Zuèccu, zzoca, zzucàre

di Armando Polito

La serie proposta oggi nel titolo è il classico esempio di voci più o meno omofone, cioè dal suono relativamente identico ma dall’etimologia completamente diversa.

Cominciamo con zuèccu, Piccone snello e leggero, con manico lungo e con sbarra a taglio piatto e stretto ad una estremità, e a taglio piatto e largo dall’altra; veniva adoperato con maestria per estrarre dalle cave di pietra i conci per costruzioni. [dal suono onomatopeico zec… zec dei colpi]1.

Se la descrizione appena fatta dell’attrezzo è perfetta, non mi convince l’etimologia proposta e non riesco a capire, anzitutto, perché non è stata messa in campo, tutt’al più, una serie zozzoc che avrebbe consentito di conservare il vocalismo.  Che la voce avesse una possibile origine onomatopeica lo aveva creduto, anche se non lo aveva dichiarato direttamente, pure il Rohlfs che dubitativamente si era chiesto se non fosse identico all’italiano ciocco2.

Ora in italiano di ciocco ce ne sono due: il primo, di etimologia incerta, indica la parte inferiore del tronco di un albero, da cui si diramano le radici; grosso pezzo di legno da ardere; persona insensibile, poco reattiva; tonto3; il secondo, probabilmente di origine onomatopeica, voce regionale toscana, urto, collisione percossa3.

Mi pare abbastanza evidente che il Rohlfs si riferisce al secondo ed è abbastanza probabile che l’opinione del Garrisi sia derivata da quella dello studioso tedesco.

Mi permetto di fare la mia proposta e di dire che la nostra voce potrebbe essere figlia del latino medioevale soccus, a sua volta figlio dell’omologo soccus=sandalo, dal cui diminutivo sòcculus è nato, poi, il nostro zoccolo.

Il passaggio semantico, a parte la somiglianza della forma (escludendo il manico), sarà chiaro dopo che avrò riportato quanto al lemma soccus è registrato da Du Cange4:

“SOCCUS, Vomer, ferrum aratri, nostris Soc de charue. Alexander Necham: Supponatur dentile vel dentale, cui Soc, vel vomis infigatur. Charta Alaman. Goldasti 50: In ea ratione, ut dum advixero, ipsas res habere debeam; et censui me pro hoc singulis annis, de festivitate S. Galloni in alia, Soccum unum, aut 4 denarios. Tzocos apud Heronem in parekbolàis, et apud Joannem Cananum pag. 194. Polyptychus Monasterii Fossatensis, editus a Steph. Baluzio: Manent ibi homines 19. Solvit unusquisque usque ad Monasterium carroperam 1 et Soc et cultrum. Alias Scot.  Lit. remiss. ann. 1385 in Reg. 127 Charttoph. reg. ch. 199: Deux grosses pieces de fer pour faire deux Scos ou coustres à charrus. Soich in aliis ann. 1388 ex Reg. 132 ch. 220 Suec in Vitis SS. MSS. ex cod. 28 S. Victor. Paris fol. 45 vo col. 2.Soccus apud Anglos et Scotos, Barones dicuntur tenere curias suas cum Socco, et sacca, furca et fossa, etc. ut est in Regiam Majestatem lib. I cap. 4 § 2. Ubi haec Skenaeus: Qui habet donationem terrarum vulgo in feofamentum5 si bi a Rege concessum, cum Socco potest habere vassallos, vel colonos, quos cogere potest, ut cum Socco seu vomere, id est aratro agrum suum colant, qui propterea Soccomanni vocantur lib. 2 cap. 27 Alii per soccum intelligunt sectam, Soyt of court, ut sit privilegium regale, tenendi curias, in quibus sectatores comparere debent, ut in lure dicendo, et justitia administranda, judici adsint suo consilio.

(traduzione: SOCCUS: Vomere, ferro dell’aratro per i nostri [i Francesi] Soc de charue 6….Si potrebbe supporre dentile o dentale in cui si inserisce il soc o vomere….in quel caso, finché vivrò, dovrei avere queste cose; e ho pensato che io a questo scopo debbo avere ogni anno da una festa di San Gallone alla successiva un socco o quattro denari. Tzocos7 presso Gerone nelle Digressioni e presso Giovanni Canano…Restano lì 19 uomini. Ciascuno provvede ad un solo trasporto con carri fino al monastero e al soc e al coltello. Altrimenti……Grossi pezzi di ferro per realizzare due scos o pezzi appuntiti per l’aratro. Soich in altri…Soccus presso gli Inglesi e gli Scozzesi, si dice che i baroni mantengono le loro corti con il socco, la sacca, la forca e la fossa…Chi ha una donazione di terre, secondo il modo di dire popolare in concessione feudal a lui fatta dal Re, può avere vassalli, o coloni che può costringere a coltivare il suo campo col socco o vomere, cioè aratro, i quali per questo sono chiamati Soccomanni…altri per socco intendono fazione, seguito di corte, come se fosse un privilegio reale di tenere una corte nella quale i componenti il seguito debbono comparire per assistere il giudice nella sua decisione nella dichiarazione della legge e nell’amministrazione della giustizia).

Nell’immagine, gentilmente passatami dall’amico Marcello, le parti contrassegnate con a (vomere, in dialetto ombre) e b (dentale, in dialetto tintale) evocano la forma del ferro dello zuèccu.

Il passaggio s->z- non pone alcun problema essendo quasi la regola: a parte la variante tzocos registrata dal Du Cange, basta pensare per l’ italiano a zozzo variante di sozzo, a zoccolo [dal latino sòcculu(m), diminutivo di soccus] e per il dialetto neretino a zòccula (grosso ratto, ma, per traslato, anche puttana) da un latino *sòrcula(m), diminutivo del classico sorex/sòricis=sorcio).

Passiamo ora a zzoca, sinonimo di fune.

Condivido questa volta pienamente, quanto riportato dal Rohlfs e dal Garrisi, per i quali la voce, collegata con l’antico italiano soga,  è dal latino (aggiungo io tardo) soca. È senz’altro da respingere la proposta etimologica avanzata da Giuseppe Presicce8 in http://www.dialettosalentino.it/zzuca.html

dove leggo: ZZUCA. Significato in italiano: corda fatta di giunchi intrecciati. Etimologia: dall’aggettivo “ζύγον”, che serve ad indicare tutto ciò che serve a congiungere due elementi e, quindi, anche una corda. Vedere anche l’antico termine italiano “soga” = striscia di cuoio, correggia. Note: con la “z” sorda.

Intanto c’è da dire: 1) che l’esatta grafia del greco (perché di parola greca si tratta) ζύγον messo in campoè ζυγόν; 2) la voce in questione non è un aggettivo ma un sostantivo che significa giogo, coppia, legame, ponte.

Se sul piano semantico non ci sono problemi a collegare zzuca (è la variante di Scorrano del neretino zzoca) con  ζυγόν,è su quello fonetico che l’operazione diventa impraticabile perché costantemente il digramma greco ζυ o quello latinoju evolvono nel dialetto salentino in sciu. Per quanto riguarda il latino gli esempi sono innumerevoli (basti per tutti jùncum da cui l’italiano giunco e il salentino sciùncu). Ma emblematico del passaggio del fenomeno dal greco al latino e poi nel salentino è proprio ζυγόν  che ha dato vita al latino jùgum (con retrazione dell’accento perché in latino non esistono, com’è noto, parole tronche), da cui, poi, l’italiano giogo e il salentino sciùu/sciù. Se zzuca fosse derivato da ζυγόν sarebbe stato, perciò, sciùca. Prima di approfondire la questione, però, non posso non essere grato al Presicce per un nesso che altrimenti avrei omesso di ricordare e che riporto: cacare zzuche: defecare escrementi di forma allungata, simili a grosse corde.

E, dopo quest’aulica immagine (che non ho ritenuto opportuno corredare di foto come ho fatto per l’originale non metaforico…)  riprendo il discorso interrotto per un attimo.

Tanto zzoca/zzuca che il ricordato italiano antico soga sono tutti, come già detto, dal tardo latino soca o soga, lemmi così trattati nel glossario del Du Cange9: “SOCA Charta plenariae securitatis sub Justiniano scripta, apud Brisson, lib. 6, formul. pag. 647: Armario uno valente siliquas quattuor, Socas tortiles duas valentes siliquas aureas sex, sella ferrea… Ital. Soca est funis. Vide Soga” (traduzione: SOCA. Carta della sicurezza plenaria scritta sotto Giustiniano, presso Brisson, lib. 6 formul. pag. 647: In un armadio che vale quattro silique10 due corde attorcigliate del valore di sei silique di oro, sedie di ferro…Ital. Soca è fune. Vedi Soga) e a SOGA: “Restis. Gloss. Soga, funis. Vox Italis et Hispanis etiam in usu. Lex Langobardorum lib. 1 tit. 25 § 33 [Roth. 296]: Si quis Sogas furatus fuerit de bove iunctorio, componat sol. 6. Innocentius III PP. lib. 1 Epist. 61: Culcitram unam, mantilia 4. Sogam carralem de corio…Chronic. Parmense ad ann. 1291 apud Murator. tom. 9 col. 821: Campana communis, quae erat adhuc in platea communis super uno aedificio ligneo, dum sonaretur ad Sogam, fracta fuit. Dantes in Infern. cant. 31: Cercati al collo e troverai la Soga.  Vide Oct. Ferrarium in Soga. Tabularium sancti Mauricii Agaunensis apud Guichenonum in Probat. Hist. Sabaud. pag. 4: De quarto terra S. Mauricii habet Sogas 5, una quaeque Soga habet pedes 100. Ubi Soga, est funis, funiculus, agri modus… (traduzione: Restis. Gloss. Soga, fune. Voce in uso pure tra gli italici e gli Spagnoli. Legge dei Longobardi lib. 1 tit. 25 § 33 [Roth. 296]: Se uno ha sottratto per furto le funi da un bue destinato al giogo paghi 6 soldi. Innocenzo III papa lib. 1 Epist. 61: Un materasso, 4 grembiuli, una fune da carro di cuoio… Cronaca parmense fino all’anno 1291 presso Muratori tomo 9 colonna 821: La campana comune che allora era si trovava in  comune in piazza su una costruzione di legno mentre veniva suonata al tiro della corda si infranse. Dante in Inferno… cant. 31: Cercati al collo e troverai la Soga.  Vedi Ottavio Ferrari alla voce Soga. Tabulario di San Maurizio  Agaunense presso Guichenono in Probat. Hist. Sabaud. pag. 4: Di un quarto la terra di San Maurizio ha cinque soghe, ciascuna soga è costituita da 100 piedi. Dove soga significa fune, cordicella, misura del campo…).

Quanto all’italiano antico soga c’è da ricordare per tutti Dante (Inferno, XXXI, vv. 73-74): Cercati al collo e trollerai la soga/che il tien legato… (il corno) e il suo uso letterario in Pascoli, Le canzoni di Enzio, La canzone dell’Olifante, III, v. 61: Lasciate il corno pendere alla soga e Il Sacro Impero, VIII, vv. 1-2: E suona la campana del Comune/a tocchi tardi. Ella è sonata a soga.

Zzucàri erano i funai e la parola sopravvive nel detto scire a nnanti comu li zzucàri (andare avanti come i funai, modo sarcastico per dire regredire invece di progredire, dal momento che i funai intrecciavano le fibre vegetali con un movimento a ritroso dopo averne fissato le estremità ad un sostegno verticale).

E siamo, infine, a zzucàre. La voce è registrata dal Rohlfs, col significato di succhiare, per il Brindisino come testimonianza non diretta ma tratta dal Vocabolario dialettale ossia il linguaggio vernacolo della provincia di Terra d’Otranto in confronto della lingua nazionale, Tipografia del commercio, Taranto, 1896 di Francesco d’Ippolito (in gran parte compilazione del Vocabolario del dialetto tarantino in corrispondenza della lingua italiana di Ludovico De Vincentiis, S. Latronico, Taranto, 1872 e del Saggio di un vocabolario domestico del dialetto leccese, Tipografia cooperativa, Lecce, 1893).

Nel Garrisi si legge la definizione fabbricare funi e in senso figurato tirare per le lunghe, tergiversare; la voce è fatta derivare da zuca, evidente variante, come zzuca del Presicce, del neretino zzoca.

A quanto ne so nel neretino la voce è usata per rimproverare ad uno (soprattutto ad un bambino) la sua petulanza e questo mi spinge a pensare che essa sia collegata alla definizione data dal Rohlfs, anche se succhiare nel neretino è sucàre. Il passaggio s->z- potrebbe tradire le origini napoletane della voce, per la quale riporto, e chiudo, le testimonianze che seguono:

Nicolò Capasso, De la guerra de Troia, in Collezione di tutti i poemi in lingua napoletana, tomo XV, Porcelli, Napoli, 1787 pag. 60: Pecché a ssentire a buie, sentì mme pare/propio li piccerille de la zizza,/che non sanno fa auto che zzucare).

Nicola Fasano, La Giorosalemme libberata de lo sio Torquato Tasso volta a lengua napoletana,  libro XI, ottava 71, in Collezione di tutti i poemi in lingua napoletana, tomo XIV, Porcelli, Napoli, 1786 pag. 23: Sta Goffredo appojato, e cco ffranchezza/nfrena lo chianto, e zzuca lo dolore (Sta Goffredo appoggiato e con franchezza frena il pianto ed assorbe il dolore).

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1 Antonio Garrisi, Dizionario leccese italiano, Capone, Cavallino, 1990.

2 Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo editore, Galatina, 1976, v. II, pag. 844 alla variante zoccu.

3 Dizionario italiano De Mauro, Paravia, 2000.

4 Glossarium mediae et infimae Latinitatis, Le Favre, Niort, 1886, tomo VII, pagg. 504-505.

5 Sicuramente errore per feudamentum.

6 Dal Trésor consultabile all’indirizzo http://www.cnrtl.fr/definition/

“Pièce travaillante de la charrue en acier (autrefois en bois), de forme pointue, s’élargissant vers sa partie postérieure, qui pénètre profondément dans la terre et la fait glisser sur le versoir; étymol. et Hist. 1160-74 (Wace, Rou, éd. A. J. Holden II, 1231, 1235, 1245) Mot de la France septentrionale qui remont à un gaul. *soccos ou *succos (cf. l’irl. socc qui désigne en outre le boutoir de sanglier et le kymr. swch) qui a subi l’infl. du lat. soccus, espèce de soulier bas (socque*). D’apr.  Guir. Lex. fr. Étymol. obsc. c’est le mot lat. soccus qui, sous l’infl. du gaul. *soccos ou *succos, aurait pris le sens part. de chaussure de la charrue”

(traduzione: Pezzo che lavora dell’aratro in acciaio (talvolta di legno), di forma appuntita, che si allarga verso la parte posteriore, che penetra profondamente nella terra e la scivolare sul versoio; etimologia e storia…parola della Francia settentrionale che risale ad un gallico *soccos o *succos (cfr. l’irlandese socc che designa inoltre il muso del cinghiale e il cimbrico swch) che ha subito l’influsso del latino soccus, specie di sandalo basso (socque*). Presso…etimologia oscura. È la parola latina soccus che, sotto l’influsso del gallico *soccos o *succos avrebbe assunto il significato particolare di scarpa dell’aratro”).

É con particolare soddisfazione che nel cercare nel Trésor la voce soc, introvabile negli altri dizionari francesi, ho trovato la conferma alla mia ipotesi iniziale.

7 Questa variante porta ulteriore acqua al mio mulino per quanto si dirà dopo sul passaggio, peraltro normale, s->z-.

8 Così si chiama anche mio cognato che, però, produce un ottimo formaggio in quel di Bellimento (pubblicità scorretta?…) e che di fronte ad un’etimologia si troverebbe a mal partito come me di fronte alla preparazione del cacio cavallo. Tuttavia, per quanto dirò, non è che il nostro nel confezionare la sua etimologia sia brillante…

9 Glossarium mediae… , op. cit., pagg. 503 e 508.

10 La siliqua era una moneta romana d’argento coniata dall’età costantiniana, ma prima era stata anche unità di peso corrispondente a circa o,9 g.; non a caso siliqua è anche il nome del baccello del carrubo (Ceratonia siliqua L.), i cui semi saranno utilizzati come pesi nelle bilance da orefice; carato, infatti, deriva dall’arabo qīrāt=ventiquattresima parte di un denaro, a sua volta dal greco keràtia=carruba, dal quale deriva la prima parte del nome scientifico.

A proposito di panìri/panièri

di Armando Polito

Nel post di Emilio Panarese del 29 u. s. si rivendica per panìri (la variante neretina è panièri) come etimo il greco moderno πανηγύρι. La paternità di tale attribuzione spetta al solito (quanto affetto e stima in quest’aggettivo che, riferito a qualcun altro, assumerebbe una sfumatura spregiativa!…) Rohlfs, che la ribadisce ai lemmi panaìri e panìri, rispettivamente alle pagine 446 e 447 del suo vocabolario. Io non so cosa abbia indotto il maestro tedesco ad attribuire alla voce un’origine relativamente recente, anche se  egli sembra aggiustare il tiro in Scavi linguistici nella Magna Grecia, Congedo, Galatina, 1974, dove a pag. 83 leggo: “leccese panìri, panièri, festa popolare in occasione di una fiera=otrantino panaìri, panìri, idem, dal greco volgare πανηγύρι(ον)”.   Dunque, prima il “greco moderno”, poi il “greco volgare” per una voce con un chiaro suffisso diminutivo (-ιον), normale nel greco classico, del quale, poi, sarebbe caduta la parte finale (ον). Proprio nel greco classico, oltre che in alcuni intermediari latini, esistono secondo me degli  elementi che potrebbero retrodatare di molti secoli la nostra voce, almeno rispetto a quel “greco moderno”1 e allo stesso, artificioso, “greco volgare” .

Un ruolo di protagonista assume , sempre per me, il greco, classico, πανηγύρις, evidente genitore di πανηγύρι (senza, peraltro, scomodare un presunto diminutivo πανηγύρι(ον), e va subito detto che non è certamente l’assenza della consonante finale ad essere prova determinante di un’origine più moderna per panìri/panièri.

Preliminarmente va detto che πανηγύρις ècomposto da due parole delle quali sarò costretto a riportare la trascrizione fonetica perché alcuni caratteri

Il letame ci ha fatti, il letame ci sta affossando

raccoglitore di letame (da union3.le.it)

di Armando Polito

Detto così sembra una contraddizione, una sorta di maledizione o, per chi ha smanie intellettualistiche, una nemesi storica all’inverso.

Probabilmente e paradossalmente ha ragione proprio quest’ultimo (che magari avrà buttato quel nemesi storica a caso…senza aggiungere all’inverso) ma non è da dimenticare che bisogna sempre fare i conti con la metafora, cioè con quella figura retorica che l’intelligenza umana (te la raccomando…) ha creato. Bisogna che tutti (anche parecchi degli addetti ai lavori…non agricoli) sappiano che letame è dal latino laetàmen, a sua volta da laetus=grasso, rigoglioso, fiorente, propizio, allegro. Poi a letame si affiancò come sinonimo concime, ma già la sua etimologia (da conciare, dal latino  *comptiàre, a sua volta da comptus participio passato di còmere=adornare) annunziava il distacco dal ciclo naturale, come dimostrano le multinazionali, chimiche, del settore, sicché concime oggi, in concreto, è un dannoso orpello1.

Sembrava che l’originario letame avesse toccato il fondo, ma una fine ancora

“Currìu” e il suo etimo…da collera e da colera?

da style.it

di Armando Polito

Lascio immediatamente la parola a chi, ad onta del tempo  trascorso (35 anni) dall’uscita dell’edizione italiana  del suo Dizionario dei dialetti salentini, rimane imprenscindibile punto di partenza, riferimento e quasi sempre di ritorno per chi, soprattutto dilettante come me, si cimenta in questo difficile campo.

Volume I, pag. 193: “currìu…, imbronciato, stizzito, risentito… [corrisponde all’italiano corrivo=disposto a correre, facile a credere]; vedi cursu”.

A pag. 194 dello stesso volume: “stare cursu=stare imbronciato …[italiano corso=sofferto”]; vedi currìu”.

A pag. 941 del terzo volume: “cùrrere: m’aggiu cursu=mi sono offeso; stannu cursi=si trovano in cattivi rapporti; vedi currùtu, currìu”.

Intanto va detto che il neretino non usa cursu ma currùtu, participio passato di currìre usato sempre riflessivamente (sembra un dettaglio di poco conto, ma, per quanto dirò dopo, potrebbe avere la sua importanza) in espressioni del tipo cu tte m’aggiu currùtu (=con te mi sono offeso). Il Rohlfs registra a pag. 193 del volume I currùtu (ma non come voce raccolta sul campo, la qualifica come aggettivo e non propone alcuna etimologia) col significato di crucciato e  currìre solo come variante di cùrrere (anch’essa non raccolta sul campo e col significato di correre, stillare, gemere). I rinvii tra cùrrerecurrutu, cursu e curriu nonché la corrispondenza con corrivo fanno pensare

Rispìcu

di Armando Polito

Jean François Millet, Spigolatrici (1857), Museo d’Orsay, Parigi

Dopo decenni di tecnologia sfrenata a supporto, col formidabile aiuto della pubblicità e dei suoi tentacoli sovente occulti,  della creazione di bisogni, in gran parte inutili, da soddisfare unicamente per vanità individuale e collettiva dei consumatori e per sete di profitto dei produttori in un equivoco scambio di sovvenzioni, agevolazioni, incentivi statali e posti di lavoro (così pure io sarei stato imprenditore…), la crisi sta ridimensionando il nostro modo di concepire la vita e di sfruttare rapacemente le risorse di un pianeta  sempre più in affanno per nostra colpa esclusiva. Mi vien da ridere quando sento affermare che l’effetto serra è dovuto in misura notevole ai gas di scarico non delle automobili ma delle mucche, come se l’allevamento intensivo lo avesse inventato qualche toro in preda ad istinti sessuali abnormi da soddisfare in breve tempo con un numero cospicuo di esemplari di sesso opposto…

Indietro non si torna; sarà così, ma lo speleologo, quando  s’imbatte in un cunicolo che diventa sempre più stretto non è che continua imperterrito ad andare avanti finchè non vi resta incastrato: torna indietro. Ogni abitante del pianeta, nessuno escluso, si trova in questa condizione, aggravata dal fatto che la sua rinunzia ad andare avanti non serve a nulla, se anche tutti i suoi compagni di avventura su questa terra non prendono la stessa decisione.

Intanto stiamo a disquisire con sottili distinguo tra responsabilità individuale e collettiva, tra condizionamenti patenti e occulti, tra diritti e doveri, tutti legati al nostro più o meno misero (in più di un caso faraonico…) orticello.

L’idea di tornare indietro appare al mondo, agli stati, ai singoli individui come una dichiarazione di resa, peggio, di sconfitta. Non c’è da meravigliarsi se quella sacrosanta voglia sulla strada della conoscenza che, dicono, ci distingue dagli altri animali ha finito nel corso dei secoli per avventurarsi su sentieri pericolosi e per identificarsi nel nostro tempo sostanzialmente col successo e col profitto ad ogni costo.

Tutto ciò, ed è l’aspetto più grave, ha finito per creare nuove categorie morali, in primis la furbizia, la disonestà e  l’ammanicamento, che hanno soppiantato le obsolete sacrificio, onestà, correttezza, merito. Il danno è duplice: il cretino o l’intelligente disonesto (in una parola, il furbo) che occupa un posto di comando non solo è un parassita che bara ma è anche responsabile del degrado morale di chi per ignoranza, stupidità, opportunismo o bisogno sta al suo gioco.

Se non avessi la certezza che nessuno degli spigolatori (me compreso… ma in questo caso non debbo essere io a dirlo) appartiene alle due categorie di individui appena descritte non starei a parlare oggi di una pratica antica continuata per buona parte del secolo scorso: lu rispìcu. Quali parole dovrei usare, infatti, per farmi capire da chi è abituato a nutrirsi, per lo più senza

Cazzamèndule, furmicalùru, saccufàe, irdulèddha, falaètta e ciciàrra: chi li ha visti?

di Armando Polito

Anzitutto ringrazio i sei  presunti dispersi perché con un semplice cambiamento del numero mi hanno consentito di evitare l’accusa di pubblicità ad una trasmissione televisiva che, pur non rinunciando talora all’enfasi e alla spettacolarizzazione, forse è l’unico esempio di tv di servizio.

Mi occupo oggi di sei uccelli frequentissimi dalle nostre parti al tempo della mia infanzia. Non so se il provvido istinto ha suggerito loro di cercare altri lidi meno pericolosi o se, come temo, quella attività sportiva (?) che pure un cerebroleso si guarderebbe bene dal praticare e che si chiama caccia li ha cancellati da ogni angolo della Terra. Se qualche cacciatore ha intenzione di denunciarmi per calunnia, faccia pure; sappia che nel momento conclusivo del processo taciterò il mio avvocato (purtroppo, per motivi tecnici, dovrò, per quanto formalmente, servirmene) e dimostrerò il mio assunto con prove così fondate che anche un giudice fanatico cacciatore sarà costretto a darmi ragione, nonostante questo comporti  di conseguenza pure per lui la conferma della mia diagnosi e a quel punto dovrò pubblicamente riconoscere che sarà pure cacciatore ma che nell’esercizio delle sue funzioni pubbliche  ha il grande pregio di essere leale e sportivo…

Sarà mia compagna nello stilare queste poche righe quella stessa tristezza che ti prende quando pensi a qualcosa  (tanto più quando si tratta di un essere vivente…) legata al tuo passato e che non rivedrai più.

Resta, magra consolazione, il fascino semplice dei loro nomi dialettali che evocano tempi in cui il cemento e l’asfalto non erano diventati ancora esiziali metastasi di quel cancro che abbiamo introdotto nell’ambiente affannandoci a nutrirlo e a moltiplicarlo anziché ostacolarne la proliferazione.

Cazzamèndule

http://www.migratoria.it/enciclopedia-online/frosone/

Il nome (alla lettera: schiacciamandorle) la dice lunga sulla particolare abilità con cui era (uso l’imperfetto per lui e per i successivi in funzione scaramantica…) in grado di soddisfare i suoi gusti alimentari, bisogna riconoscerlo, non comuni e che non trovavano soddisfazione nella plebea consumazione di un altrettanto plebeo lombrico e simili. Piuttosto generico appare il nome italiano,  frosone o frusone, che è dal latino tardo frisiòne(m)=della Frisia, col suo evidente riferimento al luogo di provenienza.  Chi avrebbe sospettato che più aderente al nome dialettale fosse quello scientifico? Coccothraustes coccothraustes L., infatti, deriva dal greco kokkos=granello, chicco, pillola+thràuo=spezzare.

Furmicalùru

http://xoomer.virgilio.it/filpo/animali/uccelli/torcicollo.htm

A differenza del precedente preferibilmente vegetariano, il suo pasto prediletto, come indica il nome dialettale, erano le formiche; credo che dovesse avere anche una grande pazienza nel rimediare un pasto completo, viste le dimensioni non certo ragguardevoli delle formiche nostrane. Pare, però, che il suo nome italiano, torcicollo, non alluda alle conseguenze di questa sua attività né ad una postura che per la stessa sembrerebbe obbligata ma alla capacità di storcere il collo quando viene disturbato o spaventato. Tuttavia, sulla Treccani on line, il nome è collegato alla facoltà di allungare il collo e volgere la testa di 180°, dettaglio non da poco per il tipo di caccia da lui praticato. Il nome scientifico, Jynx torquilla L., allude, invece, almeno in parte, ad altro.  Jynx deriva dal greco ìunx=torcicollo (proprio il nostro uccello, non l’inconveniente), incantesimo, seduzione, dal verbo onomatopeico iùzo=gridare, urlare, ronzare (per le api); va detto, però che il significato di torcicollo fu assunto per ultimo, cioè, quando Iunx, figlia di Pan e di Eco, fu trasformata nell’uccello per aver suscitato in Zeus l’amore per Io e da allora la bestiola venne utilizzata (e ti pareva…!) per incantesimi d’amore. Torquilla è dal latino medioevale torquìlla (o tòrtula), che nel Du Cange, tomo VIII, pag. 133 ha questa definizione: torquilla, tortula, avis ita dicta quod collum crebro torqueat (torquilla, tortula, uccello così detto perché torcerebbe spesso il collo). Per completezza ricordo che torquilla si ricollega al latino classico torquère=torcere,  tòrtula al suo supino tortum e non ha nulla a che fare con la tortora che è dal latino tùrture(m), di origine onomatopeica.

Saccufàe

http://www.fotoplatforma.pl/fotografia/it/3935/

Debbo confessare, anche se posso sembrare presuntuoso e sadico, che questo uccello,  da quando sono diventato grande e le parole hanno cominciato a

Scurcugghiàre e le sue pericolose parentele, forse…

di Armando Polito

Semanticamente assimilabile all’italiano rovistare, al suo confronto la voce protagonista del post di oggi ha, però, una superiore suggestione sonora, pur non essendo, almeno così sembra, una voce onomatopeica.

Il suo etimo è controverso perché  in Bollettino dell’Atlante linguistico mediterraneo, 8-9, Olschki, Firenze, 1966, pag. 161 si sostiene che alcune voci hanno assunto un significato metaforico nell’uso popolare e tra queste dei nomi di pesci: il veneziano ganzariol=sgombro e birro neofita (Boerio), siciliano sbirru, napoletano scurtone, e probabilmente anche l’abruzzese scurchiarille, scucchiarelle=sgombro, un nome affettivo, riflesso dal latino tardo sculca (Rew 7753 a)=guardia, spia, da cui discendono voci dialettali come il salentino scurcugghiare=frugare, molfettese skekelà=indagare, bitontino sklekuèue=spiare.

Nel suo Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo, Galatina, 1976, tomo II, pag. 636 Il Rohlfs così tratta il lemma: rovistare, frugare, spogliare; cfr. il calabrese scurcugghià=pelare, smungere, il catalano escorcollar=esaminare minutamente; da curculio=verme del grano?

Il lettore avrà notato che alla certezza assoluta del primo etimo proposto si contrappone il dubbio del maestro tedesco. Ora, ai tempi del Rohlfs la rete con la sua mole di informazioni era ancora di là da venire, sicché si può con ragionevole certezza ipotizzare che il punto interrogativo che chiude la sua proposta sia espressione di un dubbio che non suppone affatto la conoscenza e tantomeno il rigetto della prima etimologia che ho presentato, anteriore di dieci anni.

Comincerò da questa dicendo che sul piano semantico non c’è molto da obiettare, se non il fatto che il latino tardo sculca è attestato (Du Cange, tomo VII, pag. 375) come sinonimo di excubiae=posto di guardia. Appare, perciò, come una piccola forzatura spia aggiunto a guardia quasi ne fosse un sinonimo. In realtà la sentinella e la spia osservano, sostanzialmente la prima da ferma, la seconda in movimento, per assumere dati da utilizzare, prevalentemente, nel caso della sentinella in funzione difensiva, in quello della spia offensiva. La discendenza, poi, da sculca del salentino scurcugghiare e delle altre voci riportate non mi pare sufficientemente giustificata sul piano fonetico.

E passiamo al curculio (in italiano gorgoglione) del Rohlfs. Si tratta di un parassita altrimenti detto calandra o punteruolo del grano (Sitophilus granarius L.) della famiglia dei Curculionidi. Non a caso Curculio è il titolo, oltre che il nome di un personaggio che impersona la parte del parassita, di una commedia di Plauto (III-II  secolo a. C.).

http://www.agraria.org/entomologia-agraria/punteruolo-del-grano.htm

Per completezza d’informazione va detto che alla stessa famiglia del parassita del grano appartiene pure il famigerato punteruolo rosso (Rhynchophorus ferrugineus Olivier, 1790).

http://it.wikipedia.org/wiki/Rhynchophorus_ferrugineus

Sul piano semantico anche qui non tutto fila linearmente, nel senso che bisogna armarsi di una buona fantasia e paragonare le dita di chi fruga al parassita. Tutto, invece, filerebbe liscio sul piano fonetico perché da curculio sarebbe derivato *curculiàre che, poi, con la prostesi di  ex (*excurculiàre)  avrebbe dato vita a scurcugghiàre.

Aggiungo che curculio ha tutta l’aria di essere una voce dal tema (cur/cul) raddoppiato e se è così potrebbe essere parente di culex=zanzara  (Culex pipiens L.).

http://it.wikipedia.org/wiki/File:Culex_pipiens_2007-1.jpg

Si sarà già capito, per quel che può valere, con chi sto: il Rohlfs. Ciò mi permette fra l’altro (ma la scelta non è strumentale, anche perché le spie non scherzano…) di concludere dicendo che una volta tanto le conseguenze dell’azione di un uomo ispirata al nome di un animale sono meno pericolose e distruttive dell’attività principale di quest’ultimo, che, però, ha la sua giustificazione: per vivere deve pur mangiare…

E il pensiero finale è doveroso che vada al vergognoso (non per chi compie l’atto ma per chi, me compreso, forse solo per fortuna ancora non è arrivato a tanto, nella cristiana consapevolezza che potrebbe fare la stessa fine) spettacolo di chi scurcùgghia, per sopravvivere, nei cassonetti della spazzatura.

L’asfodelo (uluzzu), erba degli Eroi

L’ulùzzu*

 

 

di Armando Polito

Nomi salentini: ulùzzu (Nardò), avùzzu (Pulsano) avùzze (Montemesola, Ceglie Messapica), aùzzu (Avetrana, Manduria), laùzzu (Manduria, Maruggio, Mesagne), avaùzz (Martina Franca), alevùzze (Mottola).

Nomi italiani: asfodelo, asfodillo, porraccio

Nome scientifico: Asphodelus albus L.

 

ETIMOLOGIE

nomi italiani:

asfodèlo dal latino asfòdelu(m) e questo dal greco asfòdelos1;

asfodillo la variante, in Wikipedia attribuita a D’Annunzio, in realtà è di epoca anteriore (compare, per esempio, già nel Dizionario overo trattato universale delle droghe semplici di Niccolò Lemery, Hertz, Venezia, 1737, pag. 35 e, a seguire, nel Dizionario botanico italiano di Ottaviano Targioni Tozzetti, Piatti, Firenze, 1809, pag. 16 e nel Propagatore agricolo, anno V, Dell’Ancora, Bologna, 1855, pag. 73); la voce, se non è di origine straniera, è stata costruita con il suffisso adattando la terminazione originaria per analogia con voci come asperillo, bulbillo e simili;

porraccio forma accrescitivo-peggiorativa da porro.

nome scientifico: per asphodelus vedi italiano asfodelo; albus=bianco.

 

nomi dialettali salentini:

tutti dal latino albùciu(m)2, da albus=bianco; da albùciu(m), attraverso metatesi al->la– [*labùciu(m)], sincope di –b– [*laùciu(m)] e passaggio –ci->-zz– si giunge alla variante del Brindisino e del Tarantino laùzzu;  da questa, per errata discrezione della –u dell’articolo (*lu laùzzu>*l’ulaùzzu) e per successivo passaggio –au>-u– si giunge finalmente alla voce neritina.

È opinione corrente, ma senza fondamento come tenterò di dimostrare, che l’asfodelo nel mondo greco fosse associato all’idea della morte. In realtà in quel mondo la pianta assume una valenza ben più complessa e variegata che non esclude la vita, tutt’altro.

Un primo riferimento alle sue proprietà medicinali e la sua esaltazione come simbolo di una vita semplice e parca appare già in Esiodo (VIII-VII secolo a. C.).”E [non sanno i re] quale grande utilità ci sia nella malva e nell’asfodelo”3. Il giudizio espresso da Esiodo verrà citato da Plutarco (I°-II° secolo d. C.) e con un’integrazione che ricorda l’uso alimentare e terapeutico

Il paraclausìthyron di Nardò

di Armando Polito

Non vorrei che il benevolo lettore, suggestionato dall’assonanza dell’unica parola strana che compare nel titolo, pensasse, tanto più che io vivo, si può dire da sempre, a Nardò, che voglia prenderlo in giro o abbia messo in atto il consueto espediente del gioco di parole per attrarre l’attenzione.

Per fugare il suo sospetto e recuperarne integralmente la benevolenza dirò, perciò, senza perdere tempo che  paraclausìthyron è parola greca che fino a qualche decennio fa avrei potuto comodamente tradurre con serenata, o, alla lettera, lamento presso la porta (chiusa), dal momento che essa è composta da parà=presso+klàysis=pianto+thyra= porta.

Oggi le serenate non si usano più e nell’era digitale basta, tutt’al più, un file mp3, mentre la porta da tempo, ormai, è rimasta perennemente aperta lasciando ad altri dettagli il compito di scandire l’eterno gioco non ci sto/ci sto ripensando/ci stooo!!!… e viceversa.

Eppure, quella porta chiusa per millenni è stata ispiratrice di poesia, tanto da diventare un topos letterario. La mia breve carrellata comincerà dalla

Serpenti

di Armando Polito

Non è raro in questa stagione vederne uno spiaccicato sull’asfalto e qualcuno particolarmente sensibile… non prova quel sentimento di orripilanza dal quale i più, non io, sono presi quando si imbattono in qualche esemplare vivo e vegeto. È il tributo definitivo che anche loro pagano per la riduzione progressiva e inesorabile del loro territorio dopo che la sua gran parte è stata resa invivibile pure per loro da veleni di ogni tipo. Io per fortuna vivo in campagna e, anche se molto più sporadicamente rispetto al passato, ho l’occasione di vivere qualche incontro ravvicinato, sicché, anche se  oggi la tecnologia consente agevolissime riprese (a patto che uno abbia sempre a portata di mano la fotocamera…),  non ho potuto fino ad ora catturare neppure una sola immagine, ad ogni modo non ho rinunziato a corredare questo post con foto reperite in rete.

http://www.google.it/imgres?q=scorzone e http://www.alisoriano.it/aviosuperficie/cervone.html

Ma scursùni, sacàre o mpasturavàcche, le due specie fino a poco tempo fa più diffuse nelle nostre campagne, riceveranno, comunque, il mio omaggio verbale, cominciando, e ti pareva!…, dall’etimologia del loro nome.

Scursòne corrisponde all’italiano scorzòne, presente con due lemmi distinti (cito dalla Treccani on line):

“scorzòne 1 (dal latino tardo curtio/curtionis, derivato di curtus=corto, raccostato a scorza. Nome dato, in usi regionali, alla vipera e anche ad altri serpenti, per esempio, al saettone”.

“Scorzòne 2 (derivato di scorza): persona rozza, di carattere aspro e

Portulaca, porcacchia, erba porcellana, erba dei porci… insomma lu brucacchiu

Lu brucàcchiu

di Armando Polito

nomi italiani: portulaca, porcacchia, erba porcellana, erba dei porci;

nome scientifico: Portulaca oleracea;

famiglia: Portulacaceae

Considerata oggi un’erbaccia per essere infestante, fino a pochi decenni fa era usata pure dalle nostre parti come componente di insalate.

Comincerò a parlarne affrontando la questione molto spinosa (la pianta non lo è, anzi le sue foglioline sono lucide e lisce come porcellana; ecco perchè uno dei nomi italiani è erba porcellana, dirà qualche lettore, troppo frettolosamente come vedremo) dell’etimologia dei nomi.

È evidente che il primo dei nomi italiani, il primo componente del nome scientifico1 e il nome della famiglia hanno tutti la stessa origine: derivano, infatti, dal nome latino della nostra erba, portulàca(m). Di portulaca, ricorrente in un’opera perduta di Varrone (I° secolo a. C.), ci dà notizia Nonio, un grammatico del IV° secolo d. C.: “PORTULACA. Varrone, libro VIII  delle Discipline. La portulaca masticata toglie la sete“2.

Negli altri autori latini successivi a Varrone portulaca si alterna alla variante porcilaca (nella traduzione ho rispettato l’una e l’altra). Riporto ora i passi relativi per saperne di più sull’uso di questa erba al loro tempo:

Plinio (I° secolo d. C.): “Ci sono alcune specie che accompagnano la semina di altre. Infatti il papavero viene seminato con il cavolo e con la porcilaca, e la ruchetta con la lattuga”; “E c’e pure la porcilaca, che chiamano pepli, non molto più efficace di quella che si semina, di cui sono tramandati usi memorabili: presa come cibo è antidoto contro i veleni delle frecce e dei serpenti emorroi e presteri e posta sulle ferite li estrae, allo stesso modo bevuta insieme col succo estratto dal giusquiamo appassito. Quando essa non è disponibile, il suo seme giova col medesimo effetto. Si oppone pure all’inquinamento delle acque, ai dolori di testa e, pestata nel vino e applicata, alle ulcere, sana le altre ulcere mescolata con miele. E così viene posta sul cervello dei fanciulli e sull’ernia ombelicale, con la polenta sulla fronte e sulle tempie di tutti nelle lacrimazioni, ma con latte e miele sugli stessi occhi; la stessa (viene usata) dopo che le foglie sono state tritate insieme  con cortecce di fava, se gli occhi prolassano, per le pustole con polenta, sale e aceto. Masticata cruda placa le ulcere della bocca e il gonfiore delle gengive, allo stesso modo il dolore di denti, il succo di quella cotta le ulcere delle tonsille; qualcuno ci aggiunge un pò di mirra. Infatti masticata cruda rende stabili i denti mobili, rafforza la voce e allontana la sete. Placa i dolori di testa in egual dose con vinello aspro, seme di lino e miele, le malattie delle mammelle con miele e creta del Cimolo, è salutare pure per gli asmatici che ne assumano il seme con miele. Presa nelle insalate corrobora lo stomaco. Viene applicata in empiastro insieme con polenta a chi arde per la febbre e altrimenti mangiata rinfresca anche l’intestino. Blocca il vomito. Contro la dissenteria e gli ascessi viene mangiata con aceto o bevuta con cumino, cotta invece contro i tenesmi. Come cibo o bevanda giova agli epilettici, ai mestrui delle donne nella misura di un acetabolo in mosto cotto, alle gotte calde applicata in empiastro col sale, e al fuoco sacro. Il suo succo bevuto giova ai reni e alla vescica, caccia via i vermi dell’intestino. Viene applicato con olio e polenta per i dolori delle ferite. Rende molli gli indurimenti dei nervi. Metrodoro, che scrisse un Trattato di erboristeria, ritenne opportuno che si dovesse somministrare per i flussi che seguono il parto. Frena la libido e i sogni erotici. C’è un cittadino ragguardevole della Spagna, padre di un pretore, che so portare la sua radice sospesa per un filo al collo a causa di un’intollerabile malattia dell’ugola, eccetto che nei bagni, liberato così da ogni disturbo. Anzi ho trovato pure presso autori che il capo impiastrato con essa non patisce per tutto l’anno il catarro. Si crede tuttavia che la vista si indebolisca”; “(Eliminano) la ruvidezza delle unghie le cantaridi sciolte con pece per tre giorni o le cavallette fritte con grasso di becco, il grasso delle pecore. Alcuni mescolano visco e porcilaca e tolgono il tutto al terzo giorno”3.

Columella (I° secolo d. C.): “Ci sono anche certe erbe che potresti conservare in salsa quando si avvicina la vendemmia, come la portulaca e l’olo tardivo che certi chiamano critamo coltivato. Queste erbe vengono pulite accuratamente e sparse all’ombra, poi, dopo quattro giorni, viene sparso del sale al fondo di un vaso, una per una vi vengono riposte e, versato dell’aceto, di nuovo viene sparso sopra del sale; infatti a queste erbe non si addice l’acqua salata”4.

Celso (I° secolo d. C.):”(Sono estratti) di qualità media…la portulaca…”; “Ma stimolano l’intestino…la portulaca…”; “Ma nello stesso tempo calmano e rinfrescano…la portulaca…”; “Se (il sangue) esce dalle gengive basta masticare la portulaca”; “Soprattutto per questo (per il mal di milza) serve il seme del trifoglio o il cumino o il serpillo o il citiso o la portulaca…: infatti queste erbe sembrano trarne molto agevolmente l’umore”5.

Dopo essere rimasti sorpresi dall’uso polivalente di quest’erba e un po’  spiazzati dal fatto che non compare tra gli afrodisiaci e che anzi, a detta di Plinio, ha l’effetto opposto, torniamo all’etimologia. La proposta più antica che io conosca risale ad Adriano Turnebo (XVI° secolo), per il quale portulaca deriva da *pòrtulata e questa da pòrtula=piccola porta6.

Successivamente Claudio Salmasio (XVII° secolo) congetturò la derivazione da porculata, da pòrcula=piccola scrofa, quasi erba di cui i porci sono ghiotti7.

La filologia moderna apparentemente se ne lava le mani ma, secondo me più correttamente, parla di etimologia incerta, sicché anche l’erba porcellana (uno dei nomi italiani indicati all’inizio) finisce per diventare ambiguo, dal momento che porcellana forse è da porcella, con allusione alla forma della conchiglia.

Ho lasciato per ultimo proprio la voce dialettale neretina brucàcchiu, che è figlia di questa trafila: portulàca(m)>portulàca>*portlàca>*porcàcla> *purcàcchia> *burcàcchia>*brucàcchia> *brucàcchiu; non mi sentirei di escludere, poi, un incrocio  nel tempo prima con porco (il che varrebbe anche per i sinonimi italiani porcacchia, erba porcellana ed erba dei porci) e successivamente con brucare.

Dopo i ricordi antichi quelli, in lingua, un po’ più vicini a noi nel tempo: Michele Savonarola (XV° secolo): “Portulaca se pone freda perfin al terzo, humida nel secundo ed è megiore quella che sè de foglie larghe, che in sé ha uno poco di acetosità. Tolta in cibo dà poco nutrimento e non bono, il perché è fredo humido e viscoso, et dura da padire, debilisse l’apetito, ma pur conferisse al stomaco caldo e reprime la colera e il vomito, tole l’apetito dil coyto. Ultimo remove il stupor di denti quando ill è cum quelli masticata”8 e Giuseppe Gioacchino Belli (XIX° secolo): “Guitto scannato, e cche!, nun te conoschi/d´èsse ar zecco, a la fetta e a la verdacchia?/Stai terra-terra come la  porcacchia ,/abbiti a Ardia in casa Miseroschi”9 e “Vecchia nun zò, ma!… la miseria abbacchia;/E ppe cquanto se studia e sse sciappotta,/se sta ssempr’accusì, ssora Carlotta:/giù tterra-terra come la  porcacchia10.

E voglio consolare la nostra erba avvilita da questa similitudine (che colpa ha del suo portamento prostrato?) ricordando che essa, secondo gli ultimi studi, al di là di altre importanti benemerenze che può vantare, è tra le migliori fonti vegetali di Omega-3.

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1Il secondo (Oleracea) significa erbosa.

2De proprietate sermonis, XVIII: “PORTULACA. Varr. Disciplinae lib. VIII. Manducata portulaca sitim tollit”.

3 Naturalis historia, XIX, 167: “Sunt quaedam comitantia aliorum satus; papaver namque cum brassica seritur ac porcilaca, et eruca cum lactuca”; XX, 210-215: “Est et porcilaca, quam peplin vocant, non multum sativa efficacior, cuius memorabiles usus traduntur: sagittarum venena et serpentium haemorrhoidum et presterum restingui pro cibo sumpta et plagis inposita extrahi, item hyoscyami pota e passo expresso suco. Cum ipsa non est, semen eius simili effectu prodest. Resistit et aquarum vitiis, capitis dolori ulceribusque in vino tusa et inposita, reliqua ulcera commanducata cum melle sanat. Sic et infantium cerebro inponitur umbilicoque prociduo, in epiphoris vero omnium fronti temporibusque cum polenta, sed ipsis oculis e lacte et melle; eadem, si procidant oculi, foliis tritis cum corticibus fabae, pusulis cum polenta et sale et aceto. Ulcera oris tumoremque gingivarum commanducata cruda sedat, item dentium dolores, tonsillarum ulcera sucus decoctae; quidam adiecere paulum murrae. Nam mobiles dentes stabilit commanducata [cruda sedat] vocemque firmat et sitim arcet. Cervicis dolores cum galla et lini semine et melle pari mensura sedat, mammarum vitia cum melle aut Cimolia creta, salutaris et suspiriosis semine cum melle hausto.  Stomachum in acetariis sumpta corroborat. Ardenti febribus inponitur cum polenta, et alias manducata refrigerat etiam intestina. Vomitiones sistit. Dysinteriae et vomicis estur ex aceto vel bibitur cum cumino, tenesmis autem cocta. Comitialibus cibo vel potu prodest, purgationibus mulierum acetabuli mensura in sapa, podagris calidis cum sale inlita et sacro igni. Sucus eius potus renes iuvat ac vesicas, ventris animalia pellit. Ad vulnerum dolores ex oleo cum polenta inponitur. Nervorum duritias emollit. Metrodorus, qui Epitomèn ton rizotomumènon scripsit, purgationibus a partu dandam censuit. Venerem inhibet Venerisque somnia. Praetorii viri pater est, Hispaniae princeps, quem scio propter inpetibiles uvae morbos radicem eius filo suspensam e collo gerere praeterquam in balineis, ita liberatum incommodo omni. Quin etiam inveni apud auctores caput inlitum ea destillationem anno toto non sentire. Oculos tamen hebetare putatur”; XXX, 37: “Unguium scabritiam cantharides cum pice tertio die solutae aut locustae frictae cum sebo hircino, pecudum sebum. Aliqui miscent viscum et porcilacam, alii aeris florem et viscum ita, ut tertio die solvant”.

4 De re rustica, XII, 13, 2: “Sunt etiam quaedam herbae, quas adpropinquante vindemia condire possis, ut portulacam et holus cordum, quod quidam sativam battim vocant. Hae herbae diligenter purgantur et sub umbra expanduntur, deinde, quarto die, sal in fundis fideliarum substernitur et separatim unaquaeque earum componitur acetoque infuso iterum sal superponitur; nam his herbis muria non convenit”.

5 De medicina, II, 20, 1: “…medii…portulaca…”; II, 29, 1: “At alvum movent…portulaca…”; II, 33, 2: “At simul et reprimunt et refrigerant …portulaca…”; IV, 9, 5: “Si ex gingivis exit, portulacam manducasse satis est”; IV, 16, 1: “Praecipueque ad id valet vel trifolii semen vel cuminum vel apium vel serpullum vel cytisus vel portulaca…: haec enim inde commodissime videntur umorem deducere”.

6 Adversariorum libri, Quercetano, Aureliopoli, 1604, libro VIII, cap. 23, pagg. 152-153: “Portulaca etiam portulata dici deberet, quod foliis portulas imitetur, et portulas habere videatur. Atque hoc quidem ratio postulat, nec exempla quorundam antiquorum voluminum desunt, in quibus et securiclatam et pastinatam repperi: tamen ut lorica pro lorita dicitur (nam initio e loris fiebat) sic arbitror securiclacam et verbenacam pro securiclata et verbenata dictum esse: ut alterum ratione, alterum consuetudine defendi possit” (Oltre a portulaca dovrebbe esser detto pure portulata, poiché con le foglie imita delle piccole porte e sembra avere piccole porte. E questo rivendica certamente la ragione, né mancano gli esempi di certi antichi volumi, nei quali ho trovato e securiclatam e pastinatam: tuttavia, come si dice lorica invece di lorita (infatti si faceva di corregge) così credo che si disse securiclacam e verbenacam invece di securiclata e verbenata: come l’una cosa potrebbe essere convalidata dalla ragione, l’altra dalla consuetudine). Debbo dire che, a parte le discutibili acrobazie filologiche del Turnebo, io nelle foglie della portulaca non vedo ombra di piccole porte.

7 Plinianae exercitationes, Morello, Parigi, 1629, pag. 1054: “Immo traiectione syllabarum citocacia pro cicutacia. Sic Portulacam vulgus indigerat, quae Porculata esse debuit, a porcis nomine imposito. Nam porcelliam et porcaciam alii vocarunt. Graeci recentiores choirobòtanon. Nicomedes Iatrosophista: choirobòtanon, andrachne” (Dunque per trasposizione di sillabe citocacia per cicutacia. Così il popolo pronunzia Portulacam quella che dovette essere Porculata, messo il nome dai porci. Infatti altri la chiamarono porcelliam e porcaciam. I Greci bizantini choirobòtanon. Nicomede Iatrosofista: choirobòtanon, andrachne). Aggiungo che la parola bizantina è formata dalle classiche choiros=porco e botàne=erba e che la parola andrachne compare già in Teofrasto (IV°-III° secolo a. C.), De causis plantarum I, 10, 4: “La portulaca e il cetriolo e in generale le piante siffatte sono molto umide e fredde”.

8 Libreto di tutte le cosse che se magnano, Biblioteca italiana, Roma, 2004, pag. 30.

9 Sonetto 122, vv. 1-4.

10 Sonetto 2176, vv. 5-8.

Lumìnu: quando la luce non mancava mai… e pure le candele erano un lusso

di Armando Polito

ph Gianluca Nicolella, da http://www.actaplantarum.org/floraitaliae/viewtopic.php?f=102&t=21212

Nome dialettale: lumìnu

nome italiano: ballota, cimiciòtto

nome scientifico: Ballota pseudodictamnus Benth.

famiglia: labiatae

Per lavori in corso qualche settimana fa l’erogazione dell’energia elettrica (la luce) è stata sospesa nella zona in cui abito. Nonostante avessi letto il messaggio di preavviso apposto sul più vicino palo di illuminazione e avessi appreso che la corrente sarebbe stata rierogata in giornata a partire dalle 15, sono entrato in uno stato di nervosismo dovuto non solo alla fatale crisi di astinenza da computer (le pile del portatile non hanno una grande autonomia e, comunque, sarei stato costretto a fare a meno di internet dal momento che il modem del fisso non va certo ad acqua) ma anche al solo pensare agli inconvenienti ulteriori che inevitabilmente si sarebbero verificati se la promessa del messaggio non si fosse avverata. Da qui la caccia forsennata a candele (quando una cosa ti serve non la trovi mai o scopri che qualcuno ha pensato bene di buttarla nella pattumiera) e a lumi a petrolio (siccome sono piuttosto datati quel qualcuno ha pensato bene di conservarli ancora non so per quanto tempo…). Poi il collaudo: la candela c’è ma sono i fiammiferi che non vanno (ho il sospetto che le case produttrici da un po’ di tempo a questa parte facciano la cresta sul fosforo…), un lume c’è ma la carzittèlla1 è rovinata, l’altro è perfetto ma il serbatoio è vuoto, e in casa non c’è una goccia di petrolio…

Sono momenti in cui, anche se lo sguardo si ferma sull’ultima avveniristica lampada da poco comprata, l’agitazione è tale che il contatto obbligato con oggetti non consueti (candele) o addirittura ormai d’antiquariato (lumi a  petrolio) non induce a confronti tra il presente e il passato.

Infatti lo faccio solo ora, ma forse è solo un pretesto per aggiungere un altro piccolo tassello all’erbario al quale da qualche tempo ho dato mano, per suscitare nei lettori coetanei qualche ricordo personale e per tramandare, nel mio piccolo, qualcosa del passato a quelli più giovani.

E, per lenire la malinconia, mi rifugio nell’etimologia. Il primo nome italiano e la prima parte di quello scientifico derivano dal latino ballòte, a sua volta trascrizione del greco ballòte2=marrobbio nero; la seconda parte dello scientifico deriva dal greco pseudès=falso e dìktamon o dìktamnon=dittamo3. Il nome della famiglia è il nominativo femminile plurale dell’aggettivo latino tardo labiàtus/a/um=fornito di labbro, dal classico làbium=labbro. Per il secondo nome italiano (cimiciòtto) rinvio, dopo la lettura integrale del pezzo, alla nota 6.

La voce dialettale (lumìnu) mi costringe a reimmergermi nella malinconia, forse quella, paradossalmente, più profonda e dolce, perché legata a ricordi molto sfumati dal tempo. Ho la fortuna di poter vivere con la mia famiglia, dopo qualche anno di vita cittadina, in quella che nella mia infanzia era stata la casa della villeggiatura, all’epoca poco più che una stamberga nonostante godesse affettuosamente da parte dei miei dell’appellativo (lu casìnu) riservato solitamente ad abitazioni in campagna ben diverse. In assenza di energia elettrica per l’illuminazione (notturna!4) si ricorreva abitualmente al lume a petrolio o alle candele, ma lo strumento più ecologico ed economico di tutti era il lumìnu, costituito da un contenitore (di solito un vecchio piatto di creta) pieno per due terzi di olio di oliva e acqua nel rapporto di uno a tre, su cui si appoggiavano dei galleggianti di sughero con un foro più o meno centrale. Poi era il turno del fiore essiccato della ballota (foto in basso): le caratteristiche del calice, di consistenza membranacea e ricco di peluria, consentivano, con un strofinio tra i polpastrelli, di ricavarne uno stoppino. In realtà il peduncolo del fiore così rifatto assumeva la funzione di un canale di aspirazione.

Dopo di che bastava poggiarlo per il lembo sul foro del galleggiante e accenderlo: avrebbe fatto una luce uniforme per non meno di ventiquattro ore5.

Ho un buon pretesto per liberarmi dalla malinconia, anche per completare la fase filologica rimasta sospesa per lasciare spazio a quella descrittiva: il popolo nel suo senso pratico delle cose nella circostanza (ma è solo uno degli infiniti esempi) ha applicato quella figura retorica che si chiama metonimia, attribuendo alla pianta il nome dell’oggetto da essa ricavato6.

Oggi la candela è diventata oggetto di design e non è difficile trovarla nelle forme, nei colori, addirittura nei profumi più strani e in modelli di tecnologia avanzata: c’è pure quella che si accende con un soffio. E la voce lumino per lo più è usata per indicare un oggetto che assolve solo ad una funzione funebre o votiva, che è in fondo la stessa che assolveva il lumìnu quando non poteva mancare per fare onore alla serie delle foto dei propri morti e alle immagini sacre che di regola campeggiavano sul comò.

Dal luminu alle lampade a basso consumo: quanta strada è stata percorsa! Ma quante contraddizioni rimangono se, per esempio, il processo costruttivo, in barba al futuro risparmio, è ad alto impatto ambientale! Se volessi riassumerle in un gioco di parole direi che, in fondo, attualmente la tecnologia non è altro che l’ecologia inquinata dall’aggiunta di due semplici fonemi [(t)ec(n)ologia], ai cui effetti devastanti, però, andrebbe posto rimedio, finché si è in tempo…

Di tutto questo, forse, un’ulteriore prova è data dal tentativo apparentemente meritorio di imitare il passato, in realtà perverso perché ha come unico fine il profitto facendo leva sul sentimento, con risultati, a volte devastanti: è recente la notizia di addobbi natalizi in plastica imitanti i dolcetti ed affini che in passato arricchivano alberi di Natale e presepi. Nemmeno il nostro luminu poteva sottrarsi a questo processo: ecco in basso la sua reincarnazione riveduta e corretta; dell’originale modello è rimasto solo il galleggiante (mi auguro che sia veramente di sughero…) col suo foro centrale, perché la sua anima adesso è costituita da carta (mi auguro che sia veramente carta…) e paraffina.

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1 Striscia di tessuto la cui parte terminale immersa nel serbatoio s’imbeve di petrolio rendendo possibile l’accensione; da garza con doppio suffisso diminutivo.

2 La voce compare in Dioscoride (I° secolo d. C.), III, 103 ed indica una specie appartenente alla stessa famiglia. Non escluderei, guardandone le foglie, che sia una voce composta da ballo=gettare e otà=orecchie.

3 Pianta aromatica somigliante all’origano.

4 Oggi il genitore parzialmente responsabile perde molto del suo tempo a spegnere la luce accesa inutilmente in pieno giorno ed ancor più inutilmente così lasciata dal figlio uscito dall’ambiente (non necessariamente la sua camera);  quello totalmente responsabile, secondo me, dovrebbe rivolgersi ad un buon elettricista e creare una nuova sezione dell’impianto riservata al figlio ed escludibile, nel caso in cui quest’ultimo perseveri nella sua strafottenza, con un codice segreto.

5 Lo asserisce, in base a prove sperimentali fatte a suo tempo, A. Romeo in La pianta da lumini, Annali della facoltà di agraria della regia università di Napoli, XV, 1937.

6 Non altrettanta gratitudine manifesta l’altro nome italiano (cimiciòtto), da cimice+il suffisso –otto; c’è da dire, però che il nome è passato estensivamente a questa varietà da una della stessa specie, la ballota nigra ed è legato all’odore sgradevole (vagamente simile a quello della cimice)  di quest’ultima quando viene strofinata,

Il delfino e la mezzaluna (quinta ed ultima parte)

di Armando Polito

Se di numismatica non sono un esperto, di araldica, poi, sono totalmente digiuno, ma, avendo all’inizio lanciato un sasso contro i titoli nobiliari, non intendo certo nascondere la mano ma passarla, com’è doveroso, a chi sull’argomento ne sa e vorrà integrare la trattazione parlando dei numerosi stemmi familiari in cui il delfino è componente essenziale (ma in araldica, so solo questo, anche il più piccolo dei componenti secondari ha il suo significato e, dunque, la sua importanza).

Tornando al nostro simbolo si dirà: accontentiamoci pure, nell’attesa,  di quanto fino ad ora si è detto del delfino; ma la mezzaluna che tiene in bocca? Qui per fortuna la risposta non è complicata: si tratta di un elemento aggiunto dopo la cacciata dei Turchi (popolazione di cui la mezzaluna costituisce uno dei simboli)  ad opera di Alfonso d’Aragona, duca di Calabria e figlio di Ferdinando I di Aragona, re di Napoli, nel 1481. Elemento aggiunto, si diceva, sulla cui storia pregressa voglio spendere qualche parola lasciando parlare, come al solito, le fonti.

Preliminarmente, però, va detto che lo stesso termine mezzaluna è improprio, anche se si è imposto. Infatti si tratta di un quarto di luna, nel nostro caso crescente. Crescente, da solo, è voce astronomica e definisce l’aspetto falcato che la Luna (crescente lunare) e i pianeti Mercurio e Venere assumono nei giorni che precedono o seguono quello in cui si trovano in congiunzione con la Terra e col Sole (giorno che, per la Luna, è detto novilunio); crescente, sempre da solo, in araldica (chiedo scusa ai competenti ma la mia intrusione si limita a questa precisazione) è il nome generico della mezzaluna ed è accompagnato da vari attributi ad indicare la sua posizione nello scudo: montante (quando ha le corna volte verso l’alto; volto, quando ha le corna che guardano il fianco destro dello scudo; rivoltato, quando le corna guardano il fianco sinistro; rovesciato, quando sono volte verso la punta dello scudo; volto in banda o in sbarra, quando guardano l’angolo superiore destro o sinistro; in cuore, quando tre crescenti sono addossati nel centro; irregolari quando tre o più sono accostati in posizione diversa; frontato o addossato, quando due crescenti si mostrano le corna o il dorso; figurato (raro) quando mostra occhi, bocca e naso umani.

Per evitare l’equivoco di crescente basta il vecchio detto: gobba a levante luna calante, gobba a ponente luna crescente.

E passiamo a qualcosa di molto più antico.

Stefano Bizantino, un grammatico vissuto probabilmente nel V secolo d. C., nella sua opera Ethnikà (traduco dal testo originale curato da Augusto Meineke  Stephani Byzantii ethnicorum quae supersunt, Greimer, Berlino, 1849, pagg. 178-179; pure il testo in parentesi quadre e non in corsivo è mio) così scrive: Il porto di Bisanzio si chiama anche Bosporio [in greco Bospòrion27); gli abitanti lo chiamano cambiando una lettera (in greco paragrammatìzontes) Fosforio28 (in greco Fosfòrion), da quando gli scrittori di cose patrie hanno tramandato un altro racconto mitico di Bisanzio, secondo il quale mentre [siamo nel 340 a. C.] Filippo il Macedone assediava Bisanzio e aveva già fatto scavare nel corso dell’assedio un passaggio nascosto [in pratica, una galleria], quando gli scavatori cominciavano a rientrare dal loro lavoro in gran segreto, Ecate29 diventando luminosa fece come se di notte si fossero accese torce per i cittadini che così dopo aver messo in fuga gli assedianti chiamarono il luogo Fosforio.

La testimonianza di Stefano, che, peraltro, fa riferimento a fonti generiche (scrittori di storie patrie), rimane poco più che una leggenda. Tuttavia va detto che Fosfòrion in un’iscrizione (Inscriptiones Graecae, Berlino, 11, 2, 203B 74) del  III secolo a. C. si chiamava il sigillo con l’immagine di Artemide portatrice di torcia nonché, in un’altra (Supplementum Epigraphicum Graecum, Leiden, 4, 446,17) del III-II secolo a. C. e in un papiro del IV secolo d. C. (Griechische Papyrus der Landesbibliothek zu Strassburg, 9, 8) il suo santuario. Fosfòrion è derivato dall’aggettivo fòsforos/on (composto da fos=luce+fero=portare)=che porta luce, che dà luce,  secondo una tecnica di formazione collaudata, la stessa, per esempio, che ha portato alla formazione di Pallàdion (statuetta di Pallade, ma anche sede del tribunale dei giudici di appello, gli efeti, ad Atene) dal tema Pallàd– di Pallàs/Pallàdos=Pallade); artemìdion (dittamo) dal tema Artèmid– di Àrtemis/Artèmidos=Artemide), etc. etc. La leggenda, perciò, potrebbe, come spesso succede, contenere riferimenti involontari (per motivi cronologici) ad un culto successivo che potrebbe aver lasciato traccia in alcune monete di Bisanzio (in basso un esemplare)…

tetradracma di Antioco VIII (115-113 a. c.).  Nel retto: testa con diadema;  nel verso: Giove con crescente sulla testa e stella a 8 punte in mano; legenda: BASILEOS ANTIOCHOY EPIPHANOYS (Dell’illustre re Antioco).

…e di Roma:

1)

denario di Gneo Cornelio Sisena (118-117 a. C. circa). Nel retto testa di Roma con elmo attico alato; legenda SISENA, ROMA e X (simbolo dei 10 assi).  Nel verso Giove su quadriga verso destra tiene con la sinistra lo scettro e le redini e con la destra si accinge a scagliare il fulmine; quasi ai due estremi  in alto una stella e ancora più im alto al centro la testa radiata del Sole e un crescente lunare; in basso il gigante anguipede con il fulmine nella mano destra e con la sinistra alzata; legenda: CN CORNEL L F (le lettere NE sono in monogramma). Qui Gneo Cornelio celebra le vittorie orientali del suo antenato L. Cornelio Scipione contro Antioco re di Siria.

2)

denario di Manlio Aquilio (109-108 a. C.). Nel retto il Sole raggiante e legenda X (vedi moneta precedente). Nel rovescio Luna sulla biga verso destra; in alto un crescente e tre stelle, in basso una stella; legenda: MN (in monogramma),  AQU(ILIUS) e ROM(A).

3)

denario di Aulo Postumio Albinus (96 a. C.). Nel retto testa laureata di Apollo, a sinistra una stella; legenda R e X (vedi moneta precedente). Nel verso i Dioscuri abbeverano i cavalli; in alro un crescente e due stelle; legenda: A ALBINU (S) (AL in monogramma).

4)

denario di Lucio Titurio Sabino (89 a. C.). Nel retto testa di Tito Tazio; legenda SABIN  A PV. Nel verso  il supplizio di Tarpea.  È evidente come Titurio intende collegare la sua origine sabina con il più famoso rappresentante di quella popolazione.

5)

denario di Lucrezio Trio (76 a. C.). Nel retto testa di Giove con corona radiata. Nel verso crescente fra sette stelle; legenda TRIO L LUCRETI.

6)

aureo di Publio Clodio (42 a. C.). Nel retto testa radiata del Sole, dietro la faretra. Nel verso: crescente fra cinque stelle. Legenda: P CLODIVS  M F.

A qualche lettore più fantasioso le due ultime monete (in particolare la seconda) avranno fatto ricordare qualcosa venuto di recente alla ribalta della cronaca politica: il Movimento cinque stelle; ma anche, probabilmente,  il simbolo che campeggia nelle bandiere di molti stati islamici, tra cui la Turchia.

Non è un caso che io abbia citato questo stato e riprodotto la sua bandiera, perché furono proprio i Turchi ad adottare questo simbolo (usuale nel mondo bizantino e, come dalla numismatica si è visto mostrare, non estraneo nemmeno al mondo romano in seguito a contatti di natura, forse e tanto per cambiare, prevalentemente militare) nel 1453, quando completarono la loro espansione in quel mondo con la conquista di Costantinopoli, l’antica Bisanzio.

Potrei chiudere, come spesso amo fare, in modo leggero e un po’ dissacratore dicendo che qualche fanatico islamico odierà forse il nostro utilizzo del suo simbolo e che nemmeno noi occidentali abbiamo la coscienza pulita quando oggi, per non parlare di un passato remoto e recente, mascheriamo, col pretesto  di esportare la democrazia ed il connesso (solo teoricamente, purtroppo…) rispetto dei diritti umani, altri appetiti molto, molto meno nobili, comunque ignobili almeno quanto quelli che spinsero alcuni secoli fa i predatori di quel mondo sulle coste del nostro; sicché oggi quel simbolo antico potrebbe tranquillamente essere utilizzato per simboleggiare una realtà storica opposta in cui la difesa è stata soppiantata, con cavillose e nostre… giustificazioni, dall’offesa.

Susciterò magari un vespaio di rabbiose osservazioni (forse, ancora una volta mi illudo e, invece, morirò senza aver risolto questo dubbio: pochi mi contraddicono perché non sanno che dire, oppure, più verosimilmente, perché con me e con le mie posizioni non vale perdere neppure un attimo?) ma il sigillo di questo scritto è amaro: meglio un fanatico islamico conoscitore della storia che un occidentale ignorante e schiavo del ventre, convinto che la mezzaluna che ha in bocca il delfino sia l’attrezzo da cucina…

Alla neonata fondazione il compito nobilmente ambizioso di ridimensionare, almeno, questo desolante quadro e di essere una piccola, grande tessera di quel mosaico sempre in fieri e che, come ho detto all’inizio, al di là di sensazioni epidermiche transitorie, è alla base dell’amore nelle sue molteplici forme: la conoscenza.

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27 Forma sostantivata dell’aggettivo Bospòrios/Bospòrion=del Bosforo, che è da Bòsporos=Bosforo.

28 Il verbo paragrammatìzo in greco significa cambiare lettera per scherzo o per emendamento. Non c’è ombra di dubbio che qui non si tratta del primo  caso (con gli dei era meglio non scherzare…) ma piuttosto di una fattispecie del secondo, perfettamente inquadrabile nel fenomeno della paretimologia o etimologia popolare.

29 Divinità psicopompa (guida delle anime dei defunti verso il regno dei morti), veniva anche associata in alcuni casi ai cicli lunari, insieme con altre divinità come Diana/Artemide, e Selene/Luna. Superfluo far notare come nel simbolo dell’Islam la luna appare in fase crescente e se il lettore avrà la pazienza di andare alla serie di immagini che aprono la prima parte potrà constatare come questo dettaglio appaia fedelmente conservato nell’obelisco e come invece negli altri, a partire da quello della provincia e dal militare che sono coevi, la rotazione subita dal delfino ha finito per far apparire la luna come calante.

PER LE PARTI PRECEDENTI:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/11/il-delfino-e-la-mezzaluna-prima-parte/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/12/il-delfino-e-la-mezzaluna-seconda-parte/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/14/il-delfino-e-la-mezzaluna-terza-parte/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/18/il-delfino-e-la-mezzaluna-quarta-parte/

Vedi pure: http://www.fondazioneterradotranto.it/tag/sigismondo-castromediano/

 

Il delfino e la mezzaluna (prima parte)

di Armando Polito

Già simbolo o, se si preferisce, stemma  (lo è ancora attualmente, seconda immagine) della Provincia di Lecce e ancor prima della Provincia di Terra d’Otranto  (ricorre sulle quattro facce del primo tratto dell’obelisco di Porta Napoli a Lecce, prima immagine, iniziato nel 1822 in occasione della probabilmente auspicata ma mai avvenuta visita a Lecce di Ferdinando I di Borbone, completato nel 1826 e celebrante sui restanti tratti di ciascuna facciata la storia sintetica dei distretti di Gallipoli, Lecce, Brindisi e Taranto), dal 1997 del 47° RAV (Reggimento Addestramento Volontari)  “Ferrara”* (terza immagine), è stato di recente assunto dall’ omonima fondazione di cui Spigolature salentine è da considerare il fratello telematico, entrambi figli di quel poliedrico ed infaticabile personaggio che è Marcello Gaballo.

Dico subito che con i simboli ho un rapporto conflittuale, fatto di amore ed odio, come mi succede, per esempio, per ogni celebrazione privata o pubblica, civile o religiosa: puntualmente ogni anno, e non credo di essere il solo, mi chiedo se valga la pena sprecare tempo e denaro per qualcosa che sembra ormai essersi prostituita all’unico scopo di metterci in pace (e si tratta, per giunta di pace fasulla…) con la nostra coscienza o non sia più saggio sopprimere tutto. Poi ti viene il sospetto che se questo si verificasse probabilmente si cancellerebbe del tutto il ricordo, faccio un esempio per tutti, della nascita di Cristo, per quanto esso abbia subito nel tempo un progressivo scolorimento…

Il simbolo, lo stemma hanno sempre avuto una finalità, per così dire, di riconoscimento e di propaganda, con un pizzico di esibizionismo che ha finito poi per prevalere su quello evocativo di certi valori e, in genere, della storia, senza dire che se si andasse a scavare nel passato chissà quante presunte o reali nobiltà risulterebbero figlie della disonestà e della sopraffazione.

Fino a qualche anno fa tra la posta che puntualmente ricevevo e già fin dal secondo invio altrettanto puntualmente gettavo nella pattumiera non mancava quella che, dopo avermi annunziato che il mio cognome tradiva origini nobiliari, offriva (si fa per dire…) i suoi servigi per la ricostruzione dell’albero genealogico e l’individuazione dello stemma che, se avessi aderito,  mi sarebbero stati recapitati. Ancora oggi credo che ci sia gente desiderosa di soddisfare questa vanità e di esibirne il costo…

D’altra parte neppure Totò, l’autore di ‘A livella, seppe sottrarsi a questa tentazione sperperando somme enormi per vedersi riconosciuto il titolo di principe; al genio, però, si perdona tutto, anche una contraddizione che può essere solo apparente e mi piace immaginare questo dettaglio della sua vita come l’espressione forse più alta di autoironia…

Dopo gli stemmi vennero i marchi e, ultimamente, i loghi; e venne  la grafica pubblicitaria che non disdegna l’apporto di più discipline specialistiche, non esclusa la psicologia e, almeno per me, amare un simbolo è diventato ancora più difficile quando penso che esso ha solo la funzione di evocare suggestioni recondite e di lanciare messaggi subliminali con l’unico scopo del successo commerciale.

Il simbolo, insomma, perché continui ad avere un significato ed essere amato, non dev’essere uno strumento di marketing, ma per essere amato, come succede anche nei rapporti interpersonali, dev’essere conosciuto.

Il nostro, per fortuna, si è fin qui sottratto (forse proprio grazie alla sua età?) ad ogni lusinga che lo trascinasse fuori dall’alveo  della storia, ma ne è poi rimasto vittima: la Provincia di Terra d’Otranto è solo un ricordo, la Provincia di Lecce lo sarà anch’essa se andrà in porto la tanto attesa riforma amministrativa (comunque, niente paura per gli addetti ai lavori e pure per quelli che vi aspirano: ce ne vorrà di tempo!…).

Resterà allora solo il logo della Fondazione Terra d’Otranto? Non sono tanto imbecille da avventurarmi in profezie nella speranza che qualcun altro più imbecille di me ci creda; posso solo augurarmelo con tutto il cuore, perché sarebbe uno dei rari casi (quasi impensabile ai nostri tempi…) in cui la cultura autentica (quella non schiava di questa o quella ideologia o, peggio, del dio denaro) avrà preso il posto troppo spesso occupato, fra l’altro, da disonesti e/o ignoranti.

(continua)

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* Lo era stato dal 1860 al 1871 del 47º Reggimento Fanteria Brigata “Ferrara”, dal 1872 al 1881 del 47º Reggimento Fanteria “Ferrara”, dal 1882 al 1926 del 48° Reggimento Fanteria, dal 1927 al 1933 della XXIII Brigata di Fanteria, dal 1934 al 1938 della Divisione Fanteria “Murge”, dal 1939 al 1943  della Divisione di Fanteria “Ferrara”, dal 1977 al 1991della XLVII Brigata Fanteria “Salento” e dal 1992 al 1996 della XLVII Brigata “Salento” .

PER LE ALTRE PARTI:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/12/il-delfino-e-la-mezzaluna-seconda-parte/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/14/il-delfino-e-la-mezzaluna-terza-parte/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/18/il-delfino-e-la-mezzaluna-quarta-parte/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/27/il-delfino-e-la-mezzaluna-quinta-ed-ultima-parte/

Vedi pure: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/30/il-delfino-stizzoso-dellantico-stemma-di-terra-dotranto/

 

AMIANTO-ETERNIT: un pericolo da non sottovalutare

di Maria Grazia Presicce

Triste spettacolo di qualche giorno fa sulla litoranea Gallipoli-Porto Cesareo

Dopo la sentenza che ha condannato i dirigenti e proprietari della fabbrica criminale di eternit di Torino, sarebbe bene che il problema “AMIANTO-ETERNIT “ non  tornasse nel dimenticatoio. Non basta l’indignazione e lo scalpore della notizia solo al momento del verdetto finale, le conseguenze connesse con questo problema sono quanto mai incombenti ed il rischio è esteso a tutta l’Italia, da nord a sud.

Purtroppo  solo con riferimento alla suddetta sentenza se n’è ripreso a parlare come se fosse un problema pertinente solo a quell’area e, in ogni modo, anche lì, dopo il primo clamore, l’allarme  è parso sopirsi per poi completamente addormentarsi tanto, chi è morto ormai non c’è più, i congiunti hanno preso i quattrini, “ chi s’e visto s’è visto” e amen.

Dovremmo invece scuoterci  davvero tutti e dare voce al problema, affrontando l’argomento eternit,  allertando il cittadino e rendendolo consapevole dell’effettiva pericolosità di questo materiale tanto diffuso ancora  su tutto il territorio nazionale. Sicuramente, riguardo  il suo l’utilizzo,   non c’è stato sufficiente allarmismo in un passato, tra l’altro, molto prossimo. Nessuno degli organi competenti, e meno che mai dei nostri ambientalisti  hanno  cercato di affrontare con fermezza l’argomento. Eppure l’amianto è, purtroppo ancora oggi, alla portata di tutti. Basta farsi un giro per le nostre campagne, spesso nei giardini delle nostre abitazioni, per rendersi conto della

Il vecchio (Francesco Antonio D’Amelio) e, forse, il nuovo…

di Armando Polito

C’è quella che accomuna la moglie e i figli, un’altra che fissa la riconoscenza al padre o alla madre, un’altra ancora, con l’evocazione di criptiche allusioni che probabilmente lo stesso autore a pochi giorni dall’uscita del suo capolavoro non è più in grado di decodificare, mette in crisi il lettore ignaro ; mai una, e sarebbe forse la più sincera, che reciti A me stesso. Di cosa sto parlando in modo così progressivamente pesante? Della dedica, cioé di quella riga unica o, nei casi più sfortunati (stavo per scrivere patologici…) duplice o triplice, che non può mancare in qualsiasi testo, dal romanzo al ricettario, da una raccolta di poesie ad una grammatica qualsiasi.

Il fenomeno, antico, ha però, per fortuna (altrimenti che monotonia o che sfiga…!) subito un’evoluzione, nel senso che le kilometriche dediche a questo o a quel nobile che corredano le pubblicazioni degli ultimi secoli hanno ceduto il passo a quelle ricordate all’inizio lasciando alla prefazione ed alla postfazione (spesso non dello stesso autore ma del critico o del politico di turno)  il compito, raramente assolto in modo semplice e chiaro, di preparare ed orientare il lettore prima della lettura e di fornire alcune coordinate (che non sempre orientano…) per una comprensione più agevole della genesi dell’opera, dei suoi esiti scientifici o artistici e di chi (oggi si chiamano sponsors) li ha economicamente resi possibili.

Dediche, prefazione, postfazione e simili sono probabilmente le parti del libro su cui il lettore si sofferma meno, e spesso ciò è dovuto a superficialità non disgiunta da una sorta di bulimia letturale che concentra la sua attenzione unicamente sul testo vero e proprio, più raramente ad una scelta consapevole dettata dalla volontà di non lasciarsi in qualche modo condizionare nella lettura.

Eppure, c’è chi ogni tanto riesce abilmente a fare in modo che la dedica diventi parte integrante e, in qualche modo, imprenscindibile. È il caso, per esempio, del poeta leccese Francesco Antonio D’Amelio (1775-1861) e delle sue

Nardò. Armando bacchetta due suoi ex allievi

Come se non bastasse la nostra cacca…

di Armando Polito

Sono stati entrambi, anche se in tempi diversi, miei alunni e, per quanto sto per dire, non vorrei fungere da capro espiatorio…

Non potevo, però, io, per quanto abituato, forse, solo allo studio delle parole e del loro etimo, dopo aver espresso il mio sdegno per la triste fine riservata ai nostri ulivi monumentali o ai poco saggi saggi petroliferi lungo le nostre coste (altro che parole!), non potevo non dire la mia sulla cacca (altro che parole!) di Porto Cesareo che promette, come se non bastasse la nostra, di garantirci un destino di merda.

Onestamente, se Marcello Risi e Giuseppe Mellone fossero ancora miei alunni, il primo, in termini di valutazione,  non lo sarebbe solo cronologicamente.   È

Breve cronistoria di un progressivo imbarbarimento

di Armando Polito

Aristotele (IV secolo a. C.), Costituzione degli Ateniesi: “…anticamente lo stato decideva la raccolta e chiunque sradicava o abbatteva un olivo sacro era giudicato dal senato dell’Areopago: in caso di condanna la pena era la morte”.

Tavole di Eraclea (IV secolo a. C.): documento prezioso che consente di ricostruire la riforma fondiaria attuata in quel secolo in Lucania. Sintetizzando: viene ristabilita la proprietà delle terre dei templi di Dioniso ed Atena di cui si erano impossessati dei privati, vengono formati dei lotti (vere e proprie aziende) e fissati  gli obblighi per gli affittuari  che dovranno piantare un numero minimo di olivi per ogni lotto e ripristinare immediatamente l’albero eventualmente venuto a mancare per malattia  o per  calamità. L’affittuario che non rispettava le disposizioni doveva rendere conto ai Polienomi, controllori eletti dal popolo con incarico annuale; se questi non vigilavano erano incriminati di incuria. Se dopo quindici anni dalla concessione tutti gli alberi piantati all’inizio non risultavano vivi gli affittuari dovevano pagare una multa di dieci monete d’argento (all’epoca non erano spiccioli…) per ogni olivo mancante.

Plinio (I secolo d. C.), Naturalis historia, XVI, 85: “Si può credere che la vita di certi alberi sia lunghissima se si considerano i luoghi inesplorati del mondo e

Sulle tracce dell'Asso

Ecco la "bocca" della vora delle Colucce in cui si riversa il torrente Asso

 

di Armando Polito

Nel suo intervento al mio post sulla naca del 17 agosto u. s. l’amico Marcello citava alcuni idronimi ricordando nel contempo il torrente Asso. Oltre a Naca, Nelu, Ngonga e Patùli anche Asso molto probabilmente è un idronimo, neppure tanto originale, visto che Asso si chiama pure un affluente dell’Orcia, a sua volta affluente dell’Ombrone nella Toscana meridionale e che Auser era l’antico nome del Serchio, sempre per restare in Toscana. Non è finita: per andare più indietro nel tempo scomodando il mondo greco, un fiume Assos nella Troade è citato due volte da Plutarco (Vite parallele: Silla, XVI, 12 e XVII, 5) e, per andare ancora più a ritroso, apsu in accadico significa acqua profonda. I più antichi riferimenti al nostro torrente che son riuscito a trovare sono contenuti in due atti.

Il primo risale al 31 dicembre 1427 (incredibile, allora i notai lavoravano pure nell’ultimo giorno dell’anno…): “…item in pertinenciis Neritoni in loco nominato de Ponte terrarum ortos quatuor, iuxta terras Philippi de Epifanio,

Il caldo, l’acqua e il motore di ricerca… (terza ed ultima, era ora!, parte)

di Armando Polito

Il viaggio intorno a questo prezioso elemento fatto sotto la guida di Plinio non poteva non concludersi in casa nostra, cioè a Manduria, con la sorgente che ha preso il suo nome, ha ispirato lo stemma della città  e che localmente è nota col nome di Scegnu, secondo alcuni deformazione di genio, nume tutelare.

Il Fonte pliniano; immagine tratta da http://www.parcoarcheologico-manduria.it/foto-parco/foto-scegnu.php?fotomenu=fotomenu

 

Lo stemma di Manduria; immagine tratta da wikipedia

 

“Nel territorio salentino nei pressi di Manduria c’è un lago pieno d’acqua fino all’orlo ed il suo livello non diminuisce quando viene attinta né aumenta quando viene versata”13.

È un motivo di orgoglio, infine ricordare che il fonte di Plinio compare come una delle tappe privilegiate del Gran Tour, se hanno un senso le riproduzioni sottostanti.

Il Fonte pliniano in un acquerello di A. L. Ducros (1778)14

Tavola tratta da Jean-Claude Richard de Saint-Non, Voyage pittoresque ou description des royames de Naples et de Sicile, Clousier, Parigi, 1781-1786.

 

prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/07/14/il-caldo-lacqua-e-il-motore-di-ricerca-prima-parte/

seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/07/16/il-caldo-lacqua-e-il-motore-di-ricerca-seconda-parte/

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Il caldo, l’acqua e il motore di ricerca… (seconda parte)

di Armando Polito

Come si riconosce la bontà dell’acqua. La classifica delle acque migliori

“C’è discussione tra i medici su quali sono le acque più utili. A buon ragione condannano le stagnanti e quelle che scorrono lentamente, ritenendo più utili quelle correnti; infatti col movimento e con gli stessi urti si assottigliano e giovano. Per questo mi meraviglio come mai da alcuni sono massimamente lodate le acque di cisterna. Ma questi adducono la ragione che l’acqua piovana sarebbe leggerissima poiché ha potuto salire e restare sospesa in aria. Per questo preferiscono pure le nevi alle piogge e alle nevi pure il ghiaccio come per una sottigliezza compressa di affini. E dicono che neve e ghiaccio sono più leggeri e il ghiaccio molto più leggero dell’acqua. È molto importante per la vita che questa opinione sia respinta. Innanzitutto quella leggerezza a stento può essere avvertita se non come pura sensazione dal momento che per quanto riguarda il peso le acque non differiscono per niente tra loro; né è argomentabile motivo di leggerezza  il fatto che l’acqua sia salita in alto in pioggia poiché vediamo che pure le pietre vi salgono e la pioggia cadendo viene infettata dal vapore della terra. Perciò si sente che c’è moltissima sporcizia nell’acqua piovana e che essa riscalda rapidissimamente. Mi meraviglio che la neve e il ghiaccio appaiano come la parte più sottile di quell’elemento, se si adduce il caso della grandine dalla quale è fatale che

Il caldo, l’acqua e il motore di ricerca… (prima parte)

di Armando Polito

Nardò, la Palude del capitano

Qualche amico napoletano commenterebbe il titolo con le parole chisto è pazzo e mi risparmio pure di immaginare quale locuzione più o meno simile userebbero i miei conterranei, anche per quell’inquietante prima parte. La colpa, però, in un certo senso, non è solo mia, se un mio post dell’anno scorso, Oggi parliamo di caldo. Tutta colpa del verbo latino calère compare, per me ormai come un incubo, tra quelli più letti, anche in pieno inverno. Non so ancora oggi spiegarmi il motivo di tanto successo per un contributo che io stesso giudico modestissimo, anche se il suo attuale imperversare in classifica è senz’altro legato al fatto che caldo è la parola più probabilmente ricercata in questo periodo attraverso gli appositi motori. È ovvio che chiunque cercava un qualche refrigerio è rimasto deluso e avrebbe fatto meglio a bersi un semplice bicchiere di acqua, ma è proprio quest’ultima parola che mi ha fatto venire l’idea di scrivere un’altra scemenza per vedere se e quanto essa sia competitiva rispetto a quella prima citata. E poi, siccome sono, oltre che pazzo, anche un po’ vigliacco voglio proprio vedere quale trattamento sarà riservato al buon Plinio che, in fondo, è il vero autore di questo post.

L’acqua è, tra tutti, l’argomento al quale il naturalista latino del I° secolo d. C. dedica il maggior spazio nella sua opera e non poteva essere altrimenti perché la fondamentale importanza di questo elemento per l’umanità è cosa nota fin dagli albori della vita in genere. Sulla consapevolezza attuale di questa importanza getto il solito velo pietoso e non mi ergo certo a moralista pensando che, solo per fare un esempio, chi di noi non ha rimpianto un affetto (col quale, tuttavia, non ne andava di mezzo la vita fisica) solo quando

Contro le zanzare mi basta la “citrunella” (cedrina)

i Armando Polito

nome scientifico: Lippia citrodora Kuntze o  Lippia triphylla (L’Her.)  Kuntze o Aloysia triphylla Royle o Aloysia citrodora Palan

famiglia: verbenaceae

nomi italiani: cedrina, limoncina, verbena odorosa, erba luigia minore 

nome dialettale: citrunèlla

Etimologie: Lippia è da Augusto Lippi naturalista vissuto tra il XVII° e il XVIII° secolo, ritenuto erroneamente lo scopritore della pianta che, invece, alla fine del secolo XVIII°, gli Spagnoli importarono da Perù, Cile e Argentina dove cresce allo stato selvatico; citrodòra è una forma aggettivale composta da citrus=cedro e odòra=profumata (infatti la pianta emana un profumo misto tra cedro e limone): triphylla è forma aggettivale dal greco trìphyllos=a tre foglie (queste, come si vede nella foto sottostante, sono disposte a tre a tre attorno all’asse dello stelo).

Aloysia è il nome scientifico corrente più usato ed è forma aggettivale in onore di Maria Luisa regina di Spagna, dovuta ad Antonio Palàu y Verdera (XVIII secolo), professore di botanica a Madrid ed editore di Linneo. Verbenaceae è forma aggettivale da verbèna che a Roma era il nome generico di parecchie

Pasquale Oronzo Macrì e Nicola Maria Cataldi duecento anni dopo

 

Se non è plagio è copia-incolla

 

di Armando Polito

L’informatica ha rivoluzionato la scrittura, ma anche in questa rivoluzione è dato cogliere aspetti senz’altro positivi ed altri decisamente negativi. Se da un lato, infatti, la videoscrittura ha reso il processo meno faticoso e consentito un risparmio di carta almeno fino alla fase della stampa1, dall’altro espone chi scrive alla minore lucidità di controllo che subentra quando si affida tutto al correttore automatico (e nello stesso tempo ne propizia la pigrizia), nonché alla tentazione di imitare, con esiti certamente meno felici,  gli antichi rapsodi2 nonché i successivi autori di centoni3 che, in fondo, sono stati i primi a sfruttare, certo meno comodamente, lo strumento del copia e incolla (e anche qui oggi la pigrizia va a nozze, specialmente quando non si ha la voglia o la capacità non dico di controllare la veridicità di qualche affermazione ma almeno di parafrasarla).

Non starò qui a disquisire sulla differenza tra copia e incolla e plagio: rischierei di impelagarmi in una giungla di distinguo degni della migliore trattazione sulla differenza tra erotismo e pornografia.

Lascerò al lettore il giudizio finale e mi limiterò solo ad esporre il fatto, anzi il fattaccio.

Di recente ho avuto occasione di occuparmi di cinque poesie in latino di Pasquale Oronzo Macrì, facenti parte di Gallipoli illustrata, scritta nel 1809.4

L’opera, secondo un’abitudine normale per quei tempi5, reca in testa una sorta di lettera di presentazione in latino6 che, tradotta, suona così:

A Nicola Maria Cataldi, Sacerdote di Gallipoli, Oronzo Pasquale Macrì Arcidiacono di Maglie rivolge il suo saluto.

Ciò che frettolosamente ho ricordato della nostra città lo mando a te tramite un uomo fidato, affinché tu finalmente capisca in quanta considerazione io abbia e la bellezza della città e la notorietà del suo nome. Sebbene io in questa mia mediocrità non sia per nulla simile ad un dotto scrittore che dal suo tesoro offre cose nuove e vecchie, tuttavia ho faticato

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