la mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto“.

Saranno gli stessi Autori a presentare il proprio saggio, coordinati dal direttore della rivista Pier Paolo Tarsi.

Particolarmente ricco questo numero, che si sviluppa in 256 pagine,  tutte dedicate alla Terra d’Otranto, dalla preistoria ai nostri giorni. In formato A/4, con copertina cartonata, offre al lettore anche alcune selezioni fotografiche di alcuni validi collaboratori: Fabrizio Arati, Maurizio Biasco, Stefano Cretì, Ivan Lazzari e Mauro Minutello.

Come per i precedenti numeri, la rivista non è in commercio, essendo riservata ai soci e simpatizzanti della Fondazione, che potranno ritirarla in questa occasione. Chi non potrà intervenire può richiederla a info@fondazioneterradotranto.it, versando un contributo volontario tramite conto corrente postale o tramite bonifico. Per i soli soci è previsto anche il dono di una delle pubblicazioni finora edite dalla Fondazione.

Iscritta con numero 17 al Registro della Stampa del Tribunale di Lecce, la rivista è inserita nel catalogo delle pubblicazioni periodiche con codice ISSN 2200-1847. E’ premura della Fondazione, come già successo per i precedenti numeri, di depositarne copia, oltre quelle legali previste per legge, presso le principali biblioteche italiane.

Questi i saggi pubblicati, oltre l’Editoriale del Direttore:

Mariangela Sammarco, Sul santuario rupestre di Santa Maria della Rutta ad Acquarica del Capo (Lecce) : epigrafi, segni e simboli devozionali

Domenico Salamino, Il capitello dell’aquila leporaria nella cattedrale di Taranto: l’itinerario contemplativo dell’anima

Francesco G. Giannachi, Classificazione delle forme verbali perifrastiche del perfetto e del piuccheperfetto usate dagli ellenofoni di Terra d’Otranto

Giovanna Falco, Mario de Raho, cavaliere leccese della Militia Christiana dell’Immacolata Concettione

Domenico L. Giacovelli, Vulnerasti cor meum in uno oculorum tuorum. Riflessioni su un devoto dipinto francescano

Stefano Tanisi, Nuove acquisizioni pittoriche per fra’ Angelo da Copertino (1609-1685 ca.). La Comunione di san Girolamo nella cattedrale di Nardò

Elio Ria, L’arciprete di Lucugnano

Marino Caringella, Un Sellitto misconosciuto tra i “Capolavori dei Girolamini a Lecce”

Ugo Di Furia, Opere inedite in terra salentina di Antonia e Teresa Palomba, sorelle pittrici

Gian Paolo Papi, Dal Salento alla Valnerina: una vicenda, un pittore, due tele

Rosario Quaranta, Francesco De Geronimo e la rapida diffusione della fama di santità e delle gesta meravigliose nei paesi del Nord Europa

Luciano Antonazzo, La cappella ed il dipinto dell’Immacolata coi santi apostoli Pietro e Paolo dell’antica parrocchiale della Trasfigurazione di Taurisano

Maurizio Nocera, Dal mito di Aracne al rito del tarantismo

Marcello Gaballo – Armando Polito, L’obelisco di Porta Napoli a Lecce

Rocco Boccadamo, A Giorgio Cretì: ciao, fratello cantastorie!

Cosimo Barbaro, La fondazione dello spazio funebre nell’Ottocento in Terra d’Otranto

Francesco Tarantino, Maglie “città di giardini”

Gianni Ferraris, A colloquio con Mario Perrotta, per parlare di teatro e di Salento

Restauri. Lavori di restauro di due dipinti su tela della chiesa matrice di Muro Leccese (Alessandra Coppola – Francesca Romana Melodia)

Epigraphica in Terra d’Otranto. L’antico orgoglio di Minervino di Lecce (Armando Polito)

Araldica in Terra d’Otranto. Uno stemma carmelitano a Lecce (Lucia Lopriore)

Segnalazioni. Eugenio Maccagnani e due statue di san Pietro e san Paolo (Valentina Pagano)

Miscellanea. Sei francobolli per ricordare il sesto centenario della Cattedrale di Nardò e della Civitas Neritonensis (Marcello Gaballo)

Edizioni della Fondazione Terra d’Otranto

 

Elio RiaE’ sempre meriggio nel Sud

 

La chiesa madre di Casarano: nuove ipotesi e brevi annotazioni

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, interno, navata principale (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, interno, navata principale (ph Maura Lucia Sorrone)

di Maura Sorrone

 

La chiesa madre di Casarano, dedicata a Maria Santissima Annunziata, è da annoverarsi tra i monumenti più rilevanti del barocco salentino.

Tra gli studi sulla chiesa, si ricordano soprattutto le pubblicazioni inerenti le opere pittoriche: il saggio di Mimma Pasculli Ferrara che ha analizzato le sei tele di Oronzo Tiso[1], quello di Michele Paone del 1980[2] e l’inventario dei dipinti curato da Lucio Galante nel 1993[3].

La chiesa fu edificata tra la fine del XVII e i primi decenni del secolo successivo, in seguito all’abbattimento di un edificio precedente, scelta da imputarsi probabilmente alla crescita demografica del paese.

Il progetto, o quantomeno l’esecuzione materiale dei lavori, in precedenza attribuiti ipoteticamente al clan dei Margoleo[4], sembra invece da riferirsi più correttamente alla famiglia De Giovanni, costruttori originari di Galatina. Infatti fu Angelo De Giovanni, ha lasciare il suo nome in un epigrafe ben in vista sulla facciata principale della chiesa.[5] La scelta di maestranze galatinesi ci autorizza a ritenere ancora una volta questo paese del Salento tra i centri più significativi per l’edilizia barocca della provincia[6]. Sicuramente, le tante botteghe presenti sul territorio[7] furono in grado di favorire, in modo diverso, la diffusione di modelli che dai centri principali ben presto entrarono a far parte della cultura architettonica delle periferie, facendo così diventare il barocco da leccese a salentino[8].

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare di S. Antonio, part. epigrafe dopo il restauro (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare di S. Antonio, part. epigrafe dopo il restauro (ph Maura Lucia Sorrone)

La chiesa, a croce latina, ha una pianta longitudinale. La facciata principale, alquanto semplice, presenta il portale arricchito da una decorazione a punta lanceolata, motivo utilizzato di frequente da Giuseppe Zimbalo e con lui entrato nella cultura tipica dell’arte salentina fino al Settecento inoltrato[9].

All’interno si possono ammirare opere risalenti a periodi diversi quasi a testimoniare il cambiamento di gusto e le scelte operate dai diversi committenti. Innanzitutto, come accennato in precedenza, la chiesa attuale ha sostituito quella precedente, ma alcune opere realizzate per la vecchia matrice furono trasferite nella nuova costruzione. Hanno generato maggior confusione le poche e scarne notizie su un probabile acquisto fatto a Lecce nel 1874 dal Reverendo don Giuseppe De Donatis[10] che portò a Casarano diversi altari provenienti dalla chiesa di San Francesco della Scarpa a Lecce[11]. Anche se non abbiamo forti testimonianze documentarie che ci permettano di attestare certamente quali siano le opere provenienti dalla vecchia chiesa e neppure precise carte documentarie che attestino l’acquisto del 1874, i restauri degli ultimi anni sembrano dare corpo ad alcune ipotesi, in questa sede soltanto brevemente segnalate[12].

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, altare di S. Antonio part. epigrafe prima del restauro (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, altare di S. Antonio part. epigrafe prima del restauro (ph Maura Lucia Sorrone)

Ponendoci di fronte all’altare maggiore è facile percorrere con lo sguardo l’intera navata. A sinistra, vicino al portale d’ingresso è collocato l’Altare di Sant’Antonio di Padova (primo decennio del XVIII secolo), nel quale vi è la statua lapidea del santo. Durante gli ultimi lavori di restauro è stata scoperta un’iscrizione prima d’ora completamente sconosciuta. Si tratta di un’epigrafe per ricordare Giuseppe Grasso che restaurò quest’altare, un tempo dedicato ai re magi, intitolandolo al santo di Padova[13]. Nessuno conosceva queste parole completamente nascoste dal responsorio latino, (si quaeris miracula), che si ripete nella preghiera dedicata al santo di Padova e trascritto in un clipeo dell’altare.

A mio avviso, Giuseppe Grasso è lo stesso benefattore che nel 1713 ha lasciato il suo nome sull’altare dell’Immacolata nella matrice di Ruffano. Com’è stato ricordato di recente[14] si tratta di un noto personaggio appartenente ad una famiglia di medici. Da Ruffano ben presto egli si trasferì a Lecce diventando, a quanto ci dicono le fonti, il medico di fiducia del vescovo Pignatelli[15].

È piuttosto insolito che un’ epigrafe in memoria di un illustre benefattore, tanto generoso da impegnarsi a finanziare un intervento di restauro, sia stata volutamente coperta mentre di solito è consuetudine ricordare gli interventi di restauro con epigrafi e iscrizioni ben visibili sulle pareti delle chiese salentine, sugli altari e sulle tele dipinte. Credo che sia più corretto leggere la scelta di modificare l’iscrizione nell’ottica di un vero e proprio riutilizzo dell’altare che, provenendo da un’altra chiesa, doveva essere adattato a un altro luogo entrando nella vita di una nuova comunità di fedeli. Inoltre, nelle carte documentarie dell’archivio parrocchiale non sembrano esserci riferimenti a questo facoltoso medico. Dunque, l’altare potrebbe essere uno di quelli provenienti dalla chiesa di San Francesco della Scarpa. Anche per quanto riguarda l’intitolazione originaria non sembra esserci stato nelle diverse chiese matrici di Casarano alcun altare dedicato ai Magi né al Presepe. Tematiche più solitamente vicine alla religiosità francescana. È possibile dunque che l’epigrafe modificata e la statua di Sant’Antonio siano state assemblate al nuovo altare dopo il 1874[16].

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, interno, part. navata e tela di O. Tiso (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, interno, part. navata e tela di O. Tiso (ph Maura Lucia Sorrone)

Per cercare di capire le scelte fatte, in assenza di precise carte documentarie, credo che si debba considerare la tematica del riutilizzo di parti o intere strutture d’altare che, entrate in questa chiesa devono aver integrato o rinnovato gli altari che qui già esistevano o che si scelse di creare ex novo perché segno di una particolare devozione del territorio, come abbiamo visto per Sant’Antonio.

Tornando alla nostra breve visita in chiesa, segue all’altare del Santo di Padova, quello dedicato all’Immacolata e poi ancora il pulpito ligneo del 1761 e l’organo a canne realizzato dieci anni dopo[17].

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare delle Anime Sante del Purgatorio (sin.) e altare del Rosario (d.) (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare delle Anime Sante del Purgatorio (sin.) e altare del Rosario (d.) (ph Maura Lucia Sorrone)

Nella navata destra si susseguono l’Altare dell’Incoronazione della Vergine, quello del Rosario che al centro conserva la tela omonima dipinta da Gian Domenico Catalano[18] e l’altare dedicato alle Anime del Purgatorio. Quest’opera, realizzata entro il 1660[19] fu voluta dal Chierico Giovanni D’Astore.

Sebbene realizzato per la chiesa precedente, quest’altare insieme  al dipinto posto al centro, è frutto di una scelta unitaria da parte del committente e, nonostante i diversi spostamenti subiti all’interno della chiesa, il dipinto e la struttura architettonica sono state mantenute insieme. I lavori di realizzazione furono affidati a Donato Antonio Chiarello per la scultura e a Giovanni Andrea Coppola per la tela dipinta[20].

Ricordiamo tra l’altro che lo scultore copertinese in questi stessi anni realizza a Casarano l’altare maggiore nella chiesa della Madonna della Campana.[21]

Altri tre altari sono posti nel transetto: quello dell’Annunciazione, realizzato entro il 1829 dal capomastro Vito Carlucci[22] (a destra), e a sinistra quello dedicato a San Giovanni Elemosiniere, mentre l’Altare dell’Assunta è collocato in cornu epistolae.

L’Altare dedicato al protettore del paese, è frutto di diversi adattamenti. La nicchia posta al centro è stata modificata dall’aggiunta di due colonne, accorgimento utilizzato probabilmente per adattare lo spazio, in precedenza destinato ad ospitare un dipinto, alla statua ottocentesca (fig. 7). Nelle visite pastorali e nello scrupoloso lavoro fatto da Chetry, si cita più volte un altare dedicato al Crocifisso, presente in chiesa dal primo decennio del XVIII secolo fino al 1799[23]. Quest’intitolazione certamente sembra essere più consona agli angeli scolpiti in basso che reggono i simboli della Passione.

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare di San Giovanni, part. (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare di San Giovanni, part. (ph Maura Lucia Sorrone)

L’altare dedicato all’Assunzione della Vergine, datato 1740, appartiene invece a un altro ramo della già citata famiglia D’Astore[24]. Questa struttura ha sostituito un’altra più antica attestata in chiesa fin dal 1719. L’altare, bell’esempio di scultura barocca, si caratterizza per gli angioletti scolpiti che letteralmente invadono lo spazio della scena, dipinta quasi due secoli prima dal pittore neretino Donato Antonio D’Orlando (fig. 9). La tela sicuramente fu richiesta da un’altra committenza data la discordanza degli emblemi visibili. Quello dei D’Astore presente nella macchina d’altare, precisamente  nei plinti alla base delle colonne, è diverso da quello visibile nel dipinto (fig. 10).

Al 1634 risale la tela del Miracolo di San Domenico di Soriano. Essa è parte restante di un altare documentato in questa chiesa fino al 1910. L’opera è adesso collocata nel transetto sinistro, di fronte all’altare dell’Assunta. L’anno di esecuzione e il monogramma del pittore[25] sono stati recuperati durante il recente restauro. Nel transetto destro, di fronte alla cappella novecentesca in cui è riposto il SS. Sacramento, vi è la tela raffigurante la Pentecoste, attribuita ad un pittore di cultura emiliana[26] probabilmente del XVII secolo.

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, part. Altare di S. Giovanni Elemosiniere (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, part. Altare di S. Giovanni Elemosiniere (ph Maura Lucia Sorrone)

A questa veloce descrizione si vuole aggiungere la segnalazione di alcune sculture e architetture attualmente collocate nel cimitero comunale. Si tratta precisamente di due trabeazioni decorate con motivi fogliati e di quattro statue. Non c’è dubbio che le due trabeazioni siano parte dell’architettura di un altare così come una delle statue, raffigurante Sant’Oronzo. Quest’ultima, come possiamo vedere dalle fotografie, sembra essere stata staccata da un altare. Infatti, la figura, anche se è molto danneggiata, mostra un intaglio carico di particolari nella parte frontale, a differenza del retro, in cui la pietra, piatta, è lasciata completamente allo stato grezzo.

Si può ipotizzare che, in seguito alle modifiche di fine Ottocento, l’altare sia stato smembrato e alcune parti siano state trasportate nel cimitero comunale edificato proprio alla fine di questo secolo.

Ad ogni modo, dopo i recenti interventi di restauro si spera che un nuovi studi possano chiarire le vicende storico – artistiche di una delle principali chiese del Settecento in Terra d’Otranto[27].

 

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare dell'Assunta, tele di D. A. D'Orlando (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare dell’Assunta, tele di D. A. D’Orlando (ph Maura Lucia Sorrone)

 

Pubblicato su Il delfino e la mezzaluna n°2, cui si rimanda per la bibliografia, fonti archivistiche e sitografia

 


[1] Oltre alle sei tele conservate nella matrice, la studiosa ha analizzato quelle conservate nella chiesa confraternale dell’Immacolata e quelle della cappella della famiglia Valente. M. PASCULLI FERRARI, Oronzo Tiso, Bari 1976.

[2] M. PAONE, I Tiso di Casarano, in A. DE BERNART,  Paesi e figure del vecchio Salento, Casarano, vol. I, Galatina 1980, pp. 258 – 272.

[3] Regione Puglia Assessorato Pubblica Istruzione C.R.S.E.C. LE/46 Casarano, Pittura in Terra d’Otranto, (secc. XVI – XIX), Inventario dei dipinti delle chiese di Acquarica del Capo, Alliste, Felline (fra. di Alliste), Casarano, Matino, Melissano, Parabita, Presicce, Racale, Ruffano, Torre Paduli (fraz. di Ruffano), Supersano, Taurisano, Ugento, Gemini (fraz. di Ugento), a cura di L. Galante, Galatina 1993.

[4] Questa ipotesi probabilmente nasce per la somiglianza della chiesa casaranese con la vicina chiesa madre di Ruffano realizzata dai fratelli Ignazio e Valerio Margoleo. Sulla chiesa di Ruffano: A. DE BERNART – M. CAZZATO, Ruffano: una chiesa, un centro storico, Galatina 1989; V. CAZZATO – S. POLITANO,  Topografia di Puglia: atlante dei monumenti trigonometrici : chiese, castelli, torri, fari, architetture rurali, Galatina 2001, cit. p. 238.

[5]M. L. SORRONE, Alcune note sulla chiesa madre di Casarano, in “Fondazione Terra d’Otranto”, 23 novembre 2012 https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/11/23/annotazione-sulla-chiesa-madre-di-casarano/.

[6] M. CAZZATO, L’area galatinese: storia e geografia delle manifestazioni artistiche, in: M. CAZZATO, A. COSTANTINI, V. ZACCHINO, Dinamiche storiche di un’area del Salento, Galatina 1989, pp. 260 – 366.

[7] Si ricordano tra gli altri: l’artista neretino Giovanni Maria Tarantino che nel 1576 firma il portale della chiesa di San Giovanni Elemosiniere a Morciano, Pietro Antonio Pugliese, che lavorò alla chiesa di Santa Caterina Novella di Galatina intorno al 1619 e l’architetto leccese Giuseppe Cino, autore  di numerose opere a Lecce e nel Salento che, a quanto dicono i documenti, aveva stretti legami lavorativi con i suoi fratelli, che ricoprivano il ruolo di <<costruttori>>, cfr. M. PAONE, Per la storia del barocco leccese, estr. da “Archivio storico pugliese”, 35 (1982), fasc. 1, cit. p. 141.

[8] M. CAZZATO, L’area galatinese…, cit. p. 330.

[9] F. ABBATE, Storia dell’arte Meridionale, Il secolo d’oro, Roma 2002, p. 267.

[10] Il Reverendo Giuseppe De Donatis commissionò anche il restauro della tela di Oronzo Tiso, San Giovanni che distribuisce l’Eucarestia ai fedeli, (a sinistra, dietro il presbiterio). Intervento ricordato da un’iscrizione posta in basso a sinistra sulla tela, si veda: L. GRAZIUSO – E. PANARESE – G. PISANO’, Iscrizioni latine del Salento. Vernole e frazioni, Maglie, Casarano, Galatina 1994, p. 139.

[11] G. BARRELLA, La chiesa di San Francesco della Scarpa in Lecce, Lecce 1921, p. 28; C. DE GIORGI, La provincia di Lecce – Bozzetti di viaggio, Galatina 1975, vol. II, p. 153; A. CHETRY, Spigolature casaranesi, I, La chiesa matrice di Casarano, ed. a cura dell’Amministrazione comunale di Casarano, Casarano 1990, p. 11.

[12] Queste brevi segnalazioni vogliono essere un preambolo ad un lavoro più dettagliato che chi scrive sta svolgendo.

[13] <<DANT. O  PATAVINO/ SERAFICA FAMILIAE P.P SIDERI FULGENTISS.O/ SACELLUM OLIM REGIBUS AD PRAESEPE VENIETIB(US)/ SACRUM IOSEPH GRASSUS VETUSTATE COLLAPS(US)/ DICAVIT: UT SI ILLI QUONDAMSTELLA DUCE IAM/ DEUM HOMINEM NORUNT: TANTI NUNC/ SIDERIS LUMNEM DEUM SIBI NOSCAT/ PROPITIATOREM>>, trad. <<A Sant’Antonio di Padova astro fulgentissimo tra i presbiteri della famiglia serafica Giuseppe Grasso ha dedicato questo altare rovinato dagli anni un tempo (dedicato) ai re (magi) diretti al presepe affinché come loro un tempo guidati dalla stella hanno già conosciuto il Dio uomo, così ora alla luce del Santo Astro, Dio gli si mostri propizio>>.  Traduzione a cura di G. Pisanò, F. Danieli e don Agostino Bove. In queste sede voglio ricordare con affetto il mio prof. Gino Pisanò scomparso nei giorni di revisione di questo saggio.

[14] A. DE BERNART, I Grassi di Ruffano: una famiglia di medici, estr. da “Nuovi Orientamenti”, 12 n. 71, Cutrofiano 1981, A. DE BERNART – M. CAZZATO, Ruffano…, Galatina 1989, p. 37.

[15] S. TANISI, Visita alla chiesa della Natività della Vergine di Ruffano, in “Fondazione Terra d’Otranto”, 17 luglio 2012,

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/07/17/visita-alla-chiesa-della-nativita-della-vergine-di-ruffano-lecce/.

[16] A Casarano è ben documentato il culto di Sant’Antonio da Padova, al quale era intitolata una cappella, cfr. ACVN, Atti delle visite pastorali, Mons. Antonio Sanfelice, anno 1711, A/52. È probabile che una volta dismessa questa, la statua in pietra del santo sia stata trasferita nella chiesa madre.

[17] Al centro si legge: D.O.M. / A. D./ MDCCLXXI.

[18] Attivo negli anni 1604 – 1628.

[19] <<[…] per sua devott.ne a sue proprie spese novam.te have eretto, et edificato una cappella sotto il titulo dell’Anime del Purgatorio dentro la Matrice chiesa di […] Casarano dalla parte destra nell’entrare dalla porta grande d’essa chiesa et proprio dove stava prima il quadro di s. Trifone, nella quale anco a sue proprie spese vi ha fatto un quadro delle dette Anime del Purgatorio…>>. ASLe, Protocolli notarili, notaio Marc’Antonio Ferocino, anno 1660, f. 138, 20/3, Archivio di Stato, Lecce.

[20] V. CAZZATO, Il Barocco leccese, Bari 2003, p. 99; V. CAZZATO – S. POLITANO, L’altare barocco nel Salento: da Francesco Antonio Zimbalo a Mauro Manieri, in Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e la Spagna, Roma 2007, catalogo della mostra, pp. 107 – 129, cit. pp. 113 – 114. La tela fu inizialmente commissionata a Giovanni Andrea Coppola, ma egli non riuscì a portare a termine l’opera che dopo la sua morte fu completata dal pittore Fra’ Angelo da Copertino. Il dipinto è stato restaurato dalla dott.ssa Luciana Margari. Sulla vicenda si segnala un recente articolo di S. TANISI, La tele delle Anime del Purgatorio di Casarano: due autori per un dipinto, in “Fondazione Terra d’Otranto”, 10 gennaio 2012, https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/01/la-tela-delle-anime-del-purgatorio-di-casarano-due-autori-per-un-dipinto/.

[21]V. CAZZATO – S. POLITANO, L’altare…, cit. p. 114.

[22] Sull’altare si legge: Vito Carlucci e figli (Muro leccese) mentre sulla tela è presente l’anno di esecuzione: 1829.

[23] ACVN, Atti delle Visite Pastorali, mons. Antonio Sanfelice, anno 1719, b. A/77;  A. CHETRY, Spigolature…, cit. p. 27 e p. 41. Anche quest’altare, nella sua architettura originaria, fu commissionato dalla famiglia D’Astore.

[24]L. GRAZIUSO – E. PANARESE – G. PISANO’, Iscrizioni …, cit. p. 127: << Gentilicium familiae de Astore sacellu[m] hoc/ deiparae in coelum evectae dicatum ac benef[icio]/ [a] notaro qu[o]nda[m] Antonio Vergaro fu[n]d[a]tore donatum/ cl. Vitus Antonius De Astore ex matre pronep.[os]/ excitandu[m] curavit anno reparati orbis/ MDCCXL>>, <<Questo altare gentilizio della famiglia d’Astore, dedicato alla Madonna Assunta in Cielo e dotato di un beneficio dal defunto notaio Vergari, il signor Vito Antonio d’Astore, pronipote da parte di madre, fece erigere nell’anno della redenzione del mondo 1740>>.

[25]ORT. BR. NER. 1634, (Ortensio Bruno Neritonensis). Altri dipinti sono accompagnati da questo stesso monogramma, pensiamo alla tela dell’Immacolata nella chiesa di Santa Lucia a Taviano e al dipinto raffigurante il Miracolo di Soriano nella chiesa matrice di Racale. In queste opere per l’abbreviazione della provenienza si legge “N. US” e non “NER.” (neritonensis), cfr. L. GALANTE, Pittura…, cit. p. 11 e nota n. 23 a p. 20. Si veda anche: A. SERIO – G. SANTANTONIO, Racale: note di storia e costume, Galatina 1983.

[26] L. GALANTE, Pittura…, fig.74 senza numero di pagina.

[27] Ringrazio sentitamente il parroco, don Agostino Bove, per la disponibilità e per avermi permesso di fotografare la  chiesa.

Appello per due chiese abbandonate a Taurisano

 

Taurisano, Oratorio don Bosco, Ruderi della chiesa di san Donato
Taurisano, Oratorio don Bosco, Ruderi della chiesa di san Donato

di Stefano Cortese

 

All’interno dell’oratorio di san Giovanni Bosco a Taurisano (Lecce), in fondo a destra, si notano i ruderi di un’antica chiesetta dedicata a san Donato, probabilmente edificio di culto non di un insediamento specifico, ma punto di riferimento per un popolamento sparso[1].

Oggi è del tutto scomparsa la facciata dell’edificio, mentre rimangono in piedi parte dei muri perimetrali e soprattutto la zona absidale, elemento che ci consente di datare l’impianto originario della fabbrica. L’abside, infatti, si presenta di forma semicircolare all’interno e poligonale all’esterno, proprio come nelle chiese costruite intorno al VI secolo, di chiara derivazione costantinopolitana (tra tutte, la chiesa del monastero di san Giovanni in Studion o Studios, edificata nel 463 a Costantinopoli). Per avere un esempio, basta percorrere qualche chilometro e notare l’abside rettangolare, decisamente aggettante, di santa Maria della Croce (conosciuta come Casaranello) a Casarano, oppure, per un confronto più aderente, la chiesa di santa Eufemia a Specchia, sul sito dell’antico insediamento romano di Grassano. Con quest’ultima, grazie all’ausilio di vecchie foto, possiamo riscontrare altre analogie, tra cui la copertura a doppia falda con embrici e il fronte molto affine (forse leggermente più dilatato a Specchia), caratterizzato dalla bifora con colonnetta al centro, sopra la porta di ingresso. Le differenze sembrano minime: il portale lunettato e le dimensioni generali leggermente ridotte a Taurisano, tanto che nell’abside è presente una finestra con arco a tutto sesto (arco identico alla bifora in facciata). Possiamo supporre che anche l’interno dovesse essere simile, con la variante che in pieno medioevo la chiesa di santa Eufemia da navata unica divenne a tre navate, con l’aggiunta di quattro serie di triplici arcate[2]. Altro elemento peculiare è il reimpiego di materiale di spoglio proveniente da edifici antichi, adoperato nell’inquadramento del portale sino ai grandi blocchi perimetrali.

Taurisano, Oratorio don Bosco, Ruderi della chiesa di san Donato
Taurisano, Oratorio don Bosco, Ruderi della chiesa di san Donato

Nella piccola chiesa di Taurisano, pur essendo andata distrutta la facciata, sono ancora visibili dei grandi conci che costituiscono i cantonali della struttura, qui collocati per evidenti fini statici; è chiara, tuttavia, l’irregolarità della tessitura muraria, come in numerosi edifici di culto coevi (solo Casaranello pare avesse conci cavati ad hoc e non di reimpiego), mentre solo nella zona absidale il tessuto murario si rende più regolare ed uniforme.

Non può mancare un cenno su quanto è dipinto nell’abside taurisanese e soprattutto sull’iscrizione che corre sotto il catino della chiesa paleocristiana, in ogivale maiuscola di color rosso, non esegetica di un santo campito, bensì del committente; Marina Falla Castelfranchi[3] la segnala, confrontandola con i soli due casi analoghi in Italia. Probabilmente la datazione dell’iscrizione di Taurisano va dal XII al XIII secolo, lo stesso periodo cui può farsi risalire la figura del possibile committente, che appare di dimensioni ridotte, in ginocchio, con le braccia sollevate verso l’alto.

Taurisano, vico Risorgimento, Ruderi della chiesa di san Nicola di Mira, particolare copertura
Taurisano, vico Risorgimento, Ruderi della chiesa di san Nicola di Mira, particolare copertura

Una più facile lettura consente l’ultimo strato campito, delimitato da cornice floreale, che nella parte più alta mostra l’Eterno Padre, assiso su nubi, che regge con la mano sinistra il globo; a destra del Padre si intravede un santo con mitra e pastorale, riproducente con molta probabilità il titolare san Donato. Più in basso è visibile, su di uno strato presumibilmente cinquecentesco, una chiesa, forse residuo iconografico di una Madonna di Costantinopoli o di Loreto; altri due strati sono visibili in prossimità della finestra absidale, su cui si intravedono alcune lettere.

Taurisano, vico Risorgimento, Ruderi della chiesa di san Nicola di Mira, affresco dell'Annunciazione
Taurisano, vico Risorgimento, Ruderi della chiesa di san Nicola di Mira, affresco dell’Annunciazione

Le tracce degli affreschi documentano l’importanza nel corso dei secoli dell’edificio, fortemente tenuto in considerazione dalla popolazione locale che qui eseguiva le inumazioni dei morti per pestilenza o altre malattie infettive[4].

L’augurio è che si intervenga quanto prima per consolidare i ruderi, magari favorendo scavi sistematici che consentano di conoscerne la storia.

Sempre nel centro storico di Taurisano, nel vico Risorgimento, Salvatore Rocca[5] ha riportato l’esistenza dell’ex edificio sacro intitolato a san Nicola, segnalando le condizioni deplorevoli. L’esterno presenta una copertura a due falde coperte da coppi, mentre l’interno custodisce delle pitture sotto l’intonaco. È riconoscibile la Vergine che indossa il maphorion, col capo reclinato in prossimità dell’apertura originaria, probabilmente un’Annunciazione da ascrivere al XIV secolo; a sinistra della Vergine infatti, leggermente più in basso, si intravede un altro nimbo, che fa pensare all’Arcangelo. Situazioni similari si sono ritrovate in edifici coevi come la cripta di sant’Antonio Abate a Nardò, quella di san Marco a Ruffano e il santuario di santa Maria della Lizza ad Alezio. Altre tracce pittoriche sono visibili in prossimità dell’abside, forse un santo vescovo. La cappella, di proprietà privata, è stata interessata di recente dal parziale crollo della copertura.

 

Pubblicato su Il delfino e la mezzaluna n°2.

 



[1] P. ARTHUR (et alii), La chiesa di Santa Maria della Strada, Taurisano (Lecce). Scavi 2004, in «Archeologia medievale», a. XXXII, 2005, p. 173.

[2] G. BERTELLI, Santa Eufemia a Specchia, in «Puglia Preromanica», 2004, pp. 276-277.

[3] M. FALLA CASTELFRANCHI, La pittura bizantina in Italia meridionale e in Sicilia (secoli IX-XI), in «Historie et culture dans l’Italie byzantine: acquis et nouvelles recherches», a cura di A. Jacob, J. M. Martin e G. Noyè, Roma 2006, p. 212.

[4] S. A. ROCCA, Il cimitero di Taurisano, Taurisano, 2009, p. 12.

 

[5] ID., Le cappelle di san Nicola di Bari e la presenza dei Francescani in Taurisano, Taurisano, 2011.

Nuovi documenti sulla guglia dell’Immacolata di Nardò

guglia di Nardò

di Ugo Di Furia

 

Da sempre gli archivi degli antichi notai rappresentano una fonte indispensabile per ricostruire le vicende relative ad artisti e alle opere da essi realizzate e di cui si era persa memoria, permettendo di individuare momenti importanti delle relative carriere, di valutarne la fortuna critica presso i contemporanei e di ricavare importanti informazioni circa i rapporti con la committenza. Per quanto riguarda poi in particolare gli studi di storia dell’arte nel Mezzogiorno d’Italia, si deve aggiungere il formidabile contributo, probabilmente unico al mondo, fornito dall’Archivio Storico del Banco di Napoli che, con il suo patrimonio quasi intatto di volumi provenienti dai sette Banchi principali del Regno rappresenta, grazie alla registrazione di milioni di documenti di pagamento, una vera e propria miniera di notizie in un arco temporale che va dagli ultimi decenni del XVI fino all’XIX secolo.

Proprio grazie a queste fonti documentarie, recentemente è stato possibile individuare gli autori della statua bronzea dell’Immacolata posta a coronamento della omonima guglia della città di Bitonto[1]. Da uno strumento notarile ritrovato da Gian Giotto Borrelli, datato 2 giugno 1733, scopriamo che il padre Michele Gentile della Compagnia di Gesù su incarico di padre Michele Calamita[2] di Bitonto aveva affidato allo scultore ed orefice napoletano Carlo Schisano[3] il compito di realizzare entro il 10 novembre dello stesso anno una statua di rame di sette palmi d’altezza su disegno di Domenico Antonio Vaccaro[4]. Il compenso, condizionato all’approvazione finale dello stesso Vaccaro, ammontava a 550 ducati. Il ritrovamento anche delle polizze di pagamento emesse dal Banco dei Poveri in numero di sette fra il 3 giugno del 1733 e il 13 gennaio 1734 conferma che tutti i termini del contratto vennero rispettati[5].

Ma tra i vari strumenti di indagine a disposizione degli studiosi, oltre agli archivi e le fonti bibliografiche, vi sono anche gli antichi giornali, già ampiamente diffusi nei secoli XVII e XVIII. Pur essendo non sempre facilmente fruibili in quanto dispersi in modo  lacunoso in varie biblioteche, non solo napoletane, essi rappresentano una fonte meno conosciuta di notizie spesso inedite e di grande importanza per la storia politica ed artistica del Regno di Napoli.

Utilizzati inizialmente soprattutto dai musicologi, solo più di recente sono stati oggetto di attenzione da parte degli storici dell’arte. Un esempio della loro importanza è rappresentato dai notevoli contributi ricavati dai cosiddetti Avvisi di Napoli[6], ancora una volta per lo studio di alcune delle diverse guglie erette per devozione popolare non solo a Napoli, ma anche in varie cittadine campane e pugliesi, nel corso del XVIII secolo[7].

Già nel 1976 Teodoro Fittipaldi traeva dal numero 10 di Avvisi dell’8 febbraio 1746 il giorno in cui veniva posta la prima pietra della guglia dell’Immacolata costruita di fronte alla chiesa del Gesù Nuovo di Napoli su iniziativa di padre Francesco Pepe, i cui lavori vennero solennemente iniziati il 1 febbraio di quell’anno[8]; l’interessante documento correggeva così la data erronea del 7 dicembre 1747 dovuta ad un refuso di Pietro degli Onofri che aveva, fino ad allora, rappresentato l’unica fonte per la datazione dell’avvenimento[9].

Più recentemente, sempre dallo stesso giornale, veniva ricavata la notizia dell’inaugurazione del medesimo monumento avvenuta, in perfetta concordanza con i documenti di pagamento relativi alla sua costruzione, tra il 6 e l’8 dicembre 1754[10].

E ancora da un numero di Avvisi veniamo a conoscenza dell’inaugurazione avvenuta nel mese di agosto del 1738 (probabilmente in occasione della festa patronale) della piccola e meno conosciuta guglia di S. Rocco, eretta nella frazione Penta di Fisciano (in provincia di Salerno)[11].

Ma la notizia più interessante sull’argomento e, per certi versi sorprendente, la ricaviamo dal n. 42 del 16 settembre 1749 del medesimo giornale[12]. Essa fa riferimento ai festeggiamenti celebrati alla presenza del vescovo Francesco Carafa per l’arrivo da Napoli della statua marmorea dell’Immacolata Concezione destinata ad essere posta in cima alla guglia eretta in suo onore nella piazza principale di Nardò.

 

particolare con la statua dell'Immacolata
particolare con la statua dell’Immacolata

 

“Dalla città di Nardò siamo ragguagliati, qualmente erettosi nella Piazza principale di quella un nobile, e magnifico Obelisco, in onore della SS. VERGINE IMMACOLATA di pure limosine spontaneamente offerte, e non richieste; giunse ivi ultimamente da questa Capitale una statua di marmo finissimo di palmi nove della stessa   GRAN VERGINE IMMACOLATA, di eccellente Scoltura, da mettersi nella cima di detto Obelisco. Ricevuta processionalmente in una delle porte della Città da Mons. Vescovo D. Francesco Carafa, e da lui Pontificalmente vestito ancor benedetta fu condotta in trionfo per le principali strade riccamente adobbate, seguita dal Capitolo, Mansionarj, e Clero; coll’intervento ancora degli Ordini Regolari, di tutto il Magistrato, Nobiltà, e Popolo innumerevole tra le pubbliche acclamazioni, e continovi Viva di giubilo, tra le armoniche Melodie di ben concertati istrumenti, e tra un continuo sparo di mortaretti, e fuochi artificiali; e giunti nella pubblica Piazza fu depositata la Statua vicino all’Obelisco, ed intonato il Te Deum in rendimento di grazie si proseguirono le Feste di sparo, ed illuminazioni fino alle molte ore della Notte. Detta Statua è stata scolpita da D. Matteo Bottigliero Scultore Napolitano”[13].

 

L’importanza del documento si fonda principalmente su due dati, fino ad oggi ignoti alla critica.

Il primo è che la statua di marmo posta a coronamento dell’obelisco, costruito interamente in pietra di carparo[14], venne realizzata dal napoletano Matteo Bottigliero[15], allievo di Lorenzo Vaccaro nonché figura fondamentale nel panorama artistico napoletano di metà del XVIII secolo, negli stessi anni in cui lo scultore lavorava insieme a Francesco Pagano alla decorazione marmorea della Guglia dell’Immacolata di Napoli[16]. L’artista aveva inoltre già operato in Puglia cinque anni prima per la cattedrale di S. Eustachio ad Acquaviva delle Fonti, come attesta un documento di pagamento emesso dal Banco dello Spirito Santo il 18 luglio 1744 ritrovato da Eduardo Nappi[17], grazie al quale si trae che lo scultore riceve da tal Francesco Molignani, 235 ducati per l’esecuzione, su disegno del pittore Nicola Maria Rossi, delle statue marmoree di Santa Theopista (moglie di S. Eustachio) e dei due suoi figli; la suddetta somma, da corrispondersi solo dopo giudizio favorevole dello stesso Nicola Maria Rossi[18], comprendeva anche il loro trasporto via mare da Napoli alla marina di Bari. Oltre alle sculture di Acquaviva, è stato ipotizzato da parte di Mimma Pasculli Ferrara, sulla base di considerazioni di carattere stilistico, un possibile intervento del Bottigliero anche per i putti capo altare nelle chiese di Santa Croce a Lecce e di San Domenico a Martano[19].

La seconda notizia, non meno importante della prima, riguarda la datazione del monumento che, per quanto in maniera controversa, veniva fino ad oggi ritenuta dalla maggior parte degli studiosi di epoca successiva alla guglia napoletana dell’Immacolata (i cui lavori si conclusero come già si è detto in precedenza nel 1754) sulla base di un resoconto del vescovo Luigi Vetta sui festeggiamenti celebrati a Nardò l’8 dicembre 1854, in occasione dell’introduzione da parte di Pio IX del dogma dell’Immacolata Concezione; questi infatti affermava che in quei giorni “Nella piazza principale faceva vaghissima mostra la guglia, che, innalzata molti anni prima, ad imitazione di quella eretta nel largo della trinità maggiore di Napoli, appariva con un bel disegno illuminata, per gran numero di lumi che splendevano in vetri colorati”[20].

nardò piazza

Per la verità, nonostante l’affermazione del Vetta, che va oggi considerata erronea alla luce dei nuovi elementi a nostra disposizione, i primi autori che si erano occupati del monumento nerentino individuavano nella fine del XVII secolo l’epoca della sua costruzione[21]. In seguito l’unico studioso a dimostrarsi concorde con tale datazione sarà Giuseppe Palumbo che nel 1953 lo definisce «opera del XVII secolo» e ne attribuisce la paternità, sebbene dubitativamente, all’architetto Giovan Bernardino Genoino di Gallipoli, già artefice della cattedrale di Sant’Agata nella sua città natale[22].

Tuttavia nel 1930 Francesco Castrignanò affermerà, senza fornire alcuna prova a sostegno, che la cosiddetta “colonna” venne edificata nel 1769 su iniziativa dell’Abate Francesco Antonio Giulio, sotto il vescovato di Marco Aurelio Petrucelli, come ringraziamento per lo scampato pericolo dal terremoto del 1743[23]. Da questo momento in poi, il 1769 sarà pedissequamente indicato come anno di costruzione della guglia da quasi tutti gli studiosi che ritorneranno successivamente sull’argomento. Fra questi Giovanni Siciliano[24], Michele D’Elia e Luciano Zappegno[25], Pantaleo Ingusci[26], Emilio Mazzarella[27], Benedetto Vetere e Salvatore Micali[28], Mario Manieri Elia[29], Stefano Leopizzi e Giovanni Vernich[30], Mario Mennonna[31], Mimma Pasculli Ferrara[32] ecc. Solo Antonio Castellano nel 1976 posticiperà ulteriormente al 1775 l’anno di costruzione del monumento, anch’egli astenendosi dal riportare prove a supporto di quanto dichiarato [33], mentre Pietro Marti nel 1932 l’aveva definita “opera settecentesca di ornamentazione esuberante fino al delirio”[34].

La data del 1749 riapre anche nuovi scenari circa l’attribuzione dello spettacolare monumento. Se da un punto di vista cronologico la già citata assegnazione a Giovan Bernardino Genoino da parte di Giuseppe Palumbo può essere considerata ancora plausibile, più problematica appare invece l’ipotesi avanzata da Mario Cazzato[35] e sostenuta anche da Mimma Pasculli Ferrara[36], di riferire l’opera all’architetto copertinese Adriano Preite (1724 – 1804) la cui lunga carriera si svolse fra il 1747 e il 1797; facendo i debiti conti dovremmo accettare la difficile anche se non del tutto impossibile eventualità che un’impresa di tale portata fosse stata affidata ad un architetto non ancora venticinquenne e comunque agli inizi della carriera.

La retrodatazione di circa vent’anni della “colonna” nerentina rispetto all’anno 1769 accettato finora come riferimento dalla maggior parte degli studiosi, induce a considerare con maggiore insistenza il possibile coinvolgimento di Ferdinando Sanfelice nel progetto dell’opera. L’importante architetto napoletano, fratello di Antonio, vescovo di Nardò dal 1708 al 1736[37], sarà presente più volte in quegli anni nella città pugliese ridefinendo l’assetto urbanistico dell’area circostante il duomo con una serie di interventi, non solo nella cattedrale, ma anche nei vicini edifici del vescovato e del seminario, nonché nel monastero di Santa Chiara. Non si può escludere quindi, che già prima del terremoto del 1743 sia maturata l’idea di realizzare nel cuore della città un’opera analoga a quella sorta all’inizio degli anni Trenta a Bitonto, il cui duomo, al pari di quello di Nardò, è consacrato alla Vergine Assunta. Un eloquente indizio a sostegno di tale ipotesi, come suggerisce Giovanni De Cupertinis[38], è rappresentato dallo Studio preliminare per una guglia dell’Immacolata, schizzo a penna inserito nel Corpus Sanfeliciano del Gabinetto disegni e stampe del Museo di Capodimonte; il disegno raffigura una struttura a sviluppo verticale che racchiude allo stesso tempo elementi architettonici tipici della guglia e della colonna e che potrebbe essere espressione di un preliminare momento progettuale, poi ampiamente modificato in fase di realizzazione.

Un rinnovato interesse da parte degli studiosi supportato dall’auspicabile ritrovamento di nuovi documenti potranno in futuro fornire una risposta definitiva anche a questo interrogativo.

 

Pubblicato integralmente su Il Delfino e la Mezzaluna n°2.

Aggiunta a Leonardo Antonio Olivieri e tre proposte per Domenico Antonio Carella

Dipinto Olivieri

di Nicola Fasano

 

L’inaugurazione del Museo Diocesano di Arte Sacra[1] di Taranto nel 2011 ha finalmente aperto alla città un patrimonio storico e artistico di notevole valore. La struttura, infatti, si presta ad essere uno dei punti cardine della vita culturale tarantina. Grazie alla disponibilità del suo direttore, Don Francesco Simone, molto sensibile alla promozione e alla divulgazione dell’arte sacra, possiamo annoverare nel suddetto museo alcuni gioielli pittorici sconosciuti agli studi e finalmente esposti alla pubblica fruizione.

Il primo dipinto preso in considerazione ha come soggetto San Francesco.  Si tratta di una tela centinata di grandi dimensioni (320 x 214), raffigurante la Visione di San Francesco alla Porziuncola, tema caro ai francescani, collocata nella sezione museale dedicata alla Cattedrale. In questa sezione sono esposti dipinti e sculture che adornavano le cappelle barocche, abbattute in seguito ai discutibili restauri dell’architetto Schettini nel 1952[2], per riportare il duomo alla sua originaria facies romanica.  

L’unica segnalazione del dipinto è contenuta nella catalogazione curata dal C.R.S.E.C. (Centro Regionale di Servizi Educativi e Culturali) Iconografia Sacra a Taranto, volume in cui il dipinto viene presentato con una piccola foto in bianco e nero e schedato come Visione di San Gaetano di anonimo autore settecentesco, conservato in episcopio[3]. San Francesco era confuso con il santo teatino e la Vergine con Dio Padre[4]. Dalla riproduzione fotografica dell’epoca, la tela presentava una lacuna nella parte alta.

Il recente restauro del 2010, curato dalla Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici della Puglia con  l’esposizione nel museo, ha potuto fugare ogni dubbio dal punto di vista iconografico e stilistico.

L’iconografia riprende liberamente la vicenda della visione di san Francesco alla Porziuncola, quando in una notte del 1216, Francesco immerso nella preghiera all’interno della chiesa, vide stagliarsi nella luce accecante Cristo e la Vergine, circondati da un nugolo di angeli. Alla divina apparizione il santo chiese il perdono e la remissione dei peccati per chiunque visitasse quel luogo. La richiesta fu accolta dal gruppo divino, a patto che Francesco la indirizzasse al Papa Onorio III.

Il dipinto, per fugare ogni dubbio sulla questione iconografica, è molto affine alla tela di Francesco De Mura riprodotta nel prezioso archivio fotografico di Federico Zeri[5].  La composizione, resa dinamica da un impianto compositivo impostato sulle diagonali, vede san Francesco in basso a destra colto nel tipico atteggiamento estatico, con le braccia allargate mentre rimira il Salvatore, controbilanciato a sinistra dalla presenza dell’angelo, che reca nella mano destra i simboli del martirio di Cristo e nella sinistra l’indulgenza della Porziuncola, chiave di lettura del nostro dipinto.

Più in alto, Cristo assiso su una nube e circondato da cherubini, regge la croce e indica con la mano destra la Vergine che irrompe in alto a destra dominando la composizione. Ad arricchire il dipinto, oltre a gruppi di cherubini, un angelo sospeso a mezza altezza e dal fluente panneggio rosso, che si avvinghia sicuro alla croce, mentre un altro sembra dispettosamente scoprire Gesù afferrandone il drappo.

La tela, può attribuirsi al pittore martinese Leonardo Antonio Olivieri di formazione solimenesca per una serie di motivi. In primo luogo palesi sono i rimandi al maestro nei panneggi accartocciati che avviluppano le figure, e nei cherubini paffutelli, sigla distintiva di molte sue opere. Vera cifra stilistica del maestro è il Cristo, tornito plasticamente da trame chiaroscurali, che nell’indicare la Vergine Madre, richiama le figure del Salvatore e del Battista nel Battesimo, dipinto da L. A. Olivieri per la cattedrale di Nardò[6].

Lo stesso Cristo nell’indicare con l’indice destro la Madonna, riprende la santa Rosa da Lima nella Vergine e sante domenicane della chiesa tarantina di san Domenico[7]. Modelli questi, desunti dal San Clemente di Francesco Solimena nella pala di Sarzana[8]. Il celebre e richiesto pittore napoletano faceva esercitare i suoi allievi nel riprendere alcuni brani delle sue opere, replicando gesti, posture, secondo una consolidata tradizione, per adattarli a nuove soluzioni iconografiche, come nella tela del museo tarantino.

Non è da escludere, inoltre, che lo stesso Leonardo si sia ispirato all’illustre precettore studiando la Trinità in Gloria con San Filippo Neri e Santa Francesca Romana del museo di Oxford[9], databile intorno al 1725-1730. Se questo non bastasse ad ascrivere l’opera all’Olivieri, è sufficiente confrontare l’angioletto che guarda in basso ai piedi della Vergine e che riprende quello di un altro dipinto di soggetto francescano: la Gloria di santa Chiara di Aversa[10] e quello gemello dell’Apparizione di san Giovanni Evangelista[11] nella Cattedrale neretina.

L’angelo svolazzante con l’avviluppante panneggio rosso fiammante, altro non è che lo stesso in posizione speculare che rimira dall’angolo sinistro in alto l’Adamo ed Eva dell’Eden della collezione D’Errico[12]; dipinto quest’ultimo che Galante aveva dubitativamente attribuito all’Olivieri[13].

La stessa figura verrà replicata con esiti manieristici da Domenico Carella, come si può evincere nella Vergine del Rosario in san Domenico a Martina Franca[14]. Il pittore francavillese avrà potuto osservare le tele del più affermato Olivieri e prendere a proprio piacimento le figure, dando avvio ad un “solimenismo” di maniera.

Per finire e fugare ogni dubbio attributivo, potremmo mettere a confronto l’Eterno Padre che spicca nella Sacra Famiglia attualmente conservata in San Pasquale di Baylon a Taranto[15], con la Vergine del dipinto del museo tarantino.

Stemma famiglia La Riccia
Stemma famiglia La Riccia

Lo stemma nobiliare in basso a destra sormontato da corona marchesale, presenta dei porcospini in processione, emblema della famiglia nobiliare dei La Riccia, committenti di un altro dipinto oggi esposto nello stesso museo e proveniente dalla cattedrale di Taranto, raffigurante la Visione di san Filippo Neri[16]. L’opera si può attestare intorno agli anni ‘40 del Settecento nella fase tardo-solimenesca in consonanza con il Trionfo dell’Ordine Francescano, tela attribuita all’Olivieri[17] e proveniente dalla cattedrale. In entrambi i dipinti menzionati assistiamo ad una ripresa pittorica in chiave neo-barocca[18], condotta da saldi contrasti chiaroscurali di stampo “pretiano”, che drammatizzano la scena, stemperata da una luce soffusa e ravvivata da bagliori, che rendono la composizione trasognante e mistica, come richiesto da un’opera devozionale barocca che descrive l’evento miracolistico. La tela è animata dai rialzi cromatici delle vesti dei protagonisti; spicca su tutti il panneggio accartocciato rosso fuoco con cui l’angelo focalizza la composizione.

 

Martirio di Santa Lucia
Martirio di Santa Lucia

Altri inediti arricchiscono le sale del Museo Diocesano di Taranto; nella sezione dedicata ai santi, si segnala una tela mistilinea raffigurante il Martirio di santa Lucia, proveniente da una delle stanze del palazzo arcivescovile, fatta affrescare dall’Arcivescovo Capecelatro e ricordata nei documenti come “seconda stanza” piena di quadri piccoli e grandi[19].

La forma e le dimensioni fanno pensare ad un dipinto collocato altrove e successivamente portato nella residenza vescovile, dove è rimasto fino alla nuova collocazione museale.

L’opera ritrae la vergine martire di Siracusa mentre si appresta a ricevere la palma del martirio e una corona di fiori da un gruppo di angioletti che irrompono dall’alto. Suoi attributi iconografici sono gli occhi che Lucia si accinge ad adagiare sopra un piatto sorretto da un angelo in basso a destra; sullo sfondo, a sinistra, la santa stessa viene ritratta durante le persecuzioni contro i cristiani mentre stoicamente prega. A sottolineare il vero supplizio di Lucia è, tuttavia, la ferita inferta al collo che evidenzia lo sgozzamento della santa e non l’estirpamento degli occhi.[20].

Si tratta di un’opera di Domenico Antonio Carella, tipica di quel “solimenismo” mediato da Giaquinto, come felicemente ha sottolineato Galante[21]. Il ductus pittorico, nell’utilizzo di colori dalla stesura liquida, nelle pose languide e nel modo di condurre i cherubini a punta di pennello, riporta alla mente il dipinto di soggetto mitologico collocato sul soffitto centrale del tarantino palazzo Pantaleo[22],  raffigurante La Partenza di Achille da Sciro.

A rafforzare questa ipotesi, basta confrontare il volto di Achille con quello della santa, o lo stesso soldato a cavallo con gli eroi omerici ritratti nella stanza dell’edificio nobiliare. A questo si aggiunga l’angelo colto di profilo, mentre regge il piatto, che riecheggia il san Giovanni evangelista del Compianto su Cristo morto nella chiesa del Purgatorio a Fasano[23].

 flagellazione

Altre due tele mistilinee dal medesimo formato (154 x 227) ed ascrivibili al pittore, sono esposte nella sezione “cattedrale” del museo[24] e in origine collocate sulle pareti laterali della cappella di santa Maria della Pietà.

Si tratta di un breve ciclo della Passione che comprende la Flagellazione di Cristo (Matteo, 27, 26; Marco, 15, 15; Luca, 23, 16 e 22; Giovanni 19, 1) e l’Incoronazione di spine (Matteo, 27, 27-31; Marco, 15, 16-20; Giovanni, 19, 2-3). I dipinti presentano un’inquadratura dal taglio ravvicinato, espediente che doveva coinvolgere emotivamente il fedele, il quale si immedesimava nelle sofferenze del Salvatore.

Nella Flagellazione il Cristo al centro della tela viene suppliziato da tre sgherri, caratterizzati dalla brutalità dei gesti, mentre un soldato, colto in controluce sulla sinistra, assiste vigile alla tortura. In basso a destra un carnefice si volge verso la scena e con un accenno di sorriso, sembra compiacersi del dramma di Cristo; l’altro aguzzino in primo piano è intento a preparare un nuovo fascio di rami per lo strumento di supplizio.

incoronazione di spine

Nell’episodio dell’Incoronazione di spine i carnefici in abiti seicenteschi dominano la scena; il primo, inginocchiato, sbeffeggia Cristo in maniera irriverente, tirando fuori la lingua e porgendogli uno scettro di canna, mentre un soldato con intenti retorici, indica il dramma del Salvatore[25]. Rispetto ad altre opere del pittore, nelle due tele di argomento cristologico si evince un robusto contrasto chiaroscurale, un senso della forma nitido e deciso oltre ad un vibrante cromatismo dato dall’utilizzo di colori vivaci e di rispondenze cromatiche nei panneggi che animano le tele.

Non mancano incertezze nella resa “stilizzata” del corpo di Cristo, riscontrabile anche nella summenzionata tela di Fasano. Qualora le opere venissero confermate a Domenico Carella, anche attraverso una fortunosa ricerca d’archivio, saremmo in presenza di prove fra le più riuscite in termini di qualità, che confermerebbero quella vocazione eclettica dell’artista fatta in primo luogo di prestiti e richiami alla pittura napoletana e romana della seconda metà del Settecento.

 



[1] Sul museo diocesano di Taranto cfr. D. Padovano  (a cura di), Guida dei Musei Diocesani di Puglia, Fasano 2005, p. 51; F. Simone – G. Tonti , Il Museo Diocesano di Arte Sacra di Taranto, Mottola 2011.

[2] P. Belli D’Elia, La Cattedrale di Taranto : un problema storico architettonico aperto, in P. De Luca, La Cattedrale di San Cataldo, Mottola 2000,  p. 58.

[3] AA.VV., Iconografia Sacra a Taranto I, Mottola 1986, scheda A2.25, p. 45/ II, tav. 25.

[4] Questo ha creato ulteriore confusione in quanto il dipinto inventariato come Art. 19  è stato schedato come Trinità e san Francesco d’Assisi di ambito napoletano.

[5] Cfr. www.fondazionezeri.unibo.it, catalogo fototeca, numero scheda 63758, serie “Pittura italiana”, numero busta 0589, intestazione busta “Pittura italiana sec. XVIII. Napoli 2”, Numero fascicolo 5, intestazione fascicolo “Francesco De Mura: Nunziatella2.

[6] F. Semeraro, Leonardo Antonio Olivieri (1689-1752), Martina Franca 1989, p. 16.

[7] Ibidem, p. 18.

[8] F. Bologna, Francesco Solimena, Napoli 1958, p. 271.

[9] Ibidem, p. 271.

[10] F. Semeraro, Leonardo Antonio Olivieri, cit., p.30.

[11] Ibidem, p. 24.

[12] Galante nel descrivere il dipinto parla di accentuazione di contrasti chiaroscurali e di luminismo neopretiano che ricorrono nel nostro dipinto.

[13] L. Galante, I Dipinti napoletani della collezione D’Errico (secc. XVII-XVIII), Galatina 1992, pp. 126-129.

[14] L. Galante, La pittura a Martina Franca, in AA.VV., Martina Franca un’isola culturale, Martina Franca 1992, pp.174-175.

[15]  V. Vantaggiato, La vita e le opere di Leonardo Antonio Olivieri.  in  AA.VV., Studi di storia pugliese in onore di Giuseppe Chiarelli, vol. V, Galatina 1980, p.358.

[16] G. Blandamura, Il Duomo di Taranto nella storia e nell’arte, Taranto 1923, p. 64.

[17] F. Semeraro, Leonardo Antonio Olivieri, cit., p. 49.

 

[18] Ibidem, p. 49.

[19] V. De Marco, D. Mancini, Il Palazzo Arcivescovile di Taranto, da mille anni con la città, Mottola 2010,  p. 197.

[20] J. Hall, Dizionario dei soggetti e dei simboli nell’arte, Milano 1983, p. 249.

[21] L. Galante, Domenico Antonio Carella: un pittore del Settecento pugliese, Martina Franca 1978, p. 3.

[22] O. Sapio,  R. Cofano,  Il ponte, l’altare, il barone e altre storie. Cronache tarantine fra ‘600 e ‘900, Taranto, 1997, p.55. Per una più approfondita analisi del dipinto cfr. V. Farella, Il Palazzo Pantaleo. Una singolare residenza aristocratica nella Taranto del Settecento, in AA.VV., “Kronos” n. 10, Galatina 2006, pp. 207-210 fig. 2.

[23] M. Guastella, Opere d’arte pittorica nella chiesa del Purgatorio di Fasano, in AA.VV. La Chiesa del Purgatorio di Fasano, arte e devozione confraternale, a cura del Centro Ricerche di Storia Religiosa in Puglia, Fasano 1997, pp. 165-166.

[24] Inventariati come Art. 03 e Art.04. L’originaria collocazione si deve ad una relazione di V. De Marco che ricostruisce gli antichi arredi delle cappelle smembrate nel duomo di San Cataldo.

[25] Certe caratterizzazioni dei volti in chiave quasi caricaturale richiamano la pittura di Traversi e Bonito, con una ripresa seicentesca nell’utilizzo di effetti chiaroscurali, volti a sottolineare il naturalismo drammatico dell’evento. Inoltre proprio un pittore come Bonito è stato chiamato in causa da Galante (La pittura a Martina Franca, cit., p. 177.) per gli affreschi di Carella nel palazzo ducale a Martina Franca, per sottolineare un’attenzione di tipo realistico del francavillese, che si esprime attraverso un naturalismo più accomodante, dato proprio dal più quotato pittore napoletano della seconda metà del Settecento.

 

pubblicato su Il delfino e la mezzaluna n°2.

Un inedito dipinto ugentino attribuibile a Giovanni Andrea Coppola

Fig. 1. Ugento, ubicazione sconosciuta, Giovanni Andrea Coppola (attr.), Figura femminile (dipinto su tela, sec. XVII) (foto Archivio Ufficio Beni Culturali Ecclesiastici Diocesi di Ugento)
Fig. 1. Ugento, ubicazione sconosciuta, Giovanni Andrea Coppola (attr.), Figura femminile (dipinto su tela, sec. XVII) (foto Archivio Ufficio Beni Culturali Ecclesiastici Diocesi di Ugento)

 

di Stefano Tanisi

 

 

Nell’Archivio dell’Ufficio Beni Culturali Ecclesiastici della Diocesi di Ugento, nel riordinare dei fascicoli contenenti delle stampe fotografiche degli anni Settanta del secolo scorso, è stata rinvenuta una foto in bianco e nero di una tela, in cattivo stato di conservazione, raffigurante un’interessante figura femminile (fig. 1), opera di cui sembrerebbe aver perso le tracce. Poiché il dettaglio fotografato non riprende attributi iconografici, è difficile risalire con esattezza all’identità del soggetto raffigurato. Bisogna pur notare che il volto e il corpo di questo personaggio femminile sono impostati nella direzione del braccio sinistro in tensione e sembrerebbe che nella mano poteva reggere qualche peso: alla luce di queste considerazioni si potrebbe trattare di Giuditta con la testa di Oloferne o di Salomè che mostra la testa del Battista.

Nel retro della foto è annotata a matita “Ugento – esistente in soffitta chiesa…”, indicazione che purtroppo non ci dice in quale chiesa ugentina la tela era un tempo ubicata, né tantomeno ci specifica l’autore, la dimensione e l’epoca di realizzazione del dipinto.

Fig. 2. Ugento, ubicazione sconosciuta, Giovanni Andrea Coppola (attr.), Figura femminile, particolare (dipinto su tela, sec. XVII)
Fig. 2. Ugento, ubicazione sconosciuta, Giovanni Andrea Coppola (attr.), Figura femminile, particolare (dipinto su tela, sec. XVII)

 

Esaminando questa inedita immagine dal punto di vista stilistico appare chiaro il modellato assai plastico e solido, un disegno incisivo nei contorni e nei tratti fisiognomici. La ripresa fotografica infatti ci restituisce l’ottima definizione pittorica di questo dipinto: la dettagliata descrizione del volto e dei capelli denota una finezza esecutiva che s’incontra nelle opere certe del seicentesco pittore gallipolino Giovanni Andrea Coppola (1597-1659). Difatti la stessa levigatezza del volto la si può notare nelle molteplici figure femminili e negli angeli adulti che il Coppola ha realizzato in diverse sue opere, in cui emerge una chiara elaborazione del viso su un modello classico di bellezza. Il volto (fig. 2) in questo inedito dipinto ugentino, ad esempio, pare molto simile a quello di una delle figure (fig. 3), il probabile san Giovanni Evangelista, che appare a destra, accanto all’anziano Apostolo, nel bel dipinto dell’Assunta (fig. 4) della Cattedrale di Gallipoli. Mettendo a confronto i due volti, infatti, ci accorgiamo subito delle molteplici affinità tanto da ritrovare gli stessi lineamenti (come il profilo del naso, la bocca carnosa, il mento affilato) e lo stesso trattamento delle ciocche dei capelli, ma anche il medesimo modo di concepire le luci che sembrano ripetersi in entrambi i dipinti nella zona retroauricolare, in quella periorbitaria e alla base del collo.

Fig. 3. Gallipoli, Cattedrale, Giovanni Andrea Coppola, Assunta, particolare (olio su tela, sec. XVII)
Fig. 3. Gallipoli, Cattedrale, Giovanni Andrea Coppola, Assunta, particolare (olio su tela, sec. XVII)

«Picturae perquam studiosus» con queste parole, spigliatamente si firmava il Coppola nella nota tela delle Anime purganti della Cattedrale di Gallipoli. Da queste parole cogliamo un uomo-artista probabilmente compiaciuto dal suo diletto per la pittura. Un artista che non smette mai di deliziarci come in questo sconosciuto dipinto di Ugento, la cui ubicazione attuale ci è ignota, che si spera di recuperare e di restituirlo alla collettività.

 

Fig. 4. Gallipoli, Cattedrale, Giovanni Andrea Coppola, Assunta (olio su tela, sec. XVII)
Fig. 4. Gallipoli, Cattedrale, Giovanni Andrea Coppola, Assunta (olio su tela, sec. XVII)

 

Pubblicato su Il delfino e la mezzaluna n°2

Intervista a Roberto Ferri: l’artista e l’uomo

10 ferri21

di Marcello Gaballo

 

Due persone in una, la semplicità di Roberto nella genialità di Ferri, il tutto svelato in una veloce intervista fatta al giovane talento tarantino.

Poche domande di un innamorato dell’arte portano alla luce un quadro inedito fra i tanti della produzione pittorica di Roberto Ferri, il suo ritratto umano.

Pochi tratti salienti.

L’intervistatore usa toni rispondenti alla ricchezza simbolica e grafica dell’autore ricreando lo stesso rapporto esistente tra la sua ispirazione creatrice e la messa in opera della stessa, essenziale e naturale la prima, complessa e travolgente la seconda.

Il messaggio personale affidato alle opere contribuisce a fare di Roberto Ferri, prima che un personaggio, una persona vera.

Straordinaria infatti la sua comunicatività diretta con l’interlocutore, sorprendente l’empatia con quell’umanità comune che gli restituisce il conforto di sentimenti condivisi e il privilegio dell’unicità nell’esprimerli.

 

melodia fatale, olio su tela 130x90, 2010
melodia fatale, olio su tela 130×90, 2010

Il web mi ha permesso di conoscerla e dopo aver visitato il suo sito, godendo delle straordinarie e numerose opere, non ho più difficoltà a riconoscere un suo dipinto. Anche solo un’immagine di piccolissimo formato mi consente di attribuirla immediatamente. Uno stile inconfondibile, che si sta imponendo nella pittura contemporanea. La apprezzano e la seguono migliaia di fans, in Italia e all’estero, tanto da creare viva attesa nel conoscere la prossima mostra che ospiterà anche solo una delle sue opere. La critica è generosissima nei suoi confronti. Solo impressioni da parte di chi la segue da lontano o celebrità di cui lei è consapevole?

E’ un fenomeno di cui sì, sono al corrente, perchè le mie opere parlano direttamente al cuore, sono sincere, parlano di ciò di cui ognuno di noi ha bisogno. La libera espressione di se stessi.

Mi par di capire che il suo iter formativo, in fondo a disposizione di tutti coloro che vogliono interessarsi di pittura e disegno, parta da molto lontano. Dove nasce questa particolare sensibilità e originalità, che evidentemente vanno ben oltre il liceo artistico e l’accademia?

Il tutto nasce dalla mia antica passione per la pittura. Da quando ero bambino ad oggi non ho smesso mai di studiarla, amarla, viverla.

 14 particolare blog

Potendo scegliere la frequentazione amichevole dei grandi della pittura a cui lei spesso si ispira, con quale di essi preferirebbe trascorrere un viaggio in diligenza da Taranto a Roma o viceversa?

hahaah bella domanda. Non so…forse proprio col Caravaggio, perchè credo non parleremmo di pittura, di arte…ma di vita.

 VIZIO E VIRTU'__

Ai tanti ammiratori e critici che la seguono, quale approccio lei consiglierebbe di avere dinanzi alle sue opere?

Consiglierei semplicemente di viverle, così come si vive una bella storia con una donna. Un’opera ti parla, trasmette intensità e racchiude un gran segreto.

La pittura di Ferri la si può collegare maggiormente al mito, all’onirico, alla fantasia, al demoniaco o al religioso?

Mi servo di tutto, pur di raccontare me stesso. Anche se comunque, sono affascinato naturalmente dall’eterno conflitto tra il bene e il male, tra angelico e demoniaco..

Le tante incredibili pose a cui ricorre per le sue figure sono indice di complessità della vita terrena o piuttosto emblemi della psicomachia?  

Sono l’esternazione di un conflitto interiore, la forma sensibile di un pensiero, di un sentimento…di un’emozione.

 

16 TRISTEZZE DELLA LUNA 3

Si metta ora nei panni dell’osservatore attento ad una sua opera. Come vorrebbe che lasciasse la sala espositiva: sgomento, sorpreso, lieto o estasiato?

Ciò che mi ha lasciato più felicemente impressionato, è stato quando ho visto un guardiano di una mia mostra, piangere per ciò che gli era stato trasmesso dalle mie opere… Non mi aspetto nulla, spero solo qualunque osservatore non rimanga indifferente.

 Angelo caduto

Qual è l’ambiente che la circonda nel dipingere? La luce o il buio? Il silenzio o un sottofondo musicale? Ai modelli è concesso dialogare con Roberto Ferri che li ritrae? Può esserci interferenza e ispirazione nell’opera o è già tutto predeterminato?

Sono immerso nella penombra, credo di essere fotofobico. Amo la musica come sottofondo, dalla classica al rock-metal e qualsiasi cosa contribuisce alla nascita di un’ opera. Anche una battuta con i modelli a volte..

 

Ed infine, ha mai esposto in Puglia o perlomeno nella sua Taranto? Mi auguro che il celeberrimo “nemo propheta in patria” non valga per lei.

Beh quest’anno esporrò al MUDI a Taranto, in una mostra curata da Sara Liuzzi, e ne sono molto felice. Qualcosa a Taranto si sta svegliando.

 

3 Nella morte avvinti, olio su tela, 2010

Pubblicato su Il Delfino e la Mezzaluna n°2

 

Roberto Ferri, pittore della magia, filosofo della seduzione

3 Nella morte avvinti, olio su tela, 2010

Ninfa, olio su tela, 2010
Ninfa, olio su tela, 2010

 

di  Raffaella Verdesca

 

C’è chi per comunicare usa la parola, chi le figure.

Roberto Ferri, giovane pittore contemporaneo, nella sua Taranto ha imparato a parlare e a disegnare. Vogliamo immaginare una sorta di contemporaneità tra i due processi, urgenza di un linguaggio plastico e verbale da parte di un genio creativo.

Roberto nasce a Taranto nel 1978 e qui, diciotto anni dopo, si diploma al Liceo artistico “Lisippo” per poi approdare a Roma, nel 1999, dove conosce e si fa conoscere, meraviglia e rimane meravigliato.

La laurea con lode all’Accademia delle Belle Arti romana non si fa attendere e nel 2006 sancisce il traguardo fortunato dei suoi studi, gli ultimi tre anni dei quali arricchiti dalla presenza di Gaetano Castelli, l’ultimo anno da quella di Francesco Zito.

Le forme espressive di Roberto Ferri sono battezzate dalle esperienze pittoriche infantili, dai vecchi pennelli del nonno, fino ad arrivare a quel grado di osservazione e sperimentazione che lo porta alla scoperta del passaggio segreto utile a interiorizzare la bellezza e la nefandezza della vita. Roberto è infatti un passionale, si forma nell’idea che lo studio e la rappresentazione del corpo umano possano diventare parola e quindi esprimere attraverso le immagini i suoi sentimenti, i pensieri, il proprio credo filosofico, le ossessioni e i fantasmi del vivere quotidiano.

melodia fatale, olio su tela 130x90, 2010
melodia fatale, olio su tela 130×90, 2010

La sua arte s’ispira dunque a quella classica rinascimentale eleggendo a massimo personaggio di riferimento il Caravaggio.

Di lui acquisisce e riproduce in maniera personale e strabiliante le tecniche pittoriche, tanto da guadagnarsi l’epiteto di neocaravaggista.

Roberto Ferri non copia, ma interpreta e rivisita il grande autore seicentesco traducendo i temi antichi e classici in chiave moderna, secondo un’interpretazione intimista. È proprio questa sua bizzarra e splendida unicità ad attirare l’attenzione di molti galleristi che pertanto lo chiamano e se lo contendono rendendolo protagonista d’importanti eventi nazionali e internazionali.

Finora le esposizioni delle sue opere hanno abbracciato molte città tra cui Roma col suo Complesso Vittoriano, Londra con l’Istituto di Belgrave Square e perfino New York.

Un astro, quello dell’arte ferriana, asceso in breve tempo ai cieli della cultura oltre confine. Alcune sue opere, infatti, impreziosiscono importanti collezioni private a Roma, Milano, Londra, Parigi, New York, Barcellona, Miami, S. Antonio (Texas), Qatar, Dublino, Boston e Provenza.

Non v’inganni, dunque, la giovane età del nostro artista perché a volte il genio si manifesta senza voler perdere tempo.

Angelo Ferito
Angelo Ferito

A questo punto, proveremo a svelare il mistero di tanta fama e gradimento.

Riferendosi all’opera di Roberto Ferri non si può dire che si tratti di un tipo di pittura ragionevole, quanto piuttosto di una sontuosa arte visiva che contorna l’invisibile, al pari di una suggestiva magia. Facendo riferimento alla dimensione mitica dell’arte con creazione di nuovi miti e manipolazione di quelli già esistenti nella civiltà classica, il giovane pittore pugliese materializza il sogno, ricorre al surrealismo delle figure dando voce ai metalli e carne e ossa alle angosce, ai deliri, alle inquietudini, al terrore, al dolore, all’attrazione lussuriosa e all’erotismo «della carne, della morte e del diavolo». C’è infatti nel prodigioso artista la tendenza all’allucinazione che celebra lo splendore e l’estremo della passione umana sotto le vesti di visionarismo, di quella dimensione impossibile che si addomestica solo dinanzi al corpo e alla sua seduzione. Ecco dunque il trionfo della carne, di quel corpo considerato unica dimensione possibile per l’uomo, laddove il paganesimo dell’autore insiste nell’esaltazione della realtà materiale dell’esistenza, di quegli Inferi in cui tutto torna, a cui tutto anela, dove tutto ha senso. I luoghi disertati dalla passione non esistono, infatti, poiché è questa la sola forza capace di donare movimento ai corpi, significato alle posture e vittoria all’umano su tutto ciò che, disertato da questo turbine, rimane informe.

Così Ferri celebra i corpi interpreti dell’inconscio attraverso una perfetta resa anatomica di ugual valore in bellezza e genesi seduttiva sia al femminile che al maschile.

Deposizione, olio su tela, 2010
Deposizione, olio su tela, 2010

Ne nasce un esercito di figure nate dalla fervida fantasia dell’autore e dal mito: sirene, centauri, satiri, Pan e Dioniso, angeli, demoni, efebi e femmine fatali, tutti parte di una superumanità che l’artista contrappone a una dimensione terrena ormai priva di energia e volontà di sfida.

La vita sembra dunque incapace di elaborare ed esibire il pathos necessario ad accendere le sue creature, perciò Ferri sintetizza la sua religione artistica, quella secondo cui l’arte accorre in aiuto dell’uomo trasferendo la potenza primigenia della vita stessa nella riproduzione artistica di corpi depositari di verità, pulsioni e corporeità, qualità spesso sbiadite o perse nell’ordine del quotidiano e del reale.

Da qui l’opulenza dell’arte, «Tutto si ritrova nell’arte» per Ferri, definizione che ci fa pensare visivamente all’opera “Aurora”, dea rappresentata con tali rotondità al femminile, da essere descritta dal critico Isman come «un’orgia di carne pronta ad iniziare il nuovo giorno».

crepuscolo del mattino
crepuscolo del mattino

La passione carnale che anima personaggi e figure nelle opere di Roberto Ferri, li spinge nell’attività creativa ritenendola unico palcoscenico possibile. Il Teatro dell’Arte. È qui che la carne, aspirando all’infinito, lo colma solo attraverso l’eccesso e il superlativo che il pittore è l’unico a saper evocare. A tal proposito ci viene in mente la gigantesca tela de “Le delizie infrante”, 2 metri x 3, esecuzione che partendo dalla casualità di una puntura che colpisce un bambino divino, innalza una cattedrale delirante di corpi che s’intrecciano nella bellezza, nell’Eros e nella lussuria, costruzione che rimanda di getto all’idea di tormento e alla riflessione che nel dolore alberga l’intima e complessa trama della follia della vita.

L’occhio di Roberto, nelle figure, non si ferma mai allo studio superficiale della pelle, chiara e morbida nelle donne, muscolosa e pulsante negli uomini, ma ne porta alla luce il contenuto ricavandolo da quell’ombra avviluppata alla trasgressione, affacciata sul precipizio del peccato e del piacere, mantello di esistenze piegate dalla repressione della morale e dall’esaltazione dell’istinto naturale.

In molte figure della produzione artistica del geniale contemporaneo è stata tolta la testa a simbolo dell’ablazione dello spirito, così come è stato sfumato e corrotto il volto ad impedimento del contatto con l’anima: esaltazione della carne e del desiderio. Tra le tele più rappresentative a riguardo il “De Profundis clamavi”, “Il dannato”, “Vizio e Virtù”, “Genesi”, “Angelo infernico”, “Adoratio mortis”.

Angelesse demoniache si fanno strumento di fascinazione sessuale e via diretta per gli Inferi intesi come regno indiscusso della passione umana. (“Porta Inferi”, “Angelo Infernico”, “Dall’Inferno”)

Femmine fatali soggiogano uomini e sono a loro volta soggiogate dal destino, quello pittoricamente reso dalle catene metalliche attorno a molte figure, marchingegni questi che insieme ad astrolabi, sestanti, ingranaggi di orologi, bilance e ruote dentate, servono a prolungare il pensiero e il desiderio nel tempo, oltre che ad enfatizzare il movimento dei corpi fino ad assurgere al ruolo di strumenti di tortura. La vita e l’amore sono infatti spesso sofferenza, ferite che si accettano come destino impossibile da rimuovere. (“La Bellezza uccide il Tempo”, “Gaia”, “Vizio e Virtù”, “Circe”, “Ultimo addio”, “Eros Anteros”)

In quale modo più originale Ferri avrebbe potuto rappresentare la malinconia e la celebrazione del dolore? La stessa sua fervida forza inventiva nasce da una frenesia che è anche dolore e malessere, sensazioni di cui il maestro vuole liberarsi sublimandole nella rappresentazione pittorica di posture stravaganti, posizioni talvolta drammatiche, altre ancora estreme.

Potere catartico dell’arte, liberazione dal tormento creativo e interiore dell’artista.

Roberto Ferri, come un ‘Dioniso ebbro’, cerca nella pittura il mezzo per varcare il confine tra la realtà e il sogno, tra il fluire del tempo e l’eternità. Allo stesso modo fanno i modelli a cui lui si ispira, nel passaggio dal mondo reale che li vede normali individui in carne ed ossa, al mondo visionario del pittore che li trasforma in entità dalla concretezza anatomica meravigliosa, fatta di sangue e muscoli, di pelle e simboli, di mito e vitalità.

Se Roberto Ferri è il mago creatore del suo stile, inconfondibile e folgorante, è impossibile non farsi sedurre dal suo messaggio di luce e di tenebra, intinto nei corpi e disteso nelle mille sfumature dell’umana fragilità.

 

Pubblicato su Il Delfino e la Mezzaluna n°2

Variazioni azzoliniane sul tema dell’Angelo Custode

di Marino Caringella

 

 

Lecce, Chiesa di Sant'Irene, Giovan Bernardo Azzolino, Angelo Custode, olio su tela (cm.280x160), foto Sovrintendenza B.S.A.E. di Puglia
Lecce, Chiesa di Sant’Irene, Giovan Bernardo Azzolino, Angelo Custode, olio su tela (cm.280×160), foto Sovrintendenza B.S.A.E. di Puglia

Tra i culti approvati dalla Chiesa della Controriforma quello dell’Angelo Custode vide la propria ufficializzazione nel 1608, con l’autorizzazione da parte della Congregazione dei Riti alla diffusione dell’ Officium Angeli custodis dei cardinali Roberto Bellarmino e Ludovico De Torres, e l’introduzione di uffici e messe dedicate al divino compagno e confidente. Quattro anni dopo, le prediche del gesuita Francesco Maria Albertini “fatte nella Chiesa della Casa professa di Napoli” confluivano nel Trattato dell’Angelo Custode, in cui si sviluppavano le raccomandazioni a venerare gli angeli e ad affidarsi al loro sostegno nelle faccende spirituali e secolari[1]. Tali concetti erano già stati espressi da Francesco di Sales nell’Introduction à la vie dévote (1608), in cui il santo vescovo di Ginevra ricordava, tra le altre cose, come il gesuita Petrus Faber, percorrendo “le rudi montagne savoiarde” in cui aveva attecchito il protestantesimo, fosse “quasi fisicamente” protetto dagli angeli negli “attacchi degli eretici”, e che le celesti creature lo aiutassero “a fecondare molte anime dalla dottrina della salvezza”. Ben si comprende, dunque, come il dilemma del fanciullino sperduto “come il giovane Tobia, quando s’incamminò a Rages”, diventi il simbolo dell’anima incerta nella scelta tra cielo e inferno, e che l’iconografia dell’Arcangelo Raffaele che indica la via del paradiso possa essere letta in chiave di ammonimento a seguire, lungo il sentiero della vita, l’ortodossia degli insegnamenti della Chiesa cattolica e a rifuggire ogni pericolosa tentazione protestante.

Sebbene inizialmente diffuso in ambito gesuita, il culto non poteva rimanere estraneo all’ordine dei Chierici Regolari Teatini, fondato assieme a san Gaetano di Thiene da quel Gian Piero Carafa che, salito al soglio di Pietro col nome di Paolo IV, avrebbe imposto il suo programma di riforma e lotta contro gli eretici. Si giustifica così la presenza dei due dipinti gemelli dell’Angelo Custode issati nelle chiese teatine di Napoli (Santa Maria degli Angeli a Pizzofalcone) e di Lecce (Sant’Irene), entrambi opera di Giovan Bernardino Azzolino (Cefalù, 1582? – Napoli, 1645) e databili al terzo decennio del Seicento[2].

Il tema dell’Angelo Custode sarà più volte ripreso dal pittore siciliano anche per la committenza francescana, per esempio in uno degli elementi del polittico di Manfredonia[3] e, come parte di un insieme più complesso, nell’inedita Madonna delle Grazie rinvenuta da chi scrive nella chiesa dei santi Martino e Lucia di Apricena, ma proveniente dalla locale chiesa dei Cappuccini, dove era addossata “sulla parete, in fondo, della più grande delle due navate”[4]. La tela rappresenta una commistione di temi iconografici, primo fra tutti quello della Virgo lactans, il cui latte è di ristoro per le anime dei purganti e fonte della grazia che ricade sui santi che si affollano ai suoi piedi[5]. A questo tema principale si uniscono quelli della Regina Angelorum, cui allude il turbinio di angioletti che circondano la Vergine incoronata, e della Immacolata, cui si riferiscono la palma, il ramoscello d’olivo, il serto di rose e gigli che recano i due angeli maggiori[6].

La parte mediana della tela è invece occupata dai difensori delle anime contro le insidie diaboliche: i due arcangeli, Michele, titolare dell’omonima Provincia Minoritica in cui insiste il convento apricenese, ritratto come guerriero e psicopompo, e, per l’appunto, Raffaele, nelle vesti dell’Angelo Custode che indica al fanciullo la via del cielo.

In posizione leggermente più rilevata è la figura del san Giuseppe il cui culto, diffuso tra i Francescani da Pietro d’Alcantara, fu sancito definitivamente da papa Gregorio XV nel 1623. Qui è raffigurato come un vegliardo che con una mano regge il bastone fiorito, simbolo di verginità, con l’altra indica in basso, ritratti di tre quarti, i santi Francesco d’Assisi, Bonaventura da Bagnoregio, in abito cappuccino, mozzetta cardinalizia e libro in mano, e Maria Maddalena, coi capelli sciolti e il vasetto dell’unguento, suo principale attributo iconografico. Sullo sfondo, un breve lacerto di paesaggio montano che verso l’alto lascia il posto ai densi nimbi su cui poggia il gruppo della Vergine col Bambino, circondato da un affastellamento di putti e testine cherubiche.

L’opera, che per le traversie cui andò incontro l’edificio primigenio da cui proviene è databile alla metà degli anni trenta del Seicento, è stata restituita dalla scheda della Soprintendenza a un generico ambito meridionale (OA 1600036159) e da Di Iorio alla cerchia di Andrea Vaccaro[7], quando invece rappresenta una crestomazia di temi ed elementi formali riferibili all’ Azzolino. Vi si rinvengono entrambi i filoni sottesi alla sua poetica: quello devozionale e controriformato, di marca prettamente manieristica, con le sue immagini commoventi e bamboleggianti[8], e quello naturalistico che si esplica attraverso una predilezione per i fondi scuri, gli effetti luministici e la diligente resa anatomica dei modelli rappresentati[9]. Tanti i confronti che si potrebbero istaurare con altre opere del siciliano, per esempio la Madonna e Santi della parrocchiale di Montefalcone del Sannio[10] o la Madonna del Carmine e Santi, a quanto mi risulta inedita, nella chiesa di Sant’Onofrio a Casacalenda[11]. Con entrambe il quadro apricenese condivide l’impostazione della parte superiore della tela, le fisionomie di alcuni angeli e santi, e alcune soluzioni compositive come quella dei cherubini reggicorona e delle testine angeliche ritratte a lume di candela.

Ritornando all’iconografia dell’Angelo Custode, alla quale attinge l’artista siciliano per il quadro ai Teatini di Lecce e per il particolare di quello apricenese, essa è quella ben collaudata ai piedi del Vesuvio tanto nell’ambito della scultura – si pensi alla molteplicità di Angeli Custodi usciti in quegli anni dalla bottega di Stellato e sparsi nelle chiese del Viceregno[12] – tanto in quello della pittura, con alcuni pregevoli numeri di Borghese, Sellitto, Vitale e Pacecco De Rosa. Ma è al pittore di Montemurro e al suo chiaroscurare “che tornisce le forme e vi infonde consistenza plastica” che si dovrà guardare, nonostante sia oramai superata la soglia degli anni ’30, per trovare un riferimento stilistico dei due quadri. Sulla scia di quanto già opinato dal Pugliese, è possibile, infatti, istaurare confronti tra i due fanciulli azzoliniani col putto della Santa Cecilia di Capodimonte, o col Tobiolo (o animula, che dir si voglia) nell’Angelo Custode di ubicazione ignota[13], sebbene il quadro salentino abbandoni i catramosi fondi sellittiani “che corrodono i contorni e risucchiano intere parti di figure”[14] a favore di un ampio paesaggio di sfondo, in un avvicinamento alla tendenza classicista, “quasi accademizzante”, solo accennata nella Santa Cecilia di Sellitto e che è invece più convinta nell’Azzolino più maturo[15], tanto da lambire “le correnti del purismo secentesco che fanno capo al Sassoferrato e al primo Cozza”[16]. Tale avvicinamento, che farà spesso confondere i testi più avanzati del siciliano con oleografie ottocentesche[17], è forse il motivo per cui una non sufficientemente aggiornata scheda ministeriale (OA 1600117773) dati ancora il dipinto leccese al XIX secolo, restituendolo a un non meglio precisato ambito salentino.

Pubblcato su “Il defino e la mezzaluna” n°2


[1] P. Pirri, voce Albertini Francesco Maria, in Dizionario Biografico degli Italiani I, Roma 1968, pp. 725-726.

[2] V. Pugliese Pittura napoletana in Puglia I, in Seicento napoletano. Arte, costume e ambiente, a cura di R. Pane, Milano 1984, p. 214; P. Leone de Castris, Pittura del Cinquecento a Napoli. 1573-1606. L’ultima maniera, Napoli 1991, p. 318 nota 42.

 

[3] N. Barbone Pugliese, A. Simonetti, Giovan Berardino Azzolino: inediti napoletani del Seicento a Manfredonia, in Angeli stemmi confraternite arte, a cura di M. Pasculli Ferrara, D. Donofrio Del Vecchio, Fasano 2007, pp. 435-443.

[4] N.Pitta, Apricena. Appunti di storia paesana con disegni dell’autore e con prefazione di Michele Vocino, Vasto 1921, p.112. L’opera è citata, seppur con l’improprio titolo di Madonna del Carmine, nell’inventario dei beni stilato nel 1811 a seguito della soppressione napoleonica (Archivio di Stato di Foggia, Amministrazione Interna, F. 145, f. 126)

[5] F. Strazzullo, L’iconogrqfia della “Madonna delle Grazie tra il ‘400 ed il ‘600, Napoli 1968.

[6] Il riferimento alla Tota pulchra si giustifica con la dedicazione della chiesa conventuale alla SS. Concezione, che mutò in Madonna delle Grazie subito dopo il terremoto del 1627 quando l’edificio cappuccino, che aveva subito dei notevoli danni strutturali, fu riedificato secondo il corrente gusto barocco. Si spiega così anche la presenza della chiave dorata nella mano di uno dei due angeli a cospetto di Maria, simbolo della presa di possesso del rinnovato tempio da parte del nuovo nume tutelare.

[7] E. Di Iorio, I Cappuccini della religiosa provincia di Foggia o di S. Angelo in Puglia (1530-1986), Tomo I-II, Campobasso 1986, pp.145-147.

[8] P. Leone de Castris, Pittura del Cinquecento a Napoli. 1573-1606. L’ultima maniera, Napoli 1991, p. 311.

[9] V. Pugliese,  cit., pp. 213, 214.

[10] P. Leone de Castris, La pittura del Cinquecento nell’Italia meridionale, in La pittura in Italia. Il Cinquecento, Milano 1987, p. 510.

[11] Non intendo approfittare ulteriormente dell’ospitalità di Marcello Gaballo, che ringrazio, per approfondire la trattazione di questa tela che esula dai confini pugliesi, quando già il quadro apricenese esulava da quelli salentini. Sarà altra la sede per farlo. Ringrazio anche Alessandro Colombo per avermi procurato una fotografia del dipinto molisano.

[12] P. Leone de Castris, Angelo Custode, in Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e Spagna, catalogo della mostra (Lecce 2007), a cura di R. Casciaro e A. Cassiano, Roma 2007, pp. 160-161.

[13] V. Pugliese,  cit., p. 215.

[14] Ibidem, p.214

[15] F. Ferrante, Giovan Bernardino Azzolino tra tardomanierismo e protocaravaggismo. Nuovi contributi e inediti, in Scritti di storia dell’arte in onore di Raffaello Causa, Napoli 1988, p.139.

[16] R. Lattuada, Un nuovo dipinto di Giovan Bernardino Azzolino, in “Kronos, n.13, 2009, p. 149.

[17] P. Leone de Castris, Pittura del Cinquecento a Napoli. 1573-1606. L’ultima maniera, Napoli 1991, p. 311

Questa sera presentiamo il secondo numero de Il delfino e la mezzaluna

copertina delfino e la mezzaluna

Questa sera, alle ore 19.30, nella Sala Roma (di fronte alla Cattedrale di Nardò), presenteremo il secondo numero della rivista della Fondazione “Il delfino e la mezzaluna”.

216 pagine, ricchissimo di illustrazioni e foto (tra queste opere di Stefano Crety, Mauro Minutello e Paolo Giuri), 16 pagine a colori, vede tra gli Autori qualificati studiosi, docenti universitari, dottorandi e addottorati.

Particolarmente appetitosa la sezione dedicata al nostro artista conterraneo, Roberto Ferri, tarantino, sul quale abbiamo più volte trattato nel sito, che ha concesso in esclusiva alcune riproduzioni delle sue bellissime opere e al quale è dedicata la copertina del numero, che riproduce “Taras”.

Il volume non è in vendita, ma è riservato ai soci e simpatizzanti della Fondazione, che nel corso della serata potranno rinnovare l’iscrizione per il 2013 o aderire ome nuovi soci. Per tutti, oltre al volume, è riservato il depliant-pieghevole a colori sulla Cattedrale di Nardò. Ai vecchi soci sarà donata una monografia sulla Cattedrale di Gallipoli, ai nuovi il volume su Salvatore Napoli Leone.

I contenuti saranno illustrati dal prof. Paolo Agostino Vetrugno, dal dott. Pino de Luca (vice direttore de Leccellente) e dal direttore della rivista dott.  Pier Paolo Tarsi.

La serata sarà allietata dall’ottima musica dei Petrameridie, che si concederanno con esclusivi pezzi e accompagneranno il rinfresco offerto ai presenti.

La quota sociale per il 2013 ha sempre come minimo 30 Euro di contributo, che potrà essere versato nel corso della serata.

 

Questo è l’Indice del numero che presenteremo:

 

Roberto Spaventa, Fragmenta Corsani. Parcellizzazione feudale di Corsano (Lecce) dal XIII al XVII secolo

Maurizio Nocera, Divagazioni storico-bibliografiche sul castello di Copertino

Francesco De Paola, Un poeta alla corte dei Del Balzo: Rogeri De Paciencia de Neritò e un festoso pageant rinascimentale della nobiltà salentina

Domenico L. Giacovelli, Est autem fides sperandarum substantia rerum. Ipotesi per una possibile identificazione di un inedito soggetto iconografico

Marino Caringella, Intorno a Girolamo Imperato

Marcello Gaballo-Armando Polito, L’arco Lucchetti, il misterioso portale di Corigliano d’Otranto

Ugo Di Furia, Nuovi documenti sulla guglia dell’Immacolata di Nardò

Giorgio Cretì, Il muto

Maurizio Carlo Alberto Gorra, Tauro, non bove. Legami e influenze tra simboli arcaici e iconografia araldica

Brizio Montinaro, Tarantismo (vero, falso) e servizio militare

Angela Calia-Antonio Monte, Le maioliche di Angelantonio Paladini nel Salento. La produzione, i materiali costituenti e lo stato di conservazione

Marcello Gaballo, Intervista a Roberto Ferri: l’artista e l’uomo

Raffaella Verdesca, Roberto Ferri, pittore della magia, filosofo della seduzione

Maria Grazia Presicce, La donna salentina e la tessitura

Gino L.  Di Mitri, Tarantismo, possessione e stati modificati di coscienza nel Mediterraneo d’Antico Regime

Giulietta Livraghi Verdesca Zain,  Riti agresti nell’antico Salento: il grano in alcune formule propiziatorie dell’abbondanza

Giovanni Invitto, Intorno a Carmelo Bene

 

Restauri. La Madonna del Carmine della chiesa matrice di san Giovanni Battista in Parabita (Lecce) (Giuseppe Leopizzi), 177. Risparmio energetico negli immobili storici vincolati: l’impianto di illuminazione a gestione domotica della cattedrale di Nardò (Lecce) (Cristina Caiulo-Stefano Pallara), 179.

Archeologia in Terra d’Otranto. Le statue di due imperatori romani a Otranto (Alfredo Sanasi), 183.

Epigraphica in Terra d’Otranto. Un’epigrafe a Corsano (Armando Polito), 186.

Araldica in Terra d’Otranto. Un insolito stemma borbonico a Giuggianello (Lecce) ( Lucia Lopriore), 189.

Segnalazioni. Variazioni azzoliniane sul tema dell’Angelo Custode (Marino Caringella), 190). Un inedito dipinto ugentino attribuibile a Giovanni Andrea Coppola (Stefano Tanisi), 193. I dipinti di Paolo De Matteis (1662-1728) nella cappella del seminario di Lecce (Stefano Tanisi), 195. Aggiunta a Leonardo Antonio Olivieri e tre proposte per Domenico Antonio Carella (Nicola Fasano), 197. Il sansificio di Spongano (Lecce) (Giuseppe Corvaglia), 202. Appello per due chiese abbandonate a Taurisano (Stefano Cortese), 206. Note e vicende architettoniche della chiesa matrice di Casarano (Maura Lucia Sorrone), 208. Un logo per i 600 anni della cattedrale di Nardò (1413-2013) (Sandro Montinaro), 213).

 

 

 

 

Ecco il secondo numero de Il delfino e la mezzaluna

copertina delfino e la mezzaluna

Domenica 23 giugno, alle ore 19.30, nella Sala Roma (di fronte alla Cattedrale di Nardò), presenteremo il secondo numero della rivista della Fondazione “Il delfino e la mezzaluna”. Un importante volume di 216 pagine, con saggi pertinenti la nostra terra, con particolare riferimento alla storia dell’arte, come prevede lo statuto sociale.

Ricchissimo di illustrazioni e foto (tra queste opere di Stefano Crety, Mauro Minutello e Paolo Giuri), 16 pagine a colori, vede tra gli Autori qualificati studiosi, docenti universitari, dottorandi e addottorati.

Particolarmente appetitosa la sezione dedicata al nostro artista conterraneo, Roberto Ferri, tarantino, sul quale abbiamo più volte trattato nel sito, che ha concesso in esclusiva alcune riproduzioni delle sue bellissime opere e al quale è dedicata la copertina del numero, che riproduce “Taras”.

Il volume non è in vendita, ma è riservato ai soci e simpatizzanti della Fondazione, che nel corso della serata potranno rinnovare l’iscrizione per il 2013 o aderire ome nuovi soci. Per tutti, oltre al volume, è riservato il depliant-pieghevole a colori sulla Cattedrale di Nardò. Ai vecchi soci sarà donata una monografia sulla Cattedrale di Gallipoli, ai nuovi il volume su Salvatore Napoli Leone.

I contenuti saranno illustrati dal prof. Paolo Agostino Vetrugno, dal dott. Pino de Luca (vice direttore de Leccellente) e dal direttore della rivista dott.  Pier Paolo Tarsi.

La serata sarà allietata dall’ottima musica dei Petrameridie, che si concederanno con esclusivi pezzi e accompagneranno il rinfresco offerto ai presenti.

La quota sociale per il 2013 ha sempre come minimo 30 Euro di contributo, che potrà essere versato nel corso della serata.

 

Questo è l’Indice del numero che presenteremo:

 

Roberto Spaventa, Fragmenta Corsani. Parcellizzazione feudale di Corsano (Lecce) dal XIII al XVII secolo

Maurizio Nocera, Divagazioni storico-bibliografiche sul castello di Copertino

Francesco De Paola, Un poeta alla corte dei Del Balzo: Rogeri De Paciencia de Neritò e un festoso pageant rinascimentale della nobiltà salentina

Domenico L. Giacovelli, Est autem fides sperandarum substantia rerum. Ipotesi per una possibile identificazione di un inedito soggetto iconografico

Marino Caringella, Intorno a Girolamo Imperato

Marcello Gaballo-Armando Polito, L’arco Lucchetti, il misterioso portale di Corigliano d’Otranto

Ugo Di Furia, Nuovi documenti sulla guglia dell’Immacolata di Nardò

Giorgio Cretì, Il muto

Maurizio Carlo Alberto Gorra, Tauro, non bove. Legami e influenze tra simboli arcaici e iconografia araldica

Brizio Montinaro, Tarantismo (vero, falso) e servizio militare

Angela Calia-Antonio Monte, Le maioliche di Angelantonio Paladini nel Salento. La produzione, i materiali costituenti e lo stato di conservazione

Marcello Gaballo, Intervista a Roberto Ferri: l’artista e l’uomo

Raffaella Verdesca, Roberto Ferri, pittore della magia, filosofo della seduzione

Maria Grazia Presicce, La donna salentina e la tessitura

Gino L.  Di Mitri, Tarantismo, possessione e stati modificati di coscienza nel Mediterraneo d’Antico Regime

Giulietta Livraghi Verdesca Zain,  Riti agresti nell’antico Salento: il grano in alcune formule propiziatorie dell’abbondanza

Giovanni Invitto, Intorno a Carmelo Bene

 

Restauri. La Madonna del Carmine della chiesa matrice di san Giovanni Battista in Parabita (Lecce) (Giuseppe Leopizzi), 177. Risparmio energetico negli immobili storici vincolati: l’impianto di illuminazione a gestione domotica della cattedrale di Nardò (Lecce) (Cristina Caiulo-Stefano Pallara), 179.

Archeologia in Terra d’Otranto. Le statue di due imperatori romani a Otranto (Alfredo Sanasi), 183.

Epigraphica in Terra d’Otranto. Un’epigrafe a Corsano (Armando Polito), 186.

Araldica in Terra d’Otranto. Un insolito stemma borbonico a Giuggianello (Lecce) ( Lucia Lopriore), 189.

Segnalazioni. Variazioni azzoliniane sul tema dell’Angelo Custode (Marino Caringella), 190). Un inedito dipinto ugentino attribuibile a Giovanni Andrea Coppola (Stefano Tanisi), 193. I dipinti di Paolo De Matteis (1662-1728) nella cappella del seminario di Lecce (Stefano Tanisi), 195. Aggiunta a Leonardo Antonio Olivieri e tre proposte per Domenico Antonio Carella (Nicola Fasano), 197. Il sansificio di Spongano (Lecce) (Giuseppe Corvaglia), 202. Appello per due chiese abbandonate a Taurisano (Stefano Cortese), 206. Note e vicende architettoniche della chiesa matrice di Casarano (Maura Lucia Sorrone), 208. Un logo per i 600 anni della cattedrale di Nardò (1413-2013) (Sandro Montinaro), 213).

 

 

 

 

Il delfino e la mezzaluna, per la Fondazione Terra d’Otranto

copertinadelfino bassa risoluzione

di Paolo Vincenti

 

Il delfino è da sempre considerato il più intelligente degli animali marini e ad esso si riferiscono innumerevoli storie, leggende, favole, le quali tutte suggellano un elemento sempre ricorrente quando si parla di questo simpatico mammifero: la sua amicizia con l’uomo. Quella del delfino è una simbologia molto complessa: solare e mercuriale da un lato, infera e ctonia dall’altro. Infatti, nell’antichità, oltre ad essere considerato salvatore dai naufragi, e quindi vera e propria divinità nelle religioni pagane, il delfino era anche psicopompo, cioè traghettatore delle anime da questo all’altro mondo. Presente nel mito, questo animale solca i mari e incrocia più di ogni altro pesce le rotte e il destino dell’uomo.  Il delfino è considerato amico dei bambini, amante della musica, compagno di avventure dei marinai e complice dei pescatori. Rappresentazioni di delfini sono state ritrovate su dipinti, affreschi, monete e mosaici diffusi nelle antiche civiltà, in particolare quelle greca e romana.  Nella mitologia greca il delfino è strettamente legato al dio Apollo che segue spesso nelle caratterizzazioni iconografiche del dio. Ma ancor prima di soffermarci su Apollo, bisogna dire che il delfino era l’animale sacro al dio Nettuno o Poseidone, insieme al cavallo. Vi è una doppia leggenda su questa associazione. Una leggenda dice che Nettuno, che anelava la mano delle nereide Anfitrite, ebbe come intermediario il messaggero Delfino, il quale riuscì a convincere la bella ninfa d unirsi al possente signore del mare. E Nettuno, per riconoscenza, immortalò Delfino nel cielo fra le costellazioni. Quella del delfino, infatti, è una costellazione boreale non molto estesa che si fa vedere soprattutto sul finire dell’estate e in autunno. L’altra leggenda vuole che Poseidone si fosse unito alla ninfa Melanto, sotto forma di delfino. Da questa unione nacque un figlio, Delfo, dal quale prese il nome l’isola di Delfi, dove egli era Signore, proprio quando Apollo giunse sull’isola. Il delfino inoltre veniva associato alla dea Venere: infatti simboleggiava la nascita della dea emersa dalla spuma delle acque e venne anche raffigurato insieme ad Eros. Lo si trova effigiato, oltre che a Delo, nella Casa dei Delfini, nel palazzo di Cnosso ( infatti i Cretesi credevano che i morti si ritrovassero ai limiti del mondo, nelle isole dei Beati, e che i delfini li trasportassero sul dorso alla loro dimora finale ), nelle  decorazioni musive di Ostia, su monete, vasi, anelli, orecchini, ecc. Presso i greci, l’associazione con il dio Apollo era  molto frequente. L’Inno ad Apollo di Omero infatti narra che il dio arrivò sull’isola di Delfi sotto forma di delfino. Una leggenda sul l’origine di Delfi  narra che Icadio, figlio di Apollo,  fece naufragio e venne salvato da un delfino, che lo trasportò fino ai piedi del Parnaso. Fu qui che Icadio volle fondare una città cui diede nome Delfi per rendere onore al delfino che lo aveva salvato. Un’altra leggenda narra del mitico cantore Arione. Secondo Erodoto, riportato da Pausania, Arione era un musico, originario di Lesbo, e aveva ottenuto dal tiranno di Corinto il permesso di girare per la Magna Grecia per arricchirsi con  il suo canto; della bravura di Arione come musicista parla anche Ovidio nei “Fasti”.  Al momento di  tornare in patria i marinai decisero di ucciderlo per derubarlo, ma il dio Apollo in sogno lo avvertì del pericolo. Quando fu aggredito, Arione chiese di poter cantare un’ultima volta: al suono del suo  canto accorse un branco di delfini, Arione si gettò in acqua e fu raccolto da un delfino che lo condusse a riva. Qui giunto, dedicò un ex-voto ad Apollo e tornò a casa, dove raccontò l’accaduto al tiranno. Quando la nave giunse a Corinto, i marinai riferirono al tiranno che Arione era morto durante il viaggio ma a quel punto Arione si mostrò e i colpevoli vennero messi a morte. A perenne ricordo  dell’episodio Apollo trasformò la lira di Arione e il delfino in costellazioni.  Plinio il Vecchio, nella “Naturalis Historia”, narra di un bambino che aveva fatto amicizia con un delfino, nelle vicinanze di Baia: ogni giorno andando a scuola gli offriva la merenda e lo cavalcava per essere traghettato sulla sponda opposta del lago. Quando il bimbo morì, il delfino continuò ad aspettarlo, fino a  quando morì di dolore. Anche Eliano ci racconta la storia dell’amicizia fra un delfino e un ragazzo; il ragazzo era solito cavalcare il delfino per giocare fra le onde, ma un giorno si ferì a morte con l’aculeo della pinna dorsale. Il delfino, disperato, si gettò sulla spiaggia e si lasciò morire. Ancora Plinio ci racconta di come i delfini collaborerebbero con i pescatori, spingendo verso le reti i banchi di pesce, in cambio di una parte del pescato. Secondo Plinio, i pescatori chiamavano a gran voce i delfini con l’appellativo di “Simone”, dal greco simòs, da cui il latino simus, per  “camuso”, come viene definito il muso dell’animale. Anche Taranto deve la propria fondazione a  un delfino: narra Pausania che Falanto, spartano, dopo un naufragio fu salvato proprio da un delfino, e trasportato sulla costa dell’Italia meridionale, dove fondò la città. Nella mitologia greca il delfino si lega anche a Dioniso. Il dio dell’ebbrezza e del furore selvaggio chiese ad alcuni pirati di traghettarlo da Argo a Nasso, ma scoprì che costoro avevano ordito un complotto per venderlo in schiavitù. Per punirli, il dio trasformò i loro remi in serpenti, avviluppò la nave in una cortina di edera e la bloccò con tralci di vite finché i pirati, impazziti, non si gettarono in mare, venendo trasformati in delfini. Da allora essi sono amici degli uomini e si adoperano per salvarli dai flutti, come memoria del pentimento dei pirati da cui discendono. Della complessa simbologia di questo pesce poi si impossessò anche il Cristianesimo che raffigurò spesso Cristo sotto forma di delfino. Inoltre, essendo esso da sempre considerato simbolo di salvezza per  i naviganti, nell’iconografia più usata gli si affiancò l’ancora. E attorcigliato ad un’ancora lo troviamo molto spesso negli stemmi araldici, accanto al motto “festina lente”. Questa raffigurazione è stata ripresa dalle monete romane del I secolo d.C.. Il motto “festina lente” era attribuito all’imperatore Augusto dallo scrittore latino Svetonio nella sua opera “Vita di Augusto”, e può essere tradotto come “affrettati lentamente”, a significare prudenza nella velocità, calma anche quando gli eventi sembrano sopraffare, caratteristiche queste certamente attribuibili al mitico mammifero.

La mezzaluna, come si sa, rappresenta il simbolo dell’Islam e ha un particolare valore nello stemma civico della nostra Provincia di Lecce, l’antica Terra D’Otranto, con riferimento alla secolare lotta fra cristiani e musulmani. Per i paesi arabi, è un simbolo antichissimo sebbene adottato, quasi ufficialmente, solo dal Quattrocento in poi. Infatti la storia racconta che nel IV secolo a.C.  Filippo di Macedonia, precisamente intorno al 340-341 a. C.,  quando mise sotto assedio la città di Bisanzio, essendo una notte molto scura, contava di prendere di sorpresa gli abitanti della città e di poterla facilmente sottomettere. Accadde invece che, alzandosi un forte vento a disperdere le nuvole, il chiarore della falce di luna che campeggiava nel cielo di quella notte epocale favorisse la difesa da parte degli abitanti della città i quali riuscirono ad allertare l’esercitò, che scacciò prodemente gli invasori. Da quel momento venne visto nella mezzaluna un simbolo portafortuna ed esso iniziò ad essere inciso sui muri e in ogni angolo della città come riconoscenza. La mezzaluna diventò quasi una divinità alla quale essere eternamente grati. Fu però nel 1453, in occasione dell’assedio da parte dei Turchi alla città di Bisanzio, che questo simbolo diventò universalmente noto  fino ad essere inscindibilmente associato al mondo musulmano. L’impero Ottomano infatti  rispettò la cultura delle comunità musulmane e ne mantenne iconografia, culti e tradizioni. Tutti gli stati islamici oggi amano questo simbolo e si riconoscono nella mezzaluna  con la stella che campeggia sulla bandiera ufficiale di molti di essi ( come Azerbaigian, Turchia, Maldive, Pakistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Algeria, Libia, Tunisia, Mauritania e Comore)

Il delfino e la mezzaluna convivono dal 1481 nello stemma araldico della nostra antica Terra D’Otranto e sono anche oggetto dello studio di Maurizio Carlo Alberto Gorra, “Il delfino nel mito, nell’estetica, nell’araldica”, nel suo bel saggio introduttivo alla neonata rivista “Il delfino e la mezzaluna”, alla quale offro, come modestissimo contributo, la mia piccola ricerca di cui sopra che non ha certo il carattere di originalità che hanno invece i preziosi scritti che compaiono nella rivista stessa. Si tratta del numero del luglio 2012 del periodico della “Fondazione Terra D’Otranto”, ente costituito a Nardò nel 2011. Presidente del nuovo sodalizio culturale è Marcello Gaballo, deus ex machina di una ensemble di ricercatori, giovani e meno giovani, noti e meno noti, che hanno già fatto parlare molto bene del precedente cenacolo culturale, vale a dire “Spigolature Salentine”, sito on line e rivista cartacea, che ora passa il testimone a questa nuova pubblicazione e al sito web www.fondazioneterradotranto.it. Verso questo sito web anche chi scrive le presenti note ha più di un debito di gratitudine. La  Fondazione Terra D’Otranto vara allora questo nuovo strumento editoriale, una rivista dall’elegante formato, che vanta un Comitato Scientifico di tutto rispetto.  Direttore Responsabile è Pierpaolo Tarsi, il quale nel suo scritto introduttivo ricorda gli obbiettivi che si propone  la fondazione, sottolinea il criterio di severa valutazione e di scientificità a cui vengono sottoposti i testi che giungono in redazione, la molteplicità e varietà delle tematiche trattate fin da questo primo numero e il respiro internazionale della rivista testimoniato anche dalla tradizione in inglese  dell’abstract, cioè il sommario dei testi presentati .

Nel primo numero della rivista, oltre al già citato saggio di Gorra, compaiono contributi di Alessandro Laporta, “Il Plinio di Nardò. Un incunabolo da riscoprire”;  Roberto Spaventa, “Successioni feudali a Seclì dal XIII al XIX secolo”; Eugenio Imbriani, “Le parole degli altri”; Valentina Antonucci ,“Contributo alla storia dell’arte sacra: riflessi di una strategia controriformistica nella produzione pittorica della diocesi di Lecce”; Francesca Talò , “Un’inedita testimonianza della famiglia Del Balzo Orsini nella storia del santuario di San Pietro in Bevagna, agro di Manduria”; Paolo Agostino Vetrugno, “La Colonna di S.Oronzo a Lecce tra monumentum e documentum”; Pier Paolo Tarsi, “Il lieto fine invisibile del Capitan Black: una rilettura del pensiero politico ed etico nei Canti de l’autra vita di Giuseppe De Dominicis”; Liliana Qafa, “Intervista a Stefania Casini, regista del film-documentario <Made in Albania>”; Angelo Salento, “Cultura popolare,territorio, sviluppo: genesi, forza e rischi dell’immaginario turistico del Salento”;  Tommaso Ariemma, “La struggente meravigliosa poesia delle cose. Intorno all’opera di Annunziata Martiradonna”; Schede restauri e Recensioni. Seguono le Norme redazionali della rivista, lo Statuto della Fondazione e l’Indice.

Una pregevole pubblicazione che segue a due precedenti uscire editoriali con le quali la Fondazione si era già messa in luce nei mesi precedenti, vale a dire “Salvatore Napoli Leone. Genio di Terra D’Otranto (1905-1980)” di Gianni Ferraris, a cura di Marcello Gaballo,  e “La Cattedrale di Nardò”, a cura di Marcello Gaballo, Giovanna Falco e Giuliano Santantonio. Particolare importanza viene riservata dagli animatori del gruppo culturale alla veste grafica delle pubblicazioni impreziosite da un corredo fotografico da far invidia ad esperti e collezionisti.

Albo signanda lapillo, per dirla in latino, “da segnare con pietra bianca”, come con i giorni fausti del calendario romano, questo lieto evento che  è la nascita nel nostro Salento di una nuova creatura editoriale alla quale rivolgo, ultimo di tanti a me maggiori, i miei migliori auguri.

 

Fondazione Terra d’Otranto e Il delfino e la mezzaluna. Mauro Marino* intervista Pier Paolo Tarsi

  • Il 29 luglio è una data importante

Si, per la Fondazione Terra d’Otranto è un giorno memorabile, il giorno della pubblica presentazione, dell’apertura a tutti coloro che vorranno fare parte di questa avventura, della condivisione dei primi frutti di due anni di lavoro silente ma costante e quotidiano. L’appuntamento è alle ore 20.30 nei giardini della villa comunale di Nardò.

  • Di cosa si occupa la Fondazione Terra d’Otranto?

È  una fondazione culturale, senza fini di lucro, nata per volontà di Marcello Gaballo, medico neretino e studioso che oggi la presiede. È una delle poche realtà culturali che vanta il riconoscimento ufficiale della Regione Puglia: voglio sottolineare, non parliamo di una procedura formale completata ma di un sigillo di serietà di intenti ed attività concesso a chi garantisce, attraverso lo statuto,  uno scrupoloso rigore ed impegno nell’investimento in cultura, nell’organizzazione e nei modi di intervento sul territorio.

 

Quali scopi ha?

Gli scopi sono molteplici, ben espressi nello statuto che sarà presto consultabile online sul sito www.fondazioneterradotranto.it . Brevemente, convergono sulla promozione e valorizzazione del patrimonio artistico, archeologico, architettonico, archivistico, demoetnoantropologico, storico ed ambientale della Terra d’Otranto. Ma queste sono belle formule sulle quali non mi soffermerei troppo. Gli scopi della Fondazione sono l’insieme di quelle attività che si stanno traducendo o si tradurranno in fatti a beneficio del territorio e di chi lo abita, a vantaggio della conoscenza approfondita di Terra d’Otranto e della sua rinascita sociale.

Nella serata del 29 presenterete una rivista, ce ne parla?

La rivista si chiama “Il delfino e la mezzaluna”, nome che si ispira chiaramente allo stemma di Terra d’Otranto ed esprime efficacemente la cornice di riferimento e gli scopi conoscitivi per cui nasce.

È concepita per essere la voce ufficiale della Fondazione e, in particolare, il veicolo principale delle ricerche degli studiosi di ogni disciplina che si occupano in forme diverse di Terra d’Otranto: arte in primis, ma anche storia, lingua, letteratura, studi etno-antropologici, sociali,  storico-filosofici, ricerche sulla storia della scienza, su ambiente, territorio, economia, relazioni interculturali ecc. Vogliamo che ogni serio studioso ed ogni paziente ricercatore a qualsiasi titolo (accademico e non, indipendente o istituzionalmente strutturato, giovane e sconosciuto o affermato e di fama ecc) possa contare sulla possibilità di una destinazione di alta qualità dei propri sforzi, e vi possa contare solo sulla base del merito e del valore scientifico delle proprie ricerche che potrà inviare direttamente in redazione con la posta elettronica! Per tale ragione ci siamo dotati di un comitato scientifico ampio e di competenze multidisciplinari, composto per lo più da alcune decine di docenti dell’ateneo salentino (ma non solo) e da studiosi di grande esperienza. Inoltre, a garanzia della qualità scientifica dei saggi che saranno pubblicati e

Una nuova realtà culturale per il Sud della Puglia, la Fondazione Terra d’Otranto

 

il logo della Fondazione Terra d’Otranto (C)

La Fondazione Terra d’Otranto, costituitasi con atto notarile il 4 aprile 2011, il 15 marzo 2012 ha ottenuto il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia, con relativa iscrizione all’Albo delle Persone Giuridiche.

Tale Fondazione ha sede legale a Nardò ed esercita la propria attività nell’antica Terra d’Otranto, oggi identificabile nelle province di Brindisi, Lecce e Taranto, con l’obiettivo di contribuire alla crescita culturale e sociale della comunità locale.

Presieduta dal dott. Marcello Gaballo – ideatore e promotore del sito web Spigolature Salentine – si propone di fare ricerca per promuovere, valorizzare e recuperare la memoria di beni e siti di interesse artistico, archeologico, architettonico, archivistico, demoetnoantropologico, storico ed ambientale che ricadono nell’antica Terra d’Otranto.

Avvalendosi della consulenza di un Comitato Scientifico – composto da studiosi e docenti universitari e coordinato dalla dott.ssa Daniela De Lorenzis – mira a svolgere le proprie attività in sinergia con altre istituzioni volte a promuovere la crescita culturale e sociale del territorio della Puglia.

Per realizzare questi obiettivi si avvieranno iniziative finalizzate alla divulgazione e alla conoscenza del patrimonio culturale della nostra Terra, quali mostre, studi, ricerche, corsi, manifestazioni, convegni, concerti,

Scusate l’ardire, Salento è Talento

di Pino De Luca

29, 30 e 31. A gennaio si chiamano i giorni della merla.

A luglio occorre trovargli un nome. Che sono date nelle quali il sogno diventa realtà.

29 di luglio: Nardò. Nel meraviglioso Parco del Castello appena riaperto alla frequentazione dei cittadini, Marcello Gaballo ha rappresentato la concretizzazione di un sogno: la Fondazione Terra d’Otranto è ormai viva, vegeta, riconosciuta ed in buona salute. Un luogo nel quale i talenti nel campo dell’arte, della letteratura e della cultura potranno avere momenti di confronto e di verifica intorno alla rivista Il Delfino e la Mezzaluna diretta magistralmente da Pier Paolo Tarsi. Bellissima serata con centinaia di persone che son li, fino a quasi mezzanotte, a nutrirsi di cultura.

30 di luglio: Lecce. Nella sala Janet Ross del Resort Risorgimento, dopo un gestazione faticosa, un altro sogno prende forma: Leccellente, magazine bimestrale che non si compra ma si merita, vede la luce. Raccolta tutto ciò che di straordinario è da Lecce, con Lecce e per Lecce, con Lecce intendendo tutto il territorio dei cento comuni. Sala stracolma, il Sindaco Paolo Perrone riesce a trovare una pausa del Consiglio Comunale per esserci con un intervento non di circostanza, e, a chiudere, piccole delizie di Donato Episcopo e Marco Greco.

31 di Luglio: Lecce. Sala Didattica dell’ex-ospedale psichiatrico. Conferenza stampa di presentazione di Ortoporto. Ci sono il Direttore generale della ASL,

29 luglio 2012. Il Salento con noi

di Daniela Lucaselli

Un bellissimo evento di grande spessore e valenza culturale si è tenuto ieri sera nella suggestiva atmosfera della villa comunale di Nardò. Siamo stati tutti spettatori di una manifestazione che, a giusta ragione, può essere ascritta come vanto e orgoglio della popolazione neretina e salentina. Nell’incanto di giardini lussureggianti e tra il profumo dolcissimo di zagare carezzevoli, tra gli ultimi bagliori di un tramonto che si mostrava anch’esso spettatore affascinato e tardava così a porgere il suo saluto, il Dott. Marcello Gaballo con trascinante eloquio e accattivante simpatia presentava in veste ufficiale, al pubblico accorso numeroso ed interessato, la Fondazione Terra d’Otranto. Anni di intensa e faticosa preparazione sia nella struttura che nelle finalità perseguite hanno visto il Dott. Gaballo, coadiuvato dal Consiglio di Amministrazione, dare finalmente alla luce un riferimento certo e significativo per la Terra d’Otranto, che intende richiamare a raccolta liberamente tutti i liberi pensieri che desiderino contribuire alla crescita e allo sviluppo del territorio salentino. Si rivolge quindi a studiosi, ricercatori, docenti, studenti, appassionati e a quanti insomma non

Questa sera la Fondazione Terra d’Otranto si presenterà al pubblico

Oggi 29 luglio 2012, alle ore 20.30, a Nardò, nella Villa comunale adiacente al Palazzo di Città, la Fondazione Terra d’Otranto si presenterà al pubblico.

 

Dopo il saluto del Sindaco della Città di Nardò, che ha patrocinato l’evento, saranno illustrate le iniziative che la Fondazione ha finora intrapreso e quelle che intende perseguire.

L’incontro proseguirà con l’intervento della dott.ssa Ilaria Oliva, docente presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce, che si soffermerà sull’importanza delle fondazioni e sulle ricadute economiche, sociali e culturali sul territorio; il dott. Pier Paolo Tarsi illustrerà i contenuti e le finalità del primo numero della Rivista della Fondazione, “Il delfino e la mezzaluna”; lo scrittore e saggista dott. Antonio Errico tratterà della prima monografia della Fondazione, “Salvatore Napoli Leone (1905-1980). Genio in Terra d’Otranto”, di Gianni Ferraris. 

Modera il prof. Salvatore Colazzo (Ordinario dell’Università del Salento).

 

Nel corso della serata sarà data la possibilità, a quanti lo desiderassero, di aderire alla Fondazione. Tutti gli iscritti avranno diritto a una copia omaggio della rivista, al primo numero della collana “Itineraria”, diretta dal dott. Paolo Giuri, e al volume su Salvatore Napoli Leone.

 

E’ particolarmente gradita la Sua presenza.

Il Presidente

Marcello Gaballo

Il delfino e la mezzaluna (quinta ed ultima parte)

di Armando Polito

Se di numismatica non sono un esperto, di araldica, poi, sono totalmente digiuno, ma, avendo all’inizio lanciato un sasso contro i titoli nobiliari, non intendo certo nascondere la mano ma passarla, com’è doveroso, a chi sull’argomento ne sa e vorrà integrare la trattazione parlando dei numerosi stemmi familiari in cui il delfino è componente essenziale (ma in araldica, so solo questo, anche il più piccolo dei componenti secondari ha il suo significato e, dunque, la sua importanza).

Tornando al nostro simbolo si dirà: accontentiamoci pure, nell’attesa,  di quanto fino ad ora si è detto del delfino; ma la mezzaluna che tiene in bocca? Qui per fortuna la risposta non è complicata: si tratta di un elemento aggiunto dopo la cacciata dei Turchi (popolazione di cui la mezzaluna costituisce uno dei simboli)  ad opera di Alfonso d’Aragona, duca di Calabria e figlio di Ferdinando I di Aragona, re di Napoli, nel 1481. Elemento aggiunto, si diceva, sulla cui storia pregressa voglio spendere qualche parola lasciando parlare, come al solito, le fonti.

Preliminarmente, però, va detto che lo stesso termine mezzaluna è improprio, anche se si è imposto. Infatti si tratta di un quarto di luna, nel nostro caso crescente. Crescente, da solo, è voce astronomica e definisce l’aspetto falcato che la Luna (crescente lunare) e i pianeti Mercurio e Venere assumono nei giorni che precedono o seguono quello in cui si trovano in congiunzione con la Terra e col Sole (giorno che, per la Luna, è detto novilunio); crescente, sempre da solo, in araldica (chiedo scusa ai competenti ma la mia intrusione si limita a questa precisazione) è il nome generico della mezzaluna ed è accompagnato da vari attributi ad indicare la sua posizione nello scudo: montante (quando ha le corna volte verso l’alto; volto, quando ha le corna che guardano il fianco destro dello scudo; rivoltato, quando le corna guardano il fianco sinistro; rovesciato, quando sono volte verso la punta dello scudo; volto in banda o in sbarra, quando guardano l’angolo superiore destro o sinistro; in cuore, quando tre crescenti sono addossati nel centro; irregolari quando tre o più sono accostati in posizione diversa; frontato o addossato, quando due crescenti si mostrano le corna o il dorso; figurato (raro) quando mostra occhi, bocca e naso umani.

Per evitare l’equivoco di crescente basta il vecchio detto: gobba a levante luna calante, gobba a ponente luna crescente.

E passiamo a qualcosa di molto più antico.

Stefano Bizantino, un grammatico vissuto probabilmente nel V secolo d. C., nella sua opera Ethnikà (traduco dal testo originale curato da Augusto Meineke  Stephani Byzantii ethnicorum quae supersunt, Greimer, Berlino, 1849, pagg. 178-179; pure il testo in parentesi quadre e non in corsivo è mio) così scrive: Il porto di Bisanzio si chiama anche Bosporio [in greco Bospòrion27); gli abitanti lo chiamano cambiando una lettera (in greco paragrammatìzontes) Fosforio28 (in greco Fosfòrion), da quando gli scrittori di cose patrie hanno tramandato un altro racconto mitico di Bisanzio, secondo il quale mentre [siamo nel 340 a. C.] Filippo il Macedone assediava Bisanzio e aveva già fatto scavare nel corso dell’assedio un passaggio nascosto [in pratica, una galleria], quando gli scavatori cominciavano a rientrare dal loro lavoro in gran segreto, Ecate29 diventando luminosa fece come se di notte si fossero accese torce per i cittadini che così dopo aver messo in fuga gli assedianti chiamarono il luogo Fosforio.

La testimonianza di Stefano, che, peraltro, fa riferimento a fonti generiche (scrittori di storie patrie), rimane poco più che una leggenda. Tuttavia va detto che Fosfòrion in un’iscrizione (Inscriptiones Graecae, Berlino, 11, 2, 203B 74) del  III secolo a. C. si chiamava il sigillo con l’immagine di Artemide portatrice di torcia nonché, in un’altra (Supplementum Epigraphicum Graecum, Leiden, 4, 446,17) del III-II secolo a. C. e in un papiro del IV secolo d. C. (Griechische Papyrus der Landesbibliothek zu Strassburg, 9, 8) il suo santuario. Fosfòrion è derivato dall’aggettivo fòsforos/on (composto da fos=luce+fero=portare)=che porta luce, che dà luce,  secondo una tecnica di formazione collaudata, la stessa, per esempio, che ha portato alla formazione di Pallàdion (statuetta di Pallade, ma anche sede del tribunale dei giudici di appello, gli efeti, ad Atene) dal tema Pallàd– di Pallàs/Pallàdos=Pallade); artemìdion (dittamo) dal tema Artèmid– di Àrtemis/Artèmidos=Artemide), etc. etc. La leggenda, perciò, potrebbe, come spesso succede, contenere riferimenti involontari (per motivi cronologici) ad un culto successivo che potrebbe aver lasciato traccia in alcune monete di Bisanzio (in basso un esemplare)…

tetradracma di Antioco VIII (115-113 a. c.).  Nel retto: testa con diadema;  nel verso: Giove con crescente sulla testa e stella a 8 punte in mano; legenda: BASILEOS ANTIOCHOY EPIPHANOYS (Dell’illustre re Antioco).

…e di Roma:

1)

denario di Gneo Cornelio Sisena (118-117 a. C. circa). Nel retto testa di Roma con elmo attico alato; legenda SISENA, ROMA e X (simbolo dei 10 assi).  Nel verso Giove su quadriga verso destra tiene con la sinistra lo scettro e le redini e con la destra si accinge a scagliare il fulmine; quasi ai due estremi  in alto una stella e ancora più im alto al centro la testa radiata del Sole e un crescente lunare; in basso il gigante anguipede con il fulmine nella mano destra e con la sinistra alzata; legenda: CN CORNEL L F (le lettere NE sono in monogramma). Qui Gneo Cornelio celebra le vittorie orientali del suo antenato L. Cornelio Scipione contro Antioco re di Siria.

2)

denario di Manlio Aquilio (109-108 a. C.). Nel retto il Sole raggiante e legenda X (vedi moneta precedente). Nel rovescio Luna sulla biga verso destra; in alto un crescente e tre stelle, in basso una stella; legenda: MN (in monogramma),  AQU(ILIUS) e ROM(A).

3)

denario di Aulo Postumio Albinus (96 a. C.). Nel retto testa laureata di Apollo, a sinistra una stella; legenda R e X (vedi moneta precedente). Nel verso i Dioscuri abbeverano i cavalli; in alro un crescente e due stelle; legenda: A ALBINU (S) (AL in monogramma).

4)

denario di Lucio Titurio Sabino (89 a. C.). Nel retto testa di Tito Tazio; legenda SABIN  A PV. Nel verso  il supplizio di Tarpea.  È evidente come Titurio intende collegare la sua origine sabina con il più famoso rappresentante di quella popolazione.

5)

denario di Lucrezio Trio (76 a. C.). Nel retto testa di Giove con corona radiata. Nel verso crescente fra sette stelle; legenda TRIO L LUCRETI.

6)

aureo di Publio Clodio (42 a. C.). Nel retto testa radiata del Sole, dietro la faretra. Nel verso: crescente fra cinque stelle. Legenda: P CLODIVS  M F.

A qualche lettore più fantasioso le due ultime monete (in particolare la seconda) avranno fatto ricordare qualcosa venuto di recente alla ribalta della cronaca politica: il Movimento cinque stelle; ma anche, probabilmente,  il simbolo che campeggia nelle bandiere di molti stati islamici, tra cui la Turchia.

Non è un caso che io abbia citato questo stato e riprodotto la sua bandiera, perché furono proprio i Turchi ad adottare questo simbolo (usuale nel mondo bizantino e, come dalla numismatica si è visto mostrare, non estraneo nemmeno al mondo romano in seguito a contatti di natura, forse e tanto per cambiare, prevalentemente militare) nel 1453, quando completarono la loro espansione in quel mondo con la conquista di Costantinopoli, l’antica Bisanzio.

Potrei chiudere, come spesso amo fare, in modo leggero e un po’ dissacratore dicendo che qualche fanatico islamico odierà forse il nostro utilizzo del suo simbolo e che nemmeno noi occidentali abbiamo la coscienza pulita quando oggi, per non parlare di un passato remoto e recente, mascheriamo, col pretesto  di esportare la democrazia ed il connesso (solo teoricamente, purtroppo…) rispetto dei diritti umani, altri appetiti molto, molto meno nobili, comunque ignobili almeno quanto quelli che spinsero alcuni secoli fa i predatori di quel mondo sulle coste del nostro; sicché oggi quel simbolo antico potrebbe tranquillamente essere utilizzato per simboleggiare una realtà storica opposta in cui la difesa è stata soppiantata, con cavillose e nostre… giustificazioni, dall’offesa.

Susciterò magari un vespaio di rabbiose osservazioni (forse, ancora una volta mi illudo e, invece, morirò senza aver risolto questo dubbio: pochi mi contraddicono perché non sanno che dire, oppure, più verosimilmente, perché con me e con le mie posizioni non vale perdere neppure un attimo?) ma il sigillo di questo scritto è amaro: meglio un fanatico islamico conoscitore della storia che un occidentale ignorante e schiavo del ventre, convinto che la mezzaluna che ha in bocca il delfino sia l’attrezzo da cucina…

Alla neonata fondazione il compito nobilmente ambizioso di ridimensionare, almeno, questo desolante quadro e di essere una piccola, grande tessera di quel mosaico sempre in fieri e che, come ho detto all’inizio, al di là di sensazioni epidermiche transitorie, è alla base dell’amore nelle sue molteplici forme: la conoscenza.

______

27 Forma sostantivata dell’aggettivo Bospòrios/Bospòrion=del Bosforo, che è da Bòsporos=Bosforo.

28 Il verbo paragrammatìzo in greco significa cambiare lettera per scherzo o per emendamento. Non c’è ombra di dubbio che qui non si tratta del primo  caso (con gli dei era meglio non scherzare…) ma piuttosto di una fattispecie del secondo, perfettamente inquadrabile nel fenomeno della paretimologia o etimologia popolare.

29 Divinità psicopompa (guida delle anime dei defunti verso il regno dei morti), veniva anche associata in alcuni casi ai cicli lunari, insieme con altre divinità come Diana/Artemide, e Selene/Luna. Superfluo far notare come nel simbolo dell’Islam la luna appare in fase crescente e se il lettore avrà la pazienza di andare alla serie di immagini che aprono la prima parte potrà constatare come questo dettaglio appaia fedelmente conservato nell’obelisco e come invece negli altri, a partire da quello della provincia e dal militare che sono coevi, la rotazione subita dal delfino ha finito per far apparire la luna come calante.

PER LE PARTI PRECEDENTI:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/11/il-delfino-e-la-mezzaluna-prima-parte/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/12/il-delfino-e-la-mezzaluna-seconda-parte/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/14/il-delfino-e-la-mezzaluna-terza-parte/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/18/il-delfino-e-la-mezzaluna-quarta-parte/

Vedi pure: http://www.fondazioneterradotranto.it/tag/sigismondo-castromediano/

 

Il delfino e la mezzaluna (quarta parte)

di Armando Polito

Per dovere di completezza va ricordato anche uno sfruttamento “laico” del delfino che compare in molte marche tipografiche dei secoli XVI-XVII, che qui distinguo in due gruppi a seconda della loro composizione riportandone solo alcuni esemplari:

1)  La Fortuna: una donna in mare è sorretta da un delfino e tiene con le mani una vela gonfiata dal vento.

2) Delfino avvinghiato ad un’ancora.

Il primo, destinato anche a restare il più famoso, ad adottare questa marca, conservata poi tal quale dal figlio Paolo, fu Aldo Manuzio.

Il lettore ricorderà che nella nota 10 della terza parte avevo lasciato in sospeso la questione dell’accostamento fatto dal Piccinelli tra il delfino e l’ancora. È giunto il momento di dire come effettivamente stanno le cose. Tutto nasce dall’incontro tra Aldo Manuzio (1449-1515) ed Erasmo da Rotterdam (1466/1469-1536) il quale nei suoi Adagia pubblicati da Aldo nel 1508,  dopo aver riportato la testimonianza di Gellio relativa ad Augusto da me citata nella stessa nota 10,  trae una prima conclusione: Che il medesimo detto (lo spèude bradèos che Gellio ci ha tramandato esser caro ad Augusto) sia piaciuto a Tito Vespasiano si deduce facilmente dalle sue antichissime monete, una delle quali d’argento mi mostrò Aldo Manuzio uomo benemerito di ogni antichità, moneta di fattura antica e chiaramente romana, che diceva essergli stata mandata in dono da Pietro Bembo, patrizio veneto, giovane non solo erudito tra i primi ma anche diligentissimo investigatore di antichità letterarie. La moneta era fatta così: da una parte presenta il volto di Tito Vespasiano con un’iscrizione, dall’altra un’ancora la cui parte centrale o timone è abbracciata da un delfino avviluppatovi intorno. Che poi questo simbolo null’altro voglia significare che il detto spèude bradèos di Augusto ne offrono indizio le testimonianze dei geroglifici24.

Dopo essersi dilungato sul valore simbolico dei geroglifici ed aver ricordato certe rappresentazioni egizie di serpenti avviluppati e con la coda in bocca da interpretare come il trascorrere ciclico del tempo, Erasmo così continua: In primo luogo il cerchio, poi l’ancora la cui parte centrale il delfino abbraccia col suo corpo avviluppato; il cerchio poiché non è delimitato da nessun confine, allude all’eternità del tempo; l’ancora, poiché tiene ferma, lega a sé e blocca la nave, indica la lentezza. Il delfino, del quale nessun animale è più veloce o più pericoloso per l’impeto, esprime l’idea della velocità. Tutto questo, se sapete cogliere le connessioni, darà origine  ad un motto di questo tipo: aèi spèude bradèos, cioé semper festina lente (affrettati sempre lentamente)25.

Poi, dopo aver sciolto l’apparente contraddittorietà dell’ossimoro, così conclude:  E così questo motto spèude bradèos appare partito fin dagli stessi misteri dell’antica filosofia, per cui fu avocato a sé da due dei più lodati imperatori, cosicché all’uno funse da proverbio, all’altro da stemma. Ora ha trovato in Aldo Manuzio il suo terzo erede26.

In tutto ciò, secondo me, l’unica cosa certa è l’esistenza della moneta di Tito Vespasiano (79-81 d. C.) di cui parla Erasmo.

Con il delfino e l’ancora nel verso, a quanto ne so, furono coniati  un aureo (in basso)

e diversi denarii e molto probabilmente, con un pizzico di fortuna,  tra quelli di seguito riportati uno corrisponderà proprio a quello mostrato ad Erasmo.

Tutto il resto mi pare un’abile operazione di marketing ante litteram per il lancio della marca editoriale Aldo Manuzio, perché il dato iniziale (Gellio) non fa una piega, è forzato, invece, il trasferimento di quel dato a Tito Vespasiano  e perciò, quanto meno, molto discutibili  tutte le ipotesi interpretative connesse da quello derivate.

C’è pure da osservare che nella monetazione romana il delfino, l’ancora, il tridente di Nettuno appaiono da soli o associati come elementi, per lo più,  di una rappresentazione celebrativa di una vittoria navale o di una semplice competenza nello stesso settore, collocata di regola nel verso, anche se alcuni di loro in qualche caso sono presenti nel dritto. Le immagini che seguono, disposte in ordine cronologico per meglio seguire l’evoluzione del fenomeno,  vogliono provare quanto appena asserito:

1) 

asse (209-208 a. C.). Nel dritto testa laureata di Giano, nel rovescio prua di nave con ancora e legenda ROMA. Qui l’ancora appare come un semplice accessorio della nave.

2)

denario di Sesto Giulio Cesare (129 a. C.). Nel dritto testa di Roma a destra, con elmo attico alato; a sinistra verso il basso  un’ancora a destra verso il basso il simbolo dei sedici assi.  Nel rovescio Venere, su biga in movimento verso destra, tiene le redini con la sinistra e una frusta con la destra mentre alle sue spalle Cupido  la incorona; legenda: SEX  IULI  CAISAR  ROMA.

3) 

denario di Varrone e Pompeo Magno (49 a. C.) per il quale vedi la moneta successiva. Nel dritto testa di Iuppiter terminalis con legenda VARRO PRO Q. Nel verso uno scettro tra un delfino e un’aquila, con legenda MAGN PRO COS.

4)

denario (44-43 a. C.) di Nasidio, generale navale di Pompeo Magno la cui testa, il tridente ed il delfino compaiono nel dritto con leggenda NEPTUNI. Nel verso quattro triremi disposte in combattimento, con leggenda Q.NASIDIUS.  La legenda precedente sottintende filius sicché l’intero nesso significa figlio di Nettuno.Se ai nostri tempi c’è ancora chi è disposto a sborsare somme ingenti per esibire titolo nobiliare o, ancor meglio, un diploma o una laurea, perché meravigliarsi se nell’antica Roma c’era chi pretendeva di avere addirittura origine divina? Ecco cosa scrive, però Plinio più di un secolo dopo (Naturalis historia, IX, 55) su questo personaggio:  Siculo bello, ambulante in litore Augusto, piscis e mari ad pedes eius exsiliit; quo argumento vetes respondere, Neptunum patrem adoptante tum sibi Sexto Pompeio (tanta erat navalis rei gloria), sub pedibus Caesaris futuros qui maria tempore illo tenerent (Durante la guerra di Sicilia, mentre Augusto passeggiava sulla spiaggia un pesce saltò dal mare ai suoi piedi; in base all’accaduto gli indovini dichiararono che, poiché Sesto Pompeo si era adottato come padre Nettuno, tanta era la gloria della vittoria navale, sarebbero finiti ai piedi di Cesare  coloro che in quel tempo dominavano i mari).

5)

quinario di Marco Giunio Bruto (43-42 a. C.). Nel dritto testa della Libertà con legenda LEIBERTAS. Nel rovescio ancora e punta di prua di nave in posizione incrociata.

6)

denario di Pompeo Magno (42-40 a. C.). Nel dritto testa di Nettuno con un tridente in spalla e legenda MAG PIVS IMP ITER. Nel rovescio trofeo navale con corazza, elmo con tridente, prua di nave a sinistra, aplustre a destra. Sotto due mostri marini (Scilla e Cariddi) e un’ancora come sostegno; legenda: PRAEF CLAS ET [ORAE  MAR IT EX S C].

7)

asse (data incerta ma comunque posteriore al 31 a. C.) di M. Agrippa la cui testa appare nel dritto con la corona navalis o rostrata, onorificenza concessagli da Augusto per la vittoria ad Azio (31 a. C.) contro la flotta di Antonio; legenda: M. AGRIPPA L. F. COS. III. Nel rovescio Nettuno si volge a destra reggendo il tridente con la sinistra e tenendo nella destra un piccolo delfino; legenda: S C.

Dagli esempi addotti si direbbe che il delfino, l’ancora e il tridente esprimano significati politico-religiosi più che morali.

Ed è un caso che tutti e tre (il delfino avvinto al tridente), compaiano in un galerus  (sorta di piccolo scudo per il quale è stata avanzata anche l’ipotesi di una funzione votiva) rinvenuto il 10 gennaio 1767 a Pompei nella Scuola dei gladiatori (divenuta nel mondo, con il recente crollo, il simbolo della seconda rovina della città…) e custodito nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli?

Non sapremo mai, comunque, se l’idea di sfruttare il delfino e l’ancora vespasianei con l’aggiunta del motto festìna lente balenò prima nella mente di Aldo oppure in quella di Erasmo.  Forse ci giunsero di comune accordo dopo una serie di incontri aziendali…e non è da escludersi che ci sia stato pure lo zampino del Bembo, che faceva parte, con Erasmo,  dell’Accademia Aldina fondata dal Manuzio nel 1494. Sulla questione c’è da dire, infine, che nella marca tipografica del Manuzio mai compare il motto in questione che fu solo citato da Aldo nella dedica della sua edizione del 1498 delle opere latine di Angelo Poliziano.

Certo è che il delfino e l’ancora (in alcuni casi con la presenza del motto) continuarono ad essere usati da tanti altri tipografi…

Il motto della marca di Ruffinelli (mediato dal Manuzio) fu adottato, forse in modo più appropriato, anche dall’editore Bartolomeo Sermartelli (attivo a Firenze dal 1571al 1630): infatti lì è una tartaruga che in mare sorregge con il guscio una vela spiegata al vento recante un giglio araldico  (in basso le marche del 1609-1625 e del 1571-1630):

Molto originale, perché esula dai due schemi e ripropone il mito di Arione, è la marca di Johannes Oporinus risalente al 1558:

E poteva mancare nel genere letterario degli emblemata cioè di quelle opere,  che tanto successo ebbero a partire dal XVI secolo, di carattere moraleggiante, sostanzialmente costituite da tavole il cui titolo in latino era un motto ed il cui testo in versi, pure essi latini, commentava l’immagine centrale? Un solo esempio per tutti, proprio quello che si riallaccia strettamente a quanto poco prima è stato riportato sul Manuzio. Dagli Emblemata di Jean-Jacques Boissard usciti nel 1584 riproduco e commento la tavola n. 56.

Il titolo Nec temere nec segniter (Nè troppo presto né troppo tardi) esprime lo stesso concetto del Festina lente. In basso due distici elegiaci:  Dum rem suscipies quamcumque gerendam/consilium hinc mulier suggeret, inde senex./Coepta morae impatiens festina, ait, impiger. At tu/lente, inquit, propera, tardus hic, illa levis (Mentre intraprenderai qualsiasi cosa da fare, una donna da una parte, un vecchio dall’altra ti suggeriranno un consiglio. Dice questi lento:  – Ma tu affrettati lentamente! -. Dice quella leggera: – Svelto, impaziente dell’indugio, affretta il lavoro cominciato! -).

(continua)

______

24 Iam vero dictum idem Tito Vespasiano placuisse, ex antiquissimis illius numismatis facile colligitur: quorum unum Aldus Manutius, vir de omni antiquitate praeclare meritus, spectandum exhibuit argenteum, veteris, planeque Romanae scalpturae, quod sibi dono missum  aiebat a Petro Bembo, patritio veneto, iuvene cum inter primos erudito, tum omnis literariae antiquitatis  diligentissimo pervestigatore. Numismatis character erat huiusmodi: altera ex parte faciem Titi Vespasiani cum inscriptione praefert, ex altera anchoram,cuius medium ceu temonem Delphin obvolutus complectitur. Id autem symboli nihil aliud sibi velle, quam illud Augusti Caesaris dictum spèude bradèos, indicio sunt  monimenta literarum hieroglyphicarum.

25 Primo loco circulus, deinde anchora, quam mediam delphinus obtorto corpore circumplectitur: circulus  quoniam nullum finitur termino, sempiternum innuit tempus; anchora, quoniam navim remoratur, et alligat, sistitque, tarditatem indicat. Delphinus, quod hoc nullum animal celerius, aut impetu perniciore, velocitatem exprimit; quae, si scite connectas, efficiente huiusmodi sententiam aèi speude bradèos, cioè semper festina lente.

26 Itaque dictum hoc spèude bradèos, ex ipsis usque priscae philosophiae mysteriis profectum apparet, unde adscitum est a duobus omnium laudatissimis imperatoribus, ita ut alteri adagionis esset locus, alteri insignium vice. Nunc vero in Aldum Manutium Romanum, ceu tertium heredem, devenit.

PER LE ALTRE PARTI:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/11/il-delfino-e-la-mezzaluna-prima-parte/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/12/il-delfino-e-la-mezzaluna-seconda-parte/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/14/il-delfino-e-la-mezzaluna-terza-parte/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/27/il-delfino-e-la-mezzaluna-quinta-ed-ultima-parte/

Vedi pure: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/30/il-delfino-stizzoso-dellantico-stemma-di-terra-dotranto/

 

Il delfino e la mezzaluna (terza parte)

di Armando Polito

Non c’è da meravigliarsi, inoltre,  se le prerogative di salvatore del delfino, (che diventa metafora di vìrtù divine e dell’uomo (in riferimento a quest’ultimo, come spesso succede nella simbologia di ogni tempo, anche di vizi) e di salvatrice dell’ancora (che nella forma ricorda, oltretutto, la croce che, però, all’inizio non venne usata in quanto all’epoca era il principale strumento di tortura e di esecuzione capitale) siano state fatte proprie anche dalla religione cristiana fin dai primi tempi del suo avvento. Oltretutto il delfino è un pesce e, com’è noto proprio il pesce costituisce il simbolo originario di questa religione perché la parola greca ιχθúς, che significa, appunto, pesce è anche acronimo di Ιεσοúς Κριστòσ Θεοú Υιòς Σωτήρ (Gesù Cristo figlio di Dio salvatore). I graffiti che seguono furono tracciati a Roma sulla via Ardeatina nella catacomba di Domitilla (nel primo secolo vissero due Domitille, una moglie, l’altra nipote del console Flavio Clemente, quest’ultima venerata come martire nel IV secolo). E sorprende che l’ancora, anche se attribuirle una precisa datazione è pressoché impossibile, compaia, sia pure avviluppata da un delfino, nelle monete di Tito Flavio Vespasiano, cioé di un appartenente, più o meno coevo, alla stessa gens, cosa di cui si parlerà in seguito.

Fondamentale, per chi voglia accostarsi all’argomento con particolare riferimento ai motti che in epoca successiva accompagnarono il delfino, è Mondo simbolico formato di imprese scelte, spiegate, et illustrate con sentenze , ed erudizioni Sacre, e Profane di Filippo Picinelli, Vigone, Milano, 1680 (presente nella biblioteca A. Vergari di Nardò; l’immagine sottostante si riferisce ad un’edizione del 1653).

L’intero libro VI è dedicato ai pesci e il suo XVII capitolo (pagg. 321-324) al delfino. Mi limiterò a citare fedelmente, anche nella punteggiatura oggi discutibile, col mio commento nelle relative

Il delfino e la mezzaluna (seconda parte)

di Armando Polito

Oggi il delfino è conosciuto per la straordinaria intelligenza che biologi ed etologi gli attribuiscono, oltre che per la sua dedizione (ma è la conferma di un pensiero antico) nei confronti dell’uomo (e qui, secondo me,  sarebbe opportuno che il delizioso cetaceo diventasse anche un po’ furbo, ma questo è un modo di ragionare tipicamente umano…).

Chi non conosce la favola di Arione e il delfino? La cito dalla fonte diretta che ce l’ha tramandata: Erodoto (V secolo a. C.). Lo storico greco nel secondo capitolo del primo libro delle Storie così scrive: Periandro, figlio di Cipselo, fu colui che comunicò a Trasibulo la risposta dell’oracolo e fu re di Corinto. Qui si narra, e gli abitanti di Lesbo lo confermano, che fu testimone di un grandissimo prodigio: l’arrivo a Tenaro di Arione Metimneo seduto su un delfino. Arione era un citaredo tra i migliori del suo tempo e per primo aveva inventato, denominato ed esposto in corinto il ditirambo1. Si narra che costui, dopo essere rimasto a lungo presso Periandro, fu preso dalla voglia di navigare alla volta dell’Italia e della Sicilia. Soddisfatto il suo desiderio e dopo aver guadagnato molto denaro volle ritornare a Corinto. Dovendo partire da Taranto poiché si fidava solo di quelli di Corinto noleggiò un equipaggio tutto costituito da marinai corinzi. Questi, però, quando furono in alto mare, tramarono di impadronirsi del suo denaro scaraventandolo fuori dalla nave. Arione se ne accorse e, pur di avre salva la vita, offrì loro tutto quello che aveva. I marinai per tutta risposta gli consigliarono di suicidarsi lì se voleva essere sepolto in terra o di saltare subito in mare. Arione chiese di soddisfare l’ultimo desiderio: cantare, vestito di ogni suo ornamento, sul ponte della nave; fatto ciò, si sarebbe suicidato. I marinai, desiderosi di ascoltare un simile campione di canto, passarono dappa poppa al centro della nave. Arione, pomposamente abbigliato, prese la cetra e, stando sul ponte della nave, modulò quel canto che si chiama ortio2 e terminato il canto si buttò in mare con tutti i suoi ornamenti. I marinai proseguirono la navigazione verso Corinto, mentre Arione venne preso sul dorso da un delfino e trasportato a Tenaro. Qui una volta a terra se ne andò con le stesse vesti a Corinto dove, appena giunto, raccontò quanto gli era successo. Ma Periandro non gli credette; perciò fece sorvegliare da uomini di sua fiducia l’ordine che gli aveva dato di non uscire e convocò i marinai ai quali chiese se avevano notizia di Arione. Risposero che sano e salvo se ne andava in giro per l’Italia e che l’avevano lasciato in perfetta salute a Taranto. A quel punto comparve Arione con lo stesso abito che indossava quando si era gettato in mare e i marinai dovettero confessare il loro tentativo di impossessarsi dei suoi averi eliminandolo. Questo fatto lo raccontano a Corinto e a Lesbo, a

Il delfino e la mezzaluna (prima parte)

di Armando Polito

Già simbolo o, se si preferisce, stemma  (lo è ancora attualmente, seconda immagine) della Provincia di Lecce e ancor prima della Provincia di Terra d’Otranto  (ricorre sulle quattro facce del primo tratto dell’obelisco di Porta Napoli a Lecce, prima immagine, iniziato nel 1822 in occasione della probabilmente auspicata ma mai avvenuta visita a Lecce di Ferdinando I di Borbone, completato nel 1826 e celebrante sui restanti tratti di ciascuna facciata la storia sintetica dei distretti di Gallipoli, Lecce, Brindisi e Taranto), dal 1997 del 47° RAV (Reggimento Addestramento Volontari)  “Ferrara”* (terza immagine), è stato di recente assunto dall’ omonima fondazione di cui Spigolature salentine è da considerare il fratello telematico, entrambi figli di quel poliedrico ed infaticabile personaggio che è Marcello Gaballo.

Dico subito che con i simboli ho un rapporto conflittuale, fatto di amore ed odio, come mi succede, per esempio, per ogni celebrazione privata o pubblica, civile o religiosa: puntualmente ogni anno, e non credo di essere il solo, mi chiedo se valga la pena sprecare tempo e denaro per qualcosa che sembra ormai essersi prostituita all’unico scopo di metterci in pace (e si tratta, per giunta di pace fasulla…) con la nostra coscienza o non sia più saggio sopprimere tutto. Poi ti viene il sospetto che se questo si verificasse probabilmente si cancellerebbe del tutto il ricordo, faccio un esempio per tutti, della nascita di Cristo, per quanto esso abbia subito nel tempo un progressivo scolorimento…

Il simbolo, lo stemma hanno sempre avuto una finalità, per così dire, di riconoscimento e di propaganda, con un pizzico di esibizionismo che ha finito poi per prevalere su quello evocativo di certi valori e, in genere, della storia, senza dire che se si andasse a scavare nel passato chissà quante presunte o reali nobiltà risulterebbero figlie della disonestà e della sopraffazione.

Fino a qualche anno fa tra la posta che puntualmente ricevevo e già fin dal secondo invio altrettanto puntualmente gettavo nella pattumiera non mancava quella che, dopo avermi annunziato che il mio cognome tradiva origini nobiliari, offriva (si fa per dire…) i suoi servigi per la ricostruzione dell’albero genealogico e l’individuazione dello stemma che, se avessi aderito,  mi sarebbero stati recapitati. Ancora oggi credo che ci sia gente desiderosa di soddisfare questa vanità e di esibirne il costo…

D’altra parte neppure Totò, l’autore di ‘A livella, seppe sottrarsi a questa tentazione sperperando somme enormi per vedersi riconosciuto il titolo di principe; al genio, però, si perdona tutto, anche una contraddizione che può essere solo apparente e mi piace immaginare questo dettaglio della sua vita come l’espressione forse più alta di autoironia…

Dopo gli stemmi vennero i marchi e, ultimamente, i loghi; e venne  la grafica pubblicitaria che non disdegna l’apporto di più discipline specialistiche, non esclusa la psicologia e, almeno per me, amare un simbolo è diventato ancora più difficile quando penso che esso ha solo la funzione di evocare suggestioni recondite e di lanciare messaggi subliminali con l’unico scopo del successo commerciale.

Il simbolo, insomma, perché continui ad avere un significato ed essere amato, non dev’essere uno strumento di marketing, ma per essere amato, come succede anche nei rapporti interpersonali, dev’essere conosciuto.

Il nostro, per fortuna, si è fin qui sottratto (forse proprio grazie alla sua età?) ad ogni lusinga che lo trascinasse fuori dall’alveo  della storia, ma ne è poi rimasto vittima: la Provincia di Terra d’Otranto è solo un ricordo, la Provincia di Lecce lo sarà anch’essa se andrà in porto la tanto attesa riforma amministrativa (comunque, niente paura per gli addetti ai lavori e pure per quelli che vi aspirano: ce ne vorrà di tempo!…).

Resterà allora solo il logo della Fondazione Terra d’Otranto? Non sono tanto imbecille da avventurarmi in profezie nella speranza che qualcun altro più imbecille di me ci creda; posso solo augurarmelo con tutto il cuore, perché sarebbe uno dei rari casi (quasi impensabile ai nostri tempi…) in cui la cultura autentica (quella non schiava di questa o quella ideologia o, peggio, del dio denaro) avrà preso il posto troppo spesso occupato, fra l’altro, da disonesti e/o ignoranti.

(continua)

_________

* Lo era stato dal 1860 al 1871 del 47º Reggimento Fanteria Brigata “Ferrara”, dal 1872 al 1881 del 47º Reggimento Fanteria “Ferrara”, dal 1882 al 1926 del 48° Reggimento Fanteria, dal 1927 al 1933 della XXIII Brigata di Fanteria, dal 1934 al 1938 della Divisione Fanteria “Murge”, dal 1939 al 1943  della Divisione di Fanteria “Ferrara”, dal 1977 al 1991della XLVII Brigata Fanteria “Salento” e dal 1992 al 1996 della XLVII Brigata “Salento” .

PER LE ALTRE PARTI:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/12/il-delfino-e-la-mezzaluna-seconda-parte/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/14/il-delfino-e-la-mezzaluna-terza-parte/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/18/il-delfino-e-la-mezzaluna-quarta-parte/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/27/il-delfino-e-la-mezzaluna-quinta-ed-ultima-parte/

Vedi pure: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/30/il-delfino-stizzoso-dellantico-stemma-di-terra-dotranto/

 

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!