Il culto dei caduti in Terra d’Otranto nelle opere di Antonio Bortone

 

L’ombra sua  torna ch’era dipartita[1]

Il culto dei caduti in Terra d’Otranto

nelle opere di Antonio Bortone

              

di Paolo Vincenti*

 

All’indomani della Prima Guerra Mondiale, si avvertiva forte nel Paese l’esigenza di elaborare il lutto e commemorare i tanti eroi caduti per la patria attraverso atti concreti, dimostrazioni plastiche della riconoscenza della nazione nei confronti dei suoi figli perduti. Nacque così il fortunato filone della monumentalistica bellica, incoraggiata dalla politica per scopi propagandistici. Paesi e città di tutta Italia videro fiorire Monumenti ai Caduti. Nelle zone dell’Italia settentrionale, che erano state teatro diretto dell’evento bellico, sorsero Ossari e Sacrari, dato l’altissimo numero di vittime non identificate alle quali sarebbe stato negato il pietoso ufficio della sepoltura da parte dei famigliari. A tutte queste vittime senza nome venne dedicato il grande monumento del Milite Ignoto a Roma, presso l’Altare della Patria[2].

Nel resto d’Italia, sorsero Viali e Parchi della Rimembranza e, soprattutto, Monumenti ai Caduti ad opera sia di enti ed istituzioni che di associazioni laiche e cattoliche, ma anche per iniziativa privata di semplici cittadini che volevano onorare la memoria del proprio congiunto caduto in battaglia, con l’erezione di statue, stele, cippi funerari, targhe e medaglioni.

Il monumento ai caduti saldava, nella sua enorme valenza simbolica, la commemorazione con la celebrazione, la dimensione privata del dolore per la perdita, con quella pubblica del grato riconoscimento da parte della nazione. Attraverso il monumento ai caduti veniva a crearsi una formidabile unione di intenti fra Stato e cittadini, mediante un processo di riappropriazione identitaria che però non tardò a rivelare le proprie discrepanze. Vastissima è ormai l’area degli studi sui monumenti ai caduti della Prima Guerra Mondiale[3].

Abbiamo già sottolineato come questi monumenti, dall’essere espressione di lutto da parte della comunità, si trasformino in esaltazione della vittoria, allorquando del mito dell’eroe morto in guerra si impossessa il regime fascista in cerca di legittimazione per imbastire la sua campagna nazionalista, che aveva bisogno di un simbolo identitario, un puntello ideologico sul quale costruire il consenso[4].

L’iconografia funebre allora divenne iconografia trionfale, come ha ben sottolineato Gian Marco Vidor in Riti e monumenti per i morti della Grande guerra[5].

A partire dal 1918 furono edificati in Italia oltre 12.000 monumenti, commissionati dalle amministrazioni locali, su richiesta della cittadinanza o di comitati appositamente costituiti.

Quanto all’iter legislativo, il 27 dicembre 1922, su proposta del Sottosegretario alla Pubblica Istruzione Dario Lupi (Primo Governo Mussolini), è emessa una Circolare che promuove l’attuazione di parchi e viali della Rimembranza. Si tratta della Circolare n. 73 del 27/12/1922 contenente “Norme per i Viali e Parchi della Rimembranza”, pubblicata sul «Bollettino Ufficiale» del Ministero della Pubblica Istruzione n. 52 del 28 dicembre 1922 alle pp. 25-26[6].  La realizzazione dell’iniziativa fu affidata alle “scolaresche d’Italia” alle quali fu chiesto di farsi «iniziatrici di una idea nobilissima e pietosa: quella di creare in ogni città, in ogni paese, in ogni borgata, la Strada o il Parco della Rimembranza. Per ogni caduto nella grande guerra, dovrà essere piantato un albero …»[7].

Con la Legge n. 559 del 21 marzo 1926, i Parchi e Viali della Rimembranza sono dichiarati “pubblici monumenti”. Successivamente, alla “Commissione Nazionale per le Onoranze ai Militari d’Italia e dei Paesi Alleati morti in Guerra”, istituita nel 1919, è affiancato nel 1931 un Commissario di Governo addetto alla «sistemazione definitiva delle salme dei caduti in guerra» e, nel 1935, un Commissario generale straordinario[8].

La monumentalistica celebrativa postbellica si allacciava strettamente a quella risorgimentale, tanto che gli studiosi hanno visto un continuum con la differenza che, nell’iconografia, al monumento equestre, che celebrava gli eroi del Risorgimento, si sostituisce il cippo funerario, la grande stele o la Vittoria Alata.  Queste iconografie erano identificative della storia italiana nel particolare momento che stava vivendo. Vidor, nel suo studio, analizza le diverse tipologie presenti nei soggetti scelti per i monumenti: cippi, lapidi, obelischi, figure femminili, soldati morti, eroi, aquile, ecc., non sulla base di una lettura meramente stilistica ed artistica dei monumenti, bensì sul significato della scelta operata dai comuni italiani, scelta influenzata sicuramente dalla disponibilità economica messa in campo e dalla personalità degli artisti ingaggiati, ma anche dagli intenti dell’ amministrazione: se quello di esaltare la vittoria e l’eroismo dei caduti, o semplicemente quello di ricordare i defunti ed il dolore che la loro scomparsa aveva prodotto nelle famiglie[9]. Questi manufatti hanno avuto la precipua finalità di creare il culto della nazione[10]. In quegli anni, vi fu infatti una vera esplosione di monumenti che portò gli studiosi a parlare di una “statuomania”[11].

Questi luoghi della memoria diventavano in ogni comune e città italiani il centro nevralgico della vita delle comunità; infatti venivano collocati quasi sempre nella piazza o comunque in una posizione centrale come se da questi si irraggiasse la pietas religiosa e l’amor di patria, fidando nella disponibilità dei cittadini a farsi contagiare da quell’aura che dai monumenti promanava. Come spiega Mario Isnenghi[12], questi monumenti affratellano le famiglie nel dolore, e vanno ad occupare i luoghi centrali dei paesi, come le piazze, perché il centro fisico del luogo si identifichi col centro simbolico della sua comunità[13].

È con questi monumenti «che dal 1918 doveva confrontarsi la volontà di celebrare i Caduti della Grande Guerra, volontà che nasceva dalla prassi liturgica dell’Italia postrisorgimentale, ma che in questa circostanza si velava di un sotteso senso di sconfitta, di sacrificio inane per le disattese aspettative dell’esito del conflitto e quindi di quel “consenso postumo” che, pur riconoscendo l’inutilità di quelle morti, tuttavia ne accettava e pretendeva il riscatto attraverso l’esaltazione e il culto della loro memoria. L’elaborazione del primo e così drammatico lutto nazionale dell’Italia unita non poteva che trasformarsi in strumento di consenso politico e nell’impossibilità di celebrare i Caduti per una vittoria del tutto fittizia, di costoro si esaltava l’amor di patria, la dedizione fino alla morte per il bene della nazione, il che a conti fatti significava spostare l’asticella del sacrificio “eroico” risorgimentale del “fare” la patria verso quello del “rivendicare” i diritti patri contro altre nazioni e quindi proiettarsi in quel “mistificante auto celebrazionismo nazionalistico” che sarà proprio, ancor prima della fascistizzazione dello Stato della fine anni Venti, alla costruzione della “memoria politica” di regime: la Grande Guerra veniva trasformata in una vittoria senza se e senza ma, presupposto alle attuali e future ambizioni imperialiste dell’Italia fascista»[14].

Il culto dei caduti in guerra e il desiderio di onorarli, fondamentale e avvertita esigenza nel popolo italiano, con l’avvento del Fascismo, da spontanea aspirazione popolare, ebbero concretizzazione allorquando il regime, in una mirata ed efficace polarizzazione del consenso, indirizzò la propria propaganda all’istituzionalizzazione del ricordo. Fu allora che il culto degli eroi caduti, divenendo precipuo programma di governo, assurse a valore sacrale, dovere civico, vessillo, caposaldo di italianità.

Tornando all’apparato legislativo sulla materia, in tempi recenti, la prima legge ad occuparsene è stata quella del 7 marzo 2001, n.78 ,“Tutela del patrimonio storico della Prima guerra mondiale”, in base alla quale, all’Art. 1, primo comma, si «riconosce il valore storico e culturale delle vestigia della Prima guerra mondiale», e al secondo comma si promuovono  «la ricognizione, la catalogazione, la manutenzione, il restauro, la gestione e la valorizzazione delle vestigia relative a entrambe le parti del conflitto e in particolare di: forti, fortificazioni permanenti e altri edifici e manufatti militari; fortificazioni campali, trincee, gallerie, camminamenti, strade e sentieri militari; cippi, monumenti, stemmi, graffiti, lapidi, iscrizioni e tabernacoli; reperti mobili e cimeli; archivi documentali e fotografici pubblici e privati; ogni altro residuato avente diretta relazione con le operazioni belliche». Questa legge è stata poi recepita nel Decreto legislativo 66/2010 al “Capo VI – Zone monumentali di guerra, patrimonio storico della prima guerra mondiale, sepolcreti di guerra”, e precisamente: «Sezione I- Zone monumentali di guerra, Sezione II- Patrimonio storico della Prima guerra mondiale, Sezione III- Sepolcreti di guerra italiani, Sezione IV- Cimiteri di guerra stranieri in Italia e cimiteri di guerra italiani all’estero» (agli articoli 252-277).

Nel 2012, presso la Direzione Generale per il Paesaggio, le Belle Arti, l’Architettura e l’Arte Contemporanea (PaBAAC), si è costituito un Comitato tecnico scientifico con il compito di promuovere attività di ricognizione, inventariazione, studi e ricerche sul patrimonio dei monumenti ai caduti della Prima Guerra Mondiale. Il Comitato ha affidato questo compito all’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD), cui spettava la redazione del progetto finale e l’attività di raccordo con i vari territori italiani, dove sono presenti i monumenti, e i rispettivi uffici periferici del MiBACT, e inoltre la realizzazione di schede redatte attraverso il Sistema Informativo Generale del Catalogo (SIGE Cweb).

Nel 2017 l’ICCD ha terminato il lavoro di catalogazione dei monumenti, definendo attribuzioni, datazioni e tipologie. Il progetto, denominato “Censimento e catalogazione dei monumenti ai caduti della Grande Guerra, lapidi, viali e parchi della rimembranza” è stato supportato dalle soprintendenze locali come parte integrante delle iniziative per il Centenario della Prima Guerra Mondiale[15].

Su un totale di circa 8100 comuni italiani, sono stati censiti circa 12.000 manufatti, con la redazione di 9457 schede, consultabili on line[16].

Anche nel nostro territorio, all’indomani della guerra, vi fu un enorme fiorire di monumenti ai caduti ed è su questi che vogliamo appuntare la nostra attenzione, rispondendo all’interrogativo alla base del bel saggio di Catherine Brice, Perché studiare (ancora) la monumentalità pubblica[17]. La Terra d’Otranto diede un notevole contributo alla causa. I Militari vittime del conflitto furono 12.331 secondo l’Albo d’oro dei Militari caduti in guerra[18], e come riportato sulla targa, opera di Luigi Guacci, apposta dalla Provincia di Lecce nell’atrio del Palazzo dei Celestini nel 1928[19]. Anche in Terra d’Otranto (nella accezione ampia del termine, comprendente le provincie di Lecce, Brindisi e Taranto), lo scoprimento e l’inaugurazione delle lapidi furono occasioni solenni, in cui si ritrovavano famigliari, autorità e popolo, nel nome dell’eroe o degli eroi caduti. Intorno ad essi, anche nel Salento, fiorisce una eccezionale pubblicistica ad opera non solo di letterati ma anche di sacerdoti, ufficiali e sottufficiali che hanno partecipato al conflitto, famigliari dei caduti e studiosi locali, i quali producono una enorme messe di contributi a stampa, fra opuscoli commemorativi, discorsi, diari e memoriali di guerra, prose, poesie, rime sparse. La guerra, anche nel nostro territorio, diviene occasione di scrittura, sia nelle dotte analisi degli intellettuali[20] che  nella massa dei non addetti ai lavori e degli illetterati i quali si sentono legittimati a prendere carta e penna[21].

Si assiste ad una vera e propria trasfigurazione dei caduti che diventano eroi, assurgono ad una inattingibile sacertà[22]. Il culto degli eroi gonfia il cuore di grandi e piccoli, alimenta la musa di “poeti laureati” e improvvisatori.

Fra gli artisti che diedero i più grossi contributi alla monumentalistica postbellica, Antonio Bortone, il quale realizzò un discreto numero di opere sul tema in provincia di Lecce, come per esempio i monumenti ai caduti di Parabita, di Ruffano, di Tuglie, di Calimera, oltre a vari busti e targhe commemorative.

Antonio Bortone (1844-1938), insigne scultore originario di Ruffano, dopo la formazione napoletana, si trasferisce a Firenze, divenendo uno dei più ammirati artisti italiani dell’epoca. Basti pensare che a Firenze viene chiamato a lavorare alla facciata di Santa Maria del Fiore, per la quale realizza, tra gli altri, le due statue di Sant’Antonino e San Giacomo Minore (1887) e i due bassorilievi di Michelangelo e Giotto (1887), oppure al Michele di Lando (1895), nella Loggia del Mercato Nuovo. Per quanto riguarda le opere salentine, molte sono quelle degne di menzione, fra le quali: il busto di Giuseppe Garibaldi (1867), in marmo, che si trova presso il Castello Carlo V di Lecce;  i busti in marmo di Giulio Cesare Vanini (1868), di Francesco Milizia (1872), di Antonio Galateo (1873) e di Filippo Briganti (1875), presso la Biblioteca Provinciale N. Bernardini di Lecce; la statua in marmo di Sigismondo Castromediano (1890), che si trova nel Museo omonimo di Lecce, e il Monumento a Sigismondo Castromediano (1903), nella omonima piazzetta leccese; il monumento a Salvatore Trinchese (1907) a Martano; il ritratto di Pietro Cavoti (1912), presso il Convitto Colonna a Galatina; ma soprattutto Il Fanfulla (1877), che gli valse l’appellativo  di “mago salentino dello scalpello”, come lo definì Brizio De Santis, nel basamento dell’opera. Il Fanfulla gli diede fama anche in Francia, poiché all’Esposizione Universale di Parigi nel 1878 ottenne la medaglia di 3° grado. Questo monumento, oggetto pochi anni fa di un intervento di restauro, dopo essere stato a lungo nella Villa Comunale, si trova oggi in Piazza Raimondello Orsini, a Lecce.  Fra le altre opere, a lui si devono il Monumento a Quinto Ennio (1913) a Lecce, Il monumento alla Duchessa Francesca Capece (1900) e quello al patriota Oronzo De Donno a Maglie, e molti altri[23]. Recentemente, da parte dell’estensore di questo articolo è stata attribuita ad Antonio Bortone una statua inedita, in marmo bianco di Carrara, intitolata The Girl Knitting For the Front, che si trova nella cittadina di Christchurch, in Nuova Zelanda e che rientra nella statuaria commemorativa bellica[24].

Quando Bortone tornò a Lecce da Firenze, nel 1893, era uno scultore di grande successo e venne accolto come una gloria, tanto che le commissioni si inseguivano; gli giungevano richieste da enti pubblici e da privati in numero tale che lo costrinsero a lavorare forsennatamente negli ultimi anni della sua vita. Il suo talento gli viene riconosciuto da tutta la stampa locale, altissima era la considerazione di cui godeva lo scultore presso critici e giornalisti, ed anche presso il mondo dell’aristocrazia e dell’alta borghesia leccese che gli commissionava sovente busti e ritratti. Scrivono di lui il «Corriere Meridionale», il «Propugnatore», «Democrazia», «Fede», la «Voce del Salento», il «Giornale d’Italia», «L’Ordine», «Voce del Sud», ecc.

Dei monumenti ai caduti di Parabita, Ruffano, Tuglie e Calimera si è occupata Maria Lucia Chiuri nel dettagliato saggio Antonio Bortone e i Monumenti ai Caduti per la Patria nel Salento[25].                                 Il monumento di Ruffano è unanimemente ritenuto il più bello. Raffigura la Vittoria Alata, secondo la sua classica iconografia, rappresentata da una donna con leggero chitone, che impugna una tromba in una mano e la corona di alloro nell’altra. Sulla base di marmo, ai quattro lati, sono scolpiti i nomi dei caduti ruffanesi nelle due guerre mondiali. Questa statua, che campeggia al centro di Piazza IV Novembre, è espressione anche dell’amore del Bortone per il suo paese natale, tanto che egli volle farne omaggio[26]. Tuttavia, nonostante l’atto di prodigalità dello scultore, l’iter per la realizzazione della statua fu molto travagliato, come si può evincere dalla cronaca delle vicende amministrative riportata da Ermanno Inguscio e dalla Chiuri sulla base della documentazione archivistica[27]. Infatti, intorno all’opera del Bortone, fortemente voluta dal Podestà dell’epoca, Ottorino Licci, vi erano in paese pareri contrastanti, e forse furono questi alla base delle lentezze burocratiche e della difficoltà di estinguere il debito residuo contratto con il concittadino Giuseppe Pizzolante-Leuzzi, Presidente del comitato promotore, che aveva anticipato la somma per la sistemazione del monumento. Il Podestà Ottorino Licci avvertiva fortemente l’esigenza di un monumento ai caduti a Ruffano, anche per motivi famigliari, avendo perduto in guerra nel 1915 un fratello, Ernesto, al quale a Torrepaduli è pure intitolata una strada. Nella sua Relazione, si può avvertire tutto il rammarico di fronte ai mancati versamenti delle somme promesse nelle sottoscrizioni e al tempo stesso la fiera rivendicazione di non aver minimamente intaccato il bilancio del Comune a seguito dell’opera[28]. La statua è stata recentemente interessata da un intervento di restauro poiché danneggiata a seguito di una rovinosa caduta dovuta al forte vento.

Molto simile a quella ruffanese è la Vittoria Alata per il monumento di Tuglie, che ricalca dappresso la figura allegorica del monumento a Gino Capponi che si trova in Santa Croce a Firenze (1876) e che a sua volta è molto simile al monumento di Mons. Trama (1932), nella Cattedrale di Lecce. La realizzazione del monumento di Tuglie fu molto travagliata fino alla sua inaugurazione nel 1922, nella centrale Piazza Garibaldi[29]. Luigi Scorrano si occupa della statua nel suo articolo  La donna del monumento[30], in cui analizza il particolare della corona che cinge il capo della Vittoria e che raffigura lo stemma civico di Tuglie ed è quindi «allegoria del paese o, meglio, della comunità tugliese che rende un doloroso, benché composto, omaggio ai suoi concittadini caduti sui campi di battaglia». Il monumento di Tuglie è realizzato con un gusto classicheggiante, così come quello di Calimera, realizzato nel 1927, in bronzo e marmo, che all’inizio si trovava su un’ampia esedra che è poi stata rimossa. Questa statua è impreziosita da una palma e da una bandiera. Il comitato che la volle era presieduto da Pasquale Lefons, il quale si rivolse al suo amico Antonio Bortone. Lo scultore si impegnò a realizzarla ma, con la morte del Lefons, le cose si complicarono molto. Dopo svariate vicissitudini, legate a motivazioni di carattere economico, il Monumento ai Caduti venne finalmente inaugurato nel 1930, VIII anno dell’era fascista, in una domenica di giugno, alla presenza del gerarca fascista On. Starace, del prefetto comm. Formica e del Segretario federale della Provincia Cav. Palmentola.  L’orazione venne tenuta dal Senatore Brizio de Sanctis, illustre intellettuale calimerese.

La statua venne consegnata alla devozione dei famigliari dei caduti e all’ammirazione generale ma i debiti contratti dal Comune per la sua realizzazione restarono a lungo insoluti. Durante la Seconda Guerra Mondiale, a causa dell’estremo bisogno di ferro e bronzo dell’industria bellica, la statua calimerese rischiò di essere abbattuta per realizzare cannoni. Molte furono le richieste da parte del regime fascista alle autorità cittadine affinché venisse consegnata la bella Vittoria Alata per essere rottamata, e ciò sarebbe accaduto se nel frattempo non fosse intervenuto un provvedimento governativo a salvare la statua da un triste destino. Vennero però rimossi la catena, le due lastre in bronzo che ricordano i 90 Caduti in guerra Calimeresi, così come la lapide che era posta al lato dell’ingresso del Municipio. Negli anni Quaranta, la statua venne rimossa dalla collocazione iniziale in Piazza Littorio e negli anni Cinquanta risistemata nella nuova Piazza Del Sole, con notevoli interventi di modifica[31]. Una copia della statua di Calimera, riferiva il «Corriere Meridionale» del 17 marzo 1927 venne vista nella fonderia Vignoli dal duca D’Aosta che ne richiese una copia da donare ad un comune della Sardegna[32].

Il monumento di Parabita, posto al centro di un grande parco, era costituito da una statua di donna in bronzo, raffigurante Parabita, nell’atto di appoggiare la mano sinistra sull’ara della stele mentre nella destra reggeva lo stemma civico del paese. Nelle lastre in bronzo, i nomi dei caduti in guerra. Purtroppo la statua non è più esistente poiché durante la Seconda Guerra Mondiale venne fusa per realizzare armi e, dopo la guerra, venne sostituita da due fusti di cannone. Aldo de Bernart pubblica una foto d’epoca in cui si può vedere il monumento originario[33].

Ad A. E. Foscarini si deve invece la pubblicazione del bozzetto in gesso preparatorio del monumento di Parabita il quale, proveniente da collezione privata, è stato poi donato insieme ad altri dello stesso Bortone al Museo di Arte Sacra del leccese Convento di Sant’Antonio a Fulgenzio[34]. Come informa Aldo D’Antico[35], già nel 1919 a Parabita si era costituito un Comitato pro Monumento ai caduti, di cui facevano parte esponenti di spicco della borghesia del luogo, come Carlo Ferrari che lo presiedeva. Il comitato affidò ad Enrico Giannelli e Rocco Serino lo studio tecnico e le proposte da farsi[36]. Questi decisero di affidare l’incarico ad Antonio Bortone il quale aveva già contribuito con preziosi consigli alla realizzazione del Santuario della Madonna della Coltura, amata patrona della città.  Fu soprattutto per intercessione dell’amico Enrico Giannelli, che Bortone accettò l’incarico, firmando il contratto e scegliendo anche il luogo dove allocare l’opera, ovvero il piazzale antistante il santuario della Madonna della Coltura, in prossimità della stazione ferroviaria. Anche a Parabita però si verificano degli intoppi che fanno ritardare l’esecuzione dell’opera, la quale viene consegnata finalmente solo nel 1924[37]. Intorno alla statua, vengono piantumati degli alberi, uno per ogni caduto, come per tutti i parchi delle Rimembranze d’Italia, e inoltre l’aiuola fiorita viene cinta da una pregevole ringhiera realizzata dall’architetto Napoleone Pagliarulo, ideatore del Santuario della Coltura.  La statua di Parabita che regge in mano lo scudo civico campeggia sulla copertina di un numero della rivista «NuovAlba» all’interno della quale de Bernart ritorna sul non più esistente monumento[38]. Come detto, il monumento venne rimosso e il suo bronzo fuso per fabbricare armi[39].

Bortone partecipò anche, sia pure indirettamente, con un proprio contributo, all’asta di beneficenza che fu organizzata a Lecce nel giugno del 1916, quindi in piena guerra mondiale, dal Comitato per l’Assistenza civile. Infatti, in città vi era da mesi una vasta mobilitazione da parte di enti ed istituzioni, per fornire assistenza materiale ai soldati sul fronte e alle loro famiglie in difficoltà economiche. In questa gara di solidarietà si distinsero particolarmente la Provincia di Lecce, l’Associazione Mutilati ed Invalidi di Guerra, il Vescovo Mons. Gennaro Trama e il Sindaco di Lecce, Principe Sebastiano Apostolico Ducas. Vi parteciparono anche l’Istituto delle Marcelline, gli uffici pubblici, i giornali dell’epoca, gli ordini religiosi e tantissimi privati cittadini. Alla Lotteria, organizzata dal Comitato di Assistenza, pervenne un’opera di Bortone, il busto in bronzo di Cicerone, insieme a quelle di altri artisti, come Michele Massari, Agesilao Flora, Paolo Emilio Stasi, che donarono loro quadri, così come fecero Giovanni Lazzaretti, Egidio Lanoce, ecc[40]. Nel 1926, nel Cimitero nuovo di Lecce, si deve sempre al Bortone il monumento al sottotenente Francesco De Simone, morto il 30 giugno 1915 a Podgora di Gorizia, uno dei primi militari salentini a perdere la vita nel conflitto, medaglia d’argento al valore militare, come si legge nella lastra in marmo bianco di Carrara che si trova ai piedi della statua[41]. Al 1926 risale anche l’inaugurazione della grande targa in memoria degli alunni dell’Istituto Tecnico Costa caduti nel conflitto. La targa in marmo reca tutti i nominativi degli studenti, ben 92, dei quali alcuni vennero decorati con medaglia d’argento (8) e con medaglia di bronzo (9). Il testo è scritto dal prof. Brizio De Santis, all’epoca Preside dell’Istituto.

Nel 1924, in occasione del Cinquantenario del prestigioso Collegio Argento, l’istituto dei Gesuiti leccesi, venne scoperta una lapide dedicata a tutti i caduti in guerra ex alunni del Collegio, come riportato da tutti gli organi di stampa dell’epoca. In quella solenne occasione, la salma di Padre Argento, grazie all’opera infaticabile del Rettore P. Giovanni Barrella, venne traslata dal Cimitero di Lecce alla Cappella dell’Istituto e fu anche inaugurato il busto del fondatore, opera di Antonio Bortone, e nel locale d’ingresso venne apposta una targa ricordo con il testo di Brizio De Santis, Preside dell’Istituto Tecnico di Lecce e che già era stato allievo dell’Argento presso il Regio Liceo San Giuseppe[42]. La targa in memoria degli ex allievi venne poi rimossa durante i lavori di trasformazione del Collegio Argento in sede della Biblioteca Provinciale fra la fine degli anni Sessanta del Novecento e i primi anni Settanta. Di essa si perse da allora ogni traccia[43]. Molto probabilmente anche quella targa era opera di Bortone ma non ne abbiamo il riscontro data l’irreperibilità dell’opera. Una nostra visita nei locali sotterranei dell’attuale Museo Provinciale “Sigismondo Castromediano”- dove giacciono diverse lapidi marmoree – si è rivelata infruttuosa.

Bortone venne anche coinvolto, insieme a Eugenio Maccagnani, nella realizzazione del Monumento ai Caduti voluto dall’Amministrazione Comunale di Lecce nell’allora Piazza Libertini (oggi Piazza D’Italia), sostenuto da un Comitato promotore presieduto dal Principe Sebastiano Apostolico Orsini Ducas e inaugurato nel 1928. Tuttavia, il ruffanese rinunciò all’incarico, sicché l’imponente opera venne realizzata dal solo Maccagnani, al quale Bortone non mancò di esprimere vive felicitazioni per il brillante risultato ottenuto. Per altro, Bortone era grande amico del Maccagnani con il quale aveva condiviso gli anni del praticantato a Lecce, quand’erano allievi entrambi del maestro cartapestaio Antonio Maccagnani[44]. La stampa locale, a partire dal «Corriere Meridionale», passando per «La voce del Salento», fino a «L’azione pugliese», diede ampio risalto all’opera[45]. Bortone ammirava, ricambiato, il talento del Maccagnani, di diversi anni più giovane, al di là della rivalità fra i due grandi artisti: rivalità, più presunta che vera, attribuita loro per via della mancata assegnazione al Bortone della realizzazione a Lecce del Monumento al Re Vittorio Emanuele II, nel 1880, affidata invece dal Comitato Promotore, al Maccagnani, il cui bozzetto venne ritenuto più convincente[46].

Nel 1925 Bortone realizza il busto in bronzo del sottotenente Luigi Falco, morto sul Monte Grappa nel 1918, al quale è dedicato anche un cenotafio nel Cimitero Comunale dove è insieme al cugino, il maggiore Carlo Falco, morto durante la Seconda Guerra Mondiale, in Albania nel 1941[47]. Il busto di Luigi Falco appartiene a collezione privata[48].

Nel 1926, nel Palazzo Comunale di Guagnano, al Nostro si deve il busto in bronzo del sottotenente Benedetto Degli Atti, medaglia d’argento al valore militare, appartenente all’8° Reggimento Artiglieria, morto il 19 novembre 1917 sul Monte Grappa[49]. Un altro ritratto in gesso del sottotenente è conservato in collezione privata[50].

All’indomani della caduta del fascismo un moto di generale riprovazione nel Paese per i misfatti del regime finì con il coinvolgere anche i monumenti ai caduti che, nell’immaginario collettivo, vennero identificati con la propaganda fascista. L’ondata di indiscriminato rifiuto nei confronti della monumentalistica bellica iniziò ben prima, ossia già nel corso della Seconda Guerra Mondiale, quando moltissimi busti e statue in bronzo vennero distrutti, in nome di una equivoca concezione estetica che vedeva in queste opere delle risultanze del pessimo gusto di artisti non accreditati. Come precedentemente scritto, molte opere in bronzo vennero divelte dai loro basamenti e fuse per costruire cannoni, a partire dagli odiati fasci littori che ornavano moltissimi monumenti, per far fronte alla incessante richiesta che proveniva dall’industria bellica. In provincia di Lecce diede molto risalto alla rimozione dei monumenti in bronzo il giornale cattolico «L’Ordine». Venne per esempio distrutto il monumento a Gaetano Brunetti, opera di Eugenio Maccagnani del 1922[51],e stessa sorte toccò alle figure in bronzo del grande Monumento ai Caduti di Lecce del Maccagnani;  per quanto riguarda il nostro Bortone, vennero sottratte le parti in bronzo e l’aquila del Monumento a Quinto Ennio, del 1913, il busto a Cosimo De Giorgi, del 1925, ed altri.

Più in generale, terminata quella perfetta operazione di nation building operata dal regime fascista in Italia, con lo scollamento generale seguito alla fine della Seconda Guerra Mondiale e col tramonto del mito della «nazione armata»[52], ben presto iniziarono ad operare fattori psicologici del tutto diversi rispetto a quelli che avevano animato gli anni caldi dei conflitti;  il diffuso moto di rifiuto del fascismo fece il resto, portando ad un rigetto di simboli, immagini, rituali e insomma di tutto ciò che si identificava col regime. Quelle connessioni che avevano operato fino ad allora si sfilacciarono nel secondo dopoguerra quando «la capacità delle istituzioni statali di governare il lutto collettivo avrebbe perduto efficacia, mentre sarebbero state soprattutto famiglie e associazioni ad essere protagoniste di riti mortuari che non contribuivano più al consolidamento del legame tra cittadini e Stato ma che rinviavano alla maturazione di altre diverse identità collettive. Del resto, le due istituzioni italiane che, operando in stretta simbiosi, avevano tradizionalmente gestito la raffigurazione monumentale della patria e il culto dei caduti erano state la monarchia e l’esercito ma, dopo il 1943, né i Savoia né i militari disponevano più del consenso, del prestigio o degli strumenti culturali adeguati per assolvere efficacemente quel compito»[53]. Sicché, venendo meno lo stretto legame fra commemorazione e patriottismo, declinò inevitabilmente anche il culto dei caduti[54], e la pratica della memoria divenne obsoleta[55].

Sic transit gloria mundi, potremmo concludere, citando i latini, se non fosse che, per i corsi e ricorsi storici di cui disse Vico, affermandosi negli anni a seguire la dimensione privata e, sfrondate le politiche funerarie e commemorative di quella zavorra ideologica che veniva da una parte dalla retorica patriottarda e nazionalista di una certa destra e dall’altra dall’enfasi catto-comunista di una certa sinistra, la memoria è diventata finalmente valore condiviso, patrimonio collettivo.

 

* Società di Storia Patria per la Puglia, paolovincenti71@gmail.com

 

Note

[1] D. Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, IV, v. 72.

[2] B. Tobia, L’Altare della Patria, Bologna, Il Mulino, 1998; L. Cadeddu, La leggenda del soldato sconosciuto all’Altare della Patria, Udine, Gaspari, 2004.

[3] Per limitarsi ai più conosciuti, occorre citare almeno, per i monumenti romani e laziali: Aa.Vv., La memoria perduta. I monumenti ai caduti della Grande Guerra a Roma e nel Lazio, a cura di V. Vidotto, B. Tobia, C. Brice, Roma, Nuova Argos, 1998; per i monumenti liguri: R. Monteleone, P. Saracini, I monumenti italiani ai caduti della Grande Guerra, in La Grande Guerra. Esperienza, Memoria, Immagini, a cura di D. Leoni, C. Zadra, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 631-662; per l’area torinese: C. Canal, La retorica della morte. I monumenti ai caduti della Grande Guerra, in «Rivista di Storia Contemporanea», 4, 1982, pp. 659-669; per l’area trentino tirolese: I monumenti ai caduti della prima guerra mondiale nell’area Trentino tirolese, a cura di G. Isola, Trento, Università degli studi, Dipartimento di scienze filologiche e storiche, 1997. A questi studi fa riferimento, per rivendicare invece al Museo Civico del Risorgimento di Bologna l’unica raccolta che documenta su scala nazionale, e con immagini d’epoca, tutti i monumenti italiani ai caduti della Grande Guerra, G. M. Vidor  in Il “costituendo albo generale dei monumenti”. Studio preliminare della collezione fotografica bolognese dei monumenti ai caduti della Grande Guerra, in Bollettino Del Museo Del Risorgimento, Archiviare la guerra: La Prima Guerra Mondiale attraverso i documenti del Museo del Risorgimento, a cura di M. Gavelli, n.50, Bologna, 2005, pp.109-121 (oggi anche consultabile on line, nella sezione Collezioni Digitali all’indirizzo www.comune.bologna.it/museorisorgimento).

[4] P.Vincenti, Nomina nuda tenemus.La memoria ricomposta dei caduti in guerra attraverso i sacrari. Il caso di un piccolo centro del Sud Salento: Gagliano Del Capo, in «Eunomia- Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali», Anno VIII, n. 2, 2019, pp.317-330.

 

[5] G. M. Vidor, Riti e monumenti per i morti della Grande guerra, in «Studi Tanatologici-Thanatological Studies-Etudes Thanatologiques», n.1, 2005, pp. 139-159.

[6] Si veda: D. Lupi, Parchi e Viali della Rimembranza, Firenze, Bemporad, 1923.

[7] G. Lazzerini, Parchi e viali della rimembranza, in «Bullettino della R. Società Toscana di Orticultura», 4.a Serie, Vol. 8, n. 9/12 (Settembre-Dicembre 1923), pp. 30-32.

[8] Ministero della Difesa – Commissariato generale per le onoranze ai caduti in guerra, Relazione sull’attività del Commissariato generale per le onoranze ai caduti in guerra negli anni 1988-1997, Roma, 1998, pp. 1-3.

[9] G. M. Vidor, Il “costituendo albo generale dei monumenti”. Studio preliminare della collezione fotografica bolognese dei monumenti ai caduti della Grande Guerraop. cit., passim.

[10] Celebrare la nazione. Grandi anniversari e memorie pubbliche nell’Italia contemporanea, a cura di  M. Baioni, F. Conti ,  M.  Ridolfi, Milano, Silvana editoriale, 2012.

[11] M. Agulhon, La «statuomanie» et l’histoire, in «Ethnologiefrançaise», VIII,1978, 1, pp. 143-172, ripubbl. inI’Histoire vagabonde, vol. I, Ethnologieetpolitiquedans la France contemporaine, Paris, Gallimard, 1988, pp. 137-185.

[12] M. Isnenghi, Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1945, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 342-348.

[13] S. Bonelli, Gli spazi della memoria. La scelta dei luoghi, in Aa. Vv., La memoria perduta. I monumenti ai caduti della Grande Guerra a Roma e nel Lazio, cit., 1998, pp. 29-37.

[14]A. Migliorati, I Monumenti ai Caduti umbri della Grande Guerra: dalla “religione della patria” risorgimentale alla “religione della Nazione” dell’Italia fascista, in Aa. Vv.,1918-2018 Cento Anni di Memoria Rilievo e catalogazione dei monumenti ai Caduti della Prima Guerra Mondiale in Umbria, a cura di P. Belardi, L. Martini, V. Menchetelli, Università degli studi di Perugia,  Foligno, Il Formichiere, 2018, pp.38-39.

[15] http:// iccd.beniculturali.it/index.php?it/428/progetto-grandeguerra-censimento-dei-monumenti-ai-caduti-della-primaguerra-mondiale;http://www.catalogo.beniculturali. it/sigecSSU_FE/carica PercorsoTematicoPubblicato. action?id=2007&titoloPercorso=censimento%20dei%20 monumenti%20ai%20caduti%20della%20prima%20 guerra%20mondiale

[16] www.iccd.beniculturali.it › SIGECweb › sistema-informativo.

Sull’argomento: R. Lorusso Romito, Il progetto “Grande Guerra” Censimento dei monumenti celebrativi ai caduti. Il contributo della Puglia, in «Dire in Puglia», V/2014, Mibac, Viterbo, BetaGamma Editrice, 2014, pp.117-122.                                                                Nello stesso numero,V. Fasanella,  La Grande Guerra: il lutto e la memoria. La catalogazione dei monumenti ai caduti per recuperare la memoria, pp. 123-126; R. Piccininni, La tutela del patrimonio storico della Grande Guerra e la legge n. 78/2001. Brevi riflessioni, pp.149-152.

[17] C. Brice, Perché studiare (ancora) la monumentalità pubblica, Introduzione a Aa. Vv., La memoria in piazza. Monumenti risorgimentali nelle città lombarde tra identità locale e nazionale, a cura di M. Tesoro, Milano, Effigie, 2012, p.13.

[18] Ministero della Guerra, Militari caduti nella Guerra Nazionale 1915-1918Albo d’Oro, Vol. XVIII-Puglie, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, Libreria, 1938. Redatto anche da Cosimo De Carlo, nell’Albo d’oro dei caduti di Terra d’Otranto per la Patria, Lecce, Tip. Editrice Salentina, F.lli Spacciante, 1918-1919, voluto dall’editore Francesco Zaccaria Pesce.

[19] V. De Luca, Lecce negli anni della Grande Guerra, Galatina, Editrice Salentina, 2019, p. 136.

[20] F. Martina, Il fascino di Medusa. Per una storia degli intellettuali salentini tra cultura e politica (1848-1964), Fasano, Schena Editore, 1987.

[21] Sulla pubblicistica bellica e post bellica: G. Caramuscio, Stampa e opinione pubblica a Lecce tra provincialismo, nazionalismo ed ecumenismo (1914-18), in «L’Idomeneo – Il Salento e la Grande Guerra. Atti del Seminario di Studi. Lecce, Monastero degli Olivetani, 5 dicembre 2014 », Società Storia Patria per la Puglia, sezione di Lecce, n.18, Università del Salento, Lecce, 2014, pp.51-110; Idem, Elaborare il lutto bellico. Gli opuscoli commemorativi di caduti nel Salento (1915-1923), in «Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali», a. IV , n. 2, 2015, pp. 459-500.

[22] Cfr. C. Briganti, La trasfigurazione dei nostri Eroi sul Mare e sull’Alpe, Lecce, Tip. O. Guido, 1922.

[23] Per una bibliografia sul Bortone, fra i contributi più recenti, si segnalano: I. Laudisa, L’opera di Antonio Bortone, in Aa.Vv., Antonio Bortone, Pro Loco Ruffano, Lecce, Conte Editore, 1988, pp.15-34; A. de Bernart, Antonio Bortone nella stampa periodica salentina, ivi, pp. 37-45; A. Laporta, Rarità bibliografiche: un sonetto dedicato ad Antonio Bortone,ivi, pp.49-51;                                 A. E. Foscarini, Lettere edite ed inedite di Antonio Bortone,ivi, pp.53-67; A. de Bernart, Antonio Bortone e le figure dei suoi monumenti. Nel 150° di sua nascita (1844-1994), in «Bollettino storico di Terra d’Otranto», 4, 1994, pp. 72-78; O. Casto, Bortone a Firenze, in Colloqui 150° Anniversario della nascita di Antonio Bortone. 1844-1994, Pro Loco Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis, 1994, pp. 3-8; A. E. Foscarini, Bozzetti in gesso di Antonio Bortone, ivi, pp.27-28; E. Inguscio, Della “vittoria alata” di Antonio Bortone in Ruffano, in «Il Bardo», Copertino, a. VII, n.2, dicembre 1997, p.13; Idem, La civica amministrazione di Ruffano, 1861-1999, Galatina, Congedo, 1999, p.71; A. de Bernart, Antonio Bortone e la sua casa natale in Ruffano, Amministrazione Comunale Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis, 2004; Idem, La statua della Duchessa Capece nella piazza di Maglie, in «Note di Storia e Cultura salentina», Società Storia Patria Puglia, Sezione di Maglie, n. XVI, Lecce, Argo Editore, 2004, pp.55-56; Idem, I grandi salentini. Antonio Bortone, in «Anxa News», Gallipoli, settembre-ottobre 2008, p.14; Idem, Nel primo centenario del Monumento di Antonio Bortone a Quinto Ennio (Memorabilia 33), Ruffano, Tipografia Inguscio e De Vitis, maggio 2012; P. Vincenti, Dal Fanfulla a Quinto Ennio nel segno di Antonio Bortone, in «Il Filo di Aracne», Galatina, n.3, luglio-settembre 2019, pp.42-43; Idem,  Una statua per Francesca Capece, in «Nova Liberars», Novoli, n.1, 2019, pp.22-26.

[24] P. Vincenti, L’arte commemorativa postbellica. Antonio Bortone da Ruffano e una sua opera inedita, in «L’Idomeneo», Società Storia Patria per la Puglia, sezione di Lecce, n.26 -2018, Università del Salento, Castiglione, Grafiche Giorgiani, 2019, pp.247-282.

[25] M. Chiuri, Antonio Bortone e i Monumenti ai Caduti per la Patria nel Salento, in «Leucadia», Miscellanea storica salentina “Giovanni Cingolani”, III, n.1, 2011, pp.181-213.

[26] E. Inguscio, Della “vittoria alata” di Antonio Bortone in Ruffano,cit., p.13; Idem, La civica amministrazione di Ruffano, 1861-1999, cit, p.71; A. de Bernart, Antonio Bortone e le figure dei suoi monumenti. Nel 150° di sua nascita (1844-1994),cit., pp.72-78.

[27] Cfr.M. Chiuri, Antonio Bortone cit., pp.208-211.

[28] Cfr. E. Inguscio, La civica amministrazione di Ruffano, cit.,pp.71-73. A Ruffano, oltre al Monumento ai caduti, Bortone ha lasciato un suo autoritratto che oggi è conservato presso la sede della Pro Loco, allocata proprio nella cinquecentesca casa dove nell’Ottocento è nato lo scultore.

[29] Cfr. M. Chiuri, Antonio Bortone cit., p.192.

[30] L. Scorrano, La donna del monumento in «Nuovalba», Parabita, n.3, dicembre 2008, pp.6-7.

[31] Cfr. M. Chiuri, Antonio Bortone cit., pp.207-208.

[32] Cfr. I. Laudisa, L’opera di Antonio Bortone, cit., p.34.

[33] A. de Bernart, Note a margine di alcune foto,in   Aa.Vv.,  Noi il tempo le immagini. Album di vita parabitana, Centro di Solidarietà Madonna della Coltura-Italia Nostra sezione di Parabita, Galatina, Editrice Salentina, 1993, p.18.

[34] A. E. Foscarini, Bozzetti in gesso di Antonio Bortone, in Aa.Vv.,Colloqui 150° Anniversario della nascita di Antonio Bortone. 1844-1994, cit., pp.27-28.

[35] A. D’Antico, Il monumento ai caduti e la bella statua di Parabita, in «NuovAlba», Parabita, n.2, luglio 2004, pp.9-11.

[36]  Cfr. M. Chiuri, Antonio Bortone cit., p.165.

[37] Ivi, p.192.

[38] A. de Bernart, Lo stemma civico di Parabita in un’aiuola fiorita, in «NuovAlba», Parabita, n.3, dicembre 2005, p.2.

[39]  Cfr. A. de Bernart, Note a margine di alcune foto, in Noi, il tempo, le immagini cit., p.17.

[40] Cfr. V. De Luca, Lecce cit., pp.179-180.

[41] Ivi, p.72. Su Francesco De Simone, si veda: G. Caramuscio, Il milite noto. Modelli di eroismo bellico in opuscoli commemorativi salentini, in  Aa.Vv., «Colligite fragmenta». Studi in memoria di Mons. Carmine Maci, a cura di Dino Levante, Centro Studi “Mons. C. Maci”, Campi Salentina, Minigraf, 2007, pp.491-496.

[42] Cfr. V. De Luca,“Stringiamoci a coorte siamo pronti alla morte l’Italia chiamò” La Prima guerra mondiale nei monumenti e nelle epigrafi di Lecce, Galatina, Editrice Salentina, 2015, pp.61-64. Si veda: G. Barrella, P. Nicodemo Argento S.I. e il suo “Istituto”, nel primo cinquantenario della fondazione dell’“Istituto Argento” 1874-1924, Lecce, Tip. Masciullo, 1924.

[43] Ivi, p.64.

[44] Cfr. I. Laudisa, L’opera di Antonio Bortone, in Antonio Bortone cit., p.15.

[45] Cfr. V. De Luca, Lecce cit., pp.86-93.

[46] Cfr. I. Laudisa, L’opera di Antonio Bortone, in Antonio Bortone cit., pp.20-21.

[47] Cfr. V. De Luca “Stringiamoci a coorte cit., pp.50.51.

[48] Catalogo, in Antonio Bortone cit., p.170.

[49] Cfr. V. De Luca, Lecce cit., p.72.

[50] Catalogo, in Antonio Bortone cit., pp.170-171.

[51] Bortone era grande amico dell’On.Brunetti. La statua del politico salentino venne spedita a Milano nel 1942 per essere fusa:

  1. De Luca, Lecce cit., p 239.

[52] G. Conti, Il mito della “nazione armata”, in «Storia contemporanea», 6, 1990, pp.1459-1496.

[53] G. Schwarz, Tu mi devi seppellir. Riti funebri e culto nazionale alle origini della Repubblica, Torino, Utet, 2010, p.XIII.

[54]  Cfr. G.L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Roma-Bari, Laterza, 1990.

[55] Cfr.  J. Winter, Il lutto e la memoria, la grande guerra nella storia culturale europea, Bologna, Il Mulino, 1995.

Il soldato ruffanese Rocco Gnoni e le fucilazioni sommarie nella Prima Guerra Mondiale

 

di Paolo Vincenti*

 

Giovani soldati che verranno cancellati dal tempo

e dimenticati come cenere dispersa nel vento

figli di una terra che non vuole più tenerseli  accanto 

cosa rimane dopo un sacrificio inutile

di questa vita già finita in un istante soltanto il mio onore

il bene più importante

(Enrico Ruggeri, Il mio onore)

 

Una dolorosa pagina di storia nazionale, una delle più inquietanti della Prima Guerra Mondiale, è quella delle fucilazioni sommarie, che vide alcune centinaia di soldati morti per repressione interna, ovvero uccisi sul fronte dallo stesso esercito italiano per episodi di insubordinazione o resistenza agli ordini, diserzione o altro ancora. Nella Prima Guerra Mondiale non si moriva solo di fame, di freddo, di stenti, di malattie contratte nelle trincee, o sotto i colpi dell’esercito nemico.

In migliaia di processi sommari a discapito di soldati italiani, mandati alla sbarra per futili motivi, molti di questi soldati con estrema superficialità vennero condannati. Soldati innocenti, con un banale pretesto, venivano accusati di gravi misfatti e passati alle armi, assolvendo alla funzione di capro espiatorio, secondo la più classica concezione di derivazione ebraica.

E anzi se la guerra stessa, secondo l’interpretazione antropologica abbondantemente sviluppata da Renè Girard della violenza fondatrice della nazione, sta alla base della odierna società[1], a maggior ragione, il sacrificio di un drappello di soldati, per giunta giovani, si presenta come una specie di macabra sineddoche, pars pro toto, cioè, della guerra, che è essa stessa sacrificio di massa, secondo Roger Caillois[2].  Le motivazioni spesso addotte dai tribunali erano del seguente tenore: «il tribunale non ritiene di dover concedere le attenuanti generiche nell’interesse della disciplina militare per la necessità che un salutare esempio neutralizzi i frutti della propaganda demoralizzatrice».  Ossia, le condanne venivano comminate anche «in chiave di ammonimento e di prevenzione generale», fedelmente al motto di Mao Zedong  “colpirne uno per educarne cento”, poi fatto proprio dalle Brigate Rosse italiane negli anni del terrorismo. L’arroganza del Generale Cadorna, il senso di sfiducia e di sospetto da parte del Comando Supremo nei confronti dei soldati, generato dalla consapevolezza della palese impreparazione del nostro esercito rispetto alle forze nemiche, portarono alle sanguinose repressioni di militari sui militari. Queste repressioni avvenivano per i più svariati motivi, quali diserzione, comportamenti indisciplinati, atti di autolesionismo. Quello che è peggio è che questi severi provvedimenti venivano lasciati all’arbitrio degli ufficiali sul campo, i quali erano costretti ad assumere delle decisioni fatali senza il giusto discernimento, turbati dalla grave tensione del momento o dal timore di essere essi stessi oggetto di provvedimenti disciplinari per mancato decisionismo. Il tragico conto finale delle fucilazioni è di 750 soldati con processi dei tribunali militari e oltre 300 vittime di giustizia sommaria, come approfondiremo in questa trattazione.

Il problema era anche dovuto alla vetustà della normativa militare italiana in vigore nella Prima Guerra Mondiale. Infatti, il codice penale militare risaliva al 15 febbraio 1870 e questo, a sua volta, riproduceva, con solo lievi modifiche, quello dell’esercito sardo dell’ottobre 1859. Dobbiamo le notizie che riportiamo in questo saggio a due libri fondamentali: Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, di Enzo Forcella e Alberto Montico ne[3], e Le fucilazioni sommarie nella prima guerra mondiale, di Marco Pluviano e Irene Guerrini[4].

«L’edizione del 1914 del codice penale per l’Esercito del Regno d’Italia prevedeva la pena di morte per un’ampia casistica di reati commessi in tempo di guerra, quali lo sbandamento o l’abbandono di posto in combattimento, il tradimento, la diserzione, lo spionaggio, la rivolta, le vie di fatto contro un superiore, l’insubordinazione in faccia al nemico, la mancata consegna o l’abbandono di posto da parte di vedetta o di sentinella di fronte al nemico; la sollevazione di grida allo scopo di obbligare il comandante a non impegnare un combattimento, a cessare da esso, a retrocedere o arrendersi; inoltre lo spargimento di notizie, lancio di urla per incutere spavento o provocare il disordine nelle truppe, nel principio o nel corso del combattimento. La pena capitale era riservata anche ai comandanti, per reati particolarmente gravi, quali ad esempio la resa di una fortezza senza aver esauriti gli estremi mezzi di difesa e l’abbandono di comando in faccia al nemico»[5].

E l’Italia non era nemmeno la nazione ad avere il codice penale più obsoleto, in quanto, «ad esempio, l’esercito tedesco impiegò nella Grande Guerra il codice penale militare del 20 giugno 1872, mentre quello austro-ungarico risaliva al 1868 (modificato nel 1869 e nel 1873)»[6]. Agli ufficiali era conferito il potere di emanare dei bandi, in base all’articolo 251 del codice penale militare, ai quali tutti dovevano rigidamente attenersi. Tali bandi prevedevano delle norme di comportamento draconiane e delle pene durissime per i trasgressori. Queste pene, poi, data l’ampia facoltà discrezionale dei comminatori, si potevano trasformare in definitive, capitali. Gli inferiori erano tenuti ad ubbidire senza pensare, a dimostrarsi forti, coraggiosi, sprezzanti del pericolo in ogni circostanza.

Si può capire come questi episodi contribuiscano a smontare del tutto i luoghi comuni sulla “guerra gloriosa” che l’enfasi patriottarda ha stratificato per anni nell’immaginario collettivo che sempre si alimenta di esempi edificanti quanto edulcorati. La guerra perde così qualsiasi aura di “guerra giusta”, perde ogni legame con l’aggettivo “grande”, che la pubblicistica le ha cucito addosso, per rivelarsi ai nostri occhi per quello che essa è, cioè guerra, anzi «Guerra! Guerra!», come grida la Norma di Bellini (“guerra, strage, sterminio”), maledetta, come tutte le guerre.

La dura repressione partì da una Circolare del Generale Cadorna che nel maggio 2015 stabiliva: «Il Comando Supremo vuole che, in ogni contingenza di luogo e di tempo, regni sovrana in tutto l’esercito una ferrea disciplina». Per mantenerla, era scritto, «si prevenga con oculatezza e si reprima con inflessibile vigore»[7]. Nel settembre di quell’anno, venne emanata un’altra Circolare, col n. 3525, secondo la quale, al verificarsi di atti di «indisciplina individuale o collettiva nei reparti al fronte», bisognava rispondere con un immediato intervento di repressione, che prevedeva anche la fucilazione, come giustizia sul campo, sommaria, se i sintomi di tale insubordinazione fossero stati gravi[8]. Si lasciava cioè ai militari superiori, ufficiali e Regi Carabinieri, una enorme discrezionalità nelle decisioni da adottare e, in buona sostanza, il diritto di vita e di morte sui loro sottoposti. Se poi non fosse stato il caso di intervenire immediatamente con la condanna capitale, questi atti di insubordinazione sarebbero stati giudicati dai tribunali militari e ad essi deferiti i soldati che se ne fossero resi colpevoli.  «Il superiore ha il sacro diritto e dovere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti e i vigliacchi. Per chiunque riuscisse a sfuggire a questa salutare giustizia sommaria, subentrerà inesorabile quella dei tribunali militari. Ad infamia dei colpevoli e ad esempio per gli altri, le pene capitali verranno eseguite alla presenza di adeguate rappresentanze dei corpi. Anche per chi, vigliaccamente arrendendosi, riuscisse a cader vivo nelle mani del nemico, seguirà immediato il processo in contumacia e la pena di morte avrà esecuzione a guerra finita»: così il testo della Circolare[9].

Facendosi più cruente le fasi della guerra, anche l’autorità statale diventava più stringente e pervasiva; di pari passo con i poteri speciali del Comandante di Stato Maggiore Cadorna, aumentava la severità delle sue disposizioni, mentre veniva quasi esautorato il ruolo del Parlamento. Tutte le funzioni ricaddero progressivamente nella competenza dei tribunali militari e le pratiche autoritarie imposte dalla legislazione di guerra si facevano aberranti. «Al culmine dello sforzo bellico funzionavano complessivamente 117 tribunali militari in Zona di Guerra, marittimi, nel Paese e in Colonia»[10]. Tutto ciò, oltre ad indebolire lo stato democratico, «era funzionale alle sempre più forti pulsioni autoritarie che percorrevano la nazione. Queste, sostenute da larga parte della stampa e in particolare dal Corriere della Sera trovavano nel Generale Cadorna uno dei punti di riferimento più autorevoli»[11]. E non solo gli ufficiali che dovevano mantenere la disciplina venivano costretti ad essere inflessibili con i loro sottoposti, ma anche i giudici dei tribunali militari erano continuamente richiamati ad una maggiore severità nella comminazione delle condanne; il Generale Cadorna riteneva che molti di essi fossero troppo teneri e che la procedura concedesse troppe garanzie ai processati[12]. Al tempo stesso, se gli atti di insubordinazione si erano resi così frequenti, Cadorna era convinto che ciò fosse dipeso proprio dalla debolezza degli ufficiali superiori e poi dei giudici e propose di istituire un maggior numero di tribunali militari con una distribuzione capillare sul territorio, sicché essi, come si può capire, finirono con l’avocare a sé anche le competenze di quelli civili. In pratica, nulla di minimamente rilevante, sia civilmente che penalmente, in Italia, soprattutto nelle zone di guerra, poteva sfuggire alla giustizia militare[13]. Per l’effetto contrario di ogni inasprimento legislativo, però, i reati che si volevano colpire aumentavano. «Dall’analisi di Giorgio Mortara sull’operato della giustizia militare risultò che i reati più frequenti furono: diserzione volontaria per 162.563 casi, indisciplina per 24.601, cupidigia per 16.522, mutilazione volontaria per 15.636, resa o sbandamento per 5.325 e violenza per 3.510»[14].

Anche Bruna Bianchi, nel suo libro La follia e la guerra, riporta i dati dell’Ufficio Statistico del Ministero della Guerra pubblicati da Giorgio Mortara nel 1927, dai quali si evince che «le denunce per renitenza dal 24 maggio 1915 al 2 settembre 1919 furono 470.000 (di cui 370.000 italiani residenti all’estero); le denunce per diserzione furono 189.425», ma indica che «nell’arco del conflitto si conclusero 162.563 processi e furono emesse 101.685 condanne»[15].

Leggere la pubblicistica sulla materia ci fa capire come ai concetti alla base dei reati sopradetti fosse data dai tribunali militari una interpretazione estensiva, su sollecitazione del Generale Cadorna, in modo da colpire quanti più soldati possibile.

Pluviano e Guerrini spiegano come, fra le carte d’archivio, sia avvenuto il fortunoso ritrovamento della Relazione sulle fucilazioni sommarie durante la Prima Guerra Mondiale, redatta nel 1919 dall’Avvocato Generale Militare Donato Antonio Tommasi, sulla quale torneremo. Questa relazione, insieme agli Allegati, ritrovati da Giorgio Rochat (che firma la Prefazione del loro libro) il quale li ha messi a disposizione, hanno costituito la base del volume[16]. Nel mentre gli autori proseguivano nell’indefesso lavoro di ricerca negli archivi, essi hanno presentato una prima ricognizione del loro studio nella relazione Il memoriale Tommasi. Decimazioni ed esecuzioni sommarie durante la Grande Guerra[17]. Prima di questi lavori, le cifre sui fucilati di guerra erano piuttosto vaghe, certamente discordanti. Gli studiosi si barcamenavano fra le cifre fornite dalla politica che indicavano le vittime della giustizia sommaria in poche centinaia e quelle fornite dal giornale socialista «L’Avanti» che parlava di più di 1000 morti. Pluviano e Guerrini si sono invece basati sulla Relazione del Generale Tommasi, integrandola con le risultanze della istituita Commissione d’inchiesta parlamentare del 1919[18], e poi con molte altre fonti emerse durante il lavoro di ricerca, fra queste anche le dichiarazioni dei parlamentari durante i lavori della Commissione.

Fra le varie fonti dirette, una delle più accreditate «è la relazione “Dati di statistica giudiziaria militare” del giugno 1925. Si tratta della statistica delle sentenze e dei procedimenti penali dei tribunali militari presso l’esercito operante e di quelli territoriali fuori e dentro la zona di guerra. Secondo questa relazione, furono comminate nel corso del conflitto 4.028 condanne a morte, delle quali 2.967 in contumacia, 311 non eseguite e 750 eseguite. Di queste ultime, 391 riguardarono il reato di diserzione, 5 la mutilazione volontaria, 164 la resa o sbandamento, 154 atti di indisciplina, 2 la cupidigia, 16 per violenza, 1 per reati sessuali, le rimanenti per reati diversi. Un’altra fonte importante ai fini della quantificazione è una tabella del Reparto disciplina, avanzamento e giustizia militare del Comando Supremo dal titolo “Specchio dei giudizi durante la campagna” datata 24 dicembre 1917 e relativa al periodo giugno 1915 – settembre 1917, conservata presso l’archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Tale tabella è importante perché è l’unica a contenere anche il dato dei giudizi sommari: 112, che coincidono in buona parte con quelli riportati da Forcella e Monticone, fino all’agosto 1917. Nel settembre 1919 il ministro della guerra Generale Albricci, in sede parlamentare, ammise 729 condanne a morte eseguite durante tutta la guerra, mentre “le tristi esecuzioni sommarie superano di poco il centinaio”»[19]. Nel maggio-giugno 1916, a seguito dell’offensiva austro-ungarica, il regime disciplinare fu inasprito con l’ordine di ricorrere alle fucilazioni sommarie con ampia libertà, fino a colpire anche gli ufficiali. Dopo lo sfondamento austro-ungarico della nostra resistenza, il Comando Supremo ordinò al comandante delle truppe operanti sull’altopiano di Asiago di prendere le più energiche ed estreme misure: «faccia fucilare, se occorre, immediatamente e senza alcun procedimento, i colpevoli di così enormi scandali, a qualunque grado appartengano. […] L’altopiano di Asiago va mantenuto a qualunque prezzo. Si deve resistere o morire sul posto»[20].  Inoltre, di fronte «alle diserzioni, che sempre più numerose si manifestavano sia presso i reparti schierati in zona di guerra che all’interno, nel dicembre 1916 il Ministero della guerra decise di togliere il sussidio economico ai famigliari dei colpevoli del grave reato, i cui nomi furono pubblicati nei loro comuni natii»[21]. La pena capitale, specie per i soldati che si erano macchiati del reato più grave, la diserzione, avveniva con fucilazione alla schiena. «Altre norme legislative emanate durante la permanenza di Cadorna alla carica di capo di Stato Maggiore dell’Esercito furono il bando del 28 luglio 1915 del Comando Supremo contro la diffusione di notizie sulla guerra e la denigrazione dell’esercito o della guerra stessa ed il decreto luogotenenziale del 19 ottobre 1916 n. 1417 per la repressione dell’autolesionismo»[22].

Di fronte al numero spropositato di esecuzioni, si avvertì l’esigenza di istituire una commissione interna che vagliasse le tante condanne comminate ed i metodi usati nella spregiudicata gestione Cadorna. Questa commissione venne affidata all’Avvocato Generale dello Stato Donato Tommasi, sul modello della già costituita “Commissione d’inchiesta sugli avvenimenti militari che hanno determinato il ripiegamento al Piave”, comunemente definita “Commissione d’inchiesta su Caporetto”, di nomina regia, istituita nel 1918, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, che era nata in seguito all’ondata di paura e malcontento generatasi dopo la clamorosa sconfitta di Caporetto[23]. Già dalla Commissione d’inchiesta «il ricorso alla decimazione[24] fu stigmatizzato … e definito “provvedimento selvaggio, che nulla può giustificare” tra l’altro per via della pena di morte così ingiustamente comminata a numerosi innocenti»[25].

Il Generale Tommasi[26] stilò una Relazione, in base alla quale i fatti vennero così suddivisi: Esecuzioni sommarie che appaiono giustificate; esecuzioni sommarie che appaiono ingiustificate; esecuzioni sommarie per le quali l’azione penale è improcedibile; esecuzioni sommarie per le quali manca nei rapporti ogni elemento di giudizio[27]. Dei vari tipi, riportiamo alcuni esempi.

Per le esecuzioni sommarie giustificate: Brigata Messina, 93°reggimento, 30 giugno 1915, numero imprecisato di vittime, diserzione in complotto al nemico; Brigata Verona, 85° reggimento, 31 ottobre 1915. 1 fucilato. Abbandono del posto in faccia al nemico; Brigata Acqui, 18° reggimento, 22 aprile 1916. 3 fucilati, rivolta; Brigata Ancona, 69° reggimento, 13 giugno 1916. 3 fucilati. Sbandamento e mancata possibile difesa: Brigata Pavia, 27° reggimento, 11 novembre 1916. 1 fucilato. Insubordinazione e omicidio; Brigata Verona, 85° reggimento, 6 agosto 1916. 1 fucilato. Abbandono del posto e rifiuto di obbedienza in presenza del nemico: Brigata Catanzaro, 141° e 142° reggimento, 16 luglio 1917, 28 fucilati, rivolta. Per le esecuzioni sommarie ingiustificate: Brigata Ravenna, 38° reggimento, 21- 22 marzo 1917, 7 fucilati, rivolta. Per le esecuzioni sommarie per le quali l’azione penale è improcedibile: Brigata Salerno, 89° reggimento, 2 luglio 1916, numero imprecisato di morti. Diserzione al nemico, 3 luglio 1916, 8 fucilati, istigazione alla diserzione. Per le esecuzioni sommarie per le quali manca ogni elemento di giudizio nei rapporti e documenti esaminati: Brigata Catanzaro, 141°reggimento, 27 maggio 1916, Altipiano d’Asiago, 12 fucilati, sbandamento di fronte al nemico; Brigata Lazio, 131° reggimento, 15 giugno 1916, basso Isonzo, 1 fucilato, minacce e vie di fatto o rifiuto di obbedienza; 14° reggimento Bersaglieri, XL battaglione,16 giugno 1916, Altipiano d’Asiago, 4 fucilati, sbandamento; 5° reggimento Genio, 31°compagnia minatori, 26 luglio 1916, luogo imprecisato, 1 fucilato, vie di fatto a mano armata contro superiore;  XLVII battaglione Bersaglieri, 5 agosto 1916, quota 85 Monfalcone, 3 fucilati, diserzione; Brigata Regina, 9° e 10° reggimento, 13 maggio 1917, vallone di Doberdò, 6 fucilazioni non confermate, diserzione; Brigata Toscana, 77° reggimento, 23 giugno 1917, retrovie di Monfalcone, 2 fucilati, rivolta. Alla fine, “caddero vittime della giustizia sommaria 262.481 soldati e di essi 170.064, cioè il 62%, subirono una condanna. Furono comminati 15.345 ergastoli, dei quali 15.096 per diserzione. Le percentuali sono impressionanti: il 6% dei mobilitati fu rinviato a giudizio e quasi il 4% subì una condanna penale. Dei 262.481 processati, 177.648 passarono dai tribunali dell’esercito operante, mentre gli altri 84.883 furono giudicati dai tribunali territoriali. Sebbene i primi fossero più severi (ritennero colpevole il 66,3% dei processati), anche i tribunali territoriali condannarono il 61,8% dei giudicati”[28].

Fra le vittime della giustizia sommaria, anche un soldato salentino. E veniamo così all’oggetto della nostra trattazione.

Rocco Gnoni, questo il suo nome, era nato a Torrepaduli, frazione di Ruffano, il 6 agosto 1888. Figlio di contadini, Rocco aveva sposato una sua compaesana di nome Giovanna Crudo; il matrimonio fu celebrato l’11 gennaio 1915. Pochi mesi dopo, il 29 maggio 1915, Rocco partì per la guerra, come riportato sul suo foglio matricolare n.31904. Dal foglio matricolare apprendiamo che Rocco Gnoni, di professione contadino, già ritenuto «rivedibile» a causa della «debole costituzione fisica», viene poi arruolato nell’11 Compagnia di Sanità (44° Divisione Sanità) e viene considerato «disperso nel fatto d’armi dell’ottobre 1917»[29].

Dopo quasi due anni di servizio al fronte, Rocco ottenne con ogni probabilità una licenza, durante la quale lui e sua moglie concepirono l’unico figlio, Donato, che venne alla luce il 19 novembre 1917. Gnoni però non poté mai conoscere il bambino, perché morì pochi giorni prima della sua nascita.

Pluviano-Guerrini riportano nel Capitolo «La Relazione Tommasi. Esecuzioni sommarie per le quali manca ogni elemento di giudizio nei rapporti e documenti esaminati»[30], un corpus molto più consistente di esempi. Fra questi, oltre a quelli sopra elencati: Brigata Ivrea, 162° reggimento, 21 febbraio 1917. 2 fucilati. Diserzione; Brigata Palermo, battaglione complementare, 20 maggio 1917. 3 fucilati. Rivolta; e poi 44° sezione di sanità, 4 novembre 1917. 1 fucilato. Accusa sconosciuta. Quest’ultima è quella che a noi interessa, perché il soldato fucilato per motivi sconosciuti è Rocco Gnoni, «un ventinovenne nato a Ruffano, provincia di Lecce. L’ordine di fucilazione fu impartito dal comando della 2°armata il 3 novembre 1917, mentre la ritirata era ancora in corso. L’esecuzione sommaria avvenne presso il Cimitero di Porcia, nel Pordenonese, alle 6.15 del 4 novembre 1917, quando i reparti italiani si apprestavano ad abbandonare la zona. Il plotone di esecuzione era composto da dodici carabinieri della 128° sezione, addetta al comando della 2° armata. La scheda compilata da Tommasi e i documenti allegati non riportano la ragione della condanna, e questo è un fatto di particolare gravità perché la fucilazione avvenne per ordine di un comando d’armata»[31]. Gli autori inoltre riportano in nota che nell’Allegato 40 sono contenute «la lettera di trasmissione del comandante dei carabinieri dell’armata al comando della 2°armata, il processo verbale dell’esecuzione sommaria, a firma del tenente dei carabinieri Nicola Crocesi, comandante del plotone di esecuzione, e l’atto di morte del soldato Gnoni, redatto dal capitano medico Ario Airaghi, sempre il 4 novembre 1917»[32].  Si apre allora una incongruenza nella ricostruzione della vita di Gnoni. L’Albo d’Oro dei caduti della Grande Guerra, infatti, dice di lui che fu disperso in battaglia il 30 ottobre, «nel ripiegamento al Piave», dopo la tragica sconfitta di Caporetto[33].  E anche il foglio matricolare, come già detto, annota «disperso» e «rilasciata dichiarazione di irreperibilità»[34]. Come tale viene ricordato nella targa commemorativa del Monumento ai Caduti del suo paese, la piccola frazione di Torrepaduli. In realtà, egli fu fucilato, come dimostrano inconfutabilmente Pluviano e Guerrini sulla base dei documenti ufficiali. Fu vittima della repressione interna, uno di quei capri espiatori, di cui si diceva all’inizio.

La storia ci insegna che la guerra, come evento straordinario, che sconvolge cioè il regolare procedere del tempo ordinario, frange prassi, codici, norme di comportamento e garanzie. Ogni guerra porta esecuzioni sommarie, decimazioni, pene di morte, e non solo scombina le regole del vivere civile ma sovente calpesta la stessa etica militare. La Prima Guerra Mondiale non fa eccezione: questa fu la grande delusione che già nel 1916 si impossessò dei ragazzi che con entusiasmo e fiducia erano partiti per il fronte.  Nihil novi sub sole è il motto tragicamente fatalistico che si potrebbe trarre. E non meno che appropriato ci appare l’aggettivo fatalistico, se pensiamo che ad una vera e propria roulette russa era affidata la vita di questi soldati, nelle parole del Generale Cadorna: «non vi è altro mezzo idoneo a reprimere reato collettivo che quello della immediata fucilazione dei maggiori responsabili, allorché l’accertamento dei responsabili non è possibile, rimane il diritto e il dovere ai comandanti di estrarre a sorte tra gli indiziati alcuni militari e punirli con la pena di morte»[35].

Subito dopo la guerra, ci fu molta confusione sul numero esatto delle vittime di esecuzioni sommarie. Questo numero oscillava fra 109, indicato dall’On. Vito Luciano alla Camera dei Deputati il 19 settembre 1919[36], 152, il numero avanzato dall’Avvocatura generale militare, e più di 1000, come sosteneva il giornale del Partito Socialista «L’Avanti».  Come già detto, Pluviano e Guerrini, utilizzando le due fonti di segno opposto, ossia quella ufficiale della Relazione sulle esecuzioni sommarie del Generale Tommasi e quella non ufficiale e antimilitarista dell’Avanti, integrandole con i tanti documenti rinvenuti nell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito (USSME) e dalla memorialistica e dai resoconti di guerra, hanno calcolato questo numero in 750 fucilati[37].

Dopo il conflitto, la Relazione del Generale Tommasi restava la fonte più credibile sui fucilati di guerra, anche se il numero che presenta è in difetto e tende a colpevolizzare esclusivamente il Generale Cadorna facendo credere che col Generale Diaz la situazione fosse cambiata e le esecuzioni del tutto cessate (è invece dimostrato che vi fossero ancora dei casi), ma queste erano le pressioni che Tommasi aveva ricevuto dall’alto. In effetti, il Generale Cadorna nel frattempo era stato sostituito da Diaz.

Tuttavia, il destino della Commissione fu di essere insabbiata, analogamente a quella su Caporetto. Le sue risultanze vennero dimenticate e nessuno degli ufficiali colpevoli fu processato per i delitti commessi.

La linea del Parlamento italiano divenne quella di elogiare e ringraziare l’esercito e i suoi vertici per l’alto eroismo (dando avvio alla magniloquenza propagandistica che caratterizzerà tutto il dopoguerra fascista) e sostanzialmente perdonare i responsabili della carneficina, considerando quanto avvenuto come un male necessario, nonostante l’unica voce dissonante in Parlamento, quella del Partito Socialista, si alzasse contro simile conclusione. Di conseguenza, siffatti crimini contro l’umanità rimasero impuniti e un velo di oblio cadde sulla triste vicenda fino quasi ai giorni nostri[38]. Bisognerà attendere la pubblicazione dei libri di Forcella e Monticone del 1968[39] e di Procacci del 1993[40], basati sull’inchiesta del Generale Tommasi del 1919 fino ad allora segretata, per avere chiarezza. Queste ricerche hanno permesso anche di venire a conoscenza della vera fine del soldato Rocco Gnoni.

Nel 2016 è stato anche organizzato dall’Istituto Comprensivo Statale di Ruffano un incontro dal titolo    “I fucilati per mano amica nella Grande Guerra: verità e riabilitazione. La storia del soldato ruffanese Rocco Gnoni”.  Gli organizzatori di quell’incontro, in primis il prof. Roberto Molentino, referente del progetto “Cento anni fa… la Grande Guerra”, ed i docenti coinvolti, hanno voluto far luce sulle vere cause della morte di questo concittadino. Hanno ricercato il Verbale di esecuzione sommaria del soldato Gnoni Rocco, dal quale risulta che «detto militare venne fucilato il 3 novembre 1917 in Porcia per ordine del Comando della 2° Armata. Non vi è alcun accenno ai fatti che determinarono detto giudizio sommario e pertanto occorrerebbero nuove indagini per poter esaminare se l’ordine del detto Comando fu conforme alla legge». La fucilazione dunque avvenne nei pressi del cimitero di Porcia, paesino in provincia di Pordenone.          «Al soldato Rocco Gnoni furono sparati in due riprese complessivamente 12 colpi di moschetto M.1891, che lo resero all’istante cadavere»[41].  Sempre secondo il verbale, il cadavere del soldato fu seppellito all’interno del Cimitero di Porcia.

Per saperne di più, gli studenti del progetto scolastico coordinati da Molentino hanno intervistato il nipote del soldato, Gino Gnoni, il quale ha detto di essere a conoscenza del fatto, anche se non in grado di provarlo.

Gino ha sostenuto che suo padre, Donato, non voleva ricordare e non parlava mai di ciò che era accaduto a Rocco, anche se provò per tutta la vita sentimenti ostili nei confronti dell’arma dei Carabinieri[42]. Nonna Giovanna, vedova di Rocco, raccontava invece che un reduce le aveva riferito quanto accaduto al marito: sembra che mentre si trovava in un’osteria a rifocillarsi dopo le dure battaglie delle settimane precedenti, fosse stato redarguito da un superiore a cui, forse, rispose in modo irrispettoso. Questo segnò il suo destino.

Quanto scoperto trova un riscontro anche nel libro Nel vortice della grande guerra. Porcia nell’anno dell’invasione di Sergio Bigatton e Angelo Tonizzo, pubblicato dal Comune di Porcia nel 2010[43]. Il volume, incentrato sulla partecipazione della cittadina del Pordenonese alla Prima Guerra Mondiale, riporta nella seconda parte il Discorso pronunciato dal generale Umberto Pastore a Palse per l’inaugurazione del mausoleo ai Caduti in guerra, l’opera di don Francesco Cum Le memorie di un parroco dell’anno dell’invasione, e gli scritti di Antonio Forniz La prima guerra mondiale nei piccoli ricordi di un friulano adolescente. Sono riprodotti inoltre alcuni passi del diario del pittore futurista e scrittore Ardengo Soffici, scritti dal Castello di Porcia, dove soggiornò durante la ritirata di Caporetto. Infine, alcune memorie di Pietro Masutti e di Luigi Del Ben. In Appendice, sono riportati i nomi dei caduti di Porcia. Fra questi caduti non figura Rocco Gnoni, ma gli autori riferiscono un episodio che a Porcia era ben conosciuto e che ci fa chiaramente pensare al Nostro. Parlano della storia-leggenda di un povero soldato giustiziato di cui a Porcia girava insistente la voce, un «soldato italiano fucilato dai suoi al cimitero di Porcia durante la ritirata», individuato dagli autori grazie al ritrovamento di una planimetria del cimitero dove, fra i morti sepolti, viene ricordato anche un «Italiano fucilato»[44]. Ne parla con un fugace cenno il religioso Don Francesco Cum nel suo discorso (stampato a Udine nel 1920), che gli autori riportano nella seconda parte del libro[45].  Uno degli autori, Sergio Bigatton, contattato dagli organizzatori della manifestazione ruffanese, ha affermato che il soldato cui si accenna nel libro è senz’altro Rocco Gnoni. A maggior conferma, l’episodio dell’uccisione di Gnoni si potrebbe ricavare da un’altra fonte, che è il libro di Ardengo Soffici, La ritirata del Friuli. Note di un ufficiale della Seconda Armata[46], in cui il pittore e poeta futurista narra la sua esperienza nella prima guerra mondiale. Nella notte fra il 3 e il 4 novembre, scrive che, mentre era uscito con alcuni compagni a fare due passi nel paese, nel buio più fitto, avvertì dei rumori nei pressi del cimitero e fu attirato dalla luce di una lanterna. Incontrò alcuni uomini, dei carabinieri, e ai loro piedi un uomo morto, che Soffici ed i compagni scambiarono per una donna, in quanto l’uomo era acconciato in abiti femminili, probabilmente per sfuggire ai suoi assalitori. I carabinieri riferirono a Soffici e compagni che il loro superiore aveva ordinato di ammazzare sul posto quell’uomo, e loro avevano eseguito immantinente l’ordine, fucilando il malcapitato. Si trattava di una punizione esemplare. Anche se Soffici non fa il nome di Gnoni, è facile supporre che si tratti di lui[47].

Non sorprenderebbe che il soldato ruffanese si trovasse in un’osteria a sbronzarsi. Il vino e la prostituzione erano fin dall’inizio della guerra i soli due svaghi consentiti ai soldati nella terribilità del momento. Si trattava di svaghi autorizzati o meglio “istituzionalizzati” dalle autorità[48]. Il vino in trincea era un farmaco potentissimo, ne parla anche Emilio Lussu in Un anno sull’altopiano[49]. Utilizzato in quantità massicce dai soldati per fare fronte alla drammaticità della situazione, esso dava loro sollievo, potenziandone l’audacia e la bellicosità in alcuni casi, fungendo da oppiaceo e quindi anestetizzando la paura e il dolore in altri. Comunque, sia che lo usassero come coadiuvante per darsi forza e coraggio, sia come tranquillante per attutire nei fumi dell’alcol lo shock di un impatto emotivo devastante, tutti i soldati ne diventavano dipendenti. Tanto vero che anche nelle cosiddette Case del soldato[50], circoli ricreativi religiosi, creati dalla chiesa per contrastare le case di tolleranza (e fu una battaglia persa fin dall’inizio di fronte al proliferare delle case chiuse e al massiccio ricorso dei militari al sesso a pagamento), i soldati bevevano[51]. Anzi, una delle voci di spesa più alte negli acquisti delle Case del soldato era proprio quella per il vino, poiché i preti ritenevano che un consumo, sia pure moderato, della bevanda alcolica dovesse comunque essere permesso, anche per contrastare il ricorso alla prostituzione: come dire, si sceglieva il male minore[52]. Mons. Giuseppe Pellizzo, Vescovo di Padova, in una lettera affermava che avevano come unico pensiero quello di svuotare le cantine nei paesi abbandonati ed erano talmente attaccati alla bottiglia che se le montagne fossero state damigiane i soldati le avrebbero custodite meglio, essendo sempre aggrappati ad esse[53]. Questo scritto è anche più importante per quanto il prelato sostiene dopo[54], cioè che proprio a causa dell’ubriachezza, alcuni giorni prima un battaglione aveva rifiutato di andare avanti ed era stata sorteggiata una compagnia e decimata. Importante dappiù, questa lettera di Mons. Pellizzo, per la data in cui viene inviata, ossia il 31 maggio 1916, in un periodo in cui nessuno dei soldati dal fronte osava confessare tale pratica aberrante. L’alcol, dunque, veniva largamente usato nelle trincee e finanche incoraggiato dal Comando supremo. Esso costituiva proprio la benzina dei soldati, come dice Emilio Lussu.Ma poi, fuori dalle trincee, per somma incoerenza, specie con la gestione Cadorna, esso veniva proscritto, quasi demonizzato nelle Circolari del Generale che imponevano ai soldati, negli ambienti civili, assoluta sobrietà ed un severo contegno in ogni circostanza. Gnoni pagò con la vita la sua mancanza di contegno.

Nel 2015, gli Onorevoli Giorgio Zanin e Gian Piero Scanu hanno voluto proporre una legge sulla riabilitazione di questi caduti della prima guerra mondiale. In effetti, nel 2014, nell’ambito delle celebrazioni in occasione del centenario della Grande Guerra, si segnalava l’iniziativa di un gruppo di 50 intellettuali che inviavano un appello al Presidente della Repubblica per la riabilitazione dei soldati fucilati. Essi si costituirono in un Comitato nell’ambito del Ministero della Difesa. All’iniziativa di questo Comitato si unirono i deputati Gian Piero Scanu e Giorgio Zanin, rispettivamente primo firmatario e relatore alla Camera dei Deputati della proposta di legge n. 2741 finalizzata «ad attivare il procedimento per la riabilitazione dei soldati italiani condannati alla pena capitale nel triennio 1915-18, nonché per restituire l’onore militare e riconoscere la dignità di vittime di guerra a quanti furono passati per le armi senza processo con la brutale pratica della decimazione o per esecuzione immediata e diretta da parte dei superiori. Verrà così restituito l’onore militare e la dignità di vittime della guerra a quanti vennero fucilati. Infatti, una volta approvata la legge verranno inseriti nell’Albo d’oro del Commissariato generale per le onoranze I caduti»[55]. Giorgio Zanin venne anche invitato a Ruffano nel già citato Convegno del 2016 e in quell’occasione si è soffermato su questa triste vicenda e ha sottolineato l’alto dovere morale e civile di riaprire una delle pagine più nere della storia d’Italia.

Nella maggior parte dei casi, i sospetti e le accuse di delazione, spionaggio, intelligenza col nemico, diserzione, di cui erano fatti oggetto taluni soldati, rimasero tali, solo frutto di menti paranoiche o soggiogate. Le fucilazioni che ne seguirono furono invece reali, come molta memorialistica conferma e certa stampa dell’epoca andava denunciando. Soprattutto nelle interviste ai reduci, nelle testimonianze orali e in tanti diari pubblicati dopo la guerra, molto vivi e brucianti i ricordi delle esecuzioni sommarie[56]. Non così invece nelle lettere, quelle inviate dal fronte, che erano sottoposte a censura[57].

Alle esecuzioni dei militari, bisogna aggiungere quelle dei civili. Le fonti dimostrano che fin dai primi giorni del conflitto il nostro esercito si macchiò di vari delitti perpetrati a danno delle popolazioni di confine, uccidendo tantissimi abitanti dei territori occupati, con esecuzioni sommarie[58].

Una certa pubblicistica antimilitarista sostiene senza indugio che i veri eroi furono proprio questi, i disertori, i ribelli, i fuoriusciti. Questa pubblicistica porta a sostegno della propria posizione un abolito articolo della Costituzione, per l’esattezza l’articolo 50, poi divenuto articolo 54 che, al secondo comma, poi cassato, recitava: «Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino»[59]. Ma al di là delle posizioni di un certo pacifismo radicale, tutto l’orientamento dell’opinione pubblica in questi ultimi anni in Italia è stato quello di riabilitare non solo i fucilati di guerra ma anche i renitenti e i disertori, considerati anch’essi vittime della sofferenza procurata dalla guerra. Un articolo pubblicato su «La Repubblica» nel 2014 dà voce al Vescovo Santo Marcianò, Ordinario Militare, il quale parla delle diserzioni come di «un fenomeno che coinvolse tutte le forze in campo, alimentato non tanto dalla paura quanto dalla nostalgia per la famiglia e odio per l’ingiustizia delle autorità militari. Le condanne furono circa centomila. Impossibile sapere con esattezza i fucilati, almeno un migliaio»[60].

Come non vedere, in questi soldati ingiustamente massacrati, come Rocco Gnoni di Ruffano, dei martiri laici? Eroi minori di una beffarda tragicommedia.

Per concludere con le parole di Ardengo Soffici: «sono forse costoro dei vinti, dei disertori, dei rivoltosi, dei traditori? O sono, diciamo la parola, dei vigliacchi? No. Basta vederli. Basta lasciare entrare la loro anima nella nostra. Sono delle vittime. Sono degli incoscienti. Sono degli illusi – e il male non è qui. … il male è nelle radici – il male è laggiù sotto di noi: nell’ignominia di chi divide, di chi baratta, di chi mente, di chi mercanteggia. Di chi abbandona. Il male è dappertutto; ma non è qui. Qui si soffre soltanto. Non è la via dell’infamia, qui. È la via della croce»[61].

* Società di Storia Patria per la Puglia, paolovincenti71@gmail.com

 

Vivamente ringrazio gli amici Francesco Frisullo, che per primo ha fatto luce sulla storia del soldato Rocco Gnoni, e Roberto Molentino, che mi ha messo a disposizione alcune fonti documentarie.

 

Note 

[1] R. Girard, La violenza e il sacro, Milano, Adelphi, 1980.

[2] R. Caillois, L’uomo e il sacro, Torino, Bollati-Boringhieri, 2001.

 

[3] E. Forcella – A. Monticone, Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Bari, Laterza,1968, 2° ed. , 2014.

[4] M. Pluviano – I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie nella prima guerra mondiale, Udine, Gaspari, 2004, p.12.

[5] F. Cappellano, Cadorna e le fucilazioni nell’esercito italiano (1915-1917), p.1, in  www.museodellaguerra.it/wp-content/…/09/annali_23_Cadorna-e-le-fucilazioni.pdf. L’autore si rifà al libro di Forcella e Monticone, Plotone di esecuzione cit.

[6] Ivi, p.36.

[7] Circolare n. 1 Disciplina di Guerra in data 24 maggio 1915, conservato presso l’archivio dell’USSME (Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito), repertorio L3, b. 141, fasc. 3, riportato in M. Pluviano e I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie cit., p.36.

[8] Circolare n. 3525 in data 28 settembre 1915, Disciplina di guerra, USSME, Ivi, p.36.

[9] Ibidem.

[10] Ivi, p.14.

[11] Ivi, p.15.

[12] Ivi, p.20.

[13] Ivi, p.21.

[14] Ivi, p.23.

[15] Ministero della Guerra, Ufficio Statistico, Statistica dello sforzo militare italiano nella guerra mondiale. Dati sulla giustizia e disciplina militare, a cura di G. Mortara, Roma, 1927, in B. Bianchi, La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzione e disobbedienza nell’esercito italiano 1915-1918, Roma, Bulzoni, 2001,

[16] Ivi, pp.1-6. Sulla copertina del libro è raffigurata un’immagine tratta dal film di Francesco Rosi Uomini contro, del 1970, ispirato al romanzo di Emilio Lussu, Un anno sull’Altipiano.

[17] Letta al convegno “Scampare la guerra”, tenuto a Fogliano  Redipuglia nel 1990. Questa relazione è poi confluita nel libro con cui si pubblicarono gli atti: 1914-1918 scampare la guerra : renitenza, autolesionismo, comportamenti individuali e collettivi di fuga e la giustizia militare nella Grande Guerra, a cura di L. Fabi, Ronchi dei Legionari, Centro culturale pubblico polivalente, 1994, pp.63-75. Guerrini – Pluviano sono anche autori di La giustizia militare, in Dizionario storico della Prima Guerra Mondiale, a cura di N. Labanca, Roma-Bari, Laterza, 2014, pp. 137-146.

[18] Commissione d’inchiesta Dall’Isonzo al Piave. 24 ottobre-9 novembre 1917, Roma, Stabilimenti tipografici per l’amministrazione della guerra, 1919. Istituita con R.D.12 gennaio 1918, n.35.

[19] Atti parlamentari, Camera dei Deputati, legislatura XXIV, 1ª sessione, discussioni, tornata del 12 settembre 1919, in                         F. Cappellano, Cadorna e le fucilazioni nell’esercito italiano cit., p.12.

[20] Lettera in data 26 maggio 1916 del capo di Stato Maggiore dell’Esercito al Generale Clemente Lequio – USSME, in Filippo Cappellano, op. cit., p.6.

[21] Circolare n. 32800 in data 28 dicembre 1916, Conseguenze del reato di diserzione, Comando 3ª Armata. Altre conseguenze di legge del reato di diserzione erano: interdizione perpetua dei pubblici uffici, interdizione legale con la perdita di amministrazione dei propri beni, patria podestà, autorità maritale e capacità di fare testamento: fonte USSME, in F. Cappellano, op. cit., p.7.

[22] Ivi, p.11.

[23] M. Pluviano – I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie cit., p.41.

[24] La decimazione, che consisteva nel tirare a sorte il nome dei fucilati,come esempio di estrema disciplina militare inflitta ai soldati era una pratica già conosciuta dai Romani ma fu nella Prima Guerra Mondiale che se ne fece largo uso.

[25] Relazione della Commissione d’inchiesta, Dall’Isonzo al Piave 24 ottobre – 9 novembre 1917, vol. II, Le cause e le responsabilità degli avvenimenti, 1919, in F. Cappellano, op. cit., p.7.

[26] Il giurista Donato Antonio Tommasi (1867-1949), tarantino di nascita, era leccese. Stimato magistrato, durante la guerra ricoprì il ruolo di Avvocato Generale presso il Tribunale supremo di Guerra e di Marina e poi dell’Esercito. Fu parlamentare, eletto nelle file del Partito Popolare, negli anni Venti. Strenuo oppositore del Fascismo, in occasione della Marcia su Roma, redasse il decreto per lo stato d’assedio per conto del Presidente del Consiglio Luigi Facta che venne respinto dal Re Vittorio Emanuele III. Per questo, fu ostracizzato dal regime. Partecipò alla Seconda Guerra Mondiale e venne ferito dallo scoppio di una bomba lanciata sul centro militare clandestino che dirigeva a Roma, e fu onorato della medaglia d’argento al valor militare: M. Pluviano – I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie cit., p.48.

[27] Ivi, Le fucilazioni sommarie cit., p.47.

[28] Ivi, p.19.

[29]Archivio di Stato di Lecce, Vol. 194, Ruoli matricolari soldati appartenenti alla classe 1890.

[30] M. Pluviano – I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie cit., pp.113-130.

[31] Ivi,p.125.

[32]Ivi, p.129.

[33] Albo d’Oro, Volume XVIII, Puglie, N. 902. Nell’Albo d’Oro, giusta circolare del Ministero della Guerra, 8 giugno 1926, sono inclusi tutti i militari del R. Esercito, della R. Marina, della R. Guardia di Finanza, il cui decesso o scomparsa sia avvenuta per causa di guerra dal 24 maggio 1915 al 20 ottobre 1920, data di pubblicazione della pace.

[34] Archivio di Stato di Lecce Vol. 194, Ruoli matricolari soldati appartenenti alla classe 1890. La dichiarazione di irreperibilità veniva rilasciata dal CIFAG (Centro interministeriale per la formazione degli atti giuridici) di Roma, ora soppresso.

[35] Telegramma circolare nr. 2910 del 1 novembre 1916 del Comando Supremo, in Filippo Cappellano, op.cit., p.7.

[36] M. Pluviano – I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie cit., p.2.

[37] Ivi, pp.2-3.

[38] Ivi,pp.5-6.

[39] E. Forcella- A. Monticone, Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Bari, Laterza, 1968 (poi 2014).

[40] G. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra, Roma, Editori Riuniti, 1993. Sulle punizioni esemplari e le fucilazioni anche: A. Cazzullo, La guerra dei nostri nonni, Milano, Mondadori, 2014, p. 24.

[41] Si veda il Verbale della fucilazione allegato.

[42] Sul ruolo dei Regi Carabinieri: F. Angeletti, Il ruolo dell’arma dei carabinieri durante il primo conflitto mondiale: il fronte interno, in  «Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali», a. IV, n. 2, 2015, pp.371-386.

[43] Nel vortice della grande guerra. Porcia nell’anno dell’invasione. Documenti e memorie sulla prima Guerra mondiale, a cura di S. Bigatton e A. Tonizzo, Pordenone, Sage Print, 2010.

[44] Ivi, pp.39-40.

[45] Ivi, pp.81-107.

[46] A. Soffici, La ritirata del Friuli. Note di un ufficiale della Seconda Armata, Firenze, Vallecchi, 1919.

[47]Ivi, pp.192-193.

[48] Sulle case di tolleranza, si veda E. Franzina, I casini di guerra, Udine, Gaspari, 1999.

[49] E. Lussu, Un anno sull’altopiano,Torino, Einaudi, 1964.

[50] Don G. Minozzi, Ricordi di guerra, Amatrice, Vol. I, 1956.

[51] E. Franzina, I casini di guerra cit., p. 192. Sull’argomento, anche P. Vincenti, Tra vergogna e onore: le prostitute di guerra, in L’officina del sentimento. Voci gesti segni femminili in Terra d’Otranto davanti alla Grande Guerra (1915-1924), a cura di G. Caramuscio, in corso di stampa.

[52] M. Pluviano, Le case del soldato, in «Notiziario dell’Istituto Storico della Resistenza in Cuneo e provincia», n.36, dicembre 1989, pp.5-88.

[53]I vescovi veneti e la Santa Sede nella guerra 1915-1918, a cura di A. Sciottà, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1991, p.73. Mons. Pellizzo, fondatore del giornale cattolico «La difesa del popolo», scrive tra il 1915 e il 1918 ben centocinquantasei lettere a Papa Benedetto XV per informarlo sul drammatico andamento della prima guerra mondiale.

[54] Pubblicato da I. Guerrini – M. Pluviano, in Il memoriale Tommasi. Decimazioni ed esecuzioni sommarie durante la grande guerra, in 1914-1918 scampare la guerra cit., pp.63-75.

[55] Disposizioni concernenti i militari italiani ai quali è stata irrogata la pena capitale durante la Prima guerra mondiale https://www.camera.it › leg18

[56] M. Pluviano – I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie cit., p. 239.

[57]Ivi, p. 240. Le lettere dal fronte avevano degli speciali censori che erano spesso gli ufficiali austriaci e tedeschi, incaricati di leggerle, allo scopo di emendarle da eventuali informazioni poco opportune e pericolose. Fra questi ufficiali, Leo Spitzer, il filologo austriaco al quale si deve il primo studio organico di carattere linguistico sulle lettere dei soldati dal fronte. Leo Spitzer, Lettere di prigionieri di guerra italiani: 1915–1918, a cura di L. Renzi, Torino 1976, nuova ed., Milano 2016. Si veda anche D. Octavian Cepraga, Scritture contadine e censori d’eccezione: le lettere versificate dei soldati romeni della Grande Guerra, in Memorialistica e letteratura della Grande Guerra. Parallelismi e dissonanze Atti del Convegno di studi italo-romeno Padova–Venezia, 8–9 ottobre 2015,a cura di D. Octavian Cepraga, R. Dinu e A. Firţa, Quaderni della Casa Romena di Venezia, XI-2016, Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia, 2016, p.189.

[58] Ivi, pp. 196 -197.

[59] https://www.nascitacostituzione.it/02p1/04t4/054/art054-011.htm

[60] P. Gallori, Grande guerra, l’ordinario Militare: “Riabilitare i disertori come Caduti”, in «La Repubblica», 6 novembre 2014

[61] A. Soffici, op. cit.,p.202.

Ringrazio gli amici Francesco Frisullo, che per primo ha fatto luce sulla storia del soldato Rocco Gnoni, e Roberto Molentino che ha messo a disposizione alcune fonti documentarie.

Luci ed ombre nella partecipazione delle donne salentine alla Prima Guerra Mondiale

      

 

 di Paolo Vincenti*

Molti studi ottimamente prodotti negli ultimi anni sulla partecipazione delle donne alla Prima Guerra Mondiale hanno dimostrato come il loro impegno nella Grande Guerra in tutta Italia sia stato ampio e variegato. Da questi studi è emerso un universo femminile quasi prismatico, se solo si superano i consunti stereotipi che stancamente si tramandano. Oltre ai settori più tradizionali e conosciuti, infatti, come quello delle infermiere e delle crocerossine, vi furono moltissimi campi di applicazione in cui le donne riversarono il proprio ingegno, la costanza, la versatilità. La loro partecipazione fu legata prima di tutto all’assistenzialismo, sia di matrice cattolica che laica. Soprattutto le donne di estrazione aristocratica ed alto borghese incoraggiarono la nascita di associazioni di beneficenza, che si prendessero cura dei soldati impegnati al fronte, attraverso donazioni, raccolte fondi, invio di beni di prima necessità, quali generi alimentari, indumenti caldi, medicine. L’area del volontariato in cui maggiormente si esplicò la beneficenza legale, anche nel Salento, fu quella sanitaria, nello specifico della Croce Rossa. Molte furono le infermiere salentine che partirono per le zone di guerra[1].

Un ruolo rivestito dalle donne durante la guerra che merita ulteriori approfondimenti è quello delle madrine di guerra, le quali si prendevano cura di alcuni soldati, adottandoli per tutta la durata del conflitto. Inizialmente le madrine di guerra provenivano dall’alta società, ovvero dai ceti aristocratici, ma successivamente furono anche le ragazze del popolo a farsi madrine e avviare una corrispondenza epistolare con i soldati sul fronte; non di rado, queste frequentazioni si trasformavano in fidanzamenti e quindi matrimoni quando i soldati riuscivano a ritornare vivi dal campo di battaglia[2]. Molto note sono le figure di madrine di guerra al Nord, poco invece nel Sud e nello specifico nel nostro Salento. Queste donne, anche conosciute come “Dame di carità”, operavano nell’ambito dell’associazionismo cattolico e si facevano promotrici di iniziative benefiche a favore dei soldati feriti sul fronte e mutilati, e ancor di più degli orfani e delle vedove di guerra.

Al di fuori dei ruoli classici di maternage, sui quali torneremo nel corso di questo contributo, molte furono le donne impegnate nelle professioni intellettuali, come insegnanti, scrittrici e giornaliste. Fra queste ultime, una particolare menzione meritano le giornaliste di guerra[3]. Nel Salento, svariate furono le donne intellettuali che vissero in primo piano l’età della Prima Guerra Mondiale. Tutte sono state oggetto di approfonditi studi e dunque di esse faremo solo una rapidissima carrellata. Fra le altre, possiamo citare: la professoressa Giulia Lucrezi Palumbo (1876-1956)[4], Giulia Poso (1879-1963)[5], Maria Luigia Quintieri (1881-1973)[6], Maddalena Santoro (1884-1944)[7], Oronzina Quercia Tanzarella(1887-1940)[8], Maria Panese Tanzarella (1888-1981)[9], Maria Rosaria Filieri (1895-1944)[10] e, inoltre, Magda Roncella (1882-1939)[11].          La partecipazione delle donne alla Grande Guerra costituisce un determinato filone di studi che ha visto nell’esperienza del primo conflitto mondiale il momento storico che determinò un concreto passo verso l’emancipazione femminile. In effetti, le donne dovettero fare di necessità virtù. Esse rivestirono ruoli di supplenza degli uomini. In assenza dei loro compagni, che avevano lasciato abbandonate le campagne, divennero contadine. In città, entrarono anche nell’industria pesante, metallurgica, meccanica,operando in campi di applicazione eminentemente maschili. «Nel 1918 le donne costituivano il 25 per cento della manodopera negli stabilimenti ausiliari di Torino, il 31 per cento in quelli di Milano, l’11 per cento in quelli di Genova, e rispettivamente il 16, il 22 e il 20 per cento in quelli non ausiliari delle stesse città», scrive Antonio Gibelli in La grande guerra degli italiani 1915-1918. «In complesso negli stabilimenti ausiliari le donne occupate erano circa 80 mila alla fine del 1916, salirono a 140 mila nel 1917, per toccare il massimo di quasi 200 mila alla fine della guerra»[12].  Oltre a sostituirsi agli uomini, le donne ebbero anche ruoli attivi. Non solo operaie, ma anche portalettere, autiste di mezzi pubblici, telegrafiste, impiegate negli Uffici notizie per le famiglie dei militari[13]. Impegnate anche direttamente sul fronte, come le Portatrici carniche, la più conosciuta delle quali è Maria Plozner Mentil, unica donna a cui sia stata intitolata una caserma in Italia[14]. Queste donne portavano beni di conforto e rifornimenti ai soldati sul fronte. Dai paesi circonvicini esse si arrampicavano sulla montagna fino ad arrivare in prima linea esponendosi al rischio mortale[15].  «La Grande Guerra sperimenta la duttilità e l’elasticità che le donne hanno sempre messo a disposizione delle mutevoli occasioni di lavoro che via via si presentavano o che, abilmente, riuscivano ad accaparrarsi»[16].Tutto ciò, nonostante «la diffidenza degli uomini che percepivano come un’usurpazione quell’intraprendenza femminile, quasi un sovvertimento dell’ordine naturale e un attentato alla moralità»[17]. La guerra portò ad una insperata emancipazione femminile dacché lavori che fino ad allora erano esclusiva prerogativa del genere maschile divennero, per il precipitare degli eventi, accessibili alle donne. Di pari passo con l’emancipazione però andava lo sfruttamento, essendo i salari delle donne comunque inferiori e le ore lavorative maggiori. Se non appartenenti alle classi sociali più agiate e quindi ammesse alle professioni intellettuali, come quella della maestra, al più come sarte e ricamatrici, per le donne delle classi sociali meno abbienti non vi era alternativa al duro lavoro dei campi, nel quale esse profondevano ogni energia senza nessuna protezione sociale o legislativa.

Soprattutto in città, nelle attività impiegatizie o ancor peggio nelle fabbriche, alle donne venivano destinate le mansioni più umili, spesso degradanti. Vi è infatti una nutrita schiera di studiosi che tende a smontare la ottimistica teoria dell’emancipazione femminile durante gli anni della Grande Guerra, e considera invece le donne comunque relegate in ruoli di secondo piano, anche in settori di più immediato protagonismo, come appunto quelli che stiamo trattando. Secondo questa scuola di pensiero, cioè, le donne non riuscirono neppure in un simile contesto ad uscire da schemi fissi, da un ruolo tradizionale che le vuole vittime di un cliché[18]. Anzi, secondo questi studiosi, la guerra diventa vieppiù fattore demarcatore delle discriminazioni di genere, mettendo impietosamente in risalto quanto la donna sia diversa dall’uomo, per esempio nella forza fisica, con riferimento alla strage, alla violenza, al sangue, teatri dai quali ella si tiene convenientemente lontana. «Anche quando si mobilitano a sostegno della guerra le donne lo fanno a partire dalla loro estraneità di genere alla guerra. Sia che assistano feriti e mutilati, sia che si occupino di forme di assistenza sociale alle famiglie dei combattenti, sia che si impegnino nella propaganda di guerra, le donne vivono la guerra come un evento cui si sentono estranee e di cui conoscono esclusivamente gli effetti nefasti», scrive Augusta Molinari[19].

Vi era, prima, una quantità di donnine carine, eleganti, ben vestite, ben inguantate, ben calzate, scintillanti di gioielli, abituate a non occuparsi che dei propri vestiti e della propria pettinatura, o tutt’al più, di teatri e di ricevimenti, abituate ad essere carezzate, viziate, adulate pei loro bei vestiti, per la loro bellezza e per la loro frivolezza. Vi era una quantità ancor più grande di buone mamme, di brave massaie, avvezze a non pensare che alla casa, al marito e ai figli; care, dolci covatrici il cui orizzonte si limitava, ingenuamente e divinamente, all’orlo del nido. Vi era una quantità molto minore – per fortuna, gridavano gli uomini! – di donne “intellettuali” che si occupavano dei problemi della vita femminile, parlavano nei congressi, scrivevano nei giornali, reclamavano diritti, fra la cortese, sottilmente ironica disattenzione maschile. Vi era poi                        un’ enorme massa di donne povere, popolane, operaie, piccole impiegate, contadine, avvezze a subire senza contrasto il dominio maschile, ad offrire umilmente, in caso di bisogno, il proprio aiuto alla gestione domestica, con un lavoro poco considerato, e miseramente pagato. Su tutto ciò, d’improvviso, s’è spiegato il rosso baleno della guerra; e tutto ciò si è mutato, prodigiosamente».

Questa lunga citazione riportata da Giovanna Bino[20] ci sembra significativa.

Le crocerossine avevano comunque bisogno dell’autorizzazione paterna (o di un membro maschile della famiglia) per poter partire.  Alcuni medici, per esempio, non permettevano alle infermiere di entrare nella sala chirurgica, ma le relegavano a mansioni secondarie come quella di assistenza e di pulizia delle sale. Emblematico della diffidenza maschile nei confronti della partecipazione delle donne alla guerra è quanto scrive Gida Rossi, in un gustoso passaggio del suo libro, che riportiamo:

 

Però – povere donne! – quante ne sono state dette contro di noi! Anche noi abbiamo combattuto una ben aspra battaglia e non contro l’Austria soltanto. Pur stimandoci una per una, e far le debite eccezioni, fu moda per certi signori uomini dir male di tutte, fare di un caso tutti i casi, di una leggerezza tutte le leggerezze, di una colpa un numero infinito di colpe. Sintomatico un articolo apparso con tanto di firma sul Carlino del 5 febbraio 1916; e senza che il Carlino lo facesse seguire da un qualsiasi commento: segno evidente che esso rappresentava l’opinione pubblica del giornale. Taccio il nome dell’autore per rispetto a sua madre. L’articolo “L’altra faccia” tra molte parole diceva così: «La massa delle donne è assente o inerte. La donna, quando ha fatto una mezz’ora di calza al giorno, comperato un biglietto per una lotteria di beneficenza e ha versato una lacrimuccia sulla carneficina della guerra, ha la coscienza di aver mirabilmente assolto il suo compito. Dotate di una concezione realistica della vita, esse non vedono aldilà della salute del figliuolo e biasimano la guerra solo perché mette in pericolo una persona amata, o l’agiatezza in cui sono use… Il concetto di Patria o di Nazione è troppo vasto per tali anguste fronti (!!). Sono un po’ come certi insetti, per cui la sola ragione di vivere è un atto d’amore… Le vere apostole sono rare: poche elette, o asessuali per età o per struttura. Le femmine possono essere delle persone e non delle personalità». E finiva con una freddura: «La guerra è lunga, ma in compenso le sottane della donna diventan sempre più corte». C’era da schiaffeggiarlo! Ma si trattava di un medico e mobilitato per giunta. Stava, è vero, a parecchi chilometri dalla zona d’operazione, ma era mobilitato e poteva dire cavallerescamente tutti gli improperi che voleva. Risposi indignata. Il Carlino, cavalleresco due volte anche lui, non volle pubblicare l’articolo. Pubblicò il Giornale del Mattino. Ferveva allora più che mai tutta quella molteplice opera femminile, che, ora, a tanti anni di distanza, pare ancora più portentosa, e abbondava il materiale fra le mani da gettare in faccia all’impudente. Ed ebbi almeno la soddisfazione di sapere che le signore di Bologna, indignate anch’esse, chiusero le porte in faccia al cavaliere[21].

 

E tuttavia «la Grande Guerra degli uomini aveva ormai infranto l’universo femminile; dalle agiate alle popolane, dalle istruite alle analfabete, le donne si trovarono negli spazi pubblici fino ad allora “maschili”; tutte furono coinvolte da un evento che ne ridisegnò ruoli e percorsi nella scena economica, sociale e politica. Se la borghese, non spinta al lavoro dalla necessità materiale, si impose per ottenere l’accesso all’istruzione e alle professioni, al suffragio e al riconoscimento dei propri diritti in quanto persona, la lavoratrice fu per lo stato “risorsa femminile” confinata tra i campi e le fabbriche»[22].

Protraendosi poi il conflitto, e venendo a mancare i mezzi di sussistenza, nella grave crisi che l’economia di guerra aveva necessariamente procurato, le donne furono capaci di inscenare plateali manifestazioni di ribellione, un acceso spirito antimilitarista le portò in tutta Italia a manifestare, violando secolari tabù, a favore della pace e per la fine della guerra[23].

Anche nel Salento, le sommosse e le manifestazioni dettate dalla fame e dall’indigenza coinvolsero diversi Comuni della provincia di Lecce[24], oltre al capoluogo, come testimonia il bel libro di Salvatore Coppola, Pane!…Pace!,[25]. Queste agitazioni sono tutte documentate nelle carte dell’Archivio Storico di Lecce. Si soffermano sull’argomento, Liliana Bruno e Daniela Ragusa[26]. Attraverso queste carte si è documentato Salvatore Coppola poiché negli archivi locali vi era una assoluta mancanza di evidenze, e non solo nelle prefetture e sottoprefetture (nonostante la rilevanza penale degli accadimenti) ma anche nella stampa locale. Nei giornali dell’epoca, nessuna notizia, ciò al fine di stendere un velo di silenzio sulle sedizioni per non accendere gli animi e fomentare ulteriori disordini. Vi era, infatti, una precisa volontà da parte dello Stato non solo di reprimere le sommosse, ma anche di farle passare sotto silenzio, di non dare voce alle protagoniste di quelle agitazioni. Lo spiega molto bene Coppola, il quale, in un recente saggio, informa su come si sia documentato per la compilazione del libro. Infatti, non essendoci, come detto, nei fondi archivistici locali e nazionali, «praticamente traccia di manifestazioni di protesta per il pane e contro la guerra di cui furono protagoniste in Terra d’Otranto le donne», egli ha dovuto utilizzare come fonti «i fondi giudiziari dell’Archivio di Stato di Lecce e dell’Archivio Centrale dello Stato che ci testimoniano di un ampio movimento di lotta e di protesta che ha avviato il processo di abbattimento delle barriere domestiche delle donne salentine». Approfondisce poi la sua indagine per testimoniarci «quanto quelle manifestazioni siano state spontanee e quanto abbiano influito sulle stesse le organizzazioni socialiste (neutraliste e pacifiste) e le parrocchie (legate al messaggio di pace del Vaticano). Quello che appare assodato è che le donne riuscirono ad appropriarsi di un ruolo di presenza attiva sul territorio che fino ad allora non avevano mai avuto, avviando così la lotta per la propria emancipazione»[27].

Ricostruire la storia delle rivendicazioni femminili negli anni della Grande Guerra, almeno dal punto di vista documentale, mancando testimonianze scritte delle protagoniste di quei sommovimenti, è un compito meritorio e diremmo un dovere civile dello storico impegnato sul campo. Far emergere questi episodi di microstoria contribuisce ad ampliare le nostre conoscenze sulla ricezione del grande evento bellico da parte delle classi subalterne. Oltre ai diari e alle lettere e cartoline dal fronte dei soldati impegnati in trincea (che hanno dato vita alla sterminata produzione della memorialistica di guerra, oggetto negli ultimi anni di crescente attenzione da parte degli studi di settore[28]), la storia della partecipazione popolare alla guerra si arricchisce anche delle ricostruzioni prodotte dagli studi di genere. «La storia di genere», per seguire le parole dello studioso Coppola, «favorisce un’attenzione sempre crescente verso la “storia dal basso”, ovvero verso la storia di quanti, negli anni di guerra, sono stati soggetti attivi e partecipativi, anche se per molti anni emarginati nel racconto del “grande evento”. La loro è la guerra di quanti, vivendo all’interno del “fronte interno”, sono stati protagonisti attivi che, grazie ad una metodologia storiografica basata su quella che comunemente è indicata come “prospettiva dal basso” o, per utilizzare un termine caro al mondo accademico, “approccio microanalitico”, emergono con il vissuto di mogli, figlie, madri e sorelle lontane dal fronte e protagoniste della Storia in una regione periferica e marginale come il Salento»[29].

Dunque, il Salento negli anni della Grande Guerra fu interessato da un generale fenomeno di mobilitazione che coinvolse a più livelli la società della Terra d’Otranto.Nella città di Lecce, principale presidio ospedaliero fu il nosocomio della Croce Rossa Italiana, allocato nel 1915 nel grande ospedale civico inaugurato due anni prima, e dove presero servizio le Dame della Croce Rossa, come apprendiamo da Valentino De Luca, che riporta tutte le informazioni tratte dalla stampa locale dell’epoca[30]. A questo ospedale si aggiungevano altri due ospedali di riserva della Marina Militare, allocati nell’Istituto Argento dei Gesuiti e nell’Istituto Vittorio Emanuele II diretto dalle Marcelline. In particolare, il presidio del Collegio Argento ebbe anche tre sottosezioni: una nel Seminario diocesano, una nell’Edificio scolastico De Amicis e un’altra nell’ex Convento di Sant’Antonio dei Padri Osservanti dell’ordine dei Minori, divenuta Infermeria Presidiaria cittadina[31]. A questi nosocomi si aggiunse l’Ospedale di riserva contumaciale allocato nell’Istituto Palmieri, che divenne struttura sanitaria di primo sgombero, dove cioè venivano ricevuti i feriti che provenivano dall’Albania e dalla Macedonia, i quali stazionavano in questo presidio per un periodo limitato, in osservazione, prima di essere trasferiti altrove[32]. Per completare il quadro dell’offerta sanitaria leccese, occorre aggiungere l’Ospedale civile già menzionato, l’Ospedale militare di Santa Rosa, successivamente divenuto Distretto militare “Pico”, l’Ospedale del Manicomio. Nello stesso 1915 vi fu la visita di alcune Dame della Croce Rossa presso l’Ospedale della Croce Rossa cittadina, ma anche nell’Ospedale del Collegio Argento e in quello dell’Educandato delle Marcelline[33]. L’Ospedale della Croce Rossa, in particolare, divenne un’eccellenza nazionale tanto che nel luglio 1915 la stessa Duchessa D’Aosta, Elena D’Orleans, Ispettrice Generale della Croce Rossa, venne a Lecce per visitare i tre ospedali militari, ricevuta con tutti gli onori dalle massime autorità cittadine, come la stampa dell’epoca non mancò di sottolineare[34]. Le Dame della Croce Rossa, le Dame di carità, le socie dell’Unione femminile cattolica, le suore Marcelline[35] e le Suore D’Ivrea furono le grandi protagoniste della assistenza medica e sanitaria leccese nella prima fase, quella più acuta, della guerra, sotto il vigile comando del Generale medico Marcelliano Tommasi[36]. All’Ospedale climatico di Santa Rosa, in cui venivano curati i tubercolitici, prestavano invece servizio le Suore Riparatrici provenienti da Napoli[37]. Quanto alle donne civili prevalentemente appartenenti all’alta borghesia, le quali in vario modo si prodigavano per alleviare le sofferenze dei soldati malati, emergono alcuni nomi, come quelli di Titina Lopez y Royo e Maria Pranzo, dame della Croce Rossa, Giuseppina Lala, la soprano Marisa Laudisa, alcune delle quali animatrici dei numerosi “trattenimenti”, ossia feste di beneficenza e cerimonie di gala che servivano a raccogliere fondi[38]. Alcune di queste serate memorabili si tennero nel Teatro Apollo, molte nel Politeama e anche nella sala Dante Alighieri dell’Istituto tecnico Oronzo Costa.

Alle donne testé citate, occorre aggiungere tutte le infermiere che prestavano servizio anche nell’Ospedale civile e le assistenti del Pronto Soccorso della Stazione. Quando infatti iniziarono ad arrivare a Lecce i treni ospedale con i primi feriti e malati, che poi si fecero sempre più numerosi fino a poter parlare di una vera invasione, tutte queste donne costituivano l’avanguardia dell’assistenza sanitaria, si potrebbe dire “la prima linea”, o con un termine moderno “il front office”, esponendo se stesse a gravi rischi e perfino alla morte; si pensi al grande contagio della spagnola che coinvolse anche Lecce e che nel 1918 toccò la sua fase più acuta. Un notevole contributo diede l’Istituto dei Ciechi diretto da Anna Antonacci che per alcuni periodi, per esempio durante le feste natalizie, si impegnava, come molte famiglie leccesi, ad ospitare alcuni soldati degli Ospedali militari. L’Istituto dei ciechi partecipò alla Commissione Provinciale per la lana del soldato, costituitasi a Lecce, come in tutta Italia, con lo scopo di fornire ai militari impegnati sul fronte degli indumenti caldi con cui affrontare i rigori dell’inverno, specie nelle zone di montagna dove più pungente era il freddo. Il Comitato realizzò attraverso le signore e signorine che vi aderirono, molti chili di lana, sia grezza che lavorata, che serviva a produrre gli indumenti per i soldati[39]. Le Dame di Carità inviavano sul fronte anche berretti, guanti, maglie, panciere, calzettoni, panciotti, tutti realizzati a mano. Questi indumenti venivano spediti dai vari Comitati per la lana al Comitato centrale, che si occupava poi di smistarli direttamente nelle zone di guerra. Chi non poteva lavorare a maglia inviava dei denari che sarebbero stati spesi per acquistare la lana. Al Comitato centrale di Milano affluirono da tutti i comuni d’Italia giubbe, mutande, maglie, sciarpe, scarpe, ed anche scaldarancio per la raccolta dei quali si costituì un apposito Comitato a Torino[40]. A Lecce, nell’ambito del Comitato per la lana, fu particolarmente attiva nell’invio di scaldarancio la signora Antonietta Reale[41]. La città fu fra le prime d’Italia nella produzione di indumenti di lana, cui lavorava alacremente un numero cospicuo di operaie stipendiate[42], accanto alle quali prestavano servizio molte a titolo gratuito, come le Dame di Carità;  Il Comitato per la lana era animato dalla giornalista Emilia Macor, alias Bernardini (1865-1926), moglie di Nicola Bernardini, uno dei più attivi giornalisti salentini, direttore della Biblioteca Provinciale di Lecce. Definita “la Matilde Serao del giornalismo leccese”, fu presente, soprattutto sulla rivista «La provincia di Lecce», diretta dal marito, con numerosissimi articoli di vario genere[43].  Un altro nome di donna molto attiva nell’ambito della scuola e della formazione è quello di Maria Luceri De Matteis, vice Preside della Scuola Magistrale Niccolò Tommaseo, alla quale venne affidata la guida della scuola per analfabeti, all’interno dell’Ospedale militare delle Marcelline. De Matteis, la più anziana maestra leccese, esponente del movimento cattolico, stimatissima in città, assunse l’impegno gratuitamente[44]. La beneficenza leccese e salentina fu molto attiva soprattutto con i già citati “trattenimenti” al Teatro Apollo, con la devoluzione dell’incasso delle serate alla causa dei soldati feriti; in particolare, era destinato alla Croce Rossa il ricavato della vendita delle cartoline che distribuivano alcune canzonettiste (sarebbe interessante conoscerne i nomi) a margine delle rappresentazioni teatrali.

A titolo gratuito prestavano servizio le ragazze impiegate all’Ufficio Informazioni. Infatti, come in tutta Italia, anche a Lecce venne costituita una sezione dell’Ufficio per le notizie alle famiglie dei militari di terra e di mare, nel giugno 1915, di cui fu Presidente Elisa Daniele Zaccaro[45]. A seguito della vasta eco dell’efficienza dei suoi presidi ospedalieri militari, a Lecce giunsero personalità di spicco della politica nazionale ed estera, persino i rappresentanti della Croce Rossa americana, tutti invariabilmente ricevuti dal Vescovo Mons. Gennaro Trama e dal Sindaco, il Principe Sebastiano Apostolico Ducas, ovvero le più alte personalità, civili e religiose, della società leccese[46].

Le nostrane crocerossine si prodigavano in tutti i modi, tanto da essere considerate delle eroine. «Vestite nel loro costume di prammatica e calzate di immacolate scarpette di pelle, le crocerossine si dimostrarono all’altezza del loro compito, svolgendo un importante ruolo nelle corsie di ospedale, supportando l’opera dei medici a servizio degli infermi. “Militi gentili”, affratellate da un sentimento di grande amore e pietà, le infermiere volontarie della Croce Rossa di Taranto dettero prova di grande coraggio, competenza ed estremo sacrificio..». Così scrive Maria Alfonzetti nel suo saggio “Per la Patria”: il contributo delle donne alla Grande Guerra[47], in cui si occupa dell’opera della scrittrice crocerossina Delia Jannelli, Per la Patria[48].

Alla Croce Rossa si deve anche un’importante opera di mediazione nella spinosa questione dei prigionieri di guerra, intervenendo pure in Terra d’Otranto per portare a termine diversi scambi di prigionieri fra i vari Stati in guerra[49].

Come si può capire, la situazione di emergenza provocò molto disagio, in città, sia all’istituto delle Marcelline, le quali dovettero trasferirsi in altra sede, per l’esattezza a San Cesario, per continuare a svolgere le lezioni, sia al Liceo Palmieri, dove le lezioni vennero del tutto sospese. Del resto, la presenza degli ospedali contumaciali creava un grande allarmismo anche presso l’opinione pubblica per il rischio di temute infezioni ed epidemie[50]. Un’altra benemerita salentina fu la signora Eugenia Zagaria, che costituì il Comitato per la raccolta dell’oro[51]. Questa iniziativa si collocava in quella più ampia del Prestito Nazionale, anche detto Prestito della Vittoria, ossia la sottoscrizione promossa dal Governo di titoli emessi per il Prestito di guerra, aventi un tasso di interesse molto basso e quindi popolare. L’idea della Zagaria di raccogliere oro da destinare all’erario, che potesse essere fuso per la causa, trovò immediati consensi e la raccolta di monili d’oro e d’argento di tutte le fogge fu davvero consistente. La stampa locale diede ampio risalto al Comitato “Pro oro alla Patria”: tutte le offerte con l’indicazione del loro valore nominale in denaro venivano versate alla Delegazione del Tesoro di Lecce[52].

Anche a Lecce e provincia dunque emerge un eccezionale protagonismo femminile nella temperie storica che il Paese stava attraversando. Le donne sono attive in svariati campi e il loro protagonismo sembra incontrastato in quello della beneficenza. Tuttavia permane un radicato atteggiamento sciovinista se addirittura interviene un provvedimento governativo per frenare le spese voluttuarie, ovvero di lusso, a favore di una condotta di vita più morigerata nel rispetto del grave periodo storico che l’Italia stava attraversando. La norma non menzionava le donne, ma era palese lo spirito che informava il provvedimento, se tutti i commenti giornalistici all’iniziativa, in provincia di Lecce, si rivolgevano direttamente ad esse[53].    Si pensi ad alcuni articoli del giornale cattolico «L ‘Ordine», organo della Diocesi di Lecce che nasce per ispirazione del Vescovo Trama e nel periodo in analisi è diretto da Don Pasquale Micelli[54], che invitava costantemente le donne ad assumere atteggiamenti consoni al loro status e ad imitare fra le mura domestiche la vita severa che il soldato conduceva sul fronte[55]. Le rimproverava chiaramente della loro vanità nell’ ostentare gioielli e vestiti alla moda, addirittura auspicando la gogna per quelle donne che, dimostrandosi abbagliate dal lusso, disonoravano le loro famiglie e screditavano il sacrificio dei loro parenti, fidanzati, mariti o fratelli, impegnati sul fronte[56]. In altre occasioni il settimanale «L’Ordine» critica le donne, condannando il loro spirito di emulazione nei confronti degli uomini. Esse, questo l’assunto del giornale, assumendo ruoli ed atteggiamenti maschili, perdono il carattere precipuo della loro natura, quasi si disumanizzano, e ciò le porta a censurabili derive come il materialismo e l’ateismo[57].

D’altro canto, specchio della situazione di ancora eccessiva marginalizzazione della donna è lo scarso accesso alle professioni intellettuali e in particolare a quelle scientifiche.  Le donne, quando riescono a superare quella soglia e ad entrare nel mondo delle professioni, devono misurarsi con inveterati pregiudizi maschili che albergano perfino in uomini di scienza che, a cagione della loro formazione, dovrebbero dimostrare apertura mentale e invece si rivelano ottusi e conformisti.  Ci dà un preciso spaccato del clima di imperante maschilismo che regnava in quegli anni Ennio De Simone, in un suo recente contributo, in cui si occupa dell’accesso delle donne all’istruzione superiore, ancora bassissimo, e della marginalizzazione delle pochissime donne scienziate che in quel tempo il Meridione d’Italia poteva contare[58]. Questo gap non colmato testimonia la difficoltà delle donne pur talentuose ad imporsi nei più svariati ambiti della società. Tuttavia, se si può tracciare un bilancio a consuntivo della nostra trattazione, questo vede sicuramente una netta demarcazione nell’ambito del protagonismo femminile salentino fra le donne appartenenti alle classi sociali più alte, in ispecie le intellettuali, le quali ebbero tutte dopo la guerra brillanti occasioni di carriera nei più svariati ambiti, e le appartenenti alle classi sociali meno abbienti, ossia le umili contadine e lavoratrici che dovranno scontare ancora a lungo la propria atavica condizione di subalternità. Luci ed ombre insomma, ed il nostro non può che essere un bilancio parziale che vuole sollecitare altri studiosi affinché producano ulteriori approfondimenti.

 

* Società di Storia Patria per la Puglia, paolovincenti71@gmail.com

 

Note

[1]La Croce Rossa fu fondata nel 1864 a Milano e il primo Presidente fu il dott. Cesare Castiglioni. Al 1908 si fa risalire la nascita ufficiale del Corpo Infermiere Volontarie della Croce Rossa Italiana, comunemente dette Crocerossine, anche se l’attività delle “dame della Croce Rossa” ha inizio già nella seconda metà dell’Ottocento ed un primo abbozzo di definizione formale dei compiti e della struttura del gruppo risale al 1888. Le Crocerossine italiane alla vigilia della Grande Guerra erano già 4.000 e dopo il conflitto giunsero ad 8.000 unità, secondo alcuni calcoli perfino a 10.000. Sulla storia della Croce Rossa, si veda: A. Frezza, Storia della Croce Rossa Italiana, Firenze, Poligrafo Fiorentino,1956; Storia della Croce Rossa Italiana dalla nascita al 1914, a cura di C. Cipolla e P. Vanni, Vol. I, Saggi – Vol. II  Documenti, Milano, Franco Angeli, 2013; Donne al fronte. Le Infermiere Volontarie nella Grande Guerra, a cura di S. Bartoloni, Roma, Jouvence, 1998; Le crocerossine nella Grande Guerra, a cura di P. Scandaletti e G. Variola, Udine, Gaspari, 2008; Accanto agli eroi. Diario della Duchessa d’Aosta. 1: maggio 1915 – giugno 1916, a cura di A. Gradenigo e P. Gaspari, Prefazione di Amedeo Di Savoia, Udine, Gaspari, 2016. Per il Salento: T. Barba Bernardini D’Arnesano, La Croce Rossa a Lecce. La sezione femminile, Lecce, Grifo, 2013.

[2] Sulle madrine di guerra: S. Bortoloni, L’associazionismo femminile nella prima guerra mondiale e la mobilitazione per l’assistenza civile e la propaganda, in Donna lombarda, 1860-1945, a cura di A. Gigli Marchetti e N. Torcellan, Milano, Franco Angeli, 1991, pp.65-91; A. Molinari, La buona signora e i poveri soldati. Lettere a una madrina di guerra (1915-1918), Torino, Scriptorium,1998 .

[3] Sul ruolo delle donne nel giornalismo di guerra: Aa.Vv.,Scrittrici/giornaliste. Giornaliste/scrittrici, Atti del convegno: Scritture di donne tra letteratura e giornalismo, Bari 29 novembre – 1 dicembre 2007, a cura di A. Chemello e V. Zaccaro, Università di Bari, 2011; A.  Buttafuoco Cronache femminili. Temi e momenti della stampa emancipazionista in Italia dall’Unità al fascismo, Università di Siena, Dipartimento di studi storico-sociali e filosofici, 1988. Per il Salento, con riferimento alla pubblicistica bellica e post bellica: G. Caramuscio, Stampa e opinione pubblica a Lecce tra provincialismo, nazionalismo ed ecumenismo (1914-18), in «L’Idomeneo – Il Salento e la Grande Guerra. Atti del Seminario di Studi. Lecce, Monastero degli Olivetani, 5 dicembre 2014 », Società Storia Patria per la Puglia, Sezione di Lecce, n.18, Università del Salento, Lecce, 2014, pp.51-110; Idem, Il milite noto. Modelli di eroismo bellico in opuscoli commemorativi salentini, in Aa. Vv.,“Colligite fragmenta”. Studi in memoria di Mons. Carmine Maci, a cura di D. Levante, Campi Salentina, Minigraf, 2007, pp.487-516; Idem, Elaborare il lutto bellico. Gli opuscoli commemorativi di caduti nel Salento (1915-1923), in «Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali», a. IV, n. 2, 2015, pp. 459-500.

[4] Su Giulia Lucrezi Palumbo si vedano: A.  Invitto, Biografia intellettuale di Giulia Lucrezi Palumbo. Tesi di Laurea, Università di Lecce, Facoltà di Lettere e Filosofia, a. a. 2004-2005; G. Caramuscio, Giulia Lucrezi-Palumbo: soggettività femminile e cultura tra Risorgimento e Guerra fredda (1876-1956), in «L’Idomeneo – Storie di donne», Società di Storia Patria per la Puglia Sezione di Lecce, n.8, Galatina, Panico, 2005, pp. 117-156; Idem, L’officina del sentimento. Parola pubblica e scrittura privata di donne salentine negli anni della Grande Guerra. Giulia Lucrezi Palumbo dopo la pace di Versailles, in «Controcanto»,  Alessano, a. V, n.3, 2009, pp. 6-9; R. Basso, La prima professoressa salentina Giulia Lucrezi Palumbo (1876-1956), in Oltre il segno. Donne e scritture nel Salento (sec.XV-XX), a cura di R.  Basso, Copertino, Lupo, 2012, pp.200-203; G. Caramuscio-P. Morciano, La voce leccese della Patria: Giulia Lucrezi Palumbo, in L’officina del sentimento. Voci gesti segni femminili in Terra d’Otranto davanti alla Grande Guerra (1915-1924), a cura di G. Caramuscio, in corso di stampa.

[5] Su di lei, tra gli altri: M. C. Guadalupi, Giulia, Brindisi, Tip.Ragione,1964; R. Basso, La sfida della professione, il richiamo del privato Giulia Poso, in Oltre il segno cit.., pp.204-214.

[6] Per Maria Luigia Quintieri si rimanda a: M. G. Calogiuri, “Colla ragione come col cuore”. Autrici meridionali tra modernità e tradizione, Lecce, Milella, 2008, pp.73-111; Eadem, Impegno educativo e milizia politica Maria Luigia Quintieri (1881-1973), in Oltre il segno. cit., pp.216-221;

[7] Su Maddalena Santoro ha scritto D. De Donno, Intellettuali e fascismo. Un percorso al femminile. Maddalena Santoro (1884-1944), in «Ricerche Storiche», n.2, Lecce, 2010, pp.349-372; Eadem, Saper soffrire, saper amare, saper piacere Maddalena Santoro (1884-1944), in Oltre il segno. cit., pp.230-241; Eadem , Maddalena Santoro e la guerra, in L’officina del sentimento cit.

[8] Su di lei hanno scritto: R. Basso, Stili di emancipazione, Lecce, Argo, 1999, pp. 41-81; Eadem, Le scritture di Oronzina Tanzarella (Ostuni 1887-Roma 1940), in Aa.Vv., Il filo di Arianna. Materiali per un repertorio della bibliografia femminile salentina (sec.XVIII-XX),a cura di  R. Basso e M. Forcina, Lecce, Milella, 2003, pp.109-126; Eadem, Vestale della scuola pubblica Oronzina Quercia Tanzarella(1887-1940), in Oltre il segno. cit., pp.242-247; P. Morciano, La guerra antiretorica di Oronzina Quercia Tanzarella, in L’officina del sentimento cit.

[9] Sulla Tanzarella si possono consultare: K. Di Rocco, Maria Panese Tanzarella. Attivista cattolica nell’Italia fascista, in «Parola e storia», a. I, n. I, 2007, pp.59-77; Eadem , Militanza cattolica,in Oltre il segno. cit., pp.248-253.

[10] Sulla Filieri si veda: M. R. Filieri, Oltre la scuola, la parola pubblica, in Oltre il segno. cit., pp.254-259; G. Caramuscio, L’officina del sentimento. Parola pubblica e scrittura privata di donne salentine negli anni della Grande Guerra. Maria Rosaria Filieri e il lutto femminile, in «Controcanto», Alessano, a. IV, n.4, 2008, pp.9-11; M. R. Filieri, Maria Rosaria Filieri dalla pietas alla celebrazione, in L’officina del sentimento cit.

[11] Per la Roncella si rinvia a: G. Caramuscio, L’officina del sentimento. Parola pubblica e scrittura privata di donne salentine negli anni della Grande Guerra. Magda Roncella dopo Caporetto, in «Controcanto», Alessano, a. V, n.1, 2009, pp.11-13; Idem, Come fiammelle nell’ombra. Magda Roncella dopo Caporetto, in L’officina del sentimento cit.

[12] A. Gibelli, La Grande Guerra degli Italiani, Milano, Bur, 2009, p.193.

[13] E. Schiavon, Interventiste nella Grande Guerra. Assistenza, propaganda, lotta per i diritti a Milano e in Italia (1911-1919), Firenze-Milano, Le Monnier, 2015; La Grande Guerra delle italiane. Mobilitazione, diritti, trasformazioni, a cura di S. Bortoloni, Roma, Viella, 2015.

[14] R. Rossini – E. Meliadò, Le donne nella Grande Guerra 1915-18. Le portatrici carniche e venete, gli angeli delle trincee, Mantova, Sometti, 2017.

[15] M. Faraone,“Un po’ di polenta, un pezzettino di formaggio e una bottiglia d’acqua, perché sorgenti lassù non ci sono”: intervista con Lindo Unfer, «recuperante» e direttore del museo della grande guerra di Timau in «Quaderni di Studi Interculturali» Rivista semestrale a cura di Mediterránea, n. 2, 2015, pp. 22-30.

[16] G. Bino, Le fragili braccia muliebri, un miracolo di energia, in «Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali», a. IV, n. 2, 2015, p.502.

[17] A. Gibelli, La Grande Guerra cit., p. 193.

[18] Tanto vero che, quando nell’esasperazione portata dalla guerra molte donne in tutta Italia crearono agitazioni e sommosse contro il governo affamatore (come vedremo più avanti), oggetto delle loro vibranti proteste furono non solo bersagli maschili, ma anche femminili, nello specifico le madrine di guerra e le donne appartenenti all’alta borghesia, viste come parte del sistema e della retorica patriottica maschile.

[19] A. Molinari, Donne e ruoli femminili nell’Italia della Grande Guerra, Milano, Selene Edizioni, 2008, p.15.

[20] Haydée (pseudonimo di Ida Finzi), La Grande Guerra delle donne, in «Illustrazione Italiana», 20 maggio 1917, cit. in G. Bino,  Le fragili braccia muliebri, un miracolo di energia cit., pp.503-504.

[21] G. Rossi,  Da ieri a oggi: (le memorie di una vecchia zitella), Bologna, 1934. Trascrizione a cura di L.  Barchetti, in Le donne nella guerra, pp.1-2. https://www.storiaememoriadibologna.it/crocerossine-nella-grande-guerra-896-evento

[22] G. Bino, Le fragili braccia muliebri, un miracolo di energia cit., p.505.

[23] S. Soldani, Donne senza pace. Esperienze di lavoro, di lotta, di vita tra guerra e dopoguerra (1915-1920) in «Annali dell’Istituto Alcide Cervi»,  n.13, 1991, pp.11-56; G. Procacci, La protesta delle donne delle campagne in tempo di guerra, Ivi, pp.37-86; E. Guerra, Il dilemma della pace. Femministe e pacifiste sulla scena internazionale, Roma, Viella, 2014; G. Procacci, Dalla rassegnazione alla rivolta. Mentalità e comportamenti popolari nella grande guerra, Roma, Bulzoni, 1999.

[24] Uno su tutti, Tricase: E.  Morciano, Guerra e pane. La rivolta delle donne tricasine durante la prima guerra mondiale, in «Il volantino», settimanale cittadino di Tricase, n. 37/2015, pp. 4-5 e n. 38/2015, p. 3.

[25] S. Coppola, Pane!…Pace!, il grido di protesta delle donne salentine negli anni della Grande Guerra, Castiglione D’Otranto, Giorgiani Editore, 2017. Del libro è stata realizzata una riduzione teatrale dall’associazione ruffanese “Voce alle donne”, con Chiamate. Donne tra amore e guerra, a cura di Fulvia Liquori e Ippazia Annesi.

[26] L. Bruno – D. Ragusa, Vogliamo gli uomini nostri… basta il sangue versato. Sommosse di donne salentine per il pane negli anni della Grande Guerra, in «Dire in Puglia», V/2014, Mibac, Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Puglia, Viterbo, BetaGamma Editrice, 2014, pp. 107-112. Il numero della rivista è interamente dedicato alla Prima Guerra Mondiale.

[27] S. Coppola, Grande Guerra e storia di genere, in «L’Idomeneo. La Grande Guerra e i Vent’anni de L’Idomeneo», Società di Storia Patria per la Puglia, sezione di Lecce, n.26-2018, Università del Salento, Lecce, 2018, p.85.

[28] A. Gibelli, La Grande Guerra. Storie di gente comune:1914-1919, Roma-Bari, Laterza, 2014.

[29] S. Coppola, Grande Guerra e storia di genere, cit., pp. 92-93.

[30] V. De Luca, Lecce negli anni della Grande Guerra, Galatina, Editrice Salentina, 2019, pp.75 ss.

[31] Ivi, pp.79-80.

[32] Ivi, p.86.

[33] Ivi, p.81.

[34] Ivi, p.82.

[35] Sulla storia delle Marcelline, si vedano, fra gli altri: O.  Colangeli, Istituto Marcelline. Notizie storiche, in «La Zagaglia», n.35, Lecce, 1967, pp.306-322; V. De Luca, Le suore “Marcelline” di Lecce e l’ospedale militare di riserva nell’Educandato “Vittorio Emanuele II”, in  La Grande Guerra in Terra D’Otranto. Un progetto di Public History, a cura di G. Iurlano, L. Ingrosso, L. Marulli, Monteroni di Lecce, Edizioni Esperidi, 2018, pp.313-324.

[36] V. De Luca, Lecce cit., p.84.

[37]Ivi, p.118.

[38]Ivi, pp.104-105.

[39]Ivi, p.141.

[40] Si rimanda a: L. Marrella, Fiocchi di lana e scaldarancio. Microstorie per una lettura del ventennio fascista, Manduria, Barbieri Selvaggi Editori, 2018.

[41] V. De Luca, Lecce cit., p.143.

[42] Ivi, p.146.

[43] Su di lei, si vedano almeno: A.  Pellegrino, Una personalità da scandagliare: Emilia Bernardini Macor(1865-1926) redattrice e giornalista, in Il filo di Arianna. Materiali per un repertorio della bibliografia femminile salentina (sec.XVIII-XX),a cura di  R. Basso e M. Forcina, Lecce, Milella, 2003, pp.127-139; Eadem, Cronista di moda e di costume, in  Oltre il segno cit.,  pp.192-199; Eadem , Emilia Bernardini Macor. Cronista di moda e di costume, Galatina, Congedo, 2006.

[44] V. De Luca,  Lecce cit., p.93. Su Maria Luceri De Matteis, fra gli altri: R. Basso, Donne e giornali. La Rappresentazione del femminile nelle pagine di alcuni periodici salentini (1884-1943), in «Studi salentini», n. LXXXIV-LXXXV, 2007-2008;                  G. Caramuscio, Virtuosi ed operosi. Modelli educativi e pratiche didattiche nella scuola salentina tra  Ottocento e Novecento, in «L’Idomeneo», Società Storia Patria Sezione Lecce, n.6-2004, Lecce, Grifo Editore, 2004, pp.81-127; D.  Levante, Maria De Matteis Luceri, insegnante e scrittrice salentina tra Otto e Novecento. Primo approccio, in Humanitas et civitas, Studi in memoria di Luigi Crudo, a cura di G.  Caramuscio e F. De Paola, Società Storia Patria Sezione Lecce, Galatina, Edipan, 2010, pp. 79-100.

[45] Ivi, pp.72-73.  «L’Ufficio Centrale aveva la sede principale a Bologna, città dove era nato, e il suo scopo primario era quello di regolare e coordinare tutta la complessa macchina che legava Sezioni e Sottosezioni impartendo le disposizioni di carattere generale. Inoltre, doveva corrispondere con le Autorità militari mobilitate e territoriali e con le Autorità civili, riceveva dai Cappellani militari l’elenco dei militari degenti negli ospedali mobilitati e trasmetteva gli estratti a Sezioni e Sottosezioni interessate, e formava uno schedario relativo a tutti i militari di cui giungesse notizia»: E. Erioli, L’“ufficio per le notizie alle famiglie dei militari”: una grande storia di volontariato femminile bolognese, in Bollettino Del Museo Del Risorgimento, Archiviare la guerra: La Prima Guerra Mondiale attraverso i documenti del Museo del Risorgimento, a cura di M. Gavelli, n.50, Bologna, 2005, p.80.

[46] Interessante, per ricostruire il clima nel quale si viveva in quegli anni, leggere le lettere pastorali inviate dal Vescovo Trama, così come dai suoi colleghi di Terra D’Otranto, quali Tommaso Valeri, arcivescovo di Brindisi e Ostuni, Agostino Laera, vescovo di Castellaneta, Gaetano Müller di Gallipoli, Nicola Giannattasio di Nardò, Carlo Giuseppe Cecchini e poi Orazio Mazzella, arcivescovi di Taranto (Lettere Pastorali dei Vescovi di Terra d’Otranto, a cura di D. Del Prete, Roma, Herder Editrice,1999, pp. 11 e sgg.), ad eccezione di Luigi Pugliese, vescovo di Ugento, che non inviò lettere ma alcune Notificazioni al clero e al popolo:  E. Morciano, La “Grande Guerra” nelle carte dell’archivio Storico Diocesano di Ugento, in «Bollettino Diocesano S. Maria de Finibus Terrae Atti ufficiali e attività pastorali della Diocesi di Ugento – S. M. di Leuca»,  a cura di Mons. Salvatore Palese, a. LXXXI – n. 2, Luglio-Dicembre 2018, p.807.

[47] M. Alfonzetti, “Per la Patria”: il contributo delle donne alla Grande Guerra, in «Dire in Puglia»,V/2014, Mibac, Viterbo, BetaGamma Editrice, 2014, p.113,

[48] D. Jannelli, Per la Patria, 24 maggio 1915-24 maggio 1919, Taranto, Tip. Arcivescovile, 1923 (Ristampa Edita, 2014). Sulla Jannelli (1887-?), tra gli altri, G. Caramuscio, Parola pubblica e scrittura privata di donne salentine negli anni della Grande Guerra. Il diario di Delia Jannelli crocerossina, in «Controcanto», Alessano, a.VI, n.2, 2010, pp.12-15; Idem, Anche noi soldati. Le memorie di Delia Jannelli crocerossina di Taranto, in L’officina del sentimento cit.

[49] C. E. Marseglia, Prigionieri austro-ungarici in Terra d’Otranto, in «L’Idomeneo – Il Salento e la Grande Guerra. Atti del Seminario di Studi. Lecce, Monastero degli Olivetani, 5 dicembre 2014 », cit., pp.141-156. Sui prigionieri di guerra: G. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra. Con una raccolta di lettere inedite, Torino, Bollati Boringhieri, 2000.

[50]  V. De Luca, Lecce cit., p.153.

[51]  Sulla raccolta di oro: G. Lucrezi  Palumbo, Oro a la patria: discorso a le alunne de la Regia Scuola Normale di Lecce: 11 maggio 1917, Lecce, Tip. Editrice Salentina F.lli Spacciante, 1917.

[52]  V. De Luca, Lecce cit., pp.183-184. Sul prestito della vittoria: M. De Matteis, Tutti per la patria. Tutto per la grande Italia. Conferenza tenuta a Specchia, per la Propaganda del Prestito della Vittoria e per incarico dell’ ill.mo sig. R. Provveditore agli Studi dott. Gaetano Boglio, il 6 marzo 1916, Matino, Tip. D.Siena, 1916; G. Doria, Il prestito nazionale della vittoria, Ostuni, Tip. G. Tamborrino, 1916.

[53] G. Caramuscio, Stampa e opinione pubblica a Lecce tra provincialismo, nazionalismo ed ecumenismo (1914-18), in «L’Idomeneo – Il Salento e la Grande Guerra. Atti del Seminario di Studi. Lecce, Monastero degli Olivetani, 5 dicembre 2014 », cit., p. 85.

[54]  E. Bambi, La stampa salentina nel periodo fascista, Manduria, Lacaita, 1981, pp.145-146.

[55] G. Caramuscio, Stampa e opinione pubblica a Lecce tra provincialismo, cit., p.97.

[56] Ivi, pp.100-101.

[57] Ivi, p. 104. A proposito de «L’Ordine» e più in generale della pubblicistica salentina nel periodo bellico, si vedano: G. Pisanò, Da “Fede” a “Vedetta”: cultura e ideologia nella stampa periodica salentina del ventennio fascista, in Idem, Studi di italianistica fra Salento e Italia secc. XV-XX, Galatina, Edizioni Panico, 2012, pp.113-146; V. Serio, Il giornalismo cattolico salentino davanti alla Grande Guerra: L’Ordine 1914-18, in Nei giardini del passato. Studi in memoria di Michele Paone a dieci anni dalla scomparsa (2000-2010), a cura di P. I.  D’ancona e M. Spedicato, Monastero di S. Maria della Consolazione, PP. Cistercensi di Martano, XII, Lecce, Edizioni Grifo, 2011, pp. 617-638; G.  Caramuscio, La religiosità della guerra. Tradizione cattolica e linguaggi della Nazione nel Salento prefascista (1911-1924), in Ministerium pauperum. Omaggio a mons. Salvatore Palese, a cura di M.  Spedicato, XVII, Lecce, Edizioni Grifo, 2013, pp. 149-188. Fra le intellettuali salentine, occorre citare anche la giornalista Emma Fiocco (1899-1984), allieva di Giulia Lucrezi e Giulia Poso, esponente dell’associazionismo femminile cattolico, che proprio su  «L’Ordine» scrisse diversi articoli durante il periodo della guerra: R. Basso, Donne e giornali. La Rappresentazione del femminile nelle pagine di alcuni periodici salentini (1884-1943), in «Studi salentini», n. LXXXIV-LXXXV, 2007-2008.

[58] E. De Simone,  La Scienza col volto di donna. Figure poco note e dimenticate di studiose salentine, in Aa.Vv., La Compagnia della Storia. Omaggio a Mario Spedicato, Tomo II, Luoghi, figure, linguaggi del Salento moderno e contemporaneo, a cura di        G. Caramuscio, F. Dandolo, G. Sabatini, Società Storia Patria per la Puglia, Sezione Lecce, «Quaderni de L’Idomeneo», Lecce, Grifo, 2019, pp.875-912.

 

Gesuiti salentini in America (II parte)

di Francesco Frisullo e Paolo Vincenti

 

Le vicende risorgimentali costrinsero a più riprese i gesuiti alla fuga dall’Italia. In particolare, i gesuiti salentini, che interessano da vicino la nostra disamina, dopo aver vagato tra i collegi di Malta, Spagna, Francia, presero la via dell’America.

Occorre dire che l’ordine dei gesuiti risulta ab imis vocato ai viaggi e alle esplorazioni delle terre lontane. I figli di Ignazio più degli altri confratelli si rivelano cittadini del mondo, essi fin dal Cinquecento si disperdono per i cinque continenti e si spingono verso le terre selvagge con l’obiettivo di evangelizzare i popoli.

Tra i primi gesuiti italiani che dovettero lasciare l’Italia alla volta degli Stati Uniti troviamo Giuseppe Bixio (1819-1889) fratello del più noto Nino Bixio, luogotenente di Garibaldi. Nel 1844 giunse negli Stati Uniti, nei territori delle Montagne Rocciose, il gesuita Michele Gil Accolti (1807-1878) che molte voci dicono erroneamente nato a Copertino, Lecce, ma che è in realtà originario di Conversano[1]. Gil Accolti nel 1851 a Santa Clara (California) fonda l’omonima Università che oggi si presenta come “The Jesuit University in Silicon Valley”, nel cui cimitero riposano anche i resti di Vito Carrozzini, missionario originario di Soleto. Una storia lunga e proficua, dunque, quella delle missioni gesuitiche italiane nel Nuovo Continente[2].

 

Vito Carrozzini

Nasce a Soleto (Lecce), il 15 agosto 1838. Entra nel collegio dei Gesuiti a Napoli il 22 dicembre 1857[3], all’età di 20 anni. Il suo esempio viene seguito un anno dopo da uno dei suoi fratelli, Vincenzo. Quando scoppiò la rivoluzione nel regno di Napoli, le case e i collegi dei gesuiti furono chiusi ed i frati dispersi in altre Province della Società.  Carrozzini fu inviato a Balaguer, in Spagna, insieme al fratello, per seguire il corso di filosofia[4]. Nell’autunno del 1863, per ordine dei Superiori, partirono in missione[5].  Tra il 1854 e il 1868, a più riprese i gesuiti vennero cacciati dalla Spagna e a parziale compensazione il governo iberico consentì l’insediamento della Compagnia nelle Antille. Nel 1852, per volere della regina Isabella II, era stato fondato il Colegio de Belén, a L’Avana.  Vito e Vincenzo Carrozzini partirono dunque da Balaguer per Porto Rico. Arrivati a L’Avana, furono costretti a sbarcare, poiché Vincenzo era gravemente ammalato e prossimo alla morte. A malincuore, Padre Vito riprese il viaggio alla volta di Porto Rico, lasciando il fratello, che morì tre o quattro giorni dopo. A Porto Rico, Carrozzini insegnò un anno grammatica e quattro anni scienze naturali.  Fu molto ligio al dovere di insegnante pur non trascurando la missione apostolica. A causa dei pochi mezzi per ventilare la stanza nella quale viveva, inalò una grande quantità di gas nocivo che gli procurò la malattia cardiaca che, qualche anno dopo, lo portò alla morte. Nel 1868 fu richiamato in Spagna per avviare lo studio di teologia, nella città di Leon. Si trasferì però subito a Laval, dove passò quattro anni nello studio di teologia.

Ripartì per l’America nel 1873[6]. Dopo una breve permanenza a Porto Rico, venne inviato nel Nuovo Messico e nel Colorado. Tra estremi sacrifici, portò avanti con zelo la sua attività, pur afflitto da difficoltà respiratorie. Per visitare la vasta comunità cattolica presente in quel territorio doveva percorrere molte miglia nella sconfinata e selvaggia distesa che si estendeva da Las Animas a Trinidad, costretto spesso a passare la notte all’aria aperta, senza bere né mangiare. Carrozzini lavorò molto anche a San Miguel, a Las Vegas, nelle città di La Junta e Pueblo, senza risparmiare energie. Di lui ci parla, unica fonte italiana, Padre Barrella[7]. Quando le sue condizioni di salute peggiorarono, venne mandato nel clima più mite della California, per potersi ritemprare. Giunse nel mese di giugno 1876 a Santa Clara, California, sede dell’omonima università fondata nel 1851 dai gesuiti. Qui morì per complicazioni polmonari a 39 anni, dopo 19 trascorsi nella Compagnia di Gesù[8]. Oltre alle scienze naturali, egli aveva un talento particolare per la pittura. Il ritratto di Sant’Ignazio, custodito nella sala ricreativa dei Padri del Woodstock College[9], è opera sua, così come molte altre pitture presenti nelle missioni che aveva frequentato. Il profilo di Padre Carrozzini è tratto da una importante fonte gesuitica americana, le Woodstock Letters[10]

 

Giovanni Guida

Nasce a Nola nel 1828, si trasferisce con tutta la famiglia a Lecce. Qui fu influenzato dalla presenza del collegio /convitto gesuitico lupiense, retto da Carlo Maria Turri dal 1839, e infatti ben presto maturò la vocazione di entrare nella Compagnia di Gesù e prendere i voti[11]. Il 15 giugno 1843, a quindici anni, fu ricevuto nel noviziato di Sorrento[12]. Studia teologia e filosofia a Napoli e viaggia in Italia, in Francia e in Belgio. Inizia l’insegnamento a Benevento, ma soffre problemi di salute, infatti è colpito da una infermità polmonare che lo costringe ad abbandonare la cattedra. Viene ordinato sacerdote nel settembre 1854. La professione dei voti ebbe luogo il 15 agosto 1862. Ristabilitosi in salute, ben presto si trasferisce negli Stati Uniti, a Georgetown, Washington, dove tiene lezioni di teologia presso la Georgetown University, fondata nel 1789 e diretta dalla Compagnia di Gesù dal 1851 fino ad oggi, e poi a Boston, presso il Boston College, fondato nel 1863 dai gesuiti.  Quando era a Georgetown, Padre Guida fu protagonista di un episodio davvero singolare che portò il suo nome agli onori delle cronache. Per un fortuito quanto rocambolesco scambio di persona, egli venne infatti ritenuto l’assassino del Presidente degli Stati Uniti Abramo Lincoln. Venne così arrestato, prima che l’equivoco fosse risolto. Le cronache locali si impadronirono di quell’episodio e intorno ad esso fiorirono delle leggende, dovute alle diverse versioni che la vulgata attribuiva all’accaduto. In particolare, l’episodio alimentò la nota leggenda nera per la quale più volte nella storia la Compagnia è stata accusata di regicidio, accusa che viene dai sentimenti anticattolici all’epoca largamente presenti nella società europea. Sta di fatto che Padre Guida passò dagli altari alla galera per una caso che oggi definiremmo di malagiustizia. Probabilmente, a determinare la sua incriminazione fu la notevolissima somiglianza con John Wilkes Booth, un famoso attore di teatro che era a capo di una larga cospirazione contro il Presidente Lincoln e che fu l’esecutore materiale dell’omicidio. Lincoln venne colpito il 14 aprile, mentre assisteva ad uno spettacolo al Ford’s Theatre di Washington durante le fasi conclusive della guerra di secessione americana, e morì la mattina successiva, 15 aprile. Guida, interrogato ed esaminato da un ufficiale non fu in grado di scagionarsi e venne quindi detenuto fino a quando non fu rintracciato il vero criminale.

Chiamato dal vescovo Machebeuf, di Denver, giunse in Colorado nell’agosto 1879, quando iniziò la sua missione. Fra mille difficoltà e ostacoli, fondò la Parrocchia del Sacro Cuore e, durante i diciannove anni del suo missionariato, eresse molte altre chiese nella diocesi. Nel 1890, costruì una scuola e una residenza per le suore. Insegnò filosofia e teologia alla Georgetown University. Cultore dei classici antichi, parlava fluentemente inglese, francese e spagnolo, oltre alla sua lingua madre. Pur ammalatosi, nel luglio del 1896, Padre Guida fu nominato Rettore del Sacred Heart College di Denver. Nell’ottobre 1898, venne richiamato a Napoli per diventare rettore del nuovo scolasticato a Posillipo.  Nel 1902, tornò a Denver, dove rimase fino alla sua morte. Il 15 giugno 1918, festeggiò il settantacinquesimo anniversario del suo ingresso nella Compagnia e il 23 maggio 1919 passò a miglior vita. La Messa funebre venne celebrata nella sua adorata Chiesa del Sacro Cuore[14].

 

Alessandro Leone

Su Padre Alessandro Leone sappiamo che nasce a Scorrano, Lecce, il 28 dicembre 1838. Entra nella Compagnia di Gesù il 26 ottobre 1855[15] e nel 1870 viene inviato nella Missione del New Mexico e del Colorado. Durante gli anni del suo missionariato, fu indefesso nell’opera apostolica e spese tutto sé stesso nell’evangelizzare e convertire i messicani al Cristianesimo. Le fonti americane lo descrivono come uno di più zelanti gesuiti nell’instancabile opera a difesa della fede. Appena giunto in America, viene mandato nelle parrocchie di Albuquerque, La Junta, Trinidad e Isleta. Percorre lunghe distanze a cavallo per visitare i suoi parrocchiani, accontentandosi di pasti frugali e ricoveri di fortuna. Muore ad Albuquerque, la sera del 26 luglio 1913[16]. Di lui ci ha lasciato un  ritratto Rosa Maria Segale, ovvero Suor Blandina (1850-1894), proveniente da Cincinnati (Ohio) ma originaria di Genova, appartenente all’ordine delle Suore di Carità, missionaria a Trinidad, tra il Colorado e il Nuovo Messico, che riportò i suoi ricordi in un prezioso diario più volte ripubblicato[17].

 

Salvatore Personè

Su Padre Salvatore Personè, uno dei pionieri della missione nel New Mexico-Colorado, disponiamo di molte informazioni. Nacque ad Ostuni, nel 1833, ultimo di una famiglia di otto figli, sette ragazzi e una ragazza. Dei ragazzi, tre divennero religiosi: Raffaello, teatino; Carlo e Salvatore, gesuiti. Frequentò il Regio Liceo San Giuseppe a Lecce e poi entrò nel Collegio Argento sempre a Lecce. A vent’anni decise di accompagnare suo fratello Carlo (di due anni più grande[18]) a Napoli, dove entrò nel noviziato, il 14 novembre 1853. A Napoli, Padre Personè, oltre al suo insegnamento, iniziò a predicare nelle diverse chiese, inclusa la Cattedrale. La sua naturale eloquenza attirava grandi folle di fedeli. Quando nel 1860 i gesuiti vennero espulsi dal regno, la maggior parte dei membri dispersi raggiunse la Francia e gli scolastici continuarono i loro studi a Vais, il collegio della provincia di Tolosa. Salvatore in breve tempo padroneggiò facilmente il francese; così, anche da studente, accompagnava l’eminente moralista padre Gury a svolgere le missioni nelle città circostanti. Dopo la sua ordinazione, il 14 giugno 1865, ritornò in Italia e frequentò molte residenze della Campania e della Basilicata. Intenzionato a prendere i voti, quand’era al terzo anno di prova, venne raggiunto dall’ordine di imbarcarsi per l’America in compagnia di altri fratelli. Lungo la costa occidentale della Francia (la guerra franco-prussiana imperversava), procedendo con cautela da una città all’altra, la nave raggiunse Brest, da dove salpò per gli Stati Uniti.  Giunto a Frederick, nel Maryland, dopo molto tempo e con grande fatica poté riprendere il viaggio che lo portò ad Albuquerque, nel New Mexico, allora quartier generale della missione. Fu lì, il 26 novembre 1871, che prese i suoi ultimi voti.  Si recò a Conejos, in Colorado, e fu il primo gesuita a giungere in quella città. Richiamato a Las Vegas, nel New Mexico, dove era stata avviata la Revista Catolica, divenne superiore della residenza. Da quel momento, coprì la maggior parte del Nuovo Messico nelle sue escursioni apostoliche, predicando in quasi tutti gli insediamenti del territorio. Fu spesso anche in Messico. Quando venne aperto il Collegio di Las Vegas, divenne il suo primo rettore, il 4 novembre 1878.  Poiché i mezzi di comunicazione e di trasporto erano scarsi, doveva abbastanza frequentemente prendere il posto degli insegnanti assenti e impossibilitati a raggiungere la missione, per permettere agli studenti di non perdere le lezioni. Nonostante queste difficoltà, il Collegio si sviluppò e prosperò, i ragazzi erano numerosi, si mantenevano elevati standard di studio e la città era orgogliosa della sua sede di apprendimento.

Nel 1883 Padre Personè lasciò la presidenza a Padre Pantanella mentre tornava ad Albuquerque come superiore. Questa disposizione, tuttavia, non durò a lungo. Verso la fine del 1884 a Padre Pantanella fu affidato il compito di aprire un nuovo collegio a Morrison, vicino Denver, e Padre Personè tornò a Las Vegas e vi rimase fino a quando i collegi di Las Vegas e Morrison furono fusi nel Sacred Heart College (ora Regis College) di Denver. Dal 1892 al 1902, fu superiore a Trinidad, in Colorado. Nel 1902 venne richiamato in Italia e nominato rettore del Collegio di Lecce. Fu nel Salento che subì il primo attacco di reumatismi infiammatori, un disturbo dal quale non si riprese mai più. Su consiglio dei medici tornò in America, la terra che amava. Del resto, come riferisce Barrella, a Lecce non era molto apprezzato[19] e questo fatto rafforzò il suo proposito di abbandonare l’Italia. Per qualche tempo governò a Las Vegas, fino a quando nel 1908 assunse ancora una volta la direzione della residenza di Trinidad.  Qui si adoperò per la costruzione di una nuova e più grande casa della missione, benedetta dal vescovo di Denver l’11 febbraio 1912[20].

Padre Personè, soprannominato dai nativi americani “il Nemico della tristezza”[21], era costretto a lunghi soggiorni in ospedale. La sua memoria divenne compromessa e i suoi occhi si indebolirono; aveva ormai ottant’anni. Il 20 dicembre 1922, entrò per l’ultima volta in ospedale. Morì il 30 dicembre dello stesso anno. Al suo funerale, presieduto dal reverendo vicario generale della diocesi di Denver, parteciparono non solo i cattolici, ma anche i protestanti e gli ebrei e vi fu un grandissimo concorso di popolo[22].

 

Note

[1] Su Accolti si veda Voce, a cura di G. McKevitt, in Diccionario histórico de la Compañía de Jesús (4 volúmenes) biográfico-temático, a cura di Charles E.O’Neill e Joaquín María Domínguez, Universidad Pontificia Comillas, Madrid, Insititutum Historicum Societatis Iesu, Roma, 2001, p. 63 (del pdf); Voce, a cura di Pietro Pirri, in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 1, 1960 (on line).

[2] Per la precisione storica, i primi gesuiti arrivarono in America nel 1566. Per la storia della Compagnia di Gesù nel Nord America si rinvia a Raymond A. Schroth, S.J., The American Jesuits A History, New York, University Press, 2007. Un’opera monumentale sulla presenza dei gesuiti italiani in America con molti riferimenti anche ai missionari citati in questo contributo è: Gerard McKevitt, Brokers of Culture Italian jesuits in the American West 1848-1919, Stanford University Press, Stanford, California, 2007, passim.

[3] Catalogo Provinciae Neapolitanae, 1859, p.53.

[4] Catalogus Provinciae Hispanie, 1861, p. 36.

[5] Antonio López de Santa Anna, Los Jesuítas en Puerto Rico de 1858-1886 contribución a la historia general de la educación en Puerto Rico Santander, España : [Sal Terrae], 1958, p.161: “P. Carrozzini Vicente-Scol. . . . 1863-1865 e P. Carrozzini Vito-Scol 1863- 1868”.

[6] Catalogus Provinciae Merylandiae 1873, p.8. Precisamente, nel noviziato di Frederick Maryland risulta: “Patres Tertiae Probationis  Vitus  Carrozzini”.

[7] Giovanni Barrella, La Compagnia di Gesù nelle Puglie 1574-1767. 1835-1940, a cura dell’Istituto Argento, Lecce, Tip. Editrice Salentina, 1941, p.133.

[8] Jack Mitchell, S.J., Necrology of the California province of the Society of Jesus 1845-2008, p. 80.

[9] Il Woodstock College venne inaugurato nel 1869 e primo rettore fu il gesuita napoletano Angelo Paresce (1817-1879). Ha operato fino al 1975.

[10] Woodstock Letters, Volume VI, Number 2, 1 May 1877, pp. 124-129.

[11] Catalogus Provinciae Neapolitanae 1839, p. 18.

[12] Catalogus Provinciae Neapolitanae 1844, p. 23.

[13] https://www.jesuit.ie/news/the-assassins-lookalike/

[14] Preziosa fonte per la conoscenza di questa figura sono le Woodstock Letters, Volume XLIX, Number 1, 1 February 1920, pp. 122-126. Le pubblicazioni delle Woodstock Letters vanno dal 1872 al 1969, per un totale di 98 volumi.

[15] Catalogus Provinciae Neapolitanae 1856, p.17.

[16] Woodstock Letters, Volume XLIII, Number 1, 1 February 1914, p.99.

[17] Suor Blandina una suora italiana nel West, a cura di Valentina Fortichiari, Vicenza, Neri Pozza Editore, 1996, pp.200-201.

[18] Carlo Pesonè è stato missionario in America dal 1831 al 1916:  Voce Salvatore Personè, a cura di  T. Steele, in  Diccionario, cit., p. 6404.

[19] Giovanni Barrella, La Compagnia di Gesù, cit., pp. 34-35.

[20] Father Persone 50 Years Priest to Sing Jubilee Mass at Trinidad; Founder of Sacred Heart College, in «Denver Catholic Register», Vol. IX, n.45, June 11, 1914, pp.1, 4.

[21] Suor Blandina una suora italiana nel West, cit., p.198.

[22] Woodstock Letters, Volume LIII, Number 3, 1 October 1924, pp.387-390. Inoltre si veda J. Manuel Espinosa, The Neapolitan Jesuits on the Colorado Frontier, 1868-1919, in «The Colorado Magazine», Vol. XV, Denver, Colo., March, 1938, n.2,  p. 68 (l’articolo cita anche Alessandro Leone); Voce, a cura di  T. Steele, in  Diccionario, cit. Questa fonte indica che Salvatore fu addirittura ad Albuquerque (1883-1884) presidente della prima compagnia petrolifera del New Mexico.

 

Per la prima parte vedi:

Gesuiti salentini in America – Fondazione Terra D’Otranto

Giuseppe Mangionello. Scultore – Pittore

immagine da https://www.galleriarecta.it
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di Paolo Vincenti

Qualche tempo fa, il caro amico Massimiliano Cesari, insegnante e storico dell’arte, mi donò un libriccino chiedendomi di farne buon uso. “Giuseppe Mangionello. Scultore- Pittore”, edito da Erreci (Maglie 2017) di Pino Refolo, esce grazie al contributo dell’Amministrazione Comunale di Maglie e della Fondazione Francesca Capece. Esso lumeggia sulla figura di un artista molto importante del passato magliese, immeritatamente caduto nell’oblio ed ora riportato alla luce da Refolo, grazie anche all’ incontro di presentazione seguito all’uscita del libro e tenutosi presso la Biblioteca Comunale di Maglie, il 24 novembre 2017, relatori Tina Cesari e Antonio Puce.  Il personaggio Giuseppe Mangione, in arte Mangionello, è strettamente legato alla biografia dello stesso autore, Refolo, il quale fin da quand’era giovane studente si è interessato di questa figura, scrivendone su una pubblicazione degli anni Sessanta, “Nuovo Studente Magliese”, e poi successivamente su “Tempo d’oggi”, negli anni Settanta, pubblicazioni importanti entrambe, se si vuole ricostruire una storia dell’editoria magliese del secondo Novecento. Pino Refolo è stato, dal 1973 al 1977, redattore di “Tempo d’Oggi”; dal 1978  di “Realtà salentina”, dal 1982 fino al 2015, ha diretto “ Nuovo Spazio”; dal 1991 al 1993, ha diretto la rivista letteraria “Titivillus”, fondata da Antonio Verri. Con la sua piccola casa editrice, Edizioni Erreci, ha pubblicato molte opere, alcune delle quali a sua stessa cura.

“Giuseppe Mangionello o della sfortuna di un artista”, titolava Refolo il suo saggio su “Nuovo studente magliese” (n.3, giugno 1961) e “Tempo d’oggi” (anno III, n.6, 25.03.1976), ora riproposti nel libro in parola, ponendo l’accento sulle alterne vicende di questo artista, la cui vita fu travagliata da dispiaceri e malumori, in quanto si sentiva, forse a ragione, ostracizzato dalla sua città. Nato nel 1861, pur provenendo da una famiglia molto povera, poté studiare con il maestro Paolo Emilio Stasi, insegnante di disegno al Convitto Ginnasio Capece, e poi con Giuseppe Bottazzi a Diso. E frequentò anche la Scuola di Belle Arti a Torino. Completò gli studi a Napoli con il maestro  Mancini.  Queste scarne notizie biografiche forse lasciano il tempo che trovano se non vengono menzionate alcune sue opere, certamente più conosciute del loro autore. A Roma, in particolare, eseguì il busto di Giovanni Barracco, nell’omonimo museo di arte antica, i busti di Domenico Piva e Giuseppe Rosi sul colle del Gianicolo, le decorazioni di alcune fontane a Valle Giulia, il monumento bronzeo a G. Magnaghi, nel cimitero del Verano. Fra le sue opere salentine, i dipinti “Apparizione della Vergine ai Santi Fondatori Ordine Servi  Maria”, 1880 e “ San Filippo Benzi” 1880, che si trovano  a Maglie nella chiesa di Santa Addolorata, i due busti raffiguranti l’agronomo Gaetano Stella (1888) e l’architetto e matematico Luigi Scarambone (1889) nella Villa “Garibaldi”di Lecce, il Monumento sepolcrale di Michela Tamborino nella chiesa di S. Maria della Scala, a Maglie, ecc. Nel 1938, Mangionello venne ricoverato a Roma per un problema agli occhi che poi lo portò alla morte.

Significativa è nella sua carriera la mancata realizzazione della statua di Francesca Capece, che venne invece realizzata dal mio illustre concittadino Antonio Bortone. Ne parlarono anche Teodoro Pellegrino, in “Un dimenticato scultore salentino. Il Mangionello. Nel centenario della sua nascita”, pubblicato su “Voce del sud” del 23.12.1961, e Antonio Erriquez in “Giuseppe Mangionello scultore pittore architetto”, Editrice salentina 1969, riportati dal Refolo. Mangionello aveva ogni buon motivo per aspettarsi che la commissione della statua di Francesca Capece fosse assegnata a lui, non solo per chiari meriti artistici ma soprattutto per ragioni di concittadinanza. Non mancò mai di rilevare quanto la mancata assegnazione fosse per lui ragione di rammarico, avendo egli nel cuore i meriti e la fama della grande benefattrice, la nobildonna Francesca, per la quale, come tutti i magliesi, nutriva affetto sincero.

Infatti Mangionello realizzò di sua iniziativa un progetto per il monumento, tanto fervida era in lui l’aspettativa, che però andò delusa. Il Consiglio Comunale di Maglie, su sollecitazione di un Comitato cittadino presieduto da Alessandro De Donno, decise di affidare l’incarico a Bortone, il quale lo portò a compimento in maniera egregia. Dubbi sorgevano soltanto sul posizionamento della statua. Alessandro De Donno, un nome importante nella bibliografia magliese (era stato il fiduciario della Duchessa), chiedeva che la statua, della quale possedeva già nel suo palazzo un bozzetto in gesso realizzato dallo stesso Bortone, fosse allocata nella centrale piazza di fronte al Municipio, mentre alcuni cittadini ritenevano più giusto che questa fosse nell’atrio del Liceo Capece.

Un altro De Donno, Raffaele, chiedeva che questa fosse allocata nella piazzetta retrostante il Liceo, riservando la piazza centrale al monumento ad Oronzio De Donno, anche questo monumento indifferibile, nei voti del proponente. Prevalse invece la scelta del Comitato cittadino e la statua della Capece venne sistemata di fronte al Municipio, mentre nella piazzetta che a lei è intitolata, trovò posto la statua di Oronzio De Donno, anch’essa opera del Bortone, sebbene questa anomalia toponomastica ingeneri ancora oggi non poca confusione nei visitatori. Lo stesso Mangionello, pur riconoscendo l’elevata qualità dell’opera dello scultore ruffanese, al quale era legato da stima profonda e ricambiata, riteneva che la statua, date le sue ridotte dimensioni, sarebbe stata meglio posizionata nell’atrio del Liceo, mentre in quella grande piazza avrebbe avuto maggior presenza scenica la sua, mai realizzata. Mangionello si sentiva escluso, insomma, e non mancò di far sentire la proprie rimostranze in più occasioni a quella città che sembrava sorda al suo richiamo. Facile a questo punto, per i biografi del Mangionello, riportare l’abusato aforisma nemo propheta in patria. Stessa delusione ebbe, lo scultore magliese, per la mancata realizzazione a Roma di un monumento a Benedetto Brin; in questo caso seguì un lungo strascico giudiziario che logorò psicologicamente l’artista. Il libro riporta anche un intervento dello scultore Achille Cofano, il quale ha realizzato un busto del Mangionello in terracotta.  Certo Giuseppe Mangionello, recensito in numerose antologie artistiche e cataloghi, aveva un pessimo carattere e non sgomitava per farsi largo, essendo tendenzialmente schivo.

Inoltre, a Maglie, scontò alcune sue posizioni politiche non in linea, ma ciò non giustifica il fatto che dopo le ricordate pubblicazioni di Refolo, nessuno più si sia interessato di lui, in un arco di tempo così lungo. Non è mai stato fatto uno studio rigoroso sulla sua vita e sulla sua opera, non sono stati mai emendati errori ed incertezze che anche su quest’ultima pubblicazione pesano, sebbene si tratti di un’opera solo divulgativa. Anzi, onore al merito di chi l’ha compilata.

Rocco Cataldi, poeta dialettale parabitano

di Paolo Vincenti

Parabbita è chiantata su n’artura / e se standicchia janca cu lle vie / te menzu monte finu a lla npianura / tra fiche, ficalindie e tra l’ulie /”. Quando questi versi furono pubblicati, il loro autore, Rocco Cataldi, non era ancora diventato il poeta dialettale parabitano da tutti riconosciuto e apprezzato.

Questi versi, infatti, dedicati alla città di Parabita, facevano parte della prima raccolta di Cataldi, Rrobba Noscia, pubblicata nel 1949 con l’editrice Bruzia di Castrovillari, con Prefazione di Francesco Russo.  A quel tempo, la poesia dialettale era considerata poco più che un passatempo per improvvisati poeti popolari o peggio popolareschi, nonostante la letteratura salentina avesse già espresso nomi importanti della poesia vernacolare, fra fine Ottocento e inizio Novecento.

Dopo questa prima raccolta di poesie, ne sarebbero venute altre, molto importanti, a corollario di una carriera letteraria che seguì di pari passo la vita e di una vita che entrava  con onestà e sincerità nelle poesie. “E quandu  ‘u cielu e l’arria se sculura, / se sente lu rintoccu t’’a campana / te la Matonna Santa t’’a Cutura /e la burrasca prestu se ‘lluntana / E a mmenzu a ccinca tice l’Ave Maria / nci suntu jeu cu la famija mia/”. Rocco Cataldi era nato a Parabita il 9 gennaio 1927.

Maestro elementare a Matino, Lecce, Racale e Parabita, dove era diventato una vera istituzione, nel 1985 era stato insignito dal Presidente della Repubblica dell’onorificenza di “Cavaliere al merito della Repubblica”.  Dopo Robba noscia, pubblicò  Storria t’à Madonna t’à Cutura (Paiano Galatina, 1950), poi ripubblicata dall’Adovos di Parabita, nel 1987, con Prefazione di Padre Giuseppe Perrotta. Nel 1956, diede alle stampe Riflessi opachi (Gastaldi Milano) e, dopo una lunga pausa, Lu Ggiudizziu  ‘niversale (Adovos Parabita, 1975), con Prefazione di Aldo D’Antico. Uno dei temi ricorrenti nella sua poetica era il mondo degli umili, quella civiltà contadina alla quale si sentiva profondamente radicato e dalla quale mai volle staccarsi, rivendicandone orgogliosamente l’appartenenza in tutti i suoi scritti. Una civiltà contadina che era, però, al suo crepuscolo e questo determinava in Cataldi un senso di profonda amarezza. Il filo che lo teneva legato a quel mondo in dissoluzione era quello della memoria, del ricordo del buon tempo antico, un tempo fatto di semplicità di gesti e di parole, un tempo in cui bisognava certo tirare la cinghia per andare avanti, ma in cui vi era una genuinità di sentimenti ed una bontà di intenti che, con l’avanzare dei nuovi tempi,  Cataldi temeva fossero irrimediabilmente compromessi. Di qui, l’amaro sfogo contro le brutture e la tristezza dei tempi.

La scelta del dialetto come mezzo espressivo aveva proprio questa valenza, quasi di una battaglia civile in difesa di quei principi di cui la sua storia è sempre maestra. Dice bene Aldo D’Antico, che difende questa scelta di Cataldi rifiutando l’etichetta, che per un certo tempo gli fu appiccicata addosso, di poeta nostalgico, ripiegato su se stesso;  invece, come afferma nella Prefazione al libro  Lu Ggiudizziu  ‘niversale : “scrivere in dialetto non significa soltanto usare la sintassi popolare, ma assumere, quale categoria di ricerca e di espressione, l’anima del popolo, la sua saggezza antica, la sua astuzia proverbiale, la sua inarrestabile dinamica storica, sociale e politica […] Il dialetto, frutto di un’elaborazione linguistica secolare e paziente. .. è uno dei pochi mezzi ‘puri’ rimasti al poeta per esprimere la sua disapprovazione, la sua contestazione, la sua inquietudine [… ] Il linguaggio dialettale ha il potere di scarnificare il contenuto poetico, di renderlo essenziale, di ridurlo a parola; opera cioè una costruzione semantica fondamentale: riconduce il suono a significato culturale, ridando alla parola in sé tutto il suo potenziale espressivo.

E’ in questa visione che il dialetto diventa strumento di rivoluzione linguistica, perché avvicina il lettore al libro, ritenuto elemento di discriminazione fra la cultura ufficiale, quella degli intellettuali, e la cultura popolare, quella degli altri.” Quella di Cataldi, secondo Antonio Errico, è “poesia costruita sulle macerie di miti e deità che come ogni mito ed ogni deità esistono finchè esiste l’uomo che ci crede” (Introduzione a Arretu ‘lla nuveja nc’è lu sule). Nel 1977, venne pubblicato Pale te ficalindie dalla Editrice Salentina di Galatina, con Prefazione di Donato Valli. Nel 1982, è la volta di  Li sonni te li pòviri (Congedo Editore), con Prefazione di Luciano Graziuso, e nel 1988, venne pubblicato dal “Laboratorio” di Aldo D’antico A rretu ‘lla nuveja nc’è llu sule, con Introduzione di Antonio Errico. A proposito della poesia dialettale di Rocco Cataldi, Donato Valli, nel numero della rivista “NuovAlba”  dell’aprile 2005, tracciando un profilo dell’amico perduto, precisa il posto in cui si colloca Cataldi nel panorama della poesia dialettale in generale. Spiega Valli: “nell’ambito di quella che Croce chiamava poesia dialettale ‘riflessa’, esistono almeno due livelli: uno è quello della poesia dialettale dotta (è il caso del poeta di Ceglie Messapico, Pietro Gatti e del poeta magliese Nicola De Donno), l’altro è quello dei poeti che rimangono legati, nella lingua e nei contenuti, alla matrice originaria di una popolarità sentimentale ed espressiva (ed è il caso di Cataldi)”.

Nel 1989, fu pubblicato A passu t’ommu (Congedo), introdotto e commentato da Gino Pisanò. Nel 1996 poi, uscì Culacchi, con Prefazione di Gino Pisanò, e il ricavato della vendita di questo libro, dedicato “Ai buoni perché si mantengano tali; agli altri perché lo diventino”, stampato in numero limitato di copie, il poeta volle che fosse devoluto a favore dell’erigendo monumento a Padre Pio, a Parabita, realizzato grazie soprattutto alla forte religiosità dello stesso Cataldi. L’ultimo libro, del 2000, è Parole terra terra (Congedo editore), con Prefazione di Donato Valli e note esegetiche di Gino Pisanò. A questo, bisogna aggiungere tutte le poesie scritte su cartoncini, per i suoi allievi, nelle più svariate occasioni dell’anno scolastico, come il Natale, la Pasqua, la festa della mamma, la festa del papà, sempre amorevolmente illustrate da Mario Cala e che ancora oggi si trovano in molte case dei parabitani che sono stati allievi del Maestro Rocco. “Rocco Cataldi- Mario Cala” era diventato, negli anni, quasi un marchio di fabbrica: “la penna e il pennello”, come lo stesso Cala afferma in un commosso ricordo dell’amico sulla rivista “NuovAlba”(aprile 2005). E proprio quel materiale eterogeneo che egli aveva prodotto negli anni del suo insegnamento scolastico andò a comporre l’ultimo libro, pubblicato postumo, cioè  Mirando al cuore (Adovos Parabita, 2005),  con commento di Mario Bracci, Prefazione di Mario Cala e Presentazione di Aldo D’Antico. Questo libro, che può essere considerato il testamento morale di Cataldi, è una raccolta di componimenti d’occasione (45, per l’esattezza), cioè poesie scritte dall’autore in più di quarant’anni. Il poeta aveva deciso di raccogliere insieme tutto questo materiale e pubblicarlo, dedicando l’opera all’amico Raffaele Ravenna che, insieme a lui, aveva collaborato alla realizzazione del monumento a Padre Pio da Pietralcina, in Parabita. Sua intenzione era quella di donare tutti i diritti editoriali all’Associazione dei Donatori di Sangue, della quale faceva parte e alla quale, se negli ultimi anni non aveva più potuto contribuire con la donazione per problemi di salute, non faceva mai mancare la propria adesione convinta, con dimostrazioni di grande affetto e sensibilità, come ricorda, in una breve nota introduttiva del libro, Massimo Crusi, Presidente dell’Adovos Parabita. Quasi tutte le poesie presenti in Mirando al cuore nascono da un felice sodalizio: quello di Cataldi con Mario Bracci, che in questo libro cura il commento alle poesie.

La collaborazione Cataldi -Bracci era cominciata sul giornalino scolastico “Il Pierino”, nato nel 1971 e continuato fino al 1995, come ricorda Mario Cala nella sua nota introduttiva. Il maestro Mario Bracci preparava il giornalino ciclostilato, che usciva una volta l’anno, appunto in occasione del Natale, salvo che vi fossero altre circostanze importanti che meritassero un’altra uscita. Cataldi scriveva le poesie e poi si rivolgeva a Mario Cala per preparare qualche disegnino che corredasse i componimenti poetici. Rocco Cataldi morì nel 2004, dopo una carriera lunga e fortunata all’insegna di quei valori, radicati nella società contadina, a cui, come detto, egli apparteneva. Nel 2010 è stata ripubblicata dal Laboratorio Editore la prima raccolta di Cataldi, Rrobba noscia, nella sua versione originale, con una nuova prefazione di Aldo D’Antico. Possiamo quindi rileggere “ A lli furesi”, “Basta ca è fiuru” “’A furtuna”, “’A verità” “La ‘ngurdizia” “Lu faticante e lu camasciu” “Lu scarparu”, e tanti altri testi suggestivi, costruiti su una sintassi semplice ed emozionale.  A distanza di tanti anni si scopre quanto queste liriche siano attuali e dense di significato. Ciò perché Rocco Cataldi  è ormai diventato un “classico”, ossia un punto di riferimento nella produzione letteraria  salentina del secondo Novecento.

Gesuiti salentini in America

di Francesco Frisullo e Paolo Vincenti

 

È stato recentemente pubblicato, a cura di Paolo Vincenti, A Maggior Gloria di Dio. I Fratelli Antonio e Angelo Stefanizzi: da Radio Vaticana allo Sri Lanka[1].

Il libro ripercorre la vita e la carriera di due straordinari personaggi, entrambi gesuiti e originari della città di Matino: Padre Antonio, tecnico e scienziato, e Padre Angelo, missionario in Sri Lanka e operatore di pace. Nel saggio di Francesco Frisullo e Paolo Vincenti, intitolato La Lunga Vita di Padre Antonio Stefanizzi, gesuita scienziato, ricostruiamo il profilo bio-bibliografico di Padre Antonio.

Egli è scomparso il 4 ottobre 2020 a Roma all’età di 102 anni, di cui ben 87 vissuti nella Compagnia di Gesù. La stampa nazionale ha dato grande risalto alla notizia della sua scomparsa.

Era nato il 18 settembre 1917 appunto a Matino in una famiglia numerosa, composta di sette figli, dei quali due, Antonio ed Angelo, indossano l’abito di Sant’Ignazio, e una sorella, Agata, nata nel 1924, diventa suora dell’ordine di Nostra Signora del Cenacolo (è morta a Torino nel 2017).  Aveva fatto studi umanistici ma anche scientifici, tanto vero che nel 1949 si trasferisce per un corso di perfezionamento negli Stati Uniti e precisamente a New York, alla Fordham University, tenuta dai Gesuiti. Negli USA segue i corsi tenuti dal professor Victor Hess, premio Nobel quale scopritore dei raggi cosmici. Nella nostra ricerca abbiamo trovato svariate fonti a stampa americane che parlano di Padre Antonio. Insegna matematica e fisica alla Pontificia Università Gregoriana di Roma e il 24 marzo 1953 viene nominato Direttore della Radio Vaticana.

Come Direttore di Radio Vaticana, toccò proprio a lui sovrintendere anche tecnicamente il 15 agosto del 1954 alla prima trasmissione radiofonica della preghiera dell’Angelus da parte di un Papa. Da allora, Padre Antonio ha conosciuto tutti i Papi che si sono succeduti sulla cattedra di Pietro. Nel gennaio del 1959 Papa Giovanni XXIII annuncia il Concilio Vaticano II e nel novembre dello stesso anno istituisce la Commissione sui “Mezzi moderni di apostolato”, con il compito di analizzare il ruolo dei moderni mezzi di comunicazione e la loro valenza pastorale, e della Commissione, guidata dal Gesuita Enrico Baragli, fa parte anche Padre Antonio. Ha non solo contribuito tecnicamente alla diffusione del Concilio Ecumenico Vaticano II, ma ne è stato attore in prima persona.

Come esperto di tecnica radiofonica e di telecomunicazioni satellitari, Padre Antonio partecipa a Washington, in rappresentanza della Santa Sede, all’avvio nel 1964 dell’Intelsat (International Telecommunications Satellite Consortium), la prima organizzazione intergovernativa mondiale per lo sviluppo e la gestione delle telecomunicazioni via satellite, di cui la Città del Vaticano era uno degli 11 Stati fondatori. Nell’ottobre 1965, nella storica visita che Paolo VI compie negli Usa tenendo il suo discorso all’ONU, Stefanizzi fa parte del seguito papale. Nel saggio si sottolinea anche dell’importante ruolo svolto da Radio Vaticana sotto la sua direzione negli anni della Guerra Fredda, quando è stata di fatto l’unico strumento che è riuscito a rompere la cortina di ferro; il messaggio del Papa giungeva attraverso l’etere alla cosiddetta “Chiesa del Silenzio”, che ha continuato a operare in quegli anni con grandi sacrifici e con spirito di martirio nell’Europa comunista. Padre Stefanizzi contribuì anche all’organizzazione e all’ampliamento della grande stazione radiofonica cattolica installata a Manila, nelle Filippine, denominata Radio Veritas, con la missione di far risuonare la voce cattolica nelle Filippine, in Giappone, Cina, Indonesia e in tutto il Sud- Est Asiatico.

Molto intensa anche l’attività culturale di Padre Antonio, ricostruita nella bibliografia che segue il saggio. In particolare egli è assiduo collaboratore della rivista «La Civiltà Cattolica», è autore del libro, Le nuove tecnologie di comunicazione. Valutazioni e prospettive (1983), ed escono a sua cura diverse pubblicazioni edite da Radio Vaticana durante gli anni della sua direzione. Egli era studioso e al contempo conduttore radiofonico, sulla scia di Guglielmo Marconi(1874-1937), che si può considerare il fondatore di Radio Vaticana insieme a Padre Giuseppe Gianfranceschi (1875-1934), che ne fu il primo direttore. Fu anche membro del Consiglio di Amministrazione del CTV (Centro Televisivo Vaticano) fino al 1997, quando riceve una bella lettera gratulatoria da Papa Giovanni Paolo II. Viene messo in congedo nel 2010 e come già detto scompare nel 2020. Nel saggio si ripercorre anche il suo rapporto con la città di Matino soprattutto grazie alla testimonianza di Don Giorgio Crusafio.

Come visto, dunque, il gesuita matinese ebbe una proficua esperienza di studio in America. Nel saggio intitolato Gesuiti salentini in America, di cui nel precedente numero di «Controcanto» abbiamo proposto la prima parte, prendendo spunto dal viaggio di Padre Antonio nel Nuovo Continente, si offre una rapida carrellata di gesuiti salentini che lo hanno preceduto nella missione degli Stati Uniti.

 

Eugenio Vetromile

Nato a Gallipoli nel 1819, entrato nell’ordine dei Gesuiti nel 1840 nel Collegio di Sorrento, fu un importante personaggio, dotato di grandissima cultura e forte spirito di intraprendenza[2]. Studioso di antropologia, etnologia e di linguistica, si imbarcò nel 1845 per l’America. Fu per tre anni alla Georgetown University di Washington e, divenuto prete nel 1848, venne inviato in missione nel Maryland[3]. Successivamente fu inviato nel Maine dove venne a contatto con la tribù indiana degli Abenaki ai quali dedicò i suoi studi confluiti nella sua opera The Abnakis and Their History[4]. Dal 1858 al 1859 ebbe l’incarico di professore di filosofia, chimica e astronomia all’Holy Cross College di Worcester, nel Massachussetts[5]. Dal 1859 fu trasferito al Loyola College di Baltimora nel Maryland ma, desideroso di ritornare fra gli indiani del Maine e vedendo che questo non gli era consentito, nel 1866 lasciò la Compagnia di Gesù, per essere incardinato nella diocesi di Portland. Poté così tornare in terra di missione e continuare a coltivare i suoi interessi di studio, ovvero gli usi e costumi degli Abnaki. Appassionato di musica, pubblicò anche diversi libri in lingua abnaki su canti e musica sacri. Addirittura fu autore di un dizionario della lingua abnaki, redatto fra il 1855 e il 1875, che coronava i suoi puntigliosi studi filologici e che venne molto apprezzato dagli esperti e gli valse la fama di essere uno dei più accreditati conoscitori degli indiani d’America. Di questo erudito missionario ha tracciato un completo profilo Aldo Magagnino[6]. Vetromile svolse un ruolo di pacificatore tra le tribù degli indiani e tra gli indiani e i coloni[7]. Adattò il calendario per i cristiani abnaki[8].  Fece il giro del mondo. Nel 1876, riporta la stampa locale, il Rev. Eugene Vetromile, che negli ultimi otto anni è stato sacerdote delle Chiese cattoliche del Parte orientale e di Pembroke […] ha rassegnato le dimissioni dall’incarico pastorale con l’intenzione di fare un giro intorno al mondo”[9] Viaggiò in Europa, fu in Inghilterra, in Francia, in Belgio, in Italia, a Roma, Milano, Pisa, Napoli e naturalmente a Lecce. A Gallipoli rivide la sua famiglia. Si imbarcò da Brindisi, dove arrivava la linea ferroviaria Peninsular-Express ( 1870-1914 )  che connetteva Londra con il porto brindisino e da dove salpavano le navi della famosa Valigia delle Indie, per Alessandria d’Egitto; poi fu al Cairo e si imbarcò per i luoghi santi: fu in Palestina, a Gerusalemme, e poi in Libano, in Siria, nelle isole dell’Egeo, in Grecia, ecc. Visitò le Hawaii, le Figi, addirittura la Nuova Caledonia. Poi la Nuova Zelanda, la Cina, Singapore, l’India, l’Australia. Dopo venticinque anni di servizio nella diocesi di Portland, ottenne il permesso di ritornare in Italia. Una volta giunto a Gallipoli fu colto prematuramente dalla morte nel 1881.  La notizia della sua morte in America ebbe ampio risalto dalla stampa[10]. La strada su cui sorgeva la chiesa St. Mary a Biddeford nel Maine, dove Vetromile è stato parroco dal 1854 al 1858, fu intitolata fino al 1920 “Vetromile Street”[11].

 

Donato Maria Gasparri

Nasce il 26 aprile 1834 a Biccari (Foggia), fa l’ingresso in Compagnia il 19 ottobre 1850. Insegna retorica presso la Residenza di Maglie, oggi Liceo Capece, dal 1857 al 1858. Dopo un breve permanenza a Laval, nel 1868 s’imbarca per l’America, dove fonda le missioni del Colorado. I gesuiti, che i nativi indiani chiamavano già dal XVI secolo “black robe”, ossia “veste nera”[12], si mossero di pari passo con lo spostamento delle frontiera americana, seguendo il tracciato della Santa Fe Trial, la ferrovia che andava unendo gli ex territori messicani agli atri stati federali.  Dello sconfinato e mitico Far West, i gesuiti possono essere annoverati fra i pionieri.  Nel 1877 Gasparri fonda, e ne è il primo rettore, insieme a Padre Personè, il collegio di Las Vegas[13], il che fa di lui un precursore dell’educazione cattolica. Uomo di ampia cultura, tanto che i nativi americani, destinatari primi dell’apostolato missionario, lo definivano “Enciclopedia vivente”[14], Gasparri operò in vari ambiti intellettuali. Egli fondò la stampa cattolica nel New Mexico ed è stato il primo direttore dell’importante periodico La Revista Católica in spagnolo (1875-1962), che si può definire l’equivalente americano della «Civiltà Cattolica»[15].

 

Note

[1] A Maggior Gloria di Dio. I Fratelli Antonio e Angelo Stefanizzi: da Radio Vaticana allo Sri Lanka, a cura di Paolo Vincenti, Associazione Autori Matinesi, Centro Studi Aldo Bello, Matino, Tip. San Giorgio, 2020.

[2] Catalogus Provinciae Neapolitane, 1847, p. 46.

[3] Catalogus Provinciae Merilandiae, 1849, p. 14.

[4] Eugenio Vetromile, The Abnakis and Their History, James B. Kirker, New York, 1866.

[5] Catalogue of the Officers and Students of College of Holy Cross, Worcester, Mass., for the Academic Year, 1858-59, s.n.

[6] Aldo Magagnino, Eugenio Vetromile, patriarca degli Abnaki, in Rev. Eugenio Vetromile IHS da Gallipoli, Gli indiani Pellerossa Abnaki e la loro storia, a cura di Aldo Magagnino, Galatina, Congedo, 2015, pp.5-47. Su di lui anche Luigi Giungato, Eugenio Vetromile, il gesuita gallipolino, “patriarca degli indiani”, in «Anxa news», n. 1-2, gennaio-febbraio 2011, p.9; Voce, a cura di V. A. Lapomarda, in Diccionario cit., p.8169.

[7] Nicholas N. Smith, Wabanaki Chief-Making and Cultural Change, in Papers of The Thirty-Fifth Algonquian Conference, a cura di H.C. Wolfart, Winnipeg: University of Manitoba Press, 2004, pp. 389-405. Si veda anche Paolo Poponessi, Mission. I Gesuiti tra gli indiani del West, Rimini, Il cerchio, 2010, p.55.

[8] Carlo J. Krieger, Native Penobscot and European missionary time concepts, in Papers of the 19th

 Algonquian Conference, a cura di William Cowan, Ottawa: Carleton University, 1988, pp. 103-110.

https://ojs.library.carleton.ca/index.php/ALGQP/article/view/977/861.  Dello stesso autore si veda Culture Change in the Making: Some Examples of How a Catholic Missionary Changed Micmac Religion, in «American Studies International», Vol. 40, No. 2 (June 2002), pp. 37-56.

[9] «The Catholic Telegraph», Cincinnati Ohio, 14 settembre 1876, p. 2.

[10]  «The Catholic Telegraph», Cincinnati Ohio, 20 ottobre 1881, p. 1. 

[11] Vincent A. Lapomarda S.J., The Jesuit Heritage in New England , Worcester MA., Jesuits of Holy Cross College, 1977, p.22.

[12] Catherine Randal, Black robes and buckskin. A selection from the Jesuit Relations, New York, Fordham University Pres, 2011.

[13] Voce, a cura di T. Steele, in Diccionario cit., p. 3388. Giovanni Barrella, La Compagnia di Gesù cit., p.133.

[14] Suor Blandina una suora italiana nel West, cit., p.198.

[15] Donato Maria Gasparri Le Missioni del Nuovo Messico, in Francesco Durante, Italo Americana Storia e letteratura degli Italiani negli Stati Uniti 1776-1880, Milano Arnaldo Mondadori, 2001, pp. 671-679. Inoltre, Suor Blandina una suora italiana nel West, cit., pp.198-199; Andrew F. Rolle, Gli emigrati vittoriosi Gli italiani che nell’800 fecero fortuna nel West americano, Milano, RCS edizione Il Giornale, 2003, pp. 214-218.

 

Sull’argomento vedi anche:

Libri| I Fratelli Antonio e Angelo Stefanizzi – Fondazione Terra D’Otranto

 

Il salentino padre Antonio Stefanizzi della Compagnia di Gesù, classe 1917 – Fondazione Terra D’Otranto

 

Il Monumento ai Caduti di Casarano. Cronaca di un restauro

foto da http://www.iuncturae.eu

 

di Paolo Vincenti

 

“Il Monumento ai Caduti di Casarano. Cenni storici-Restauro (2015-2016)”, a cura di Fabio D’Astore, per l’Editrice Salentina (2017), documenta una importante iniziativa, vale a dire la restituzione alla città di Casarano del suo monumento simbolo, la Vittoria Alata, che da molti anni versava in uno stato di incuria che mortificava il bronzeo e lapideo monumento, ma di più il suo alto valore simbolico. Sicché un gruppo di volenterosi cittadini ha deciso di prendere in mano la situazione e, costituitosi in Comitato, grazie all’aiuto di alcuni sponsor (uno in particolare, Assicurazioni Vittoria, si è rivelato determinate per il buon esito dell’operazione) è riuscito a riportare la Vittoria Alata all’antico splendore. Le tappe di questo faticoso e paziente lavoro sono documentate dall’agile libretto che riporta in copertina proprio l’immagine del Monumento ai Caduti, appunto la Vittoria Alata, che così restaurata ora vive una seconda giovinezza. Il libro fa parte della collana di studi “I Quaderni di Kèfalas e Acindino”, diretta da Luigi Marrella, appassionato studioso di storia patria. In effetti, il monumento era già stato oggetto di studio proprio da parte del Marrella che con “I percorsi della Vittoria. Casarano, uno scultore un monumento” (Barbieri 1997) inaugurava la collana in parola.  Fu negli anni Venti del Novecento che un comitato spontaneo di cittadini si costituì a Casarano e commissionò allo scultore Renato Brozzi la statua oggetto del libro, come spiega, nella sua Introduzione, il curatore Fabio D’Astore. Renato Brozzi (1885-1963) era scultore di grande fama, addirittura collaboratore di Gabriele D’annunzio, sicché fu motivo di onore per Casarano avvalersi dell’opera di un così quotato artista.

Realizzata alla fine del 1927, la statua fu inaugurata nel 1929, per onorare degnamente i caduti della Grande Guerra, i cui nomi sono riportati da Luigi Marrella in Appendice al volume “I percorsi della Vittoria”.  La struttura si compone di due parti: il piedistallo e la statua. La statua riproduce la Vittoria Alata, secondo il noto modello della Nike di Samotracia, cui si ispirarono altri artisti nella realizzazione di questo genere di monumento, fra i quali il salentino Antonio Bortone, artefice della analoga statua di Ruffano, di quella di Martano e di tante altre.

La statua del Brozzi appariva deteriorata, a causa del tempo edace e della disattenzione degli uomini. Dunque il nuovo Comitato, formato da Fabio D’Astore, Alessandro De Lorenzi, Martino Nicolazzo, Giuseppe Rausa e Luigi Marrella, si è prefissato l’obbiettivo di salvaguardarla e per questo ha chiesto un parere tecnico ed una scheda di restauro alla ditta LMR di Casarano, di Lucia Anna Margari, poi artefice del restauro. Dopo la ricerca dei fondi necessari all’intervento, incoraggiati dalla generosità di tanti cittadini e della già citata Assicurazione Vittoria, agenzia di Casarano, i promotori hanno dato avvio ai lavori, sotto la supervisione della Sovrintendenza e sotto la direzione tecnica della professoressa Rosanna Lerede, docente di Restauro presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce e dell’architetto Anna Rita Fersurella, non prima di aver ottenuto il placet dell’Amministrazione Comunale di Casarano, proprietaria del Monumento. La statua è allocata nella centrale Piazza Garibaldi, presso la Villetta Comunale intitolata a William Ingrosso. A seguito del lavoro di restauro, nell’ottobre 2016, con una pubblica cerimonia, il Monumento è stato riconsegnato alla città dal Comitato, fra la gioia dei convenuti e la comprensibile soddisfazione dei promotori. Nel libro, dopo alcuni cenni storici forniti da Luigi Marrella, che riprende i dati della sua primeva pubblicazione, viene riportato anche il qualificato intervento di Luigi Scorrano, noto critico letterario e dantista, in occasione della presentazione del libro “ I Percorsi della Vittoria”, il 3 dicembre 1998 presso il Circolo degli amici di Casarano.

Si passa poi alla sezione più tecnica del libro. Vengono riportati: uno “Studio diagnostico preliminare all’intervento di manutenzione della statua” a cura di Davide Melica, le schede tecniche e analitiche, la Relazione specialistica di Lucia Anna Margari che passa in esame tutto l’intervento di restauro, e un’Appendice documentaria che se faticosa per i non addetti ai lavori è comunque testimonianza importante da lasciare alla posterità. Seguono l’elenco dei contributori alla raccolta fondi e il Manifesto finale del Comitato; il tutto corredato da un notevole apparato fotografico. Un volume “di servizio”, ma considerevole per la comunità casaranese e per gli appassionati di cose salentine.

Ed è significativo che proprio con questo contributo, la collana “I quaderni di kèfalas e Acindino”, che si è aperta col libro di Marrella che lumeggiava sullo stesso tema, raggiunga i vent’anni di pubblicazioni. Non manca di sottolinearlo il curatore, il quale in una Nota a inizio volume, scrive:  “ Da quel lontano 1997 abbiamo pubblicato – con il presente – dodici lavori, con una media di circa un’uscita ogni due anni. Il lettore troverà in IV di copertina l’elenco completo degli studi. Non ci sembra un risultato di poco conto ed un obiettivo facile da conseguire; soprattutto se si tiene conto dei due criteri guida assunti fin dall’inizio: un rigoroso approccio scientifico ai vari argomenti e la rinuncia a qualsiasi forma di municipalismo e provincialismo, attraverso la ricerca costante di una contestualizzazione storico-critica dei microfenomeni studiati. A questo, si aggiunga uno sforzo tendente a presentare i vari studi – nei limiti del possibile – in una veste editoriale di qualità, talvolta con spunti di eleganza.” Non ci resta che rivolgere gli auguri alla collana e al suo direttore acciocché possa continuare a produrre contributi di qualità, come quello su cui ci siamo testé intrattenuti.

Libri| Al mercato dell’usato

 

LA RIATTUALIZZAZIONE DEL MITO

NELLA SCRITTURA DI PAOLO VINCENTI

di Patrizia Morciano

 

Un cofanetto elegante e prezioso si potrebbe definire la raccolta di Paolo Vincenti; la si potrebbe paragonare a uno di quegli scrigni di epoche passate che si ritrovano in qualche vecchia soffitta aristocratica; lo stesso titolo, Al mercato dell’usato, può far pensare a quelle chicche d’antan che solo in certi marchés aux puces si ha la fortuna di rinvenire. E tuttavia, a pensarci bene, queste immagini metaforiche non sono proprio adatte ad esprimerne l’impressione e i caratteri complessivi.  Sì, perché non c’è niente che sappia di passato, di antico tout court nella raccolta di Paolo Vincenti, e il titolo si addice solo all’operazione esteriore di recupero di testi già in parte pubblicati, nonché ai liberi adattamenti da autori classici, l’Euripide delle Baccanti in primis, sparsi qua e là.

È invece proprio la rielaborazione della classicità il marchio originale di questi versi che rivitalizzano il patrimonio culturale classico, facendone sentire la forza e il fascino imperituri. A cominciare dalla figura di Dioniso, dominante nella sezione centrale, La bottega del rigattiere, che reca significativamente il sottotitolo Il tempo di Dioniso: il dio dell’ebbrezza vitale, che allontana gli affanni «quando nel convito […] giunga lo stillante splendore del grappolo» (Euripide, primo stasimo delle Baccanti), è celebrato in versi che, pur pieni di citazioni dotte che mostrano la cultura classica dell’autore, fanno cogliere l’assorbimento da parte sua del senso ultimo di miti e riti di quell’antica religiosità mediterranea.

Valga per tutti un solo esempio, Dyonisos, che apre la sezione: «Nato da un fulmine/ figlio del Cielo/ proteggi la mia sera/ e dammi il buon vino/ alto bello e biondo/ fanciullo divino/ addolcisci la sera/ con questo cielo sereno/ scuoti il tuo tirso/ due volte nato/e fai stillare/ il succo prelibato/ hai viaggiato a lungo/ e ora sei arrivato/ coi tuoi riccioli d’oro/ e con la nebride rivestito/ […]». A questo andrebbero aggiunti tutti gli altri testi che hanno per protagonista il dio, nei quali l’autore ha saputo far ricorso ad artifici metrico-ritmici capaci di riprodurre nei suoi versi il ritmo “bacchico” di quelli greci.

Ma l’operazione di Paolo Vincenti è ancora più raffinata di quanto possa apparire ad una prima lettura. A volte, infatti, l’autore fonde insieme più echi classici: è il caso di Notte dionisiaca, in cui nell’invito a non parlare di risse o di guerra nell’ora serale del simposio e al ragazzo a mescere il vino, da bere “tutto d’un fiato come i Traci”, si insinua, in un contesto complessivo di rievocazioni euripidee, il ricordo di versi oraziani (dall’ode I, 18: Quis post vina gravem militiam aut pauperiem crepat?/ Quis non te potius, Bacche pater, teque, decens Venus?/, all’ode II, 7: Non ego sanius bacchabor Edonis, fino all’ode II, 19, che celebra l’epifania del dio e l’inevitabile canto, da parte del poeta, di Thyadas/ vinique fontem lactis et uberes/ […] rivos, ovvero quelle Menadi e fonti di vino e ruscelli abbondanti di latte che sono le immagini anche della poesia di Paolo Vincenti).

E non ci sono solo Euripide e Orazio: c’è il “meglio” della tradizione letteraria greca e romana. Ci sono Alcmane (in Paraclausítyron), Alceo e Archiloco (in Ai vecchi tempi, rivitalizzazione dei Carmina Burana medievali, anche grazie a questi innesti). E c’è il Catullo del carme 5 (Vivamus, mea Lesbia, atque amemus), quasi per caso individuabile verso la fine nella buriana (tanto per citare una parola cara al “dionisiaco” autore e diverse volte presente nella raccolta) espressiva di E tricche ballacche.

Ci sono persino rielaborazioni personali di motivi e generi greci come quello della “sfraghís”, la firma/sigillo che il poeta poneva all’interno dei suoi testi (si legga, appunto Sfraghís: «[voglio porre un sigillo/ su questa nostra storia/ […]/ per battere il tempo che passa/ fra numeri fortunati e numeri perdenti/ un sigillo, firmato Paolo Vincenti]»).

Anche le cosiddette investiture poetiche di memoria classica ed ellenistica non mancano e, anzi, degli originali conservano il fascino delle ambientazioni naturali che qui, ovviamente, sono quelle salentine: si legga l’ironica e colta Il cielo dei poeti: «Io conosco metafore ardite e metonimie prepotenti,/ che mi battono qui dietro i denti/ “E si può sapere dove le hai trovate, Colturo?”/ Mentre un giorno aravo la mia terra, la zappa batteva su qualcosa di duro;/ io mi sono messo a scavare, ed ho scavato, ho scavato,/ alla fine un tesoretto ho trovato/ Quale gioia di fronte a quelle parole, / bellissime, sfavillanti al sole;/ perdinci, ho pensato, ora il mio capo potrò coronare/ di un lauro salentino, con brillanti parole,/ ed entrare in quel circolo esclusivo dove/ bisogna sciacquarsi la bocca prima di parlare;/ ora finalmente potrò pubblicare/ tutti gli scritti nei miei cassetti a maturare/ […]».

E questo ci fa andare per un attimo allo stile complessivo dei testi che, per quanto scritti in tempi diversi, ci sembra lascino cogliere facilmente la tendenza stilistica predominante in Paolo Vincenti, quella di mescolare alto e basso, volgarismi e aulicismi: valgano come esempio la rima nOTTE: migNOTTE di Canti e ri-canti(orfici) o quel “che cazzo devo stare qui a pensare” di E tricche ballacche, così intrisa, per il resto, di echi catulliani e classici in genere.

Grande protagonista, accanto a Dioniso, è ovviamente il tempo, come l’autore stesso nota nella Premessa. E non poteva essere diversamente per un cultore dei classici greci e latini che sullo scorrere inesorabile del tempo hanno saputo imbastire i loro testi più belli e malinconici. E come in quelli, anche nel Nostro, i motivi simposiali e dionisiaci si intrecciano spesso con quello del tempo, dato che il vino è il «farmaco celeste» che può sedare, sia pure per poco, gli affanni della nostra finitudine. Si potrebbe dire, in più, che il tempo è quasi un’ossessione nella raccolta, come il lettore può giudicare dalla frequenza con cui la parola «tempo» ritorna nei testi o negli stessi titoli e sottotitoli delle sezioni. Nell’ultima, in particolare, il motivo si infittisce e diventa preponderante (si leggano O del tempo ritrovatoYpó Mnémata (mi ricordo, sì mi ricordo)Quando il tempo…Memento), ma è molto presente anche nella prima, con testi come Tempo 1 e ½Tempo ¾ e Questo tempo (non sopporto), atto d’accusa, quest’ultimo, anche contro il tempo affannato dell’homo oeconomicus della moderna civiltà borghese.

L’operazione culturale di Paolo Vincenti in questa raccolta è sicuramente molto più complessa di quanto fin qui si è detto. La filigrana elegante dei suoi testi è ottenuta, per esempio, anche intrecciando i fili della tradizione letteraria moderna e contemporanea (in Ypó Mnémata, per esempio, si sente, come in sottotraccia, l’eco del Montale de La casa dei doganieri, mentre il D’Annunzio de La pioggia nel pineto è chiaramente evocato in Sera). E si avverte anche la volontà di interpretare il fenomeno del tarantismo alla luce della religiosità dionisiaca e mediterranea, secondo le tendenze dell’antropologia più accreditata (si legga Morsi e ri-morsi nell’ultima sezione). Il lettore colto coglierà tutte queste implicazioni intellettuali. Ciò che è importante dire, a nostro avviso, è che tutti questi echi e questi apporti si fondono in poesia nuova, vitale come la linfa antica che li ha generati e allevati.

L’Abate de Saint-Non e il suo viaggio nel Sud

UN ABATE MOLTO INTRAPRENDENTE E LA GENESI

DI UN’OPERA FAMOSA, AI PRIMORDI DELLA

PROMOZIONE TERRITORIALE E TURISTICA

di Paolo Vincenti

 

Fra le opere di viaggiatori francesi, un posto importante merita il Voyage pittoresque ou Description des royaumes de Naples et de Sicile dell’Abate Jean-Claude Richard de Saint-Non, una delle più citate nelle bibliografie, dalla travagliata gestazione. Si tratta di un caposaldo della letteratura odeporica di tutti i tempi. Per contestualizzare l’argomento, diciamo che l’esperienza del Saint Non rientra in quel fenomeno di costume che viene definito Grand Tour. Con questa espressione si indica il viaggio di istruzione e di formazione, ma anche di divertimento e di svago, che le élites europee intraprendevano attraverso l’Europa fra Settecento e Ottocento. Protagonisti del Grand Tour, quegli intellettuali che erano imbevuti di cultura classica e dunque desideravano venire in Italia, alla fonte di quella enorme ricchezza culturale che dal nostro Paese si era irradiata in tutta Europa.

Per i rappresentanti dell’aristocrazia francese, inglese, tedesca, il viaggio in Italia si presentava come un’esperienza irrinunciabile, un must, come si direbbe oggi, per i rampolli delle più altolocate famiglie, indispensabile per completare la propria formazione. Essi vedevano nell’Italia la culla dell’arte e per esteso della civiltà mediterranea. E si mettevano in viaggio non solo i giovani, ma anche diplomatici, filosofi, collezionisti, romanzieri, poeti, artisti.[1] Quando vengono avviati gli scavi archeologici a Pompei ed Ercolano, sotto il Re Carlo di Borbone nel 1748, il Grand Tour riceve un ulteriore incremento.

Ciò dà origine ad una sterminata produzione, fatta di epistolari, diari, reportages di viaggio, romanzi, poesie. Su questa produzione è tornata la pubblicistica meridionale e salentina, almeno a partire dagli anni Settanta del Novecento, con traduzioni, riproduzioni, nuove pubblicazioni, edizioni anche pregiate, abbellite da imponenti apparti iconografici, un profluvio di iniziative editoriali insomma, che ha portato a parlare di un vero e proprio fenomeno di moda, su cui si interrogava già nel 1987 Teodoro Sacamardi, il quale proponeva una distinzione in quattro gruppi della letteratura di viaggio, e precisamente: “manuali e guide, resoconti di scoperte e viaggi di studio, racconti di viaggio, romanzi e novelle di argomento odeporico.”[2]

L’abate era un uomo di straordinaria cultura e un personaggio eclettico: erudito, pittore, secondo alcune fonti anche musicista, scrittore ed editore, con una grande passione per l’arte e per la storia[3].  In particolare egli disegnava con la tecnica dell’acquaforte. Veniva da una famiglia aristocratica parigina ed entrò anche nel parlamento francese. Scelse la carriera religiosa, divenendo appunto abate.

Viaggiò in Inghilterra, sempre inseguito dalla sua curiosità intellettuale. Sapeva trarre copie da pitture famose e farne molte riproduzioni. Grande mecenate, Saint Non fu amico di pittori, architetti, poeti, filosofi, oltre che di uomini politici. Da illuminista, spirito del suo tempo, egli aderì alla Rivoluzione Francese di cui però non vide la fine. Quando si trovò a lavorare al Voyage pitoresque, chiamò tutti quei pittori che già stimava e dei quali possedeva a casa diverse opere: Fragonard, al quale era legato da amicizia fraterna, e che realizzò anche il suo ritratto che oggi si trova al Louvre di Parigi, e poi Robert, Chatelet, Callot, Boucher e Delafosse, grande esperto dell’arte dell’acquatinta (alcuni ne attribuiscono a lui l’invenzione), arte che Saint Non amava molto e nella quale giunse ad eccellere.

Con Benjiamin Delaborde progettò una grande opera divisa in due parti, una dedicata alla Svizzera e una all’Italia, da pubblicare in un unico libro. Ma i progetti iniziali cambiarono, a causa di un parziale fallimento della prima uscita dell’opera. L’Abate di Saint Non fu in Italia fra il 1759 e il 1761. Fra i suoi collaboratori, Jean Louis Desprez, pittore e architetto, in Italia dal 1777 al 1784, prima di essere chiamato in Svezia alla corte del Re Gustavo III, dove rimase per il resto della vita. A lui si devono i bellissimi acquerelli che illustrano il Voyage del Saint Non[4].

Se all’inizio della spedizione, il Desprez era piuttosto in ombra fra gli illustri collaboratori del Saint Non, anche perché non si trovava a proprio agio nel circolo culturale napoletano che ruotava intorno all’abate, seppe successivamente mettersi in luce, specie dopo gli acquerelli degli scavi di Ercolano e Pompei, nonché farsi apprezzare dal suo committente, man mano che dalla Puglia gli inviava i propri lavori. Di tutti i suoi magnifici disegni, particolarmente degni di nota sono quelli che riproducono monumenti oggi non più esistenti, come la Madonna di Santa Croce di Barletta, l’antico assetto della Cattedrale di Trani, quello della Piazza Sant’Oronzo di Lecce[5].

Di quest’ultima, per esempio, nel libro vengono riportate due versioni: una che riproduce una piazza molto ariosa nella quale troneggia la statua di Sant’Oronzo, con le statue e la balaustra alla base della colonna che oggi non esistono più, così come i portici, la statua di Filippo II e il Palazzo della Bagliva, non più esistenti[6]; nell’altra (entrambe si trovano presso il Museo Nazionale di Stoccolma) si vede una folla tumultuante, non è ben chiaro se a festa o per qualche agitazione popolare.[7] Certamente questa seconda Piazza Sant’Oronzo è stata realizzata molti anni dopo la prima.

Paolo Agostino Vetrugno suppone che la folla esulti intorno ad un corteo di carrozze per il passaggio del Re Ferdinando IV da Lecce nel 1797, quando il sovrano venne in Puglia per le nozze del figlio Francesco.[8] “Anche il Sovrano”, scrive Stefania Dabbico, “può considerarsi un viaggiatore straniero – al pari di Berkeley[9]  o Von Riedesel[10]– non avendo egli mai prima del 1797 visitato di persona questa parte del regno”[11].  Il Desprez cioè sarebbe tornato in Italia molti anni dopo per continuare a disegnare. Se è così, anche le altre due vedute della Piazza di Sant’Oronzo di cui riferisce Vetrugno nello stesso articolo, “datate orientativamente a dopo il 1778”[12] sarebbero da postdatare verso il 1797 o 1798, e diverrebbero un significativo documento del clima leccese (i disegni riproducono delle processioni che si svolgono nel Vescovado di Lecce) alla vigilia della Rivoluzione Napoletana del 1799. Purtroppo questi disegni non trovarono posto nell’opera di Saint Non, nemmeno i primi, certamente databili al 1778, e sono oggi sparsi in raccolte pubbliche e private in Inghilterra, Francia, Austria, naturalmente Svezia, e Italia. Molto belle, per esempio, le vedute di Maglie, “Mallie”, di “Solleto”, col Campanile voluto da Raimondello Orsini del Balzo, di Lecce, con la Chiesa del Carmine sullo sfondo, e del Seminario di Brindisi, anche se il disegno in realtà corrisponde al Palazzo Montenegro, sul porto, e non al Palazzo Arcivescovile, dove tuttora sono situati il Seminario e la Biblioteca, opera dell’architetto Mauro Manieri di Nardò.

La collaborazione più importante di Saint Non, per quanto gravida di spiacevoli conseguenze, fu quella con Vivant Denon (1747-1825), autore di buona parte dei testi del libro, pittore di talento, egittologo e diplomatico in Russia, Svezia, Svizzera e a Napoli. Egli fu autore del fondamentale Voyage dans la Haute  e direttore del Louvre sotto Napoleone, che seguì nella campagna d’Egitto.[13] Il motivo per cui Denon si ritrovò fra gli autori del Voyage si deve al fatto che Saint Non, nel suo viaggio in Italia, si era fermato a Napoli e non conosceva le altre regioni meridionali. Affidò dunque a Dominique Vivant Denon l’incarico di compiere il viaggio alla volta di Sicilia, Calabria, Puglia. Questi riportò le sue annotazioni di viaggio, o come si diceva allora “impressioni”, che però l’abate non recepì in toto ma volle rimaneggiare e adattare a quello che era il suo precostituito disegno, soprattutto per conciliare il testo con le immagini realizzate da lui stesso e dai numerosi collaboratori. Fu così che Saint Non venne accusato di plagio da Denon, sebbene egli fosse il committente dell’opera e quindi in pieno diritto di utilizzare il materiale che aveva profumatamente pagato. Bisogna infatti aggiungere che lo sforzo finanziario sostenuto per la realizzazione dell’opera fu notevole, in ispecie dopo il primo insuccesso dell’iniziativa editoriale e le ingarbugliate vicende burocratiche che ne seguirono. Vediamo di ricostruirle. L’abbé de Saint Non teneva una corrispondenza per un giornale francese, il Journal de Politique et de Littèrature, anche se essa in buona parte rimase inedita. Questo diario del suo soggiorno in Italia, è stato pubblicato soltanto nel 1986[14]. Dopo alcuni anni dal suo ritorno in Francia, si creò l’occasione di pubblicare un libro interamente dedicato al viaggio in Italia. Tuttavia, essendosi Saint Non fermato a Napoli, si rivolse a Dominique Vivant Denon, come già visto. Durante il soggiorno in Italia, Saint Non realizza una serie di acqueforti. Egli, pur essendo un autodidatta, si era specializzato in questa tecnica ed aveva una produzione davvero copiosa. Tuttavia l’abate era accompagnato da pittori professionisti, come Robert, Angò, Fragonard, ai quali chiede di disegnare tutte le località che andavano visitando. Al ritorno in Francia poi, Saint Non realizzò delle acqueforti basandosi sugli originali dei pittori, specie quelli di Fragonard. Nel 1776, comincia a nascere in lui l’idea dell’ambizioso progetto del Voyage. Fu l’editore Benjamin de Laborde (1734-1794), compositore e storico della musica, uno degli uomini più influenti della corte di Luigi XV, a proporre all’abate di pubblicare una grande storia dell’Italia e della Svizzera, in un libro, riccamente illustrato, che doveva rappresentare una grande novità in questo genere di pubblicistica. Si poneva il problema del finanziamento dell’opera. E nel 1776 viene lanciata sul giornale Mercure de France l’offerta di sottoscrizione ai lettori. Inizialmente, l’opera doveva comporsi di sei volumi complessivi, uno dedicato alla Svizzera e cinque all’Italia, con 200 illustrazioni cadauno, da pubblicare in fascicoli mensili contenenti ciascuno 12 incisioni nell’arco di 18 mesi. Molti furono i sottoscrittori, in effetti, anche nella famiglia reale. I promotori dell’impresa a quel punto erano Laborde, l’Abbè e il di lui fratello, Louis Richard de La Bretèche, con la seguente divisione dei compiti: a Laborde la responsabilità della parte scritta e ai fratelli Richard quella della parte artistica.  A Louis de La Breteche poi spettava il finanziamento di metà dell’opera. Ognuno dei curatori dunque ingaggia la propria equipe e i rispettivi gruppi di lavoro si mettono all’opera, anche se, all’inizio del 1777, i primi fascicoli pubblicati sulla Svizzera non riscuotono il successo sperato; questo porta ad un drastico cambiamento di programma. Si decide cioè di continuare con la pubblicazione di un’opera dedicata soltanto all’Italia e con la sola cura di Saint Non.  Denon fornisce il materiale scritto sui posti non visitati dall’abate e tutte le illustrazioni del viaggio, che Saint Non collaziona e redige. Saint Non a sua volta, a Parigi, continua freneticamente il lavoro servendosi dei disegni realizzati da altri collaboratori prontamente assoldati, come Cassas, Vernet e Bertaux.  A questo punto, vi è un ulteriore cambiamento di programma, nel senso che il progetto editoriale si restringe alla sola Italia Meridionale. Viene dunque comunicato ai lettori e sottoscrittori che, nonostante il titolo dell’opera, l’Italia del Nord sarebbe rimasta esclusa dalla trattazione. Ciò ovviamente per ragioni finanziarie. Già all’uscita del primo fascicolo, le incomprensioni con Laborde erano tali che l’editore decise di ritirarsi dal progetto e l’abate dovette accollarsi l’intero onere dell’impresa. Vennero ricercati con grande fatica altri finanziatori. Intanto, Saint Non redigeva i testi che Denon inviava dall’Italia Meridionale.

Nonostante le ingarbugliate vicende, il risultato finale dell’opera fu notevole. Il Voyage viene pubblicato in 4 tomi e diviso in 5 grandi volumi in-folio, fra il 1781 e il 1786.

Il primo tomo è interamente dedicato a Napoli. Saint Non è prima di tutto colpito dall’arte e quindi riserva alla pittura, alla scultura e all’architettura la maggiore attenzione, anche per i suoi interessi personali di pittore e curatore d’arte; un posto importante è occupato dall’antropologia, ossia dall’osservazione degli usi e costumi del popolo napoletano. Importanza viene riservata anche al Vesuvio e quindi alla storia naturale. In questo, il Saint Non era influenzato senz’altro dal circolo culturale vicino alla corte borbonica che egli frequentava e che vedeva fra i principali promotori l’ambasciatore inglese William Hamilton, accreditato vulcanologo. Saint Non, da erudito e appassionato della civiltà classica, non può non riportare nelle sue descrizioni anche quanto dicono gli autori greci e latini e quindi la storia dei luoghi. Il tutto corredato dalle stupende vedute dei pittori, in primis Desprez. Il secondo tomo è dedicato alla Campania e agli scavi di Ercolano e Pompei, che in quel momento suscitavano l’interesse appassionato della comunità scientifica europea. Il terzo tomo è dedicato alla Magna Grecia. Si descrivono i monumenti di Puglia, Basilicata e Calabria, le colonne, le monete e le antiche vestigia della civiltà classica. Il quarto tomo è dedicato alla Sicilia. Dalla descrizione di Saint Non emerge buona parte della civiltà di Terra d’Otranto negli anni della dominazione borbonica. Più specificamente, nel terzo tomo, dedicato alla Magna Grecia, vi è la descrizione del viaggio da Napoli a Barletta (passando per Benevento, Lucera, Siponto, Manfredonia, Monte Sant’Angelo), da Canne a Polignano (passando per Canosa, Trani, Bisceglie, Bari, Mola e l’abbazia di San Vito), da Polignano a Gallipoli, attraverso la Terra d’Otranto (passando da Brindisi, Squinzano, Lecce, Soleto e Otranto), infine da Taranto sino ad Eraclea, passando per Metaponto, Bernalda e Policoro, e giù fino alla Sicilia. Nel nostro territorio, l’autore si sofferma sul Castello di Brindisi, sul Chiostro dei Domenicani di Lecce, e poi Maglie, Otranto, fino al Tallone d’Italia. Nel primo volume, vi sono 47 tavole numerate e 7 non numerate, nel secondo 83 tavole numerate, nel terzo 100 numerate, nel quarto 104 numerate, nel quinto 33 numerate. Le pagine sulla Puglia occupano il terzo tomo, da pag.11 a pag.77. Dopo la prima edizione principe, se ne contano tante altre. Nel 1972, esce la prima edizione italiana curata da Franco Silvestri, con testo a fronte dell’originale, con 29 disegni di Desprez e 42 tavole riguardanti la Puglia; nel 1977 esce la seconda edizione, già citata. Nel 1993, l’opera viene pubblicata anche da Fulvia Fiorino.[15]

Come detto, però, la collaborazione con Denon sfociò in una denuncia di plagio. Alla base di questo inconveniente fu la rottura fra l’Abbè e il primo editore dell’opera, Benjamin de Laborde. Denon, forse sobillato dall’editore (deluso e amareggiato per essere stato escluso dal progetto), accusò Saint Non di essersi appropriato dei suoi testi, senza citarlo come autore, sebbene queste fossero le precise condizioni contrattuali sottoscritte dallo stesso Denon.

Ma ora lasciamo un momento il Saint Non per occuparci di un altro viaggiatore del Settecento nelle nostre contrade. L’inglese Henry Swinburne (1743–1803) pubblicò la sua opera Travels in the Two Sicilies by Henry Swinburne in the Years 1777, 1778, and 1779, in due volumi nel 1783-85, con una successiva edizione nel 1790, sul suo viaggio fatto in Calabria, Sicilia e Puglia tra il 1777 e il 1779. Il primo volume include cenni storici sul Regno di Napoli, tabelle riguardanti le dinastie, le monete, le unità di misura, le strade, le rotte e una descrizione geografica dei territori. Nel secondo volume, si sofferma sul territorio pugliese e, quel che ci interessa più da vicino, su Terra d’Otranto.  Nel suo viaggio era assieme alla moglie Martha Baker. L’opera è un documento veritiero della realtà delle province meridionali del Settecento, perché tratta di testimonianze raccolte sul campo dall’autore, si potrebbe dire in presa diretta. Di particolare interesse, il suo disappunto di fronte al barocco leccese e a quello che ne è il monumento simbolo, la Chiesa di Santa Croce, che derubrica a pessimo esempio di commistione fra stili diversi. Lo Swinburne detesta la città di Lecce e la sua architettura, però racconta gli aneddoti, le leggende, le tradizioni e le curiosità che raccoglie parlando con la gente del luogo.[16]

Nella prima traduzione in francese dell’opera, nelle note, viene riportato proprio il diario di viaggio di Denon, prima ancora che questo fosse pubblicato da Saint Non, ossia dal legittimo proprietario. Le traduttrici francesi erano Mademoiselle de Kéralio e Madame de La Borde. Lo conferma lo stesso autore nella Prefazione alla seconda edizione: “Due signore hanno onorato il mio lavoro con traduzioni in francese: una è Mademoiselle de Kéralio, una stimata scrittrice di biografie; mentre l’altra è Madame de La Borde, l’amabile e compita moglie di un Fermier-General, ultimo cameriere personale di Luigi XV. La sua versione è elegante e stampata in uno stile molto bello da Didot. Suo marito, che ha pubblicato una storia della musica di grande valore, ha aggiunto due volumi di note per correggere le mie mancanze, dove credeva di averne trovate e per spiegare più dettagliatamente molti punti relativi alla storia, alla chimica e alla musica, che erano stati solo toccati. Ho adottato le sue correzioni dove le ho ritenute giuste e ho aggiunto le informazioni che ho ricevuto sulle Due Sicilie dopo la pubblicazione della prima edizione”.[17] Il marito della Laborde altri non è che il già citato editore Benjamin, il quale non si fece scrupoli di pubblicare il materiale inedito di Denon senza l’autorizzazione del legittimo proprietario. Il fatto che la responsabile dell’opera fosse Madame de Laborde, non cambia la sostanza delle cose. Ma c’è di più. In questo contesto si inserisce anche la figura del Canonico Annibale De Leo, Vescovo di Brindisi (1739-1814).[18]

Infatti, Laborde, quando era ancora coinvolto nel progetto editoriale del Voyage, invia una lettera al Canonico De Leo il 2 agosto 1779. La lettera, che si trova presso la Biblioteca arcivescovile di Brindisi, viene pubblicata per la prima volta da Franco Silvestri (a lui segnalata dall’allora bibliotecario della “De Leo”, Rosario Jurlaro), nella sua edizione del Voyage Pittoresque.[19] In questa lettera, Laborde chiede al canonico De Leo di inserire un suo saggio su Brindisi all’interno dell’opera di Saint Non. Dalla lettera si rileva il fatto che Delaborde nel 1779 non solo era ancora coinvolto nella realizzazione dell’opera, ma anzi la riteneva interamente sua, o almeno, a sé stesso la accreditava nella missiva al presule brindisino, al quale chiedeva anche un’opera sulla “Vita di Pacuvio”, di cui il Denon gli aveva parlato.[20]Questo dimostra che l’impianto originale del Voyage doveva essere diverso e avvicinarsi di più ad un’opera collettiva, una raccolta di saggi di studiosi locali sul territorio dell’Italia Meridionale. Forse anche a questo cambio di impostazione si devono le divergenze fra il vero autore Saint Non e l’editore “millantatore” Delaborde. Non c’è la risposta di De Leo, così come all’interno dell’opera dell’abate francese non compare il saggio dello storico brindisino. Ciò ha portato gli studiosi a credere che in realtà De Leo avesse opposto un diniego alla richiesta di Laborde.[21]

L’opera su Brindisi venne pubblicata autonomamente nel 1843.[22] Vito Guerriero, il curatore dell’opera, che trova il manoscritto ancora inedito presso la Biblioteca e lo pubblica, spiega nell’Introduzione: “Si sapeva comunemente e con certezza, che il signor De la Borde, gentiluomo di Camera di Luigi XVI, ed autore del Viaggio pittoresco d’Italia, capitato in Brindisi, ebbe premura di trattare col prelato De Leo, come letterato di gran rinomanza. Tra le altre cose di cui si parlò nelle dotte lor conferenze, cadde discorso sopra una memoria inedita del detto De Leo, portante il titolo testè enunziato. L’importanza del soggetto mosse il signor De la Borde a chiederne la lettura, della quale gentilmente accordatagli fu invaghito in maniera che, come in attestazione di stima, pregò il De Leo ad essergli compiacente di dargli quello autografo, sulla parola di onore di farlo stampare in Parigi nel suo ritornarvi… la Memoria però, o per la morte di costui o per gli sconvolgimenti da lui trovati in Francia nel suo ritorno, non fu mai stampata né mai se ne potè sapere il destino”.[23] Non è però vero che De Leo non spedì mai l’opera al Delaborde. In realtà, il francese dovette di questa venire in possesso. Infatti, Petra Lamers ci fa sapere dove andò a finire.[24]. Il Laborde inserì alcuni estratti dell’opera di De Leo proprio nelle note sulla traduzione francese di Travels in the Two Sicilies di Swinburne, curata dalla moglie, per l’esattezza nel volume 2 da pag.249 a pag.262, dove si parla di Brindisi.[25] Ma nella descrizione e storia del porto di Brindisi, l’editore non fa riferimento al canonico De Leo. Ciò dimostra la abituale scorrettezza del Laborde, a tutto vantaggio dell’Abbè, la cui opera supera il confronto con quella di Swinburne, anche perché diverso è l’intento. Scrive Franco Silvestri :“l’Inglese fa del suo libro una guida per i turisti eruditi, lo correda di scarse, scadenti e scialbe incisioni e di molte tariffe, orari di poste, elenchi di pesci, molluschi, prodotti del suolo, entrate doganali e dazi; il Saint Non vuole un libro che nessun viaggiatore potrà mai portarsi appresso, con i suoi grandi cinque volumi in folio del peso complessivo di circa mezzo quintale, e che vuol essere una summa di arte, di storia, di ricerche archeologiche, ed immagini preziosamente incise e stampate: lo spirito colto, raffinato, avido di bellezza del viaggio in Italia dei Francesi, è in evidente contrapposizione allo spirito pratico del Grand Tour inglese.”[26]

Pochi anni prima del Nostro, un altro abate del Settecento aveva raggiunto l’Italia: l’Abbè Jèrome  Richard,  che scrisse un’opera in sei volumi, Description historique et critique de l’Italie.[27]

 

Ma se torniamo ora al Desprez, come abbiamo visto, non tutti i disegni realizzati trovarono collocazione nell’opera di Saint Non, anche se sono bellissimi e costituiscono la vera attrazione per chi sfoglia il libro.[28] I disegni di Desprez trovarono varie destinazioni, anche come fonti iconografiche dalla reale fabbrica di ceramiche di Capodimonte, Napoli, che riprodusse nei suoi pregiati monili diverse immagini del Voyage pittoresque, fra cui quella di Squinzano. Così pure l’immagine di Maglie, per l’esattezza della sua Chiesa e della Colonna di Santa Maria delle Grazie, venne ripresa nei famosi vasi inglesi della tipologia flow blue di Ironstone, prodotti dalla fabbrica di Staffordshire, in epoca vittoriana. L’immagine di Maglie, e forse anche di altri scorci del Salento, è stata quindi veicolata nel mondo attraverso le raffinate porcellane inglesi. La scoperta si deve allo storico Cosimo Giannuzzi.[29]

Più in generale, possiamo constatare come l’opera del nostro intraprendente abate abbia avuto svariate e impensabili ramificazioni, ed il nostro Salento abbia trovato attraverso di essa uno straordinario veicolo di diffusione in Europa, quando ancora la promozione territoriale turistica era qualcosa di sconosciuto alle nostre latitudini.

 

Note

[1] Si vedano fra gli altri, Cesare De Seta, L’Italia nello specchio del Grand Tour, in “Storia d’Italia”, 5, Torino, Einaudi, 1982, pp.127-263 e Giovanna Scianatico, Scrittura di Viaggio. Le terre dell’Adriatico, Bari, Palomar, 2007.

[2] Teodoro Scamardi, La Puglia nella letteratura di viaggio tedesca. Riedesel- Stolberg-Gregorovius, Lecce, Milella, 1987, p. 11.

[3] Sull’Abate di Saint Non e sul Voyage, i testi consultati sono: Franco Silvestri, Viaggio pittoresco nella Puglia del Settecento: dal Voyage pittoresque, ou Description des Royaumes de Naples et de Sicile, Milano-Roma, Carlo Bestetti Edizioni d’arte, 1977; Petra  Lamers, Il viaggio nel Sud del’Abbè de Saint-Non, Presentazione di Pierre Rosemberg, Napoli, Electa, 1992;Jean Claude Richard De Saint-Non, Viaggio Pittoresco, a cura di Raffaele Gaetano, Soveria Mannelli, Rubbettino 2009; Jean Claude Richard De Saint-Non in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, ad vocem.

[4]Su Jean Louis Desprez, fra gli altri: Jean Louis Desprez, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, ad vocem; Franco Silvestri, Viaggio pittoresco nella Puglia del Settecento: dal Voyage pittoresque, ou Description des Royaumes de Naples et de Sicile, Milano-Roma, Carlo Bestetti Edizioni d’arte, 1977, pp.37-60; Jean Louis Desprez, in Fulvia Fiorino, Viaggiatori francesi in Puglia dal Quattrocento al Settecento, Vol.VII, Fasano, Schena, 1993, pp.241-334.

[5] Franco Silvestri, op.cit., p.44.

[6] Ivi, p.47.

[7] Ivi, p.48-49.

[8] Paolo Agostino Vetrugno, Testimonianze pittoriche attorno alla rivoluzione del ’99, in “L’Idomeneo. La Rivoluzione del 1799 e il Salento. Atti del Convegno di Studi Lecce – Lucugnano, 14 – 15 maggio 1999”, n.2, 1999, Soc. Storia Patria Puglia Sezione di Lecce, Lecce, Edizioni Panico, 2000, p.136.

[9] George Berkeley filosofo inglese (1685-1753), fu uno dei primi viaggiatori stranieri ad arrivare in Puglia nel 1717.

[10] Johann Hermann von Riedesel, barone di Eisenbach (1740-1785), uno dei più importanti viaggiatori tedeschi, nelle nostre contrade nel 1767.

[11] Stefania Dabbico, Il Salento di fine Settecento negli scritti dei viaggiatori stranieri, in “L’Idomeneo. La Rivoluzione del 1799 e il Salento. Atti del Convegno di Studi Lecce – Lucugnano, 14 – 15 maggio 1999”, n.2, 1999, Soc. Storia Patria Puglia sezione di Lecce, Lecce, Edizioni Panico, 2000, p.48.

[12] Paolo Agostino Vetrugno, op.cit., p.136 e pubblicati, sia pure con un errore nella fonte, in Marcello Fagiolo e Vincenzo Cazzato, Le città nella storia d’Italia, Lecce-Bari, 1984, p.224, nota 12, fig.138 (ma 139), e in Cosimo Damiano Fonseca, L’“Atletica penitenziale”: alle origini della religiosità e della ritualità barocca in Puglia, in AA. VV.,La Puglia tra Barocco  e Rococò, Milano, Electa,1982, p.326, fig.421.

[13] Su Dominique Vivant Denon, fra gli altri:  Vivant Denon, in  Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, ad vocem; Franco Silvestri, Viaggio pittoresco nella Puglia del Settecento cit., pp.31-33; Dominique Vivant Denon,  Lettere inedite a Isabella Teotochi Albrizzi, introduzione e note di Mario Dal Corso, Padova, Centro Stampa Palazzo Maldura, 1979 (poi Padova, Alfasessanta, 1990); Idem, Viaggio a Palermo, traduzione di Laura Mascoli, introduzione di Carlo Ruta, Palermo, Edi.bi.si., 2000; Idem, Viaggio nel regno di Napoli, 1777-1778, traduzione e commento di Teresa Leone, Napoli, Paparo edizioni, 2001; Idem, Calabria felix, traduzione di Antonio Coltellaro, Catanzaro, Rubbettino 2002; Idem, Bonaparte in Egitto. Due cronache tra illuminismo e Islam, scelta e commento di Mammoud Hussein, traduzione di Vito Bianco, Roma, Manifestolibri, 2007.

[14] Jean Honoré Fragonard – Jean Claude Richard De Saint Non, Panopticon italiano. Un diario di viaggio ritrovato.1759-1761, a cura di Pierre Rosemberg, con la collaborazione di Barbara Brejon De Lavergnee, Roma, Edizioni dell’Elefante, 1986.

[15] Fulvia Fiorino, Viaggiatori francesi in Puglia dal Quattrocento al Settecento, Volume VII, Fasano, Schena, 1993, pp.113-219.

[16] Sull’opera di Swinburne, si vedano: Angela Cecere, Viaggiatori inglesi in Puglia nel Settecento, Fasano, Schena, 1989, pp. 37 e segg.; Eadem, La Puglia nei diari di viaggio di H. Swinburne, Crauford Tait Ramage, Norman Douglas, in “Annali della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Bari”, Terza serie, 1989 -90/X, Fasano, 1993; una delle più recenti pubblicazioni è: Henry Swinburne, Viaggio Nel Regno Delle Due Sicilie negli Anni 1777, 1778 e 1779 (Sezioni XVII-XXXV) Viaggio da Napoli a Taranto, Traduzione e Introduzione a cura di Lorena Carbonara, Edizioni Digitali Del Cisva, 2010 (on line).

[17] Henry Swinburne, Viaggio Nel Regno Delle Due Sicilie negli Anni 1777, 1778 e 1779 (Sezioni XVII-XXXV) Viaggio da Napoli a Taranto, Traduzione e Introduzione a cura di Lorena Carbonara, Edizioni Digitali Del Cisva, 2010, p.12 (on line).

[18] Su De Leo, fra gli altri, Rosario Jurlaro, Annibale De Leo nella storia della storiografia italiana, in “Ricerche e Studi”, a cura di Gabriele Marzano, n.1, 1964, Fasano, 1964, pp.29-30; G. Liberati, Annibale De Leo e la cultura del ‘700 in Brindisi, in “Brundisi Res”, n.II, 1970, pp. 17-18; Giacomo Perrino, Annibale De Leo teologo, storico, pastore, in “Brundisii res”, n.VII, 1975, p.289; Salvatore Palese, Seminari di Terra d’Otranto tra rivoluzione e restaurazione, in Aa.Vv., Terra d’Otranto in età moderna. Fonti e ricerche di storia religiosa e sociale, a cura di Bruno Pellegrino, Galatina, Congedo, 1984, pp.121 e sgg..

[19] Franco Silvestri, op.cit., p.61.  Il Voyage Pittoresque curato da Silvestri, edito la prima volta nel 1972, riproduce solo il tomo terzo che contiene il “Viaggio pittoresco della Magna Grecia”, suddiviso in 4 capitoli, con traduzione italiana e testo francese a fronte in stampa anastatica. Si veda anche Petra Lamers, op.cit., p.33.

[20] Il riferimento è a Delle memorie di M. Pacuvio antichissimo poeta tragico dissertazione di Annibale de Leo, Napoli, nella Stamperia Raimondiana, 1763, unica opera pubblicata in vita dal Vescovo di Brindisi.

[21] Franco Silvestri, op.cit., p. 62.

[22] Annibale De Leo, Dell’antichissima Città di Brindisi e Suo Celebre Porto. Memoria inedita di Annibale De Leo. Seguita da un articolo storico de’vescovi di quella chiesa compilato da Vito Guerriero Primicerio della Cattedrale della stessa Chiesa, per ordine dell’attuale Arcivescovo D.Diego Planeta come dalla pagina seguente, Napoli, dalla Stamperia della società Filomatea, 1846. Poi ripubblicato in ristampa anastatica in Idem, Dell’antichissima Città di Brindisi e Suo Celebre Porto, a cura di Rosario Jurlaro, Bologna, Forni, 1984.

[23] Annibale De Leo, op.cit., p. IV, riportata anche in Franco Silvestri, op.cit., p. 62.  Il porto di Brindisi ritorna ancora nell’opera pittorica di un altro viaggiatore straniero, val bene Jacob Philipp Hackert (1737-1807), con I porti delle Due Sicilie (prima versione stampata a Napoli nel 1792). Hackert era pittore di corte del re Ferdinando IV e in questa veste fu in Italia con molti incarichi come quello di supervisionare il trasferimento della collezione Farnese da Roma a Napoli. Ma l’incarico più prestigioso che ricevette dal re Ferdinando IV fu la commissione del famoso ciclo di dipinti raffiguranti i porti del Regno di Napoli. Le numerose vedute dei porti si articolano in tre gruppi suddivisi tra le vedute campane, pugliesi, calabresi e siciliane. Per eseguire i disegni preparatori, si recò in Puglia e in Campania. La serie comprende 17 quadri e si trova ancora oggi custodita presso la Reggia di Caserta, massima realizzazione artistica voluta dal Re Carlo di Borbone; vi sono raffigurati esattamente i porti di Taranto, Brindisi, Manfredonia, Barletta, Trani, Bisceglie, Monopoli, Gallipoli, Otranto. Su Jacob Philipp Hackert, si veda: Philipp Hackert, Dodici porti del Regno di Napoli, a cura di M. Vocino, Napoli, Montanino, 1980; Atanasio Mozzillo, Gli approdi del Sud. I porti del regno visti da Philipp Hackert (1789-1793), Cavallino, Capone, 1989.

[24] Petra Lamers, op.cit., p.58.

[25] Ivi, p.36.

[26] Franco Silvestri, op.cit., p.19.

[27] Rosanna Cioffi, Due francesi in viaggio a Napoli. L’Abbé Jérôme Richard e il Marquis de Sade nella Cappella Sansevero, in La Campania e il Grand Tour. Immagini, luoghi e racconti di viaggio, a cura di R. Cioffi, S. Martelli, I. Cecere, G. Brevetti, Roma, L’Erma di Bretschneider, 2015, pp. 329-340, e Rosanna Cioffi, Storia e critica d’arte nel secolo dei Lumi. Cochin, Richard e Sade in viaggio a Napoli, in Intra et Extra Moenia. Sguardi sulla città fra antico e moderno, a cura di R. Cioffi, G. Pignatelli, Napoli, Giannini Editore, 2014, pp. 27-34. A Fulvia Fiorino e Giovanni Dotoli si deve la pubblicazione della meritoria collana edita da Schena sui viaggiatori stranieri nei secoli. Per l’esattezza: Dotoli-Fiorino, Viaggiatori Francesi in Puglia nell’Ottocento, Vol.I, 1985; Viaggiatori Francesi in Puglia nell’Ottocento, Vol.II, 1986; Viaggiatori Francesi in Puglia nell’Ottocento, Vol.III, 1987; Viaggiatori Francesi in Puglia nell’Ottocento, Vol.IV, 1989; Viaggiatori francesi in Puglia nel Primo Novecento, Vol. V, 1988; Fiorino, Viaggiatori francesi in Puglia dal Quattrocento al Settecento, Vol.VI,1993; Fiorino, Viaggiatori francesi in Puglia dal Quattrocento al Settecento, Vol.VII, 1993; Dotoli-Fiorino, Viaggiatori Francesi in Puglia nell’Ottocento, Vol.VIII, 1999.

[28] La Fiorino pubblica anche del Desprez tutti i suoi disegni noti realizzati sulla Puglia. Fulvia Fiorino, op. cit., pp. 241-334.

[29]Cosimo Giannuzzi, La veduta settecentesca di Maglie nella ceramica. Dal “Voyage pittoresque” del Saint Non alla ceramica Ironstone, Maglie, Erreci Edizioni, 2007.

 

Vedi anche:

Il centro storico di Maglie nei paesi nordici europei – Fondazione Terra D’Otranto

Brindisi: il Seminario* in un disegno di Desprez – Fondazione Terra D’Otranto

Lecce, piazza S. Oronzo in un disegno della fine del XVIII secolo – Fondazione Terra D’Otranto

La veduta settecentesca di Maglie nella ceramica – Fondazione Terra D’Otranto

 

Ricordo di Leandro Ghinelli

di Paolo Vincenti

 

Docente, letterato, scultore. Leandro Ghinelli (1925-2015), nato a Firenze ma salentino d’adozione, è stato un intellettuale poliedrico, multiversato, di quelli che forse a cagione di una enorme inventiva e della eterogeneità dell’ispirazione, a volte mancano di grandissimi riconoscimenti. Infatti, egli, pur appartenendo cronologicamente alla generazione del dopoguerra, non può essere assimilato a nessuna corrente artistica salentina o categoria letteraria ben definita, secondo il concetto inteso da Oreste Macrì di comune matrice archetipica, ideologica, metodologica, ambientale e amicale.

Se cioè dovessimo seguire la teoria generazionale formulata dal grande critico letterario (che compì al contrario il percorso di Ghinelli: da Maglie a Firenze), potremmo dire che in quel milieu che connota studiosi e artisti di una certa temperie culturale Ghinelli non rientra. Questo è sicuramente un vantaggio, perché per lui, come per altri oriundi salentini, non si corre il rischio di chiusura provinciale, più chiaramente di quel vieto provincialismo che condiziona gli studi di certi eruditi troppo autoreferenziali, né, di converso, di stucchevole, quasi estatica, acritica ammirazione per il territorio che sovente irrora l’ispirazione dei visitatori stranieri.

Ghinelli cioè si pone a metà via, fra l’amore unito alla gratitudine per questa terra che lo aveva accolto, e la consapevolezza dei suoi (di essa) limiti; lontano, sia nell’espressione artistica che in quella letteraria, dalla maniera, intendendo con questo termine tutto ciò che di specioso, affettato, ridondante, scontato, venga prodotto dalla gonfiezza del cuore.

Insegnava italiano e storia nelle scuole superiori. Per tutta la carriera, produzione artistica e scrittura hanno proceduto di pari passo, similmente ad altri suoi illustri colleghi come Vincenzo Ciardo, Lino Paolo Suppressa, Lionello Mandorino.

Fra le prime realizzazioni, vanno segnalati svariati ritratti in terracotta e bronzo: Leopardi (1963), Beethoven (1963), Paolo VI (1963), Petrarca (1964), Manzoni (1964), Verdi (1964), Dante (1965), D’Annunzio (1968), Pirandello (1968).

Importante, per Ghinelli, fornire una contestualizzazione teoretica alle proprie produzioni. L’autore cioè tiene a delineare i principi del suo orientamento artistico, “che non si esaurisce nell’abilità manuale di un raffinato mestiere, né tanto meno nella invenzione del nuovo a tutti i costi, ma coinvolge la meditazione sui fini e sui valori dell’esistenza umana.” [1]

Nel saggio Scultura. Il ritratto, scrive: “proprio la consapevolezza estetica dello scultore e la sua maturità di stile, di pensiero e di cultura lo rendono capace di realizzazioni d’arte che non sono semplici esecuzioni manuali o pedanti ripetizioni di modelli stereotipati, i quali possono ben rientrare in un canale di scuola antica o moderna, ma non fanno Arte, se non c’è l’Artista.”[2]

Negli anni Settanta, realizza sculture come la Maternità (1973), la Danzatrice (1977), l’Approccio (1977), Il volo (1977), la Creazione (1983), sempre con una costante attenzione all’interiorità dei personaggi ritratti, con una vereconda tensione verso l’armonia delle forme, un’armonia pacificatrice degli umani contrasti, di quel disorientante caos della vita moderna dal quale l’autore si dichiarava confuso, destabilizzato. E basta guardare le aeree linee delle sue sculture, le loro morbide volute, appena mutuate dall’arte classica ma al tempo stesso moderne, per rendersene conto.

Non ci sono, nelle forme stilizzate di Ghinelli, asprezze, stacchi improvvisi, ma soffici rotondità; come scrive Donato Valli “le opere di Leandro Ghinelli portano il segno di una istintiva gioia creatrice; l’imperante verticalismo che caratterizza in maniera decisa tutta la sua produzione più significativa è in effetti la traduzione concreta di un’ascesi che è insieme fiducia di comunicazione nel duplice livello della umana solidarietà e della divina ansia; è, cioè, volontà espressa di innalzamento spirituale, di speranza per sé e per gli altri, gioia di illuminazione attraverso la materia plasmata…”[3].

Una ragione superiore è la fede, intimamente vissuta dall’autore, che si esprime in quel verticalismo, di cui parlava Valli, che emblematizza l’ansia di ascesi di Ghinelli, la sua esigenza di mettersi in contato con il divino; e infatti le sue opere sono “caste nel loro ascetismo”, come scrive Giuseppina De Giosa, e “i suoi nudi levigati ed ariosi nella loro leggerezza quasi impalpabile”[4].

Nel 1980, realizza il busto bronzeo di Papa Giovanni Paolo II, poi collocato, nel gennaio del 1999, nel Duomo di Lecce in onore del Vescovo Cosmo Francesco Ruppi, nel decennale del suo episcopato.

Scrive Gigi Montonato su “Presenza Taurisanese” che “il Ghinelli ha colto Giovanni Paolo II in un atteggiamento di grande e intensa meditazione. Nel volto del Papa, teso nella concentrazione e nella preghiera, sono visibili i segni di una profonda sofferenza ma anche di una smisurata fede”. Quella di ritrattista diventa ben presto un’attività febbrile per la quale si rincorrono le commissioni da parte dei più disparati enti pubblici e privati.

Realizza il monumento al tenore Tito Schipa, collocato nella Villa Comunale di Lecce, nel 1980, i busti dedicati a Enrico Fermi, per l’ I.T.I.S. E.Fermi di Lecce, 1981, e a Grazia Deledda, per l’I.T.F.S di Lecce, nel 1985, il busto a Oronzo Massari nel 1983 e a Pietro Lecciso nel 1986, entrambi per il Tribunale di Lecce, quello a Padre Filippo Ciotta, che si trova nell’Istituto Calasanzio di Campi Salentina, 1984, quello a Enrico Mattei, nell’I.T.I.S. E.Mattei di Maglie, 1991. Si avverte lo sforzo di dare spirito, oltre che corpo, alla materia; nel tracciato che segue il suo modellare la scultura si piega all’ artefice solo quando questi riesca a imprimerle quel soffio, sappia trasfondere nell’opera il messaggio che vuole comunicare. Se questo messaggio è sostenuto da fermo volere, da incessante ricerca, il modellato dinamizzato da una sapiente resa plastica, l’opera, da artigianato, mera esecuzione, riceve quel fiat che la fa diventare arte, per la quale non sarà mai pronunciato invano il motto oraziano dell’ “exegi monumentum aere perennius”.

Negli anni, Ghinelli tiene moltissime mostre e riceve numerosi riconoscimenti.

Nel frattempo scrive poesie, racconti[5] e pubblica diversi libri. Nella scrittura, fin dagli esordi, la cifra stilistica che lo caratterizza è quella dell’ironia, che è però un’arma spuntata, cioè si stempera nel sarcasmo, nella leggerezza, raramente nel velato cinismo, se è vero che una vena giocosa percorre sottilmente tutta la sua produzione. La sua ironia non è una fiamma al calor bianco, come quella dei motteggiatori latini, per intenderci, né quella salace, irridente, di un Aretino. Ghinelli non è spirito maledico, la sua è poesia fresca che trova nei modi del suo apparente disimpegno il terreno coltivabile, l’humus insomma, per la sua creatività.

Nel 1999 pubblica Pensieri e riflessioni,[6] con Presentazioni di Aldo Vallone, Giovanni Invitto, Salvatore Valitutti e Enzo Marcianò, e con una Nota dell’autore, Cenni sul mio metodo, che ribadisce l’urgenza per Ghinelli di scritti di metodologia, come già accaduto con Il posto dell’ arte nella civiltá tecnologica, nella rivista “La Zagaglia”[7]  e poi con Perché si fanno ritratti, in “Espresso Sud”[8].

Il libro Pensieri e riflessioni raccoglie una serie di osservazioni critiche, a mo’ di diario, scritte dall’autore nell’arco temporale 1971-1987, alcuni delle quali piccoli saggi filosofici. Nel 2010 pubblica E apparve la donna, raccolta di poesie, in parte già edite su riviste[9]. Ma Ghinelli è anche un raffinato critico letterario: si legga la sua dottissima esegesi della raccolta di poesie Segni nostri, di Donato Moro[10], o quella di Una vita in versi di Lucio Romano[11], o ancora del poema Gerusalemme di Lidia Caputo[12].

“Scultore raffinato e poeta di profonda sensibilità, Leandro Ghinelli è sicuramente l’espressione di un inedito umanesimo che sa cogliere ed esternare gli aspetti più intimi, delicati e veri dell’animo e della vita”, scrive Mario De Marco, in ringraziamento per il dono di una piccola testa in terracotta di Michelangelo[13]. Nel 2007, viene inaugurato nel cortile di Palazzo Adorno a Lecce il busto di Aldo Moro – con una epigrafe commemorativa scritta da Giovanni Pellegrino -, frutto di un percorso cominciato nel 2004 quando il Nostro realizzò un piccolo busto in terracotta dell’illustre statista assassinato dalle Brigate Rosse, che allo scultore stava particolarmente a cuore.

Quella semplice opera, presentata a Maglie nel 2004, colpì molto l’On. Francesco Rausa, che si fece promotore presso la Provincia di Lecce, allora presieduta dal Sen. Pellegrino, dell’esigenza di realizzare un’opera più imponente dedicata al politico di origini magliesi. Dopo un certo iter burocratico, si giunse alla realizzazione del grande busto in bronzo e alla sua consegna alla Provincia di Lecce da parte di un commosso e grato Ghinelli. L’opera riscosse unanime approvazione ed anche il consenso dell’On. Giacinto Urso, dell’On. Giorgio De Giuseppe, e della critica specializzata, perché la statua esprime al meglio la figura dell’On. Moro, e quella “pensosità malinconica tipica del grande statista”, come scrisse Angelo Centonze in “Note di storia e cultura salentina”[14]. Soprattutto, questa statua costituiva un punto di concordia, come scrisse Gigi Montonato in “Presenza Taurisanese” [15], facendo riferimento alle polemiche che hanno accompagnato la realizzazione di altre statue ad Aldo Moro, come quella di Maglie che raffigura il leader della Democrazia Cristiana con “L’Unità” sotto il braccio, oppure quella di Acquarica del Capo che venne addirittura vandalizzata.

Negli anni Duemila, Ghinelli realizza i busti di Gerolamo Comi, Vittorio Bodini, Vittorio Pagano, Ennio Bonea. Nel 2013 esce Canti della vigilia (poesie), per le Edizioni di “Presenza Taurisanese”[16], una raccolta di poesie voluta e curata da Gigi Montonato, che raccoglie insieme componimenti poetici già editi. Negli ultimi anni, infatti, Ghinelli pubblica moltissime poesie su riviste come “Il Galatino”, “Presenza”, “Note di storia e cultura salentina” e on line su “www.culturasalentina.it”.

Sulla copertina del libro, un’opera dello stesso Ghinelli: “Le tre Grazie Madri”. Poesie che vivono in una dimensione sospesa, quasi rarefatta, queste, sempre sottese di un lirismo soffuso, ma sorrette da una conoscenza dei mezzi tecnici, gli strumenti del versificare, di cui la robusta formazione classica fornisce padronanza all’autore. E ancora, nel 2014, pubblica Disincanti (Versi), sempre nelle edizioni di “Presenza Taurisanese”[17].

Questa silloge, quasi a bilanciare l’impegno e l’intimismo della precedente, si compagina di poesiole più leggere, scherzose, bagatelle o “nugae”, come le definisce il curatore Gigi Montonato, che firma la Presentazione del libro. In quest’ultima opera, la vena giocosa dell’autore si esplica ben al di là e a dispetto dei suoi novant’anni di età, nei modi di un colto divertimento, come di chi giunto sulla soglia dei disincanti, appunto, non esita a mettere in berta e burletta il mondo e le sue storture e sceglie per far questo un linguaggio piano, scorrevole, che si avvale di versi liberi, con immagini tratte da quel mondo favolistico da cui più volte ha preso ispirazione. Ai componimenti, si accompagnano le opere in terracotta dello stesso autore, ritratte in calce agli scritti, come per un ultimo sinestetico messaggio di arte e scrittura compagne alla mèta.

 

Note

[1] Dalla sua Pagina on line.

[2] Leandro Ghinelli, Scultura. Il ritratto, in “Contributi”, Soc. Storia Patria per la Puglia sezione Maglie, n.3-4, 1987, p.63.

[3] Donato Valli, Motivi ispiratori di Leandro Ghinelli, scultore, in “Sallentum”, E.P.T. Lecce, n.VI, 1983, pp.204-205.

[4]Giuseppina De Giosa, L’arte di Leandro Ghinelli, in “Il Secolo d’Italia”, 2 Giugno 1983.

[5] Leandro Ghinelli, Due vampire bionde, in “Note di storia e cultura salentina”, Soc. Storia Patria Puglia, sezione Maglie, n.VII, Lecce, Argo,1995, pp.279-286. Idem, Vino frizzante, Ivi, n. VIII, Lecce, Argo, 1996, p.36. Idem, Uno sguardo al cammino della storia, Ivi, n.IX, Lecce, Argo ,1997, pp.335ss. Idem, Lo scampanio del mondo nuovo, Ivi, n.XV, Lecce, Argo, 2003, pp.453-456. Idem, Ridiculez, Ivi, n. XVIII, Lecce, Argo, 2006, pp.253-258.

[6] Idem, Pensieri e riflessioni, Lecce, Argo Editore, 1999.

[7] Idem, Il posto dell’arte nella civiltà tecnologica, in “La Zagaglia”, n.42, Lecce, 1969, pp.184-196.

[8]Idem, Perché si fanno ritratti, in “Espresso Sud”, Aradeo, maggio 1985, p.17.

[9] Idem, E apparve la donna, Bari, Laterza Editore, 2010.

[10] Idem, Uno studio sulla poesia di Donato Moro, in “Note di storia e cultura salentina”, Soc. Storia Patria sezione Maglie, n. X-XI, Lecce, Argo, 1998-99, pp.213-256.

[11]Idem, Una vita in versi” di Lucio Romano, Ivi, n.XIII, Lecce, Argo, 2001, pp.189-196.

[12] Idem, Gerusalemme, un dramma di coinvolgente attualità di Lidia Caputo, Ivi, n.XVI, Lecce, Argo, 2004, pp.375-378.

[13]Mario De Marco, La scultura e l’arte di Leandro Ghinelli, Ivi, n.XVII, Lecce, Argo, 2006, p.341.

[14] Angelo Centonze, Un’opera del maestro Leandro Ghinelli nel Palazzo Adorno di Lecce, Ivi, n. XIX, Lecce, Argo,2007-2008, pp.186-187.

[15] Gigi Montonato, Il busto di Aldo Moro dello scultore Leandro Ginelli, in “Presenza Taurisanese”, n.203, Taurisano, giugno-luglio 2007, p.12, dove è riportato anche uno scritto esplicativo dello stesso scultore.

[16] Leandro Ghinelli, Canti della vigilia (poesie), I Quaderni del Brogliaccio, Edizioni di “Presenza Taurisanese”, Taurisano, n.10, marzo 2013.

[17] Idem, Disincanti (Versi), I Quaderni del Brogliaccio, Edizioni di “Presenza Taurisanese”, Taurisano, n.12, aprile 2014.

Libri| Il sermone

di Paolo Vincenti

 

L’ora della messa, l’immagine raffigurata nella copertina del libro, acquerellata dal disegnatore Piero Pascali, rende icasticamente il senso di questo romanzo uscito dalla penna di Pino Spagnolo e forbitamente intitolato Il sermone.

Il racconto è ambientato in un Sud immaginario, copia carbone del nostro Meridione d’Italia, in un piccolo paese che diventa metafora del mondo: un mondo di violenze e soprusi, di sommovimenti carsici e di scoperte angherie, di cinismo e corruzione. Strumentale alla narrazione è l’epifania di questo mondo ostile, popolato da disperati, derelitti, spregiudicati affaristi, poveri Cristi degli anni Duemila; di un Sud dove, nonostante secoli di storia e di lotte civili, continua a dominare la legge del più forte, una sottocultura vischiosa che tutti involve nella sua fatale pania. Nel romanzo, tema di fondo è il motto primum vivere, che polarizza tutti i personaggi in campo, nemmeno mai sfiorati dal deinde philosophari che completa l’assioma latino di antica memoria, perché troppo presi a gestire un hic et nunc di quanto mai precaria quotidianità.

Pino Spagnolo, dotato di una buona cultura di base, è evidentemente tributario ai grandi autori dell’Ottocento e del Novecento, soprattutto i siciliani, come Pirandello, Sciascia, Consolo, che hanno costituito le sue letture privilegiate, e si accosta, dal punto di vista del modo letterario, a quel metodo di “mimetica inferiore” teorizzato da Northrop Frye che consiste nel creare un “effetto di reale”, per dirla con Roland Barthes (nella sua argomentata pretesa di scardinare il realismo del romanzo), che produce sicuro rispecchiamento nel lettore medio (inteso in una accezione puramente connotativa del termine), nel quale lo stesso autore si riconosce. Vanno ascritti a suo merito l’assenza di qualsiasi ridondanza o barocchismo e la scarsa tendenza ad abbandonarsi alla contemplazione estatica del paesaggio, che, anzi, non compare, se non ridotto negli intermezzi della testura narrativa, fra le varie scene. Così la trama, sapientemente orchestrata, si dipana in uno “stile di cose”, diremmo, se non sapessimo di abusare di una definizione data da Pirandello alla scrittura di Verga, in contrapposizione allo“stile di parole” di quella di D’Annunzio, comunque lontana da qualsiasi psicologismo di sveviana memoria.

Si tratta di un romanzo centrifugo, animato da una miriade di personaggi appena tratteggiati dalla penna del loro creatore – l’unica vicenda di più consistente compiutezza è quella di Padre Santino Vantaggiato e del doppio Vescovo – in una polifonia tragicomica che ricorda La giostra di William Somerset Maugham, che però è un romanzo calato nell’Inghilterra vittoriana del tardo Ottocento, dalle connotazioni tipicamente borghesi, mentre questo di Spagnolo riflette gli umori di ambienti basso proletari e sclerotizzati di una società “gattopardesca”, ferma in una immobilità senza soluzione, divorata da una sorta di inerzia, quasi abulia, nella quale, proprio come nella lezione del famoso romanzo di Tomasi di Lampedusa, tutto cambia perché non cambi nulla.

In quell’inframondo che è il paesino in cui si tiene il sermone del titolo, in corpore vili, potremmo dire, ecco concatenarsi vicende e situazioni slabbrate, squallide, banali, che si intrecciano, pur mantenendo la propria individualità di nuclei tematici a sé stanti ma tangenti quello del doppio/ falso Vescovo che apre e chiude la fabula.

Una visione certamente non pacificata della realtà, tutt’altro che utopica, informa la trama del romanzo, che ha un forte ancoraggio all’esperienza biografica dell’autore, con una analisi spietata della società odierna, fatta oggetto di descrizione cruda, straniante, in certi punti addirittura disturbante, latamente surreale (come conferma la massima epigrafata in esergo); la realtà, cioè, viene dissezionata anche nei suoi dettagli più prosastici, fino a sconfinare, in rare occasioni, nel grottesco. L’autore si rivela così ottimo osservatore del mondo e degli uomini. E se fa una breve irruzione l’elemento metafisico e fantastico, verso la chiusura del racconto, prima dell’agnizione finale, ciò non toglie che la narrazione si mantenga sempre fedele al dato oggettivo.

Nell’opera, il narratore è extradiegetico, cioè esterno alla storia, si limita a raccontare, disponendo i personaggi e i dialoghi lungo l’asse inclinato della fiction. La sua scrittura è piana e regolare, del tutto godibile.

Come già detto, Spagnolo conosce bene la realtà che racconta, sembra che ne sia partecipe. Il suo potrebbe definirsi un realismo della coscienza, come è stato detto per Grazia Deledda, solo che la materialità del vivere quotidiano non è spiritualizzata, come nella grande scrittrice sarda, non è riscattata da alcuna forza superiore, trascendente, non v’è alcun disegno che possa ordinarla verso un fine di progresso. Rimane la visione sconsolata di un mondo aduggiato, inaridito, in queste pagine di Spagnolo, che tuttavia ci sanno regalare, attraverso i loro quadretti di genere, momenti di brio e di sana ilarità.

Libri| Storia di una stella

 

di Paolo Vincenti

 

Rino Duma, Presidente del Circolo Culturale Athena, nonché direttore della nota rivista galatinese Il filo di Aracne, ha pubblicato svariate opere, fra le quali i romanzi La falce di luna ( Edipan, 2004), La scatola dei sogni (Edipan, 2008), La donna dei lumi ( Lupo Editore, 2011). Lo avevamo lasciato con La Taranta. Il dialetto galatinese (ovvero la lingua del popolo), pubblicata dall’Editrice Salentina (2016), una raccolta di commedie, poesie, proverbi, modi di dire, soprannomi, filastrocche, indovinelli, ed altro, in dialetto galatinese.

Attivo operatore culturale, Duma è stato relatore in molte conferenze di carattere storico, soprattutto sul tema del Risorgimento italiano. Tuttavia, c’è un’altra passione che costella la sua vita, ed è quella per il calcio. Una passione tanto forte che lo ha portato a cimentarsi in una impresa editoriale che non esiteremmo a definire “titanica”, ovvero quella di condensare in un volume 100 anni di storia del calcio galatinese. Storia di una stella. U.S. Pro Italia Galatina-U.S. Galatina 1917-2017 (Editrice Salentina, 2018) è la sua ultima pubblicazione, con l’impaginazione e la cura grafica di Salvatore Chiffi. La stella del titolo e che campeggia sulla maglia dei due giocatori ritratti nella bellissima immagine di copertina è quella della Pro Italia, la squadra del cuore di Rino Duma, della quale, ora più che mai, è considerato il tifoso numero 1, come attesta nella Presentazione del libro Adriano Margiotta. E a ben vedere, il “prof.”, come tutti amano chiamarlo, si è reso benemerito del calcio cittadino, avendo voluto sostenere da solo il faticosissimo impegno di consegnare ai posteri un volume così ponderoso, per festeggiare il centenario della fondazione della Pro Italia Galatina.

Ha motivo di rivendicare con orgoglio i propri meriti, lo stesso autore, che nella Prefazione, scrive: <<ho speso un anno e mezzo nell’indagare, rovistare, scoprire, appuntare, collegare, assemblare, ritoccare, definire e, finalmente, concludere. La mia è stata una vita di clausura condotta nella biblioteca “Pietro Siciliani” di Galatina nella torrida estate del 2016. Ogni giorno e per diversi mesi, dalle 8.30 alle 13.00 e dalle 15.00 alle 18.00, puntualmente presente in quella “casa del silenzio”, a sfogliare giornali e riviste>>.

Davvero uno sforzo meritevole del nostro plauso, quello di ricomporre il puzzle che era la storia della squadra di calcio. Duma cita le preziose fonti della stampa locale alle quali ha attinto – in primis “Il Nuovo Cittadino”, “Il Corriere di Galatina”, “Il Quotidiano”, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, “Il Galatino”, “Galatina sport”- e ringrazia i suoi informatori, per la consulenza fornita su schemi di gioco, giocatori, formazioni delle squadre, compagine sociale, allenatori, presidenti, episodi vari di una lunga storia agonistica. Notevole anche l’archivio personale dell’autore, studioso di lungo corso e aduso allo scavo erudito e alla ricerca storica. È chiaro che la ricostruzione della carriera di una squadra di calcio non possa essere sostenuta solo dal rigore scientifico dello studioso, ma debba essere in più vivificata dall’amore del tifoso, che Duma non fa nulla per nascondere ma anzi palesa ad ogni rigo del suo libro.

La narrazione si svolge come un racconto, cui fornisce attrattiva quell’alone di leggenda che da sempre circonda le imprese agonistiche dei grandi protagonisti dello sport, le cui gesta sono state immortalate dalle più prestigiose firme del giornalismo sportivo, uno su tutti il grande Gianni Brera. Nel volume di Duma, all’intrinseco valore documentale si unisce la componente del ricordo e quindi della nostalgia, aspersa fra le pagine di questo gradevole album di vita calcistica, che potremmo definire generazionale.

La ricerca pittorica di Roberta Fracella

di Paolo Vincenti

 

Le forme geometriche sono la ricorrente nelle pitture materiche di Roberta Fracella, di Nardò. Il cerchio è leit motiv di tutta la sua produzione. Il cerchio, simbolo antichissimo e presente in tutte le culture e religioni, rappresenta la perfezione; esso indica armonia, che è il fulcro del pensiero filosofico di Pitagora, la legge cosmica che regola la nascita e la morte di tutte le cose.

Da queste figure geometriche, spaziali, parte la ricerca pittorica della Fracella, si dipanano come fili di una matassa le sue esplorazioni del mondo, caratterizzate sempre da un elemento monocromatico, il bianco, che riesce quasi ad abbacinarci dal punto di osservazione in cui il nostro occhio si fonde con le tele. Studiare la semiotica della sua arte visiva, cioè comprendere cosa questi quadri vogliano significare, trattandosi di arte informale, non è agevole, poiché la pittura di Roberta non rientra né nel figurativo né nel puramente astratto. Vi è, in queste opere di tecnica mista, una commistione fra pittura e scultura, secondo l’insegnamento delle avanguardie storiche e del loro messaggio fortemente provocatorio. La sua pittura può essere definita “informale” per il tipo di materiali utilizzati, ma per quanto riguarda il contenuto è vicina all’astrattismo che fa uso di forme geometriche e di rigore matematico. Se tuttavia occorre guardare e riguardare queste opere per comprenderne a pieno il messaggio o almeno tentare un tracciato di senso, è vero di converso che non è arte di un momento, che questa pittura riesce a stratificarsi, a durare. Le sue tele sembrano i singoli episodi di una narrazione artistica che è partita in sordina da alcuni anni ma che solo recentemente si è rivelata al pubblico, a dispetto di remore, incertezze e fors’anche di una certa ritrosia o più semplicemente riserbo nutriti dall’artista. E allora ci lasciamo incantare da opere come Il cerchio del mondo, Il cerchio come numero, Bolle di vita, La ruota della vita, simmetrie, Big Bang o anche quelle che compongono il ciclo “L’Arché”.

“Le tele della Fracella”, scrive Domenica Specchia, “vanno osservate, sentite, indagate con attenzione. Oltre la particolarità del significato, a volte ermetico, si apre un mondo di riflessione, che è sicuramente la ricchezza maggiore che l’artifex riversa nelle sue originali creazioni[1]. Attraverso l’utilizzo dei materiali, infatti, Roberta esprime la propria concezione del mondo. Il bianco simboleggia la luce, elemento fondante e ancora di salvezza dal buio delle tenebre e della morte. È come se con il total white l’artista voglia celebrare l’esplosione della vita stessa, il ribaltamento delle due note categorie nicciane di apollineo e dionisiaco. Nell’antifigurativismo dei suoi quadri, segue solo la voce della propria interiorità. Molto convincente peraltro è il mix tra forma e contenuto, il perfetto bilanciamento fra immanenza, data dalla matericità delle sue opere, e trascendenza, data dal messaggio o almeno dall’anelito che la anima. Ché non c’è un approdo, uno sbocco compiuto per adesso, ma piuttosto una spinta, un vagheggiamento, nel gesto pittorico e nella sua ricerca di comunicazione.

A ben guardare, si scorgono un’aspirazione, un desiderio, in direzione di una armonica comunione fra la modernità dei tempi odierni, che la Fracella, donna di oggi, vive a pieno, e il messaggio antico e universale che viene dagli elementi archetipici che utilizza nei dipinti, e che ci invita alla riflessione, con un richiamo che non si può rifiutare, che ammalia, come il canto delle sirene.

 

[1] Domenica Specchia, La realtà nell’astrazione formale, in Roberta Fracella, Catalogo, s.d.

Libri| Rapsodie leccesi

Prefazione di Paolo Vincenti

 

Se l’arte è rivendicazione di una verità certo diversa rispetto a quella della conoscenza sensibile, intellettuale o del comune sentire, il suo contrappunto è l’attraversamento di quell’ampia zona del vagheggiamento, il tentativo di appropriarsi dell’inaspettato, l’evento capace di spezzare il continuum temporale con le sue convinzioni “dovute a una deviazione mentale scambiante il male per il bene di cui non ci si è accorti e che, durando, alla fine paradossalmente convince”, come scrive l’Autore. Mario Franchini, medico radiologo in pensione, per molti anni Primario di Radiologia presso l’ospedale “S. Giuseppe di Copertino”, ha sempre unito all’arte ippocratica l’amore per le belle lettere. In particolare, ha pubblicato, nel 2005, Japigia. Uno Stato sovrano del IV secolo a.C., (Capone Editore), una consistente opera in due volumi, in cui trattava la storia del nostro territorio con un approccio certo singolare, ossia non quello accademico dello storico supportato da fonti scientifiche, ma quello del letterato liberamente ispirato. Ha poi pubblicato, sempre con l’editore Capone, nel 2006 l’opera Affinché e nel 2008 Sette.

Questo lavoro del dottor Franchini, epigono di una lunga schiera di medici umanisti di cui è costellata la storia letteraria italiana e nello specifico salentina, è una testimonianza letteraria sui generis, dai riecheggiamenti oracolari, una rielaborazione di materiale umano, fatto di aneddoti, ricordi, riflessioni, raccolto durante l’arco della vita, e riletto attraverso una libera associazione di idee, dove l’io lascia spazio al subconscio nella ricerca di una verità altra, che prescinda da quel gioco di interpretazioni consolidate, rese persuasive e interiorizzate dall’Über-Ich freudiano, nella sua eterna contrapposizione con le forze inconsce che sfuggono alla coscienza. L’intento è una sperimentazione letteraria, che adotta la tecnica della scrittura automatica, molto vicina a quella della corrente del surrealismo, in cui il mondo razionale dell’artista viene messo tra parentesi, sospeso, in una sorta di epochè scettica, per dare spazio alla libera creatività scaturente dall’inconscio.

In questo flusso di episodi, concetti, idee, a volte anche distanti tra loro, l’Autore cerca quella sovversione prospettico-interpretativa della realtà, prendendo a modello l’artista greco Fidia, come egli stesso scrive nella Prolessi: “Invocare i Santi Numi appunto per stabilire causa ed effetto per rendersi conto del fenomeno e correggere la condotta come fece Fidia che aumentò all’uopo l’altezza delle colonne del centro del Partenone, curvandole pure, affinché sembrassero eguali e dritte da lontano. Senza tale accorgimento infatti ne sarebbe derivata turba prospettica dovuta all’illusione ottica abbassante le colonne stesse in quel punto. E c’è da dire che ciò accade regolarmente per cui si segue lo stesso criterio, quello cioè di mettere ragazze di maggiore statura al centro, nella disposizione della fila in frontale delle ballerine sul Palco Scenico.” Un linguaggio metapoetico, il suo, con una sintassi franta da una fitta ragnatela di puntini di sospensione come a voler allungare ad libitum il detto, legandolo idealmente al non detto, frasi composte da una sola parola e parole composte da una sola sillaba, punti interrogativi ed esclamativi, larghissimo uso di segni di interpunzione. A dare basamento ai racconti sono eventi reali – la Belle Epoque, il Fascismo, la Seconda Guerra Mondiale, il dopoguerra-, e luoghi reali – Lecce, Tuglie, Carmiano, Novoli, il Salento in genere -, sui quali si innesta l’invenzione letteraria.

Il contenuto di questo volume non è un mero divertissement, ma uno sforzo di sottrarre il concetto di verità all’esclusivo dominio del già dato, persino di quel sensus communis che il Vico vuole legato all’eloquentia, connessa all’idea di un sapere retorico, e alla phronesis, intesa come sapere pratico, legato ad una certa idea di bene riconosciuta dalla comunità. E qui il cerchio si chiude.

Una scrittura, insomma, coraggiosa e scevra da pregiudizi, che si pone l’obiettivo di liberare la visione del mondo dell’Autore e di condurlo fino alle soglie di una domanda fondativa del senso profondo di ciò che siamo, in quanto insieme di eventi e ricordi correlati. E in questo “esercito mobile di metafore, metonimie, antropomorfismi”, come scriveva Nietzsche, “in breve una somma di relazioni umane, che sono state sublimate, tradotte, abbellite poeticamente e retoricamente, […]le verità sono illusioni, delle quali si è dimenticato che appunto non sono che illusioni, metafore, che si sono consumate e hanno perduto di forza, monete che hanno perduto la loro immagine e che quindi vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete”.

Parafrasando il filosofo tedesco, potremmo allora dire che quello dell’Autore sia un tentativo, ben riuscito, di rimonetizzare quel metallo, in cui troppo spesso abbiamo trasformato le nostre convinzioni e il nostro vissuto.

Poeti per Ruffano

di Paolo Vincenti

Ruffano: il suo paesaggio viene cantato in poesia da vari rimatori fra Ottocento e Novecento. I suoi “colli ridenti”, la pace e la salubrità dell’aria del suo verde poggio, la collina della Madonna della Serra, attirano spiriti pensosi in cerca di silenzio e ispirazione. Fra questi, Carmelo Arnisi, a cui la Pro Loco di Ruffano nel 2003 ha dedicato un elegante volume che lumeggia la figura di questo maestro elementare vissuto fra Ottocento e Novecento .
Questi i delicati versi del poeta: “O del villaggio mio colli ridenti, / sparsi d’ulivi scintillanti al sole;/ o d’aria pura libere correnti /profumate di timo e di viole;/ o boschetti dai verdi allacciamenti /dove l’augelli intessono carole;/ come son dolci i vostri allettamenti, / come son dolci le vostre parole!/ e chi potrà mai dir quali favori/ voi concedete a l’uom, quali ricchezze?/ il vino ai vecchi, a le fanciulle i fiori, / a tutti il pane che la vita allieta…/ e quanti sogni poi, quante dolcezze / serbate pel mio cuore di poeta!/” .
La collina della Madonna della Serra di Ruffano attrae anche studiosi che la frequentano per i loro interessi eruditi: fra questi il grande scienziato Cosimo De Giorgi, che ammira “il suo paesaggio davvero pittoresco” e la sua “flora così ridente e rigogliosa” che “conforta l’occhio dell’artista” . Così anche Raffaele Marti, che tratta del Bosco Belvedere, enorme riserva di caccia che un tempo occupava le aree di svariati comuni del medio Salento, a partire da Ruffano e Supersano ; in tempi più recenti, Aldo de Bernart e Mario Cazzato hanno descritto le caratteristiche orografiche, storiche e artistiche del poggio ruffanese .
Il fratello di Raffaele Marti, il poeta Luigi, anche se non cita Ruffano, ne canta i lieti colli in un delizioso bozzetto nella sua opera Il Salento, in cui dipinge lo spettacolo del paesaggio della Iapigia estrema con il tocco del pittore. “Salve Japigia estrema! Ah non per anche / l’improbo ferro strusse i tuoi boscheti / Piniferi! Le cime ancor non stanche / del Belvedere tuo, de’ tuoi querceti!/ Spettacol nuovo, a chi per queste franche / aure trascorre, rimirar su i lieti / colli, dal piano rampicanti e bianche, / le tue borgate uscir da gli uliveti!/ Spettacol molle i tuoi cieli orientali!/ e tra le piante, al lume delle stelle, / le tue marine tremolari innanti, / sonare i campi d’opere rurali / e di muggito d’animali, belle / fanciulle l’opre accompagnare a i canti! /” .
Ma c’è anche un poeta non ruffanese che scrive delle campagne ridenti e dei sentieri odorosi di una Ruffano da cartolina, ritratta in una immagine idealizzata dal suo occhio sensibile. È Leonardo Mascello, “un poeta di passaggio da Ruffano nei primi del Novecento”, scrive Aldo de Bernart ,  che riporta anche alcuni versi del componimento di Mascello dedicato a Ruffano: “O paesetto raccolto sul poggio, / coronato di verde in giro, in giro, / sotto un cielo di perle e di zaffiro, / che, al tramonto, s’incende e divien roggio;/ o campagne ridenti, o praterie / odoranti di timo e di mortella;/ o sentieri dei monti, o pia cappella /erma e perduta ne le grige ombrie/ degli ulivi sul colle della Serra;/ o del padule pallidi acquitrini, / molli canali e torpidi pollini, / quanta tristezza ora per voi m’afferra!/  (“Nostalgia”).  Versi semplici e cantabili, nei quali si può riconoscere una chiara descrizione della collina di Ruffano.
Ma chi era questo poeta di passaggio da Ruffano? In realtà, egli fu sacerdote della Parrocchia Natività Beata Vergine Maria dal 1903 al 1907, precedendo Don Francesco Fiorito, al quale è dedicata la lirica.  Una prima scarna biografia è disponibile in rete, sul sito del Comune di Castrignano dei Greci, il suo paese nativo. È riportato: «Leonardo Mascello, poeta e sacerdote, nacque a Castrignano dei Greci nel 1877 e morì ad Olinda in Brasile dove insegnò lingua e letteratura italiana.» . Interessante, ma poco. Allora consultiamo il libro di Angiolino Cotardo, Castrignano dei Greci, che riporta in aperura la lirica di Leonardo Mascello, “Paese natio” dedicata a Castrignano dei Greci, ma non dice sul poeta se non le stesse note biografiche riportate nel sito, specificando che la lirica “Paese natio…” è contenuta nel suo libro di poesie Foglie al vento pubblicato ad Olinda nel 1910 . Reperiamo il libro di Leonardo Mascello presso la Biblioteca Comunale “Piccinno” di Maglie e all’interno è scritto che esso è stato pubblicato in Belgio . Il volumetto è dedicato dall’autore a “Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Dom Luiz Raymundo Da Silva Britto Vescovo di Olinda”, al quale indirizza anche parole di gratitudine, invero gonfie di retorica, nella sua Introduzione. Scorrendo le pagine del libro, diviso in varie sezioni, ritroviamo la lirica “Paese Natio”, nella sezione Voci del tempo lontano, mentre la lirica “Nostalgia”, dedicata a Ruffano, si trova nella sezione Il poema della tristezza. Seguiamo ancora i versi del poeta. “Ora che sarò da voi sempre lontano / o paesetto, o fertile campagna, / da voi mi giunge voce che si lagna, / a cui risponde un mio rimpianto vano./”. E più avanti: “Lo so, querci ospitali e risonanti / al vento con fragore di cascate;/ lo so che i sogni miei più non cullate/ con l’ombre che da voi scendon giganti, / a vespro, sulla via che fiancheggiate;/ mentre in alto, garrendosi fra loro, / saettando lo spazio e i cieli d’oro/ le rondini s’inseguon disperate./ Addio, luoghi ridenti, addio colline, / da cui lo spirto si slanciava in alto / in un empito effreno, in un assalto, / d’ideali e di cose ardue e divine!/ Addio per sempre, o sogni di bellezza;/ addio per sempre! ora l’ombra s’aduna/ greve sul cor. Ne l’ombra, tacita, una / piange perdutamente: la tristezza!/”.  Un quadretto di genere, nello stile bozzettistico che caratterizza la sua musa. Si avverte la nostalgia di abbandonare il paese che lo aveva visto parroco, dove probabilmente egli si era trovato bene, ma i toni di accorata mestizia con i quali si rivolge al paesaggio intorno, nella consapevolezza di non più rivederlo, fra chiari echi del manzoniano “addio ai monti” dei Promessi Sposi, ci fanno intuire che i motivi dell’abbandono non furono felici. Probabilmente essi sono da ricercare nella vita privata del sacerdote, nella quale a noi non è dato di entrare. Sta di fatto che proprio da Ruffano egli partì per il Brasile, risoluto a non tornare più in Italia. E in Brasile, come già detto, insegnò lingua e letteratura italiana nelle scuole superiori. Uomo di vasta cultura, compose opere di teologia e filosofia morale, sulle quali occorrerebbe far luce per ricostruire interamente la sua bibliografia.
Un poeta tardo novecentesco è Aniceto Inguscio, originario di Torrepaduli, Padre Spirituale della Confraternita B.M. Vergine del Carmine e SS. Trinità di Ruffano, di cui riferisce Ermanno Inguscio, che riporta il suo testo poetico “Alla Beata Vergine della Serra”: “Salve chiesetta, / che sul solitario colle sorgi / e della via della valle i passegger, /che frettolosamente vanno, / guardi./ Al sorgere e al tramontar / coi suoi rai ti bacia il sole, / e, di color di porpora, / le mura tue colora. / Dal piccol campanil / che man sacrilega, / dell’unico bronzo lo vedovò, / mai un dondolar d’una preghiera./ Sol dal fitto e verdeggiante bosco, / che dai tuoi piedi discende a valle, / pien d’ulivi, d’aranci e peri, / musici uccelli, tra i verdi rami / volano cantando a te/” . “La poesia è tratta dalla silloge Frammenti di vita, pubblicata a Ruffano nel 1995. E con questi versi senza pretese del prelato di campagna concludiamo la nostra rassegna.

Caro alle Muse: Luigi Marti da Ruffano a Pallanza

Pietro Marti

di Paolo Vincenti

 

Il poeta salentino Luigi Marti nasce nel 1855 a Ruffano da Pietro ed Elena Manno. La sua era una famiglia della media borghesia delle professioni ma tuttavia indigente a causa dell’alto numero dei suoi componenti. Dovevano infatti pesare non poco sul magro bilancio famigliare quindici figli, come apprendiamo da alcune memorie inedite di Pietro Marti(1863-1933)[1], l’ultimo e il più noto dei suoi fratelli. Pietro infatti fu storico e giornalista, fondò e diresse molte riviste letterarie, ad alcune delle quali collaborò lo stesso Luigi. Esperto di arte e di archeologia, fu Direttore della Biblioteca Provinciale “Bernardini”di Lecce e nonno del famoso poeta Vittorio Bodini[2].

Altri fratelli furono: Donato, il primogenito, Giuseppe, Francesco Antonio, nato nel 1856, Maria Domenica Addolorata, nel 1858, Caterina, Raffaele, nato nel 1859, Pietro Efrem (che morì dopo 3 mesi) nel 1861. La loro fu una famiglia di letterati, a partire da Giuseppe, per il quale Pietro Marti, nelle sue memorie, ha parole di grande lusinga ed ammirazione, sebbene le condizioni di estrema povertà impedirono anche a lui di spiccare il volo verso la gloria artistica. Alfredo Calabrese, Le memorie di Pietro Marti cit., p.33.

Luigi trascorre gli anni della fanciullezza a Ruffano proprio sotto la guida del fratello maggiore Giuseppe, che però scompare prematuramente. A lui il poeta era molto legato, tanto da dedicargli la sua opera Un eco dal Villaggio. Dopo lo smembramento della famiglia (Pietro e Raffaele, per esempio, vennero condotti a Lecce in un orfanotrofio), Luigi, insieme ad Antonio e altri fratelli, si trasferisce a Maglie per gli studi ginnasiali presso il Liceo Capece e poi a Lecce presso il Liceo Palmieri, nel cui Convitto entra con la qualifica di “Prefetto di Camerata”[3], dove consegue il titolo di Dottore in Lettere. Oltre all’amore per la storia e lo scavo erudito, ha una notevole inclinazione per le arti visive, in particolare per il disegno, che però non estrinseca se non in bozzetti che restano manoscritti e nelle illustrazioni di alcune sue opere, arabescate da ornati e volute e piccoli quadrettini. L’amore per il disegno però si riflette nelle sue composizioni poetiche e nei romanzi, in cui si avverte una potenza espressiva che ha la stessa forza del colore sulle tavole pittoriche, specie nelle descrizioni paesaggistiche e degli spettacoli della natura, come dalla critica del tempo gli viene unanimemente riconosciuto. I suoi principali referenti letterari sono il Foscolo e il Carducci.

Maestro elementare a Lecce, con i fratelli Pietro e Raffaele fonda nel capoluogo nel 1884 una scuola privata, che era uno dei due ginnasi privati leccesi insieme a quello del Collegio Argento[4].

Nel 1880 pubblica una delle sue opere più apprezzate e conosciute: Un eco dal villaggio[5]. Quest’opera viene positivamente recensita dallo Stampacchia, da Nicola Bortone, ecc.  “In quei versi freme l’animo e l’ingegno di un giovane, che sente profondamente gli affanni del proletariato, e li rende in una forma, alcune volte, rude, ma sempre efficace e solenne”, scrive La Direzione (probabilmente il fratello Pietro Marti) nelle note biografiche del libro Il Salento[6]. L’opera è dedicata “alla memoria di mio fratello Giuseppe morto giovanissimo vissuto a bastanza per conoscere e patire”. Raccoglie poesie di alto impegno civile, in cui l’autore affronta temi come le raccomandazioni, i debiti contratti con gli usurai (“L’obligazione”), la prostituzione minorile, le sperequazioni della giustizia che si dimostra debole con i forti e forte con i deboli (“Ladro di campagna”), il riposo del contadino (“Il villano”). Nell’Introduzione, “A chi legge”, scritta dallo stesso autore, Marti fornisce dei cenni esegetici della propria poesia, alla quale è dedicata la liminare lirica della raccolta (“Alla Poesia”).

Egli è anche un apprezzato giornalista ed assidua è la sua collaborazione ai giornali diretti dal fratello Pietro Marti; in particolare la sua firma compare spesso su “La Voce del Salento”, insieme a quella dell’altro fratello, Raffaele, storico e scienziato, col quale condivide gli interessi eruditi[7]. La musa della poesia invece lo accomuna al fratello Antonio, autore di pregevoli opere liriche[8]. Nel1889, pubblica La Verde Apulia[9]. Nella raccolta, che si compagina di dodici sonetti, insieme ai versi, sono presenti molte note archeologiche, geografiche e storiche, sui luoghi che via via i componimenti toccano, e inoltre disegni illustrativi di mano dello stesso autore, sicché questo libro può essere considerato una summa del talento e delle conoscenze del Nostro. Canta di Leuca e del suo Faro, di Otranto, “Niobe delle città marittime”, di Maglie, dove erano sepolti un fratello ed il padre, di Lecce, “l’Atene delle Puglie”, di Brindisi, con le sue vestigia romane e il suo porto a testa di cervo, di Taranto, di Gallipoli, “molle Sirena’ del mar Jonio”, dei grandi personaggi che hanno illustrato il Salento, come il Galateo, Liborio Romano, Giuseppe Pisanelli. Sono versi che dai critici vengono accostati al Byron e al Foscolo per la loro vigoria ed icasticità.

Nel 1889 pubblica un’altra raccolta poetica, intitolata Liriche[10]. Nella prima pagina è riportato il titolo della Prima sezione, ovvero Odi (Strofe libere), con alcuni versi in epigrafe tratti dalle “Egloghe”(IV) di Virgilio: paulo maiora canamus. Si tratta di componimenti di carattere civile, dall’intonazione sostenuta, che si rivolgono ai principali protagonisti della scena pubblica italiana dell’epoca, a cominciare da Umberto I di Savoia, cui è dedicata l’esordiale lirica, occasionata dall’epidemia di colera che si verificò nel 1884, passando per Victor Hugò (“Nel giorno della sua morte”), Garibaldi (in “Monumento a Caprera. Visione”), e Giosuè Carducci, cui è dedicata “Per i caduti in Africa”. Seguono liriche di argomento salentino, dedicate a Castro, ai Martiri di Otranto, et alia.  Si apre poi la seconda sezione, Sonetti, fra i cui versi compaiono ancora personaggi di spicco dell’Italia postrisorgimentale, Garibaldi, Giuseppe Libertini, Giovanni Prati, ma anche personaggi ai quali l’autore si sente evidentemente consentaneo, come Giulio Cesare Vanini, che omaggia con due poesie, Antonio De Ferrariis Galateo, Liborio Romano e Giuseppe Pisanelli.

Accanto alle opere poetiche, produce opere di erudizione varia e disparati argomenti, come Ricordi delle conferenze del R. Provveditore agli Studi Francesco Bruni sulla Ginnastica Educativa, stampata a Lanciano, presso Rocco Carraba, nel 1881, in cui riprende le conferenze tenute dal Provveditore agli Studi della Provincia di Lecce Bruni, che in apertura di libro gli scrive una lettera gratulatoria.  Fra le altre opere: Umberto I di Savoia, che è una lunga lirica al Sovrano (nella copia conservata presso la Biblioteca Provinciale di Lecce, sulla prima pagina è scritta una dedica, di mano dell’autore: “Al chiarissimo Dottore Gaetano Tanzarella per stima ed affetto”)[11]; e poi ancora A Vittor Hugò[12], L’Africa a Giosuè Carducci[13], Manfredi nella Storia e nella Commedia dell’Alighieri,[14]Umberto I e la Verde Apulia[15], Manfredi nella Divina Commedia: Conferenza[16], Bonaparte e la Francia: nella mente e nelle opere di Ugo Foscolo[17]. Per motivi di insegnamento da Lecce si trasferisce a Pallanza, in provincia di Novara, dove si sposa e comunque non interrompe la sua attività letteraria.

 Nel 1891 esce Un secolo di patriottismo[18]. Nel 1896 è la volta di Il Salento. Poemetto lirico[19]. Questa sua fatica letteraria è pubblicata nella collana “Il Salotto Biblioteca tascabile”, edita da Salvatore Mazzolino e diretta da Pietro Marti, il quale in Appendice scrive delle Annotazioni in cui commenta i vari sonetti con approfondimenti storici e cenni di critica letteraria. Si tratta di un excursus storico sull’antico Salento, scritto in versi: l’autore tocca le città di Lecce, Brindisi, Taranto, Otranto, evocando le antiche vestigia e la gloriosa storia di queste città, e non mancano riferimenti a personaggi illustri del passato quali Vanini, Liborio Romano e Galateo.

Nel 1902 pubblica il poema Dalle valli alle vette Cantiche[20]. La copia conservata presso la Biblioteca Provinciale di Lecce, reca sull’antiporta una dedica autografa dell’autore a Cosimo De Giorgi, mentre la dedica a stampa recita: “A te che mi aleggi d’ intorno”. In epigrafe, subito dopo la dedica, è scritto: “Ho cercato alla profonda quiete delle valli, alla pura sublimità de le vette, il vigore necessario a spogliarmi delle vecchie consuetudini ed aprir l’anima a la nuova fede. Nelle Cantiche che pubblico, si riflette, con le impressioni della natura e della vita, il divenire della mia coscienza”. E la raccolta infatti si apre con “La mia arte”, quasi manifesto programmatico della poetica dell’autore. Il poema è diviso in sezioni: Valle Ossola, Valle Anzasca, Pestarena, Macugnaga, Ascensione, Tra i ghiacci, Valle del Mastellone, Riti e costumi, Valle Canobina, Emigrazioni, Valle Diveria, Ancora in alto, Inno alla natura, per un totale di 68 liriche.

Altre opere creative sono: Conflitto d’anime (Romanzo) e Verso Roma (Nuove cantiche), sulle quali non abbiamo ottenuto ancora riscontri. Inoltre scrive Orazioni, Discorsi, articoli, pubblicati in riviste e volumi miscellanei.

Da Pallanza, per motivi di lavoro, si trasferisce a Salerno, dove muore prematuramente all’età di 56 anni[21]. Questo, appena tracciato, è solo un primo parziale profilo bio-bibliografico del poeta di origine ruffanese, in attesa di ulteriori doverosi approfondimenti.

 

Note

[1] Alfredo Calabrese, Le memorie di Pietro Marti, in “Lu lampiune” n.1 Lecce, Grifo, 1992, pp.27-34.

[2] Sulla figura dell’erudito Pietro Marti (1863-1933) esiste una cospicua bibliografia. Tra gli altri: Carlo Villani, Scrittori ed artisti pugliesi antichi, moderni e contemporanei, Trani, Vallecchi, 1904, p.578 (nuova edizione Napoli, Morano, 1920, pp-137-138); Domenico Giusto, Dizionario bio-bibliografico degli scrittori pugliesi (dalla Rivoluzione Francese alla rivoluzione fascista), Bari, Società Editrice Tipografica, 1929, pp.187-188; Aldo de Bernart, Nel I centenario della nascita di Pietro Marti, in “La Zagaglia”, Lecce, n. 21, 1964, pp.63-64; Pasquale Sorrenti, Repertorio bibliografico degli scrittori pugliesi contemporanei, Bari, Savarese, 1976, pp.375-376; Ermanno Inguscio, La civica amministrazione di Ruffano (1861-1999). Profilo storico, Galatina, Congedo, 1999, pp.174-175; Paolo Vincenti, Pietro Marti da Ruffano, in “NuovAlba”, dicembre 2005, Parabita, 2005, pp-17-18; Aldo de Bernart, In margine alla figura di Pietro Marti, in “NuovAlba”, aprile 2006, Parabita, 2006, p.15; Ermanno Inguscio, Vanini nel pensiero di Pietro Marti, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie, n. XX, Lecce, Argo, 2009, pp.137-148;Idem, Pietro Marti direttore di giornali, in “Terra di Leuca. Rivista bimensile d’informazione, storia, cultura e politica”, Tricase, Iride Edizioni, a. VII, n. 39, 2010, p. 6; Idem, L’attività giornalistica di Pietro Marti, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie, n. XXI, Lecce, Argo, 2010-2011, pp.227-234;Idem, Il giornalista Pietro Marti, in “Terra di Leuca. Rivista bimensile d’informazione, storia, cultura e politica”, Tricase, Iride Edizioni, a.VIII, n.40, 2011, p.7;Idem, Liborio Romano e le ragioni del Sud nel periodo postunitario. Il contributo di Pietro Marti sul patriota salentino, in “Risorgimento e Mezzogiorno. Rassegna di studi storici”, n.43-44, dicembre 2011, Bari, Levante, pp.147-161; Idem, Pietro Marti e la cultura salentina. Apologia di Liborio Romano, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie, n. XXII, Lecce, Grifo,2012, pp.164-185; Aldo de Bernart, Cenni sulla figura di Pietro Marti da Ruffano, Memorabilia 35, Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis,2012; Ermanno Inguscio, Pietro Marti, il giornalista, il conferenziere, il polemista, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie, n. XXIII, Lecce, Argo, 2013, pp.40-58; Idem, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013.

[3] Aldo de Bernart, Il Salento nella poesia di Luigi Marti, in “Nuovi Orientamenti”, Gallipoli, marzo-aprile 1984, n.85, p.25.

[4]Ermanno Inguscio, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013, p.34.

 

[5] Luigi Marti, Un eco dal villaggio, Lecce, Tip. Scipione Ammirato, 1880.

[6] Luigi Marti, Il Salento. Poemetto lirico, Taranto, Mazzolino, 1896, p. 4.

[7] Raffaele Marti (1859-1945) fu autore di moltissime opere, quali: Foglie sparse, Taranto, Tip. Spagnolo, 1907; Gli acari o piaghe sociali. Dramma in quattro atti e cinque quadri, Lecce, Tip. Conte, 1913; Le coste del Salento Viaggio illustrativo, Lecce, Tip. Vincenzo Conte, 1924; Lecce e suoi dintorni. Borgo Piave, S. Cataldo, Acaia, Merine, S. Donato, S. Cesario ecc., Lecce Tip. Gius. Guido, 1925. L’estremo Salento, Lecce, Stabil. Tipografico F.Scorrano e co., 1931. Su Raffaele si rinvia a Paolo Vincenti, Un letterato salentino da riscoprire: Raffaele Marti in “Il Nostro Giornale”, Supersano, giugno 2019, pp.41-43.

[8] Fra le opere di Antonio Marti (1856-1935): Povere foglie, Lecce Tip. Editrice Sociale- Carlino, Marti e Cibaria, 1891, e Scritti vari –Novelle e Viaggi, Intra,Tipografia Bertolotti Paolo e Francesco,1893.

 

[9] Luigi Marti, La Verde Apulia Lecce, Stab. Scipione Ammirato, 1885.

[10] Idem, Liriche, Lecce Tip. Garibaldi, 1889.

[11] Idem, Umberto I di Savoia, Lecce, Editrice Salentina, 1884.

[12] Idem, A Vittor Hugò, Lecce, Editrice Salentina, 1885.

[13]Idem, L’Africa a Giosuè Carducci Lecce, Stab Tipografico Italiano, 1887.

[14] Idem, Manfredi nella Storia e nella Commedia dell’Alighieri Lecce, Tipografia Salentina, 1887.

[15] Idem, Umberto I e la Verde Apulia, Lecce, Editrice Salentina, 1889.

[16] Idem, Manfredi nella Divina Commedia: Conferenza, Lazzaretti, 1889.

[17] Idem, Bonaparte e la Francia: nella mente e nelle opere di Ugo Foscolo, Pallanza, Tipografia Verzellini,1892

[18] Idem, Un secolo di patriottismo, Pallanza, Tipografia Verzellini, 1891.

[19] Idem, Il Salento. Poemetto lirico, Taranto, Mazzolino, 1896.

[20] Idem, Dalle valli alle vette Cantiche, Milano, La Poligrafica, 1902.

[21] Aldo de Bernart, op.cit.,p. 26.

 

Libri| Pagine d’oro e d’argento. Studi in ricordo di Sergio Torsello

 

PREFAZIONE

di Mario Spedicato

 

Affascinante, ricca e variegata è stata la vicenda intellettuale di Sergio Torsello.

Raffinato cultore di storia locale con una spiccata vocazione civile, ha privato troppo presto la comunità degli studiosi e degli appassionati di storia delle sue approfondite ricerche e della sua visione di cultura come strumento di emancipazione e di progresso per la società.

Questa iniziativa scientifico-editoriale rappresenta l’omaggio che la Storia Patria di Lecce, da me presieduta, e l’Amministrazione Comunale di Alessano intendono tributare alla memoria di uno dei protagonisti del panorama culturale salentino. Il volume raccoglie contributi riconducibili a una pluralità di indirizzi di ricerca coerente con la peculiarità del suo profilo versatile e teso a uno scandaglio fine e minuzioso nel mare magnum degli studi storici. Sorprende ancora scoprire le innumerevoli strade della conoscenza che egli ha esplorato, i pregiati testi che ha riportato alla luce, la fertile letteratura che prodotto. È un lavoro che merita di continuare a trovare prosecuzione anche al di là dei confini salentini.

Personalmente, devo al compianto Antonio Caloro la conoscenza di Sergio. Mi fu presentato in occasione della presentazione di un volume su Alessano, tenuta nel palazzo Legari nel lontano 1999. Da allora è nato un sodalizio che ha elaborato e prodotto una serie di volumi attraverso i quali si è consolidata un’amicizia che è durata fino alla loro morte, ma che invero continua ancora sul piano della memoria e della gratitudine.

La passione per il passato della propria cittadina accomuna le biografie di Caloro e Torsello, insieme al solerte impegno per la ricerca delle fonti, all’elegante gusto per l’erudizione e al premuroso assillo per la ricostruzione bibliografica.

Tutto ciò entra a far parte di un approccio e di un metodo che Torsello rivela anche in altri temi a lui congeniali che ha saputo declinare con il medesimo rigore, per esempio quelli del tarantismo e della tradizione etnografica salentina, come emerge chiaramente dal profilo bio-bibliografico tracciato da Manuel De Carli e Paolo Vincenti.

Il suo nome è indissolubilmente legato alle attività di consulente scientifico dell’Istituto “Diego Carpitella” e di direttore artistico del festival itinerante “La Notte della Taranta”: esperienze intense che lo hanno segnato intellettualmente, ma anche fisicamente, fiaccandolo soprattutto nei mesi estivi particolarmente pesanti per gli appuntamenti programmati, dovendo conciliare con la consueta dedizione il lavoro quotidiano di responsabile del settore culturale del Comune di Alessano e quello, ancora più gravoso, di organizzatore dell’evento musicale di fine agosto, preceduto e accompagnato da workshop, attività editoriali, divulgazione del repertorio etnografico e altri impegni legati alla ricerca di settore e alla formazione.

Dobbiamo alla sua attiva collaborazione se in questi ultimi anni la storia di Alessano e del Salento si è potuta arricchire di ricerche inedite. Devo anche a Sergio se sono riuscito a omaggiare ancora in vita Antonio Caloro con un volume di studi in suo onore che raccoglie una serie di saggi di storia e di cultura salentina, senza trascurare la comunità alessanese.

Sergio, data la giovane età, meritava altre chances per dimostrare e confermare le sue enormi potenzialità di studio, testimoniate in alcuni spunti presenti in questo volume, che vuole essere un doveroso riconoscimento per quello che ha fatto: esso mira a ravvivare e a perpetuarne la memoria e fornisce agli studiosi e agli appassionati un’ulteriore chiave di lettura utile ad approfondire temi sempre nuovi che un’opera aperta come la sua riesce a disvelare.

            

INDICE

11 Presentazione

Francesca Torsello

 

13 Prefazione

Mario Spedicato

 

15 Sergio Torsello (1965-2015). Note bio-bibliografiche

Manuel De Carli, Paolo Vincenti

 

UN INTELLETTUALE TRA CULTURA POPOLARE E MICROSTORIA

27 Il contributo di Sergio Torsello alla renaissance salentina del primo quindicennio del 2000

Francesco Attanasi

 

43 In ricordo di un caro amico: Sergio Torsello

Francesco Accogli

 

51 Di Sergio Torsello, del suo amore per la cultura popolare

Maurizio Nocera

 

55 Una conversazione con Sergio Torsello sull’uso pubblico della cultura popolare

Vincenzo Santoro

 

68 Ricordo di Sergio Torsello e del suo impegno per la cultura alessanese

Raimondo Massaro

 

73 Maria Brandon Albini e Ugo Baglivo nelle pagine di Sergio Torsello

Maria Antonietta Bondanese

 

78 Sergio Torsello: la memoria che resta

Cristina Martinelli

 

86 La collaborazione di Sergio Torsello con la rivista «Annu Novu Salve Vecchiu»

Paolo Vincenti

 

CULTURA E SOCIETÀ IN TERRA D’OTRANTO

95 Ossequi e scambi librari tra Napoli e Terra d’Otranto. Le lettere inedite di Pietro Napoli Signorelli a Giacinto D’Elia

Andrea Torsello

 

103 Umanesimo e filosofia in Terra d’Otranto. A proposito di alcune lettere di Quinto Mario Corrado

Luana Rizzo

 

113 Gerhard Cerull, pittore a Finibusterrae, terra delle piante incantate

Antonio Lupo

 

121 Appunti e segnalazioni sul cognome “Torsello”

Antonio Ippazio Piscopello

 

126 Alessano al tempo degli Angioini

Francesco De Paola

 

139 Da caput conteale a periferia urbana. Alessano nella prima Età moderna

Mario Spedicato

 

148 L’alessanese mons. Francesco Antonio Duca vescovo di Castro, in due atti notarili inediti del 1795

Filippo Giacomo Cerfeda

 

SCIENZE, MUSICA E TARANTISMO

171 Elementi di demonologia nelle opere di Giovan Battista Della Porta e Giulio Cesare Vanini

Donato Verardi

 

180 “Andiamo errati, andiamo errati”. Sabatino de Ursis e la Questione dei riti cinesi nel nome di Dio (1610-1639)

Francesco Frisullo, Paolo Vincenti

 

199 Dissertazioni mediche sul ballo di san Vito, 1675-1875: una proposta di lettura

Alessandro Arcangeli

 

212 Fra Storia e Antropologia. Alcune osservazioni sugli illuministi e sui giacobini davanti al mondo magico

Giuseppe Caramuscio

 

220 Per un aggiornamento della bibliografia di Cosimo De Giorgi

Ennio De Simone

 

243 Identity flows. Fotografia, identità, narrazioni della contemporaneità

Maria Chiara Spagnolo, Luigi Spedicato

 

256 Moduli ritmico-melodici nella trasmissione orale del metro salentino tradizionale

Antonio Romano

 

269 Barbieri-musicisti nell’Italia del Quattro e Cinquecento

Camilla Cavicchi

 

282 Banchetti musicali

Maria Antonietta Epifani

 

303 “Viva viva eternamente”. Quattro villanesche ‘salentine’ per la vittoria sui turchi

Luisa Cosi

 

325 Gli strumenti musicali del tarantismo nella trattatistica gesuita d’età barocca

Daniela Rota

 

337 Wolferd Senguerd (1646-1724), la storia naturale e la specificità pugliese del tarantismo

Manuel De Carli

 

351 Seguendo le tracce del tarantismo spagnolo: casi medici di tarantismo nel XIX secolo

Pilar Leon Sanz

 

374 Nancy, Dora e lo sguardo isterico

Gabriele Mina

 

380 Animali fantastici (e dove trovarne)

Eugenio Imbriani

 

390 Tarantismo en Aragón. La Jota: la otra Tarantela

Manuela Adamo

locandina 7 settembre 2020

Libri| Pagine d’oro e d’argento. Studi in ricordo di Sergio Torsello

Poche settimane fa, ha trovato approdo editoriale, Pagine d’oro e d’argento. Studi in ricordo di Sergio Torsello, a cura di Manuel De Carli e Paolo Vincenti, Calimera, Kurumuny Edizioni, 2020. Il prezioso volume, voluto dalla Società Storia Patria Sezione Lecce, è il frutto di un lungo lavoro da parte dei curatori De Carli e Vincenti, che hanno coinvolto ben 32 autori, provenienti da ambiti diversi, accademici e non accademici, ciascuno dei quali contribuisce nel proprio campo di ricerca ad approfondire uno dei tanti aspetti del sapere in cui si è esplicata la variegata carriera intellettuale di Sergio Torsello (1965-2015), giornalista, letterato, esperto di antropologia culturale e ricercatore attento e scrupoloso, mosso da insaziabile sete di conoscenza. Questa iniziativa scientifico-editoriale, patrocinata dall’Amministrazione Comunale di Alessano, intende tributare un doveroso riconoscimento alla sua incancellabile memoria.

Il volume sarà presentato la sera del 28 settembre 2020, presso Palazzo Legari ad Alessano, alle ore 19.00, alla presenza dei curatori Manuel De Carli e Paolo Vincenti. Dopo i Saluti della Sindaca di Alessano, Francesca Torsello, del giovane ricercatore Andrea Torsello, in rappresentanza della famiglia di Sergio, e di Mario Spedicato, Presidente della Società di Storia Patria di Lecce, prenderà la parola Federico Imperato, dell’Università degli Studi di Bari, che relazionerà sul libro.

 

locandina 7 settembre 2020

Libri| I Fratelli Antonio e Angelo Stefanizzi

A Maggior Gloria di Dio. I Fratelli Antonio e Angelo Stefanizzi: da Radio Vaticana allo Sri Lanka, a cura di Paolo Vincenti

 

Prefazione di Mario Spedicato

In questi ultimi anni la ricerca storica ha focalizzato l’attenzione sul ruolo esercitato da non pochi salentini nel settore della scienza, delle arti e dello sviluppo economico-sociale. Sono stati disseppelliti uomini di grande e indiscutibile valore culturale di cui si era persa la memoria, caduti nell’oblio per una colpevole distrazione. Sono emersi via via dalla polvere degli archivi personaggi cui il Salento dovrebbe essere fiero di aver dato i natali, ma che per ragioni oscure sono stati a lungo relegati nel dimenticatoio. La sorpresa più grande è stata quella di scoprire che un numero sempre crescente di queste straordinarie figure si sono formate nella Compagnia di Gesù. Hanno scelto di abbracciare la religione di S. Ignazio di Loyola e di servire la Chiesa in ogni parte del mondo, gesuiti che in modo particolare hanno svolto la loro missione evangelizzatrice lontani dal Salento, ma del Salento sono rimasti fulgida espressione. Riposizionando la ricerca storica su questo terreno, ancora scarsamente esplorato, si è potuto ricostruire il contributo da loro fornito all’elevazione spirituale dei popoli e, conseguentemente, verificare a largo spettro quanto noi uomini contemporanei siamo debitori alla missione svolta nelle diverse epoche in cui è emerso il loro protagonismo.

Siamo ancora all’inizio di un lavoro che richiederà anni per censire tutti i gesuiti salentini che meritano l’attenzione storiografica finora negata. Qualcosa però è stata fatta e ci pare opportuno segnalare lo sforzo che chi scrive ha prodotto in questo ancora lungo percorso di ricerca. Abbiamo iniziato con l’emersione di due gesuiti che sono saliti agli onori degli altari, Francesco de Geronimo di Grottaglie e il salentino di adozione Bernardino Realino, poi recuperato un gesuita di San Cesario di Lecce, Adriano Formoso, missionario in Sud America nel ‘600, rivalutato un altro gesuita missionario di Martina Franca, Michele Salpa, fondatore nel 1610 dell’Università degli Studi di Vilnius in Lituania, e, per ultimo, riscoperto un gesuita di Ruffano, Sabatino de Ursis, missionario e scienziato nella Cina dei Ming[1].

Ora questo quadro storiografico si arricchisce del lavoro di Paolo Vincenti sui due gesuiti Stefanizzi, interessanti figure del recente passato che danno lustro alla città di Matino, centro che ha dato loro i natali. Una meritevole iniziativa, patrocinata dall’Associazione Autori Matinesi, che va oltre modo apprezzata. L’urgenza del momento, l’empito delle emozioni o il vincolo di affetto personale non sono i migliori alleati dello storico, perché possono fare velo a quella lucidità che sempre chi si occupa di ricerca storica deve mantenere, insieme al rigore dell’analisi documentaria, per consegnare ai lettori e alla comunità degli studiosi un prodotto scientificamente irreprensibile. Tuttavia il curatore dell’opera non corre nessuno dei rischi sopra richiamati in quanto né l’amicizia personale, né alcun debito di affetto e di riconoscenza lo legano ai personaggi trattati nel libro e nemmeno ragioni di sterile campanilismo. Il suo non è da considerare un lavoro agiografico, quindi, ma una ricerca nata da un interesse erudito nei confronti dei due padri protagonisti del volume che, uniti dalla comune appartenenza all’ordine religioso dei gesuiti, si segnalano alla nostra attenzione per meriti indiscutibili, sia pure in ambiti diversi. Padre Antonio Stefanizzi, scomparso nel 2020 all’età di 102 anni, è stato un esperto di tecnica radiofonica tanto che ha ricoperto per molti anni l’incarico di Direttore di Radio Vaticana, l’emittente dello Stato Pontificio. Questo incarico lo ha portato a collaborare strettamente con molti Papi e a partecipare ad importanti convegni ed incontri di studio non solo in Italia ma in tutto il mondo. Proficua la sua esperienza americana, avendo egli studiato alla Fordham University di New York, dove ha potuto collaborare con il premio Nobel Victor Franz Hess, lo scopritore dei raggi cosmici. Professore di matematica e fisica alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, è stato autore di molti interventi, soprattutto sulla rivista “La Civiltà cattolica”, sui temi a lui più congeniali. La formazione scientifica di padre Stefanizzi ben si inquadra in un ordine quale quello dei gesuiti notoriamente aperto alla scienza e alla tecnica fin dai suoi esordi. E in questo senso, gli autori del profilo bio-bibliografico, Francesco Frisullo e Paolo Vincenti, ben sottolineano la continuità di padre Stefanizzi con tantissimi illustri gesuiti scienziati del passato ai quali dedicano un apposito capitolo. Allo stesso modo, prendendo spunto dall’esperienza americana e dal prestigio di cui godeva come studioso padre Stefanizzi nel Nuovo Continente, gli autori offrono un altro saggio in cui elencano una serie di gesuiti missionari negli Stati Uniti, fra Ottocento e Novecento, con figure quali quelle di Vincenzo e Vito Carrozzini, Alessandro Leone, i due fratelli Salvatore e Carlo Personè, Eugenio Vetromile, ed altri, fornendo alcune interessanti notizie del tutto inedite. Padre Antonio ha vissuto da protagonista l’esperienza del Concilio Vaticano II, ed anche dopo la fine del suo impegno a Radio Vaticana, ha continuato a servire la Santa Sede come consulente del “Pontificio Consiglio per le Comunicazioni Sociali”, ed è stato fra l’altro, uno dei fondatori del Centro televisivo vaticano.

Non meno interessante si presenta la parabola umana di padre Angelo Stefanizzi, missionario per moltissimi anni in Sri Lanka. Egli parlava correntemente tre lingue: inglese, singalese e tamulico. Si dedicò all’assistenza della povera gente, in particolare dei lavoratori nelle piantagioni di the a Tamil, e all’assistenza dell’infanzia abbandonata e delle ragazze disagiate, oltre che alla tutela del lavoro, promuovendo nel territorio la formazione professionale per i giovani e avviando preziose esperienze di scuola-lavoro. Si ascrive a suo grande merito quello di avere lavorato alla pacificazione dello Sri Lanka, insanguinato per molti anni da una fratricida guerra civile e aver messo in comunicazione anche le diverse fedi religiose presenti sul territorio, cosa che gli valse l’appellativo di “Padre Gandhi” con cui era conosciuto. Padre Angelo si pone in continuità con altre figure di gesuiti missionari nell’estremo Oriente, molte delle quali segnalate da Francesco Frisullo e Paolo Vincenti in un altro capitolo del libro. In particolare, gli autori si soffermano sulle figure di missionari pugliesi e salentini come Vincenzo Antoglietta, Francesco Riccio, Giuseppe di Mesagne, Giovanni Andrea Lubelli, Giovanni Giuseppe Costa, ecc. Degna di nota, ci è parsa, all’interno di questo contesto, l’attenzione riservata ad altri due gesuiti matinesi, padre Giuseppe Angelè e padre Cosimo Guida, precursori di padre Angelo nella missione in Sri Lanka, dei quali si ricostruiscono le vicende biografiche con notizie inedite. E un utile excursus è quello che dedicano alla storia dell’isola dello Sri Lanka e della missione che ha accolto lo stesso padre Angelo.

Il volume è ulteriormente arricchito da un saggio di Livio Ruggiero sugli esperimenti scientifici dei gesuiti sull’elettricità a Lecce. Nel 1859 infatti il gesuita Nicola Miozzi accese a Lecce una lampada ad arco in occasione della visita del Re Ferdinando II. Il Miozzi aveva già effettuato un esperimento nel 1852 e queste sue dimostrazioni sono state forse tra le prime del genere in Italia. P. Miozzi insegnava fisica nel Collegio S. Giuseppe di Lecce e stimolò un grande interesse per l’elettricità in Giuseppe Candido, un giovane seminarista che si dedicò con grande passione alla costruzione di apparecchi elettrici per la sua casa, tanto da potersi considerare un precursore della domotica[2]. Per alimentare i suoi apparecchi Candido ideò la pila a diaframma regolatore, che ottenne una menzione onorevole all’Esposizione Universale di Parigi del 1867 e dal 1868 al 1874 costruì una rete di quattro orologi da torre sincronizzati elettricamente, un primato per la città. Nel 1898 Lecce realizzò un altro primato con il tram elettrico fino a S. Cataldo, che con i suoi 12 chilometri era la più lunga linea a trazione elettrica d’Italia[3]. Anche la figura dei due religiosi scienziati si pone in stretta continuità con quella di padre Antonio Stefanizzi, che ha coniugato per tutta la vita il formidabile binomio scienza e fede, sul quale ci offre una approfondita riflessione Maria Antonietta Bondanese nel saggio inserito nel volume, che vale la pena riprendere nelle sue linee essenziali per dare sostanza anche ai problemi, non trascurati e storicamente elaborati, dalla stessa Compagnia di Gesù[4].

Il Discorso sulla dignità dell’uomo di Giovanni Pico della Mirandola è il “manifesto” di un Umanesimo che valorizza l’individuo nelle sue capacità razionali senza però negarne l’intima tensione al divino. Ma la modernità, privilegiando una ragione strumentale, lascia insoluti gli enigmi dell’esistenza. Uno strumento, il cannocchiale, disincanta il mondo, infrange il thaumazein e distoglie la riflessione dal “perché” una cosa è, sulla questione del “come” essa è. Esclusa la contemplazione dal suo orizzonte, l’homo faber, che “tanto può quanto sa”, assoggettava il mondo mediante la tecnica, sospeso tra due estremi, il sogno di “addomesticare” la natura, anche la propria, e la desertificazione esistenziale della mancanza di significati. Oggi, la portata, gli obiettivi e le conseguenze della tecnologia sono così inediti da imporre una nuova dimensione della responsabilità, non più circoscritta al singolo individuo ma estesa all’agire collettivo. Occorre allora riconoscere che esistono diversi livelli del sapere, fra i quali stabilire integrazione e differenze. Cade, in particolare, questo l’assunto del saggio, l’idea della irrilevanza reciproca tra scienza e fede, esito di un’antropologia sdivinizzata che intendeva congedare il soprannaturale. Su questo versante è opportuno tenere aperta la riflessione e il confronto all’interno del mondo dei saperi umani. Questo ci viene suggerito dai due Stefanizzi, la cui densa biografia non potrà essere esaurita, per ovvie ragioni, dall’ottimo lavoro di Paolo Vincenti.

 

Note

[1] Per il De Geronimo si rinvia a Mario Spedicato (a cura di), Nelle Indie di quaggiù. S. Francesco de Geronimo e i processi di evangelizzazione nel Mezzogiorno moderno, Atti del Convegno di Studio, Grottaglie, 6-7 maggio 2005, Galatina, EdiPan, 2006; sul Realino si veda Luisa Cosi- Mario Spedicato (a cura di), Defensor Civitatis Modernità di padre Bernardino Realino Magistrato, Gesuita e Santo. Atti del Convegno Internazionale di Studi a quattrocento anni dalla morte (1616-2016) Lecce 13-15 ottobre 2016, Società Storia Patria Sezione di Lecce, Lecce, Grifo Editore, 2017; sul Formoso: Antonio Fernando Guida, Adriano Formoso da San Cesario di Lecce 1601-1649. Un gesuita salentino nelle Missioni del Sudamerica, Società di Storia Patria Puglia, Sezione di Lecce, Trepuzzi, Maffei Editore, 2015; sul Salpa si attende la celebrazione del convegno di Vilnius per la pubblicazione degli Atti; su de Ursis si rinvia alla recente monografia di Francesco Frisullo e Paolo Vincenti, L’apostolato scientifico dei gesuiti nella Cina dei Ming. Il missionario salentino Sabatino de Ursis, Società di Storia Patria Puglia Sezione di Lecce, Castiglione, Giorgiani Editore, 2020.

[2] Si veda, al riguardo, Livio Ruggiero- Mario Spedicato, Giuseppe Candido tra pastorale e scienza,Società di Storia Patria Puglia Sezione di Lecce, Galatina, EdiPan, 2007.

[3] Cfr. Carmelo Pasimeni, Il Tram del Mare. La tramvia elettrica Lecce-San Cataldo, Lecce, Conte Editore, 1998.

[4] Sul tema all’interno della Compagnia di Gesù vi è una solida tradizione storiografica ben documentata da  Ugo Baldini, «Legem impone subactis». Studi su filosofia e scienza dei Gesuiti in Italia 1540-1632, Roma, Bulzoni, 1992; Idem, Saggi sulla cultura della Compagnia di Gesù (secoli XVI-XVIII), Padova, CLEUP,2000.

Libri| I Fratelli Antonio e Angelo Stefanizzi

A Maggior Gloria di Dio. I Fratelli Antonio e Angelo Stefanizzi: da Radio Vaticana allo Sri Lanka, a cura di Paolo Vincenti

Introduzione di don Giorgio Crusafio:

Padre Angelo e Padre Antonio Stefanizzi: due frutti della nostra terra.

 

Sono lieto che la monografia sui fratelli gesuiti P. Antonio e P. Angelo Stefanizzi sia stata affidata alla valente penna di Paolo Vincenti, stimato e apprezzato storico del nostro Salento.

Ho gradito l’invito a scrivere qualcosa su queste figure eminenti della nostra storia di Matino: essi sono, insieme con la sorella Suor Agata, i frutti prelibati della santa famiglia di Giosuè Stefanizzi e di Cristina Boccardo.

Andando molto indietro negli anni, ricordo il papà, Giosuè, piccolo coltivatore diretto, quando, a pomeriggio, tornava dalla campagna e rimetteva il biroccio e l’asinello nella piccola stalla di Via Immacolata. Quella famiglia era il fiore all’occhiello dell’arciprete del tempo, don Giacomo Blasio, parroco zelante e ricco di iniziative. A lui si deve la vocazione di ben 5 gesuiti di Matino: i fratelli Stefanizzi, Padre Giuseppe Angelè, Padre Donato Tamborrini e Padre Cosimo Guida.

La mia conoscenza di Padre Antonio risale agli anni ’50 del secolo scorso, quando, già direttore della Radio Vaticana, si prendeva ogni anno 3 giorni di “ferie” nel mese di agosto da passare in famiglia. Non mancava mai la visita al parroco del tempo, Mons. Aniceto Marsano: lo salutava e poi celebrava la S. Messa. Io, seminarista di liceo, gliela servivo. Poi papà Giosuè con il biroccio e l’asinello lo accompagnava in campagna, in contrada “Murra”, dove villeggiava in una casetta a tegole. Celebrava le altre due messe nella piccola cappella costruita per devozione di Rocco Caputo. Con la morte dei genitori le sue visite a Matino divennero sempre più rare.

Quando divenni parroco, negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, presi l’iniziativa di far commemorare ogni anno il “miracolo di S. Giorgio” del 1867 da uno dei numerosi sacerdoti diocesani e religiosi di Matino. Invitai più volte Padre Antonio per tale commemorazione, che cadeva il 27 febbraio, ma egli declinava sempre l’invito perché non poteva assentarsi dal Vaticano. Quando poi andò in pensione da quell’importantissimo incarico, fu lui che si autoinvitò e portò una preghiera al nostro patrono S. Giorgio, da lui composta e che viene recitata nella ricorrenza della sua festa il 23 aprile.

Qualche giorno dopo la commemorazione del miracolo, improvvisammo nella parrocchia di S. Giorgio una semplice manifestazione canora in suo onore. Io ero a fianco del festeggiato e, come il mio solito, ero abituato a muovermi ogni tanto. Padre Antonio, invece, rimase “immobile” per tutta la manifestazione. Evidentemente così era abituato a stare, vicino al Papa, nelle varie celebrazioni liturgiche.

Un altro particolare ho saputo da lui: egli era al seguito del papa S. Giovanni Paolo II nel suo primo viaggio apostolico in Messico. Quel viaggio durò diversi giorni e più di una volta i cattolici messicani a mezzanotte lo svegliavano con i loro caratteristici canti. Il Papa, benché stanchissimo, si affacciava per salutarli e benedirli. Di ritorno da quel lungo e faticosissimo viaggio, il Sommo Pontefice concesse a tutto il suo seguito 15 giorni di riposo. Lui, invece, dopo pochi giorni, aveva ripreso il suo ritmo di lavoro.

Quando il 3 febbraio del 2010 giunse la notizia del decesso del fratello missionario, nell’esprimergli il mio cordoglio, gli comunicai che avremmo suffragato il fratello il 7 dello stesso mese. Egli, allora ormai novantaduenne, si sentì in dovere di venire da Roma, insieme con la sorella Suor Agata, per presiedere a quella celebrazione. Sorprese tutti per la sua invidiabile salute e per la sua piena lucidità.

Nel 2017, in occasione del suo 100° genetliaco, ho avuto il piacere di partecipare a Roma alla sua festa insieme con il Sindaco di Matino, che gli consegnò una targa-ricordo. Padre Antonio ebbe molto piacere ed era sufficientemente lucido. Semplice e fraterna fu la festa che la Comunità dei Gesuiti, presso cui risiedeva, gli aveva approntato. Purtroppo al suo funerale non abbiamo potuto essere presenti, a causa della pandemia del coronavirus.

Passo ora a Padre Angelo. Ero nel Seminario Vescovile di Nardò e frequentavo la terza media. Una sera del mese di marzo 1948, mentre in Cappella recitavamo il Rosario, accompagnato dal Rettore, entrò un missionario vestito di bianco e ci rivolse un breve saluto: era Padre Angelo, che era in partenza per l’India, dove avrebbe completato gli studi di Teologia, avrebbe imparato la lingua “Tamil” e poi sarebbe stato ordinato sacerdote nel 1949.

Negli anni ’50 del secolo scorso ero nel Seminario Pontificio di Molfetta; sfogliando una rivista missionaria dei Gesuiti, m’imbattei in un articolo su Padre Angelo. Egli era alla guida di un furgoncino scoperto, su cui erano visibili attrezzature varie per qualche filmino che il missionario doveva fare. La didascalia, più o meno, diceva: anche il missionario Padre Angelo Stefanizzi per la sua evangelizzazione usa gli strumenti che la tecnica di oggi offre, come il fratello Padre Antonio, direttore della Radio Vaticana.

Trascorse molti anni tra le piantagioni di thè dello Sri Lanka, senza mai venire a Matino. Seppi poi che qualche volta il fratello che era a Roma era andato a trovarlo, ma Padre Angelo era assente: a piedi nudi era tra le piantagioni di the e a Padre Antonio non restava che attenderlo nella sua cameretta, perché il missionario non era rintracciabile.

Il mio primo incontro con Padre Angelo risale agli anni ’70, ed era la sua prima venuta a Matino dopo la partenza per le Missioni. Mi premurai di presentarlo al preside della Scuola Media e farlo incontrare con gli alunni di terza Media, ai quali raccomandai di riferire ai fratelli e alle sorelle più grandi, che a pomeriggio il missionario avrebbe incontrato i giovani di Matino nel salone parrocchiale. Speravo in una numerosa presenza giovanile, invece accolsi il missionario con volto mortificato. Cercai qualche giustificazione, ma egli mi interruppe: non ti preoccupare, don Giorgio, vedo che per voi è più difficile il lavoro pastorale. Avessi io organizzato un incontro formativo, tutti i giovani del villaggio avrebbero partecipato, anche se la presenza cattolica nella Missione è solo del 2%.

Poi è venuto altre volte a Matino, anche per incontrare possibili benefattori per le sue varie iniziative di promozione sociale. Quando potei averlo a pranzo nella mia famiglia, non finiva di ringraziarmi e lo ripeteva nelle varie lettere che ci scambiavamo.

Negli anni ’80 e ’90 ero parroco alla parrocchia del S. Cuore di Matino ed era mia gioia presentarlo alla Comunità ogni volta che veniva. L’ultima volta venne col bastone e, nel salutarlo con commozione, mi disse: don Giorgio, questa è l’ultima volta che ci vediamo. Io vado a morire laggiù tra la mia gente e là voglio rimanere per sempre.

Negli ultimi anni, sulla sedia a rotelle, era assistito da un giovane indù con tanta premura, ma soprattutto aveva chiesto che la sua piccola camera avesse di fronte la Cappella della Comunità, quasi in continua adorazione verso la divina Eucarestia, da cui aveva attinto ogni giorno la forza per il suo faticoso lavoro apostolico.

Alla sua morte alcuni giornali dello Sri Lanka davano la notizia scrivendo: “è morto il Gandhi dello Sri Lanka”.

Libri| U.S. Galatina, la storia di una stella

di Paolo Vincenti

 

Rino Duma, Presidente del Circolo Culturale Athena, nonché direttore della nota rivista galatinese Il filo di Aracne, ha pubblicato svariate opere, fra le quali i romanzi La falce di luna ( Edipan, 2004), La scatola dei sogni (Edipan, 2008), La donna dei lumi ( Lupo Editore, 2011).

Lo avevamo lasciato con La Taranta. Il dialetto galatinese (ovvero la lingua del popolo), pubblicata dall’Editrice Salentina (2016), una raccolta di commedie, poesie, proverbi, modi di dire, soprannomi, filastrocche, indovinelli, ed altro, in dialetto galatinese.

Attivo operatore culturale, Duma è stato relatore in molte conferenze di carattere storico, soprattutto sul tema del Risorgimento italiano. Tuttavia, c’è un’altra passione che costella la sua vita, ed è quella per il calcio. Una passione tanto forte che lo ha portato a cimentarsi in una impresa editoriale che non esiteremmo a definire “titanica”, ovvero quella di condensare in un volume 100 anni di storia del calcio galatinese. Storia di una stella. U.S. Pro Italia Galatina-U.S. Galatina 1917-2017 (Editrice Salentina, 2018) è la sua ultima pubblicazione, con l’impaginazione e la cura grafica di Salvatore Chiffi. La stella del titolo e che campeggia sulla maglia dei due giocatori ritratti nella bellissima immagine di copertina è quella della Pro Italia, la squadra del cuore di Rino Duma, della quale, ora più che mai, è considerato il tifoso numero 1, come attesta nella Presentazione del libro Adriano Margiotta.

E a ben vedere, il “prof.”, come tutti amano chiamarlo, si è reso benemerito del calcio cittadino, avendo voluto sostenere da solo il faticosissimo impegno di consegnare ai posteri un volume così ponderoso, per festeggiare il centenario della fondazione della Pro Italia Galatina.

Ha motivo di rivendicare con orgoglio i propri meriti, lo stesso autore, che nella Prefazione, scrive: <<ho speso un anno e mezzo nell’indagare, rovistare, scoprire, appuntare, collegare, assemblare, ritoccare, definire e, finalmente, concludere. La mia è stata una vita di clausura condotta nella biblioteca “Pietro Siciliani” di Galatina nella torrida estate del 2016. Ogni giorno e per diversi mesi, dalle 8.30 alle 13.00 e dalle 15.00 alle 18.00, puntualmente presente in quella “casa del silenzio”, a sfogliare giornali e riviste>>.

Davvero uno sforzo meritevole del nostro plauso, quello di ricomporre il puzzle che era la storia della squadra di calcio. Duma cita le preziose fonti della stampa locale alle quali ha attinto – in primis “Il Nuovo Cittadino”, “Il Corriere di Galatina”, “Il Quotidiano”, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, “Il Galatino”, “Galatina sport”- e ringrazia i suoi informatori, per la consulenza fornita su schemi di gioco, giocatori, formazioni delle squadre, compagine sociale, allenatori, presidenti, episodi vari di una lunga storia agonistica. Notevole anche l’archivio personale dell’autore, studioso di lungo corso e aduso allo scavo erudito e alla ricerca storica. È chiaro che la ricostruzione della carriera di una squadra di calcio non possa essere sostenuta solo dal rigore scientifico dello studioso, ma debba essere in più vivificata dall’amore del tifoso, che Duma non fa nulla per nascondere ma anzi palesa ad ogni rigo del suo libro.

La narrazione si svolge come un racconto, cui fornisce attrattiva quell’alone di leggenda che da sempre circonda le imprese agonistiche dei grandi protagonisti dello sport, le cui gesta sono state immortalate dalle più prestigiose firme del giornalismo sportivo, uno su tutti il grande Gianni Brera. Nel volume di Duma, all’intrinseco valore documentale si unisce la componente del ricordo e quindi della nostalgia, aspersa fra le pagine di questo gradevole album di vita calcistica, che potremmo definire generazionale.

Paola Cazza, l’arte in movimento

di Paolo Vincenti

Un’artista ancora poco conosciuta nel panorama salentino, ma del tutto degna di attenzione. Paola Cazza, nata a Sassuolo, vive ed opera a Nardò ed ha manifestato fin da bambina una certa sensibilità artistica. Autodidatta, si è ritagliata un proprio spazio nell’universo sfaccettato e multiforme dell’arte visiva. Le sue opere pittoriche e scultoree sono state esposte, negli anni, in spazi pubblici di caffetterie e associazioni culturali delle diverse città italiane nelle quali ha vissuto per brevi o lunghi periodi.

 

Paola è un’artista in mutamento, in continua trasformazione: ci tiene a precisarlo, al primo incontro, ma il suo essere in divenire si coglie già osservando la sua opera. Paola utilizza vari linguaggi, sia quello della pittura che quello della scultura su pietra leccese.

Da una prima ispirazione paesaggistica, il suo alfabeto pittorico passa a visioni più astratte, indugia sulle figure umane, vira poi sull’informale. La sua gamma cromatica non è ampia ma efficace. Non ci sono infatti toni forti e accesi nelle pitture di Paola, come il rosso, il nero, ma colori intermedi, molti chiaroscuri.

Non v’è autocompiacimento in queste opere, nessuna oleografia, esse sono lontane da un certo vedutismo di maniera che ha caratterizzato altre stagioni della pittura salentina. Il paesaggio è presente ma sempre filtrato dalla sensibilità profonda dell’autrice e soffuso di una certa aerea malinconia, caratterizzato da un’atmosfera di sospensione favorita dallo sfumato dei colori.

La realtà non si sfalda mai completamente ma è come se venisse rappresentata in maniera enigmatica; della realtà cioè venisse colto l’aspetto più misterioso, oscuro, quel procedere larvato verso destinazioni sconosciute. È come se nei suoi quadri corressero delle vibrazioni impercettibili che, al tatto con la loro superficie rugosa, si colgono.

Alcune opere trasmettono allo spettatore il desiderio di andare oltre, di penetrare nei loro meandri, come nei recessi dell’anima dell’autrice. Molto interessante si mostra l’inserimento di elementi materici sulle tele, vecchie chiavi arrugginite, lucchetti, oggetti agricoli attaccati con dello spago sui quadri, dunque ritrovati della nostra civiltà contadina arcaica, a far da contrappunto all’opera pittorica, ad iconizzare un passaggio di consegne fra il vecchio ed il nuovo, a simboleggiare la continuità fra la matrice larica, archetipica della nostra cultura e la modernità.

Notevole il ciclo delle madri: la fertilità femminile, metafora e auspicio di quella della terra alla quale queste donne gravide sono congiunte: dai loro grembi, la rigenerazione del mondo. Decisamente prevalenti i corpi femminili su quelli maschili, però essi non sono sezionati come su una tavola anatomica ma appaiono rannicchiati, raggomitolati e intrecciati fra loro, quasi a celare profondità, gli abissi imperscrutabili della femminilità, come la natura che ama nascondersi, secondo il famoso aforisma di Eraclito. D’impatto la Crocifissione, dove sulla croce è messo un Cristo donna, con una serie di fili di spago a cingerle i fianchi e la testa. I supporti, ricavati nel legno, sono staccati dalle tele e le incorniciano senza contenerle. L’inserimento di elementi astratti nel figurativismo di base (per esempio, i pesci che in alcune opere attraversano la scena), conferisce un’impronta onirica e fantastica al tutto. Infine, si vedono alcuni esperimenti in cui le tele vengono bruciate e poi riutilizzate e ricomposte insieme, a formare quadri nei quadri o grovigli e masse informi. Queste tele, che sembra siano state brutalizzate, ricordano gli esperimenti di Lucio Fontana che traumatizzava le opere con buchi e tagli.

La Cazza ha tenuto molte mostre negli anni, soprattutto nel Salento. In queste esposizioni, nella polisemia del suo messaggio artistico, si intravede un filo di Arianna che sottotraccia ne percorre la parabola, ed è una sorta di inquietudine, un mal di vivere, che Paola, come ogni artista, si porta dietro, come un passo falso, un controcanto, un suo calco negativo, un demone interiore con cui fare i conti e al quale pagare pegno per giungere sulla tela ad eternare l’attimo.

Libri| La scrittura come zapping

di Oscar Zagabria

 

Questo libro di Paolo Vincenti, si compone di una serie di articoli, comparsi su riviste online prevalentemente nel corso del 2018, che prendono spunto dalla cronaca politica italiana per allargarsi anche al costume e alla musica, sempre a partire da quell’elemento autobiografico che è la cifra distintiva di quasi tutta la scrittura del Nostro.

Lo stile è quello già consolidato dalle precedenti pubblicazioni: “L’osceno del villaggio”, “Italieni”, “Avanti (o) pop!”, a metà tra l’editoriale e il satiresco, tra il serio e il faceto. I libri precedenti erano delle carrellate sui principali avvenimenti accaduti negli anni, a partire dal 2016, anno di pubblicazione del primo volume, filtrati spesso attraverso lo schermo di un televisore, vero e proprio oggetto feticcio per l’autore. Finestra elettrica sempre aperta sul mondo, reale o immaginifico che sia, non importa, dove l’assuefazione può solo essere scongiurata attraverso il continuo cambio di canale.

Ed è lo stesso zapping, anche in questo libro, unica forma di controllo di un mezzo così pervasivo, che sembra essere stato riversato nella scrittura di Vincenti, assurgendo a vero e proprio metodo narrativo che attraverso l’ellissi, la fratturazione degli avvenimenti, il salto senza reti di protezione da un argomento all’altro, cerca di superare l’illusione della continuità logico-temporale impacchettata dalla ideologia dominante. Svelando tutta l’alienazione e lo straniamento dell’uomo contemporaneo. Si trovano così i principali protagonisti della politica politicante del Belpaese, in primis Salvini e Di Maio (che l’autore definisce Dioscuri) accanto ai presentatori tv e ai cantautori storici degli anni Settanta-Ottanta, quali Lo Cascio, De Angelis, Paolo Pietrangeli, De Gregori, Rosso, ecc.

Gli Italieni che popolano le pagine di Vincenti diventano l’emblema e il prodotto di una certa contemporaneità che modella sulla deprivazione culturale e sociale stili di vita e di pensiero, trasformando le persone prima e i cittadini poi in mansueti consumatori a cui si può propinare qualsiasi tipo di prodotto, compreso quello politico.

Vincenti cerca di far deflagrare questo pensiero mainstream attraverso il decentramento e il depotenziamento semiotico dei fatti narrati, che diventano meri pre-testi per poter dire altro, e il frazionamento del testo tramite un cut up diverso da quello utilizzato da Burroughs o dagli autori del programma televisivo “Blob”, e inteso, più che altro, come taglio e divertito accostamento di argomenti, o registri espressivi, apparentemente distanti tra loro, che un sapiente campo lungo restituisce nella stessa pagina con sapienza e ironia, quando non con un vero e proprio distaccato sarcasmo. Ciò avviene là dove l’autore si rende conto che l’illusione di una simile operazione è destinata ad infrangersi sull’impossibilità di andare al di là di un mondo già strutturato mediaticamente che non permette voci fuori dal coro, come la sua.

Una nota a parte meritano le citazioni da canzoni italiane famose e meno famose, che aprono molto spesso i pezzi, anche in questo libro.

In tale presa di coscienza, nell’improvviso blackout del tran tran televisivo, nell’attimo di silenzio che intercorre saltando da un canale all’altro, che riflesso sullo schermo nero finalmente appare in tutto il suo splendore, troviamo Paolo Vincenti, seduto in poltrona con in mano una bottiglia di coca cola, alle sue spalle la libreria piena di classici e accanto il suo mai domo demone della scrittura. Barlumi di autenticità che percorrono e illuminano per intero questa ultima fatica dell’autore.

Il salentino padre Antonio Stefanizzi della Compagnia di Gesù, classe 1917

Stemma dei Gesuiti sulla chiesa che fu dell’Ordine, a Lecce

 

di Paolo Vincenti

Il 18 settembre ha compiuto 102 anni. Un pezzo importante della storia della chiesa romana e della Compagnia di Gesù. Padre Antonio Stefanizzi, classe 1917, è stato il terzo direttore di Radio Vaticana, l’emittente radiofonica della Santa Sede, dal 1953 al 1967, ma anche molto di più di uno speaker radiofonico. Padre Stefanizzi è un uomo di grande esperienza e straordinaria cultura, un gesuita rigoroso dotato di una robusta formazione scientifica, figlio di un secolo, il Novecento, che ha attraversato quasi per intero. Matematico e fisico, ha studiato alla Fordham University di New York «dove sotto la direzione del premio Nobel Victor Franz Hess, lo scopritore dei raggi cosmici – racconta divertito seduto sulla sua carrozzina – collaborai a un importante esperimento sull’acqua piovana e la relativa scoperta di alcune particelle>>. La fonte per queste informazioni è una bella intervista rilasciata da Padre Antonio sul quotidiano “Avvenire” in occasione dei suoi cento anni. (Filippo Rizzi, Radio Vaticana. Compie 100 anni. Stefanizzi, direttore che fece grande la radio dei Papi, in “Avvenire.it”, 16 settembre 2017). Non sorprenda la formazione scientifica di Padre Stefanizzi, provenendo egli da un ordine, quello dei gesuiti, notoriamente aperto alla scienza e alla tecnica. Fin dalla sua costituzione, nella Compagnia di Gesù hanno militato geografi, matematici, fisici, astronomi, fra cui i missionari scienziati che fra Cinquecento e Seicento hanno evangelizzato l’Oriente. Padre Stefanizzi appartiene a quell’ordine che ha annoverato fra le sue fila, oltre ai grandi Matteo Ricci e Roberto De Nobili, Filippo Soccorsi, matematico e fisico e predecessore di Stefanizzi alla guida di Radio Vaticana, e anche scienziati salentini come il galatinese Giovanni Paolo Vernaleone e il ruffanese Sabatino de Ursis. Padre Antonio è originario di Matino, così come il fratello, Padre Angelo Stefanizzi, noto come “Padre Gandhi”, missionario per moltissimi anni nello Sri Lanka.

Oggi, alla veneranda età di 102 anni, egli vive a Roma, nella residenza San Pietro Canisio, attigua alla Curia generale della Compagnia di Gesù.

Quando è entrato alla Radio Vaticana, era Pontefice Pio XII “con cui inaugurerà nel 1957 il nuovo centro di trasmissione di Santa Maria di Galeria, alle porte di Roma … toccò proprio a padre Stefanizzi sovrintendere anche tecnicamente il 15 agosto del 1954 alla prima trasmissione radiofonica della preghiera dell’Angelus da parte di un Papa”. Da allora ha conosciuto tutti i Papi che si sono succeduti sulla cattedra di Pietro. Con Giovanni XXIII ha vissuto l’indimenticabile esperienza del Concilio Vaticano II. “Padre Stefanizzi è chiamato in veste di tecnico a partecipare alla Commissione preparatoria e a gestire proprio lui il rinnovamento dell’impianto elettroacustico della Basilica di San Pietro. «Mi vengono in mente i tanti problemi per le registrazioni, la scelta del latino come lingua ufficiale della Chiesa nonostante le resistenze dei vescovi Usa che volevano l’inglese, in particolare l’arcivescovo di Boston Richard James Cushing. Tra i padri conciliari mi impressionò l’autorevolezza degli interventi del cardinale di Colonia Joseph Frings»”. Quindi Paolo VI, e poi Giovanni Paolo II. Padre Stefanizzi ha insegnato per diversi anni matematica e fisica presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma. Anche dopo la fine del suo impegno a Radio Vaticana, ha continuato a servire la Santa Sede come consulente del Pontificio Consiglio per le comunicazioni sociali, ed è stato fra l’altro, uno dei fondatori, assieme ad Emilio Rossi, del Centro televisivo vaticano (Ctv). Quello che è interessante, ripercorrendo le sue memorie, è l’intraprendenza di questo gesuita, in quei pionieristici esordi della radio, in cui egli faceva da tecnico e al contempo da conduttore radiofonico. Non sbaglia chi ha collocato Padre Stefanizzi sulla scia di Guglielmo Marconi, che si può considerare il fondatore di Radio Vaticana insieme al Padre Gianfranceschi, che ne fu il primo direttore. Stefanizzi è stato decisivo nel successo mondiale di Radio Vaticana. “Nel suo percorso pastorale anche la promozione di Radio Veritas, una grande emittente situata a Manila per la diffusione di programmi in varie lingue per tutto il Continente asiatico”. Quando ha compiuto Cento anni, fra i tanti, anche la città di Matino lo ha festeggiato, dacché una delegazione dell’Amministrazione comunale lo ha raggiunto nel suo appartamento romano. E non poteva essere altrimenti, mantenendo egli ben salde le radici salentine. Anche Papa Francesco gli ha inviato un telegramma di felicitazioni. <<Tutte le mattine partecipa alla celebrazione eucaristica nella Cappella dell’infermeria, condivide i pasti con i suoi confratelli e conversa volentieri con i giovani gesuiti e con tutti quelli che frequentano la “Casa degli scrittori” in via dei Penitenzieri. Soprattutto quando vede i suoi confratelli che lavorano alla Radio Vaticana, spesso fa domande per sapere ‘come vanno le cose alla Radio’>>, scrive di lui Vatican news, l’emittente on line di Radio Vaticana. Insomma, settant’anni al servizio della chiesa e centodue genetliaci sono eccezionali traguardi, e noi non possiamo che felicitarci con un salentino grande nel mondo, come Padre Antonio.

Dal Fanfulla a Quinto Ennio, nel segno di Antonio Bortone

di Paolo Vincenti

Nel 2012, nella leccese Piazzetta Raimondello Orsini, venne inaugurata la restaurata statua del Fanfulla, opera di Antonio Bortone (1844-1938), famoso scultore ruffanese trapiantato a Firenze. L’intervento di restauro, voluto dall’Amministrazione Comunale di Lecce, è stato effettuato grazie ad un finanziamento del Lions Club Lecce. Questo monumento, modellato in gesso a Firenze dallo scultore salentino nel 1877, venne fuso in bronzo nel 1921 e inaugurato l’anno seguente. Inizialmente collocata a ridosso di Palazzo Carafa, la statua venne poi trasportata nella collocazione attuale.

Scrive Aldo de Bernart: “Antonio Bortone è scolpito sul plinto, che regge quella famosa statua, nel testo epigrafico del prof. Brizio De Santis: Sono/ Tito da Lodi /detto il Fanfulla/ un mago di queste contrade /Antonio Bortone/ mi tramutò in bronzo/ Lecce ospitale mi volle qui/ ma qui e dovunque/ Dio e l’Italia nel cuore/ affiliamo la spada/ contro ogni prepotenza/ contro ogni viltà/ MCMXXII. La statua raffigura il Fanfulla, uno dei tredici cavalieri della Disfida di Barletta, ritratto ormai avanti negli anni quando orbo di un occhio e col saio domenicano faceva penitenza nel fiorentino convento di S. Marco, mentre affila la misericordia, un acuminato spadino che all’inquieto lodigiano era servito in tante battaglie.

Modellata a Firenze nel 1877, l’opera è figlia della tensione tra i circoli artistici fiorentini e il Bortone, che si era prodotto, e bene, nel nudo, con il Gladiatore morente, ma non aveva ancora dato prova di sé nel drappeggio. Tale prova il Bortone la darà appunto con la statua del Fanfulla, inviata alla Mostra Internazionale di Parigi, dove però giungerà ammaccata in più parti. Invitato a ripararla, il Bortone non andò mai nella capitale francese, forse per il suo carattere che a volte lo rendeva spigoloso e quasi intrattabile. […] Comunque la statua fu esposta ugualmente a Parigi e vinse il terzo premio, previo il restauro praticato dal grande scultore napoletano Vincenzo Gemito, che si trovava nella capitale francese a motivo della stessa Esposizione.”[1]

Il personaggio di Fanfulla da Lodi è tratto dal romanzo di Massimo D’Azeglio Ettore Ferramosca, o la disfida di Barletta del 1833 (incentrato sulla contesa fra tredici cavalieri italiani e tredici francesi, combattuta nelle campagne pugliesi nel 1503), e poi dal successivo Niccolò de’ Lapi ovvero i Palleschi e i Piagnoni del 1841, ambientato durante l’assedio di Firenze del 1530.

Dovuta quindi all’ingegno creativo di Antonio Bortone, “il Mago salentino dello scalpello”, come ebbe a definirlo il prof. Brizio De Santis, la statua del Fanfulla campeggia nel bel mezzo di una caratteristica piazza, nel cuore del centro storico di Lecce. Ma l’iter della statua per essere collocata in questa piazza è molto più lungo e tortuoso. Scrive in merito Giovanna Falco: “Le traversie di quest’opera non finiscono qui: sono state raccontate da Teodoro Pellegrino in La vera storia del Fanfulla.  Durante la lunga permanenza a Firenze, il gesso rischiò di essere distrutto, lo salvò Brizio De Sanctis, preside dell’Istituto Tecnico leccese, che si prodigò affinché fosse trasferito a Lecce. Qui, grazie all’intervento di Giuseppe Pellegrino, grande estimatore di Bortone, nel 1916 la scultura fu donata al Museo Civico di Lecce (all’epoca alloggiato nel Sedile).

Rimandata a Firenze per essere fusa in bronzo, nel 1921 fu inaugurata e sul basamento fu apposta la targa commemorativa scritta da Brizio De Sanctis. La statua, destinata originariamente all’atrio dell’Istituto Tecnico, fu collocata nello slargo delle ‘Quattro Spezierie’, di fronte a Palazzo Carafa, poi fu trasferita nel «ridente giardinetto della P. Raimondello Orsini», da dove fu rimossa per essere sistemata lungo il viale principale della Villa Comunale di Lecce. In occasione dell’inaugurazione del Museo del Teatro Romano, avvenuta l’11 settembre 1999, l’Amministrazione Comunale dell’epoca ha deciso di sistemare nuovamente il monumento in piazzetta Raimondello Orsini, collocandolo al centro di un’aiuola.”[2] Grazie ad un sapiente intervento di restyling ora la statua splende di nuova luce.

Sempre Giovanna Falco, nel succitato articolo, scrive: “Nel 1913 fu inaugurato in piazza Sant’Oronzo il monumento a Quinto Ennio, che sorgeva di fianco all’inferriata che cingeva la porzione dell’Anfiteatro Romano riportata alla luce in quegli anni. Era formato da «un basamento sul quale si eleva una colonna prismatica ed un’aquila romana poggia sopra fasci littorii»; l’aquila in bronzo si ergeva su una pergamena recante uno scritto del grande poeta romano.” [3]

Proprio negli stessi giorni dell’inaugurazione del Fanfulla, infatti, ricorreva il primo centenario del monumento a Quinto Ennio, dovuto sempre ad Antonio Bortone; e infatti Aldo de Bernart, ricordando quell’evento, in una sua plaquette del 2012,[4] si soffermava sulla figura del grande poeta latino Quinto Ennio, pubblicando una foto d’epoca nella quale compare ancora la statua sormontata dall’aquila. Come ricorda Giovanna Falco, “in occasione dell’ultimo conflitto mondiale l’aquila fu fusa per costruire armi”.[5] Stessa sorte capitata a molti altri monumenti di Terra d’Otranto, in alcuni casi orrendamente mutilati. Il monumento, in pietra di Trani, ornato da un fascione in bronzo finemente scolpito, si trova vicino l’Anfiteatro Romano ed è stato molto ammirato e visitato da studiosi ed amanti dell’arte, soprattutto in occasione del doppio evento del restauro del monumento del Fanfulla e dell’anniversario del monumento a Quinto Ennio.

Lo scultore Antonio Ippazio Bortone, nato a Ruffano, dopo la formazione napoletana, si trasferisce a Firenze dove raggiunge la gloria, divenendo uno dei più ammirati artisti italiani dell’epoca. Basti pensare che a Firenze viene chiamato a lavorare alla facciata di Santa Maria del Fiore, per la quale realizza, tra gli altri, le due statue di Sant’Antonino e San Giacomo Minore (1887) e i due bassorilievi di Michelangelo e Giotto (1887), oppure al Michele di Lando (1895), nella Loggia del Mercato Nuovo. Per quanto riguarda le opere salentine, molte sono quelle degne di menzione, fra le quali: il busto di Giuseppe Garibaldi (1867), in marmo, che si trova presso il Castello Carlo V di Lecce;  i busti in marmo di Giulio Cesare Vanini (1868), di Francesco Milizia (1872), di Antonio Galateo (1873) e di Filippo Briganti (1875), presso la Biblioteca Provinciale N. Bernardini di Lecce; la statua in marmo di Sigismondo Castromediano (1890), che si trova nel Museo omonimo di Lecce, e il Monumento a Sigismondo Castromediano (1903), nella omonima piazzetta leccese; il Monumento a Francesca Capece (1900) a Maglie; il monumento a Salvatore Trinchese (1907) a Martano; il ritratto di Pietro Cavoti (1912), presso il Convitto Colonna a Galatina, e molte altre.

 

L’estensore di questo articolo ha recentemente pubblicato sulla rivista “L’Idomeneo” un saggio in cui attribuisce ad Antonio Bortone una statua inedita, in marmo bianco di Carrara, intitolata The Girl Knitting For the Front, che si trova nella cittadina di Christchurch, in Nuova Zelanda, e che viene censita per la prima volta. Attraverso la stampa neozelandese dell’epoca e un’indagine ad ampio raggio della produzione bortoniana, dello stile e dei rapporti personali e professionali dello scultore, ricostruisce la genesi ed il lungo percorso fatto dalla statua.[6]

 

[1] ALDO DE BERNART, Antonio Bortone e la sua casa natale in Ruffano, a cura dell’Amministrazione Comunale, Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis, 2004, pp.5-10.

[2] GIOVANNA FALCO, Fanfulla da Lodi e altre opere leccesi di Antonio Bortone, in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/11/fanfulla-da-lodi-ed-altre-opere-leccesi-di-antonio-bortone/

[3] Ibidem.

[4] ALDO DE BERNART, Nel primo centenario del Monumento di Antonio Bortone a Quinto Ennio, Ruffano, Tipografia Inguscio -De Vitis, 2012. Sull’erudito ruffanese Aldo de Bernart, si veda: PAOLO VINCENTI, Aldo De Bernart: Profilo biografico ed intellettuale, in AA. VV., I luoghi della cultura e cultura dei luoghi, In memoria di Aldo de Bernart, a cura di FRANCESCO DE PAOLA e GIUSEPPE CARAMUSCIO, Società Storia Patria, sezione Lecce, “I Quaderni de L’idomeneo”, n.24, Lecce, Grifo, 2015, pp.11-38.

[5] GIOVANNA FALCO, Ivi.

[6] PAOLO VINCENTI, L’arte commemorativa postbellica. Antonio Bortone da Ruffano e una sua opera inedita, in “L’Idomeneo”, Soc. Storia Patria Lecce- Università del Salento, n.26 -2018, Castiglione, Grafiche Giorgiani, 2019, pp.247-282.

 

La pittoscultura di Pasquale Pitardi

di Paolo Vincenti

Cursi, pochi chilometri da Maglie, è la patria delle cave di pietra ed è anche la patria di Pasquale Pitardi, che però vive a Galatina, “poliedrico artista informale nell’anima e nei fatti”, come scrivono di lui, spinto da quella irrequietezza un po’ randagia, che forse è propria di tutti i creativi. Ma i viaggi di Pitardi, oltre che nelle dimensioni temporali del passato, del presente e del futuro, sono viaggi nel colore, nella materia, nella libera creazione fantastica.

“Pittoscultografia” è il neologismo coniato per definire l’arte di Pitardi, o quello che è oggi l’approdo dell’arte di Pitardi. Infatti, l’artista, che provava un senso di profonda insoddisfazione misto alla curiosità e alla voglia di intraprendere nuovi percorsi, ha iniziato a scomporre le sue opere e dalla bidimensionalità, tipica do ogni dipinto, è approdato alla tridimensionalità di quelle che sono oggi le sue pennellate di colore che, come variopinte tavolette votive, si accumulano nella sua casa laboratorio, oppure nelle mostre alle quali partecipa.

Partendo dalla acquisita consapevolezza che la pittura è finzione, e che come tale non lo appagava più, Pitardi ha iniziato a staccare questa pittura dai suoi canonici supporti, a scomporre l’opera d’arte visiva quadro, e a cercare sfondo per le sue pennellate di colore nei materiali più disparati, dal legno alla plastica, che danno comunque al fruitore la percezione tattile di un corpo tridimensionale che fa tabula rasa di ogni menzogna immaginativa, di ogni illusione ottica quale è, fra chiari e scuri, il quadro tradizionalmente inteso.

Per le sue opere, usa acrilico e pennelli di tutte le dimensioni ed offre così al visitatore un’esperienza singolare, perché i suoi prodotti artistici sono tutti originalissimi in quanto pezzi unici, non riproducibili, sfuggono alle omologazioni, a qualsiasi catalogazione. “Sono lì, si vedono, si toccano, hanno la dimensione che è sotto gli occhi di chi guarda; non ci sono illusioni ottiche, non ci sono giochi di prospettive e chiaroscuri ingannevoli, niente è diverso da ciò che colpisce i sensi del visitatore. Non si compongono in immagini. Possono suscitare sensazioni di piacere o di rifiuto, questo importa poco. Non hanno messaggi o significati da trasmettere.

Sono colore puro e sconvolgono con la loro urgenza fisica, con il loro nonsenso”, scrive Maria Rosaria Cesari, in uno dei tanti blog on line sulle mostre del Pitardi. Pasquale Pitardi è stato vincitore a soli 16 anni del concorso di disegno pubblicitario promosso a Milano dalla casa editrice Aldo Palazzi.

Fino al 1986, ha lavorato presso il centro stile design della Fiat, Torino, ma poi ha abbandonato tutto ed è tornato nel Salento, a Galatina, per dedicarsi alla sua arte. Ha tenuto numerose mostre, fra le quali ci piace ricordarne alcune. Nel novembre 1997, presso l’Associazione culturale Amaltea, Lecce, presenta “Differendo. Personale di pittura”. Dal 3 al 21 dicembre 2005, tiene a Lecce, presso i Cantieri Teatrali Koreja, la mostra “Nulla da dipingere: nulla da scolpire”. Una personale, “L’Opera,”, a Spoleto, dal 18 agosto all’8 settembre 2007.

Questo “smontare l’opera pittorica” diventa un po’ la cifra distintiva di Pitardi. Nell’agosto del 2008, a Gagliano del Capo, partecipa alla mostra collettiva su Vincenzo Ciardo. Scrive Massimiliano Cesari, in occasione della “Mostra Bellomo Luchena Pitardi” (che si tiene nell’aprile 2002 a Soleto presso l’Opera Pia ): “E’ apparentemente difficile collocare la produzione artistica di Pasquale Pitardi all’interno di una categoria delle arti figurative, così come la tradizione artistica spesso pretende, e pericolosamente realizza.

L’artista, e lo posso affermare senza perplessità, vive la sua ricerca in una fluttuante zona di frontiera, dove il bidimensionale (allegabile alla pittura su un qualsiasi supporto) si plasma con la tridimensionalità, ricca di vuoti e pieni, della scultura (praticata in maniera quasi classica), alla ricerca del genere artistico universale e completo, lontano dalla contemporanea e diffusa concezione autoptica che comunemente si ha.

E’ una lotta che Pitardi conduce incessantemente con consapevolezza, cosciente dell’importanza che essa detiene su se stesso e che gli permette, attraverso continui impulsi vitali, di concretizzare le ricerche e le sperimentazioni ‘pittografoscultoree’. Una lotta generatrice, quindi, paradossale per certi versi, ma evidentemente emblema di un disagio ricollegabile ad una collettività sempre più distante e sprezzante, nei confronti di chi pratica arte: l’artista ha un bisogno costante, quasi spasmodico, di dialogare con chi si pone davanti all’opera; egli rivendica con forza il ruolo di catalizzatore tra i messaggi figurativi e il comune fruitore, cercando di scuotere e di invadere la coscienza estetica del pubblico”. (pubblicato in Massimiliano Cesari, Bellomo-Luchena-Pitardi: tre percorsi contemporanei, in «Note di Storia e Cultura Salentina»,n.17, Lecce, Grifo 2005, pp. 256-257).

Nel 2011 espone presso la Mediateca Comunale di Melpignano “Peppino Impastato”, con la mostraPittoscultografica” l’opera”, curata dalla coordinatrice della Mediateca Ada Manfreda. Qui ha esposto ben 5000 pennellate, mentre nell’ex Convento degli Agostiniani una tela bianca di 570 metri x 146 centimetri e nell’ex Manifattura Tabacchi 39 contenitori. Infatti, negli ultimi tempi Pitardi cerca di distanziare quanto più possibile il contenuto della sua opera dai contenitori, fino a realizzare, ci confessa, il sogno impossibile di distanziarli quanto l’intera circonferenza della Terra.

Come scrive Salvatore Colazzo in I colori caduti. La pittoscultura di Pasquale Pitardi ( pubblicato in “Amaltea”, trimestrale di cultura on line, dicembre 2010, e in “Il Paese Nuovo”, Lecce, sabato 16 aprile 2011), “parlando dell’inaugurazione della mostra ( “La pittoscultura di Pasquale Pitardi”, Galatina, Galleria D’Enghien, 1-30 novembre 2010) l’artista ha tenuto a ribadire la sostanziale identità tra il gesto del pittore e quello dell’imbianchino […] E’ molto concettuale l’idea di materializzare una pennellata e metterla in mostra […] Concettuale è pure l’idea di gettar giù dalla torre di Pisa piuttosto che dal Campanile di San Marco che dal Duomo di Lecce secchiate e secchiate di colori, come fossero coriandoli, solidificati”.

C’è da aspettarsi dunque nuove spiazzanti realizzazioni da questo poliedrico artista dai lunghi capelli contenuti da un cerchietto e dalla bianca barba che lo fanno simile ad un santone indiano oppure ad un mitologico sileno salentino.

Libri| I giorni ed i versi, di Franco Melissano


di Paolo Vincenti

“I giorni ed i versi. Poesie” (2017), con il patrocinio della Società di Storia Patria per la Puglia, Sezione del Basso Salento, è la terza raccolta poetica di Franco Melissano. L’autore, apprezzato avvocato, vive ed opera a Corigliano d’Otranto ed è un appassionato cultore di memorie antiche. Dotato di una solida formazione umanistica, riesce a spaziare fra la storia e la letteratura, come dimostra la sua collaborazione con la rivista miscellanea “Note di storia e Cultura Salentina”.

La prima raccolta di poesie, “A ccore pertu (2012-2013). Poesie”, del 2013, costituisce l’esordio letterario di Melissano. Un esordio fortunato, dal momento che il libro si presenta, oltre che con una elegante copertina, opera di Gigi Specchia, anche impreziosito da una dotta Prefazione di Pino Mariano e da una prestigiosa Postfazione di Giuseppe Orlando D’Urso. Quest’opera è divisa in quattro sezioni, ciascuna recante un’epigrafe che apre i canti: la prima sezione, Corianu e llu Salentu, con un’epigrafe di Pino Mariano; la seconda, che dà il titolo al libro, con un’epigrafe di Giuseppe Ungaretti; la terza, intitolata Risu maru, come il famoso film di De Santis con Silvana Mangano, con un’epigrafe di Jean de Santeuil, ovvero Castigat ridendo mores; la quarta sezione, Finca ca libertà cerca lu core, con un’epigrafe di Pablo Neruda, tratta da “Confesso che ho vissuto”. Della silloge, forse per consonanza d’intenti, mi colpì molto la terza sezione, quella dedicata alla satira, nella quale Melissano traccia da par suo una galleria di tipi umani, prendendo spunto dall’ordinario vissuto della sua comunità di appartenenza. Ma i vari personaggi messi alla berlina, come Lu leccaculi, Lu tirchiu, Lu ciucciu sapiente, Lu cane de chiazza, in realtà rappresentano altrettante maschere della commedia umana, sono personaggi fortemente connotati, che diventano perciò stesso universali. Forse è per questo amore per la risata intelligente, ho pensato, che Franco Melissano apprezzò il mio libro “L’osceno del villaggio”, che pure aveva a tema la satira (“in un mondo in cui l’ironia non può più nulla”, citando lo sfortunato poeta Stefano Coppola), scrivendone una bella recensione, che è fra le più complete che io abbia ricevuto per quel libro. La lingua dialettale dunque è protagonista in questo libro in cui tratta vari argomenti, affronta, in versi, le più disparate tematiche, da quella sociale a quella amorosa, da quella famigliare a quella locale coriglianese, e lo fa con una duttilità ed una ricchezza di espressioni, tono e accenti, davvero sorprendenti.

La seconda raccolta di poesie è “Carasciule te stelle. Poesie in dialetto”, del 2014, ulteriore testimonianza della versatilità della musa di Melissano, che proprio con la lirica La Musa apre l’antologia. Nel libro, arricchito da una pregnante Prefazione di Lina Leone, prevale una sensazione di nostalgia per i tempi passati ed uno scoramento, una blanda mestizia per i tempi presenti; in generale, la consapevolezza del dolceamaro della vita mista con un sentimento di ineluttabilità del destino. L’autore sembra farsi laudator temporis acti quando contrappone alla felicità dei tempi passati, lo squallore del presente, il miserabile teatrino politico e il disagio che pervade la nostra società. Non da meno, compare nella poesia di Melissano un sentimento religioso, che è portante nella sua formazione. Anche questa raccolta è divisa in sezioni: Fiche e amedde, la prima, Stozzi te pane nvelenatu, la seconda, Sonu te campane, la terza. L’utilizzo del dialetto è sapiente, ma soprattutto naturale, da parte dell’autore, sgorga dall’intimo, è lingua dell’uso, per lui, non artificiosa operazione artistica se non, peggio, captatio benevolentiae del vasto pubblico.

E si giunge così a “I giorni ed i versi” che è in lingua italiana e conferma, se non la “plurivocità”, per dirla con Husserl, certamente la multiformità della sua produzione. L’opera mi ha colpito molto più delle precedenti. Con questa raccolta l’autore sembra esser giunto alla maturità artistica. Melissano utilizza una lingua ricca, varia, alta, ma la padronanza dei mezzi espressivi, quella che si chiama la perizia, fornisce solamente il basamento alla sua poesia, voglio dire, la tecnica puntella l’ispirazione melica, ne sorregge il ritmo, l’intonazione, ma la materia viva che compagina il libro è offerta dal suo sentimento, declinato nelle molteplici forme che assume l’amore, e da un’ispirazione che non conosce cedimenti dal primo all’ultimo verso di questo pregevole canzoniere. La silloge, con una ispirata Prefazione di Giuliana Coppola, è divisa in due sezioni. La prima è “Canto di sirena. Venti poesie d’amore”, la seconda, che dà il titolo al libro, è “I giorni ed i versi”.

Nella prima sezione, si avverte forte l’influenza di Pablo Neruda de “I 20 poemas de amor y una canciòn desesperada”, specie per la forte sensualità che pervade questi versi, ma soprattutto dei “Cien sonetos de amor”, sia pure senza quella struggente nostalgia, la latente amarezza dell’inappagato, che intride i versi del grande poeta cileno, anche quando il paesaggio nel quale è calato il suo amore sia radioso, pacificato, solare. Insistente è il ricorso alle similitudini, da parte di Melissano, con un vago richiamo al crepuscolare, luttuoso, alla Bodini o alla Gatto per intenderci, anche nelle poesie in cui maggiormente esulta l’eros, e questo è chiaramente un debito nei confronti dei classici, per quella concezione dell’ineluttabilità del tempo, del disfacimento di tutte le cose, che si ritrova nella lirica greca delle origini. Così l’incanto del sentimento, il fascino della donna amata, diventano rifugio dalla amara presa di coscienza della realtà, argine al senso della fine che insegue dappresso. La seconda sezione, che si apre con un’invocazione all’amata poesia, si può considerare un compendio di tutte le letture che hanno influenzato l’autore, a partire dai classici greci e latini, in primis Omero e Virgilio, – come non cogliere in alcune liriche l’influsso dell’elegia latina, di Catullo, di Properzio, di Ovidio -, passando per l’Ottocento, Foscolo su tutti, per arrivare ai poeti del Novecento, come Ungaretti, Montale, Rebora, Quasimodo; insomma, Melissano riversa in questa raccolta tutta la propria eredità letteraria e lo fa con estrema naturalezza, senza il menomo sospetto di erudizione o di pedanteria. Non v’è ombra di artificiosa costruzione o di ridondanza. Del resto, come scrive Evtusenko di Boris Pasternak, “la vera grandezza non sta nell’ereditare, quanto nel condividere con tutti. Altrimenti anche la persona di più vasta cultura si trasforma in un balzachiano Gobsek, nascondendo agli altri il tesoro del proprio sapere”.

Melissano è figlio della sua cultura occidentale, il suo percorso di studi, dal Liceo classico frequentato al glorioso Capece di Maglie fino a Giurisprudenza studiata a Roma, è lì a dimostrarcelo. Tuttavia ci sono due modi di amare la tradizione: uno è quello di rinnegarla, ribellandosene attraverso le più ardite sperimentazioni, l’altro è quello di conservarla, riproporla, attraverso un classicismo riecheggiato che ne fa omaggio. E se forse è più vero classicismo il primo, non è del tutto indegno il secondo. Anzi, queste poesie stimolano il lettore di medio alta cultura a cercare le innumeri tracce disseminate da Melissano, laddove, se non si trova di vero e proprio citazionismo, vi è tuttavia una ripresa dei grandi autori che fanno da riferimento. Una poesia allora come memoria, fatta di rimandi, di continui omaggi ai modelli che però vengono coinvolti nel suo canto monodico, compartecipano, come stella polare, ovvero misura di confronto costante, bussola di riferimento al suo navigare nel liquido lirico amniotico della poesia invocata evocata invocante evocante. La tendenza non è quella barocca, tortile, all’accumulo, ma quella moderna all’essenzialità; è apprezzabile l’asciuttezza, il lavoro di cesello fatto su questi versi nei quali il ritmo alimenta il canto e le immanenze iconiche, archetipiche, quelle che si potrebbero definire le risultanti della gestazione mitopoietica, sussumono un senso alto attribuito alla poesia dal suo autore, salvifico, quasi palingenetico. Il portato semiologico della silloge si compagina di immagini tonde, metafore, allitterazioni, assonanze e consonanze, che forniscono il contesto retorico figurale nel quale si muovono le sue creazioni fantastiche. E non solo la vita ed il sociale, la politica, le cronache di tutti i giorni, diventano materia di scrittura, ma pure la letteratura stessa, e insomma tutte le articolazioni di un mondo in cui fra autore e lettore si è creato un incolmabile divario, oggi come oggi. Rimane il gusto agrodolce di una raccolta che fa dell’eleganza, della misura e della compostezza i fiori maturi da porre sull’avello della poesia.

Un beneficio del 1623 nella seconda Matrice di Casarano

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Paolo Vincenti, Storia minima, Luigi Marrella

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 131-133

 

 

ITALIANO

L’autore recensisce gli ultimi due testi prodotti dallo storico Luigi Marrella per la raccolta Storia/e minima/e.

 

ENGLISH

The author reviews the last two works written by the historian Luigi Marrella for Storia/e minima/e’s collection.

 

Keyword

Paolo Vincenti, Storia minima, Luigi Marrella

 

Le tre grazie della beneficenza magliese

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Maglie

Paolo Vincenti, Le tre grazie della beneficenza magliese

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno VI, n° 8, 2019, pp. 57-71.

 

 

ITALIANO

Le tre grazie del titolo sono Francesca Capece, Concetta Annesi e Michela Tamborino, protagoniste di una stagione esaltante della storia magliese che, per quanto indagata a fondo, si ritiene valga la pena che sia rimemorata, perché davvero, con le parole di Anneliese Knoop-Graf, “dimenticanza e sciagura, mentre memoria e riscatto”.

 

ENGLISH

The three graces on the title correspond to Francesca Capece, Concetta Annesi and Michela Tamborino, the main characters of an exciting season of Maglie’s history which is worth to be remembered regardless how

deeply it has been investigated. According to Anneliese Knoop-Graf in fact “the oblivion is a catastrophe, instead the memory is redemption”.

 

Keyword

Paolo Vincenti, Maglie, beneficenza, Francesca Capece, Concetta Annesi, Michela Tamborino.

Viaggiatori tedeschi nel Sud Italia

di Paolo Vincenti

L’interesse dei tedeschi per il sud Italia parte da lontano. Già nel Cinquecento, Paul Schede detto Melissus (1539-1602) parlò di Rudiae negli Epigrammata in urbes Italiae del 1585 (1). Johann Heinrich Bartels (1761-1850) visita il Sud ma solo la Calabria e la Sicilia, verso la fine del Settecento, e documenta il suo viaggio nell’opera Briefe über Kalabrien und Sizilien. Dieterich, Göttingen 1787–1792 (2).
Nel Settecento, arrivano in Italia il Barone von Riedesel  e il pittore Jacob Philipp Hackert. Abbiamo già detto del tedesco Johann Hermann von Riedesel, barone di Eisenbach (1740-1785) e del suo libro, Un viaggiatore tedesco in Puglia nella seconda metà del sec. XVIII. Lettere di J.H.Riedesel a J.J.Winckelmann, che è, come dice il titolo, un’opera epistolare, diretta al famoso archeologo Winckelmann (3).

Diplomatico e ministro prussiano, Riedesel aveva conosciuto a Roma e frequentato il Winckelmann, il quale gli aveva fatto da guida nella esplorazione dei monumenti della città. Il suo libro divenne un punto di riferimento in Germania e fu molto letto, anche da Goethe, che lo elogia nella sua opera “Viaggio in Italia”, in cui sostiene di portarlo sempre con sé, come un breviario o un talismano, tale l’influenza che quel volume, per la puntigliosità e l’esattezza delle notizie, esercitava sugli intellettuali (4).

Jacob Philipp Hackert (1737-1807), nella sua opera pittorica I porti delle Due Sicilie (Napoli 1792) inserì i porti di Gallipoli e di Otranto. Il grande artista divenne pittore di corte del re Ferdinando IV di Napoli e in questa veste fu in Italia con molti incarichi come quello di supervisionare il trasferimento della collezione Farnese da Roma a Napoli. Fu amico di Goethe che scrisse di lui nella sua opera “Viaggio in Italia”. Ma l’incarico più prestigioso che il pittore ricevette dal re Ferdinando IV fu la commissione del famoso ciclo di dipinti raffiguranti i porti del Regno di Napoli.

Le numerose vedute dei porti si articolano in tre gruppi suddivisi tra le vedute campane, pugliesi, calabresi e siciliane. Per eseguire i disegni preparatori si recò così in Puglia e in Campania. La serie comprende 17 quadri e si trova ancora oggi custodita alla Reggia di Caserta; vi sono raffigurati esattamente i porti di Taranto, Brindisi, Manfredonia, Barletta, Trani, Bisceglie, Monopoli, Gallipoli, Otranto.

La serie è stata in mostra, dal 20 giugno al 5 novembre 2017, presso la Sala Ennagonale del Castello di Gallipoli (Lecce).  L’esposizione intitolata “I porti del Re”, a cura di Luigi Orione Amato e Raffaela Zizzari, prodotta dal Castello in collaborazione con la Reggia di Caserta e il Comune di Gallipoli, ha visto all’inaugurazione l’intervento dello storico dell’arte Philippe Daverio e del direttore generale della Reggia di Caserta, Mauro Felicori (5).
Nel giugno 2018, si è tenuta a Brindisi la grande mostra: “Brindisi: Porto d’Oriente”, a  Palazzo Nervegna, dove è stato possibile “ammirare per la prima volta  il celebre quadro ‘Baia e Porto di Brindisi’ che il vedutista prussiano Jakob Philipp Hackert realizzò nella seconda metà del ‘700 su incarico del re Ferdinando IV di Borbone. L’esposizione è stata organizzata nell’ambito del progetto ‘La Via Traiana’ e comprendeva una serie di opere che raccontano la storia della città attraverso alcune vedute del porto, fatte dai viaggiatori del ‘700” (6).
Anche lo scrittore Johann Wilhelm von Archenholtz (1741-1813), famoso politologo, era stato in Italia ma egli, pur essendo tedesco, aveva pubblicato un’opera intitolata England und Italien, nel 1785, nella quale contrapponeva i due paesi, appunto il Regno Unito e l’Italia, con due sistemi politici diversi, propendendo decisamente per l’Inghilterra. Tuttavia nelle critiche feroci che Wilhelm fa a Genova, Venezia, allo Stato della Chiesa e al Regno di Napoli, è facile scorgere una larvata accusa alla sua Germania (7).
Il poeta Friedrich Leopold Stolberg (1750-1819) nella sua opera Reise in Deutschland, der Schweiz, Italien und Sicilien in den Jahren 1791 und 1792, 4 voll., 1794, documenta il suo viaggio nel sud Italia dove però manifesta una posizione anticlassica e irrazionalistica, che provocò la sdegnata reazione di Goethe.

L’opera è stata recentemente tradotta in italiano da Laura A. Colaci, che scrive: “Dopo il viaggio nel Sud della Germania e della Svizzera col fratello e con Goethe, Stolberg ne intraprese uno più lungo in compagnia della moglie Sophie von Redern, del figlioletto, di G.A. Jacobi e G.H.L. Nicolovius attraverso la Germania, la Svizzera e l’Italia.

Frutto di questo viaggio è il volume Reise in Deutschland, der Schweiz, Italien und Sicilien in den Jahren 1791 und 1792. Viaggiò in Puglia dal 3 al 17 maggio del 1792”(9).  Si tratta di un’opera epistolare, composta cioè delle lettere che egli aveva inviato durante il suo soggiorno nel nostro Paese a vari corrispondenti tedeschi. Queste lettere però vennero rielaborate per la loro pubblicazione e ciò portò ad una certa stilizzazione, soprattutto in quelle che hanno un maggiore contenuto politico religioso. Egli visitò Brindisi, Lecce, Otranto, Gallipoli.

Il compagno di viaggio di Stolberg, Georg Arnold Jacobi (1768-1845), al ritorno dal suo viaggio pubblica Briefe aus der Schweiz und Italien nel 1796-7, ossia una raccolta delle sue lettere inviate da Brindisi, Lecce e Gallipoli.  Sempre di un’opera epistolare dunque si tratta, ma le lettere dello Jacobi sembrano essere più in presa diretta, ovverosia meno stilizzate, di quelle del suo compagno di viaggio Stolberg, e soprattutto si nota in lui una minore componete polemica, pur essendo protestante e classicista anch’egli. È molto più critico però nei confronti del governo di Napoli e del malcostume che in quella città allignava. Mentre la prosa dello Stolberg è più accattivante, controllata e in qualche modo romantica, avendo egli rimaneggiato le lettere, quella dello Jacobi è invece più scarna e realistica. Entrambi i viaggiatori comunque sono attratti dai resti dell’antichità classica, per cui, specie quando giungono in Puglia, a partire da Taranto, la loro attenzione si sofferma sulle influenze greche della nostra civiltà. Stolberg sente tutta la civiltà europea tributaria della cultura classica. Il suo classicismo però è filtrato dal cristianesimo. Questo lo porta a vedere l’Italia, e in particolare il Sud, in quanto più diretta emanazione di quella cultura, come una sorta di paradiso perduto che, con antesignano gusto romantico, egli idealizza, dandone una visione edenica, certo lontana dalla realtà. “Pur vivendo nel clima del classicismo winckelmaniano, lo Stolberg è distante dall’dea di classico alla Winckelmann”, scrive Scamardi (10).  Dunque egli ripudia ogni idea dell’arte che non sia classica, per esempio il barocco leccese. “l ruderi classici evocano, sì, l’idea della caducità della vita umana, un elemento, questo, certo presente in tanta poesia sulle rovine della fine del Settecento, solo che lo Stolberg oppone la certezza della fede cristiana[…] In questo lo Stolberg anticipa non solo taluni stilemi di un certo romanticismo, ma anche un certo kitsh romantico. Si può concordare, in definitiva, col giudizio di Helga Schutte Watt secondo la quale lo Stolberg in Italia ritorna ai fondamenti classici della cultura europea e della sua stessa formazione intellettuale e non solo non scorge alcun conflitto tra classicismo e cristianesimo, ma vede in quest’ultimo una forma di coronamento, di inveramento del primo” (11).

A Taranto sono ricevuti dal Vescovo Giuseppe Capecelatro, uomo di vastissima cultura, lo stesso che accompagnò il viaggiatore svizzero Carlo Ulisse De Salis Marschlins (1728-1800 ) nel suo viaggio in Puglia. Come già Eberhard August Zimmermann (1743-1815), naturalista e geografo, che venne in Puglia su incarico del Regno di Napoli per studiare la nitriera naturale di Molfetta (12),  anche il conte svizzero era accompagnato dall’Abate Fortis e i suoi interessi principali erano volti all’agricoltura e all’allevamento. Abbiamo già detto del De Salis Marschlins, che pubblica per la prima volta le sue impressioni di viaggio in tedesco in due volumi a Zurigo nel 1790 e nel 1793.  La prima pubblicazione del libro in lingua italiana viene fatta nel 1906 (13),  con la traduzione di Ida Capriati De Nicolò (ottima traduttrice anche delle memorie di Janet Ross)(14), e poi viene più volte ripubblicato (15).


Lo storico Ferdinand Gregorovius (1821-1891) visse più di vent’anni in Italia, soprattutto a Roma. Pubblicò i suoi resoconti di viaggio in Italia nell’opera  Wanderjahre in Italien tra il 1856 e il 1877,  in cui fa una descrizione analitica, davvero minuziosa delle condizioni di vita del nostro popolo in quegli anni. Il suo è un interesse erudito, per cui alle note naturalistiche, si accompagnano le descrizioni artistiche e letterarie e soprattutto sociologiche. L’opera si compone di cinque volumi ed è nell’ultimo volume, con il titolo Apulische Landschaften, (Lipsia, F. A. Brockhaus, 1877) che si occupa del nostro territorio. Gregorovius venne in Puglia due volte, nel 1874 e 1875. La prima traduzione della sua opera è di Raffaele Mariano nel 1882 (16).  L’itinerario si snoda attraverso le città di Lucera , Manfredonia, Monte Sant’Angelo, Andria, Castel del Monte, Lecce e Taranto.

“Il Gregorovius seguiva con interesse la ricezione della cultura tedesca in Italia e intratteneva rapporti cordiali con chiunque in qualche modo se ne occupasse. Ma è soprattutto la scuola filosofica hegeliana che attrae l’attenzione dello storico tedesco che, come è noto, aveva egli stesso studiato filosofia all’Università di Konigsberg. Fu proprio attraverso il Rosenkranz, suo maestro a Konisberg, che conobbe lo storico del cristianesimo e filosofo Raffaele Mariano, con cui oltre a compiere i viaggi in Puglia intrattenne sempre rapporti di amicizia. Il Mariano tradusse in italiano le  Apulische Landschaften. Nell’introduzione alla sua traduzione, nella quale il Mariano ricostruiva, attingendo alla pubblicistica meridionalistica di Pasquale Villari e Raffaele De Cesare, la situazione politico-sociale della Puglia, l’autore non nascondeva una certa animosità nei confronti dei pugliesi, che suscitò le forti proteste di Niccolò Brunetti…”. Così scrive Scamardi (17), che pubblica nel suo libro anche i Diari inediti di Gregorovius del secondo viaggio in Puglia (1875)(18).  Si rimproverava cioè al traduttore e quindi all’autore un punto di vista troppo “tedescocentrico”.

In realtà, Gregorovius dimostra grande interesse nei confronti dell’Italia meridionale, dei suoi punti di forza ma anche delle sue mancanze. Si appassiona della questione meridionale, si rammarica dell’arretratezza delle infrastrutture, si intrattiene sulla rete viaria e quella ferroviaria, sul porto di Brindisi, parla della mafia e della lotta dello stato contro la criminalità, ecc. Da storico non può non essere attratto dal fascino della storia millenaria, soprattutto a Roma, sua città elettiva. “In una pagina delle Wanderjahre in Italien fa una digressione sui paesaggi storici italiani dove si avverte, più che altrove, il respiro del passato. Dai monumenti emana come una forza elettrica per la quale il Gregorovius conia l’espressione ‘magnetismo della storia’”(19).  A lui si deve la definizione di Lecce come  “Firenze del Sud”. Gregorovius non amava il romanico e prediligeva il gotico.
Il tedesco Gustavo Meyer Graz (1850-1900), corrispondente del Sclesische Zeitung di Breslavia arriva nel 1890 per raccogliere i canti della Grecia Salentina. I suoi articoli di viaggio vennero poi tradotti da Cosimo De Giorgi (che lo accompagnò nel viaggio) nel 1895 per “Il Popolo Meridionale”, rivista leccese, e poi successivamente in volume (20).   Gli articoli si intitolano: “Da Brindisi a Lecce”; “Lecce-San Nicola e Cataldo”; “Da Lecce a Calimera”; “Taranto”.  Il Meyer è molto preoccupato dal fatto che la lingua greganica vada persa a causa dell’incuranza dei governi.

Taranto nel 1789, Incis. da Hackert

Venne in Italia anche lo storico dell’arte Paul Schubring (1869-1935) corrispondente del giornale “Frankfurter Zeitung”, il quale mandava i suoi reportage di viaggio descrivendo minuziosamente la nostra regione. I suoi articoli vennero poi raccolti in volume da Giuseppe Petraglione (21).  Secondo il traduttore, gli articoli di Schubring  potrebbero essere considerati un ampliamento del libro del Gregorovius in quanto vi sono menzionati alcuni monumenti lì assenti, come la Chiesa di Santo Stefano in Soleto, e approfonditi altri di cui era stato fatto solo un fugace cenno, come la chiesa di Santa Caterina e la Cattedrale di Troia.

Note

[1]Raffaele Semeraro, Viaggiatori in Puglia dall’antichità alla fine dell’Ottocento: rassegna bibliografica ragionata, Schena, 1991, p.73.

[2] Johann Heinrich Bartels, Lettere sulla Calabria Viaggio in Calabria Vol III, Catanzaro, Rubettino, 2007.

[3] Johann Hermann von Riedesel ,Un viaggiatore tedesco in Puglia nella seconda metà del sec. XVIII. Lettere di J.H.Riedesel a J.J.Winckelmann, Prefazione e note di Luigi Correra, Martina Franca, Editrice Apulia, 1913, poi ristampata in Tommaso Pedio, Nella Puglia del 700 (Lettera a J.J. Winckelmann), Cavallino, Capone, 1979.

[4] Teodoro Scamardi, La Puglia nella letteratura di viaggio tedesca. Riedesel Stolberg Greborovius, Lecce, Milella, 1987, pp.35-58.

[5] http: www.famedisud.it/il-sud-settecentesco-di-philipp-hackert-in-mostra-a-gallipoli-i-porti-…

[6] http:www.brundarte.it/2018/03/23/baia-porto-brindisi-jakob-philipp-hackert/

[7] Teodoro Scamardi, op. cit., p.64.

[8] Friedrich Leopold Graf Zu Stolberg, Reise In Deutschland, Der Schweiz, Italien Und Sizilien In Den Jahren 1791 Und 1792 1794 Con traduzione italiana a cura di Laura A. Colaci, Edizioni Digitali Del Cisva, 2010.

[9] Carlo Stasi, Dizionario Enciclopedico dei Salentini, 2 voll, Lecce, Grifo, 2018, p.1128.

[10] Teodoro Sacamardi, op. cit., p.76 .

[11] Idem, p.77.

[12] Idem, p.24.

[13] Carlo Ulisse De Salis Marschlins, Nel Regno di Napoli : viaggi attraverso varie province nel 1789, Trani, Vecchi, 1906.

[14] Janet Ross, La terra di Manfredi, traduzione dall’inglese di Ida De Nicolo Capriati, illustrazioni di Carlo Orsi, Trani, Vecchi, 1899, poi ripubblicato in Eadem, La Puglia nell’Ottocento : la terra di Manfredi, a cura di Maria Teresa Ciccarese, Lecce, Capone, 1997.

[15] Fra gli altri, in Carlo Ulisse De Salis Marschlins, Viaggio nel Regno di Napoli, Galatina, Congedo, 1979, con Introduzione di Tommaso Pedio, e in Idem, Viaggio nel Regno di Napoli – che riproduce la prima traduzione italiana di Ida Capriati De Nicolò -, a cura di Giacinto Donno, Lecce, Capone, 1979 e 1999, e ancora in Idem, Nel Regno di Napoli Viaggi attraverso varie provincie nel 1789, Avezzano, Edizioni Kirke, 2017.

[16] Ferdinand Gregorovius, Nelle Puglie (1877), versione dal tedesco di Raffaele Mariano con noterelle di viaggio del traduttore, Firenze, G. Barbera, 1882.

[17] Teodoro Scamardi, op.cit., p.97.

[18] Idem, pp.137-147.

[19] Idem, p.127.

[20] Gustavo Meyer-Graz, Apulische Reisetage, a cura di Cosimo De Giorgi, Martina Franca, 1915. Poi ristampato in Idem, Puglia . Sud (1890), a cura di Gianni Custodero, traduzione di Cosimo De Giorgi, Cavallino, Capone Editore, 1980.

[21] Paul Schubring ,La Puglia: impressioni di viaggio (1900), traduzione e introduzione di Giuseppe Petraglione, Trani, Vecchi, 1901.

Libri| I giorni ed i versi di Franco Melissano

di Paolo Vincenti

“I giorni ed i versi. Poesie” (2017), con il patrocinio della Società di Storia Patria per la Puglia, Sezione del Basso Salento, è la terza raccolta poetica di Franco Melissano. L’autore, apprezzato avvocato, vive ed opera a Corigliano d’Otranto ed è un appassionato cultore di memorie antiche. Dotato di una solida formazione umanistica, riesce a spaziare fra la storia e la letteratura, come dimostra la sua collaborazione con la rivista miscellanea “Note di storia e Cultura Salentina”.

La prima raccolta di poesie, “A ccore pertu (2012-2013). Poesie”, del 2013, costituisce l’esordio letterario di Melissano. Un esordio fortunato, dal momento che il libro si presenta, oltre che con una elegante copertina, opera di Gigi Specchia, anche impreziosito da una dotta Prefazione di Pino Mariano e da una prestigiosa Postfazione di Giuseppe Orlando D’Urso. Quest’opera è divisa in quattro sezioni, ciascuna recante un’epigrafe che apre i canti: la prima sezione, Corianu e llu Salentu, con un’epigrafe di Pino Mariano; la seconda, che dà il titolo al libro, con un’epigrafe di Giuseppe Ungaretti; la terza, intitolata Risu maru, come il famoso film di De Santis con Silvana Mangano, con un’epigrafe di Jean de Santeuil, ovvero Castigat ridendo mores; la quarta sezione, Finca ca libertà cerca lu core, con un’epigrafe di Pablo Neruda, tratta da “Confesso che ho vissuto”. Della silloge, forse per consonanza d’intenti, mi colpì molto la terza sezione, quella dedicata alla satira, nella quale Melissano traccia da par suo una galleria di tipi umani, prendendo spunto dall’ordinario vissuto della sua comunità di appartenenza. Ma i vari personaggi messi alla berlina, come Lu leccaculi, Lu tirchiu, Lu ciucciu sapiente, Lu cane de chiazza, in realtà rappresentano altrettante maschere della commedia umana, sono personaggi fortemente connotati, che diventano perciò stesso universali. Forse è per questo amore per la risata intelligente, ho pensato, che Franco Melissano apprezzò il mio libro “L’osceno del villaggio”, che pure aveva a tema la satira (“in un mondo in cui l’ironia non può più nulla”, citando lo sfortunato poeta Stefano Coppola), scrivendone una bella recensione, che è fra le più complete che io abbia ricevuto per quel libro. La lingua dialettale dunque è protagonista in questo libro in cui tratta vari argomenti, affronta, in versi, le più disparate tematiche, da quella sociale a quella amorosa, da quella famigliare a quella locale coriglianese, e lo fa con una duttilità ed una ricchezza di espressioni, tono e accenti, davvero sorprendenti.

La seconda raccolta di poesie è “Carasciule te stelle. Poesie in dialetto”, del 2014, ulteriore testimonianza della versatilità della musa di Melissano, che proprio con la lirica La Musa apre l’antologia. Nel libro, arricchito da una pregnante Prefazione di Lina Leone, prevale una sensazione di nostalgia per i tempi passati ed uno scoramento, una blanda mestizia per i tempi presenti; in generale, la consapevolezza del dolceamaro della vita mista con un sentimento di ineluttabilità del destino. L’autore sembra farsi laudator temporis acti quando contrappone alla felicità dei tempi passati, lo squallore del presente, il miserabile teatrino politico e il disagio che pervade la nostra società. Non da meno, compare nella poesia di Melissano un sentimento religioso, che è portante nella sua formazione. Anche questa raccolta è divisa in sezioni: Fiche e amedde, la prima, Stozzi te pane nvelenatu, la seconda, Sonu te campane, la terza. L’utilizzo del dialetto è sapiente, ma soprattutto naturale, da parte dell’autore, sgorga dall’intimo, è lingua dell’uso, per lui, non artificiosa operazione artistica se non, peggio, captatio benevolentiae del vasto pubblico.

E si giunge così a “I giorni ed i versi” che è in lingua italiana e conferma, se non la “plurivocità”, per dirla con Husserl, certamente la multiformità della sua produzione. L’opera mi ha colpito molto più delle precedenti. Con questa raccolta l’autore sembra esser giunto alla maturità artistica. Melissano utilizza una lingua ricca, varia, alta, ma la padronanza dei mezzi espressivi, quella che si chiama la perizia, fornisce solamente il basamento alla sua poesia, voglio dire, la tecnica puntella l’ispirazione melica, ne sorregge il ritmo, l’intonazione, ma la materia viva che compagina il libro è offerta dal suo sentimento, declinato nelle molteplici forme che assume l’amore, e da un’ispirazione che non conosce cedimenti dal primo all’ultimo verso di questo pregevole canzoniere. La silloge, con una ispirata Prefazione di Giuliana Coppola, è divisa in due sezioni. La prima è “Canto di sirena. Venti poesie d’amore”, la seconda, che dà il titolo al libro, è “I giorni ed i versi”.

Nella prima sezione, si avverte forte l’influenza di Pablo Neruda de “I 20 poemas de amor y una canciòn desesperada”, specie per la forte sensualità che pervade questi versi, ma soprattutto dei “Cien sonetos de amor”, sia pure senza quella struggente nostalgia, la latente amarezza dell’inappagato, che intride i versi del grande poeta cileno, anche quando il paesaggio nel quale è calato il suo amore sia radioso, pacificato, solare. Insistente è il ricorso alle similitudini, da parte di Melissano, con un vago richiamo al crepuscolare, luttuoso, alla Bodini o alla Gatto per intenderci, anche nelle poesie in cui maggiormente esulta l’eros, e questo è chiaramente un debito nei confronti dei classici, per quella concezione dell’ineluttabilità del tempo, del disfacimento di tutte le cose, che si ritrova nella lirica greca delle origini. Così l’incanto del sentimento, il fascino della donna amata, diventano rifugio dalla amara presa di coscienza della realtà, argine al senso della fine che insegue dappresso. La seconda sezione, che si apre con un’invocazione all’amata poesia, si può considerare un compendio di tutte le letture che hanno influenzato l’autore, a partire dai classici greci e latini, in primis Omero e Virgilio, – come non cogliere in alcune liriche l’influsso dell’elegia latina, di Catullo, di Properzio, di Ovidio -, passando per l’Ottocento, Foscolo su tutti, per arrivare ai poeti del Novecento, come Ungaretti, Montale, Rebora, Quasimodo; insomma, Melissano riversa in questa raccolta tutta la propria eredità letteraria e lo fa con estrema naturalezza, senza il menomo sospetto di erudizione o di pedanteria. Non v’è ombra di artificiosa costruzione o di ridondanza. Del resto, come scrive Evtusenko di Boris Pasternak, “la vera grandezza non sta nell’ereditare, quanto nel condividere con tutti. Altrimenti anche la persona di più vasta cultura si trasforma in un balzachiano Gobsek, nascondendo agli altri il tesoro del proprio sapere”.

Melissano è figlio della sua cultura occidentale, il suo percorso di studi, dal Liceo classico frequentato al glorioso Capece di Maglie fino a Giurisprudenza studiata a Roma, è lì a dimostrarcelo. Tuttavia ci sono due modi di amare la tradizione: uno è quello di rinnegarla, ribellandosene attraverso le più ardite sperimentazioni, l’altro è quello di conservarla, riproporla, attraverso un classicismo riecheggiato che ne fa omaggio. E se forse è più vero classicismo il primo, non è del tutto indegno il secondo. Anzi, queste poesie stimolano il lettore di medio alta cultura a cercare le innumeri tracce disseminate da Melissano, laddove, se non si trova di vero e proprio citazionismo, vi è tuttavia una ripresa dei grandi autori che fanno da riferimento. Una poesia allora come memoria, fatta di rimandi, di continui omaggi ai modelli che però vengono coinvolti nel suo canto monodico, compartecipano, come stella polare, ovvero misura di confronto costante, bussola di riferimento al suo navigare nel liquido lirico amniotico della poesia invocata evocata invocante evocante. La tendenza non è quella barocca, tortile, all’accumulo, ma quella moderna all’essenzialità; è apprezzabile l’asciuttezza, il lavoro di cesello fatto su questi versi nei quali il ritmo alimenta il canto e le immanenze iconiche, archetipiche, quelle che si potrebbero definire le risultanti della gestazione mitopoietica, sussumono un senso alto attribuito alla poesia dal suo autore, salvifico, quasi palingenetico. Il portato semiologico della silloge si compagina di immagini tonde, metafore, allitterazioni, assonanze e consonanze, che forniscono il contesto retorico figurale nel quale si muovono le sue creazioni fantastiche. E non solo la vita ed il sociale, la politica, le cronache di tutti i giorni, diventano materia di scrittura, ma pure la letteratura stessa, e insomma tutte le articolazioni di un mondo in cui fra autore e lettore si è creato un incolmabile divario, oggi come oggi. Rimane il gusto agrodolce di una raccolta che fa dell’eleganza, della misura e della compostezza i fiori maturi da porre sull’avello della poesia.

Letteratura di viaggio e bibliografia sui viaggiatori stranieri in Puglia

Viaggiatori del Grand Tour in Carrozza, con il giovane avantcourier

 

di Paolo Vincenti

La letteratura di viaggio è sterminata e la bibliografia sui viaggiatori stranieri in Puglia fra Settecento e Ottocento è davvero molto ampia e mi limito a trattare due viaggiatori dell’Ottocento.

La febbre per l’Italia in realtà partiva da lontano, perché già nel Cinquecento il Montaigne fece un viaggio in Italia compilandovi una relazione. E poi nel Settecento, antecedenti illustri furono Goethe, col suo famoso “Viaggio in Italia”, ma anche Charles de Brosses, con le “ Lettres familieres sur l’Italie” scritte fra 1739 e 1740 e pubblicate postume nel 1799[1].

Nell’Ottocento, fra i nomi più altisonanti, potremmo citare Stendhal, con le altrettanto famose “Promenades dans Rome” del 1829[2]. Comunque, dal Lazio e dalla Campania (mèta privilegiata dei viaggiatori europei, anche a seguito degli allora recenti scavi di Ercolano e Pompei), pian piano gli itinerari di viaggio si allargano a comprendere le regioni meridionali: in primis la Sicilia, e poi la Calabria e la Puglia.

Teniamo conto dell’eco suscitata, non solo in Germania, dalle ricerche effettuate fra il 1856 e il 1877 dal grande studioso tedesco Ferdinand Gregorovius, pubblicate nel suo famoso libro “Pellegrinaggi d’Italia”, in cinque monumentali volumi.

I visitatori europei, quindi, attirati certo dal fascino della nostra antichissima cultura, venivano in Italia non solo alla ricerca delle vestigia greche e romane e per le bellezze artistiche del Rinascimento, ma anche attratti dal grande sviluppo economico sociale e dai fermenti politici e letterari che attraversavano in quel tempo la nostra penisola. Nell’Ottocento inoltrato, gli europei finalmente scoprono anche il Sud della Puglia, spingendosi fino al Salento. Fra i primi viaggiatori in Terra d’Otranto, una menzione speciale merita il Conte Carlo Ulisse De Salis Marschlins, 1728-1800, svizzero, la cui opera è un caposaldo della letteratura di viaggio in Puglia. Egli percorre le nostre contrade nel 1789 e si dimostra fortemente interessato a tutti i nostri paesi. Si sofferma sugli aspetti economici della nostra terra, in particolare è interessato all’agricoltura, ovverosia alla coltivazione dell’olivo, della vite, del tabacco, degli agrumi. Pubblica per la prima volta le sue impressioni di viaggio in tedesco in due volumi a Zurigo nel 1790 e nel 1793. La prima pubblicazione del libro in lingua italiana viene fatta nel 1906[3], con la traduzione di Ida Capriati De Nicolò (ottima traduttrice anche delle memorie di Janet Ross[4] ), e poi viene più volte ripubblicato[5].

Il De Salis scruta il Salento con occhio attento e indagatore, analizza tutti i fenomeni sociali e di costume che osserva. Egli, imbevuto dello spirito illuminista, si pone di fronte alle realtà locali con mente lucida e scientifica. “Con la vigorosa relazione del De Salis”, scrive Enzo Panareo nel 1979, prima della grande fortuna editoriale poi conosciuta da questo autore,[6] “il clima intellettuale, rispetto a quello di precedenti viaggiatori estatici di fronte alle gloriose rovine del mondo classico e divertiti dal contatto episodico con le popolazioni, è diverso e rispecchia le ipotesi culturali realizzate dal secolo dei lumi, spregiudicatamente operanti”.

L’interesse per il Medioevo suscitato da studiosi come il già citato Gregorovius, il Winckelmann, il Lenormant, portano alcuni intellettuali europei a cercare in Italia anche le tracce di quella civiltà. Altri invece si soffermano sugli aspetti più romantici e pittoreschi delle nostre regioni, ed è il caso del francese Paul Bourget, 1852-1935, autore di “ Sensations d’Italie”, un diario di viaggio che scrive nel 1890 durante la sua lunga escursione attraverso l’Italia.

Egli visita anche la Puglia, in particolare Brindisi, Taranto e Lecce, che per i turisti stranieri era già diventata “la Firenze del Sud”. L’opera viene pubblicata l’anno successivo a Parigi e non se ne conoscono edizioni moderne.[7] Si tratta di sensazioni, come recita il titolo stesso, ossia impressioni di viaggio sulle varie città che spesso vengono ritratte con rapide pennellate. “Le Sensations d’Italie furono pubblicate per la prima volta a Parigi da Plon nel 1891”, scrive in rete Filomena Attolico, della Biblioteca Nazionale di Bari, “proprio quando l’Italia, sotto la guida di Crispi, era entrata a far parte della Triplice Alleanza, schierandosi su posizioni decisamente ostili alla Francia. L’autore dell’opera, il francese Paul Bourget celebre romanziere e critico letterario, si rattristò molto per questa situazione di cui fece qualche cenno nel suo libro, ma senza lasciarsi influenzare da contingenze politiche, trattò l’Italia come la sua seconda patria identificandola come un concentrato di arte, cultura, storia paesaggi tradizioni. Numerose sono infatti le pagine dedicate alle impressioni sul paesaggio e alle considerazioni sulla gente, i costumi, le superstizioni: degno di nota a tal proposito è l’incontro con l’eroe risorgimentale che si batté contro i Borbone nel 1848, il leccese Sigismondo Castromediano, che lo condurrà ad alcune riflessioni sull’Unità d’Italia, compiuta non solo grazie all’intervento dei grandi uomini di cui parla la storia ufficiale, ma grazie anche all’opera di “aristocrates, passionnés de liberté”.

Tra i suoi apprezzamenti da esperto conoscitore dell’arte, notevole è quello riguardante il barocco leccese, in particolare per il materiale impiegato, la pietra leccese, una pietra particolarmente tenera in cui il chiaroscuro si scioglie nella luce dando un effetto cromatico del tutto originale. I suoi romanzi lo avevano reso celebre e fu proprio la notorietà del suo nome a far riconoscere al Prof. Giuseppe Gigli, tra gli ospiti di un albergo leccese, il nome del grande romanziere francese che si trovava lì in viaggio di nozze; per l’occasione il letterato italiano si offrì come guida allo “psicologo errante” e alla giovane sposa Minnnie David, per accompagnarli nel viaggio in Terra d’Otranto dal 15 al 28 novembre 1890.

Quando arrivò a Bari, Bourget commentò: “Per me, la trovo attraente questa città nuova, con le sue vie larghe, ad angoli retti, che consentono di veder sempre in fondo ad esse il mare, come si vedono a Torino le Alpi!”. Il viaggio in Italia, intrapreso nel settembre 1890 e terminato nel luglio 1891, era nato inoltre dall’impegno preso dallo scrittore francese con la rivista Débats finalizzato alla compilazione di una relazione sulle città più caratteristiche e significative della Penisola…”[8].

Non sorprende la grande capacità di Bourget di cogliere gli aspetti interiori di una località poiché egli, da fine letterato, era anche psicologo e pubblicò alcuni interessanti trattati nei quali analizzava psicologicamente alcuni protagonisti della scena letteraria ottocentesca come StendhalTaine, che era stato suo maestro, e Baudelaire.

 

Note

[1] Charles de Brosses, “Viaggio in Italia”, Bari, Laterza, 1973.

[2] Stendhal, “Passeggiate romane”, Bari, Laterza, 1973.

[3] Carlo Ulisse De Salis Marschlins, “Nel Regno di Napoli : viaggi attraverso varie province nel 1789”, Trani, Vecchi, 1906.

[4] Janet Ross, “La terra di Manfredi”, traduzione dall’inglese di Ida De Nicolo Capriati, illustrazioni di Carlo Orsi, Trani, Vecchi, 1899, poi ripubblicato in Eadem, “La Puglia nell’Ottocento : la terra di Manfredi”, a cura di Maria Teresa Ciccarese, Lecce, Capone, 1997.

[5] Fra gli altri, in Carlo Ulisse De Salis Marschlins, “Viaggio nel Regno di Napoli”, Galatina, Congedo, 1979, con Introduzione di Tommaso Pedio, e in Idem, “Viaggio nel Regno di Napoli” – che riproduce la prima traduzione italiana di Ida Capriati De Nicolò -, a cura di Giacinto Donno, Lecce, Capone, 1979 e 1999, e ancora in Idem, “Nel Regno di Napoli Viaggi attraverso varie provincie nel 1789”, Avezzano, Edizioni Kirke, 2017.

[6] Enzo Panareo, Viaggiatori in Salento, in “Rassegna trimestrale della Banca agricola popolare di Matino e Lecce”, a.V, n.3-4 , Matino, sett-dic 1979, p.81.

[7] Paul Bourget, “Sensations d’Italie :Toscane, Ombrie, Grande-Grèce”, Paris, Alphonse Lemerre, 1891.

[8] Nota di Filomena Attolico, in www.viaggioadriatico.it/biblioteca…/scheda_bibliografica.

 

Sull’argomento, dello stesso Autore, vedi anche:

La letteratura di viaggio e viaggiatori stranieri in Puglia fra Settecento e Ottocento

La letteratura di viaggio e viaggiatori stranieri in Puglia fra Settecento e Ottocento

DUE INGLESI ED UN TEDESCO

di Paolo Vincenti

Gli inglesi e il tedesco del titolo sono tre viaggiatori che nei secoli scorsi hanno raggiunto le nostre contrade. Ora, la letteratura di viaggio è un campo sterminato e anche sui viaggiatori stranieri in Puglia fra Settecento e Ottocento vi è una bibliografia talmente vasta che non appesantirò questo articolo, riportandola.

Mi sia concesso solo fare una brevissima introduzione su quell’importante fenomeno che va sotto il nome di “Grand Tour”, e poi mi intratterrò sui tre personaggi che, dei tanti, mi sembrano fra i più interessanti. Il Grand Tour è un fenomeno culturale tipicamente settecentesco.

Con questa espressione si è soliti definire il viaggio di istruzione e di formazione, ma anche di divertimento e di svago, che le élites europee intraprendono attraverso l’Europa fra Settecento e Ottocento. Protagonisti indiscussi del Grand Tour sono i giovani che hanno appena concluso gli studi, e in generale quegli intellettuali che specie nel Romanticismo erano imbevuti di cultura classica e dunque desideravano venire in Italia, come dire alla fonte di quella enorme ricchezza culturale che dal nostro Paese si era irradiata in tutta Europa.

Per i rampolli dell’aristocrazia francese, inglese, tedesca, pieni di cultura libresca ma poco pratici del mondo e degli uomini, il viaggio in Italia si presentava come un’esperienza irrinunciabile, certo indispensabile al fine di perfezionare la propria educazione. Essi vedevano nell’Italia la culla dell’arte e per esteso della civiltà mediterranea, grazie alla storia gloriosa di Roma, a sua volta tributaria della Grecia. E così si mettono in viaggio non solo i giovani, ma anche diplomatici, filosofi, collezionisti, romanzieri, poeti, artisti. Ciò dà origine ad una sterminata produzione, epistolari, diari, reportages di viaggio, romanzi, poesie, e non solo di carattere letterario ma anche artistico, pensiamo al famoso “Voyage pittoresque ou description du Royaume de Naples et de Sicile”, in cinque volumi, che realizzò l’abate francese Richard de Saint-Non tra il 1778 e il 1787, su incarico degli editori Richard e Labord.

Gallipoli

Uno dei primi viaggiatori inglesi ad arrivare in terra salentina è Crauford Tait Ramage,1803-1878. Egli dimorava a Napoli come precettore dei figli del console Henry Lushington e, nel 1828, intraprese il suo viaggio nelle province meridionali, visitando il Salento. Rimane affascinato dalla bellezza di Otranto, poiché egli, come moltissimi inglesi dell’epoca, associava il nome di Otranto al romanzo di Horace Walpole ( il quale però non era mai stato ad Otranto)[1].

Nella sua opera “The nooks ad by-ways of Italy”, presso l’Editore Howell, Liverpool, del 1868[2], egli annota tutto quello che vede, catturato dall’irresistibile fascino dei nostri paesi e paesini, e per questo osserva anche la vita quotidiana, gli usi e le abitudini della nostra gente, anche se non sempre si dimostra preciso ed attento, come sottolinea Carlo Stasi a proposito del suo passaggio nel Capo di Leuca[3].

Il suo libro, dedicato al Generale Carlo Filangeri, è un resoconto di viaggio, sotto forma di lettere scritte ad un parente. Le lettere che riguardano la Puglia vanno dalla XXIII alla XXIX.

Come spiega bene il sottotitolo dell’opera,Vagando in cerca dei suoi antichi resti e delle moderne superstizioni”, il Ramage, pur essendo spirito illuminista, è attirato dalle stranezze, o per meglio dire è attirato dalla suggestione che queste stranezze sembrano esercitare sul nostro popolo. Egli, che si professa materialista, e in effetti è uno storico serio e puntiglioso, trova grande meraviglia e interesse antropologico nel notare la creduloneria, le supersitizioni, l’ignoranza che allignano fra i salentini. Si ferma di fronte al fenomeno delle tarantate, che fa discendere dai culti orgiastici della dea Cibele. Tuttavia, ama la bellezza classica di questi posti. Infatti rimane molto colpito da Lecce e dalla sua architettura barocca, anche se, come già Swinburne, non apprezza la Chiesa di Santa Croce.

Anche lo studioso Henry Swinburne, infatti, venne nel Regno delle Due Sicilie e visitò la Puglia da Foggia fino a Lecce. Nel suo libro “Travels in the Two Sicilies” del 1783, passa in rassegna tutte le città e i paesi che visita. Parla delle donne che danzano sfrenatamente delle danze bacchiche, a Brindisi, e che egli crede morsicate dalle tarantole, e parla anche di Lecce. Di particolare interesse, il suo disappunto di fronte al barocco leccese e a quello che ne è il monumento simbolo, la Chiesa di Santa Croce, che derubrica a pessimo esempio di commistione fra stili diversi. Lo Swinburne detesta la città di Lecce e la sua architettura, d’accordo in questo con un altro celebre intellettuale, il Riedesel, che è il secondo protagonista del nostro pezzo.

Il tedesco Johann Hermann von Riedesel, barone di Eisenbach, 1740-1785, è un appassionato archeologo che vuole descrivere ai suoi connazionali le antichità classiche dell’Italia. Il suo libro, “Un viaggiatore tedesco in Puglia nella seconda metà del sec. XVIII. Lettere di J.H.Riedesel a J.J.Winckelmann”, è, come dice il titolo, un’opera epistolare, diretta al famoso archeologo Winckelmann[4].

Diplomatico e ministro prussiano, Riedesel aveva conosciuto a Roma e frequentato il Winckelmann, il quale gli aveva fatto da guida nella esplorazione dei monumenti della città. Infatti, e non potrebbe essere diversamente, nella descrizione che il Riedesel fa dell’Italia Meridionale, in particolare della Regione salentina, si avverte l’influenza del Winckelmann. Come detto, in fatto di architettura egli non ama lo stile barocco, che definisce “il più detestabile”, mentre apprezza molto la semplicità delle architetture mediterranee e in particolare delle pajare e dei muretti a secco. “Non restano però estranee al tedesco, acuto osservatore di uomini e cose, la vita economica e quella sociale delle contrade visitate”, come scrive Enzo Panareo[5].

Il suo libro divenne un punto di riferimento in Germania e fu molto letto, anche da Goethe, che lo elogia nella sua opera “Viaggio in Italia”, in cui sostiene di portarlo sempre con sé, come un breviario o un talismano, tale l’influenza che quel volume, per la puntigliosità e l’esattezza delle notizie, esercitava sugli intellettuali.

Janet Ross ,1842-1927, giornalista, storica e autrice di libri di cucina, arriva nel Salento nel 1888. Memorabile il suo incontro con Sigismondo Castromediano, che le racconta la storia della sua vita. Janet Ross pubblicò nel 1889 in Inghilterra le sue relazioni di viaggio in Puglia, in “La terra di Manfredi, principe di Taranto e re di Sicilia. Escursioni in zone remote dell’Italia Meridionale”, successivamente tradotto e pubblicato in Italia col titolo “La terra di Manfredi”[6].

Un racconto davvero interessante, fra lo storico-artistico e l’antropologico, impreziosito dai disegni di Carlo Orsi, compagno di viaggio della Ross, e ripubblicato ancora nel 1978 in Italia col titolo “La Puglia nell’800 (La terra di Manfredi)”.[7] Bisogna dire che la figura del Re Manfredi, come tutti gli Svevi, suggestionava fortemente la viaggiatrice inglese. Nella mentalità dei britannici, infatti, questa era una dinastia eroica, avendo lottato contro il papato.

Nei luoghi visitati – nell’ordine: Trani, Andria, Castel del Monte, Barletta, Bari, Taranto, Oria, Manduria, Lecce, Galatina, Otranto, Foggia, Lucera, Manfredonia, Montesantangelo, Benevento – , la Ross cerca le antiche vestigia di una civiltà, quella appula, ricca di gloriose tradizioni.

Determinante fu il suo incontro con Giacomo Lacaita. Come scrive Nicola De Donno, recensendo il libro curato da Vittorio Zacchino, “L’autrice, che era stata a Firenze, la capitale italiana degli inglesi, ed in Puglia anche l’anno precedente, ci informa che non avrebbe composto il suo libro senza l’incoraggiamento di Giacomo Lacaita, o meglio di sir James Lacaita, come sempre lo chiama. A Leucaspide, presso Taranto, che era la residenza di campagna dei Lacaita, ella rimase ospite per alcuni giorni e di lì il Lacaita le preparò escursioni ed in alcune l’accompagnò, le dette consigli e le suggerì riferimenti culturali. Egli era, al tempo del viaggio, senatore del regno d’Italia ed aveva settantacinque anni.

Nativo di Manduria, laureato in giurisprudenza a Napoli ed introdotto nella buona società cosmopolita della capitale dalla principessa di Leporano, di cui suo padre era stato amministratore, fu impiegato come legale dal consolato inglese, ove strinse relazioni importanti, fece da guida al Gladstone nella sua famosa visita a Napoli, ebbe, probabilmente per ciò, noie dalla polizia borbonica. Riuscì, nonostante tutto, ad ottenere da Ferdinando II un passaporto per l’Inghilterra nel 1851 e non tornò più a Napoli. A Londra fece un nobile matrimonio che gli aprì molte porte, si convertì all’anglicanesimo e naturalizzò, ebbe incarichi presso diplomatici.

E’ quasi certo che venne agganciato dalla diplomazia segreta di Cavour; da vecchio si vantò, a nostro giudizio poco credibilmente, di avere scongiurato lui che l’Inghilterra nel ’60 impedisse a Garibaldi di passare lo stretto e invadere la Calabria e tutto il Napoletano. Dopo l’unità tornò in Italia, fu candidato governativo alla Camera, si riconverti al cattolicesimo e venne fatto senatore.

Acquistò la tenuta di Leucaspide, la restaurò e vi si stabilì. Grandi e piccoli personaggi passavano dalla masseria, la quale divenne un nodo significativo di quei legami post-risorgimentali fra la buona società inglese e il turismo in Italia, di cui il viaggio della Ross fu una manifestazione.

In questo filone si inserisce anche, nel libro, l’incontro a Lecce con il Castromediano e la scoperta che questi era stato assistito in Inghilterra, quando evase dalla nave che lo deportava in America, dalla nonna della Ross. (Il racconto di galera che gli mette in bocca non è però originale: è una parafrasi dell’articolo Da Procida a Montefusco, che il Castromediano stampò nella strenna « Lecce 1881 » dell’editore Giuseppe Spacciante).

Il libro riporta molte annotazioni etniche e demografiche, sull’abbigliamento, su usi e costumi dei pugliesi, sulle fiere e i pellegrinaggi, le superstizioni soprattutto, i riti pasquali, le danze e i canti, ecc. Parla della pizzica pizzica facendo delle descrizioni puntuali ma anche coinvolgenti, nel puro spirito romantico da cui questa viaggiatrice era sostenuta”[8].

Janet Ross è una studiosa davvero attenta. Il contributo demo etno antropologico del suo libro è rilevante, perché ella, nella nostra Terra d’Otranto, annota tutto, fiabe, racconti popolari, superstizioni, riti magici, riporta tre canzoni, “Riccio Riccio”, “Larilà” e “La Gallipolina”, e poi si sofferma sul fenomeno del tarantismo, distinguendo fra “tarantismo secco ” e “tarantismo umido”, sottolineando per il primo l’importanza della presenza dei colori e per il secondo l’importanza dell’acqua nel cerimoniale.

Molto belle e coinvolgenti le descrizioni del ballo della pizzica pizzica che fa alla masseria Leucaspide con i lavoranti di Sir Lacaita. Una personalità davvero interessante, insomma. La Ross, corrispondente del Times, grande viaggiatrice, nel 1867, insieme al marito Henry Ross, un ricco banchiere, si stabilì in Toscana, dove continuò la sua carriera di scrittrice.

In Puglia, ella trova un mondo che non pensava potesse esistere, e se ne innamora. Ecco perché riesce a rendere con tanta efficacia usi e costumi della gente dell’antica Terra d’Otranto.

 

[1] Vasta la letteratura su Horarce Walpole, 1717-1797, e sulla sua opera “Il castello di Otranto”, primo romanzo gotico della storia.

[2] Pubblicata in Italia col titolo “Viaggio nel regno delle due Sicilie”, a cura di Edith Clay, traduzione di Elena Lante Rospigliosi, Roma, De Luca Editore, 1966, e poi anche in Crauford Tait Ramage, Vagando in cerca dei suoi antichi resti e delle moderne superstizioni, contenuto in Angela Cecere, “Viaggiatori inglesi in Puglia nel Settecento”, Fasano, Schena, 1989, pp. 37 e segg., e successivamente in Angela Cecere, La Puglia nei diari di viaggio di H. Swinburne, Crauford Tait Ramage, Norman Douglas, contenuto in “Annali della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Bari”, Terza serie, 1989 -90/X, Fasano, 1993, p. 63.

 

[3] Carlo Stasi, Uno straniero dal nome strano ed un contadino dall’aspetto sveglio, in “Annu novu Salve vecchiu”, n.9 , Edizioni Vantaggio, Galatina, Editrice Salentina, 1995, pp.72-76.

[4] Johann Hermann von Riedesel ,“Un viaggiatore tedesco in Puglia nella seconda metà del sec. XVIII. Lettere di J.H.Riedesel a J.J.Winckelmann”, Prefazione e note di Luigi Correra, Martina Franca, Editrice Apulia, 1913, poi ristampata in Tommaso Pedio, “Nella Puglia del 700 (Lettera a J.J. Winckelmann)”, Cavallino, Capone, 1979

[5] Enzo Panareo, Viaggiatori in Salento, in “Rassegna trimestrale della Banca agricola popolare di Matino e Lecce”, a.V, n.2, Matino, giugno 1979, p.54.

[6] Janet Ross, “La terra di Manfredi”, Vecchi Editore, 1899.

[7] “La Puglia nell’800 (La terra di Manfredi)”, a cura di Vittorio Zacchino, Cavallino, Capone Editore, 1978.

[8] Nicola De Donno, “La Puglia nell’800 (La terra di Manfredi)”, in “Sallentum”, Anno I, n.1, sett.-dic. 1978, Galatina, Editrice Salentina, 1978, p.138.

 

Libri| Per Claudio e Mario Micolano

Maglie, il Municipio

di Paolo Vincenti

“Claudio e Mario Micolano. Poesie e saggi”, è una piccola, preziosa pubblicazione, omaggio a due studiosi, entrambi scomparsi, i quali hanno segnato il proprio passaggio nella città di Maglie, che riconoscente li ricorda in questo volumetto, per le Edizioni Erreci (Maglie, 2018).

I Micolano, uniti da vincolo parentale oltreché da interessi comuni, hanno contribuito in grande misura alla crescita culturale di Maglie degli ultimi quarant’anni.

Claudio Micolano, professore di latino e greco presso il prestigioso Liceo Capece di Maglie, fu, insieme a Emilio Panarese e Nicola De Donno, fra i fondatori della locale sezione della Società di Storia Patria, che editava la rivista “Contributi” ed edita ancora “Note di Storia e Cultura Salentina”, sulle cui pagine Micolano è stato lungamente presente con saggi brevi, articoli di carattere storico e di critica letteraria, recensioni, racconti e poesie. Fu fra i fondatori della rivista, insieme a Nicola De Donno, Emilio Panarese e Vittorio Zacchino. Fra i suoi numerosi scritti, sono da menzionare il poderoso saggio critico su Oreste Macrì e quelli sul poeta e musicista Francesco Negro e sul poeta Salvatore Toma il quale era stato suo allievo al Liceo Capece e spesso si rivolgeva al professore per chiedere consigli e pareri. Del Comitato di redazione di “Contributi” (rivista trimestrale che uscì dal 1982 al 1988), egli faceva parte, insieme a Nicola De Donno e Latino Puzzovio. Così anche del Comitato di redazione di “Note di Storia e Cultura Salentina”, (annuario nato nel 1967 e giunto nel 2017 al suo XXVII numero), insieme a Fernando Cezzi, Mario Andreano, Lucio Causo, Emilio Panarese, Giacomo Filippo Cerfeda, Ermanno Inguscio ed altri che si sono avvicendati negli anni.  Fu anche fra gli animatori della rivista “Sallentum – quadrimestrale di cultura e civiltà salentina”, che venne pubblicata dal 1978 al 1989, dall’Ente Provinciale per il Turismo di Lecce.

Difficilmente, una città piccola come Maglie può annoverare nelle file di una stessa generazione personaggi della grandezza impressionante di De Donno, Panarese e Micolano, cui deve aggiungersi, per completare l’aurea schiera, Oreste Macrì, che li precedeva di qualche anno  (il quale però visse e operò a Firenze). Micolano pubblicò contributi anche sui  “Quaderni del Liceo Classico Capece” (una delle riviste scolastiche italiane più longeve) e sul quindicinale “Tempo d’oggi”, che uscì dal 1974 al 1980.  Fu anche narratore e poeta e riunì volentieri in volume gli scritti pubblicati nelle miscellanee. Il libro col quale lo si commemora è stato patrocinato dalla Città di Maglie, dalla Biblioteca Comunale Piccinno e dalla Fondazione Capece. Nel volumetto, di agile consultazione, dopo le Prefazioni di Ernesto Toma e Deborah Fusetti, rispettivamente Sindaco e Assessore alla Cultura del Comune di Maglie, di Medica Assunta Orlando, Direttore de L’Alca e della Biblioteca Comunale, e di Rossano Rizzo, Presidente della Fondazione Capece, si trova un bellissimo e approfondito ricordo di Claudio Micolano da parte di Salvatore Coppola.

Quest’ultimo, storico molto noto e dalla vastissima produzione, è stato a lungo Presidente della Società di Storia Patria sezione di Maglie, prima di passare il testimone a Dario Massimiliano Vincenti. Con Coppola Presidente, Micolano era nel pieno dell’attività e fra i due si era creata un’amicizia personale cementata dagli anni di sodalizio culturale.

Nel 1991, Micolano pubblicò “Uomini e formiche”, un libro di racconti, con Prefazione di Gino Pisanò. Nel 1997, pubblicò la raccolta di poesie “Crepuscolo”, recensita anche da Nicola De Donno e Donato Valli. Nel 1999, fu la volta di “Prose (due un soldo)”, sempre con belle copertine del pittore Lionello Mandurino.  Competenza e obbiettività di giudizio caratterizzavano i suoi pezzi, anche quando recensiva i libri dei colleghi. Nel 2002, pubblicò “S’è chiuso il cielo”, il suo ultimo libro di poesie. Scrive Salvatore Coppola: “Mitezza di carattere, umiltà, cortesia, rispetto degli altri e coscienza critica sono altrettanti tratti fondamentali della personalità di Claudio; quelle doti ne hanno accompagnato l’agire quotidiano, vuoi nell’attività di docente, vuoi in quella di promotore di cultura”

Dopo un florilegio di poesie e prose di Claudio, nella seconda parte del libro, si trova un ricordo di Mario Micolano, affidato a Giuliana Coppola.

Anche Mario, sebbene più appartato, è stato un intellettuale molto raffinato, colto e misurato. Scrive Emilio Panarese su “Note di storia e Cultura Salentina” ( XVIII, 2006), in occasione della sua morte: “Era dotato di acuta e  pronta intelligenza, che gli permetteva di focalizzare e memorizzare subito, in straordinaria sintesi, i punti essenziali di un testo o di un documento. La sua profonda e ricca sensibilità e la costante attenzione ai segnali provenienti dal dibattito educativo e scolastico, dalla cultura pedagogica e da quella letteraria in genere, gli permettevano di tesaurizzare una ricca esperienza di insegnamento al Liceo Capece di Maglie dove tenne, per molti anni, la cattedra di italiano e latino”.

Rare, come ricorda lo stesso Panarese, le sue pubblicazioni, fra cui una sull’opera di Nicola De Donno, pubblicata su “Sallentum” nel 1984, la Prefazione al libro di Nella Piccinno “Erano i miei segreti”(1991), e una lezione sull’Infinito di Leopardi in “Note di storia e cultura salentina”(XVII, 2005); infine, il libro postumo di poesie “Canto della vita” (2011). Pubblicava i suoi versi su riviste, fra cui “Presenza Taurisanese”.  Il volume termina con poesie e prose di Mario. Poi, si chiude il libro e si conserva la memoria.

Libri| A proposito di “Italieni”

di Antonio Di Seclì

Il poeta mantovano Alberto Cappi nell’introduzione a Il rosso e il nero di Sthendal ( vedi l’edizione di Newton Compton del 1994) scriveva: “Il gusto della citazione, l’interesse per la storia, la settecentesca e vivace curiosità, portano Sthendal a visitare con costanza le cronache della Gazette des tribunaux, un archivio sempre aperto alla sua generosa volontà di conoscere i costumi, gli atti, le passioni della società e dell’uomo del tempo”. Similmente, l’interesse per la società assieme a curiosità civica spingono il nostro Autore a indagare e scandagliare con generoso impegno e onestà i vizi e le poche virtù odierne dei connazionali.

Per comprendere con immediatezza la tipologia di contenuto delle riflessioni politiche, sociali, filosofiche, antropologiche, che assumono quasi sempre la forma di satura o di pasquinata, leggiamo insieme, a mo’ di esempio, alcuni brani tratti qui e là, quasi con casualità, da Italieni di Paolo Vincenti ( Besa Editrice, Nardò [2017], p. 282 ), secondo tomo di una trilogia ( sta per uscire il tomo terzo Avanti (O) Pop ). In precedenza l’Autore aveva già pubblicato nel 2016 L’osceno del villaggio per i tipi di argoMenti edizioni.

Leggiamo: “ L’osceno del villaggio è a piede libero. Si aggira fra di noi ( evocazione del Manifesto di Marx – Engels ), è il concentrato dei vizi e delle dissolutezze degli italiani, è il fenomeno da baraccone del gran Circo Barnum della nostra Nazione” (p.62) e ancora: “Molto italiano il vezzo di cambiar casacca, di voltare la gabbana all’occorrenza, di stare insomma dalla parte della ragione, che sta poi dalla parte del più forte” (p.65). Più oltre: “Un Governo a scadenza, come lo yogurt, quello Gentiloni, in dipendenza del tempo necessario al Parlamento a confezionare una nuova legge elettorale” (p.208) oppure “E lui [Matteo Renzi] novello Cincinnato, avrebbe lasciato i campi e la vanga e si sarebbe rivestito della giubba di rappresentanza. Dal negletto otium a un rinnovato negotium. Sì, ma ad avercela la dignità, che è merce rara, non è roba da un Renzi qualsiasi. Altrimenti pure la ministra delle riforme fallite Boschi … si sarebbe dovuta ritirare dalla politica” (p.212). E infine: “Ennesima figura di merda per il Movimento 5 stelle: il leader Grillo prima lascia l’Ukip di Nigel Farage al Parlamento Europeo e chiede di passare con il gruppo dell’Alde … Ma proprio nel momento in cui Grillo cerca di far bere ai suoi accoliti l’amaro calice, è l’Alde che lo sputtana e lo lascia sulla porta”.

Ce n’è per tutti! Vincenti non le manda a dire e tantomeno si sottrae all’uso colorito di espressioni in vero molto efficaci. Non arretra di un centimetro se si tratta di mettere alla berlina o di criticare questi e quelli, persone e movimenti, eventi e programmi televisivi e quant’altro ancora. Perciò, esemplifico casualmente, il campione pentastellato Beppe Grillo “Maitre à penser del vaffanculo e dell’arrestiamoli tutti, profeta della web devolution, spara urbi et orbi due cazzate delle sue … Proprio come negli anni d’oro di Berlusconi, infatti, tutti i media gongolano a ogni nuova uscita del memorabile Beppe” (p.238) Ma potrei continuare a dismisura con citazioni paradigmatiche su il Natale, sull’8 marzo festa delle donne, sulla sindaca di Roma Raggi, su Paolo il freddo Gentiloni, sul sindaco di Milano Sala, sul Fatto Quotidiano, sugli ambientalisti fanatici, sul pataccaro Paolo Catanzaro e via dicendo.

Gustose sono le aggettivazioni usate per fissare con veloci tratti impressionistici la luce dei vizi e delle scarse virtù dei soggetti e degli oggetti della riflessione dell’Autore. Aggettivazioni e immagini che, senza bisogno di trattati poderosi e stucchevoli, definiscono e fissano con immediatezza gli elementi più significativi del carattere e dell’operosità dei personaggi. Abbiamo già riferito del “neurolabile” Grillo che fa il paio con la “Barbie alla vaccinara” Raggi. Come anche Paolo Gentiloni “il freddo”,  “qualcuno era comunista” Piero Sansonetti, la festa delle donne “Lotto marzo” e via discorrendo.

Quella di Vincenti è veramente una scrittura interessante, perché dotta e ricca di aggettivi, erudita e generosa di immagini, forte di citazioni e di incisive voci verbali. Per rendersene conto, è’ sufficiente sbirciare anche solo per un attimo in quel che la sua penna, a pagina 270 e seguenti, semina nel concepimento di “Mondo Immondo”, articolo/cazziatone che, a mio parere, può essere a ragione ritenuto il Manifesto del pensiero e della scrittura, il manifesto intellettuale e sociale di P. Vincenti: “ Ogni giorno che Dio manda in terra, in cui mi tocca imprunarmi nel ginepraio di abiezioni che è la presente società, benedico e maledico la mia stella. La maledico perché mi costringe al contatto con tanta imbecillità, con i porci miei simili e con i loro schizzi di fango che mi fanno ritornare a casa la sera inzaccherato e maleodorante, La benedico, perché le atrocità degli implumi abitatori della terra, le pillacchere degli stolti, le ottusità degli ignoranti, empi, puttani, fanno secernere la mia bile corrosiva che, con uno scatarro catartico, nei miei cazziatoni, mi aiuta a eliminare le tossine e a vivere meglio. […] Quale maggior valenza, per chi scrive, ha la satira, che nasce dal riso e induce al riso? La satira mi permette di guardare con la lente del Giovenale, del Marziale, dell’Aretino, i miei consimili, coi loro vizi e le loro porcherie. Mai chiamandomi fuori, ma sempre con l’intento di emendare prima me. […] Non che io  mi senta un uomo di genio, però va da sé che si potrebbe scrivere un elogio degli strulli, come li definisce Papini […] Io, personalmente, non sopporto i sussiegosi, i formali, maggiordomi, scifferri …, imbalsamati, affettati, che non sai se siano davvero dei dementi oppure ti stiano prendendo per la collottola. […] Al tempo stesso, non sopporto quelli eccessivamente confidenziali, amiconi, che svaccati sulla sedia del bar ti danno il cinque, oppure sbrindellati a spasso sul corso ti corrono incontro [ qui evoca Orazio ] per salutarti e mollarti una pacca sulla spalla o un ceffone di simpatia in pieno viso. E ti chiedono dei tuoi affari, del lavoro, dei figli, come se ti conoscessero da sempre … sono gli apostoli dell’ecumenismo universale … i missionari del mal comune mezzo gaudio … E poi, la massa dei pecoroni, il popolo bue, quegli ottusi ignoranti che non distinguono la realtà dall’apparenza, che non sanno rabberciare uno straccio di idea, cognizione, e … avversano coloro che ne hanno … Non sopporto né quelli che mi incensano … perché sento lontano un miglio il loro fetore di adulatori … né coloro che non mi applaudono mai … perché è chiaro che sono rosi da livore nei miei confronti per non meglio chiarite ragioni. Per parte mia detesto gli invidiosi, i maldicenti quelli che godono dei fallimenti altrui … e detesto quelli infingardi che mi paradisano qualsiasi fesseria credendomi un beone … Non sopporto i politici di mestiere, i fancazzisti, i meschini, gli ingrati … Non sopporto i natistanchi, indolenti, taciturni … ma nemmeno i chiacchieroni, invadenti, onnipresenti … I codardi, i pacioni, i vili, i ganimedi … i bon vivant, i moderni Don Giovanni … gli esperti di tutto, i sempre informati. Vomitevoli. Si rivoltino pure nel fango del loro schifidume. Io, per quel che mi riguarda, continuerò per la mia strada”. All’autore piace, come nella citazione di p. 274 ( Pierangelo Bertoli, La fatica ), respirare la chiarezza, rompendo i bugigattoli dei dogmi culturali.

Paolo Vincenti è veramente “un cronista beffardo e mordace dell’esistente” – come afferma Massimo Melillo a p.9 – che “esercita la propria corrosiva provocazione” (p.10) attraverso  la satira che con l’Autore si rivela “graffiante, acuta, intelligente” (p.10). Vincenti dimostra “allergia all’ipocrisia e alla falsità” e “esercita al meglio la propria vis polemica” (p.10). Lui “non ama cantare nel coro” e “spinge al massimo il gusto per il paradosso e la provocazione”(p.12). Vincenti è “uomo lontano da qualsiasi parrocchia o confraternita, è contro tutto e tutti puntando il suo j’accuse in ogni direzione … senza retorica e senza acrimonia, bensì con il sorriso sulle labbra, ritenendosi un disimpegnato” (p.13),

Maurizio Nocera vede l’Autore “totalmente attratto dal richiamo filosofico della conoscenza, da un vortice fagocitante di un sapere sempre più vasto” (p.282) e i suoi scritti “sono lampi di luce fendente in un mare di oscenità” (p.282).

Anch’ io mi sono proposto di indagare il pensiero e la scrittura di Paolo Vincenti così come emerge dai suoi articoli. E con onestà devo affermare che non mi riesce difficile condividere i giudizi critici dei due estensori della prefazione e della postfazione a Italieni.

La scrittura del colto autore di Italieni risulta essere molto generosa e ricca di aggettivi salaci, immagini esemplificative e verbi mirati. La parola profondamente posseduta è rivelazione al contempo di una cultura aperta e vasta, di un pensiero vivo, forgiato nel fuoco di mille letture e riflessioni. Il suo (s)garbo è sempre filtrato o ammantato dall’aroma di un’ironia possente, che sa anche divenire autoironia; mentre la sfera del suo sorriso, nutrito da una dolce e intelligente satira, cede favorevolmente alla materia civile, all’impegno civico.

La sua è una specie di forza fustigatrice che vigila a difesa della res publica e che in Voltaire, a mio sentire, trova l’antenato più prossimo. C’è un mordace sorriso tutto volterriano nella scrittura di Vincenti. Non so se Voltaire sia parte importante delle letture formative dell’ autore di Italieni; ma c’è tanto dell’illuminista francese nella sua plume e nel suo energico pensiero.

L’impianto di Italieni, come del precedente L’osceno del villaggio, è costituito da articoli pubblicati su varie testate soprattutto on line. Gli articoli si appuntano su questioni quasi sempre esistenziali, a carattere morale, istituzionale, civico. Traggono occasione da un evento contingente, da un episodio, rispetto al quale l’Autore è soggetto, testimone, spettatore volontario o involontario, vittima. L’Autore non si limita a tratteggiare esclusivamente l’episodio, l’occasione. Non ritrae e basta, ma si sofferma, ne indaga le cause, supporta il suo ragionamento con riferimenti ad altri autori, spesso contigui alla sua formazione classica; ma anche a tanti altri, compresi i cantautori. Le citazioni, le epigrafi tratte da testi di buoni cantautori come Pierangelo Bertoli sono di già un contributo sostanzioso alla riflessione – potrebbero trovare sintesi in una apposita pubblicazione –  e dichiarano i gusti e la buona formazione di Paolo Vincenti.

Ho conosciuto Paolo Vincenti in una serata a Taurisano, per caso. Lui presentava il suo Di tanto tempo. Io venni invitato alla presentazione dagli amici di “Arte in Terra” nella sala di Corso Umbero I°. Vincenti mi convinse, mi piacque. Acquistai le sue poesie,: l’acquisto è già rivelatore di un consenso, di un giudizio positivo. Rilessi le poesie a Trento. Mi piacquero. Ora fanno parte della mia piccola biblioteca di autori salentini. Parlai di lui ad altri amici. Finalmente lo conobbi in occasione della pubblicazione dell’Osceno del villaggio. Mi fu chiesto di dialogare con lui , sempre a Taurisano, durante una serata nella sede dell’Associazione culturale “Pietre Vive” nel 2016. Fu un successo. Stranamente il pubblico della mia città, non avvezzo all’acquisto di carta stampata, fu così entusiasta delle parole di Paolo Vincenti che molte copie del libro vennero comperate. Nacque da quell’occasione reciproca stima e un senso di amicizia. E mi piace sapere che P. Vincenti scrive e che la sua scrittura incontra consenso, spesso, ma anche dissenso, giustamente.

Infine… Non solo Paolo Vincenti è autore di Italieni, ma anche, come già detto con lui hanno collaborato senza saperlo, con la loro voce e la forza di tante buone parole un gran numero di cantautori; e ancora, assieme a costoro, ha collaborato con particolare rilevanza l’altro Paolo, Paolo Piccione, vignettista gustosissimo che rilegge e rappresenta con finezza il pensiero satirico del primo Paolo. Osservate per tutte la vignetta sui nostri progenitori (p.139) per convincervi dell’efficacia artistica del nostro disegnatore. A proposito: pourquoi en francais! Forse una sottile autocensura o soltanto esprit de finesse?

 

 

Libri| Quando Ippocrate corteggia la Musa. A Rocco De Vitis medico umanista

di Paolo Vincenti

Un titolo molto suggestivo, che coniuga in prodigiosa sintesi, i due interessi della vita di Rocco De Vitis: la medicina e la poesia, ovverosia la cura del corpo e la cura della mente. “QUANDO IPPOCRATE CORTEGGIA LA MUSA. A ROCCO DE VITIS MEDICO UMANISTA”, a cura di Francesco De Paola e Maria Antonietta Bondanese, segna il n.31 della collana “Quaderni de L’Idomeneo”, della Società di Storia Patria-Sezione di Lecce, ed è edito da Grifo (2017). Il volume è stato realizzato con il contributo della Banca Popolare Pugliese, ed infatti, dopo la Presentazione di Mario Spedicato, troviamo un bell’intervento di Vito Primiceri, “Semper honor, nomenque tuum, laudesque manebunt” ( versi tratti dall”Eneide”), carico di umanità nei confronti del medico, celebrato nell’opera, nell’affettuoso ricordo del Presidente della BPP. Quando Ippocrate, nume tutelare della medicina, incontra Calliope, la musa della poesia, ecco che riemergono dal passato e si impongono alla nostra attenzione certe figure, vagamente romantiche, come De Vitis, che coniugano la pratica medica con l’amore per i classici, retaggio della loro formazione umanistica. E infatti, scrive il prof. Spedicato: “tutte le numerose testimonianze qui raccolte concordano nell’attestare come questi suoi interessi vitali siano da considerarsi come le due facce della stessa medaglia”. Rocco De Vitis, “Don Rocco”, come lo chiamavano tutti, era nato nel 1911 a Supersano. Aveva frequentato il Liceo Pietro Colonna di Galatina e poi la facoltà di Medicina a Bologna, dove si era laureato, a pieni voti, nel 1937. Esercitò per una vita la professione di medico condotto nella piccola Supersano, sua patria dell’anima prima che luogo di residenza. Pubblicò, in prima battuta, una traduzione in versi liberi dell’ “Eneide” di Virgilio, nel 1982, con l’aiuto di vari collaboratori che curarono il commento ai dodici libri del poema. Successivamente, anche su suggerimento di Mario Marti, che era stato un suo caro amico nella giovinezza, quando frequentavano entrambi il Liceo Colonna di Galatina, pubblicò una seconda edizione dell’opera virgiliana, nel 1987, in endecasillabi puri. Pubblicò poi un nuovo volume contenente altri due capolavori virgiliani: le “Bucoliche” e le “Georgiche”, con testo latino a fronte, tradotte e commentate dallo stesso autore. L’altro suo grande amore era quello per la campagna; amava rimanere ore e ore a coltivare la terra, ad accudire i suoi animali, a meditare sul mondo e sulla vita, nel silenzio e nella pace che offriva la collinetta di Supersano, che egli aveva eletto a proprio rifugio, locus amoenus. Sucessivamente pubblicò “Soste lungo il cammino”, nel 1991, e “Naufragio a Milano”, nel 1994. Morì nel 1997, ad 86 anni. Di lui, prima della presente opera, si sono interessati, solo per citarne alcuni, Enzo Panareo, che ha scritto la Prefazione della traduzione dell’ “Eneide, Antonio Errico, Giorgio Barba, prefatore del romanzo “Naufragio a Milano”, Florio Santini, Paolo Vincenti, Gino De Vitis, Direttore de “Il Nostro Giornale” (rivista culturale supersanese), il quale, insieme a Maria Bondanese, si è speso moltissimo in questi anni per tramandare la memoria del medico umanista.

Il libro che qui si presenta si apre con una citazione che viene dalla letteratura latina: Homo sum, nihil humani mihi alienum puto, tratto da una commedia di Terenzio. Il primo contributo è di Paolo Vincenti, “Il medico dalla scorza dura. Profilo bio bibliografico di Rocco De Vitis”, che riporta appunto la Bibliografia degli scritti del medico umanista. Segue il contributo di Aldo de Bernart, storico e scrittore parabitano ruffanese, scomparso nel 2013, che fu molto amico del dottor De Vitis. Il contributo di de Bernart è tratto da una manifestazione tenutasi a Supersano nel 2007 in occasione del decennale della scomparsa del medico. Lo scritto di Maria Bondanese, “Il dottore: una vita, una storia che parla di noi”, è il più carico di sentimento e non potrebbe essere altrimenti, essendo la Bondanese, non soltanto nuora di De Vitis, ma la più fervente ammiratrice del medico umanista, la più gelosa custode delle sue memorie. In effetti, se in questi anni è stata tenuta viva la memoria del medico umanista, ciò si ascrive principalmente a merito della dinamica Bondanese. Lo scritto di Maria, con un diverso titolo, era già apparso in “Apulia. Rassegna trimestrale della Banca Popolare Pugliese” (Martano editrice), nel dicembre 2007, così come da “Apulia”, stesso numero, proviene l’accorato scritto di Aldo Bello (“Il tarlo dell’umanesimo”), che della rivista matinese era Direttore e la cui prematura scomparsa costituisce un’altra dolorosa perdita per la cultura salentina. Bondanese ricostruisce le drammatiche tappe dell’esperienza fatta al fronte dal dottor De Vitis, rileggendo il suo diario di guerra. Questa testimonianza della Seconda Guerra Mondiale, vissuta in diretta dal protagonista, servì poi da spunto al medico per l’opera “Soste lungo il cammino”. Bondanese si sofferma anche sulle opere maggiori di De Vitis, l’Eneide, le Georgiche e le Bucoliche, e sono riportate belle foto in bianco e nero con gli autografi di De Vitis, gli scenari di guerra che egli toccò nella sua esperienza di soldato, e dei manoscritti della traduzione dell’Eneide. Alla fine del pezzo, troviamo delle foto del Dottore in occasioni pubbliche quali l’inaugurazione della chiesetta di San Giuseppe, nel 1984, sulla Serra supersanese.

Molto significativo, anche per l’alta carica ricoperta dal suo autore, è il testo di Don Gerardo Antonazzo, originario di Supersano e Vescovo di Sora-Cassino-Aquino Pontecorvo: “Nella sapienza del cuore la vera saggezza”. Ma c’è un altro prelato che contribuisce al volume, ed è Don Oronzo Cosi ( con “Una specie in via di estinzione”), non meno caro ai supersanesi, in quanto Parroco del paese. Viene poi ripubblicato un testo di Mario Marti, “Io e Il Nostro Giornale”, indirizzato alla rivista supersanese, appunto “Il Nostro Giornale” (una delle più longeve esperienze editoriali del Salento), nel maggio 1997.

Interessante, il contributo di Carla Addolorata Longo, “Un mirabile lascito di pensiero e di vita”, che si sofferma sulle pubblicazioni di De Vitis trovando spunto nelle tematiche da esse affrontate, per occuparsi anche della nostra attualità più stringente. Matteo Greco, nel suo “Sprofondamenti metropolitani e orizzonti meridionali”, analizza in particolare l’opera “Naufragio a Milano”. “Un’esperienza indimenticabile”, definisce lo scultore Antonio Elia la realizzazione, per conto del Dottor De Vitis, di alcune opere nella Chiesa di San Giuseppe, adornata anche dalle pitture di Ezio Sanapo. Elia illustra le varie fasi di lavorazione, fino alla perfetta conclusione del tutto.

Nella seconda sezione del libro, “L’humus dell’humanitas”, troviamo alcuni contributi che legano l’omaggio a Rocco De Vitis con la conoscenza del territorio, Supersano e il basso Salento. Il primo contributo è “Breve profilo socio-economico del Salento negli anni ’50”, di Gianfranco Esposito; poi “La decorazione nella cripta della Madonna Coelimanna”, di Stefano Cortese, e “Il Santuario della Vergine di Coelimanna in Supersano”, di Stefano Tanisi; seguono “Supersano Torrepaduli Ruffano”, di Vincenzo Vetruccio e “Il dialetto di Supersano”, di Antonio Romano.

I contributi di Cortese, Tanisi e Vetruccio vengono ripresi da una pubblicazione apparsa qualche tempo fa, vertente sul Museo del Bosco, la struttura museale che riproduce le meravigliose caratteristiche del Bosco di Supersano, che viene anche ricordato da Cristina Martinelli nel suo contributo “Tra documento identitario e poesia, Tu Supersano”, in cui analizza una poesia del De Vitis, tratta dal libro “Soste lungo il cammino”. Ben documentato, l’intervento di Giuseppe Caramuscio, “La memoria della Scuola come scuola della memoria: Galatina e il suo Liceo Classico”: una storia del prestigioso Liceo Colonna di Galatina, frequentato da Rocco De Vitis e da Mario Marti, fin dai suoi albori nell’Ottocento, con l’arrivo a Galatina dei Padri Scolopi i quali fondarono nel 1854 la prestigiosa istituzione scolastica a lungo vanto della città.

Il denso e articolato saggio, che si pone a metà via fra storia e pedagogia, è ricco, come tutti gli altri contributi, di un poderoso apparato critico e bibliografico. Parimenti interessante, lo scritto di Alessandro Laporta, “Se è lecito al medico esser poeta (Galateo, Meninni, De Giorgi, De Vitis)”, il quale fa una carrellata di dotti ed eruditi del passato che alla medicina erano legati per interesse o professione, dimostrando magistralmente come l’arte ippocratica e quella poetica, scienza e humanitas, come dicevamo all’inizio, rappresentino un forte connubio, di cui è emblematico l’amore riversato dal De Vitis verso entrambe le discipline. Remigio Morelli si occupa della dolorosa esperienza della Seconda Guerra Mondiale, “Un anno sul fronte greco-albanese”, che vide impegnato Rocco De Vitis, come già ricordato.

Quello di De Vitis va ad unirsi a tanti altri ritratti di salentini illustri che in questi anni la Società di Storia Patria sezione di Lecce ha tracciato nelle sue tre collane. Emerge un amore incondizionato nei confronti della piccola patria da parte di questi suoi figli devoti, non solo studiosi e specialisti delle humanae litterae, ma anche esponenti delle professioni che a vario titolo si sono confrontati con la letteratura, la poesia, il romanzo, i racconti, la memorialistica. Sembra quasi di vederlo, De Vitis, che, spogliatosi dei panni sporchi di ritorno dalla campagna, e indossato l’abito buono, novello Machiavelli de “Le lettere familiari”, penetra “nelle antique corti delli antiqui uomini”, interrogando filosofi, storici e poeti del passato, e “da loro amorevolmente ricevuto”, gli domanda le ragioni delle loro azioni e quelli gli rispondono.

Con la terza sezione del libro, “Vergiliana”, si entra nel vivo dell’opera maggiore di De Vitis, la traduzione dell’Eneide. Questa sezione è una antologia di saggi critici a cura di latinisti che esaminano l’opera devitisiana entrando nel merito di contenuto, stile, traduzione, metodologia. Gli studiosi, che danno a questa sezione del libro un taglio tecnico scientifico, sono: Giovanni Laudizi, con “La traduzione dell’Eneide, delle Bucoliche e delle Georgiche”; Maria Elvira Consoli, con “Dell’Eneide di Rocco De Vitis”; Paola Bray, con “ Quali doni, quali a te mai darò per tale carme?”; Antonio Errico, con “Il traduttore, il suo poema, i segreti del verso”, Maria Francesca Giordano, con “Un segmento di lettura didattica sfogliando le pagine dell’Eneide”; Angela Maria Silvestre, con “La missione di Enea e la traduzione di Rocco De Vitis”; Paolo Agostino Vetrugno, con “Le traduzioni devitisiane di Virgilio tra espressività ed armonia”; Giuseppina Patrizia Morciano, con “L’epicità di Virgilio. Tradizione e traduzione nella lettura di un classico”. La quarta sezione, “Tra storia e letteratura”, riserva spazio a contributi di storia e conoscenza del territorio, in linea con la vocazione della collana editoriale.

Troviamo allora Alessandra Maglie, con “Conflitti e narrazioni nella Terra del Rimorso. Tarantismo ed esperienza mitica secondo Ernesto De Martino”; Maria Antonietta Epifani, con “Maria Manca: la santa di Squinzano”; Sergio Fracasso, con “Il progetto ‘fallito’ dell’Orfanotrofio San Francesco (poi Istituto ‘Margherita di Savoia’) e il problema dell’infanzia abbandonata alle soglie del decennio francese”; Antonio Cataldi, con “ Contributo per una storia dei missionari lazzaristi italiani in Etiopia ed in Eritrea nel periodo coloniale”; Michele Mainardi, con “L’Istituto tecnico di Lecce e l’Orto Agrario”; Arcangelo Salinaro, con “Il letterato Alfredo Mori in Puglia: una caso”; Luigi Scorrano, con “ Con un vescovo di fronte alla guerra e nell’Inferno di Dante”. Dopo l’Indice dei volumi pubblicati, il libro si chiude.

Un’opera imponente, per qualità e mole dei contributi presenti, per la quale dobbiamo essere grati a chi l’ha voluta.

Libri| Quando Ippocrate corteggia la Musa

di Paolo Vincenti

Il 4 maggio 2017, nella Sala Chirico degli Olivetani dell’Università del Salento, è stato presentato il volume “QUANDO IPPOCRATE CORTEGGIA LA MUSA” dedicato al Dott. Rocco DE VITIS, medico e umanista, per i vent’anni della sua scomparsa. Ha coordinato il Prof. Mario Spedicato, Presidente della sezione di Lecce della Società di Storia Patria; sono intervenuti i proff. Luigi Montonato, Alessandro Laporta, Eugenio Imbriani; ha concluso la prof.ssa Maria Antonietta Bondanese.

 

Un titolo molto suggestivo, che coniuga in prodigiosa sintesi, i due interessi della vita di Rocco De Vitis: la medicina e la poesia, ovverosia la cura del corpo e la cura della mente. “QUANDO IPPOCRATE CORTEGGIA LA MUSA. A ROCCO DE VITIS MEDICO UMANISTA”, a cura di Francesco De Paola e Maria Antonietta Bondanese, segna il n.31 della collana “Quaderni de L’Idomeneo”, della Società di Storia Patria-Sezione di Lecce, ed è edito da Grifo (2017).

Il volume è stato realizzato con il contributo della Banca Popolare Pugliese, ed infatti, dopo la Presentazione di Mario Spedicato, troviamo un bel contributo di Vito Primiceri, “Semper honor, nomenque tuum, laudesque manebunt” ( versi tratti dall”Eneide”), carico di umanità nei confronti del medico, celebrato nell’opera, nell’affettuoso ricordo del Presidente della BPP. Quando Ippocrate, nume tutelare della medicina, incontra Calliope, la musa della poesia, ecco che riemergono dal passato e si impongono alla nostra attenzione certe figure, vagamente romantiche, come De Vitis, che coniugano la pratica medica con l’amore per i classici, retaggio della loro formazione umanistica. E infatti, scrive il prof. Spedicato: “tutte le numerose testimonianze qui raccolte concordano nell’attestare come questi suoi interessi vitali siano da considerarsi come le due facce della stessa medaglia”.

Rocco De Vitis, “Don Rocco”, come lo chiamavano tutti, era nato nel 1911 a Supersano. Aveva frequentato il Liceo Pietro Colonna di Galatina e poi la facoltà di Medicina a Bologna, dove si era laureato, a pieni voti, nel 1937. Esercitò per una vita la professione di medico condotto nella piccola Supersano, sua patria dell’anima prima che luogo di residenza. Pubblicò, in prima battuta, una traduzione in versi liberi dell’ “Eneide” di Virgilio, nel 1982, con l’aiuto di vari collaboratori che curarono il commento ai dodici libri del poema. Successivamente, anche su suggerimento di Mario Marti, che era stato un suo caro amico nella giovinezza, quando frequentavano entrambi il Liceo Colonna di Galatina, pubblicò una seconda edizione dell’opera virgiliana, nel 1987, in endecasillabi puri. Pubblicò poi un nuovo volume contenente altri due capolavori virgiliani: le “Bucoliche” e le “Georgiche”, con testo latino a fronte, tradotte e commentate dallo stesso autore. L’altro suo grande amore era quello per la campagna; amava rimanere ore e ore a coltivare la terra, ad accudire i suoi animali, a meditare sul mondo e sulla vita, nel silenzio e nella pace che offriva la collinetta di Supersano, che egli aveva eletto a proprio rifugio, locus amoenus.

Successivamente pubblicò “Soste lungo il cammino”, nel 1991, e “Naufragio a Milano”, nel 1994. Morì nel 1997, ad 86 anni. Di lui, prima della presente opera, si sono interessati, solo per citarne alcuni, Enzo Panareo, che ha scritto la Prefazione della traduzione dell’ “Eneide, Antonio Errico, Giorgio Barba, prefatore del romanzo “Naufragio a Milano”, Florio Santini, Paolo Vincenti, Gino De Vitis, Direttore de “Il Nostro Giornale” (rivista culturale supersanese), il quale, insieme a Maria Bondanese, si è speso moltissimo in questi anni per tramandare la memoria del medico umanista.

Il libro che qui si presenta si apre con una citazione che viene dalla letteratura latina: Homo sum, nihil humani mihi alienum puto, tratto da una commedia di Terenzio. Il primo contributo è di Paolo Vincenti, “Il medico dalla scorza dura. Profilo bio bibliografico di Rocco De Vitis”, che riporta appunto la Bibliografia degli scritti del medico umanista. Segue il contributo di Aldo de Bernart, storico e scrittore parabitano ruffanese, scomparso nel 2013, che fu molto amico del dottor De Vitis. Il contributo di de Bernart è tratto da una manifestazione tenutasi a Supersano nel 2007 in occasione del decennale della scomparsa del medico.

Lo scritto di Maria Bondanese, “Il dottore: una vita, una storia che parla di noi”, è il più carico di sentimento e non potrebbe essere, altrimenti essendo la Bondanese, non soltanto nuora di De Vitis, ma la più fervente ammiratrice del medico umanista, la più gelosa custode delle sue memorie. In effetti, se in questi anni è stata tenuta viva la memoria del medico umanista, ciò si ascrive principalmente a merito della dinamica Bondanese. Lo scritto di Maria, con un diverso titolo, era già apparso in “Apulia. Rassegna trimestrale della Banca Popolare Pugliese” (Martano editrice), nel dicembre 2007, così come da “Apulia”, stesso numero, proviene l’accorato scritto di Aldo Bello (“Il tarlo dell’umanesimo”), che della rivista matinese era Direttore e la cui prematura scomparsa costituisce un’altra dolorosa perdita per la cultura salentina. Bondanese ricostruisce le drammatiche tappe dell’esperienza fatta al fronte dal dottor De Vitis, rileggendo il suo diario di guerra.

Questa testimonianza della Seconda Guerra Mondiale, vissuta in diretta dal protagonista, servì poi da spunto al medico per l’opera “Soste lungo il cammino”. Bondanese si sofferma anche sulle opere maggiori di De Vitis, l’Eneide, le Georgiche e le Bucoliche, e sono riportate belle foto in bianco e nero con gli autografi di De Vitis, gli scenari di guerra che egli toccò nella sua esperienza di soldato, e dei manoscritti della traduzione dell’Eneide. Alla fine del pezzo, troviamo delle foto del Dottore in occasioni pubbliche quali l’ inaugurazione della chiesetta di San Giuseppe, nel 1984, sulla Serra supersanese. Molto significativo, anche per l’alta carica ricoperta dal suo autore, è il testo di Don Gerardo Antonazzo, originario di Supersano e Vescovo di Sora-Cassino-Aquino Pontecorvo: “Nella sapienza del cuore la vera saggezza”. Ma c’è un altro prelato che contribuisce al volume, ed è Don Oronzo Cosi ( con “Una specie in via di estinzione”), non meno caro ai supersanesi, in quanto Parroco del paese. Viene poi ripubblicato un testo di Mario Marti, “Io e Il Nostro Giornale”, indirizzato alla rivista supersanese, appunto “Il Nostro Giornale” (una delle più longeve esperienze editoriali del Salento), datato maggio 1997. Interessante, il contributo di Carla Addolorata Longo, “Un mirabile lascito di pensiero e di vita”, che si sofferma sulle pubblicazioni di De Vitis trovando spunto nelle tematiche da esse affrontate, per occuparsi anche della nostra attualità più stringente.

Matteo Greco, nel suo “Sprofondamenti metropolitani e orizzonti meridionali”, analizza in particolare l’opera “Naufragio a Milano”. “Un’esperienza indimenticabile”, definisce lo scultore Antonio Elia la realizzazione, per conto del Dottor De Vitis, di alcune opere nella Chiesa di San Giuseppe, adornata anche dalle pitture di Ezio Sanapo. Elia illustra le varie fasi di lavorazione, fino alla perfetta conclusione del tutto. Nella seconda sezione del libro, “L’humus dell’humanitas”, troviamo alcuni contributi che legano l’omaggio a Rocco De Vitis con la conoscenza del suo territorio, Supersano e il basso Salento.

Il primo contributo è “Breve profilo socio-economico del Salento negli anni ’50”, di Gianfranco Esposito; poi “La decorazione nella cripta della Madonna Coelimanna”, di Stefano Cortese, e “Il Santuario della Vergine di Coelimanna in Supersano”, di Stefano Tanisi; seguono “Supersano Torrepaduli Ruffano”, di Vincenzo Vetruccio e “Il dialetto di Supersano”, di Antonio Romano. In particolare, i contributi di Cortese, Tanisi e Vetruccio vengono ripresi da una pubblicazione apparsa qualche tempo fa, vertente sul Museo del Bosco, la struttura museale che riproduce le meravigliose caratteristiche del Bosco di Supersano, che viene anche ricordato da Cristina Martinelli nel suo contributo “Tra documento identitario e poesia, Tu Supersano”, in cui analizza una poesia del De Vitis, tratta dal libro “Soste lungo il cammino”. Ben documentato, l’intervento di Giuseppe Caramuscio, “La memoria della Scuola come scuola della memoria: Galatina e il suo Liceo Classico”: una storia del prestigioso Liceo Colonna di Galatina, frequentato da Rocco De Vitis e da Mario Marti, fin dai suoi albori nell’Ottocento, con l’arrivo a Galatina dei Padri Scolopi i quali fondarono nel 1854 la prestigiosa istituzione scolastica a lungo vanto della città. Il denso e articolato saggio, che si pone a metà via fra storia e pedagogia, è ricco, come tutti gli altri contributi, di un poderoso apparato critico e bibliografico. Parimenti interessante, lo scritto di Alessandro Laporta, “Se è lecito al medico esser poeta (Galateo, Meninni, De Giorgi, De Vitis)”, il quale fa una carrellata di dotti ed eruditi del passato che alla medicina erano legati per interesse o professione, dimostrando magistralmente come l’arte ippocratica e quella poetica, scienza e humanitas, come dicevamo all’inizio, rappresentino un forte connubio, di cui è emblematico l’amore riversato dal De Vitis verso entrambe le discipline.

Remigio Morelli si occupa della dolorosa esperienza della Seconda Guerra Mondiale, “Un anno sul fronte greco-albanese”, che vide impegnato Rocco De Vitis, come già ricordato.

Quello di De Vitis va ad unirsi a tanti altri ritratti di salentini illustri che in questi anni la Società di Storia Patria sezione di Lecce ha tracciato nelle sue tre collane. Emerge un amore incondizionato nei confronti della piccola patria da parte di questi suoi figli devoti, non solo studiosi e specialisti delle humanae litterae, ma anche esponenti delle professioni più disparate che a vario titolo si sono confrontati con la letteratura, la poesia, il romanzo, i racconti, la memorialistica. Sembra quasi di vederlo, De Vitis, che, spogliatosi dei panni sporchi di ritorno dalla campagna, e indossato l’abito buono, novello Machiavelli de “Le lettere familiari”, penetra “nelle antique corti delli antiqui uomini”, interrogando filosofi, storici e poeti del passato, e “da loro amorevolmente ricevuto”, gli domanda le ragioni delle loro azioni e quelli gli rispondono.

Con la terza sezione del libro, “Vergiliana”, si entra nel vivo dell’opera maggiore di De Vitis, la traduzione dell’Eneide. Questa sezione è una antologia di saggi critici a cura di latinisti che esaminano l’opera devitisiana entrando nel merito di contenuto, stile, traduzione, metodologia. Gli studiosi, che danno a questa sezione del libro un taglio tecnico scientifico, sono: Giovanni Laudizi, con “La traduzione dell’Eneide, delle Bucoliche e delle Georgiche”; Maria Elvira Consoli, con “Dell’Eneide di Rocco De Vitis”; Paola Bray, con “ Quali doni, quali a te mai darò per tale carme?”; Antonio Errico, con “Il traduttore, il suo poema, i segreti del verso”, Maria Francesca Giordano, con “Un segmento di lettura didattica sfogliando le pagine dell’Eneide”; Angela Maria Silvestre, con “La missione di Enea e la traduzione di Rocco De Vitis”; Paolo Agostino Vetrugno, con “Le traduzioni devitisiane di Virgilio tra espressività ed armonia”; Giuseppina Patrizia Morciano, con “L’epicità di Virgilio.

Tradizione e traduzione nella lettura di un classico”. La quarta sezione, “Tra storia e letteratura”, riserva spazio a contributi di storia e conoscenza del territorio, in linea con la vocazione della collana editoriale. Troviamo allora Alessandra Maglie, con “Conflitti e narrazioni nella Terra del Rimorso. Tarantismo ed esperienza mitica secondo Ernesto De Martino”; Maria Antonietta Epifani, con “Maria Manca: la santa di Squinzano”; Sergio Fracasso, con “Il progetto ‘fallito’ dell’Orfanotrofio San Francesco (poi Istituto ‘Margherita di Savoia’) e il problema dell’infanzia abbandonata alle soglie del decennio francese”; Antonio Cataldi, con “ Contributo per una storia dei missionari lazzaristi italiani in Etiopia ed in Eritrea nel periodo coloniale”; Michele Mainardi, con “L’Istituto tecnico di Lecce e l’Orto Agrario”; Arcangelo Salinaro, con “Il letterato Alfredo Mori in Puglia: una caso”; Luigi Scorrano, con “ Con un vescovo di fronte alla guerra e nell’Inferno di Dante”. Dopo l’Indice dei volumi pubblicati, il libro si chiude. Un’opera imponente, per qualità e mole dei contributi presenti, per la quale dobbiamo essere grati a chi l’ha voluta.

Il dialetto galatinese nell’ultimo libro di Rino Duma

di Paolo Vincenti

“La Taranta. Il dialetto galatinese (ovvero la lingua del popolo)”, è l’ultima proposta editoriale di Rino Duma, scrittore e attivo operatore culturale galatinese.

L’opera, dalla mole consistente, 569 pagine, con elegante copertina cartonata bianca, pubblicata da Editrice Salentina (2016), è una raccolta di commedie, poesie, proverbi, modi di dire, soprannomi, filastrocche, indovinelli e materiali vari, in dialetto galatinese. Un viaggio letterario, un excursus filologico nella saggezza popolare, nella lingua madre dell’autore e nelle tradizioni ormai in via d’estinzione di una micro realtà municipale, quale Galatina, ricca di arte e di storia.

Alla confluenza con l’era digitale informatica, Duma, facendosi aedo di un tempo perduto, compartecipe cantore della cultura genuina e spontanea del popolo salentino, ha voluto regalare ai suoi lettori ed estimatori questo scrigno di saggezza, divertimento e leggerezza.

La taranta riportata in copertina è opera del maestro Antonio Mele Melanton: una libera interpretazione di uno spaccato sociale che ha caratterizzato in maniera indelebile il passato di questa città, il tarantismo, col suo portato di sofferenza, folklore, cultura. Ancora oggi il nome di Galatina è legato al culto di San Paolo e alle tarante, sebbene il fenomeno sia ormai estinto. Ma Rino Duma, Presidente del Circolo culturale Athena e direttore della rivista “Il filo di Aracne”, da studioso e appassionato ricercatore di memorie patrie, ha voluto riportare all’attenzione dei suoi concittadini, degli anziani e dei giovani, il recupero delle cose di un tempo, nel vecchio “scascione de dialettu”, cioè “trabiccolo di dialetto”, come scrive nella sua Prefazione, perché esso “è l’antica e inalienabile carta d’identità della nostra anima cittadina”.

E lo ha fatto con un corposo volume, una miscellanea, florilegio di brani diversi, raccolti insieme e accomunati dalla lingua usata; lingua che diventa un formidabile strumento di diffusione del sapere, se solo la si consideri non museificata, imbalsamata, cioè immobile, inerte nel suo stanco perpetuarsi o sopravvivere a sé stessa, ma come materia viva, cultura fermentante di un popolo, sua riappropriazione identitaria. Si tratta insomma non di stereotipi, anacronismi, mero divertissement, bensì di letteratura, disimpegnata, ma di sicuro interesse. Il presente repertorio linguistico espressivo assume una doppia valenza: quella di recupero memoriale per chi è agé, e quella di scoperta, riproposizione delle radici, per i più giovani, sol che questi ditteri, modi di dire, aneddoti e tranches de vie siano guardati come strumenti in grado di attivare processi collettivi.

Nel libro sono proposte quattro commedie, ovverosia farse in dialetto galatinese: si comincia con “Reparto Ortopedia” (in tre atti), poi si passa a “Befana miliardaria a Corte Vinella”(tre atti), poi a “La telefunata” (in quattro atti), e quindi “Natale tra vecchie comari” (in due atti), tutte scritte interamente dall’autore. Le poesie sono: “Poveru mmie”, “L’urtima taranta” che è un vero poemetto in dialetto al centro del quale è il mitico animale, “Pizzaca, Taranta beddhra!”, “Vulia cu èggiu”. A contrappuntare i testi, numerose fotografie in bianco e nero davvero pregevoli, che provengono dal patrimonio comune galatinese. Nella seconda parte del libro, viene pubblicata una sezione dedicata ai Modi di dire galatinesi, una ai Proverbi, una alle Filastrocche, Ninnananne, scioglilingua e Indovinelli, e un’altra, gustosissima, ai Soprannomi galatinesi, divisi in ordine alfabetico. A questo punto del libro, Duma propone la coniugazione di alcuni verbi in dialetto e qui la trattazione si fa ancora più divertente, per sfociare poi nella goliardia e nella risata crassa con “Frizzuli dialettali”, e con l’esilarante “Ma cce cazzu!”. Nell’ultima parte del libro, trovano posto una foto dell’indimenticato pasticcere galatinese Andrea Ascalone, scomparso l’anno passato, ed una scheda bio-bibliografica dell’autore.

Questo patrimonio di fiabe e proverbi acquista un enorme significato non solo storiografico ma anche valoriale, e riallaccia i fili consunti di una comunità che vi si ritrova, che si specchia in questo “come eravamo”, con il sorriso nostalgico e bonario dell’uomo della strada ma anche con la riflessione del ricercatore, dello studioso.

Così il libro è in grado di suscitare sentimenti che credevamo relegati nel passato, perché riesce ad accendere “la miccia esplosiva riposta nel già stato”, per citare Walter Benjamin . E tali sentimenti sono profonde scaturigini dell’immaginario collettivo e della enorme ricchezza che è il deposito culturale di un territorio.

Ciò che si muove (frustoli di arte contemporanea)

di Paolo Vincenti

 

Ogni artista che operi nell’ambito dell’arte informale è quasi un chimico trovandosi nella necessità di utilizzare e combinare insieme materiali diversi, seguendo i procedimenti dettati dal proprio estro. Certamente Fernando Spano lo è, perché nella sua ricerca pittorica, l’utilizzo dei materiali si coniuga con la dimensione esistenziale dell’arte come intesa da questo poliedrico e affermato artista salentino. Per esempio, utilizza una composizione fra ossidi di ferro e bitume per il ritratto di Lucio Fontana, uno dei tanti che compongono la sua galleria di icone dell’arte. Ma andiamo con ordine. Doveroso, fornire alcuni dati biografici sul pittore. Fernando Spano nasce il 13 Marzo del 1965 a Veglie, vive e lavora a Lecce. Nel 1987 inizia la sua attività, interessandosi prima alla forma tradizionale della pittura, soprattutto alla tecnica dell’affresco, e poi via via spostandosi verso la pittura informale e le tecniche miste, essendo sempre più attratto dalle sperimentazioni chimiche. Questo lo porta verso la prima delle tematiche della sua carriera, ossia la ritrattistica. Il primo grande artista di cui sviluppa il ritratto è Pablo Picasso, verso il quale nutre una vera ossessione, cosa che riporta al concetto di riproducibilità tecnica dell’opera d’arte secondo il noto saggio di Walter Benjiamin. Infatti, Spano realizza una serie infinita di ritratti, oltre che di Picasso, di Lucio Fontana, di Joseph Beuys, di Jackson Pollock, vere icone per lui nell’ambito artistico.

«Forse la storia si ripete, di sicuro le emozioni si rinnovano ad ogni ritorno, ma si caricano delle sensibilità, dei trascorsi personali, delle conoscenze acquisite, degli imprevisti legami e delle analogie che una rilettura sapiente ci rivela”, scrive Eduardo Pascali (in “Fernando Spano”, Catalogo Mostra Bari, 2001), “A questa consapevolezza del dipanarsi della storia, uguale a se stessa e nello stesso sempre diversa, si richiama il lavoro e l’impegno di Fernando Spano.

L’invito dell’artista è chiaro e semplice: recuperare, da una parte, con gli occhi nuovi e moderni, i maestri, cogliere, d’altra parte, la loro presenza, anche in una prospettiva critica, nella realtà attuale. Realtà che hanno contribuito a modificare con le proposte artistiche, talvolta dirompenti, provocatorie e in anticipo sui tempi dell’uomo comune». Attraverso la riproposizione di questi grandi maestri dell’arte universale, Spano vuole in realtà riaffermare la propria individualità artistica, emblematico in questo senso il titolo della mostra tenuta a Lecce, presso l’ex Conservatorio di Sant’Anna, a cura di Dino Del Vecchio: “Io ci sono”. Il suo, cioè, è un citazionismo la cui matrice è la pop art, quindi non sterile o fine a sé stesso. Dietro al ritratto, v’è la concezione artistica del pittore e proprio la sua anima. “Queste opere non sono un omaggio agli autori, ma rappresentano un momento di ricerca e riflessione sulle potenzialità espresse dal loro contributo all’arte e alla società”, scrive Andrea Fiore in “Fernando Spano. Identità e distruzione”, Catalogo della mostra tenuta a Maglie e Brindisi nel 2017 (Galatina, Editrice Salentina, 2017). A riprova di quanto detto, nel segno della più ardita sperimentazione artistica, poi Spano realizza una serie di lavori in cui prende delle famose opere d’arte e le trasforma attraverso il bitume, seguendo l’esempio di Beuys, quasi mentore per Spano. Un’altra interessante serie di opere è quella intitolata “Velivoli”, in cui vecchi aeroplani di guerra solcano un cielo nuvoloso o nevoso, trasmettendo inquietudine, timore, ansia allo spettatore. “Questo corpus di opere”, scrive ancora Andrea Fiore, “costituisce la serie di lavori indicata come ‘Velivoli’, attraverso la quale Spano si confronta e riflette sulla capacità di distruzione dell’uomo. Come il giovane Beuys – pilota di aeroplani come quelli rappresentati – trova la salvezza nella sua trasformazione in artista-sciamano, così le opere di Spano trovano nel momento della distruzione prima la morte e poi la conseguente rinascita”. A partire dal 1991, Spano partecipa a moltissime mostre personali e collettive. Fra le ultime, citiamo la mostra collettiva presso la Galleria Scaramuzza di Arte contemporanea a Lecce nel 2011, la Mostra personale presso la Galleria Scaramuzza di Lecce del 2013, la Mostra personale presso lo spazio espositivo del “Caffè Cittadino” , a Lecce, 2015, ancora presso la Galleria Scaramuzza Arte Contemporanea, Lecce, 2016, la Mostra personale presso la Fondazione Capece, Maglie, nel 2017, la Mostra personale presso la Galleria San Luca, Brindisi nel 2017, la Mostra personale presso la Fondazione per l’Arte e le Neuroscienze “Francesco Sticchi”, Maglie, nel 2018. Molto interessante il suo ciclo “Monumenta”, in cui vengono presi dei monumenti del passato e reinterpretati attraverso la tecnica mista. Grandi esempi dell’arte classica, greca e romana, oggi non più esistenti, che rivivono nella contemporaneità di un’arte fortemente sperimentale, che riannoda in questo modo i fili fra passato e presente, coniugando in alchemica sintesi tradizione e innovazione. Ancor più interessanti, i cicli “Memorabilia” e “Volti della memoria”: vasi attici, crateri dell’arte appulo-lucana, elementi dell’arte fittile, statue dell’arte greca, che rivivono sulla tela attraverso un’elaborazione visiva che sembra un invito a recuperare la bellezza perduta, oggi che quei fili di cui si diceva prima sembrano essersi del tutto disgregati.

 

E ricollocare i materiali rispetto alla loro destinazione naturale, è quello che fa Gix, nome d’arte di Giovanni Strafella, il quale lavora sui materiali con una ricerca molto avanzata, verso l’informale più arduo. Moltissime le mostre cui ha partecipato, come “Arkè Arco dei Pappi”, Copertino e “Kontemporanea”, Lecce, nel 2004, “Caroli Hotels”, Gallipoli e “Castello – Corigliano D’Otranto” nel 2005,  al Palazzo Baronale Romano, Pisignano, e alla Cappella Santa Anastasia, Copertino, nel 2006, “Arte Spazio”, Treviso, 2006, “B&B Chiesa Greca”, Lecce, nel 2008, “Cantine Aperte “Taurino”, Guagnano, 2009, “La Locanda”, Copertino, “Palazzo Ducale”, Presicce, “Arte alla Torre”, Leverano, 2012, “Shoah”, Stazione FSE , Copertino, 2015, ecc. Un’esplosione di colori, la sua arte, che si esplica nella più totale libertà di intrugliare elementi diversi presi anche dalla nostra tradizione contadina del passato.

A metà fra pittura e scultura, le sue opere, come “Luce nel vuoto”, “Ecocentro”, “Sviluppo lineare”, “Movimento del passato”. Gix è un artista sempre in movimento. “Nell’agire di Gix niente di riflessivo che miri ad un risultato, niente di appagante o di appagato, ma pulsioni al primo stadio, incuranti del seguito di critiche e giudizi che potranno suscitare. Eppure in tanti, ormai, ci fermiamo davanti ad una sua opera alla ricerca di una risposta. Gix pone domande con la fermezza di chi proclama assiomi”, scrive U.V.A, nel catalogo “Gix: ammiratore dell’energia” (Sannicola, s.d.). Giovanni Strafella vive ed opera Copertino, ha anche un sito: www.gixart.it. V’è, nelle sue opere polimateriche, come “Anarchia cosmica”, “Forma plastica”, “Croce rossa”, “Evoluzione”, una vitalità che si trasmette all’esterno e sembra voglia conquistare l’universo. “In tale processo di trasformazione, le forme e le soluzioni formali sono tutte chiamate in causa e non ci stupisce per questo andare di continuo tra una possibile scultura o un’ installazione ed una giacenza orizzontale”, scrive Angela Serafino, nel sito. “Tutto si muove perché il Caos non conosce direzioni uniformi. Coinvolge tutto attorno, lo invade, poi si addolcisce e si commuove per tutta la estensione di cui è capace, dopo aver raccolto di qua e di là le possibilità di esplorazione. Queste estensioni, cariche di passaggi, sono le opere di Strafella”. E Paola Nestola: “Gix, disintegrando e reintegrando la realtà, si libera di una tensione tradotta, più che in espressionismo figurato, in espressionismo astratto”.

Fra i più interessanti artisti dell’ultima generazione è sicuramente Rocco Cardinale, originario di Taranto, che vive ed opera nell’isola di Las Palmas de Gran Canaria. Nato nel 1981, spirito inquieto, ha fatto varie esperienze e sperimentato varie forme di comunicazione. Amante dei fumetti e della musica punk, con una formazione classica alle spalle, ha capitalizzato le sue passioni nella forma artistica a lui più congeniale. La sua creatività si esprime fra pittura e disegno, la sua cifra stilistica è un concentrato di suggestioni diverse. Suggestiva è del vero la mostra “La folla e gli sguardi”, tenutasi presso l’ex Convento dei Teatini, Lecce, nel giugno 2013. Nelle figure rappresentate, tributarie della fumettistica, quello che colpisce sono i tratti somatici, in particolare gli occhi e la bocca, volutamente dilatati, esagerati, distorti. Una folla di sguardi senza nome che ci osservano con fare circospetto, oppure sornione, sottilmente diabolico, sempre inquietante. C’è un po’ sotto traccia l’inquietudine del perturbante, di freudiana memoria.

Cardinale è sicuramente molto vicino alla street art e al writing, anche per motivi anagrafici. L’artista infatti vive il proprio tempo, è immerso nel mondo contemporaneo con la sua multimedialità, gli innumerevoli stimoli, e questo si riflette nell’eterogeneità delle fonti della sua arte visiva. Egli non è legato ad una scuola particolare né ad una temperie storico artistica definita, semmai la sua arte si caratterizza per un nomadismo culturale, come lo ha definito Toti Carpentieri nel catalogo di presentazione della mostra “La folla e gli sguardi” (a cura di Toti Carpentieri, con traduzione in inglese e spagnolo, Galatina, Editrice Salentina, 2013). Precisamente, la sua arte si può definire skate/surf art, una forma di espressione certamente influenzata dall’arte dei murales e dalla musica punk. Figure di uomini e di donne si ammassano nei suoi quadri, realizzati con la tecnica del collage, a riempire tutto lo spazio, con colori particolari dati dalla mina e dall’acrilico utilizzati. A volte, le figure umane si trasformano, divengono figure indefinite, vagamente grottesche. Volti su volti, che rivendicano il loro diritto di esistere e cercano di comunicarci dalle tele un messaggio indecifrabile, forse l’incomunicabilità stessa. Cardinale ha esposto in mostre collettive e personali, come al “Surf cafè” di Taranto nel luglio 2010 e luglio 2011, e presso la Chiesa di Santa Maria della Pace a Lecce, nel dicembre 2011, in occasione della presentazione del libro “Formazione, trasformazione, riformazione. Dialogo emotivo per immagini”, di V.Colapietro e M.E. De Carlo (Franco Angeli Editore, 2011), che riporta in copertina una sua opera. Nel 2015, Cardinale ha esposto all’Agora Gallery di New York, nell’ambito della mostra collettiva “The Manifestation of Milieu”. Insomma, un artista di talento da tenere presente.

 

PAOLO VINCENTI

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