Monte Magalastro tra Sava e Torricella

RESTI ARCHEOLOGICI, RICERCHE, DOCUMENTAZIONE E FONTI STORICHE

 

di Gianfranco Mele

Monte Magalastro si trova tra l’agro di Sava e quello di Torricella, a 96 mt. sul livello del mare. Dalla sommità dell’altura è possibile dominare con lo sguardo un’ampia fetta del panorama circostante, compresi il comune di Torricella e la zona costiera.

Gli studi intorno a questo sito (benchè non siano mai stati condotti veri e propri scavi archeologici ma soltanto indagini in superficie) riferiscono di significative presenze in epoca neolitica, greca o messapica, romana, bizantina.

Una veduta dall’altura di Magalastro

 

   UN CONTINUUM INSEDIATIVO DALLA PREISTORIA ALL’EPOCA ROMANA

Mario Annoscia, nel Notiziario Topografico Pugliese del 1978, individua in questo sito, da rinvenimenti in superficie, resti di materiali di varie epoche a partire da quella preistorica. Ritiene inoltre di identificare alcuni blocchi tufacei come resti di una fortificazione classica. L’Annoscia riferisce di  “diversi blocchi tufacei di forma parallelepipeda” sulla parte più alta della collina, che è circondata da un antico muro a secco. Ritrova ritrova inoltre nell’area i seguenti materiali: due schegge di ossidiana, numerosi frammenti di coppi e tegole, frammenti di unguentari del periodo ellenistico, frammenti di parete di vaso a vernice nera baccellato, un frammento di ciotola a vernice nera ellenistica, un frammento di parete di skyphos a figure rosse con motivo a volute, numerosissimi frammenti di vasi a vernice nera, acromi, da fuoco, d’impasto, due opercoli frammentati, fondi e pareti di ceramica grigia, un piccolo peso da telaio piramidale, alcune bocche e puntali d’anfore, una testina femminile confrontabile con i tipi della coroplastica tarantina.[1]

Monte Magalastro, Frammento di testina (fig. a) e frammento di parete di vaso (fig.b), foto Mario Annoscia

 

In area Magalastro, come si è anticipato,  purtroppo non risultano essere stati effettuate campagne di scavo archeologiche, a discapito di frequenti incursioni da parte di tombaroli. Tuttavia Paride Tarentini esplora meticolosamente il sito in superficie, rinvenendo una serie di materiali assai interessanti. I suoi studi rilevano la presenza di un insediamento neolitico, di presenze nelle età del rame, del bronzo e del ferro, di epoca greca (o messapica), di epoca romana.

Rispetto all’epoca neolitica il Tarentini segnala e offre documentazione fotografica circa  ritrovamenti superficiali di  “intonaci argillosi di capanna; industria litica su selce, ossidiana e pietra dura levigata, sparute ceramiche, frammenti vascolari ad impasto grossolano bruno e/o nerastro”.[2]

Per quanto riguarda l’ “epoca greca”, il Tarentini documenta la presenza di “frammenti ceramici e grandi blocchi squadrati in pietra carparo […], numerosissimi resti di coppi e tegole (alcune dipinte di rosso/bruno)”. Vi intravede perciò un insediamento di significativa consistenza, comprensivo di un sepolcreto e di un luogo di culto. Le funzioni sepolcrali e cultuali del sito sono confermate dalla presenza di “lastre tombali spezzate, resti ossei” e  ”vasetti miniaturistici, frammenti di statuette votive”. Il Tarentini inquadra cronologicamente questo insediamento tra il VI-V ed il  IV-III sec. a.C. , evidenziando la presenza rara  di “cocci a figure nere”, quella sporadica di cocci “a figure rosse” e quella prevalente di frammenti “a vernice nera con sovraddipintura tipo “Gnathia””.[3]

Monte Magalastro, frammento di vaso a figure nere e terracotta figurata (foto P. Tarentini)

 

Le tracce di frequentazioni e/o insediamenti di epoca romana sono documentate dai ritrovamenti, sempre del Tarentini, di ceramiche a pasta grigia (II-I sec. a.C.) e di un frammento in terra sigillata italica (I sec. d.C.).[4]

L’area archeologica di monte Magalastro è circondata da muri a secco, che sembrano perimetrare l’altura a mò di protezione. Il Tarentini, in accordo con l’Annoscia, ipotizza la presenza di un avamposto militare fortificato greco (phourion), a difesa dei confini della chora tarantina.[5] Questa ipotesi si allinea ad una serie di interpretazioni avanzate da storici e archeologi che vedono in una serie di siti (gli stessi che   molto più tardi faranno parte del limite orientale della diocesi medievale di Taranto), delle zone strategiche di confine della Magna Grecia, sviluppatesi durante la terza fase di espansione della Chora tarantina (VI sec. a.C.): si assisterebbe, così,  alla comparsa, a ridosso dei centri messapici, di una serie di siti rurali, luoghi di culto e villaggi fortificati.[6]

Tuttavia il fatto che questi luoghi fossero caratterizzati dalla presenza di divinità di frontiera (ovvero di divinità molto venerate anche dalla popolazione messapica) e che vi fosse la compresenza di elementi, sia votivi (terrecotte, vasellame) che architettonici rapportabili sia ad area magnogreca che messapica (e/o frutto di influenze, interazioni e scambi), può far pensare anche ad un dominio e possesso del territorio costantemente messapico e non già, a un dato momento storico, magnogreco (cosa della quale ad esempio è convinto lo studioso francavillese Cesare Teofilato, che intravede in Agliano, altro insediamento di confine nelle vicinanze di Magalastro, una cittadella messapica avamposto dei siti di Sava e Manduria).[7]

Perciò, benchè alcuni studiosi siano propensi per una caratterizzazione magnogreca di questi siti, altri si dimostrano più cauti, o li identificano come interni al confine messapico pur se caratterizzati da influenze  tarantine (proprio in quanto disposti a ridosso immediato della zona tarantina e quindi più suscettibili di rapporti di scambio e interazioni). A sostenere questo tipo di tesi, ad esempio, è il Mancarella, che intravede nei territori di Monacizzo e Torricella siti messapici “a influenza tarantina,  con necropoli a ceramica indigena e ceramica greca”.[8]

Lo Stazio invece mostra più cautela, scrivendo: “si ha l’impressione, in queste località, di essere in una zona di confine tra l’ambiente greco e quello indigeno e questa impressione è confermata dalla presenza di numerose cinte murarie relative a piccoli, ma ben fortificati centri, di cui però la mancata esplorazione non consente di precisare a quale dei due ambienti appartenessero”.[9]  D’altro canto, studi recenti  dimostrano come tra il IV ed il III sec. a.C. In ambito messapico si assista ad un proliferare di strutture del tipo torre, che permettono il controllo del territorio, e sono funzionali ad una serie di necessità: non solo di tipo difensivo-militare, ma anche di gestione delle risorse agricole (controllo e prevenzione dei furti di derrate), trasmissione di informazioni a distanza e “in rete” con altre strutture simili, adunate religiose e politiche, allestimenti di fiere e mercati. Il Mastronuzzi in particolare, elenca una serie di torri di età messapica con funzioni analoghe: la torre di Giuggianello, la torre sita presso la località Specchia Giovannella in Francavilla Fontana, la torre nei pressi della masseria Asciulo a Latiano,  la torre di monte Masciulo a Maruggio.[10]

I siti antichi di monte S. Petronilla (1), monte Celidonia (2), monte Magalastro (3), monte Masciulo (4), Monacizzo (5), Casabianca (6), nel contesto degli avamposti fortificati (phrouria) di epoca greca (qudrato pieno) ipotizzati a confine della chora tarantina (pianta  rielaborata da P. TARENTINI, in “Monacizzo, un antico centro magno-greco e medievale a sud-est di Taranto (Reg. Puglia, 2006, pag. 113),  e tratta da F.G. LO PORTO, “Testimonianze archeologiche della’espansione tarantina in età arcaica”, in “Taras”, X, 1, 1990,  tav. XXXV

 

MAGALASTRO E “IL PARETONE”

Questa località è parte integrante dell’antico confine che, attraverso i resti di un lungo ed imponente “parete grosso”, divideva il territorio di Taranto dalla Foresta Oritana: ciò è testimoniato in una serie di inventari (che partono dal XV secolo) redatti per chiarire detti confinamenti. Così, nel 1434 gli esiti di un accertamento disposto dal principe Giovanni Antonio del Balzo Orsini  sono raccolti in una relazione di Francesco de Ayello. Il Del Balzo Orsini, d’accordo con gli orietani e per risolvere una controversia tra i due territori, aveva difatti nominato una commissione composta da Ciccarello de Montefuscolo, consigliere dell’Orsini stesso, Roberto de Monteroni di Lecce, capitano di Taranto, e Ludovico di Urbino, capitano di Oria. Questa commissione si recò personalmente in visita ai territori delimitanti i confini, insieme ad una serie di testimoni (sindaci e uomini probi). Nella relazione finale si legge:

Li quali terreni, fini et dispartimenti incominciano dallo lito dello mare dove descende il fiume chiamato Borraco, et sale per lo detto fiume in una chiesa chiamata Santo Nicola vicina al detto fiume et ascende per un loco chiamato Le Fontanelle, da quelle piglia lo parete grosso et sale sopra lo monte chiamato Torre di Magalastro, dove sonno fatte tre para di curti; et da la discende per lo detto parete grosso in verso lo casale di Pasano, dove in parte dello parete detto è stato roinato, et in parte è più avante seguendo sale in verso lo casale de Agliano incluso lo terreno tarentino, et piglia sopra la rupa della Serra, la quale è verso Oriente, et per detta serra vene ad uno antichissimo edifico chiamato Lo Castello di Santo Marzano dove sono certe quantità d’arbori di termiti; et da questo passa per sopra il monte della Concha…”[11]  (sin qui la parte che ci interessa ai fini di questo articolo).

Dopo la ricognizione del 1434, ne ritroviamo altre datate 1452, 1464, 1489, 1528, 1562, 1570, 1669; tutte le varie descrizioni confinarie coincidono, e alcune di esse aggiungono altri particolari circa le località interessate.[12]

Il “Paretone” che attraversa l’agro di Sava è stato identificato in passato da alcuni come una muraglia eretta dai magnogreci tarantini a protezione della chora,[13] da altri come una muraglia confinaria eretta dai Messapi,[14] per poi giungere, con le tesi del Profilo del 1875, ad essere considerato un “Limes bizantino”[15] (ma lo stesso Profilo in precedenza, nel 1870, lo aveva identificato come costruito ai tempi degli scontri tra tarantini e messapi).[16]

Recentemente, studi dell’archeologo Stranieri hanno datato la costruzione del tratto di “paretone” savese tra la fine del VII e l’ultimo quarto del IX sec., ma l’interpretazione dell’archeologo è che la sua funzione doveva essere di protezione delle colture e delle abitazioni su scala locale, escludendo una funzione propriamente militare (datosi anche il fatto che, sempre a parere dello studioso, non vi sono tracce di continuità della costruzione, neanche remota, nei lembi di terra più caratterizzati da calcare argilloso: ove avese avuto funzione militare, invece, “non sarebbe stato difficile estenderlo anche sulle lenti tutto sommato non molto estese di calcare argilloso, a nord e a sud”).[17]  Detto muro, secondo lo Stranieri, fu costruito o nel periodo della conquista longobarda, oppure tra l’840 e l’880 al periodo dell’occupazione musulmana di Taranto.[18]

Fra coloro che citano Magalastro come attraversato dal cosiddetto Limes Bizantino, Primaldo Coco:

“… Cominciava questa grande muraglia dalle vicinanze di Otranto, città eminentemente bizantina e, costeggiando la via Appia Traiana, si protraeva sino alle vicinanze della distrutta Valesio, solcando il territorio di Mesagne e di Oria: prima di toccare Aliano volgeva verso mezzogiorno, continuava verso Pasano ed il feudo di Magalastro, ove se ne riscontrano tuttora non pochi avanzi, e finiva in riva al mare. Onde l’attuale territorio di Sava ne era diviso quasi per metà, tenendone i Greci la maggior parte, che comprendeva anche il territorio su cui sorge oggi il paese.[19]

Seguono, a più di mezzo secolo di distanza dagli scritti del Coco, gli studi di Gaetano Pichierri, lo storico locale che più di ogni altro ha studiato e  ispezionato il paretone  savese e il suo tragitto. Stando a quanto riportato dal  Pichierri, intorno al 1975 si intravedono ancora i resti del cosiddetto Limitone dei Greci sul monte Magalastro: lo storico savese difatti scrive che “sono avanzati gli strati più bassi”, e che “quelli più alti sono stati asportati per essere cotti in una fornace di calce che si trova nei pressi”.[20] Dal passo sopra riportato del Coco, si evince invece che intorno al 1915 la muraglia che attraversava Magalastro conservava un tratto più visibile e meglio conservato.  

L’ipotesi di Annoscia riguardo i blocchi tufacei in cima a monte Magalastro, identificati come resti di una torre, è ripresa anche dal Pichierri (nello stesso numero del Notiziario Topografico), che sottolinea come in alcuni documenti medievali è riportato come toponimo della località Torre Magalastro.[21] Il Pichierri mette in correlazione lo stesso Limitone con detta torre, ipotizzando che essa ebbe utilizzo come posto di guardia bizantino.

In un altro scritto del 1989 il Pichierri riferisce di un ritrovamento di monete angioine del 1339, avvenuto nel 1952 sull’altura di Magalastro.[22] Più precisamente, come vediamo appresso, si tratta di una località immediatamente confinante con quella propriamente denominata Magalastro. Il ritrovamento risale agli anni 1953-1954, periodo in cui il proprietario di un oliveto fece portare via dal suo terreno le pietre del Limitone (che furono poi utilizzate per la sistemazione della strada Litoranea Jonica Salentina): i lavori furono realizzati con l’impiego di moderni (a quel tempo) mezzi meccanici, e fu rinvenuto un vasetto d’argilla pieno di monete d’argento che andarono disperse. A distanza di anni il Pichierri riuscì a recuperarne alcune. Si trattava di monete battute da Roberto D’Angiò nel 1309-1343. La località esatta del rinvenimento era la contrada Morfitta[23] (nella quale, peraltro, erano state rinvenute anche tombe del II-IV secolo a.C., contenenti ceramiche di Gnathia.[24]

Le monete angioine rinvenute in contrada Morfitta, nei pressi di Magalastro

 

Secondo il Pichierri, il “Paretone” che attraversava Morfitta e Magalastro è la continuazione del paretone (a tutt’oggi ancora visibile) che insiste per un lungo tratto nelle contrade Camarda e Curti di l’Oru; da queste contrade giungeva, attraversandola, verso la attuale provinciale Sava-Lizzano e a pochi metri dal Santuario di Pasano.

Sul monte Magalastro, secondo i vari studiosi del passato, terminava il percorso rettilineo del Paretone, che da lì svoltava ad est. La svolta compiuta era direzionata verso la località dell’agro di Sava detta proprio Lu Paritoni, nella quale è ancora presente una masseria semidiroccata che prende il nome dalla contrada stessa.

Sul presunto tracciato del vecchio confine, prima di raggiungere Borraco, dai paraggi della Masseria Paritoni la muraglia discendeva verso le località SS. Trinità (in agro di Torricella) e S. Chiara, per raggiungere poi contrada Tremola e risalire attraversando il monte Maciulo[25] nei pressi di Maruggio. Da lì, attraversava una serie di contrade maruggesi (Olivaro, Fontanelle, San Nicola) per giungere al fiume Borraco. [26]

Monte Masciulo, monte Magalastro e S.M. di Pasano in una carta dell’Atlante geografico del Regno di Napoli (fg. 21, 1788-1812). Il cosiddetto Paretone attraversava questi  siti.

 

  IPOTESI SUL TOPONIMO

Per ciò che concerne il toponimo, il Ribezzo nelle sue Nuove ricerche per il Corpus inscriptionum Messapicarum  pone  il confine fra la Taranto magnogreca e la Manduria dei messapi, proprio all’altezza del Monte Magalastro, e fa inoltre derivare il nome Magalastro da un greco Μεγαλάστρον, senza fornire ulteriori spiegazioni.[27] La cosa interessante dello scritto del Ribezzo  è senz’altro il riferimento ad un sito di confine, cosa della quale abbiamo già parlato in precedenza. L’ipotesi della derivazione da  mεγαλάστρον pare invece discutibile, oltre che indimostrata.

Una mia vecchia supposizione, coerente con i riferimenti all’epoca greca o messapica del sito, era: Magalastro da Μεγάλαρτος. Quest’ultimo è un epiteto di Demetra. In onore di Demetra Megalartos (Demetra dai grandi pani) si istituivano feste dette Megalartia, a quanto sembra presenti anche in Messapia, e in questo caso dedicate, secondo alcune fonti, più che altro ad Arthas, re dei Messapi.[28]  Se Magalastro non è una deformazione di Malacastro, questa potrebbe restare una ipotesi valida (tuttavia, come vediamo più avanti, Malacastro-Malacastra-Malacastrum ricorre come toponimo in diverse località e sta ad indicare una altura con presenza di fortificazione)..  

Una serie di ipotesi (le più plausibili, peraltro) stabiliscono una derivazione legata al termine castra o castrum. Il Pichierri stesso, fa riferimento al Kάστρον bizantino, una fortificazione  eretta a scopo difensivo. Tale riferimento è dovuto al fatto che, come si è già detto,  in alcuni documenti, anziché Magalastro si ritrova Malagastro, Malacastro.

Il termine castra, o  castrum (“campo fortificato”, “fortificazione”) è tipico del periodo romano, ma continua ad essere comune e molto presente nella documentazione medievale, sebbene spesso sostituito da castellum. Specificamente,  castrum  si riferisce ad un quartiere o ad un recinto con fortificazione al cui interno sono raggruppate abitazioni ed altri dispositivi annessi, mentre castellum designa l’edificio il cui elemento più significativo è la torre (turrem), che domina l’ambiente e costituisce l’elemento difensivo più importante della fortificazione.[29]

Toponimi come Mamacastrum e Malacastrum si ritrovano  applicati a fortificazioni del medioevo spagnolo, come risulta da uno studio  di J. Medina.[30] In un altro ancor più dettagliato studio, che analizza detti toponimi (più una varietà di altri similari, tra cui Malagastre e Montmagastre) e relativi siti, si evidenzia come i toponimi derivanti dalla presenza di un apparato difensivo siano ricorrenti vista l’importanza che nei secoli questo tipo di elementi difensivi hanno avuto nella formazione e nella successiva organizzazione del  territorio,  e quindi la capacità deittica che questi dispositivi hanno sul paesaggio.[31] In questo genere di toponomastica, inoltre, ricorrono sempre, strettamente legati tra loro dal punto di vista formale e semantico, i nomi castro, castello, torre[32]  (abbiamo già evidenziato come il toponimo del sito di cui ci stiamo occupando sia anche “Torre di Magalastro” o “Torre di Malagastro”).

Tra le comunità spagnole  de La Rioja, Navarra, Catalogna, ricorrono toponimi “di origine castrale” come Bono Castro, Malacastro, Malagastre, Momegastre, Montmagastre, Ojacastro, Punicastro, Santa Maria de Montmagastrell.[33]

Il toponimo Momegastre corrisponde al castello di Momegastre, che sorge su una collina vicino a Peralta de la Sal. In alcuni documenti detto sito è riportato come Mamacastro. Montmagastre  è nei pressi di Artesa de Segre, in Catalogna, e il toponimo è riferito sia ad un monte che ad un villaggio medievale là situato.[34] Nei paraggi (Foradada) è presente anche il toponimo Malagastre, dovuto alla presenza di una antica fortificazione (conosciuta anche come “La Torreta”). Il sito è detto anche “Castro Malagastre”. Santa Maria de Montmagastrell, in origine facente parte di un enclave annesso a Montmagastre, deve la seconda parte del nome al diminutivo originale magastrellum. Nei pressi di  Anzánigo (Alto Gállego, Huesca), è presente Malacastro e il toponimo designa una altitudine di 1079 metri.[35]

L’autore di questo studio, Valenciano, in accordo con Federico Villar, fa risalire “Mal”, la prima parte del nome composto, alla radice indoeuropea *melh (“venir fuori”, “salire”, “apparire”, “mostrarsi”, “risaltare”, “elevarsi”), in riferimento appunto alla conformazione dei luoghi in cui è utilizzato il toponimo, osservando inoltre che il repertorio delle località  in cui è presente la radice * mal- include solo montagne, fiumi e isole, e che laddove presente, questa parte del toponimo, appare sempre legata ad alture o superfici sopraelevate. Conclude dunque che i dispositivi militari costruiti sulla sommità di questi  siti  ebbero come riferimento un antichissimo appellativo mal-, forse instauratosi  come toponimo molto prima che le fortezze fossero costruite.[36]

Altre interpretazioni invece propongono una derivazione dal cognomen latino Malus,[37] mentre appare piuttosto arzigogolata l’ipotesi del Pichierri, che in quel suffisso “mala” del Malagastro savese intravede una derivazione da un appellativo dato a Guglielmo I re dei Normanni, detto appunto “il malo”, nel cui periodo dovette avvenire, sempre secondo il Pichierri, un riutilizzo del vecchio forte bizantino con conseguente attribuzione ai Normanni.[38]

Tornando alla lista dei toponimi similari, e concludendo la relativa rassegna, in Albania ritroviamo  Mallakastër (detto anche Mallakastra, Malacastra).[39] Questo toponimo indica un comune e una regione collinare nella contea di Fier).[40]

Se dunque il toponimo Magalastro assegnato a questo sito nei pressi di Sava ha origine nel medioevo bizantino, ne esce rafforzata l’ipotesi di una presenza militare bizantina proprio lungo quel confine designato come “limes” e perciò si ribalta l’idea di un muro confinario costruito esclusivamente a protezione delle colture.

 

RIASSUNTO E CONCLUSIONI

L’ area di Magalastro, di proprietà privata, è segnata sulla Carta dei Beni Culturali Pugliesi come interessata da una “cinta di fortificazione di età ellenistica”. In effetti, si ritrovano tracce di presenze che vanno dal neolitico all’epoca medievale, attraversando le epoche magnogreco-messapica e quella romana. Il sito ed il complesso fortificato sembrano  aver subito nelle diverse epoche riutilizzi e rifacimenti, ma la torre (della quale rimangono pochi resti, consistenti in blocchi tufacei sparsi) sarebbe parte integrante di detta fortificazione e può essere identificata come simile e con analoghe funzioni ad una serie di strutture di età messapica situate in diverse località del Salento.

L’ altura risulta attualmente raggiungibile dalla strada provinciale Sava-Torricella, come dalla strada di proprietà Arneo attraversando la contrada Morfitta.

Resta sconcertante il fatto che non siano state mai intraprese serie campagne di scavo in quest’area, vista non solo la serie di reperti affioranti (testimoniata, tra l’altro dai ritrovamenti pubblicati dal Tarentini), visto il ritrovamento in passato del tesoretto angioino fotografato dal Pichierri, e vista l’importanza strategica, sottolineata da più studiosi, che il sito doveva avere in quanto centro di avvistamento e zona confinaria in diverse epoche storiche: di più, una ricognizione di questo genere avrebbe permesso probabilmente di cogliere  notizie più precise ed attendibili circa l’espansione reale della chora tarantina, l’organizzazione e il confine della Messapia, così come di raccogliere ulteriori elementi atti a ricostruire l’organizzazione e le caratteristiche del territorio in epoca bizantina.

 

Note

[1]    Mario Annoscia, Sava, monte Magalastro. Resti preistorici e fortificazione classica, in: Giovanni Uggeri (a cura di), “Notiziario Topografico Pugliese I, Contributi per la Carta Archeologia e per il Censimento dei Beni Culturali”, Brindisi, 1978, pag. 151. Dalla foto che ci offre Annoscia pubblicata sul Notiziario, il frammento di testina risulta poco identificabile, ma l’autore riferisce che è “priva del volto, ma si riconoscono chiaramente la capigliatura, la fronte e parte del viso”.

[2]    Paride Tarentini, Torricella. Itinerari storico-archeologici a sud-est di Taranto, Museo Civico di Lizzano,Quattrocolori studio grafico,  luglio 2018, pag. 14

[3]    Ibidem

[4]    Paride Tarentini, op. cit., pag. 15

[5]    Ibidem

[6]    Luigi Finocchietti, Il distretto tarantino in età greca, in “Workshop di archeologia classica. Paesaggi, costruzioni, reperti”, Annuario internazionale, Serra Editore, 6, 2009,  pp. 68-69

[7]    Cesare Teofilato, Segnalazioni archeologiche pugliesi – Allianum,  Il Gazzettino – Eco di Foggia e della Provincia – Anno (24) 7- n. 38, sabato, 21 settembre 1935 Anno XIII

[8]    Giovanbattista Mancarella, Storia linguistica del Salento, in  “L’Idomeneo”, n. 19, 2015, pag. 21; vedi anche Attilio Stazio, La documentazione archeologica in Puglia, in “La città e il suo territorio”, Atti del VII Convegno di Studi sulla Magna Grecia, 1969, pp. 265-285

[9]    Attilio Stazio, op. cit., pag. 272

[10]  Giovanni Mastronuzzi, Una “torre” di età ellenistica presso Giuggianello – Puglia meridionale, The Journal Fasti Online Documents e Researchs, 2018, 423, pp. 1-15. Sul sito di monte Maciulo situato a non molta distanza da quello di Magalastro, si veda Gianfranco Mele, Monte Maciulo in agro di maruggio e località viciniori. Tracciati storico-archeologici, La Voce di Maruggio, sito web, luglio 2020 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/monte-maciulo-in-agro-di-maruggio-e-localita-viciniori-tracciati-storico-archeologici.html

[11]  Il testo integrale della ricognizione confinaria del 1434 è riportato in  Giovangualberto Carducci,  I confini del territorio di Taranto tra basso Medioevo ed età moderna, Mandese Editore, 1993, pp. 114-118

[12]  Ciò che risulta chiaro dai vari inventari è  il fatto che un “paretone” o “parete grosso” si incontra almeno dal 1434 e da località Le Fontanelle (in agro di Maruggio),  prosegue verso monte Maciulo (questa specifica del tracciato la si ritrova in una delle descrizioni più dettagliate, quella del 1669), attraversa monte Magalastro, prosegue verso Pasano, Agliano, Ripa della Serra, il  “Castello di San Marzano”, il monte della Conca e funge da strumento atto a rilevare i confini tra il territorio tarantino e quello oritano. Dalla zona tra il “Castello di San Marzano” (che non è  da identificarsi in una costruzione del centro storico, ma in uno scomparso edificio in contrada Chiese Vecchie), e monte della Conca, il percorso confinario della città di Taranto cambia rispetto a quello individuato come percorso del cosiddetto Limes Bizantino: il primo difatti ruota circolarmente nell’ambito di un territorio che si estende intorno alla città, il secondo, stando alle ricostruzioni dei vari storici salentini che ne han parlato, passava a sud di Francavilla e Oria per proseguire verso Mesagne fino ad Otranto.

[13]  Joanis Juvenis, De antiquitate et varia Tarentinorum fortuna , 8, Salviano, Napoli, 1859, pp. 43-44

[14]  Per una rassegna delle varie tesi si veda Giovanni Stranieri, Un limes bizantino nel Salento? La frontiera bizantino-longobarda nella Puglia meridionale. Realtà e mito del “limitone dei greci”,  Archeologia Medievale, XXVII, 2000, pp. 333-355

[15]  Antonio Profilo, La messapografia, ovvero memorie istoriche di Mesagne in provincia di Lecce, Tipografia Editrice Salentina,  1875, pp. 7-8

[16]  Antonio Profilo, La messapografia, ovvero memorie istoriche di Mesagne in provincia di Lecce, 1870,  pp. 115-116

[17]  Giovanni Stranieri, Sistemi insediativi, sistemi agrari e territori del Salento settentrionale (IV-XV sec.),  in Giuliano Volpe (a cura di), Storia e archeologia globale dei paesaggi rurali in Italia fra tardoantico e medioevo, Insulae Diomedeae, 34, Edipuglia, 2018, Pag. 331

[18]  Ibidem

[19]  Primaldo Coco, Cenni Storici di Sava, Stab. Tipografico Giurdigniano, LE, 1915, pag. 19

[20]  Gaetano Pichierri, Il Limitone dei Greci nel Territorio di Sava, in “Omaggio a Sava”, opera postuma a cura di V. Musardo Talò, Edizioni Del Grifo, 1994,  pp. 55-56. Lo scritto appare per la prima volta in “ Cenacolo”, V-VI (1975-76), Società di Storia Patria per la Puglia sez. di Taranto, pp. 23-29. La fornace cui il Pichierri si riferisce è la cosiddetta “Carcara”, abbandonata da circa mezzo secolo e i cui resti sono ancora visibili nei pressi della provinciale Sava-Torricella

[21]  Gaetano Pichierri, Sava, il “Limitone dei Greci”, in: Giovanni Uggeri (a cura di), “Notiziario Topografico Pugliese I, Contributi per la Carta Archeologia e per il Censimento dei Beni Culturali”, Brindisi, 1978, pp. 152-154,   vedi anche Giovangualberto Carducci,  I confini del territorio di taranto tra basso Medioevo ed età moderna, Mandese Editore, 1993, pag. 63 e pag. 116

[22]  Gaetano Pichierri, Altre notizie sul Limitone dei Greci nell’agro di Sava, inedito 1989, pubblicato postumo in: Vincenza Musardo Talò (a cura di), Gaetano Pichierri – Omaggio a Sava, Del Grifo Ed., LE, 1994, pp. 66-69

[23]  Il Pichierri ipotizza un toponimo grecanico per Morfitta, precisando però che non riesce a rintracciare altri toponimi di confronto. (PP 242-243). In realtà esiste un toponimo confrontabile ed è quello di Molfetta, detta Melficta nel periodo medievale (a partire dal XI sec. circa) e fino almeno al 1500. Proprio (o almeno) intorno al 1500 pare sia ricorrente l’utilizzo anche di Morfitta per designare questa cittadella ( Leandro Alberti, Descrittione di tutta Italia, Venezia, 1561, pag. 243).

[24]  Gaetano Pichierri, Il “Limitone dei Greci” nel territorio di Sava, in: Vincenza Musardo Talò (a cura di), Gaetano Pichierri – Omaggio a Sava, Del Grifo Ed., Lecce, 1994, pag. 55 (l’articolo era già apparso nella rivista “Cenacolo” V-VI, Società di Soria Patria per la Puglia, Sez. di Taranto, 1975-76, pp. 23-29)

[25]  Vedi: Gianfranco Mele, Monte Maciulo in agro di Maruggio e località viciniori. Tracciati storico-archeologici, La Voce di Maruggio, sito web, luglio 2020 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/monte-maciulo-in-agro-di-maruggio-e-localita-viciniori-tracciati-storico-archeologici.html

[26]  Giovan Giovine scrive  che dopo il fiume Borraco e la (oggi scomparsa) chiesetta di S.Nicola, si giunge nella zona della cappelletta di San Marco d’Olivaro, “attraversando un oliveto selvatico e un grande muro costruito con sassi e macigni di mole straordinaria, dove, mediante un passaggio si sale sul crinale di un colle che si leva a sinistra e subito dopo sul monte Malagastro disseminato di folti olivi selvatici” (Joanis Juvenis, De antiquitate et varia Tarentinorum fortuna , Salviano, Napoli, 1859)

[27]  Francesco Ribezzo, Nuove ricerche per il Corpus inscriptionum Messapicarum, Roma, 1944, pag. 31. Probabilmente il Ribezzo intendeva da un composto di  μεγάλη (grande) + ἀστηρ, ἂστρον (astro, stella, costellazione). N.B. non ho potuto reperire di prima mano il testo del Ribezzo, e quindi traggo le informazioni citate in questo articolo da: Maria Teresa Laporta, Oscilla con epigrafi greche, in Quaderni del Museo archeologico F. Ribezzo di Brindisi, 9, 1976, pag. 83, nota 2

[28]  Andrea Rubbi, Dizionario di antichità sacre e profane, pubbliche e private, civili e militari, Tomo decimoquinto, Tipografia Curti, Venezia, 1805, Pag. 73; vedi anche Fernando Sammarco,  Arthas il Grande Eghemón ton Messapion, Il Pensiero Mediterraneo, Rivista Culturale online, aprile 2020. In entrambi i casi si fa riferimento ad uno scritto di Eustazio.

[29]  Marcelino Cortés Valenciano, Una peculiar serie toponìmica sobre castĕllum, castrum en el nordeste peninsular, Alazet, 26, 2014, pag. 19

[30]  Julio Medina Font, La formación política del Principado de Cataluña, siglos X-XII, Facultad de Derecho de la Universidad Complutense de Madrid,  1976, pp. 157-158

[31]  Marcelino  Cortés Valenciano, op. cit., pag. 18

[32]  Ibidem

[33]  Con caratteristiche simili, Aracastillo, Carocastillo, Cercastiel, Dicastillo, Serracastillo, Turdicastillo, Uncastillo. Carocastillo e Uncastillo sono detti anche rispettivamente Carocastro e Unocastro.

[34]  Marcelino Cortés Valenciano, op. cit., pag. 33

[35]  Marcelino Cortés Valenciano, op. cit., pag. 31

[36]  Marcelino Cortés Valenciano, op. cit., pag. 32

[37]  Ibidem

[38]  “I Bizantini presero in prestito dai Romani il termine castra perchè più diretto a rendere il significato di “forte, fortezza” […] L’aggiunta di mala dovette avvenire all’arrivo dei Normanni che avevano occupato altri castra nell’Italia meridionale.  […] Ad aver operato sul termine toponomastico vi è da pensare al nome di Guglielmo I, poiché questo re normanno è stato tramandato da certa storiografia con l’appellativo di “malo”. Costui fu qui di casa nel 1156, nelle azioni militari di Brindisi che portarono alla sconfitta dell’esercito e della flotta dei Bizantini” (Gaetano Pichierri, Altre notizie per una più sicura ubicazione del  Limitone dei Greci nel territorio di Sava, inedito gennaio 1989, pubblicato postumo in: Vincenza Musardo Talò (a cura di), Gaetano Pichierri – Omaggio a Sava, Del Grifo Ed., LE, 1994, pp. 74-75).

[39]  Secondo alcune interpretazioni, l’albanese Mal kashtër (montagna di paglia/pagliaio) deriverebbe da Mallakastra, voce di matrice pelasgica. Traggo questa informazione da: Elton Varfi, Parole derivate dalla lingua pelasgico-albanese, http://eltonvarfi.blogspot.com/2009/06/parole-derivate-dalla-lingua-pelasgico.html . L’autore cita come fone un libro pubblicato nel 1975 dall’ Istituto Linguistico Svedese , Webster’s New Twentieth Century Dictionary, Unabridged Second Edition, De Luxe Color, William Collins and World Publishing Co., Inc.

[40]  Oltre al toponimo e alla conformazione collinare, questo sito, che è divenuto sede di  un parco archeologico, ha curiosamente in comune con il Magalastro/Malagastro savese (e le adiacenti località Morfitta e Agliano) la presenza di ceramiche arcaiche, classiche, tardo classiche, ellenistiche, dell’antica Roma, del medioevo.  Al di là di ciò, a questo punto si potrebbe anche ipotizzare una origine albanese del toponimo (e in sostituzione di uno più antico), affermatasi nel XV secolo, quando vi fu una consistente migrazione albanese in zona, compreso il territorio savese: tuttavia se Magalastro è già citato e dunque attestato come toponimo in un documento del 1434 e l’ondata migratoria nel territorio invece avviene non prima del 1460, questa ipotesi non può essere accettabile ( cfr. Gianfranco Mele, Gli albanesi a Sava tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo. Studi, fonti storiche e contraddizioni sulla loro presenza e influenza nella cittadina jonico-salentina e nella ripopolazione del casale, La Voce di maruggio, sito web, marzo 2019).

Architettura della pietà popolare. I Calvari nel Salento

 

di Marcello Gaballo

Bruno Perretti, Calvari. Architettura della pietà popolare nell’area ionico-salentina, presentazione di Francesca Talò, Manduria, Barbieri Selvaggi, 2011 (271 pp., 26 cm).

 

Seppur datato al 2011, edito da Barbieri Selvaggi di Manduria, il volume di Bruno Perretti, Calvari. Architettura della pietà popolare nell’area ionico-salentina, resta fondamentale per la conoscenza e lo studio di queste caratteristiche costruzioni presenti nel Salento, realizzate tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, a torto poco considerate e ingiustamente relegate tra i cosiddetti beni culturali “minori”.

Rimandano al nome del monte su cui Cristo fu crocifisso e comprendono scene della Passione con vari personaggi e simboli ad essa collegati e quasi in tutti, al centro, domina la Crocifissione.

Sono tanti i centri che ancora possono disporne, anche se molti trascurati e in deplorevoli condizioni, venendo meno i committenti e la  memoria delle radici culturali che favorìrono la loro realizzazione con pietra locale da taglio in punti strategici delle cittadine, collocati scenograficamente a lato delle chiese principali o conventi oppure davanti ai cimiteri di un tempo.

“Graziosi santuari urbani, una volta occasione di aggregazione devozionale dell’umile popolo di Dio”. Così li riassume Francesca Talò, che presenta il bel volume, riccamente illustrato con foto a colori, che illustra gli 83 Calvari superstiti censiti dall’Autore nelle tre province di Brindisi (13), Lecce (ben 61) e Taranto (9). Di ognuno di questi viene presentata una scheda descrittiva, con adeguato corredo fotografico, che illustra la tipologia e varietà architettoniche (a tempietto, edicola, portico, esedra, etc.) e le diverse tecniche adoperate da artisti quasi sempre locali, siano essi pittori o scultori.

Sempre la Talò, nella sua ampia e condivisibile premessa del volume, precisa come “Non a caso, nei calvari, pur nella peculiarità propria della loro appartenenza geografica, si rinviene la testimonianza dei tanti segni della trascorsa religiosità popolare, leggibile (nelle tre direzioni di storia-arte-fede) unitamente anche ai rapporti con l’impianto urbanistico, quale contenitore di tali edifici, e tenendo in conto anche le diverse teorie stilistiche di cui si adornavano, perché capaci di raccontare dei fasti o della elementarità economica di quanti si sono fatti committenti di simili beni  del patrimonio sacro cittadino… monumenti che attengono la sfera del vissuto devozionale collettivo, trovano fondamentalmente la loro ragione di essere nel devoto desiderio di rivivere in loco, in maniera concretamente visibile e sperimentabile, le suggestioni della Terra Santa”.

Tra le diverse tipologie di calvari salentini torna molto utile l’approfondimento sul Calvario di Ortelle studiato da Angelo Micello, affrescato da Giuseppe Bottazzi (1821-1890) probabilmente negli ultimi anni della sua attività, “un vero e proprio manierista delle rappresentazioni religiose e dei Calvari in particolare. I tagli, le pose e i colori delle figurazioni del Bottazzi sono replicate per esempio nel Calvario di Montesano Salentino (commissionato nel 1873)”. Realizzò anche quelli di Specchia Preti e Morciano di Leuca (vedi Il Calvario di Ortelle – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it).

Sul Calvario di Spongano ne ha scritto invece Giuseppe Corvaglia (Il Calvario di Spongano sito in contrada Santa Marina – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it).

Purtroppo, come rileva Bruno Perretti, autore di questo utile ed originale censimento, non sempre si ritrovano le firme degli artisti certificati, come sono, oltre a Buttazzo, quelli di Alessandro Bortone (1848-1939) a Diso, Vignacastrisi e Vitigliano; Ciro Cimino a Racale; Agesilao Flora (1863-1952) a Latiano; Giuseppe Villani a Galatina; Ciro Fanigliulo (1881-1969) a Grottaglie e Monteiasi; Giuseppe Renato Greco a Manduria; Giuseppe Vaccaro a Lizzano; Leonardo Perrone a Squinzano; Luigi Giuseppe Martena a Trepuzzi; Nicola Pepe a Tiggiano; Giovanni Moscara a Soleto; don Oreste Paladini a Taurisano; Sebastiano Greco a Seclì.

La settimana santa a Francavilla Fontana

di Mirko Belfiore a colloqio con Antonio Di Castri.

Restando sul tema dei riti della Settimana Santa mi sono reso conto di come potesse essere interessante aggiungere alla mia personale visione da “migrante” il punto di vista di chi questi giorni li ha sempre vissuti in maniera più approfondita.  Mi sono chiesto, chi meglio di un francavillese fatto e cresciuto, può raccontare le esperienze su questo momento liturgico coì pregno di tradizione e storia? Non ho dovuto fare molta strada e mi sono rivolto a una persona a me molto cara, il quale ha aperto il cassetto dei ricordi e si è fatto rivolgere alcune domande:

Carissimo Antonio, come hai vissuto nel tuo percorso di crescita, i riti che conducono verso la Settimana Santa?

Sin da piccoli ci si approccia a questo elemento fondante della cultura cittadina grazie alle istituzioni ecclesiastiche e scolastiche. Nelle prime escursioni della nostra città si coglie l’occasione per visitare i luoghi più simbolici come la chiesa di santa Chiara o della Morte, edificio dove gelosamente si custodiscono le statue dei Misteri. In noi piccoli, la visione di questi oggetti alimentava emozioni controverse, date non solo dallo splendore artistico e dalla carica drammatica ma anche dall’aura di mistero che oggi come allora aleggia intorno a queste opere d’arte. All’approssimarsi del periodo pasquale e insieme ai compagni del catechismo, si faceva qualche piccola vendita clandestina dei rametti di ulivi benedetti durante la Domenica delle Palme, a cui seguitava la frenetica realizzazione “ti lu piattu”, sempre decorato con gioia e orgogliosamente mostrato a tutto il vicinato, riti di passaggio che seppur semplici hanno accompagnato i miei passi verso l’adolescenza.

La folla che attende la partenza della processione

 

i Crociferi con le loro enormi croci in legno mentre percorrono via Roma a Francavilla Fontana (questa e le altre foto del contributo sono di Andrea Turrisi)

 

Da spettatore esterno, come posso comprendere in maniera completa cosa rappresenta per un francavillese vivere questo momento così antico e così fortemente radicato?

Dal mio punto di vista, forse questo è l’unico momento in cui la comunità si riunisce realmente in un atto di purificazione, partecipando a questa performance pubblica. In quei giorni a Francavilla succede qualcosa di inspiegabile, c’è nell’aria un senso di attesa, un momento di stallo che anticipa tutto quello che avverrà. Non è solo l’insieme, ma anche le singole funzioni che rapiscono nella loro carica di fede. Ad esempio, per me, la processione della statua lignea della Madonna dell’Addolorata, la quale disperata e melanconica vaga per la città “in cerca del Figlio” con quegli occhi carichi di disperazione, rappresenta una delle immagini più toccanti. Le attività frenetiche dei giorni successivi restituiscono poi, quel senso di partecipazione e concordia che in molti mesi dell’anno manca. La realizzazione degli addobbi dei Sepolcri, ricchi di colori, manufatti e riempiti dalla fitta selva dei numerosi “piatti”, rimane un vero e proprio momento di concordia.

Una coppia di Pappamusci in preghiera

 

Fra i ricordi che emergono, cosa mi puoi raccontare dei “Pappamusci”, queste figure sinistre e quasi minacciose, che durante il Giovedì e il Venerdì Santo camminano accoppiate lunghe le vie di Francavilla?

Sin da bambini si è sempre spaventati da queste figure piene di mistero. Ricordo la filastrocca che spesso i più grandi ripetevano per intimorirci al loro passaggio, in modo da evitare che disturbassimo il loro atto di penitenza: pappamusci alla squazata, pigghia la mazza e ddalli an capu (pappamusci scalzi, prendi la mazza e daglielo in testa). Il terrore di essere colpito da quei lunghi bastoni, mi portava al silenzio e all’osservazione, unita a quella forma di rispetto che scaturiva al loro battere, usato sia durante il momento del saluto che nell’abbraccio simbolico. Ciò che mi ha sempre affascinato sono proprio questi atti rituali di riguardo, non solo verso il luogo di pellegrinaggio, ma anche verso l’altro fratello penitente, il quale si ritrova nella stessa condizione. C’è ordine in questi atti ma anche tenerezza, sentimenti che traspaiono quando tra di loro si sistemano la mozzetta o il cappello fuori posto, oppure quando un adulto incoraggia il bambino a proseguire nel suo cammino. I pellegrini spesso sono padre e figlio e in questo si può riconoscere un atto di trasmissione della tradizione, simbolo di quel legame che li univa.

Chiesa di Santa Chiara o della Morte, luogo di conservazione delle statue di cartapesta durante l’anno

 

Come può un giovane avvicinarsi a queste cerimonie, così avvolte da una sacralità quasi invalicabile?

Il rito è ancora attuale proprio perché è un atto performativo, codificato, ritmato. Il Venerdì Santo, impressiona per l’atmosfera assordante di silenzio che si può udire in città interrotto solo dal suono della “trenula”. Un suono secco e duro che annuncia nelle chiese e per le vie cittadine la morte di Cristo. Da quel momento in poi, l’interruzione delle attività tutte è d’obbligo e l’unico mormorio incessante che si ode è quello della preparazione dei gruppi statuari sapientemente allestiti all’interno della chiesa della Morte. A pochi passi, si preparano le enormi croci dei “Crociferi”, i quali assemblano con maestria e trepidazione gli oggetti che useranno successivamente. Quando la processione ha inizio i cittadini sono lì presenti. La caccia al posto più favorevole dove osservare il passaggio della processione porta molti a sistemarsi ore prima per individuare il punto migliore, anche sfruttando i balconi di amici e parenti. Questo per avere la migliore visuale possibile dove poter osservare il passaggio lento di quelle opere che in modo straziante restituiscono il dolore del Cristo. Un dolore che viene proiettato su sé stessi soprattutto al passaggio dei crociferi, i quali trascinano il loro pesante peso fra la preghiera e gli umili affanni di fatica per la stanchezza e il peso. Purtroppo, l’evolversi di questo evento cittadino in evento turistico toglie qualcosa a questo momento. Ricordo il silenzio delle folle cittadine al passaggio della processione, ora ci sono flash e chiacchiereccio, perché c’è chi vive quel momento come uno show. Il turista viene, guarda, scatta e va via. Non vive l’esperienza a pieno, non assapora tutti i passaggi che si effettuano per arrivare a quel momento. I giovani probabilmente ora mostrano disinteresse proprio per questo, perché nel momento in cui un atto così viene massificato perde della sua unicità pur nella sua replicabilità. Attenzione, non parlo di nostalgia dei vecchi tempi, perché sicuramente l’esperienza che ho vissuto io è differente da quella che hanno vissuto i miei genitori, i miei nonni. Si chiamano riti della Settimana Santa, non a caso, perché appartengono alla comunità, l’apertura all’ospite è insita nel rito stesso, ma non per questo si deve snaturare la sua funzione sociale e culturale. Il rito è efficace grazie al suo linguaggio semplificato e comprensibile ai tanti. Per questo ci deve essere da parte dei cittadini un interesse nel preservare questi eventi non come un monolite intoccabile, ma renderlo fruibile agli altri con la consapevolezza del valore che esso ha per chi lo vive sin dall’inizio.

Cristo alla colonna (XVIII secolo)

 

Che cosa rimane di tutto ciò, sapendo che quest’anno, dopo due lunghi anni, si tornerà a godere di tutto ciò, riassaporando quel senso di normalità?

Questo è, per i fuorisede come me, il momento del ritrovo, in cui la famiglia si riunisce e vive la Pasqua come un momento di gioia e spensieratezza, in alcuni casi di riappacificazione. A ciò aggiungo la mia personale speranza che si possa ritornare anche a quei momenti fatti di baci e abbracci, gesti che hanno una loro importanza e che stanno alla base di tutto quello che s’è detto sino ad ora. Quando torno a Francavilla e ospito i miei amici, spesso li porto ad osservare le statue, racconto loro quale posizione le stesse hanno nella processione e mi dilungo nella spiegazione delle varie fasi, lasciandoli stupefatti di tutta questa partecipazione. Quando sono solo invece, amo ritagliarmi un momento per andarle a visitare nel silenzio della mia intimità, così da poter godere in pieno della loro bellezza e delle emozioni che da esse scaturiscono. Ritornare a vivere tutti questi frangenti con quella libertà che per due anni ci è stata negata, per me rappresenta un sollievo dell’anima e una speranza che tutto possa riprendere con uno spirito nuovo.

Padre e figlio penitenti

Considerazioni sui riti della settimana santa a Francavilla Fontana

di Mirko Belfiore

Io, figlio di emigrati e cresciuto a Pane e Francaidda, sono parte di quella generazione di francavillesi che per necessità e virtù dovette espatriare in cerca di lavoro, trascorrendo la sua esistenza fra una delle tante città “dell’Alta Italia” e le frequenti discese nel paese natio. Non essendo una condizione così rara, non è difficile far comprendere di cosa parlo e di come ogni occasione fosse perfetta per percorrere la lunga strada che mi separava da Francavilla, viaggiando sul sedile di una macchina, in una cuccetta di un treno o prenotando un posto su un aereo. Cresciuto nel corpo e nello spirito, in me iniziò a farsi spazio un modo più maturo di vedere quella terra così lontana, grazie agli studi, la passione e al sapiente contributo di quelle che sono sempre state le mie fonti inesauribili di tradizioni e aneddoti: i Nonni.

Che cos’era quindi per me Francavilla? Un luogo che rimaneva sconosciuto per buona parte dell’anno, ma che con una semplicità disarmante sapeva regalarti anche per pochi giorni emozioni incredibili.

La sintesi perfetta di questo sentimento si sublima in un intervallo di tempo in particolare, dove quel percorso di fede fatto di tradizioni uniche, “rapisce” la comunità senza distinzioni di età.

I piatti decorati dai bambini che verranno portati in giro per le strade di Francavilla (questa e le altre foto che corredano il presente contributo sono di Andrea Turrisi)

 

Fra le molte possiamo citarne sicuramente alcune, come il piatto utilizzato dai fanciulli per la cerimonia del “Ce ti piace lu piattu mia”, i meravigliosi allestimenti creati all’interno delle chiese per i Sepolcri (Repositori), la commovente vestizione della statua dell’Addolorata, fino a giungere al massimo del coinvolgimento proprio durante le fasi finali del periodo pasquale fra il Giovedì e Venerdì Santo.

La statua della Vergine Addolorata prima e dopo la vestizione (XVIII secolo)

 

Durante il mattino, si possono ancora trovare per le strade o nei pressi dei templi religiosi “li Pappamusci”, parola dall’etimo incerto (gli studiosi ancora oggi si dibattono), che rimanda a quelle coppie di penitenti scalzi che a passo lento compiono il giro delle chiese cittadine per portare a termine il loro tragitto di redenzione.

Queste singolari figure sono abbigliate secondo un’usanza ben precisa: una veste bianca semplice o ricamata, una mantella color panna, un cappello da pellegrino indossato in segno di ossequio e un cappuccio bianco aperto solo all’altezza degli occhi, utilizzato per celare il volto e mantenere l’anonimato più assoluto.

Una coppia di Pappamusci in preghiera

 

Completano questo ricco corredo: il cingolo che li avvolge in vita, simbolo del sacrificio, e il bordone, il bastone del pellegrino con il cui suono il penitente può avvertire del proprio arrivo i fratelli in preghiera.

Secondo una sequenza ritmata che inizia fin dalle prime ore pomeridiane del Giovedì Santo, gli stessi iniziano e concludono il loro circuito partendo dalla chiesa del padri Carmelitani, privilegio ancora oggi testimoniato dallo scapolare color marrone che reca la scritta Decor Carmeli.

Giunti al calar della sera, le funzioni della giornata si concludono con l’uscita in processione dei gruppi statuari dei Misteri, manufatti di cartapesta dalla notevole resa empatica, risultato di un’antica tradizione sette-ottocentesca che a Francavilla e nel Salento fece scuola.

Essi rappresentano figurativamente i momenti cruciali della Passione di Gesù Cristo e vengono portate in spalla dagli appartenenti delle sette confraternite, a cui si aggiungono in coda al corteo le autorità, i gruppi religiosi e i laici. Lungo le vie cittadine, il lento serpentone viene accompagnato dai Crociferi, “Li Pappamusci cu li trai”, i quali al seguito della statua riproducente “La Cascata”, dove il figlio di Dio cede ormai stremato al peso della sua croce, trasportano individualmente e con enorme fatica, una copia in legno dell’emblema del sacrifico.

Statua di Cristo con la canna portata in spalla (XVIII secolo)

 

La processione segue l’itinerario avvolta da due grandi ali di folla e accompagnata da alcuni suoni molto caratteristici: il rumore incessante delle “trenule” che scandiscono i tempi di percorrenza, le malinconiche melodie eseguite dalla gloriosa banda locale e il silenzio assordante della calca, da dove emergono sempre due tipi di fedeli: chi prega rapito nel raccoglimento più totale e chi rimane impressionato dai gesti drammatici e dagli sguardi carichi di “pathos” delle raffigurazioni statuarie.

Le sette confraternite della città abbigliate secondo i colori che le contraddistinguono

 

Ultimate queste giornate ricche di avvenimenti, tutta la cittadinanza ritorna nelle proprie case per trascorrere in famiglia i restanti giorni e per prepararsi a riprendere la strada del ritorno, tutti uniti da quel sentimento di soddisfazione per aver partecipato a qualcosa di unico.

Pane, casu e ònguli è manciata te galantòmmini

di Marino Miccoli

E’ arrivato il tempo della maturazione di un apprezzato legume in baccello che nel nostro amato Salento si degusta quando è ancora tenero, spesso accompagnato deliziosamente con pane e formaggio fresco: le fave. Un noto proverbio infatti recita PANE, CASU E ONGULI E’ MANCIATA DE GALANTOMMINI!

Ma vi scrivo per raccontarvi un divertente  stornello popolare che mia amatissima nonna ADDOLORATA POLIMENO (uccèra di Spongano) ebbe a narrarmi quando ero ancora fanciullo: si intitola LE FAVE E LA MAZZA.

N’cera na’ fiata nu furese ca tinìa nà cisura e tutti l’anni la siminava de fave.
Nu cristianu ca se truvau a passare de nanzi a ddhra cisura, vidennu ca i primi ònguli s’erane chini se girau versu lu furese e li disse: “FAVARAZZA FAVARAZZA, CENTU TUMMINI CU NE FAZZA!”
Lu furese li rispuse: “MOI CA MA L’HAI BENEDITTE, TE NE POI CCUIRE NA RAZZATA CU TE LE PORTI A CASA!” e ddhru cristianu se ne ccose nu picca e poi se ne sciu.
Allu crai, de prima mmane, lu furese turnàu alla cisura e vidennu ca de notte s’erane rrubbate le fave se rraggiàu e disse: “STANOTTE ME CCUCCIU A NTHRA LA PAJARA E SPETTU LI LATRI… LI MOSCIU IEU NA COSA A DHRI DISCRAZIATI!” e cusì fice.
Verso la menzanotte sintìu nu rùsciu  a menzu alla cisura, allora ssìu de la pajara e cittu cittu, musceddhri musceddhri, se vvicinàu allu puntu addhru era ntisu lu rusciu… ncera ddhru cristianu de lu giurnu prima ca portava a ncoddhru doi fisazze.

Quannu spicciau de cuire le fave culle fisazze chine se azzàu tisu a menzu alla cisura e disse:” FAVARAZZA FAVARAZZA, CENTU TUMMINI CU NE FAZZA… E FAZZA O NO FAZZA, ME L’AGGIU CHINA LA FISAZZA!”
Lu furese tuttu de paru li zumpàu de nanzi e cridannu li rispuse: “…E IEU SU NTONI DE RAZZA, MOI LASSI LE FAVE E PROVI LA MAZZA!”

Poi cu lla mazza ca tinìa a mmanu cuminciàu cu bbinchia de mazzate lu latru. Quistu vidennu la male parata llassàu le fisazze chine de fave e se ne fuscìu.

 

Truppe russe a Lecce. Correva l’anno 1799… (III ed ultima parte)

di Davide Elia

Lo sbarco in Salento

Almeno inizialmente, quindi, la flottiglia russo-turca dovette cambiare il piano di sbarco: anziché alla costa di Brindisi, si avvicinò a quella di Lecce, città ormai ritornata saldamente all’obbedienza ai Borbone. Emanuele Buccarelli, reazionario leccese autore di una cronaca di quegli anni, riferisce di una delegazione composta da “due ufficiali moscoviti”, scesi a terra per portare alla città un proclama di re Ferdinando (naturalmente redatto da Micheroux). Essi si intrattennero fino a sera in casa del sindaco e furono informati che dopo soli sei giorni di occupazione Brindisi era stata frettolosamente evacuata dal contingente francese, probabilmente richiamato in Italia settentrionale per essere impiegato in altri scenari bellici. I due russi tornarono per imbarcarsi “al porto di San Cataldo nel quale v’erano quattro grossissime navi di guerra moscovite e turche e queste stavano sette miglie dentro il mare”. Il 18 aprile la spedizione alleata entrò nel porto di Brindisi.

Tuttavia, non tutte le notizie di quel giorno risultarono gradite a Micheroux: l’imbarcazione tripolina, che già poco dopo la partenza da Corfù si era distaccata dal resto della squadra, l’aveva preceduta a Brindisi di un giorno. Trovatala abbandonata dai francesi, aveva saccheggiato la fortezza cittadina e vi aveva issato la bandiera ottomana, confermando le preoccupazioni iniziali per la possibile condotta di quell’equipaggio e per le conseguenze sul morale delle popolazioni pugliesi.

Ad ogni modo, vennero sbarcati 40 russi, 20 napoletani e 10 turchi, che presero possesso del forte. Ben magra guarnigione rispetto alle mirabolanti promesse dei comandanti russo e turco e delle rispettive diplomazie!

Addirittura Sorokin si affrettò tornare subito indietro a Corfù con il pretesto di voler organizzare l’invio di nuovi e più consistenti rinforzi. Micheroux acconsentì a seguirlo solo a patto che anche i tripolini lasciassero la città insieme a loro, per scongiurare l’eventualità di ulteriori spoliazioni.

Non sapevano, Micheroux e Sorokin, che da Corfù era nel frattempo partita un’altra squadra di sei imbarcazioni che condizioni di tempo avverso avevano però costretto a ripararsi a Otranto.

Probabilmente fu da queste navi che sbarcarono i 150 turchi che il 22 aprile giunsero a Lecce. Narra Buccarelli: “Il corpo tutto della nostra città cioè il Sig. Sindaco e tutti li signori deputati per riceverli l’uscirono avanti colle carrozze infino alla Terra di Caballino, d’unita con più soldati a cavallo, portando anche con loro una scelta e sontuosa banda composta di trombe, grancascia, tamburri, fischietti, piattini ed acciarini, quale era cosa bellissima a sentirla. Furono onorevolmente e con amore grande ricevuti da tutto il popolo leccese, che loro ne rimasero confusi. Li fecero poi entrare dalla porta di Rugge e camminare per una buona porzione della città per essere quelli da tutto il popolo veduti e passando dalla Piazza della città nostra si fece fare un lunghissimo sparo di mortari e nell’entrare che fecero nel castello dove s’era situata la di loro residenza, anche si fece lo stesso”. In sostanza, i turchi nemici della fede e secolare minaccia delle popolazioni salentine venivano ora accolti in città tra i festeggiamenti come salvatori della causa del re e della religione cristiana!

Si fece poi un bando perché nessuno dei negozianti locali vendesse sostanze alcoliche ai turchi, i cui comandanti temevano che la propria truppa trasgredisse la relativa prescrizione dell’islam. Timori fondati, peraltro: già il giorno seguente, mentre i due ufficiali turchi più alti in grado facevano insieme al sindaco il giro della città in carrozza gettando monete di rame al popolino, una parte della truppa si disperdeva nelle taverne ad ubriacarsi. I colpevoli, che pare fossero una ventina, vennero condotti al castello e lì incatenati e “bacchettati sotto i piedi” per punizione. L’indomani la stessa delegazione, ancora tra carrozze, fanfare e distribuzione di monetine, venne ricevuta dai canonici del seminario. “Le battuglie di turchi continuamente si vedono camminare per la città, l’istessi sono uomini umani e aggarbati con tutta la gente, innamorati e amantissimi assai dei fiori, che sempre ne vanno pieni”, riferisce il Buccarelli, ancora grato agli occupanti che stavano garantendo l’ordine realista.

Divisa di fante ottomano dei primi dell’800.

 

Da Corfù, dopo essersi abboccato con i due comandanti russo e turco e averne ricevuto le solite strabilianti promesse di rinforzi per il futuro prossimo, Micheroux tornò a Brindisi praticamente con la stessa squadra navale della prima volta, arricchita di un solo ulteriore vascello russo. La flotta, giunta a Brindisi il 31 aprile, si ricongiunse con quella che inizialmente si era riparata a Otranto. Il capitano del presidio lasciato precedentemente in città aveva spedito 30 dei suoi uomini a Lecce “per rallegrare colla loro vista quegli abitanti”.

A Brindisi Micheroux ricevette la visita di Tommaso Luperto, il preside (oggi diremmo prefetto) della provincia di Terra d’Otranto, nominato l’8 marzo precedente da Boccheciampe e De Cesari. Luperto aveva fama di persecutore di giacobini tanto implacabile quanto ottuso. Il preside richiedeva truppe russe da destinare a Lecce, ma Micheroux, che non nutriva né stima né fiducia in questo individuo, si limitò a raccomandargli moderazione nella sua opera di repressione. A Lecce giunsero invece alcune ulteriori decine di turchi, sbarcati in precedenza a Taranto. Giunsero poi anche ambasciatori russi per conferire con Luperto, seguiti, l’indomani, 3 maggio, da 35 soldati di truppa. Fu questo il primo contingente russo a fare ingresso a Lecce: incontro a loro uscì “tutto il corpo dei nostri soldati […] con una bella e soave banda composta di grancassa, tamburri, fischietti, piattini, acciarini e trombe, che facevano una grata melodia; così accompagnati entrarono e camminarono una buona parte della nostra città con un infinito concorso di popolo leccese”. Il 13 maggio giunsero in città alcuni alti ufficiali russi che, ricevuti dal Luperto, furono poi alloggiati nel seminario, dove erano già acquartierati i loro soldati. Il 16 fu la volta di una delegazione di ufficiali turchi, al solito ricevuti con fanfare e grande partecipazione di popolo.

Al di là delle apparenze, è lecito immaginare che fu diverso lo stato d’animo con cui i due contingenti vennero accolti: i russi erano mediamente più disciplinati e risultavano sicuramente più rassicuranti agli occhi delle popolazioni nostrane, se non altro per l’affinità esistente dal punto di vista religioso. Così Micheroux descrisse i soldati moscoviti: “Stature gigantesche, bel disegno di membra, spalle vastissime, fisonomie virili non senza dolcezza. Questi bellissimi uomini sono estremamente sobri, ubbidienti, disciplinati, imperterriti nel combattere, senza la menoma alterazione di animo nel maggior calore dell’azione. Gli ho veduti servire i cannoni; gli ho veduti imbarcarsi per andare all’assalto con quell’istessa pace e serenità di volto che loro è propria. Sembra che possa farsi di loro ciò che si voglia, e basta vederli per accertarsi che non può darsi caso in cui sapessero retrocedere. La loro ubbidienza verso chi li comanda è senza esame. […]. In quanto alla robustezza è tale che sgomenta. […] Dicesi che i soldati russi, lontani dagli occhi dei loro ufficiali, si permettono non già di rubare, ma di chiedere ai cittadini ciò di cui si sentono voglia e bisogno. Ma non ho potuto aver di ciò la pruova, e d’altronde fui assicurato che essendo accusati ai capi, vengon severamente puniti. Il vero si è che in tutte le isole del Levante sono adorati, e che hanno il doppio merito di aver liberati gli abitanti dalla tirannia dei francesi, e di esser loro uno scudo contro la licenza degli albanesi e dei turchi loro alleati”.

 

 

Il 23 maggio, invece, Buccarelli scriveva di continue intemperanze da parte turca: molti soldati circolavano in preda all’ubriachezza, attentando all’onore delle donne in città e all’incolumità degli abitanti delle masserie circostanti. Cinque prostitute locali vennero arrestate per essersi intrattenute con militi turchi ed aver trasmesso loro il “morbo gallico”, ossia la sifilide. La coesistenza dei due contingenti alleati non era sempre pacifica: “Per esser queste due Nazioni moscovita e turca anticoniste tra loro, in ogni poco tempo sortisce qualche piccola briga tanto nella piazza quanto nelle pubbliche strade di questa città”.

Uniformi dell’esercito russo intorno al 1790.

 

Il 26 maggio giunsero in città di altri 40 turchi provenienti da Otranto. Il 30 maggio i soldati russi scortarono la tradizionale processione del Corpus Domini.

Più a nord, l’armata del cardinale Ruffo faceva grandi progressi e, dopo aver risalito la Calabria, dilagava in Lucania. De Cesari raggiunse il cardinale a Matera il 7 maggio e da lì concertarono l’assalto ad Altamura, roccaforte della causa repubblicana. Sulla città sconfitta si scatenò la violenza sanfedista: Altamura venisse barbaramente saccheggiata senza che il cardinale facesse molto per porre un freno alle sue truppe. La coppia reale, da Palermo, si rallegrò e complimentò con Ruffo per l’efferata impresa compiuta. La morsa intorno alla capitale andava stringendosi di giorno in giorno. Il 1° giugno 90 turchi partirono da Lecce alla volta di San Vito degli Schiavi (oggi dei Normanni); in città ne restarono altri 80 circa. Il 3 partirono tutti i russi, diretti a ingrossare le file di un contingente di 450 uomini complessivi da radunare a Manfredonia (al loro seguito era anche Micheroux). Il 16 fu la volta di oltre 100 veterani leccesi, diretti a prendere parte alla presa di Napoli. Non sapevano che questa era già stata riconquistata dai sanfedisti il 13 giugno, poiché la notizia giunse a Lecce solo il 26.

Tela raffigurante l’abbattimento dell’albero della libertà a Napoli in occasione della caduta della Repubblica Napoletana. Si notino le bandiere tricolori blu-rosso-gialle, vessillo della repubblica.

 

Terminò così quel periodo di presenza russa a Lecce (che però, come vedremo, non fu l’ultimo), mentre un contingente di turchi restò a dare man forte a Luperto nella sua caccia senza quartiere ai giacobini. In alcuni frangenti i soldati turchi, anziché garantire l’ordine pubblico, sembrarono fare causa comune con la folla inferocita che, all’occasione, cercava di fare giustizia sommaria di alcuni giacobini arrestati, a stento trattenuta dall’intervento delle milizie locali.

In quell’estate del 1799 continuarono a transitare da Lecce alti ufficiali e diplomatici ottomani: sbarcavano a Otranto e, diretti a Napoli, facevano tappa in città risiedendo nel castello che già ospitava le truppe dei loro connazionali. In occasione dei festeggiamenti per Sant’Oronzo, all’interno del castello vennero allestite delle luminarie sulle quali campeggiavano lo stendardo borbonico e quello ottomano. Il giorno dopo, sempre all’interno del castello, i soldati turchi si cimentarono in una sorta di gioco della cuccagna.

La partenza dei turchi ebbe infine luogo il 16 ottobre: le truppe lasciarono Lecce alla volta di Brindisi, dove si imbarcarono per l’Oriente. Sorprende come il giudizio dell’opinione pubblica nei loro confronti fosse radicalmente mutato rispetto all’epoca del loro arrivo: salutati sulle prime come salvatori dell’ordine sociale e della dinastia, ora nel diario di Buccarelli venivano definiti “bestie”, “inzolenti, senza disciplina, senza cervello e senza raggione”, violentatori di “moltissime oneste donne”, ladri di frutta e di “fronde di tabacco secche per fumare”, sia in città sia nelle campagne circostanti. Oltre a queste ruberie extra, il loro mantenimento ordinario aveva rappresentato già di per sé un notevole carico per la popolazione locale, pare intorno ai 50 ducati al giorno. Buccarelli conclude però che, pur avendo cagionato così terribili disagi, quelle truppe avevano garantito al Salento protezione da “moltissimi mali e guai” ulteriori.

Curiosamente, pare che due “turchi” riuscissero a disertare e a sottrarsi al rimpatrio, poiché in realtà si trattava di due salentini che erano stati rapiti in tenera età e convertiti a forza all’islam. Sfruttarono la ghiotta occasione di essere stati destinati al servizio proprio in Terra d’Otranto per tornare a casa e riacquistare finalmente la libertà. Pare che uno dei due, in particolare, fosse originario di Monteroni e venisse infine battezzato nella Cattedrale di Lecce il 7 giugno 1800.

I mesi invernali a cavallo tra il 1799 e il 1800 furono contraddistinti dalla feroce repressione verso gli esponenti di parte repubblicana e da una situazione di generale miseria: “Li furti si sentono spesso finanche vicino alle porte della città. Il denaro è scarsissimo e la fadica manca”.

 

Ancora truppe russe in città

Il 19 marzo 1800 sbarcarono a Otranto altri 2000 soldati russi. Ancora una volta, i venti non avevano consentito loro lo sbarco a Brindisi. Il 23 marzo fecero il loro ingresso a Lecce, alloggiati tra il castello e diversi monasteri della città. Il quartier generale venne posto presso il convento dei Teresiani Scalzi, edificio che fa ancora bella mostra di sé lungo via Libertini. Il comandante del contingente fu ospite del preside Luperto, mentre Micheroux, che da Napoli era tornato a Brindisi, venne anch’egli a Lecce e fu ospitato dal marchese Palmieri.

Da parte di molti cittadini illustri fu richiesto alle truppe russe di “esibirsi” in esercitazioni militari fuori le mura e questo avvenne il 28 nello “spazio di Santa Maria di Ogni Bene” (quindi nei pressi del convento degli Agostiniani). Per tre ore e mezzo seicento soldati eseguirono le manovre sotto gli sguardi curiosi ed entusiasti di nobili e popolo.

In quegli stessi giorni apparve evidente che tra le truppe russe serpeggiava un’epidemia: da Otranto giunsero una novantina di infermi che, sommati a quanti già si trovavano a Lecce, fecero ascendere a 128 il numero dei soldati moscoviti ricoverati nell’ospedale cittadino. Si cominciarono a contare anche i morti, che furono quattro tra il 29 marzo e il 17 aprile. I funerali venivano officiati nella Chiesa Greca, seguendo un suggestivo rituale descritto nei dettagli da Buccarelli: “La processione era questa. Prima un soldato Moscovita andava avanti, e portava la croce, dopo veniva un chierico che portava l’incenziero in mano; di poi seguivano pontificalmente vestiti il parroco greco ed il loro cappellano, con un altro di loro soldato veterano, il quale portando un libro in mano andava cantando ad alta voce col di loro cappellano, ed il prete greco. Dopo di questi veniva il defonto in una cassa condotta da quattro soldati della sua Nazione, e dopo di questi venivano ad accompagnarlo da circa venti soldati a due a due portando tutti l’armi al funerale, col tamburro e clarinetta tutti scordati. Arrivato in chiesa il cadavere si fecero dalli due sacerdoti greci d’unita col sopraddetto soldato veterano li funerali, e pria di inchiodare la sopra detta cassa del defunto tutti quelli soldati li baggiarono la bocca del defonto; di poi dal cappellano loro li fu sparsa una branca di ferro al defonto, fu inchiodata la cassa, e fu sepolto; in questo atto tutti quanti i soldati fecero la di loro scarica dell’armi e se ne andietero”. Per tutti e quattro i militi morti la sepoltura venne effettuata nella Chiesa Greca di Lecce.

Scena di funerale russo del XIX secolo.

 

Gli sbarchi di russi a Otranto non si fermavano: il 31 marzo giunse a Lecce un altro contingente. A Buccarelli la truppa parve “onorata”, temprata da ferrea disciplina: “l’officiali di essa sono troppo riggidi, e crudeli; anzi barbari ed inumani inclinati troppo alla ferocità; che a ogni frivolissima mancanza di un povero soldato li fanno consegnare 300, ed 800 lignate a spalle ignute, e senza pietà, e carità […]”.

Al tempo stesso le truppe, riunite e riorganizzate, riprendevano velocemente la marcia verso altre mete: il 3 aprile la quasi totalità dei russi lasciò Lecce, chi disse che fossero diretti a Napoli, chi a Palermo. Non si mossero però i 40 infermi ancora ricoverati presso l’ospedale e per assisterli restarono anche un ufficiale, un chirurgo e alcuni uomini di truppa. Una volta ristabilitisi, il 21 luglio quasi tutti ripartirono per Napoli; restarono ancora a Lecce un ufficiale affetto da idropisia e un soldato non ancora guarito, e inoltre il chirurgo e un altro militare addetti alle loro cure. L’ufficiale sarebbe infine morto l’8 agosto.

Furono questi gli ultimi russi ad abbandonare, in un modo o nell’altro, la città. Una presenza che non lasciò ricordi profondi per la sua breve durata e che, in ogni caso, per le popolazioni risultò molto più sopportabile di quella ottomana. Sicuramente suscitarono ammirazione e curiosità l’aspetto di quei militi venuti dal freddo, la loro rigida disciplina e i loro peculiari cerimoniali religiosi.

 

Le occupazioni militari non si fermano…

In quel periodo di guerre e rivoluzioni, non fu quella l’ultima presenza di truppe straniere in Salento. Presto sarebbero tornati i francesi. Potremmo anche concludere qui, dicendo che questa è un’altra storia, ma sarà bene riassumerne anche solo sommariamente gli aspetti principali, per coglierne analogie e differenze con la precedente occupazione russo-turca.

Già alla fine dell’aprile 1801, in seguito alla pace di Firenze tra il re di Napoli e Bonaparte che prevedeva lo stanziamento di truppe francesi a Pescara e in Terra d’Otranto per un anno a spese dei Borboni e l’amnistia per i “rei di Stato” del 1799, sbarcarono a Taranto le prime truppe francesi. L’occupazione francese di Lecce e della sua provincia si protrasse fino a giugno 1802: “L’estorsioni, sevizie, ed oppressioni fatte […] a questa nostra città sono state grandissime e moltissime”, scrive Buccarelli. Ritornarono nuovamente nel luglio 1803, seguiti nel dicembre da “truppa gesarpina e polacca”. “Gesarpina”, ossia cisalpina, designava una milizia proveniente dall’omonima repubblica dell’Italia settentrionale: Buccarelli, con un certo disprezzo, la dice composta da “veneziani, genovesi, romani, siciliani, napoletani, leccesi e di molte altre nazioni, quali nel tempo delle rivoluzioni si son ribellati, quali poi scappati dalla galera, quali dalle carceri, chi per omicidi, chi per furti, ed altri delitti commessi si sono poi rifuggiati per sfuggire il castigo dei loro rispettivi Sovrani sotto la bandiera francese”. Numerosi (svariate centinaia) al seguito dei francesi furono anche i polacchi, che ai cittadini leccesi in quel momento sicuramente ricordarono nell’aspetto gli occupanti russi di pochi anni prima.

Uniformi della Repubblica Cisalpina.

 

Quella seconda occupazione si concluse nell’autunno del 1804, in seguito a un nuovo accordo tra Bonaparte e Ferdinando IV. Presto i francesi sarebbero tornati ancora, questa volta più stabilmente, spodestando il Borbone e governando il Regno di Napoli per dieci anni.

Tornando al presente, e guardando alla nostra regione oggi così pacifica e accogliente, non possiamo non leggere con un certo sollievo e distacco quei fatti, ormai sepolti sotto la polvere dei secoli. Eventi che dipingono un Salento sotto il flagello di divisioni violente, di occupazioni straniere, di saccheggi, di governanti dispotici e di oppressione e miseria. Un quadro desolante che non ci appartiene più, ma che continua ad essere lo scenario quotidiano per le popolazioni inermi travolte dai tanti conflitti che ancora oggi scoppiano in angolo del mondo. Nulla ha imparato l’umanità dalle tragedie del passato e in particolare da quel “Secolo dei Lumi” di cui abbiamo parlato, il secolo in cui Voltaire condannava la guerra come un mostro voluto da “tre o quattrocento persone sparse sulla superficie del globo sotto il nome di principi e ministri, il suo scopo principale è “fare tutto il male possibile”.

 

Lecce, Piazza Sant’Oronzo nel 1700

 

Bibliografia essenziale

E. Buccarelli, “Cronache leccesi ossia libro di memorie (1711-1807)” (a cura di N. Vacca), Lecce, 1933

A. Dumas, “I Borboni di Napoli”, Napoli, 1862

B. Maresca, “Il cavaliere Antonio Micheroux nella reazione napoletana del 1799”, Napoli, 1895

P. Palumbo, “Risorgimento Salentino”, Lecce, 1911

Truppe russe a Lecce. Correva l’anno 1799… (II parte)

di Davide Elia

 

Il Salento e la Repubblica

Quali erano stati in Terra d’Otranto gli effetti di tutti quei rivolgimenti? La notizia della proclamazione della repubblica a Napoli giunse a Lecce con la posta dell’8 febbraio. Il giorno dopo fu eretto l’albero della libertà in piazza Sant’Oronzo. In numerosi centri del Salento si ebbero analoghi festeggiamenti e manifestazioni di carattere anti-borbonico.

Lecce, Piazza Sant’Oronzo nel 1700

 

L’infatuazione repubblicana ebbe però vita breve: già l’indomani si erano spase voci di presunti prodigi compiuti da svariate immagini sacre in tutta la provincia, ricondotti dalla credulità popolare ad un moto di disgusto da parte del divino nei confronti del nuovo regime ateo e giacobino. Tra questi, il clamoroso segno dato dalla statua di Sant’Oronzo che, si disse, dall’alto della sua colonna aveva deciso voltarsi sdegnosamente per distogliere lo sguardo dall’albero della libertà. Questo bastò a provocare una sollevazione popolare che abbatté l’albero e ripristinò a Lecce l’obbedienza alla monarchia. Violento fu l’accanimento su coloro che in città erano stati i protagonisti dell’effimera proclamazione della repubblica.

 

Una sceneggiata ben riuscita

In quegli stessi giorni stava iniziando la singolare, per certi versi inverosimile impresa di un gruppo di avventurieri corsi. Una vicenda così grottesca da essere ripresa innumerevoli volte da storici e narratori; pertanto qui ci limiteremo a riassumerne soltanto i contorni principali. Erano sette poco di buono che avevano abbandonato la Corsica, ormai possedimento della Francia rivoluzionaria, per sfuggire alla giustizia e si erano dapprima stabiliti a Napoli, dove avevano abbracciato la causa legittimista. Tra di loro, spiccarono i nomi di Giovan Battista De Cesari, domestico, Francesco Boccheciampe, soldato disertore, e Raimondo Corbara, vagabondo. I sette si erano poi portati in Puglia per scortare fino all’Adriatico due principesse francesi di sangue reale che cercavano un imbarco per Palermo per fuggire dalla rivoluzione. Proprio in Puglia essi decisero di trattenersi in cerca di fortuna. Mentre erano di passaggio a Monteiasi, nacque per la prima volta tra il popolo la diceria che si trattasse di un gruppo di aristocratici. Poco dopo, il 14 febbraio, in una Brindisi in rivolta contro l’effimero governo repubblicano, Corbara venne scambiato per il principe ereditario (il futuro re Francesco I), a causa di una lontana somiglianza. Constatato l’entusiasmo che la presenza del presunto principe aveva suscitato in città e i vantaggi che avrebbe potuto portare alla causa legittimista mettendo a frutto la credulità delle masse, questa sceneggiata fu subito salutata con favore e sostenuta con convinzione dalla fazione realista. L’equivoco fu ulteriormente alimentato stabilendo che Boccheciampe e De Cesari si sarebbero a loro volta fatti passare rispettivamente per il fratello del Re e per il Duca di Sassonia. I corsi si spartirono anche compiti operativi per l’immediato: De Cesari e Boccheciampe, presentandosi con il titolo di “Incaricati di Sua Maestà”, avrebbero agito per il ristabilimento dell’ordine nella provincia, mentre Corbara, per evitare di restare troppo a lungo a Brindisi con il rischio di essere smascherato, si sarebbe recato a Corfù, dove era presente una squadra navale russa, per richiederne l’intervento contro la repubblica.

Imbarcatosi da Otranto il 19 febbraio, il Corbara non raggiunse mai l’altra sponda dell’Adriatico, poiché la sua imbarcazione fu catturata dai pirati barbareschi. Condotto in prigionia, fu infine liberato in Sicilia per intercessione degli inglesi e non prese più parte alle vicende di Terra d’Otranto.

Intanto, Boccheciampe e De Cesari capitanavano la controrivoluzione nel brindisino, reclutando milizie volontarie e intervenendo nei vari centri in cui scoppiavano sommosse popolari avverse alla repubblica. In quei giorni in Puglia non era ancora giunto un solo soldato francese.

 

Russi e Turchi alla presa di Corfù

Dicevamo che Corbara avrebbe voluto raggiungere Corfù per abboccarsi con i russi. In quel momento, l’antica fortezza veneziana dell’isola, ora in mano francese, era infatti assediata dalle forze coalizzate di Russia e Impero Ottomano, le cui squadre navali erano comandate, rispettivamente, dagli ammiragli Ushakov e Kadir bey. Il sultano era in guerra con la Francia poiché questa aveva attaccato l’Egitto, suo possedimento nominale. Per lo zar, invece, il casus belli era stato l’espulsione da Malta dei cavalieri dell’Ordine di San Giovanni, di cui era formalmente il Gran Maestro, operata da Napoleone di passaggio sulla via dell’Egitto. Il Regno di Napoli aveva sottoscritto un’alleanza con la Russia già nel novembre precedente, e con l’Impero Ottomano a gennaio.

Pianta delle fortificazioni veneziane di Corfù nel 1780..

 

Il 15 febbraio da Palermo era partito per Corfù anche Antonio Micheroux, plenipotenziario di Ferdinando IV, di origini fiamminghe. Era stato incaricato dal sovrano di ottenere l’invio di un contingente russo per sedare possibili rivolte a Messina, la città siciliana maggiormente sospettata di covare malcontento verso la dinastia. Maria Carolina fantasticava l’invio di “almeno 3 mila russi a Messina, e poi gli altri faranno il loro sbarco sia in Puglia o in Calabria”; tuttavia da questi dovevano essere “esclusi i cosacchi, turchi, greci, albanesi non arregimentati”, ritenuti inaffidabili perché pericolosamente indisciplinati. Alle istruzioni che aveva fornito a Micheroux, però, il re aggiungeva che, definito l’accordo per il contingente da destinare a Messina, si sarebbe potuto chiedere ai russi ed anche ai turchi di inviare ulteriori truppe sul continente per combattere i francesi, e in quel caso sarebbe stato sufficiente “un grosso corpo di truppa di qualunque nazione, sia regolata, sia irregolata”. Sarebbe a dire che Ferdinando non badava a scrupoli pur di ottenere la riconquista del regno, incurante di far patire alle popolazioni l’invasione di soldatesche straniere, anche irregolari e pronte al saccheggio, e per di più appartenenti al nemico secolare, il Turco. Ricordiamo che ancora per tutto il secolo XVIII il meridione d’Italia era stato ancora funestato da incursioni piratesche provenienti da basi situate in territori nominalmente soggetti al sultano di Costantinopoli.

Giunto a Corfù, Micheroux dovette mestamente constatare la poca consistenza delle forze alleate che fronteggiavano i 3000 francesi asserragliati sull’isola. Sulle navi erano infatti presenti soltanto 1800 russi e, da parte ottomana, 3000 albanesi. Questi erano sudditi del noto Ali Pascià, governatore di Giannina che sarebbe passato alla storia per la sua ribellione al sultano nel 1820, ma che già in quel 1799 non faceva mistero di preferire una condotta autonoma e addirittura non mancava di manifestare simpatia per i francesi e per le idee di cui erano portatori.

L’ammiraglio russo Ushakov.

 

L’emissario borbonico prese atto delle accuse reciproche degli alleati: i turchi rimproveravano a Ushakov, cui spettava il comando congiunto, una certa inazione; l’ammiraglio russo, di contro, si lagnava per il mancato arrivo di consistenti truppe albanesi di rinforzo, promesse con la consueta leggerezza dagli ottomani. Dopo innumerevoli rinvii, reticenze e reciproci sospetti tra gli alleati, l’assalto a Corfù venne dato il 1° marzo. Un efficace cannoneggiamento dalle navi consentì poi lo sbarco delle truppe, che in breve ottennero la capitolazione della guarnigione francese: mentre i russi combatterono lealmente e risparmiarono i nemici che si arrendevano, le milizie ottomane compirono una carneficina (“mozzano il capo indistintamente ai morti, ai feriti e ai vivi”).

L’atteso sblocco delle operazioni che sarebbe dovuto seguire alla presa di Corfù non fu né immediato, né consistente come sperato. Micheroux si adoperava perché le due flotte si presentassero davanti alle coste pugliesi per infondere coraggio nelle città di fede realista (e in tal senso giungevano a Corfù richieste da comuni pugliesi come Trani, Brindisi, Lecce e Otranto), prima di proseguire alla volta di Messina. Nulla però era ancora deciso allorché Micheroux, il 10 marzo, ripartì per Palermo, dove arrivò il 19 successivo. In Sicilia l’inviato ebbe modo di comprendere che la corte borbonica non era affatto interessata allo sbarco in Salento di truppe turco-russe, che avrebbero dovuto essere unicamente impiegate per la riconquista di Napoli; nessuna rilevanza veniva data alle province pugliesi, per le quali sarebbe bastata un’azione dimostrativa della flotta di fronte alla costa.

A Micheroux, tornato nuovamente a Corfù il 9 aprile, Ushakov fece tuttavia sapere che un trasporto di truppe via mare fino a Napoli sarebbe stato troppo dispendioso e la via più ragionevole da seguire sarebbe stata piuttosto quella di uno sbarco sulle coste pugliesi e una prosecuzione della marcia via terra.

Il 13 aprile partì una squadra navale composta da 5 legni: una corvetta e due fregate russe, una corvetta e un brik tripolino, quest’ultimo praticamente un’imbarcazione pirata e, come tale, “regalo” che Micheroux trovò alquanto indigesto. A bordo, sotto il comando del commodoro Aleksandr Sorokin, erano trasportati 250 soldati russi, un numero non inferiore di marinai e 10 cannoni.

Durante la navigazione, la squadra incrociò un’imbarcazione di emissari otrantini, i quali portarono la notizia della caduta di Brindisi ad opera di una spedizione francese partita da Ancona. Boccheciampe, che aveva guidato la difesa della città, era stato preso prigioniero e da quel momento di lui si persero per sempre le tracce.

(continua)

per la I parte vedi:

Truppe russe a Lecce. Correva l’anno 1799… (I parte) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

Truppe russe a Lecce. Correva l’anno 1799… (I parte)

di Davide Elia

I drammatici eventi delle ultime settimane hanno riportato d’attualità quella “minaccia russa” che da secoli – almeno dai tempi di Pietro il Grande – ha costituito a più riprese una fonte di apprensione per i popoli europei.

Da un lato, per ridimensionare questa preoccupazione, si potrebbe ricordare che per l’Europa occidentale, a conti fatti, la minaccia non è mai giunta a concretizzarsi in un’invasione permanente. Dall’altro, però, occorre tenere presente che l’arrivo di truppe russe in Occidente si è comunque verificato in un paio di occasioni ai tempi delle guerre napoleoniche.

La prima, in occasione della guerra tra la Francia e la seconda coalizione, cui aderirono Austria, Russia, Gran Bretagna, Impero Ottomano, Regno di Napoli e Portogallo, contestualmente alla spedizione di Bonaparte in Egitto. Di quella guerra si ricordano ancora le brillanti vittorie del generale Suvorov al comando dell’armata austro-russa inviata a scacciare i francesi dall’Italia settentrionale nel 1799. La seconda si ebbe quando gli eserciti della sesta coalizione, guidati dello zar Alessandro I in persona, giunsero a occupare Parigi nella primavera del 1814, mentre Napoleone si incamminava verso l’abdicazione e l’esilio all’Isola d’Elba.

L’entrata di Suvorov a Milano nel 1799.

 

I fatti del 1799 investirono in pieno anche il meridione d’Italia, quel regno borbonico che era membro della seconda coalizione e che da essa ricevette un sostanziale apporto per abbattere la Repubblica Napoletana e ristabilire l’“ordine” precedente. In quel frangente storico si verificò il passaggio di truppe russe, e non solo, sul suolo della Puglia e della Terra d’Otranto in particolare.

Proveremo qui a rievocare questa presenza di cui pochi oggi sono al corrente, ma prima occorrerà delineare il contesto storico di quel turbolento fine XVIII secolo.

 

Nasce la Repubblica Napoletana

Negli anni della Rivoluzione Francese, la coppia di sovrani napoletani, Ferdinando IV di Borbone e Maria Carolina d’Asburgo, si era dimostrata, com’era naturale aspettarsi, avversa a ogni anelito di rinnovamento ispirato alle idee e agli avvenimenti d’Oltralpe. Essi si ersero apertamente a campioni del legittimismo e dei valori della religione e della tradizione, in una parola di tutto l’apparato dell’ancien régime che pure a Napoli come in molte altre capitali europee sino a pochi anni prima si era cercato di riformare, sia pur con cautela e a fatica.

Dopo che in Italia settentrionale le prime campagne napoleoniche avevano dato origine alle prime “repubbliche sorelle” di quella francese (la più famosa fu quella Cisalpina del 1797), la rivoluzione venne portata dai Francesi anche in casa del Papa. La Repubblica Romana fu proclamata nei primi mesi del 1798, mentre Pio VI veniva tradotto in prigionia. Per Ferdinando IV si prospettava l’occasione di regolare i conti con la rivoluzione, ormai giunta ai confini del suo regno: il 28 novembre 1798 l’esercito borbonico invase il territorio della Repubblica e meno di dieci giorni entrava a Roma con Ferdinando alla sua testa, senza aver incontrato una resistenza di qualche rilievo.

L’occupazione napoletana di Roma, tuttavia, durò meno di una settimana: la controffensiva francese non si fece più attendere e fu così immediata ed efficace che Ferdinando dovette battere in ritirata, che presto divenne una rotta, e infine un tracollo. Il Borbone, rientrato nella sua capitale ormai minacciata dalle truppe del generale francese Championnet, preferì infine rifugiarsi sulla nave dell’ammiraglio Nelson che lo trasportò fino a Palermo. Dopo un breve momento di anarchia contraddistinto dalla lotta tra la fazione realista e quella filo-francese, quest’ultima prevalse e proclamò la repubblica (23 gennaio 1799).

Il cambio di governo avvenuto nella capitale non fu riconosciuto né immediatamente, né uniformemente nelle varie province del regno. L’adesione al nuovo regime si rivelò infatti episodica e frammentaria: molto dipese, in ciascuna località, dal sentimento della popolazione e dall’eventuale presenza di un’élite culturale di fede repubblicana, possibilmente sostenuta dalla presenza di un contingente militare francese. Di certo le plebi si rivelarono spesso ostili alla repubblica e in ogni caso, quale che fosse il bersaglio delle loro sollevazioni, diedero luogo a frequenti esplosioni di violenza incontrollata che destarono, a seconda dei casi, la preoccupazione dell’una o dell’altra parte in lotta.

Dipinto di chiara matrice filoborbonica raffigurante la marcia dell’armata sanfedista, guidata dal cardinale Ruffo a cavallo e protetta dall’alto da Sant’Antonio da Padova.

 

Facendo appello ai valori della religione tanto radicati nelle popolazioni, già l’8 febbraio il cardinale Fabrizio Ruffo cominciò ad organizzare, a partire dai suoi possedimenti in Calabria, l’embrione di quello che sarebbe diventato l’esercito della Santa Fede, l’armata che avrebbe restituito Napoli ai Borboni nel volgere di quattro mesi.

(continua)

Canto di Passione, la settimana santa nella tradizione popolare salentina

CANTO DI PASSIONE

a cura di Enza Pagliara, Dario Muci e Antongiulio Galeandro

 

VENERDI 8 APRILE Chiesa di Sant’Antonio, Nardò ore 20

SABATO 9 APRILE Teatro Comunale, Leverano ore 20

DOMENICA 10 APRILE Chiesa San Michele Arcangelo, Trepuzzi ore 20

 

Eventi organizzati da Nauna Cantieri Musicali in collaborazione con gli Assessorati alla Cultura del Comune di Nardò e Leverano e Don Emanuel Riezzo della parrocchia di San Michele Arcangelo di Trepuzzi

 

L’ idea di uno spettacolo sulla passione è sorta cantando, praticando i canti di tradizione orale. Risulta subito evidente che la poesia popolare raggiunge una delle sue più alte espressioni proprio nelle vicende che narrano la vita e la morte di Cristo. Teatro, canto, poesia mai come in questa vicenda si incarnano una nell’altra. “Canto di Passione” è la visione portata dalle cantrici e dai cantori tradizionali sugli ultimi momenti della vita di Gesù. Un racconto che si srotola tra le parole e le incantazioni, lungo un percorso in cui i testi si rincorrono e si sorpassano in un dinamismo che è a un passo dal silenzio. Lo incontra e subito lo perde.

Nei testi dei canti è possibile guardare, attraverso il proprio sgomento, lo sgomento di Gesù uomo, individuato nell’urlo sulla croce di fronte alla morte. Solo di fronte alla morte. Solo nella sua condizione umana e carnale con la propria responsabilità e tragica consapevolezza.
I canti viventi vengono dal Salento, dalla Puglia, dalla Sicilia, dal Lazio dalla Toscana e dalla Corsica.

“Canto di Passione” è un omaggio alle tante contadine, contadini o semplicemente donne uomini che fino a oggi hanno ricordato, trasmesso, custodito, espresso, urlato, pianto e riso il cantare.

 

 

FORMAZIONE

Enza Pagliara: voce, tamburo

Dario Muci: voce, chitarra

Antongiulio Galeandro: fisarmonica

 

ACCESSO AL CONCERTO
L’accesso avverrà nel rispetto assoluto delle norme anti covid (aggiornate al 1aprile)
Ingresso gratuito fino ad esaurimento posti. Apertura porte ore 20.00

 

Contatti:

naunacm@gmail.com

3298483493

 

Sito:

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Social:

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“Nauna Cantieri Musicali” è una etichetta indipendente che rievoca l’antica denominazione dell’attuale Santa Maria al Bagno, la bellissima località sullo Ionio, in provincia di Lecce; è nata all’interno dell’omonima associazione culturale con il fine di pubblicare sia documenti etnomusicali e vocali raccolti nell’area salentina, sia opere di riproposta, più complesse, che coniugano la meticolosa cura dei repertori con un progetto artistico originale. Le anime e le voci di questo programma sono Dario Muci ed Enza Pagliara, ricercatori e musicisti ampiamente noti nel panorama della musica popolare, decisi a cercare una nuova direzione in cui orientare il frutto delle indagini sul campo e delle esperienze maturate nella loro attività.

 

Nauna produce nel 2018 “Marea” di Enza Pagliara e Dario Muci, e “Canti narrativi a Nardò” delle Sorelle Gaballo. Nel 2020 pubblica “Suddissimo – Omaggio a M. Salvatore e A. Doriani” e realizza una ricerca sul campo a Otranto, dando vita al Coro Popolare di Terra d’Otranto. Nel 2021 è impegnata alla realizzazione del disco “A te sarò per sempre” di Miro Durante e Pubblica sulle piattaforme digitali i primi due volumi dedicati alla Barberia, la musica delle sale da barba nel Salento. Coo-produce con ZeroNoveNove lo spettacolo in streaming di Enza Pagliara dal titolo Simpatichina e con Moscara Associati e Nostos Produzioni progettano un “viaggio, un documentario e un libro fotografico” dal titolo Sulla via Francigena il cammino degli Asini Dotti.

 

Penisola salentina romana

di Nazareno Valente

Ogni moneta ha facce antitetiche, ciascuna tuttavia legata in maniera inscindibile all’altra ed utile nell’insieme a caratterizzarne il valore. Così anche la rete, tanto ricca di notizie da saper informare su qualsiasi questione si voglia, è duplice e contrapposta, avendo anch’essa il rovescio di questa sua medaglia. Per una naturale questione di copyright, sul web girano infatti per lo più testi ed articoli datati che presentano una preziosa visione di come si siano evolute le conoscenze di uno specifico settore ma che rischiano, se letti senza considerare che moltissima acqua è passata sotto i ponti, di prendere per buoni concetti ed ipotesi ormai vecchi e superati. E ciò risulta particolarmente vero per le antichità, dove i lavori recenti e specialistici consultabili in rete sono quasi del tutto assenti ed abbondano, invece, quelli dei secoli scorsi che, se assorbiti senza spirito critico, rischiano di far aderire a teorie a cui gli studiosi non credono più da tempo.

 

Le teorie obsolete rivitalizzate da Wikipedia

Un significativo riscontro di come si possa essere portatori di posizioni ormai demodé, si ha leggendo alcune schede sull’antichità di Wikipedia nelle quali, ad esempio, è riportato che il Salento faceva parte della Magna Grecia, come si riteneva un paio, ed anche più, di secoli fa, oppure non ci si è neppure aggiornati sul fatto che a Brindisi, conquistata dai Romani,  fu dedotta una colonia latina.

Questo modo antiquato di valutare le cose, si aggiunge a certe inveterate abitudini culturali che fanno fatica a non avere una visione del mondo se non alla talebana. Ovverosia a vederlo o tutto bianco o tutto nero, senza la neppure più lontana parvenza di sfumature di grigio, oppure ripartito tra cattivi, sino all’ultima nascosta piuma, e buoni, in maniera tale da fare persino concorrenza ai santi. Non per niente, qualsiasi cosa facessero i Romani e, soprattutto, i Greci era considerata giusta e sacrosanta; ed ogni loro pur impalpabile vezzo rientrava nel disegno più generale tracciato dall’inviolabile progresso. Sicché, per indicare chi o ciò che era diverso dall’essere greco, s’adoperavano termini negativi, ed ancora adesso si parla di lingue anelleniche, di ambiti anellenici, di popolazioni anelleniche, dove quindi quel che è indigeno è caratterizzato dal fatto di non essere greco.

Sarà per questo spontaneo innamoramento per i popoli alla moda che molti preferirebbero tuttora essere gli epigoni dell’ultimo dei Mohicani, e quindi posizionarsi tra i collaborazionisti — in pratica sentirsi dire che il Salento era Greco trovandosi in Magna Grecia — piuttosto che gli eredi del cattivo Magua il quale, invece, lottò per salvaguardare le proprie radici, come agli effetti pratici fecero i nostri antichi concittadini brindisini ed i Salentini tutti che si opposero con parziale e sostanziale successo alla colonizzazione greca, difendendo la propria identità culturale. Quello stesso successo che, invece, non arrise quando toccò ai Romani di venire a pretendere le nostre terre.

Allo stesso modo, internet e certa parte della cronachistica delle nostre parti trasudano amore per la colonizzazione greca e, di conseguenza, per l’arrivo dell’aquila romana, sicché, se qualcuno volesse informarsi ad esempio sulla cittadinanza romana, scoprirebbe che essa è quasi sempre qualificata per “prestigiosa” o con altra espressione enfatica che rinvia immancabilmente agli stereotipi imposti dal periodo fascista, dove la romanità faceva tendenza. Tanto per ricollegarsi alle teorie, valide nei secoli scorsi, che la rete fa recuperare e, complice la nostra passività nell’analisi, fa credere ancora attuali e degne d’un qualche credito.

 

Non sempre la cittadinanza romana fu ritenuta “prestigiosa”

Se invece di dipendere solo da Wikipedia, si volesse talvolta dare un’occhiatina pure alle opere degli autori antichi, magari qualche dubbio sul prestigio incondizionato posseduto in antichità dalla cittadinanza romana potrebbe sorgere. Ad esempio Livio che, pur essendo un grande estimatore del mondo latino, riferisce un episodio alquanto curioso accaduto nel corso della seconda guerra punica (218-202 a.C.). Annibale sta prendendo il sopravvento, sobillando le città Italiche,  e Roma è in grossa difficoltà, quando  all’assedio di Casilinum (216 a.C.) i Prenestini si rendono protagonisti d’un valoroso gesto di fedeltà alla causa romana, arrendendosi ai Cartaginesi solo dopo aver combattuto sino allo stremo delle forze. Il senato romano per ricompensarli decreta doppio stipendio («Praenestinis militibus senatus Romanus duplex stipendium… decrevit»1) e offre loro la cittadinanza romano per le virtù dimostrate («civitate cum donarentur ob virtutem»2); i Prenestini accettano il denaro, rifiutando però compatti l’altra gratificazione: alla cittadinanza romana preferiscono la propria che, infatti, non ci pensano nemmeno di modificare («non mutaverunt»3). Ed i Prenestini non furono certo gli unici a mostrare poco interesse per un simile dono, tant’è che, a detta di Diodoro Siculo, un Cretese fece anche di peggio. Non solo respinse l’offerta fattagli della cittadinanza romana ma, per sovrappiù,  la derise dichiarando in maniera perentoria che i Cretesi consideravano la cittadinanza romana una solenne baggianata, cui essi preferivano di gran lunga qualcosa di più utile («Πολιτεία, φησί, παρὰ Κρησὶν εὐφημούμενός ἐστι λῆρος. τοξεύομεν γὰρ ἡμεῖς ἐπὶ τὸ κέρδος»4).

Va a questo punto ricordato che i Cretesi erano famosi per la dubbia moralità e per l’attaccamento al soldo, come per altro non si può negare che l’essere Romani comportasse indubbi benefici che rendevano una simile condizione giuridica a volte appetibile. Ma non sempre. E certo non era proprio così, quando l’Urbe intraprese la sua politica espansionistica.

 

Come Roma strutturava le comunità vinte

Inizialmente Roma era solita incorporare i territori dei popoli vinti qualificandoli giuridicamente come ager pubblicus (agro pubblico), vale a dire come suolo appartenente allo Stato da destinare a vari scopi ma che non poteva divenire di proprietà privata, salvo espressa disposizione legislativa. Successivamente adoperò strumenti giuridici che non obbedivano a schemi rigidi ma valutati, caso per caso, in maniera pragmatica secondo gli interessi del momento.

Riguardo al territorio italico che si andava acquisendo, si seguirono fondamentalmente tre vie: l’incorporamento nello Stato romano, dopo aver privato le comunità preesistenti dell’autonomia politica (municipia); l’insediamento di comunità cittadine con la fondazione di una nuova città (coloniae); la stipula di accordi (foedera) che rendevano le comunità preesistenti alleate dell’Urbe entrando esse a far parte d’una specie di stato federativo.

Quest’ultimo era il sistema maggiormente impiegato nel periodo in cui la Calabria — così i nostri antichi corregionali chiamavano la terra da noi denominata  Salento — fu conquistata (266 a.C.) e che fu appunto adoperato per tutte le città salentine le quali infatti stipularono con Roma un accordo (foedus). L’unica eccezione riguardò Brindisi per la quale fu scelta la deduzione di una colonia di diritto latino.

 

Ciascuno dei sistemi indicati aveva vantaggi e svantaggi, inoltre, all’interno dello schema generale, ogni comunità poteva vedersi accordati minori o maggiori benefici. Tutto dipendeva da come si era comportato il popolo conquistato nei confronti dei Romani. In linea di principio, più ci si era opposti alla conquista e maggiori erano gli oneri imposti alla comunità; viceversa chi aveva accettato senza reagire il potere romano, riusciva a spuntare condizioni migliori.

Così, ad esempio, se organizzati in municipia, che dava luogo alla perdita dell’autonomia ma alla concessione della cittadinanza romana, nel primo caso questa la si otteneva svuotata degli effetti politici in quanto senza titolo a votare e ad aspirare alle cariche pubbliche (sine suffragio et iure honorem); nel secondo la si conseguiva a pieno titolo, al pari di un qualsiasi abitante dell’Urbe (cives optimo iure). E certamente la prima, quindi quella priva dei diritti politici, sarebbe stata la formula adottata nei confronti dei nostri antichi corregionali, qualora fossero stati inquadrati nei municipia, per il semplice fatto che non si erano sottomessi senza combattere. D’altra parte anche se avessero ottenuto la cittadinanza a pieno titolo, avrebbero avuto grande difficoltà ad esercitare i diritti politici, visto che si votava a Roma ed un viaggio di andata e ritorno richiedeva quasi un mese per essere completato, e che sarebbero dovuti comunque andare a Roma in occasione dei censimenti predisposti con scadenza quinquennale. Per cui essere organizzati in municipia5, con una cittadinanza limitata in ogni caso nei suoi principali contenuti, avrebbe voluto dire farsi carico dei soli svantaggi derivanti da una simile organizzazione. In pratica, a nessun nostro corregionale sarebbe venuto in mente di diventare allora cittadino romano, per il semplice motivo che un tale stato giuridico avrebbe comportato solo oneri e scarsi benefici pratici. In conclusione il foedus era con ogni probabilità una soluzione di gran lunga migliore.

Ma, come già detto, c’erano diversi tipi di foedera. Gli storici dell’antichità, in genere di parte romana,  qualificano unicamente quelli vantaggiosi con i termini di aequa, come l’accordo stipulato con Napoli; aequissima, quello riguardante Camerino e, aequissimum et prope singulari, cioè a dire particolarmente favorevole di cui aveva fruito Eraclea. Tuttavia, nella loro stragrande maggioranza, tali accordi non erano poi tanto “equi” e salvaguardavano prevalentemente gli interessi romani. Per quanto le fonti narrative non li caratterizzano, ci hanno pensato gli studiosi a parlare di  foedera iniqua, con cui per lo più Roma imponeva un limite alla sovranità delle città conquistate i cui cittadini divenivano così alleati (socii o foederati) dell’Urbe, in condizione però subordinata.

Il foedus nondimeno consentiva alle comunità di conservare la propria cittadinanza, le proprie leggi ed i propri ordinamenti, oltre ad una estesa autonomia di carattere amministrativo-finanziario, essendo loro lasciata l’autorità di battere moneta. Rinunciavano però — e questa era la parte iniqua — a svolgere una propria politica estera (ius belli ac pacis) rimettendosi così del tutto alle decisioni prese in merito dai Romani (servare maiestatem populi Romani). In pratica si acquisivano gli amici dell’Urbe, insieme ai loro nemici e non se ne potevano avere di propri. Nel caso dell’insorgere d’un conflitto, che solo Roma poteva avviare, c’era poi l’obbligo di fornire un contingente di truppe prefissato che operava, in posizione subalterna, nei reparti ausiliari dell’esercito romano.

Erano questi gli accordi più usuali che s’imponevano ai socii, e a queste clausole si conformarono, con le inevitabili varianti del caso quelli firmati dalle città salentine6.

Come già ricordato, l’unica che non si federò con Roma fu Brindisi, dove fu dedotta una colonia di diritto latino. Ed era questa la formula giuridica probabilmente più vantaggiosa a quell’epoca. La città ottenne questa posizione di privilegio, grazie al suo porto ed alla sua collocazione strategica, ma pure per questioni che non è qui il caso d’indagare.

Le colonie, la cui funzione prevalente era di carattere militare, ma pure un modo per diffondere la romanità, erano di due tipi: quelle romane (coloniae civium romanorum), dove chi partecipava conservava la cittadinanza romana, e quelle di diritto latino (coloniae latinae), dove i Romani che vi partecipavano dovevano espressamente richiedere di diventare Latini e registrarvi il proprio nome («qui cives Romani in colonias Latinas proficiscebantur fieri non poterant Latini, nisi erant auctores facti nomenque dederant»7), perdendo così la cittadinanza romana.

Le colonie romane erano dedotte con lo scopo principale di creare dei presidi sulle coste prossime al territorio romano; quelle latine per controllare i punti di maggiore rilevanza strategica in zone da poco conquistate e magari ancora non del tutto pacificate. Le diversità si riflettevano nei rispettivi assetti: i coloni romani, facendo parte d’un presidio cittadino, non potevano allontanarsi dalla colonia, se non per periodi limitati, non erano soggetti alla leva, non potevano emettere moneta ed avevano un’organizzazione istituzionale che si rifaceva a quella dell’Urbe; i coloni latini avevano, al pari dei socii Italici, l’obbligo di fornire un contingente militare quando Roma lo richiedeva, secondo l’elenco dei togati (formula togatorum8, vale a dire degli uomini in età per compiere il servizio militare) e di non stipulare accordi con altre città. Le colonie latine avevano, però, la particolarità di beneficiare di un’ampia autonomia interna che consentiva loro anche l’attività giurisdizionale, oltre all’adozione  d’un proprio statuto, di propri organi ed alla possibilità di battere moneta. Il diritto latino consentiva inoltre di contrarre iustae nuptiae con i cittadini romani (ius connubii, il che garantiva alla prole la fruizione dei diritti civili) e di commerciare con essi (ius commercii, per cui erano titolati a ricorrere al pretore, per tutelare i propri atti negoziali); probabilmente di acquisire la cittadinanza romana previo trasferimento a Roma (ius migrandi) ma con l’obbligo di lasciare nella città d’origine un figlio per non depauperare la colonia; di votare, se ci si trovava in quel momento a Roma, con la tribù che veniva di volta in volta sorteggiata («sitellaque lata est ut sortirentur ubi Latini suffragium ferrent»9). Non consentiva invece, almeno in quel periodo, lo ius honorum, vale a dire la possibilità di concorrere per le magistrature romane. Al pari delle città federate, anche le colonie non potevano svolgere atti di politica estera e avevano l’obbligo di  assistere Roma in qualsiasi attività militare questa intendesse avviare, fornendo, come già riportato, il contingente di truppe richiesto.

Con tutti gli indubbi problemi iniziali che la deduzione a colonia latina comportava sia per i Romani, costretti a rinunciare alla cittadinanza romana in quanto si acquisiva quella latina, sia per i locali, a causa della preliminare ristrutturazione della città che comportava una ridefinizione delle proprietà, essa rappresentava in ogni caso la soluzioni con le migliori prospettive future. Prospettive che Brindisi sfruttò appieno divenendo, proprio grazie alla configurazione giuridica allora adottata, dapprima uno dei più importanti centri della Repubblica romana e poi una delle maggiori metropoli nel periodo imperiale.

Sarà in aggiunta che i Romani non si fidavano troppo dei Tarantini ma il porto di Brindisi soppiantò del tutto quello di Taranto nelle funzioni militari e commerciali, divenendo di fatto il tramite privilegiato per l’Oriente. Taranto seppe però conservare la reputazione di città culturale e divenne un centro residenziale ambito dalle classi intellettuali agiate che vi costruirono case e ville signorili.

In definitiva a Brindisi andò di lusso e non andò male neppure alle altre città salentine: in fondo Roma si atteggiava come il buon pastore che tosa le sue pecore con riguardo, sapendo che, se le scorticasse, sarebbe il primo a perderci. Per questo motivo, ove possibile, i Romani sceglievano il tipo di organizzazione più congeniale agli interessi propri ma anche a quelli della comunità assoggettata.

 

A lungo andare gli alleati divennero sempre più dei sudditi

Questa organizzazione rispettosa delle comunità conquistate andò comunque di lì a poco in crisi e, di conseguenza, le cose incominciarono a cambiare in peggio, soprattutto a causa di una circostanza del tutto straordinaria che si concretizzò una cinquantina di anni dopo, quando Annibale invase l’Italia nell’autunno del 218 a.C.

L’arrivo e gli iniziali successi del Cartaginese riaccesero le aspirazioni di indipendenza di quasi tutte le ex colonie greche e di molti popoli italici i quali, convinti che i Romani stessero ormai per soccombere, defezionarono schierandosi con i Punici. Tra i defezionisti Livio elenca i Campani, gli Atellani, i Calatini, gli Irpini, parte degli Apuli, tutti i Sanniti tranne i Pentri, i Bruzii, i Lucani e, oltre a questi, gli Uzentini e pressoché tutti i Greci della costa, tra i quali i Tarantini («Defecere autem ad Poenos hi populi: Atellani, Calatini, Hirpini, Apulorum pars, Samnites praeter Pentros, Bruttii omnes, Lucani, praeter hos Uzentini, et Graecorum omnis ferme ora, Tarentini…»10). La ribellione di Ugento è però molto incerta, essendo la sua inclusione nella lista dei rivoltosi quasi certamente dovuta ad un errore da parte d’un amanuense che ha sostituito gli Uzentini ai molto più probabili Surrentini, i quali, non a caso, sono indicati in altri manoscritti. Comunque sia, subito dopo, a Taranto s’accodarono altri centri salentini che, però, Livio non specifica indicandoli con disprezzo città insignificanti («Sallentinorum ignobiles urbes»11), senza lasciar capire se il tono usato fosse per minimizzare l’accaduto oppure per rimarcare il loro infedele comportamento.

È invece certo che Brindisi rimase fedele a Roma e si oppose con forza ad Annibale, tanto da essere espressamente citata tra le diciotto colonie il cui aiuto consentì di far restare saldo il dominio romano e che, per questo, ricevettero il plauso ed i ringraziamenti in Senato e presso il popolo («Harum coloniarum subsidio tum imperium populi Romani stetit, iisque gratiae in senatu et apud populum actae»12).

Altra cosa certa è che l’Urbe, passata la buriana, e ripreso il controllo della situazione, si vendicò del torto subito e usò la mano pesante nei riguardi degli alleati che avevano violato i patti, imponendo clausole ancor più restrittive nei foedera stipulati. In particolare Taranto, pur riuscendo ancora una volta a limitare i danni, si vide costretta a cedere parte del suo territorio. Qui, a nord della città, in una zona strategica dell’antica periferia greca che dava diretto accesso al porto del Mar Piccolo, Roma fondò nel 123 a.C., con plebiscito proposto da Caio Gracco, Neptunia, una colonia di diritto romano con l’intento di attuare un controllo più diffuso sulla cittadina ionica.

Allo stesso tempo il possesso della cittadinanza romana incominciò a far maturare benefici economici e fiscali ai suoi possessori, discriminando sempre più gli alleati. E tale disparità di trattamento risaltava con grande evidenza in un’attività, come quella bellica, in cui i Romani e gli alleati operavano fianco a fianco. Pur partecipando attivamente alle azioni militari ed a tutti gli altri obblighi, gli alleati non godevano degli stessi vantaggi goduti dai commilitoni romani, proprio perché non fruivano della medesima cittadinanza. La disuguaglianza s’era andata accentuando già dal 167 a.C. quando, grazie al bottino ottenuto con la terza guerra macedonica, il tributum per mantenere l’esercito non fu più richiesto13 e, pertanto, i cittadini romani iniziarono a godere dell’immunità finanziaria14 mentre i socii e le colonie di diritto latino continuarono a dover sostenere le spese per l’arruolamento delle truppe che fornivano a Roma.

E le sperequazioni non erano solo di carattere monetario riguardando anche altri aspetti. Gli alleati erano ad esempio confinati nei reparti ausiliari, assoggettati a norme capestro, correndo anche il rischio d’essere condannati a morte dal console romano per un qualsiasi atto di insubordinazione, mentre, in analoghe situazioni, il legionario non poteva essere neppure sfiorato dalla frusta. Eppure il loro apporto andava aumentando: alla meta del II secolo a.C. i loro contingenti, uniti alle truppe fornite dalle colonie latine, erano in quantità pari a quello delle legioni romane; verso la fine dello stesso secolo erano addirittura corrispondenti al doppio. Ciononostante, sebbene il peso delle azioni belliche fosse sempre più addossato sugli alleati, questi si vedevano preclusa ogni possibilità di fare carriera nei ranghi dell’esercito romano e di avere al termine della ferma l’assegnazione di terre, come qualsiasi altro veterano romano.

La situazione s’inasprì ulteriormente con l’avvio, alla fine del II secolo a.C., della riforma dell’esercito che aveva come punto qualificante quello di far accedere alla carriera militare i capite censi (i nullatenenti). Una vera e propria rivoluzione in quanto, per la prima volta, le classi più umili si vedevano aperta la via all’arruolamento nell’esercito romano e, quindi, alla possibilità di partecipare al soldo ed ai vitalizi militari. Era questa un’opportunità unica di avanzamento sociale ed economico che, sino ad allora, era stata di esclusivo appannaggio della media borghesia. Tuttavia ne poterono beneficiare solo i cittadini romani, mentre gli Italici si videro preclusa anche questa occasione di sviluppo.

Di fatto, più passava il tempo e più gli alleati italici venivano trattati da sudditi, e questo alla lunga esacerbò gli animi creando una situazione esplosiva.

 

La guerra sociale

A dare fuoco alla miccia, fu un ulteriore episodio compiuto a danno degli alleati: Druso, il tribuno della plebe che aveva proposto di estendere la cittadinanza romana a tutta l’Italia15ad dandam civitatem Italiae»16), venne trovato ucciso il giorno stesso in cui il provvedimento doveva essere votato, proprio per impedire che l’iter legislativo giungesse a compimento. In precedenza anche il console M. Fulvio Flacco (125 a.C.) e poco dopo Gaio Sempronio Gracco avevano proposto invano l’estensione della cittadinanza romana alle città italiche federate ed alle colonie latine. Ma pure in quelle circostanze l’oligarchia romana s’era messa di traverso ostentando le maniere forti.

A questo punto molte delle città federate si resero conto di non avere altra scelta se non quella di prendere le armi e di muovere guerra a Roma.

In pratica, la cittadinanza romana, inizialmente con poche attrattive e quasi vissuta dagli Italici come un limite alla propria autonomia, divenne talmente ambita da spingere all’uso dei mezzi più estremi pur di ottenerla. Iniziò così nel 91 a.C. la sanguinosa rivolta, passata alla storia con il nome di “guerra sociale” perché, ad esservi coinvolti furono principalmente gli italici federati con Roma, i cosiddetti socii di Roma. I municipi che godevano già della cittadinanza romana — e che tra l’altro non avevano un proprio esercito — non avevano infatti  nessun interesse a prendervi parte. E allo stesso modo le colonie latine, con l’eccezione di Venusia, non aderirono alla rivolta e preferirono stare dalla parte dell’Urbe, il che testimonia che il regime giuridico fruito andava loro più che bene. Anche perché — va ricordato — i notabili delle colonie latine erano già stati per certi versi accontentati con la concessione dello ius adipiscendae civitatis Romanae per magistratum che consentiva di acquisire la cittadinanza romana a chi aveva ricoperto una magistratura locale17 e che, quindi, accordava loro questo beneficio per altra via.

Brindisi si schierò pertanto con Roma, e questo fu forse uno dei motivi che consiglio le altre  comunità salentine a fare altrettanto. Fa parte infatti delle fantasie «l’ultima grande ribellione guidata da Taranto nell’80 a.C.»18 di cui ci dà menzione Wikipedia in una delle sue schede più creative. Neppure Taranto osò infatti ribellarsi. Né poteva essere diversamente, considerato che di fatto aveva in casa un presidio romano, la già citata colonia romana Neptunia, pronto ad intervenire senza tante sottigliezze al minimo accenno di sollevazione.

La guerra sociale fu la prima occasione in cui trovò spazio il concetto di “Italia”, sia pur solamente inteso come comunità dei suoi abitanti. Infatti i rivoltosi, sebbene di etnie diverse, si autoidentificarono in questo nome e adottarono come proprio simbolo la figura del vitello/toro associato al nome dell’Italia. E questo emblema fu vissuto in funzione antiromana, come emerge con chiarezza nelle loro emissioni monetali in cui il toro assale e sconfigge la lupa, raffigurazione di Roma.

 

Dopo un anno in cui i risultati sul campo erano stati poco più che mediocri, mentre i dissapori interni, tra chi era favorevole a fare delle concessioni ai rivoltosi e chi considerava tale posizione un modo come un altro per sobillare ancor più gli Italici, aumentavano, comportando una pericolosa instabilità poi sfociata nella guerra civile, i Romani decisero che era meglio venire a più miti consigli. Approvarono pertanto la lex Iulia de civitate latinis (et sociis) danda (90 a.C.) con cui si concedeva la cittadinanza romana, non solo ai Latini ed agli alleati che non avevano preso le armi, ma anche a chi le avesse deposte entro un prefissato termine di tempo.

Questo dissuase le popolazioni incerte dall’entrare in lotta e creò dissensi tra gli stessi insorti.

Usando al tempo stesso carota (altri provvedimenti simili alla lex Iulia) e bastone (la spietata determinazione di Silla) si venne a capo della situazione e, di lì a breve, si riuscì a domare la sollevazione e tutte le popolazioni dell’Italia a sud della regione gallica cisalpina finirono per acquisire la cittadinanza romana.

Brindisi e le altre collettività salentine, che s’erano mantenute fedeli a Roma,  si videro pertanto assegnare la cittadinanza romana già nel 90 a. C. Questo avvenne certo a livello formale, mentre l’effettivo conferimento ebbe luogo solo qualche anno dopo (probabilmente nell’83 a.C.) in quanto, anche ai tempi dei romani, non si era del tutto liberi dalle pratiche burocratiche. Occorreva infatti censire i nuovi cittadini e ascriverli alle tribù esistenti, e questo portava via tempo.

Oltre ad integrare i nuovi cittadini nel corpo civile romano, la concessione della cittadinanza comportava anche il dover riorganizzare le città federate e le colonie latine in municipi, in quanto divenivano territorio romano. Bisognava quindi stabilire quali comunità avevano titolo ad essere elevate al rango municipale e quali a farvi parte in ruolo subordinato. Aspetto questo non certo banale — di cui si parlerà nel prosieguo soffermandosi sulle decisioni prese per le città salentine — perché i nuovi municipi avrebbero fruito di fondi per meglio garantire la loro urbanizzazione quando le altre località rischiavano, come di fatto per lo più avvenne, di essere confinate a restare zone tipicamente rurali. In questa trasformazione, c’era infine da decidere la caratterizzazione istituzionale dei nuovi municipi: magistrature, senati, assemblee cittadine e ripartizione delle relative competenze.

Proprio nell’espletamento di questi adempimenti di così varia natura, l’Urbe cercò di annacquare in una qual certa misura le concessioni fatte e di trarre comunque vantaggio da questa nuova situazione.

 

Eppure non tutti furono contenti di diventare romani

Tutti aspetti importanti, quelli appena enunciati, che per il momento però si tralasceranno per soffermarsi su una avvenimento, per certi versi curioso, a cui in genere non si dà peso e che invece merita d’essere riportato, non fosse altro per avere un quadro più realistico delle diverse posizioni assunte in merito dalle comunità coinvolte.

Come visto, la cittadinanza romana fu accordata a tutti: sia a chi aveva combattuto per ottenerla, sia a chi non l’aveva di fatto neppure richiesta. Questa circostanza viene sempre valutata nel senso che Roma, dopo aver concesso questo alto privilegio a chi aveva avviato la rivolta, non poteva non riconoscerlo anche a chi s’era mantenuto fedele, dando così per scontato che tutte le comunità avessero preferito questo nuovo stato giuridico a quello precedentemente goduto.

In effetti così non fu: alcune città, che non avevano partecipato alla rivolta, avrebbero preferito piuttosto continuare a mantenersi autonome che divenire cittadini romani inquadrati in un municipium. Naturalmente di questo coro dissenziente fecero parte le cittadine che fruivano di foedera o di statuti particolarmente vantaggiosi, tra le quali non è detto che non fosse pure compresa Brindisi.

Spulciando bene le fonti narrative antiche, si scopre infatti che le lamentele ci furono, ed anche accese. Ce ne parla Cicerone facendoci sapere che a riguardo ci fu ampia disputa a Eraclea e a Napoli, perché la gran parte della popolazione preferiva alla cittadinanza romana la libertà garantita dal trattato in precedenza stipulato («In quo magna contentio Heracliensium et Neapolitanorum fuit, cum magna pars in iis civitatibus foederis sui libertatem civitati anteferret»19). Come questa maggioranza sia poi diventata minoranza, visto che alla fine le due città si adeguarono, non è dato di sapere, sebbene sia facile immaginare che Roma abbia attuato qualche fattiva opera di convincimento, soprattutto tra le classi più umili, poco sensibili ai benefici politici concessi dall’autonomia e molto più convinti da quelli pratici conseguibili con la cittadinanza romana. D’altra parte, Cicerone ci parla incidentalmente della questione delle due città, proprio perché rappresentavano i casi più eclatanti, il che fa ragionevolmente presupporre che non furono quelle le sole comunità che espressero dissenso. E, come già riportato, magari anche Brindisi fu tra queste. Le fonti offrono appunto qualche spunto che indurrebbero a credere che la città si conformò alla soluzione imposta da Roma, ma probabilmente non tanto di buon grado.

Primo indizio. In un famoso passo, Cicerone ci racconta che nel 57 a.C., cioè a dire a distanza di quasi trent’anni dalla costituzione del municipium, i Brindisini festeggiavano ancora con grande calore il giorno natale della colonia latina20. Un evidente segno questo di grande nostalgia per il passato coloniale.

Altro indizio. Silla — che non era molto ben disponibile a concedere la cittadinanza romana alle città federate ed alle colonie latine — è nell’ 83 a.C. di ritorno dall’Oriente. Si vocifera che voglia rimettere in discussione i diritti politici già concessi dalla lex Iulia, per cui molte comunità non vogliono aprirgli le porte oppure lo accolgono a muso duro. Eppure sbarca a Brindisi in tutta tranquillità. E non solo, riceve un’accoglienza talmente entusiasta  che, in cambio, si sente in obbligo di gratificare la città dall’esenzione delle tasse («Δεξαμένων δ’ αὐτὸν ἀμαχεὶ τῶν Βρεντεσίων, τοῖσδε μὲν ὕστερον ἔδωκεν ἀτέλειανviene»21).

Un atteggiamento in apparenza strano in chi, aspirando alla cittadinanza, avrebbe dovuto parteggiare per la fazione opposto o, quantomeno, mostrare meno entusiasmo per Silla, ma che rientra nella normalità delle cose, se si pensa che la classe dirigente brindisina aveva tutto da perdere e nulla da guadagnare dal cambiamento istituzionale. I magistrati locali avevano già ottenuto la cittadinanza romana in forza dello ius adipiscendae civitatis per magistratum e le novità toglievano loro buona parte del potere organizzativo, oltre a vedersi sottratta la possibilità — questione questa non certo di poco conto — di battere moneta, in quanto competenza preclusa ad un municipium.

Ultimo indizio. Ci si è sempre chiesti come mai i Brindisini, che pure erano sempre stati fedeli alleati dell’Urbe, furono gli unici tra i salentini ad essere iscritti nella tribù Maecia, che era allora un modo evidente per isolarli, quasi avessero commesso una qualche colpa. Quale fosse la loro mancanza lo si può forse ricavare dal fatto che nella stessa tribù fu inserita Napoli, vale a dire proprio una delle città che più s’erano opposte ad accettare lo statuto municipale. Il che fa sospettare che pure Brindisi avesse manifestato, più o meno vivacemente, le medesime perplessità, e che, per questo, fosse stata anch’essa in un qual certo modo punita.

Comunque siano andate le cose, c’è motivo per ritenere che un qualche rimpianto per il passato ebbe forse modo di  palesarsi e, al tempo stesso, non fu certo facile per i Brindisini metabolizzare la perdita dell’autonomia che, per quanto formale, rappresentava tuttavia un tratto distintivo della vita cittadina.

In ogni caso, certo è che in quel lontano 83 a.C. la gloriosa colonia di diritto latino di Brindisi chiuse per sempre i battenti.

E, qualunque cosa ne possano pensare gli estimatori della “pregevole” cittadinanza romana, non fu certo un giorno da segnare, come avrebbe detto Catullo, con una piccola pietra più bianca delle altre.

 

I passaggi burocratici per divenire municipium

Come anticipato, Brindisi, Taranto e le altre comunità della Calabria divennero in linea teorica territorio romano nel 90 a. C., tuttavia per la concreta fruizione della cittadinanza romana la lex Iulia prevedeva, oltre alla clausola di non essere in guerra con Roma, quella del fundus fieri. Questa formula, per quanto letteralmente indecifrabile, considerato che la sua traduzione letterale, “farsi fondo”, risulta del tutto incomprensibile, non pone dubbi interpretativi sul perché fosse stata inserita nella norma. Roma si vedeva costretta a concedere ai rivoltosi la cittadinanza romana e, naturalmente, era forzata a farlo anche con le altre città che le erano rimaste fedeli. Tuttavia, da un punto di vista formale, le autorità romane non volevano che fosse considerata come un obbligo cui loro sottostavano, quanto piuttosto una graziosa elargizione da loro fatta alle comunità italiche. In aggiunta, da  un punto di vista sostanziale, tale concessione non poteva essere fatta lasciando in vita i precedenti statuti in quanto, in taluni casi, essi consentivano un’autonomia che rischiava di confliggere con il nuovo tipo di rapporto che si stava venendo ad instaurare. Era evidente che la cittadinanza poteva essere concessa solo se le comunità avessero recepito, preliminarmente ed in toto, il diritto romano rinunciando così al diritto locale. In definitiva, in cambio della cittadinanza, le comunità dovevano preliminarmente aderire alla totalità delle norme municipali e, più in generale, a quelle del diritto romano («iura populi romani»), rinunciando così alla formale autonomia che i trattati precedenti avevano conferito loro. Ed è proprio in tale fase che certamente Napoli ed Eraclea — e forse Brindisi e qualche altra città — tentarono di mantenere i loro antichi privilegi, senza però, come visto, riuscirci.

Dopo l’accettazione del fundus fieri, c’erano poi un paio di passaggi burocratici da superare: il censimento e l’assegnazione ad una delle tribù romane.

Non è dato di sapere quando questi adempimenti siano stati fatti  perché, quasi insieme alla guerra sociale, era scoppiata la guerra civile che vedeva coinvolti Silla da una parte e Mario – e poi Cinna – dall’altra, ed in questo periodo turbolento le fazioni in lotta si alternavano al potere, facendo e disfacendo le cose in così rapida successione da rendere difficile una puntuale datazione dei singoli avvenimenti. C’era infatti un’importante questione da dirimere in via preliminare, vale a dire il peso politico da dare a questi nuovi cittadini. La parte elitaria degli optimates (ottimati, testualmente i migliori) sostenitrice di Silla, non voleva che l’alto numero dei nuovi cittadini facesse prendere loro il sopravvento nelle decisioni politiche; la fazione populares (popolari, in quanto difensori delle istanze del popolo), capeggiata da Mario e Cinna, intendeva invece mettere tutti i cittadini, vecchi e nuovi, sullo stesso piano.

Per comprendere meglio il motivo del contendere, ci si deve soffermare, sia pure semplificando al massimo, sulle sedi e sulle modalità di espressione del potere popolare previste dalla legislazione romana.

I cittadini romani contribuivano alla gestione dello Stato svolgendo funzioni legislative, elettorali e giurisdizionali nelle assemblee (comitia e concilia) le principali delle quali erano, nel periodo trattato, i comitia centuriata (comizi centuriati), i comitia tributa (comizi tributi) ed i concilia plebis (concili della plebe). Nei comizi tributi e nelle assemblee della plebe il popolo era ripartito per tribù, termine questo che non va inteso in senso moderno, come gruppo etnico che costituisce un organismo sociale ben determinato, ma in senso storico che, riguardo alle antichità romane, caratterizzava nello specifico la suddivisione amministrativa e territoriale dello stato romano. Nell’ambito dell’organizzazione amministrativa dell’Urbe, le tribù rappresentavano le circoscrizioni territoriali entro cui venivano ripartiti i cittadini romani per effettuare i censimenti, le leve militari e fissare il relativo tributo22. In seguito, quando con la professionalizzazione dell’esercito le leve non furono più fatte ed il tributo non più richiesto, le tribù finirono per identificarsi con i distretti elettorali per l’esercizio dei diritti politici. Ed era proprio per motivi collegati all’espressione del voto che ogni cittadino romano era allora assegnato ad una tribù.

C’è da aggiungere inoltre che per gli esiti delle votazioni delle assemblee popolari non si teneva conto dei voti espressi dai singoli cittadini ma di quelli espressi dalle tribù, ciascuna considerata nel suo complesso. Infatti le unità votanti non erano i cittadini ma le tribù, sicché si votava per tribù ed il voto della tribù era quello espresso dalla maggioranza dei suoi componenti. In definitiva, dal momento che le tribù previste erano allora 35, bastava che 18 di esse si esprimessero in senso favorevole perché un provvedimento fosse approvato.

Gli Ottimati, in considerazione del numero abbondantemente superiore dei nuovi cittadini rispetto ai veteres cives (vecchi cittadini), temevano che essi avrebbero potuto imporre il proprio volere all’interno delle singole tribù, condizionando a loro favore le votazioni. Per questo, per contenere il loro peso politico li fecero inizialmente distribuire in otto (o, al massimo, dieci23) tribù, per altro soprannumerarie e destinate a votare dopo le altre trentacinque tribù affinché il loro voto risultasse meno influente24. Tale decisione, che creò più d’un malumore, fu però poi modificata dai Popolari che, per garantire uguali diritti a tutti, riuscirono a far approvare che i nuovi cittadini fossero ripartiti in tutte le trentacinque tribù già esistenti. E fu questa la decisione definitiva, adottata presumibilmente non prima dell’83 a.C.

 

I criteri di scelta dei municipia

C’era inoltre un altro problema gestionale di non poco conto da risolvere, vale a dire quali città meritassero d’essere elevare al rango di municipio e quali no. Le comunità da municipalizzare erano infatti diversamente organizzate essendoci, nel vasto territorio degli ex-alleati, insediamenti di differente natura. C’erano zone dove si trovavano stanziamenti aventi già una configurazione da città-stato (ad esempio le aree etrusche e quelle delle ex-colonie greche), in cui la scelta era in pratica obbligata, ed altre (le aree italiche tra le quali quelle della penisola salentina) che avevano rari centri con uno sviluppo urbano equiparabile ad una città e che, pertanto, non potevano per lo più contare su una struttura politico-amministrativa autonoma, tanto da essere considerati delle borgate (vici) o delle semplici compagini rurali (pagi), tra i quali la scelta non era per niente pacifica. Nel primo caso, si trovavano infatti già presenti le strutture fondamentali per ospitare il costituendo municipium; nel secondo, invece occorreva scegliere quali centri dovessero divenire municipio — e, nel contempo, prevedere gli interventi necessari per adattarli alle nuove esigenze — e quali dovessero essere relegati ad un ruolo secondario, inglobati nei costituendi municipi magari come zone rurali che ne avrebbero irrimediabilmente condizionato lo sviluppo futuro. In quest’ultima condizione si trovavano, come già anticipato, le zone italiche e, tra queste, a parte Brindisi e Taranto, le comunità della penisola salentina.

Non esiste documentazione da cui desumere quali siano stati i reali criteri adottati per fare una simile scelta, sebbene si possa  ipotizzare che le località furono valutate in base al livello di urbanizzazione già in atto, all’importanza da tempo acquisita e, come avveniva di solito in queste circostanze, ai comportamenti tenuti in passato nei confronti di Roma.

Non è d’altra parte questo il solo punto oscuro. Restano infatti dibattuti altri aspetti giuridici, tra i quali quello di maggior rilievo riguarda le modalità con cui la riorganizzazione dei territori fu compiuta, in particolare se si cercò di normalizzare i nuovi municipi, imponendo dall’alto un modello statutario, oppure no. In altre parole, se il processo di municipalizzazione avvenne riproducendo, sia pure in scala ridotta, il sistema costituzionale operante nell’Urbe o se avvenne, come accaduto nei periodi precedenti la guerra sociale, lasciando alle singole comunità margini di scelta. Qualunque sia stata la decisione assunta in merito, certo è che, verificando gli effettivi esiti della municipalizzazione, si ha un quadro quasi uniformemente diffuso riguardo alle magistrature di maggior peso e alla composizione dei senati e delle assemblee dei nuovi municipi. Una uniformità che si otterrebbe ben difficilmente per spontanea adesione, e che fa quindi presupporre l’esistenza e la realizzazione d’un piano ben preciso ideato in sede centrale. D’altra parte il fatto stesso della presenza della clausola del fundus fieri, la quale come visto prevedeva la formale accettazione del diritto romano, farebbe propendere per l’adozione di statuti, in un certo qual modo, standardizzati.

Comunque sia andata, vediamo cosa presumibilmente fu deciso per le comunità salentine, cioè a dire quali furono i possibili centri elevati al rango di municipium, le tribù cui essi furono assegnati e quali gli assetti istituzionali assunti.

 

I municipi romani istituiti nella penisola salentina

Nel nord della Calabria, divennero di certo municipi le città di Brindisi, Oria e Taranto, mentre non ottennero tale rango località di pur antica tradizione in quanto decaduti, quali Manduria, Mesagne, Muro Tenente e Valesio. Manduria fece certo parte, insieme a Li Castelli, del municipio di Oria; Mesagne, insieme a Muro Maurizio e Valesio, di quello di Brindisi; dubbia la destinazione di Muro Tenente, che molti ipotizzano aggregata a Brindisi mentre io vedrei piuttosto associata ad Oria. Nel Centro, la scelta cadde su Rudiae e Lecce. Nel Sud, con ogni probabilità, su Nardò, Otranto, Gallipoli, Alezio, Ugento e Vereto.

La ricostruzione da me compiuta si basa sulla consistenza ipotizzabile in base alle ricognizioni archeologiche e all’importanza degli insediamenti desumibile dagli scritti dei geografi e naturalisti dell’antichità, oltre che alla loro collocazione rispetto alla rete viaria del tempo. Se certamente su Brindisi e Taranto non c’è discussione, lo stesso dovrebbe essere per Oria e Rudiae (sia per la consistenza, sia per la posizione), per Nardò e Ugento (in questi casi soprattutto per la consistenza), per Lecce, Alezio e Vereto (in prevalenza per la collocazione). Qualche dubbio ci sarebbe per Gallipoli e Otranto, però posizionate in punti troppo strategici perché i Romani non ne abbiano voluto favorire la crescita prevedendo l’istituzione d’un municipium, magari in un momento immediatamente successivo.

Per quanto riguarda le tribù di assegnazione, è possibile formulare ipotesi certe solo su Brindisi (tribù Maecia), Taranto (Claudia), Rudiae (Fabia), Lecce (Camilia), Gallipoli (Fabia) e Vereto (Fabia). Forse anche Alezio fu aggregata alla tribù Fabia, mentre per Oria, Nardò, Otranto e Ugento non esiste il più lontano indizio di quale possa essere stata la tribù di destinazione. A tali conclusioni portano soprattutto le fonti epigrafiche.

 

Gli organi dei municipia salentini

Passando all’organizzazione statutaria, occorre ricordare che la tradizione repubblicana osteggiava l’uomo solo al comando, sicché l’unico organo monocratico previsto dall’ordinamento romano era il dictator (dittatore), per altro magistratura straordinaria, utilizzata quindi eccezionalmente e per periodi limitati nei soli momenti di grave pericolo. Per il resto la costituzione romana si affidava in maniera esclusiva agli organi collegiali. Per lo stesso motivo i municipi romani non avevano un corrispettivo del nostro sindaco ma un istituto collegiale responsabile della gestione amministrativa della città. Nei municipi salentini il collegio dei massimi magistrati cittadini fu composto da quattro membri (quattuorviri)25, ripartiti in due coppie: i due quattuorviri iure dicundo ed i due quattuorviri aedilicia potestate. La prima coppia aveva un ruolo prioritario, assimilabile a quello svolto a Roma dai consoli.

A questi due magistrati — chiamati per semplicità giusdicenti, perché esercitavano tra le altre funzioni la giurisdizione civile e penale — spettava anche l’eponimia in ambito cittadino, presiedere e convocare il consiglio comunale e le assemblee popolari, sovrintendere alle responsabilità di culto e ad amministrare le finanze comunali. Nell’ambito delle loro prerogative, godevano di un’ampia autonomia organizzativa, però rispondevano personalmente di eventuali problemi di carattere economico e dovevano risarcire il municipio per qualsiasi dissesto finanziario conseguente ad una loro decisioni. Per questo, all’assunzione dell’incarico dovevano versare una cifra consistente, denominata summa honoraria, utile a coprire ammanchi di vario genere. Di conseguenza potevano aspirare ad un simile incarico solo i cittadini particolarmente danarosi.

Anche la seconda coppia, quella dei due quattuorviri aedilicia potestate, doveva essere finanziariamente ben attrezzata. La locuzione aedilicia potestate racchiudeva infatti funzioni riguardanti il mantenimento dell’agibilità delle strade, degli edifici pubblici e dei templi ma pure l’approvvigionamento della città e il garantire una vita pubblica regolata tramite il corpo di polizia urbana. Nello svolgimento di tale incarico non si potevano accampare scuse di bilancio: se una strada era dissestata, bisognava aggiustarla, magari in parte o in toto a proprie spese, e non limitarsi, come avviene ora, a mettere un cartello avvisando di fare attenzione perché la strada è danneggiata.

Dai magistrati si pretendeva la diligentia, vale a dire l’essere scrupolosi nell’adempimento dell’incarico ed un atteggiamento solerte e sincero (sine dolo malo) non fingendo quindi una cosa per poi farne un’altra. Pulizia d’animo che dovevano manifestare sin dal momento in cui proponevano il proprio nome nelle riunioni (contiones) delle assemblee (comitia) popolari, vestiti con una toga sbiancata in modo da essere candida, circostanza questa che diede origine al termine “candidato”.

Da un punto di vista politico, il ruolo dei due quattuorviri iure dicundo era quello più prestigioso e costituiva di fatto l’apice delle cariche magistratuali previste dal cursus honorum (letteralmente, corso degli onori, nel senso di sequenza delle cariche pubbliche) municipale. Ed erano infatti loro a ricoprire, a scadenza quinquennale, il ruolo di quinquennales, cioè a dire di censori, che aveva un valore davvero speciale in antichità, in quanto conferiva il compito di stabilire il “censo” di ciascun cittadino, fissandone così la relativa posizione sociale, ma pure di valutare la loro condotta morale. Una bocciatura da parte dei censori incideva di fatto sul bene allora più tenuto in considerazione, il buon nome, e conduceva inevitabilmente all’emarginazione sociale e politica. La nota censoria, con cui i censori riprendevano un cittadino, era una vera e propria sanzione politica comminata a chi s’era macchiato di comportamenti indegni, che comportava  l’espulsione dal decurionato, dall’ordine equestre e, per il semplice cittadino, dalla tribù.

I quattuorviri duravano in carica un anno ed erano eletti dal populus, composto dai cives  (cittadini di pieno diritto del municipio) e dagli incolae (per lo più forestieri che avevano ottenuto di risiedere nel territorio municipale), ripartiti in distretti politico-amministrativi chiamati curie.

Come gli attuali comuni, anche i municipi salentini prevedevano un organo collegiale di base, assimilabile al nostro consiglio comunale, con funzioni normative, finanziarie e di controllo. A quel tempo un simile ente era denominato ordo decurionum, sicché i consiglieri comunali erano chiamati decuriones o, meno spesso, curiales, perché le loro riunioni avvenivano nelle curie.

Le regole per diventare decuriones erano per certi versi molto più rigide rispetto a quelle attuali per diventare consigliere comunale. L’ufficio era vitalizio e la composizione era decisa dai censori che ogni cinque anni stabilivano, nella cosiddetta lectio senatus (letteralmente, scelta del senato), inserimenti, subentri e decadenze, in base a criteri che tenevano conto del censo, dell’età, della residenza, della onorabilità e della stima goduta dai designabili. Per ambire alla carica di decurione, bisognava infatti godere: dei diritti politici, di un reddito annuale di almeno 100.000 sesterzi (all’incirca 400.000 € attuali) e d’una età non inferiore ai trent’anni. In aggiunta occorreva: essere domiciliati nella città da almeno cinque anni; essersi comportati sempre in maniera inappuntabile e, infine, di non aver mai esercitato mestieri infamanti (in pratica, non aver mai fatto l’attore, il banditore, il tenutario di case di tolleranza, l’impresario di pompe funebri ed il gladiatore). Erano questi i requisiti ritenuti essenziali per accedere e svolgere nel migliore dei modi gli honores, termine con cui venivano appunto caratterizzate le massime magistrature statali, in quanto tali incarichi davano l’onore di adempiere un officium (un obbligo) e non utili monetari o di altra natura. Pertanto, al pari dei quattuorviri, la carica di decurione non comportava l’accredito di assegni mensili o vitalizi ma, al contrario, il dover spesso far fronte di tasca propria a spese di utilità pubblica, fossero esse correnti oppure straordinarie.

Se qualcuno a questo punto avesse modo di chiedere loro chi glielo faceva fare, si sentirebbe rispondere con una semplice parola: existimatio, come dire per la stima ed il credito che tali compiti, svolti nel migliore dei modi, consentivano di ottenere presso i concittadini.

Fare politica ad un certo livello era in definitiva un punto d’onore e, al tempo stesso, motivo di prestigio e di riconoscimento.

 

Note

1 Livio (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Dalla fondazione di Roma, XXIII 20, 2.

2 Ibidem, XXIII 20, 2.

3 Ibidem, XXIII 20, 2.

4 Diiodoro siculo (I secolo a.C.),  Biblioteca Storica, XXXVII 18.

5 Il municipium era in origine una città privata dell’autonomia politica e soggetta ad oneri, come si evince dal termine stesso che riflette la condizione di dover sopportare (capere) obblighi (munera), e rappresentava il sistema organizzativo con cui Roma annetteva un territorio conquistato.

6 Le colonie greche avevano con ogni probabilità maggiore capacità contrattuale delle comunità italiche, sicché riuscivano a strappare condizioni  in genere più vantaggiose. Così almeno avvenne per Taranto rispetto a tutte le altre città salentine, fatta eccezione di Brindisi, dove venne dedotta una colonia.

7 Cicerone (II secolo a.C. – I secolo a.C.),  De domo sua, 77.

8 Nella lex agraria epigrafica del 111 a.C. figura l’antica locuzione «socii nominisve latini, quibus milites ex formula togatorum inperare solent» (gli alleati ossia il nome latino, ai quali [i Romani] comandano di fornire i soldati sulla base della formula dei togati).

9 Livio, Cit., XXV 3, 16.

10 Ibidem, XXII 61, 11-12.

11 Ibidem, XXV 1, 1.

12 Ibidem., XXVII 10, 7-9.

13 Cicerone, De Officiis, II 22, 76. «Paulus tantum in aerarium pecuniae invexit, ut unius imperatoris praeda finem attulerit tributorum» (Emilio Paolo riempì così tanto l’erario di denaro che il bottino d’un solo generale fu sufficiente a porre fine alle tasse).

14 I cittadini romani erano inoltre esentati da qualsiasi imposta fondiaria sui possessi in Italia.

15 In quel periodo s’intendeva per Italia la parte di penisola a sud della regione gallica cisalpina.

16 Velleio patercolo (I secolo a.C.– I secolo d.C.), Historiae Romanae, II 14, 1.

17 Asconio (… – II secolo d.C.), In Pisonem, A.C. CLARK, 1907, p. 3. Incerta la datazione del provvedimento che viene comunque fissata per gli ultimi decenni del II secolo a.C.

18 Per consultare la scheda,  https://it.wikipedia.org/wiki/Salento#Storia (consultata il 23.03.2022).

19 Cicerone, Pro Balbo, VIII 21.

20 Cicerone, Lettere ad Attico, IV 1, 4.

21 Appiano (I secolo d.C. – II secolo d.C.), Le guerre civili, I 9, 79.

22 Non a caso, il termine tributum derivava appunto da tribus.

23 Velleio patercolo, Cit., II 20, 2, parla di otto tribù; appiano, Cit., I 49, di dieci.

24 C’è da rammentare che le tribù non votavano in contemporanea ma in sequenza, sicché c’era il rischio che quelle scelte a votare per prime potessero con il loro voto influenzare le altre. Per evitare ché le fazioni  utilizzassero  l’ordine con cui le tribù votavano per condizionare a proprio favore il voto, da un certo momento in poi si ricorse al sorteggio. S’aggiunge che le votazioni venivano dichiarate concluse quando diciotto tribù s’erano espresse allo stesso modo, essendosi ottenuta la maggioranza prevista.

25 Qualche decennio dopo, a metà circa del I secolo a.C., Taranto adottò, in luogo del quattuorvirato, il duovirato, come testimoniato dall’epigrafe bronzea riportante alcune parti dello statuto tarantino (lex municipii Tarentini).

Libri| La sacrestia di S. Giovanni Battista in Parabita: Il simbolismo nei dipinti

 

 

Il volume di recente pubblicazione: La sacrestia di S. Giovanni Battista in Parabita: Il simbolismo nei dipinti di Annunziata Piccinno[1], che si avvale della presentazione del parroco della stessa chiesa, don Santino Bove Balestra, offre una lettura archetipico-simbolica e storico-letteraria dei dipinti settecenteschi che decorano la volta della sacrestia della chiesa parrocchiale dedicata a San Giovanni Battista, collocata nel cuore della città di Parabita.

Il tema trattato costituisce una sorta di guida-base, per un ulteriore approfondimento, che seguirà parallelamente all’opera di restauro conservativo dell’edificio sacro, alla quale anche i preziosi e suggestivi dipinti saranno, a breve, sottoposti.

Il prezioso sussidio è utile a interpretare la simbologia della decorazione pittorica della piccola sacrestia: un’aula di forma rettangolare alla quale si accede dalla porta posta a nord, entrando dalla chiesa. La volta, le lunette e le vele di questo locale sono arricchite da dipinti in stile baroccheggiante. La volta a padiglione a schifo lunettata mette in evidenza il dipinto raffigurante lo stemma di mon. Orazio Fortunato, collocato al centro e contenuto in una cornice rettangolare. Tutto intorno vi sono elementi vegetali, floreali e putti che l’autrice suddivide in 8 gruppi distinti.

Al di sotto della volta in piccole vele sono raffigurati dei putti accanto ad animali ed elementi vegetali. In otto lunette sono effigiate otto marine salentine, delle quali una rimane ignota, caratterizzata solo da una torre costiera.

Ammirare le decorazioni della volta della sacrestia parabitana è emozionate, in quanto tutto quello che passa sotto lo sguardo dell’osservatore suscita molteplici interrogativi. Siamo al centro di una volta in stile barocco veramente singolare, in cui putti in varie pose si susseguono mostrando vari simboli sotto forma di animali, frutta, fiori e ortaggi, tanto da far sussultare e interrogare lo spettatore sul loro effettivo significato. Sono elementi posti lì casualmente oppure essi sono emblema di un qualcosa di “altro” che, ormai lontano nel tempo, oggi riusciamo difficilmente a decifrare?
L’autrice, attraverso lo studio di testi antichi, ne analizza le molteplici simbologie. Appare evidente che il frescante abbia voluto omaggiare il vescovo del tempo: mons. Orazio Fortunato, cui si rifanno anche le otto marine, inserite nelle lunette.

Solo un’attenta lettura del testo permette di valorizzare questi dipinti, per la maggior parte degli studiosi e degli stessi salentini ancora sconosciuti.

 

 

[1] Annunziata Piccinno nata ad Aradeo (LE), laurea in Lettere Moderne (1999)- Università di Lecce; Laurea Triennale e Magistrale in Scienze Religiose, presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Lecce. È autrice di: Gli Altari del ‘600-‘700 a Nardò, in Nardò NostraStudi in memoria di don Salvatore Leonardo, Congedo, 2000; Tra etnologia e folclore in Carmine diario di un emigrante a c. di A. Piccinno, Manduria, 2013; Cuore mente attesa speranza. La Parola di Dio negli scritti biblico pastorali di don Giuseppe Sacino (2018) e Viaggio nell’antica diocesi di Nardò: Gli altari dal XVII al XVIII secolo (2021).

 

Il gesuita salentino Francesco Antonio Camassa esperto di arte militare

 

DE RE MILITARI NELLA SPAGNA DI FILIPPO IV: IL GESUITA SALENTINO FRANCESCO ANTONIO CAMASSA

 

di Francesco Frisullo-Paolo Vincenti

ABSTRACT. In the essay, the figure of Francesco Antonio Camassa, a Jesuit from Salento, military engineer and teacher is treated. Born in Lecce in 1588, personal adviser and confessor of the Marquis of Leganès, Governor of Milan, at the height of a brilliant career as a teacher within the Company of Jesus, he was called to Spain to the court of King Philip IV, of whom he became military adviser. Through an accurate bibliographic research, the life and works of Father Camassa, who died in Spain in 1642, are reconstructed.

 

RIASSUNTO. Nel saggio, viene trattata la figura di Francesco Antonio Camassa, gesuita salentino, ingegnere militare e insegnante. Nato a Lecce nel 1588, consigliere personale e confessore del Marchese di Leganès, Governatore di Milano, all’apice di una brillante carriera come docente all’interno della Compagnia di Gesù, viene chiamato in Spagna alla corte del Re Filippo IV, del quale diviene consigliere militare. Attraverso una accurata ricerca bibliografica si ricostruiscono la vita e le opere di Padre Camassa, che muore in Spagna nel 1642.

Filippo IV di Spagna

 

Nel 1633 viene pubblicata a Madrid la Tabla Vniversal para ordenar en cualquiera forma Esquadrones, por el Padre Francisco Antonio Camassa de la Compañia de Iesus, Cathedratico de la Mathematica militar en los Estudios Reales del Colegio Imperial de Madrid, Con licencia en Madrid, por Andrés de Parra. Si tratta di una dissertazione con disegni e calcoli matematici e disegni geometrici circa la disposizione degli squadroni degli eserciti.

Il suo autore è un gesuita originario di Lecce, Francesco Antonio Camassa, ingegnere militare e insegnante, ma soprattutto spirito attivo, marziale, intraprendente. Tre, le tappe fondamentali della vita e della carriera di Camassa: Lecce, Napoli, Madrid. Ma ogni gesuita in quei tempi era cittadino del mondo, specie chi si recava in missione in Oriente o nelle Americhe, lo spirito di avventura e il desiderio di evangelizzare erano consentanei alla natura dei frati.

Camassa è un illustre predecessore di importanti autori che tratteranno di polemologia, fra i quali, non ultimo, il nostro Giuseppe Palmieri, autore delle Riflessioni critiche sull’arte della guerra (1756-1761)[1], opera giustamente famosa che, al pari di quella del Camassa, si occupa di tattica militare. Salvatore Capodieci, in un recente saggio sulla figura del Palmieri, prima di illustrare dettagliatamente l’opera dello studioso martignanese, fa una doverosa distinzione in questo genere di trattatistica fra opere di strategia ed opere di tattica, adducendo ad esempio due illustri riferimenti, forse i più famosi in quest’ambito, ovvero il tedesco Karl Von Clausewitz (1780-1831) e l’italiano Piero Pieri (1893-1979)[2]. L’autore che Capodieci omette, nella sua disamina delle opere degli scrittori militari dall’antichità all’Età Moderna, è proprio Padre Camassa. Non ci sorprende, essendo il gesuita misconosciuto nel Salento. Eppure a lui, Lecce, la sua città, ha intitolato una via.

Di lui scrive Romano Gatto: “Nato a Lecce nel 1588, entrò a far parte della Compagnia nel 1606. Assolse all’intero corso di studi a Napoli. Prima delle matematiche insegnò 2 anni lettere umane, 2 anni filosofia, 2 anni teologia e 2 casi di coscienza. Morì a Saragoza il 30 luglio 1646”[3]. Nel suo libro, Gatto si occupa di tutti gli insegnanti succedutisi alla cattedra di matematica del Collegio dei Gesuiti di Napoli, soffermandosi su alcune figure particolarmente importanti come Hieronimo Hurtado, Georg Feder, Francesco Sangro, Vincenzo Figliucci, Cristoforo Clavio, e poi Giovanni Giacomo Staserio, Scipione Sgambati, ecc. Sebbene l’insegnamento di Camassa durò solo un anno, dal 1631 al 1632, a lui Gatto dedica una scheda nella parte finale del libro, in cui vengono passati in rassegna, in ordine cronologico, tutti i professori di matematica del Collegium Neapolitanum, dal 1589 al 1680[4]. Dalla scheda apprendiamo che Camassa arrivò a Napoli nel 1607 e studiò retorica, logica, fisica, metafisica e teologia. Nel 1620-21 fu inviato come predicatore a Bovino, successivamente ad Atri[5], dove insegnò filosofia dal 1621 al 1624, teologia dal 1624 al 1625, filosofia e casi di coscienza dal 1625 al 1627, e quindi tornò a Napoli destinato alla Casa delle Probazioni. Questa era l’istituzione in cui si completava la formazione dei gesuiti, che iniziava con la “prima probazione”, vale a dire l’ingresso e l’ambientazione, che duravano una dozzina di giorni, e la “seconda probazione”, ovvero il Noviziato, che durava due anni, fasi caratterizzate dalla intensa preghiera e dal severo studio. La “terza probazione” consisteva negli esercizi spirituali, prescritti da Sant’Ignazio di Loyola e dall’uscita dei frati nella società civile, nella quale essi si mettevano a disposizione di enti caritatevoli e dei più bisognosi, unendo il lavoro alla preghiera e allo studio, comunque imprescindibili. Con la “quarta probazione” i frati erano chiamati al quarto voto, oltre a quelli di povertà, castità e ubbidienza già pronunciati, ossia il voto di obbedienza al Papa, con il quale si sottomettevano interamente alla volontà del Sommo Pontefice. Questo quarto voto, come sappiamo specifico della Compagnia di Gesù, completava il cammino spirituale del perfetto gesuita[6].

Camassa divenne consigliere personale e confessore del Marchese di Leganès, Governatore di Milano, che in quel tempo era dominata dagli Spagnoli. Il Marchese di Leganès, Diego Mexía Felipez de Guzmán y Dávila (1580-1655), già Presidente delle Fiandre, si era distinto su vari campi di battaglia guadagnandosi fama e la stima dell’Imperatore della Spagna Filippo IV, che gli aveva affidato nel 1635 la guida del Ducato di Milano. Grande esperto di cose militari, uomo di cultura e mecenate, cugino del potentissimo Primo Ministro, Duca di Olivares, fu coinvolto nella Guerra dei Trent’anni. Collezionista di oggetti d’arte e uomo raffinatissimo, di lui esiste un ritratto, opera di Van Dick. Alla sua corte, a Milano, era circondato da svariati ingegneri militari: fra questi Francesco Antonio Camassa, che era anche il più fidato collaboratore, e che lo seguì nelle imprese belliche della battaglia di Nördlingen, nel1634, e dell’assedio del Piemonte dal 1637. Ma facciamo un passo indietro, tornando a Napoli.

Come detto, nel 1631 a Padre Camassa fu assegnata la cattedra di matematica presso il Collegio Napoletano; succedeva a Giovan Battista Trotta e Orazio Giannini[7].

Tenne la cattedra solo per un anno poiché, segnalato dal Viceré alla corte di Spagna, venne chiamato in quella nazione dalla Compagnia di Gesù su espresso invito del Re Filippo IV. Doveva essere già notevole, dunque, la fama che si era guadagnato a Napoli se gli venne riservata una simile attenzione.

Gatto riporta la lettera inviata dal Generale dell’Ordine Muzio Vitelleschi al Provinciale napoletano il 3 giugno 1632: “Quando V.R. riceverà questa e le sarà accennato dal Viceré che il P.Francesco Antonio Camassa vada in Spagna, come la Maestà Re comanda, V.R. lo manderà obedendo prontissimamente come siamo obbligati con tutta la Compagnia sopra quello che si può spiegare stante i beneficij innumerevoli della maestà sua[8]. Nel 1634, giunse a Madrid, dove entrò agli Estudios Reales de Santo Isidro, che era stato il Collegio di San Isidro dei Gesuiti, trasformato in una vera e propria università nel 1629 per volere del Re Filippo IV e del Primo Ministro Duca di Olivares, nonostante la ferma opposizione di Salamanca, sede della più gloriosa e antica Università di Spagna, che veniva così a perdere il suo primato.

Gli Estudios Reales attirarono una grande quantità di studenti, i rampolli della nobiltà madrilena, e divennero ben presto la scuola di formazione della classe dirigente spagnola. Ciò era dovuto al prestigio degli insegnanti che vi erano chiamati, fra i quali certamente Padre Juan Eusebio Nierenberg, esperto naturalista, ma anche occultista ed esperto di arti magiche[9], i celebri matematici Claude Richard, Padre Isasi e Jean Charles de La Faille, quest’ultimo precettore del Principe Don Juan e ritratto anche da Van Dyck[10], e lo stesso Camassa.

Nel 1634 dunque il Nostro si trasferisce nella nazione iberica e inizia il suo magistero a Madrid. Della sua attività di insegnante in Spagna, scrive Astrain: “Por algunos annos el P.Camassa, italiano, explicò una catedra de ingegneria, sobre todo en suas aplicationes militares[11].

Nel 1637 è a Milano e al seguito delle truppe del Marchese di Leganès[12] nelle operazioni belliche nel Piemonte. Occorre però inquadrare questa battaglia nell’ambito della Guerra dei Trent’anni (1618-1648)[13].

Una guerra, iniziata nella Germania, dominata dagli Asburgo d’Austria, che era una confederazione di stati essenzialmente già divisi dal punto di vista religioso tra luteranesimo e cattolicesimo, allorché si diffuse nel Palatinato Renano il calvinismo, anche ad opera del Principe elettore Federico V. Questo determinò la ferma opposizione sia dei luterani che dei cattolici, in particolare dei Gesuiti, intenzionati a difendere strenuamente le posizioni cattoliche contro l’attacco protestante. Essendo la collocazione geografica del Palatinato Renano molto strategica, situato come era al centro dell’Europa, fra i Paesi Bassi spagnoli e la Francia, questo scatenò gli interessi delle due principali potenze, ovvero della Francia, calvinista, e dell’Impero asburgico, cattolico. Il conflitto prese l’avvio dalla Boemia, con la cosiddetta “defenestrazione di Praga” del maggio 1618, nella prima fase, detta boemo-palatina, e poi si propagò in tutta Europa, coinvolgendo la Francia, la Danimarca, la Svezia. Impossibile in questa sede ripercorrere dettagliatamente le fasi della guerra che mise a ferro e fuoco l’Europa centrale; a noi basti interessarci di una parte di questa guerra, la fase che appunto coinvolse il Piemonte e la Savoia. Il Piemonte era stato annesso alla Savoia del Duca Emanuele Filiberto, in seguito ai tratti di pace di Cateau Cambrésis del 1559. Con la morte di Vittorio Amedeo I, nell’ottobre del 1637, essendo suo figlio maggiore Francesco Giacinto ancora troppo piccolo, venne assunta la reggenza dalla madre, Maria Cristina di Borbone, sorella del re di Francia Luigi XIII. Ella doveva difendersi dalle mire dei fratelli Tommaso e Maurizio di Savoia, legittimi aspiranti al trono, che vennero esiliati fuori dal Piemonte. Con la morte del piccolissimo Francesco Giacinto, la successione al trono passò al fratellino Carlo Emanuele, di appena quattro anni, e a questo punto la reggenza di Maria Cristina appariva messa a rischio. Il Piemonte infatti era del tutto diviso fra i “madamisti”, sostenitori di Maria Cristina, schierati con i Francesi, ed i “principisti”, fedeli ai fratelli Savoia, ossia il principe Tommaso e il cardinal Maurizio, che appoggiavano gli Spagnoli. Nel 1638, Tommaso di Savoia-Carignano si recò a Madrid e prese accordi per l’invasione del Piemonte che, gravitando nell’orbita della Francia, costituiva in effetti una seria minaccia per la Spagna stessa. Così, il Governatore di Milano, il Marchese di Leganès, attaccò la Savoia iniziando il piano di invasione, con la mira di sottomettere anche il Piemonte unendolo alla Lombardia, per creare un vasto stato unitario spagnolo. Dopo avere occupato Breme, poi Vercelli, quindi Palestro, all’inizio del 1639 le truppe lombardo-spagnole entrarono nel Piemonte facendosi strada fino a Torino. Goffredo Casalis, parlando dell’assedio di Vercelli, cita il Camassa, e scrive: “Il P. Camassa, gesuita, che ebbe, durante l’assedio, la carica di primo ingegnere, scelse gli assalimenti, e tracciò una circonvallazione di dieci miglia d’estensione. Gli spagnuoli lavorarono con molto ardore, ed in pochi giorni perfezionarono la circonvallazione; essi aprirono la trincea su tre diversi punti, e portaronsi a trecento passi dalla spianata in un molino, che la guarnigione cercò invano di difendere.[14]. Secondo i piani di battaglia, nell’accordo fra la Spagna ed i due eredi Savoia, il territorio conquistato sarebbe stato diviso in tre parti uguali. L’occupazione spagnola di Breme, città dalla pianta pentagonale fortificata, era importante in quanto la sua posizione strategica per attaccare anche Novara e Pavia, in mano ai Francesi. Caddero le città di Chieri, Moncalieri, Ivrea, Verrua, e infine Chivasso. In seguito, sotto l’attacco concentrico delle truppe guidate da Tommaso di Savoia, quelle del Duca di Leganès, e gli altri battaglioni guidati da don Martín di Aragona e don Juan de Garay, capitolarono le città di Villanova d’Asti, Asti, Pontestura, Moncalvo e Trino.

Alla fine di aprile 1639 iniziò l’assedio di Torino, dove erano di stanza i Francesi. Il Cardinale Richelieu offrì al Principe Tommaso una tregua, cercando un accordo, ma questa fu rifiutata dal Savoia che rimase fedele agli Spagnoli. “Le munizioni da vitto e da guerra mancavano agli assediati, e già ne’primi giorni fu d’uopo di regolarne la distribuzione con molta parsimonia, ed il padre Camassa, gesuita che durante l’assedio ebbe la carica di primo ingegnere, scelse gli assalimenti e tracciò una circonvallazione di dieci miglia di estensione”, scrive Gaudenzio Claretta[15].

L’assedio di Torino fu lungo e difficile, i Francesi erano un avversario duro da battere. Ad agosto, Tommaso di Savoia prese la città e Maria Cristina dovette arrendersi; ma i Francesi tornarono alla carica e ad ottobre si riaprirono le ostilità. Questi, guidati da Enrico di Lorena-Harcourt, inflissero una pesante sconfitta ai Lombardo-Spagnoli a Chieri. “Il tentativo di occupare il Piemonte”, scrive Annalisa Dameri, “riuscito anche se solo per pochi anni, da parte del marchese di Leganés, governatore dello stato di Milano, è documentato oltre che da una serie di lettere inviate a Filippo IV, al conte duca di Olivares e ad altri ufficiali, da un atlante senza firma, ora conservato a Madrid.

Le venti tavole illustrano rilievi e progetti per le cinte urbane delle cittadine occupate da Leganés e dal principe Tommaso nella loro avanzata verso Torino. In alcuni casi i lavori, svolti in pochi mesi, per potenziare ciò che è stato facilmente conquistato, trasformano indelebilmente i perimetri urbani. Al servizio di Leganés vi è sicuramente Prestino ed è ormai dimostrato che il governatore si avvalga, inoltre, della consulenza del padre gesuita Francisco Antonio Camassa, suo confessore e professore di arte fortificatoria al Collegio Imperiale di Madrid”[16].

Nella primavera del 1640, Tommaso di Savoia, sceso nuovamente in campo, venne sconfitto ancora una volta dalle truppe francesi a Casale Monferrato. A questo punto, il Principe decise di giocare il tutto per tutto, attaccando Torino per strapparla ai Francesi che ancora la difendevano strenuamente. Vistosi alle strette, tentò una resa con la speranza di raggiungere un accordo con Enrico di Lorena Harcourt, ma ogni trattativa questa volta fu rifiutata dai Francesi fin quando le truppe lombardo-spagnole vennero del tutto sbaragliate. Il Principe Tommaso, per non soccombere, si ritirò ad Ivrea. Al fine di ottenere delle condizioni più favorevoli iniziò a trattare segretamente con il Cardinale Richelieu, ma i tentativi fallirono quando il Principe, nella primavera del 1641, rinnovò il suo accordo con la Spagna, il che spinse la Francia a scendere nuovamente in campo. Tutte le città piemontesi vennero riprese e al Savoia non restò che scendere a compromessi con l’odiata Cristina di Francia, con la quale stipulò una alleanza che certo lo vedeva sfavorito, perché prima di tutto doveva riconoscere come legittimo erede al trono Carlo Emanuele, e inoltre, con i trattati ufficiali che seguirono (1642), si vide riconosciute solo le piazzeforti di Biella e di Ivrea. Le fortificazioni di tutte queste città coinvolte nella guerra vennero ricostruite sulla base di progetti spagnoli. E questo ci riporta al Camassa.

Il rapporto di Camassa col Leganès, come già visto, è precedente alla invasione del Piemonte e risale alla battaglia di Nordlingen, in Baviera, del 1634[17]. Sul fronte di guerra delle Fiandre prima, e della Germania poi, l’esercito spagnolo era guidato dall’indomito Don Diego Mesya y Guzman. In Germania, al suo seguito erano l’Infante Cardinal Fernando, l’umanista Francesco de Roales, che ne era stato il tutore, per volere del padre Filippo III, Francesco Camassa e Guillen Lombardo, quest’ultimo a capo di un contingente di truppe irlandesi. Questo è quanto riferisce Fabio Troncarelli nel libro La spada e la croce[18], in cui traccia un profilo dell’avventuriero di origini irlandesi William Lamport che era stato allievo di Camassa agli Estudios Reales di Madrid[19].

Il Camassa fornì una preziosa consulenza in questa guerra ai fini della sua vittoriosa risoluzione. In particolare, nella battaglia di Nordlingen, presa d’assalto dalle truppe imperiali il 5 settembre 1634, l’esercito guidato dall’Infante Cardinal rischiava di essere sbaragliato dalle truppe protestanti guidate da Bernardo di Sassonia e rinforzate dalla partecipazione svedese, cioè da uno dei più forti eserciti europei dell’epoca, che aveva sconfitto anche il grande condottiero Wallenstein. Fu proprio grazie alle indicazioni tattiche di Camassa che il Cardinal Fernando poté vincere la guerra, come scrive Fabio Troncarelli[20]. “A chi spetta”, si chiede Troncarelli, “la manovra che risolse brillantemente la battaglia?” Questa non poteva essere merito del Cardinal Fernando, del tutto inesperto di guerra, nè tanto meno dell’Imperatore Ferdinando, se è vero che le truppe asburgiche avevano assediato invano per alcune settimane Nordlingen. Non poteva essere, se non in minima parte, merito del Duca di Lorena, un francese al servizio della Spagna. Il merito, secondo Troncarelli, doveva essere di un ingegnere esperto di tattiche militari, nel contempo fornito di una solida cultura umanistica che gli ricordasse le mirabili imprese degli antichi romani. Questo personaggio non poteva che essere il “Dottor Sottile Camassa”. Solo un astuto gesuita ed il suo allievo Lombardo avrebbero potuto concepire una simile vittoria[21]. “A me pare evidente che solo un personaggio come lo scaltro Camassa, il docente di Re militari, che spiegava con passione Polibio e Vegezio il mattino presto, era in grado di inventare su due piedi la vittoria di Nordlingen. Di ciò abbiamo, del resto, una riprova nelle fonti, che attribuiscono al gesuita un ruolo decisivo nella fortificazione della collina di Albuch. Tali fortificazioni avevano lo scopo di bloccare gli attacchi nemici, mentre la cavalleria aggirava le loro posizioni. Solo un gesuita italiano, forgiato dall’acerrima competizione col diabolico Machiavelli, tanto entusiasta della cavalleria romana, avrebbe osato in quel frangente domandare agli antichi la ragione delle loro azioni…”[22]. E. Charveriat, che lo chiama Camaja, scrive: “le Père Camaja, à élever et à garnir d’artillerie trois retranchements, en forme de demi-lunes, ouverts au nord, et fermés au midi, du côté de l’ennemi, par un mur de trois pieds de haut. Les Bavarois étaient environ sis mille; les Impériaux, douze Mille; les Espagnols, quinze mille; en tout trente-trois mille hommes, dont vingt mille d’infanterie et treize mille de cavalerie: huit mille hommes ennron de plus que les Suédois. L’armée impériale faisait face au midi; l’armée suédoise faisait face au nord.[23].

Camassa riscosse un successo così grande con i suoi consigli militari che una volta tornato in Spagna nel 1635 tenne a Madrid una applaudita conferenza sulle tattiche militari e sulle fortificazioni, alla quale partecipò anche il Re Filippo IV nascosto dietro una grata, a detta di Troncarelli[24], il quale cita anche una preziosa fonte per conoscere meglio la figura di Camassa, ossia una lettera di Bernardo Monanni del 30 giugno 1635 conservata a Firenze[25].

Oltre ad impartire lezioni private de re militari a Filippo IV, fu probabilmente, come riportano alcune fonti, anche precettore dell’erede al trono Baltasar Carlos[26].

La Dameri parla di una relazione tecnica di Giovanni Battista Vertova in viaggio da Malta in Italia. “In visita in Piemonte, dopo Torino (ricevuto a corte da Cristina di Francia), Pinerolo, Felizzano, Vertova nel novembre 1638 è in Alessandria per un incontro tra i massimi esperti di fortificazioni al servizio della Spagna al fine di discutere del nuovo impianto fortificatorio di Malta. Ad Alessandria si riuniscono gli alti comandi spagnoli tra cui Leganés, Camassa, don Francisco de Melos, don Alvaro de Melos, il conte Ferrante Bolognini, don Martin d’Aragona e Juan (Giovanni) de Garay: Camassa ha modo di esprimere un parere tecnico (De Lucca, 2001) «Hebbi con alcuni Ingegneri, et anco con il Padre Gammasa Jesuita, molti discorsi di queste nostre fortificazioni e ne porto meca le memorie in scritto»”[27].

Anche Fernando Rodrìguez De La Flor si sofferma sul Camassa come esperto di tattica militare, citando la sua opera Tabla universal: “La geometría, en un sentido más general, determina toda la polemología, tal y como J. de Beausobre: «La ciencia de la guerra es esencialmente geométrica… La disposición de un batallón y de un escuadrón sobre un frente entero y determinada altura es sólo el resultado de una geometría profunda todavía ignorada» (Commentaires sur les défenses des places, II, París, 1757, p. 307. Cito por M. Foucault, Vigilar y castigar, Madrid, 1982, p. 168). El fragmento citado puede ponerse en relación con toda una serie de obras que ofrecen sistematizaciones de orden geométrico en las disposiciones de las formaciones militares, en lo que se denominaba el «arte de escuadronear», como es el caso del libro de Francisco Antonio Camassa, Tabla universal para ordenar en qualquiera forma Esquadrones. En un sentido, en última instancia también geométrico, Paul Virilio ha estudiado los fenómenos bélicos, y en concreto el de la ubicación de defensas a lo largo de un territorio, como producto de lo que el analista define como ‘perspectiva’, cf. Logistique de la Perception. París,1984”[28].

Nell’opera Cristiano desagravio y retractaciones de Don Guillén Lombardo. Manuscrito novohispano del siglo XVII, a cura di Gonzalo Lizardo, sono riportate diverse lettere di Guillén Lombardo che citano il Camassa[29].

Così come, sempre con riferimento al leggendario Guillén Lombardo, nell’articolo Zorro’ of Wexford?,Gerry Ronan cita ampiamente il Camassa nella biografia del Lamport[30].

Un’altra fonte lo dice anche al seguito di Carlo IV, Duca di Lorena, nella campagna militare di Germania e Francia[31].

Conosciamo svariate lettere di Padre Camassa. All’interno del Memorial Histórico Espanol; Colección de Documentos, Opúsculos y Antigüeda des Madrid, Academia Real de la Historia, Volume XIX, Madrid,1865, si trova la collezione Cartas de algunos pp. de la Compañía de Jesus: sobre los sucesos entre los anos de 1634 y 1648: in quest’opera, troviamo al Tomo VII, una lettera di Camassa alle pp.281-2;  nello stesso Tomo VII, alla p. 493 è riportato l’indice dell’intera collezione:

“Camassa (P. Francisco Antonio), de la C. de J. ; confesor del marqués de Leganés. I 33, 35, 101, 440, 483, 268, 519; sus cartas de Italia, II 28, 91 ; de Valencia , IV 353. V 19. VI 196, 206, 288, 297, 308, 314, 331, 339, 355, 370 (M. Agosto, 1646). VII 329, 345, 360, 361.”

Si tratta di una serie di lettere in cui Camassa riferisce essenzialmente sull’andamento del conflitto bellico.

Padre Camassa è citato da Astrain[32] e da Victor Navarro Brotons[33], il quale, nel paragrafo in cui si occupa del Collegio dei Gesuiti di Madrid, fondato nel 1560 (Los Reales Estudios Del Colegio Imperial De Madrid), scrive: “Junto a della Faille y Richard, [ si riferisce a Jean Charles della Faille e a Claude Richard, primi insegnanti di matematica ] en las primeras décadas de funcionamiento de los Reales Estudios del Colegio Imperial residieron y enseñaron en esta institución, el polaco Alexius Silvius Polonus (1593-ca.l653), el escocés Hugo Sempilius, y el italiano Francisco Antonio Camassa(1588-l646). También enseñó matemáticas y arte militar el jesuita Vasco Francisco Isasi”. E in nota, specifica: “Camassa era de Lecce. Véase Carlos Sommervogel, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, 11 vols., Bruselas, 1890-1900, vol. II, col. 175 y Simón, op.cit. (nota 3), I, p.545[34].

Anche il Diaz si occupa di lui[35], come pure il Sommervogel, già citato da Navarro Brotons, che però lo considera spagnolo[36]. Ampiamente ne tratta il De Lucca[37].

Annalisa Dameri, ricercatrice del Politecnico di Torino, nel saggio già menzionato si occupa del rapporto fra Leganès e Camassa[38] e riporta anche notizie della morte, sebbene in maniera molto nebulosa come per tutta la bibliografia da lei citata. “Il necrologio scritto per la morte di Camassa (ACGRoma, AH, PT, m. 45, necrologia 1557- 1670, c. 206, 4 agosto 1646) ribadisce la vicinanza e la collaborazione con Leganés: il 30 luglio 1646, nella città di Saragozza muore all’età di 57 anni, dopo quarant’anni all’interno della Compagnia di Gesù, colpito da una «calentura maliciosa »”[39].

Nell’opera Il Ciro Politico, Filippo Maria Bonini lo indica come “matematico ed astrologo”[40].

A volte il suo nome viene spagnolizzato in Gamassa, come in  Le voyage du Prince don Fernande Infant d’Espagne, di Diego de Aedo y Gallart[41]. Da citare anche la voce che gli viene dedicata nel Diccionario histórico de la Compañía de Jesús biográfico-temático[42]. Su di lui anche un tesi di laurea nel 2010[43].

Un’ampia scheda gli dedica José Almirante[44], il quale parla di un coinvolgimento del Nostro nella fortificazione delle mura di Sabbioneta e di Saragozza.

Infine, abbiamo scoperto che un’altra opera gli viene attribuita da Giovanni Cinelli Calvoli[45], e cioè: Le stravaganze d’Amor divino:Orazione nella nascita di Cristo composta dal Rev. e Dottor Teologo Francesco Antonio Camassa,1672. Un’opera di teologia, dunque, che mette in risalto la sua figura di pensatore sebbene la data del 1672 non coincida con la data della sua morte nel1642. Probabile sia stata stampata postuma.

Delle brevi considerazioni a conclusione di questo saggio. Può apparire singolare ai nostri occhi la figura di Francesco Antonio, per il suo ruolo di ingegnere militare. Non così doveva essere ai tempi in cui egli visse. Quello della trattatistica militare era un genere letterario fiorente specie nella Spagna del Cinquecento[46], ma non solo: infinita la bibliografia, come abbiamo già visto nel corso della trattazione. Né doveva rappresentare una novità l’appartenenza di Camassa ad un ordine religioso. Anzi, egli si collocava in un percorso già segnato fin dalla nascita della stessa Compagnia di Gesù, affine, per organizzazione e concezione, alla più rigida disciplina del mondo militare, come spiega bene Gianclaudio Civale[47]. Era stato il gesuita Edmond Auger ad aprire la strada, incitando il sovrano di Francia Carlo IX a prendere le armi contro gli ugonotti in quella fase delle guerre di religione che nella seconda metà del Cinquecento insanguinarono la Francia. Nella sua opera[48], Auger spronava con inusitata violenza il sovrano a massacrare senza pietà i nemici della fede, nella convinzione che solo la guerra poteva portare il castigo meritato dagli ugonotti. Era una convinzione condivisa da tutti gesuiti, quella della guerra come giusto flagello di Dio, e della necessità di sterminare eretici ed infedeli per il trionfo della religione cattolica, Ad majorem gloriam Dei, secondo il loro stesso motto. In questo clima, nascevano anche manuali del perfetto soldato cristiano, in cui erano impartite rigide istruzioni ai combattenti per la fede, esemplare l’opera Soldato christiano di Antonio Possevino[49]. Non risulta dunque stridente, almeno ad un primo approccio, l’azione di Camassa con la sua vocazione religiosa. È certo che lo iato fra la spada e la fede fosse saldato dalla causa superiore.

Indagare poi i conflitti di coscienza che alcuni padri potevano patire nel loro impegno militare è materia che ci porterebbe molto lontano dalla tesi di questo contributo.

A noi basti aver diradato le nebbie che avvolgevano la figura di Francisco Antonio Camassa e aver fatto conoscere alla comunità degli studiosi salentini un figlio illustre di questa terra.

 

BIBLIOGRAFIA SU FRANCESCO ANTONIO CAMASSA

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Il Ciro Politico dell’Abbate Filippo Maria Bonini Consultore, e Assistente del Sant’Officio in tutto lo Stato della Repubblica di Genova diviso in due parti all’Altezza Sereniss: e Reverendiss: del Signor Principe Leopoldo Cardinal De Medici. Venetia, 1668 Per Nicolò Pezzana, p.50.

Biblioteca volante di  Gio. Cinelli Calvoli  continuata dal Dottor Dionigi Andrea Sancassani Edizone seconda, in miglior forma ridotta , e di varie aggiunte, ed osservazioni arricchita Tomo secondo Dedicato al reverendissimo Padre Don Alessandro Rossi, Venezia, Giambattista Albrizzi Q.Girolamo,1735, p.34.

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Alle origini dell’Università dell’Aquila: cultura, università, collegi gesuitici all’inizio dell’età moderna in Italia Meridionale : atti del convegno internazionale di studi promosso dalla Compagnia di Gesù e dall’Università dell’Aquila nel IV centenario dell’istituzione dell’Aquilanum Collegium (1596), L’Aquila, 8-11 novembre 1995, a cura di Filippo Iappelli, Ulderico Parente, Istitutum Historicum Societatis Iesu, Roma 2000, p.95.

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Idem, voce Collegio Imperial de Madrid, in J. Martìnez Veròn Arquitectos en Aragòn Diccionario Històrico Volumen II Cabal-Kuhnel, Istituciòn “Fernando El Càtolico”, Saragozza, 2001, p.1931.

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Dameri A., Progettare le difese: il marchese di Leganés e il padre gesuita Francesco Antonio Camassa, esperto di arte militare, in Defensive Architecture of the Mediterranean. XV to XVIII centuries, Vol I, a cura di Pablo Rodríguez-Navarro, Editorial Universitat Politècnica de València, 2015, pp.29-36.

 Dameri A., La difesa di un confine. Le città tra Piemonte e Lombardia nella prima metà del XVII secolo, in El dibujante ingeniero al servicio de la monarquía hispánica. siglos XVI-XVIII, a cura di Alicia Cámara Muñoz, Fundación Juanelo Turriano, 2016, pp.284-285.

Novotny D. D., Sebastian Izquierdo on Universals:A Way Beyond Realism and Nominalism?,in “American Catholic Philosophical Quarterly”, Vol. 91, n.2, Hilton Minneapolis, 2017, p. 230;

 Cristiano desagravio y retractaciones de Don Guillén Lombardo [manuscrito de 1651] [Archivo General de la Nación], Edición, prólogo, epílogo y notas: Gonzalo Lizardo, Universidad Autónoma de Zacatecas «Francisco García Salinas», 2017, passim.

 

Note

[1]G. Palmieri, Riflessioni Critiche sull’Arte della Guerra, Napoli, 1761, ristampa a cura di Mario Proto, Manduria, Lacaita, 1995.

[2] S. Capodieci, Arte della guerra e innovazioni agricole in Giuseppe Palmieri, in Aa.Vv.,Carlo di Borbone e la “stretta via del riformismo” in Puglia. Atti dell’Incontro di Studio Bari, Brindisi e Lecce, 14-15 e 18 dicembre 2017, a cura di Pasquale Corsi, Società Storia Patria per la Puglia, Bari, 2019, pp. 105-133. Nell’ambito dell’epistemologia, fondamentale è l’opera di V. Ilari, Tra bibliografia ed epistemologia militare. Introduzione allo studio degli scrittori militari italiani dell’età moderna, in «Rivista di Studi Militari», n.1, 2012, pp. 141-170, in cui l’autore “ricostruisce la genesi della prima bibliografia militare italiana, pubblicata a Torino nel 1854 da Mariano d’Ayala (1808-1877), un ufficiale del Genio Napoletano esiliato per ragioni politiche. Questa bibliografia, che include più di 10.000 libri e manoscritti scritti o tradotti in Latino o in Italiano fin dal XV secolo, era basata in parte su precedenti bibliografie generali o di fortificazione (soprattutto quella pubblicata nel 1810 da Luigi Marini), e in parte sulla biblioteca militare raccolta dal Conte Cesare Saluzzo di Monesiglio (ora ‘Fondo Saluzzo’ della Biblioteca Reale di Torino). Lo studio inquadra il lavoro di d’Ayala nella storia della bibliografia militare europea, dal Syntagma de studio militari pubblicato a Roma nel 1637 da Gabriel Naudé, fino alla Bibliografia generale delle bibliografie militari pubblicata nel 1857 dal ben noto bibliotecario Julius Petzholdt (1812-1891)”. Ivi, p.141. Un libro molto interessante sul ruolo dei gesuiti nelle fortificazioni e in generale nelle opere di ingegneria militare, è quello di D. De Lucca, Jesuits and Fortifications: The Contribution of the Jesuits to Military Architecture in the Baroque Age, Brill, Leiden, 2012, nel quale l’autore oltre a passare in rassegna le varie figure di gesuiti presenti accanto a potenti, ai condottieri e ai loro eserciti, che si sono variamente occupati di opere de re militari, e ad illustrare come queste opere venissero fatte rientrare nell’ambito delle discipline matematiche, si sofferma sulla delicatezza del ruolo dei frati ingegneri, nonché sulle loro crisi di coscienza, sui dissidi interiori  e sui dissensi da parte dello stesso ordine gesuita, poiché il loro ruolo era ritenuto incompatibile con la vocazione di un religioso. Si veda: M. Vesco, Ingegneri militari nella Sicilia degli Asburgo: formazione, competenze e carriera di una figura professionale tra Cinque e Seicento, in Aa.Vv., Defensive Architecture of the Mediterranean. XV to XVIII centuries, Vol I, a cura di Pablo Rodríguez-Navarro, Editorial Universitat Politècnica de València, 2015, pp. 223-230. Inoltre: P.Rodríguez-Navarro, Modern age fortifications of the Mediterranean coast Bibliographic guide, Editorial Universitat Politècnica de València, 2015.

[3] R. Gatto, Tra scienza e immaginazione. Le matematiche presso il collegio gesuitico napoletano (1552-1670 ca), Firenze, Olschki,1994, p. 185.

[4] Ivi, pp. 269-270.

[5] Aa.Vv., Alle origini dell’Università dell’Aquila: cultura, università, collegi gesuitici all’inizio dell’età moderna in Italia Meridionale : atti del convegno internazionale di studi promosso dalla Compagnia di Gesù e dall’Università dell’Aquila nel IV centenario dell’istituzione dell’Aquilanum Collegium (1596), L’Aquila, 8-11 novembre 1995, a cura di Filippo Iappelli, Ulderico Parente, Istitutum Historicum Societatis Iesu, Roma, 2000, p. 95.

[6] Per i riferimenti specifici all’ordine dei Gesuiti, si veda: Glossario Gesuitico Guida all’intelligenza dei documenti, a cura di W. Gramatowski S.I., ARSI, Roma,1992, ad vocem.

[7] Il suo nome compare anche fra i “Lettori di matematica” del Collegio di Napoli elencati in un manoscritto di Vincenzo Carafa, databile intorno al 1625, conservato nella BNR (ms Ges.1629) a c.194, che dice: “Lettori di Matematica: Gio. Giac. D’Alessandro, Gio.Giac. Staserio, Gio.Batta Trotta, Gio.Batta Zupo, Francesco Antonio Camassa, Scipione Sgambati, Horatio Giannino, Gio.Batta Galeota”, riportato da R. Gatto, op.cit., pp. 78-79. Si veda anche A. Udias, Profesores de matematicas en los Colegios de la Compania de Espana, 1620-1767, in «Archivum Historicum Societatis Iesu» vol. XXIX, fasc. 157 gennaio-giugno 2010, pp. 3-27, che cita Camassa a p. 25.

[8] Arsi, Neap. 17, c.46v, in R. Gatto, op.cit., p. 185.

[9] Juan Eusebio Nierenberg (1595-1658), autore del libro Curiosa filosofia y tesoro de maravillas, Madrid, Imprimeria del Reymo, 1634, che è solo una delle opere della sua sterminata produzione, che comprende anche le biografie di Sant’Ignazio di Loyola e di San Francesco Borgia. Nell’opera De la hermosura de Dios y su amabilidad por las infinitas perfecciones del Ser divino (1641), coniuga la filosofia platonica con la dottrina cristiana della grazia.

[10] Su Jan Charles della Faille, professore di matematica al Collegio Imperiale di Madrid, si veda la Voce Jean-Charles della Faille 1597-1652, curata da O. Van De Vyver, in Diccionario histórico de la Compañía de Jesús (4 volúmenes) biográfico-temático, a cura di Charles E.O’Neill e Joaquín María Domínguez, Universidad Pontificia Comillas, Madrid, Insititutum Historicum S.I. Roma, 2001, p.2935 (del pdf). Inoltre, O. Van De Vyver S. I., Lettres de J.Ch. Della Faille S. I., Cosmographe du Roi a Madrid, a M. F. Van Langren, cosmographe du Roi a Bruxelles, 1634-1645, in «Archivum Hisoricum Societatis Iesu», XLVI, 1977, pp.73 ss. Vi si riporta una corrispondenza fra l’astronomo e matematico fiammingo Michel Florent van Langren (Langrenius) e della Faille, nella quale è citato più volte Camassa.

[11] A. Astrain, Historia de la Compañia de Jesús en la Asistencia de España, Madrid, Razón y Fe, 1916, Tomo V, p.168, riportato anche da Gatto, op.cit., p. 185. Inoltre A. Udias, op.cit., p. 25.

[12] Sul Leganès, fra gli altri: F. Arroyo Martín, El marqués de Leganés. Apuntes biográficos, in «Espacio, Tiempo y Forma», Serie IV, H. Moderna, t. 15, 2002, pp. 145-185.

[13] Si può fare riferimento a: J. Huxtable Elliot, La Spagna imperiale:1469-1716, Bologna, Il Mulino,1982; Idem, Il miraggio dell’impero.Olivares e la Spagna: dall’apogeo al declino Tradotto da Paola Moretti, introduzione di Giuseppe Galasso, 2 Volumi, Roma, Salerno Editrice, 1991. Con particolare riferimento alla partecipazione dei gesuiti alla guerra dei trent’anni, si veda: R. Bireley, The Jesuits and Thirty Years war: Kings, Courts, and Confessors, Cambridge, University Press, 2009, specificamente al capitolo 6, pp.167-203; J.B. Sánchez, La Compañía de Jesús y la defensa de la monarquía Hispánica, in «Hispania Sacra», LX, 2008, pp. 181-229. Inoltre, La decadenza della Spagna e la Guerra dei Trent’Anni 1610-1648, a cura di J.P.Cooper, Cambridge University Press, Garzanti, 1971.

[14] G. Casalis, Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale degli stati di S. M il Re di Sardegna, Volume XXV G.Maspero, Torino, 1853, p.404.

[15] G. Claretta, Storia della reggenza di Cristina di Francia duchessa di Savoia con annotazioni e documenti inediti, Parte Prima, Stabilimento Civelli Torino,1868, p. 307.

[16] A. Dameri, La difesa di un confine. Le città tra Piemonte e Lombardia nella prima metà del XVII secolo, in Aa.Vv., El dibujante ingeniero al servicio de la monarquía hispánica. siglos XVI-XVIII, a cura di Alicia Cámara Muñoz, Fundación Juanelo Turriano, 2016, pp.284-285.

[17]Sulla guerra di Nordlingen, si veda R. Bireley, The Jesuits and Thirty Years war: Kings, Courts, and Confessors, Cambridge, University Press, 2009, pp.139 e 159.

[18] F. Troncarelli, La spada e la croce, Roma, Salerno Editrice, 1999.

[19] L’irlandese William Lamport spagnolizzò il proprio nome in Guillén Lombardo de Guzmàn, in onore di Gaspar de Guzman, Conte di Olivares. Egli combattè per conto della Spagna nelle Fiandre, accanto al Cardinal Infante Fernando, nella battaglia di Nordlingen, poi a Bruxelles e successivamente ancora in Spagna, dove partecipò nel 1638 alla battaglia di Fuentarabia a capo di un reparto di truppe irlandesi. Nel 1640, il Conte di Olivares lo inviò in Messico a tutelare gli interessi della Corona dai rapaci amministratori spagnoli. Autore di opere in prosa e in versi, accusato di praticare la magia e l’astrologia, fu un personaggio molto controverso. In Messico, dove poté toccare con mano le angherie e le violenze perpetrate dai conquistatori a danno degli Indios, finì al centro di una vasta rete di interessi contrapposti e quindi nelle maglie dell’Inquisizione, che lo tenne in carcere per ben 17 anni fra stenti e torture di ogni genere. Alla fine, venne bruciato sul rogo, nel 1659. Alla figura di Lombardo si è ispirato Vicente Riva Palacio per creare il personaggio di Zorro, diventato ben presto una leggenda, protagonista di una fortunata serie di romanzi, film e telefilm. Si veda anche G. Ronan, The Irish Zorro,The extraordinary adventures of William Lamport (1615-1659), London, Brandon, 2004.

[20] F. Troncarelli, op.cit., p. 167.

[21] Ivi, p.169. Oltre a quella di Camassa, su William Lamport, notevole fu l’influenza che ebbe Juan Eusebio Nierenberg, in quanto esperto di arti magiche: Ivi, p.163.

[22] Ivi, p.170.

[23] E. Charveriat, Histoire de la guerre de trente ans:1618-1648 Periode suedoise et periode francaise:1630-1648 tomo II , E. Plon Parigi, 1878, p.291.

[24] F. Troncarelli, op.cit., p.359. L’autore però dice Camassa nato intorno al 1584, entrato nella Compagnia di Gesù a Napoli nel 1607 e morto nell’agosto del 1646: Ivi, p.357.

[25] Archivio di Stato Mediceo, filza 4960, citata da J. H. Elliot, The Revolt of the Catalans. A study of the Decline of Spain (1598-1640), Cambridge, Univ. Press, 1963, p.582: Ibidem. 

[26]A. Dameri, Progettare le difese: il marchese di Leganés e il padre gesuita Francesco Antonio Camassa, esperto di arte militare, in Aa.Vv., Defensive Architecture of the Mediterranean. XV to XVIII centuries, Vol I, a cura di Pablo Rodríguez-Navarro, Editorial Universitat Politècnica de València, 2015, p.30.

[27] Ivi, p.35.

[28] F. R. De La Flor, La frontera de castilla el fuerte de la concepción y la arquitectura militar del Barroco y la llustración, Diputación de Salamanca, 2003, nota 68, pp.219-220. Sull’argomento si veda anche: A. E. López, Guerra y cultura en la Época Moderna. La tratadística militar hispánica de los siglos XVI y XVII. Autores, libros y lectores, Madrid, Ministerio de Defensa, 2001, p.618. E ancora: J. Patricio Sáiz, El peluquero de la Reina Comunicazione Cambio tecnológico y transferencia de tecnología en España durante los siglos XIX y XX , en el marco del Plan Nacional de Investigación Científica, Desarrollo e Innovación Tecnológica 2004-2007, Ministerio de Educación y Ciencia, Dirección General de Investigación, referencia SEJ2004-03542/ECON, p.14; A. E. López, La edad de oro de la tratadística militar española, in «Don Quijote Revista de Historia militar», I n s t i t u t o d e H i s t o r i a y C u l t u r a m i l i t a r Año LI Núm. Extraordinario Imprenta Ministerio de Defensa Madrid, 2007, pp.101-127, che cita Camassa a p.126.

[29]Cristiano desagravio y retractaciones de Don Guillén Lombardo [manuscrito de 1651] [Archivo General de la Nación], Edición, prólogo, epílogo y notas: Gonzalo Lizardo, Universidad Autónoma de Zacatecas «Francisco García Salinas», 2017, passim.

[30] G. Ronan, Zorro’ of Wexford?,in «The Past The Organ of the Uí Cinsealaigh Historical Society», n. 22, 2000, pp.3-50.

[31] F. Des Robert, in Campagnes de Charles IV duc de Lorraine et de Bar, en Allemagne, en Lorraine et en Franche-Comté, 1634-1638, d’après des documents inédits tirés des archives du Ministère des affaires étrangères, Parigi, 1883, a p.36 dice: “Ce fut le P. Camaja, jésuite, qui dirigea les travaux de défense.

[32] A. Astrain, Historia de la Compañia de Jesús en la Asistencia de España, Madrid, Razón y Fe, 1916, Tomo V, p. 168.

[33] V. Navarro Brotons,  Los Jesuítas y la renovación científica en La España del siglo XVII, in  «Studia Histórica Moderna», Ediciones Universidad de Salamanca, Vol. 14,1996, pp.15-44.

[34]Ivi, p.20. Dello stesso autore, Tradition and Scientific Change in Early Modern Spain: The Role of the Jesuits, in Aa.Vv., Jesuit Science and the Republic of Letters, a cura di Mordechai Feingold, Cambridge, Mass: London : MIT, 2003, p.334. Idem, El Colegio Imperial de Madrid, in Aa.Vv., Momentos y lugares de a ciencia española, siglos XVI-XX, a cura di Antonio Lafuente e Juan Pimentel, Madrid, 2012, on-line: http://hdl.handle.net/10261/63686 pp.51 e 54.

[35] J.S.Díaz, Historia del Colegio Imperial de Madrid: Casa y Colegio de la Compañia de Jesus (1560-1602) Colegio Imperial (1603-1625) Los Reales Estudios (1625-1767), Consejo Superior de Investigaciones Científicas, Instituto de Estudios Madrileños, Madrid,1952, p.545.

[36] Bibliothèque de la Compagnie de Jésus Premiere Partie: Bibliographie, par les pères Augustin et Aloys de Backer; Seconde partie: Histoire, par le pere Auguste Carayon   Nouvelle Èdition  par Carlos Sommervoegel,S.J.,publieè par la Province de Belgique, Bibliographie Tome II Boulanger-Desideri, Bruxelles Oscar Schepens –  Paris Alphonse Picard, 1891, p.575 (ma dell’opera vi sono altre edizioni, come quella del 1898 e quella del 1960).

[37]D. De Lucca, Jesuits and Fortifications: The Contribution of the Jesuits to Military Architecture in the Baroque Age, Brill, Leiden, 2012, Nota 182 a p.143 e pp.141, 143, 144, 145, 210, 220, 230, 231, 260, 309, 329, con informazioni  generali sulla vita e  sull’operato accademico e militare  di Camassa .

[38]A. Dameri, Progettare le difese: il marchese di Leganés e il padre gesuita Francesco Antonio Camassa, esperto di arte militare, in Aa.Vv., Defensive Architecture of the Mediterranean. XV to XVIII centuries, Vol I, a cura di Pablo Rodríguez-Navarro, Editorial Universitat Politècnica de València, 2015, pp.29-36.

[39]Ivi, p.31.

[40] Il Ciro Politico dell’Abbate Filippo Maria Bonini Consultore, e Assistente del Sant’Officio in tutto lo Stato della Repubblica di Genova diviso in due parti all’Altezza Sereniss: e Reverendiss: del Signor Principe  Leopoldo Cardinal De Medici. Venetia, 1668 Per Nicolò Pezzana, p.50.

[41] Le voyage du Prince don Fernande Infant d’Espagne, Cardinal: depuis le douziéme d’Avril de l’an 1632, qu’il partit de Madrit pour Barcelone avec le Roy Philippe IV son frere, julques au jour de fon entreè en la ville de Bruxelles le quatrième du mois de Novembre de l’an 1634 Tradyict de l’Espagnol de Don Diego de Aedo y Gallart…. En Anverse  Jean Crobbaert, 1635, p.126: “Pere Gamassa”. Si vedano inoltre: J. B. Sánchez, La Compañía De Jesús y la defensa de la monarquía hispánica,  in  «Hispania Sacra», LX 121, enero-junio 2008, pp.181-229; F. Arroyo Martìn, El marquès de Leganés. Apuntes biogràficos, in «Espacio, Tiempo y Forma» Serie IV, H.Moderna, t.15,Uned, Madrid, 2002, pp.145-185: Camassa è citato a p.154; Voce Francisco Antonio Camassa, in J. Martìnez Veròn, Arquitectos en Aragòn Diccionario Històrico Volumen II Cabal-Kuhnel, Istituciòn “Fernando El Càtolico”, Saragozza, 2001, p.101.

[42] J. Escalera, Voce Francisco Antonio Camassa, in Diccionario histórico de la Compañía de Jesús (4 volúmenes) biográfico-temático, a cura di Charles E.O’Neill e Joaquín María Domínguez, Universidad Pontificia Comillas, Madrid, Insititutum Historicum S.I. Roma, 2001, p.1356 (del pdf); e anche Idem, alla voce Collegio Imperial de Madrid, Ivi, p.1931, e alla voce Ensenanza Militar, Ivi, p.2752.

[43] El Marquès De Leganès y las artes. Tesis Doctoral di Josè Juan Perez Preciado (Relatore Alfonso E.Pèrez Sànches) Universidad Complutense de Madrid, Facultad de Geografìa e Historia, 2010, passim.

[44] Bibliografía militar de España / por el Excmo. señor José Almirante Madrid: Imp. y Fundición de Manuel Tello, 1876, pp.108-109.

[45] Biblioteca volante di  Gio. Cinelli Calvoli  continuata dal Dottor Dionigi Andrea Sancassani Edizone seconda, in miglior forma ridotta , e di varie aggiunte, ed osservazioni arricchita Tomo secondo Dedicato al reverendissimo Padre Don Alessandro Rossi, Venezia, Giambattista Albrizzi Q.Girolamo, 1735, p.34.

[46] Si vedano A. Espino Lopez, Guerra y Cultura en la Epoca Moderna. La tratadistica militar hispanica en los siglos VXI y XVII. Autores, libros y lectores, Madrid, Ministerio de Defensa, 2001, ed anche F.Gonzalez De Leon, Doctors of the Military Discipline, in Idem, The Road to Rocroi. Class, Culture and Command in the Spanish Army of Flanders, 1567-1659, Leiden, Brill, 2009.

[47] G.Civale, Guerrieri di Cristo Inquisitori, gesuiti e soldati alla battaglia di Lepanto, Milano,Edizioni Unicopli, 2009, p.35.

[48] E. Auger, Le pédagogue d’arms, pour instruire un prince chrétien à bien entreprende et heureusement achever une bonne guerre, pour estre victorieux de tous les ennemis de son Estat et de l’Eglise catholique, Paris, Sebastien Nivelle, 1568.

[49] Soldato christiano con l’instruttione de’ Capi dell’Essercito Catolico composto dal R.P.Antonio Possevino della Compagnia di Giesu, Macerata, Sebastiano Martellini, 1588. Sull’argomento, si veda Vincenzo Lavenia, Tra Cristo e Marte. Disciplina e catechesi del soldato cristiano in età moderna, in Aa.Vv., Dai cantieri della storia liber amicorum per Paolo Prodi, a cura di Giuseppe Olmi e GianPaolo Brizzi, Bologna, Clueb, 2007, pp.37-54.

Libri| La Sho’ah. Il giorno della memoria

AA.VV., “LA SHO’AH. IL GIORNO DELLA MEMORIA”, A CURA DI MAURIZIO NOCERA, S.L. 2019, PP.52.

 

di Paolo Vincenti

Un agile libriccino dal titolo impegnativo: La Sho’ah. Il giorno della memoria, a cura di Maurizio Nocera (gennaio 2019), ci riporta ad una tematica sempre attuale e intimamente avvertita.

La celebrazione del 27 gennaio, in Italia più che altrove, ha costantemente ricevuto grande risonanza, attraverso scuole, enti, associazioni, che si sono fatti promotori di attivazione delle pratiche del ricordo. In Puglia, principale sponsor della Giornata della memoria è stata la rete laterziana dei Presìdi del libro che attraverso le scuole di ogni ordine e grado sparse sul territorio regionale, spesso in collaborazione con le più sensibili associazioni locali, attiva ogni anno svariate celebrazioni, che non si esauriscono in quel solo importante giorno ma abbracciano interamente il mese di gennaio e sconfinano in quello di febbraio, a volte con significative estensioni per tutto l’anno scolastico. Il libro in parola, realizzato con il sostegno del Comitato promotore dell’Unesco di Lecce, si apre con una significativa citazione di Jean Paul Sartre, tratta dall’opera L’antisemitismo.

Maurizio Nocera, noto e prolifico studioso salentino, scrittore, poeta ed alacre operatore culturale, ha voluto pubblicare questo libro, dalla copertina patinata e dalla elegante veste grafica, senza scopo commerciale, con la meritoria intenzione di distribuirlo gratuitamente agli studenti degli Istituti Superiori di secondo grado, destinatari privilegiati, come si diceva sopra, delle iniziative legate alla Sho’ah, un termine ebraico, tratto dalla Bibbia (Isaia 47, 11) che significa “distruzione”, passato ad indicare per estensione l’eccidio degli Ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale (abitualmente ma non del tutto propriamente definito “Olocausto”).

Nel libro viene ospitato un intervento del 1997 di Avram Goldstein Goren (1905-2005), magnate della finanza ebreo romeno e filantropo, vissuto fra la Palestina e l’Italia, testimone della Shoah, che usa parole semplici eppure emblematiche, togliendole dalle sue memorie di deportato pubblicate in due libri di grande successo. Segue poi un poemetto in versi liberi di Maurizio Nocera, dal titolo “Il demonio della morte ad Auschwitz”, di recente composizione.

Nel suo intervento Maurizio Nocera, anche segretario della sezione leccese dell’Anpi (Associazione nazionale partigiani italiani), ricorda come nella campagna di odio antisemita, la Shoah fu la punta più estrema della programmatica opera di sterminio del popolo ebreo voluta dalla mente criminale di Adolf Hitler. Cionondimeno, grandi furono le responsabilità del regime fascista italiano che seguì il dittatore tedesco nella sua dissennata politica, che sfociò nel progetto di pulizia etnica con l’Olocausto.

La più grande vergogna della politica fascista viene individuata da Nocera nelle leggi razziali promulgate nel 1938 e successivamente nella creazione anche in Italia dei campi di concentramento sul modello dei lager tedeschi. Di questi, il più tristemente noto è quello di Auschwitz-Birkenau, a nord di Cracovia, Polonia, dove vennero uccisi milioni di Ebrei, insieme a Rom e Sinti, e liberato dall’Armata Rossa il 27 gennaio del 1945. Questo giorno successivamente è diventato la Giornata della Memoria, istituito in Italia con una legge del 2000, recepita poi anche dall’Onu, che ha dichiarato il 27 gennaio Giornata mondiale della Memoria.

Questo impegno è stato promosso principalmente dall’Unesco, ovvero l’Organizzazione delle Nazioni Unite per la Scienza, l’Educazione e la Cultura, nata nel 1946 dalla volontà dei Ministri della Cultura dei Paesi alleati. Su questa organizzazione mondiale e sul suo impegno per la cooperazione e la pace nel mondo, si sofferma Pompeo Maritati nel suo intervento all’interno del libro. Lo stesso Maritati, presidente del club Unesco di Lecce, individua le cause di una immane tragedia come l’Olocausto, non solo nella precisa volontà del regime nazista, ma anche nella acquiescenza dei popoli europei, nella loro indifferenza di fronte ad una simile aberrazione. Ciò perché il regime totalitario aveva in qualche modo svuotato la coscienza della gente, fino ad annullare ogni capacità critica, non solo nel popolo minuto, nella massa degli illetterati, ma addirittura negli intellettuali, molti dei quali avallarono incredibilmente le deportazioni di massa e poi il genocidio. L’indifferenza, sostiene Maritati, seguendo le parole di Liliana Segre, fu mortale almeno quanto i lager e le camere a gas. Maritati sottolinea poi come, dopo la fine della guerra, nonostante il famoso processo di Norimberga, molti criminali nazisti la abbiano fatto franca, con la complicità dei governi nazionali, primo fra tutti il governo tedesco, che imbastì dei processi farsa, garantendo la sostanziale immunità dei colpevoli. Ciò che grida vendetta agli occhi del mondo, secondo Maritati, è proprio questa assenza della giustizia di fronte al genocidio degli ebrei e a chi lo operò. Ecco che il giorno della memoria serve allora non solo per ricordare quanto accadde e per commemorare le vittime del nazifascismo, ma anche per stimolare la riflessione e il pensiero critico delle nuove generazioni di fronte agli emergenti totalitarismi e alle persecuzioni che in forme diverse si perpetuano in svariate parti del mondo, a danno di indifese minoranze.

La seconda sezione del libro, “Voci nel vento”, è dedicata ai dipinti di Massimo Marangio, artista salentino che dipinge con la tecnica del bitume su tela. L’autore rappresenta l’inferno del lager nazista attraverso l’esposizione espressionista dei protagonisti di quell’orrore, le vittime della persecuzione, o più che altro, si potrebbe dire, dei loro corpi. Corpi nudi, emaciati, volti scarniti e magri, esili figure pallide che si muovono come fantasmi sul teatro di una tragedia infinita. Persone ed animali, esponenti di un’umanità dolente, deprivata, protagonisti anonimi popolano questi quadri, dalle rese cromatiche forti, e le immagini ci arrivano inquietanti, stranianti. I contorni sono sfumati, ci lasciano percepire solo una massa indistinta di condannati, morti viventi, a volte sotto lo sguardo vitreo dell’ufficiale nazista la cui macabra figura si staglia sulla turba dei senza volto. Massimo Marangio, che insegna presso il Liceo Artistico Ciardo- Pellegrino di Lecce, ha esposto nelle maggiori fiere nazionali ed è originario di San Pietro Vernotico, il paese di Domenico Modugno, al quale ha anche dedicato una mostra nel 2018, “Dipinti pensati su Domenico Modugno e Pierpaolo Pasolini”, curata proprio da Maurizio Nocera. La ricerca storica è alla base delle sue pitture, come si può evincere dai titoli delle varie personali (basti citare, fra le altre: “Balconi a Oriente”, “Testimoni del tempo” “I luoghi della Taranta”, “Arie crepuscolari”). Marangio è un pittore impegnato che non esita a scegliere tematiche di carattere sociale nelle sue opere. Emblematica è questa, presente nel libro, sebbene priva di didascalie e di qualsiasi commento; forse, nell’intenzione dei proponenti, per lasciare che siano le immagini a parlare da sé. Il messaggio arriva forte e chiaro. Ed assolutamente consigliabile è la lettura del libro.

Gli Scolopi a Francavilla Fontana

Chiesa di San Sebastiano (XVIII secolo) (tutte le foto sono dell’Autore)

 

di Mirko Belfiore

Terra di Francavilla, seconda metà del XVII secolo. Giunge in città uno sparuto gruppo di religiosi dell’ordine dei chierici regolari poveri della Madre di Dio, più comunemente conosciuti come i Padri delle scuole pie o ancora più semplicemente come: gli Scolopi.

Cosa portano? Portano una piccola-grande rivoluzione per uno degli insediamenti della terra di Brindisi fra i più dinamici per numero e attività economiche. La prova tangibile di questo evento è ancora oggi riscontrabile lungo l’antico itinerario urbano che da piazza Umberto I conduce verso la chiesa dei Padri cappuccini (Corso Garibaldi): un complesso monastico che comprende l’antico tempio dedicato a San Sebastiano e l’attigua struttura conventuale, dove oggi trova sede la scuola “Vitaliano Bilotta”.

Questa congregazione nacque per iniziativa dello spagnolo Giuseppe Calasanzio (1558-1648) a Roma e nel 1597, sulla grande spinta di rinnovamento che la Chiesa cattolica, sconvolta dai subbugli della Riforma protestante, dovette autoimporsi dalla seconda metà del XVI secolo. Oggi come allora, la contraddistingue uno spirito profondamente cristiano, dove alla massima benedettina: ora et labora e alla visione di una società più democratica ed egualitaria, si unisce la volontà di superare le distinzioni di ceto grazie all’ausilio del mezzo pedagogico per eccellenza: la scuola. Attraverso l’uso di un manifesto formativo nuovo e moderno, costruito ad hoc secondo le attitudini/inclinazioni dello studente, si arriva a un più rapido avvicendamento verso il mondo del lavoro e della società civile.

Quale era il fine di tutto ciò? La volontà era quella di sviluppare un vero e proprio moto di rinnovamento sociale all’interno di una società rigida e complessa come quella seicentesca. Alla luce di questi presupposti, ben si comprende il motivo del perché la famiglia al potere in città, gli Imperiali, decise di esporsi con convinzione in favore degli Scolopi. Il modus operandi dei padri ben si confaceva con il programma istituzionale di intervento che la dinastia intraprese sulla propria cittadinanza, volto a raggiungere il benessere della comunità anche tramite un’evoluzione del contesto sociale. Da non sottovalutare inoltre, di come tutta questa formazione possa aver influito positivamente sull’iniziativa privata di alcune fasce della popolazione, una simbiosi operativa e ideologica: potere feudale – potere religioso – popolazione, da tenere presente nello studio del contesto economico locale.

2 Particolare dello stemma di Casa Imperiali

 

L’intero progetto architettonico venne finanziato dall’Universitas, dalla comunità francavillese e dai Padri delle scuole pie, insieme alle donazioni di Casa Imperiali. Molti furono i membri del gruppo famigliare che parteciparono al progetto e in particolare Don Andrea Imperiali, secondo Principe di Francavilla e primo promotore, il quale una volta morto (25 settembre 1678) dispose l’assegnazione di un legato e la vendita di alcune proprietà. Le disposizioni del nobiluomo vennero messe in atto dalle principesse Brigida e Pellina Grimaldi, rispettivamente madre e moglie, a cui si aggiunse l’apporto del potente fratello Giuseppe Renato Imperiali, allora chierico della Camera Apostolica e futuro Cardinale, il quale incrementò di cinquecento ducati il patrimonio degli Scolopi. Ottenuto il consenso dalla Sede Apostolica (11 settembre 1681), l’Universitas accordò il suo beneplacito agli Scolopi.

Particolari emergono da un atto del 20 gennaio 1682, rogato dal notaio Leonardo Antonio D’Ambrosio di Latiano, il quale ci riporta che i membri dell’ordine giunsero in città: …in numero sei e che scelsero come loro sede il tempio religioso dedicato a San Sebastiano, allora gestito dai pochi sacerdoti rimasti della regola di San Filippo Neri.

Nella veduta del 1643, l’antico sito religioso occupato dai filippini ben si evince nei suoi contorni e grazie alla relazione della visita pastorale del 1565 (Arcivescovo di Brindisi e Oria, Giovanni Carlo Bovio), sappiamo di come la cappella fosse di piccole dimensioni e adornata solo di alcuni altari. Una volta entrati in possesso del plesso, i padri controriformati si impegnarono da subito nell’esecuzione di considerevoli lavori di ampliamento, abbattendo le preesistenze e edificando una nuova chiesa con annesso collegio. Non a caso, il sito divenne un tassello importante del rinnovamento urbano intrapreso dalla famiglia feudale, volto a riordinare il reticolato cittadino in espansione fuori dalle antiche mura del Quattrocento.

3 Lapide che attesta la posa della prima pietra (1696)

 

I lavori iniziarono nel 1696, come attesta una lapide posta sul lato destro esterno della Chiesa: “Funditus erecta / Primo lapide solemniter / benedictu / Die XX Oct. MDCXCVI /”, e durarono fino ai primi anni del XVIII secolo. Ciò ci è testimoniato da varie fonti: dall’abate-viaggiatore Pacichelli che nel 1703 annotò nella sua relazione: …che ancora sontuosamente si stanno fabbricando, dalla Platea del Collegio riferibile agli anni 1682-1710 e dal Libro Maggiore del 1735, dove sono numerose le annotazioni riferibili alle spese sostenute per la fabbrica, senza dimenticare il Palumbo, il quale afferma che nel 1728 fu ultimata la cupola. L’architetto che progettò la chiesa di San Sebastiano fu con certezza fra’ Benedetto Margherita di San Nicolò, ispettore del cantiere dal 1710 al 1723, insigne architetto dell’ordine scolopico e uomo molto stimato dagli Imperiali che lo impiegarono in altri feudi.

Come si presenta l’edificio? La considerevole mole campeggia in un ampio slargo e in facciata mostra forme e linee di chiara matrice barocca: due ordini sovrapposti suddivisi in tre sezioni, finte colonne che poggiano su capitelli dorici, architravi decorati con motivi geometrici, alcune nicchie vuote e un campanile a vela con due monofore contenenti fino a qualche tempo fa le due grandi campane fuse a Gallipoli nel 1747.

4 cupola con decorazione a tasselli

 

La prima evidenza artistica di questo complesso architettonico è sicuramente rappresentata dalla grande cupola, imponente per altezza e diametro, e finemente decorata da una copertura a mosaico costituita da tessere invetriate policrome, che una volta riflessa la luce solare restituiscono quell’incredibile tavolozza di colori dalle nuances brillanti e vivaci, all’epoca vero elemento di novità sia a Francavilla quanto nel territorio salentino.

5 volta con decorazione a stucco

 

L’impianto della chiesa è a navata unica ed è fiancheggiata da tre cappelle per lato inserite entro archi a tutto sesto. Appena superato l’ingresso, si è sopravanzati da una massiccia cantoria contenente uno splendido organo settecentesco, mentre l’abbondanza di luce che filtra dalle finestre delle lunette, illumina l’enorme spazio suddiviso fra l’atrio, l’aula assembleare e la considerevole altezza della cupola. Tutta la superfice è costellata da una decorazione a stucco fitta ma leggera, che coinvolge tutti gli elementi architettonici presenti, ed è esaltata al massimo nei particolari dei due altari dedicati a San Gaetano e a San Elzeario, commissionati dalla succitata Brigida Grimaldi e dalla nobildonna Irene Delfina di Simeana, moglie di Michele III, a sua volta figlio di Andrea I.

6 Altare di San Gaetano Thiene e di sant’Elzeario vescovo (XVIII secolo)

 

Qui esplode la bellezza della manifattura di matrice leccese, quel barocco “esagerato” che ha fatto scuola lungo tutto il territorio pugliese. Le committenze sono attestate dalla presenza dei grandi araldi della famiglia Imperiali, posti sulle arcate dalle cappelle, e dai cartigli marmorei riportanti le epigrafi dedicatorie, dolcemente sostenuti da teneri puttini in stucco. Assistiamo a un incontrollabile esuberanza di decorazioni, fregi e motivi in pietra, i quali con continuità ricoprono copiosamente tutta la superficie degli altari e delle imponenti colonne tortili, con dettagli ripresi sia dal mondo floreale quanto da quello animale, mentre in tutta la loro tenerezza dolci volti dall’aspetto umano fanno capolino dalle sculture in rilievo.

7 Epigrafi dedicatorie che testimoniano le committenze delle principesse Brigida Spinola e Irene Delfina di Simeana (XVIII secolo)

 

8 Particolare della decorazione a rilievo

 

Il patrimonio pittorico della chiesa, seppur in chiave locale, non sfigura al confronto con il resto dell’edificio. Nomi importanti della cultura artistica brindisina e tarantina hanno partecipato all’arricchimento decorativo: la bottega dei Bianchi di Manduria con Diego Oronzo, lavora alle due tele degli altari dove sono raffigurate la Vergine ed il Bambino con san Gaetano da Thiene e la Vergine con i santi Elzeario de Sabran e la beata Delphine de Signe, a cui va aggiunta la tela raffigurante la Madonna col Bambino tra i santi Francesco da Paola e Filippo Neri, risalente al 1723 e un tempo collocata sul lato destro del presbiterio della chiesa. Questa bottega, insieme a quella dei Delli Guanti e del Carella, di cui qui ritroviamo conservate alcune opere, concorrono a rappresentare quel crogiolo di artisti che andò a vivacizzarsi grazie al mecenatismo di Casa Imperiali.

9 Altare di san Roberto con paliotto in legno dipinto

 

Da evidenziare alcuni piccoli gioielli di manifattura leccese come il gruppo scultoreo in cartapesta policroma denominata “la Visitazione” o “la Matonna a doe”, recanti le raffigurazioni statuarie di Maria e di Santa Elisabetta entrambe incinte, o l’altare in legno della cappella dedicata a San Roberto costituto da assi orizzontali dipinte con pregevoli decorazioni a rilievo.

10 la Visitazione con Maria e santa Elisabetta (Ditta De Pascalis e Manzo, gruppo scultoreo policromo in cartapesta, 1892, Francavilla Fontana)

 

11 Madonna col Bambino tra i santi Francesco da Paola e Filippo Neri (Domenico Antonio Carella, XVIII secolo, olio su tela, Francavilla Fontana)

 

Accanto alla chiesa si estende l’ex collegio delle Scuole Pie, struttura che nella sua storia poté fregiarsi della concessione del titolo di Real Collegio Ferdinandeo (6 luglio 1841), all’epoca un vanto per la città, e da cui emersero figure illustri come il Beato Pompilio M. Pirrotta e il Beato Bartolo Longo. Ci troviamo davanti a un edificio a due piani con forma quadrangolare che insieme alla chiesa occupa tutto l’isolato compreso fra via Simeana e via Crispi e che emerge dal contesto per le linee compatte ed eleganti. Gli interni si articolano lungo un corridoio continuo voltato a botte e terminano con la scala d’ingresso principale, costituita da tre rampe e caratterizzata da una inconsueta forma a U.

12 Portale collegio scolopico, particolare del trittico di stemmi (famiglia Imperiali-Grimaldi, Padri Scolopi, Universitas di Francavilla)

 

In facciata si posiziona l’imponente portale a tutto sesto con stipiti a bugnato, sormontato da un trittico di stemmi in pietra, sintesi perfetta di chi in questo progetto ha avuto parte attiva: le famiglie Imperiali e Grimaldi, l’ordine degli Scolopi e infine la città di Francavilla. Un connubio fra potere religioso e potere pubblico, oggi come allora unici custodi di un pezzo di storia a cui è legata un’importante pagina della memoria collettiva e per cui ci si aspetta un destino ben diverso da quello attuale fatto di abbandono e degrado, dove ancora oggi rimangono come assoluti protagonisti sia l’asfissiante burocrazia che la totale mancanza di idee.

13 visuale interna della cupola

 

DOCUMENTI D’ARCHIVIO

A.S.B., Platea degli Scolopi, 1687-1711 e vari Atti Notarili.

A.D.O., Francavilla, aa. 1681-1932, Scuole Pie, permute, cartella 98. I. “della eretione del convento degli Scolopi di Francavilla”.

 

BIBLIOGRAFIA

Balestra D., Gli Imperiali di Francavilla. Ascesa di una famiglia genovese in età moderna, Edipuglia, Bari 2017.

Camarda D., La cultura in Francavilla al tempo degli Scolopi, Locopress, Mesagne 2010.

Basile V., Gli Imperiali in terra d’Otranto. Architettura e trasformazione urbane a Manduria, Francavilla Fontana e Oria tra XVI e XVIII secolo, Congedo editore, Galatina 2008.

Galasso G., Storia del Regno di Napoli, Utet edizioni, Vol. II, Torino 2008.

Cremona C., Giuseppe Calasanzio. Vita avventurosa del santo inventore della scuola per tutti, Piemme edizioni Mondadori, Milano 2000.

Pacichelli G.B., Del Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodici province, Parrino e Muzio, Napoli 1703, ristampa anastatica a cura di R. Jurlaro, Forni, Bologna 1999.

Tosti O., L’opera dei nostri fratelli operai nella progettazione e costruzione delle antiche case e chiese scolopiche, in “Archivum Scholarum Piarum”, XVI, Roma 1991.

Poso R. – Clavica F., Francavilla Fontana. Architettura e Immagini, Congedo editore, Galatina 1990.

Visceglia M.A., Territorio Feudo e Potere Locale, Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età Moderna, Coll. L’altra Europa, Guida Editore, Napoli 1988.

Martucci G., Carte topografiche di Francavilla Fontana, Oria e Casalnuovo del 1643 e documenti cartografici del principato Imperiali del secolo XVII, S.E.F., Francavilla Fontana 1986.

D’Elia M., La pittura barocca, in “La Puglia fra Barocco e Rococò”, collana “Civiltà e Cultura di Puglia”, Vol. IV, Mondadori Electa, Milano 1983.

Pasculli Ferrara M., Arte napoletana in Puglia dal XVI al XVIII secolo, Schena editore, Fasano 1983.

Argentina F., Il Real Collegio Ferdinandeo di Francavilla F. (1678-1867), “Annali storici Pugliesi”, IV, 1951, fasc. II, pp. 3-7.

Palumbo P., Storia di Francavilla Fontana, Lecce 1869, ristampa anastatica, ed. Arnaldo Forni, Bari 1901.

Libri| I Santi protettori – Tra storia e racconti

Sbarca nelle librerie una nuova uscita editoriale fresca di questi giorni, si tratta de “I Santi Protettori – Tra Storia e Racconti”, per le edizioni Comunic@re.
Con questo lavoro che vede, tra l’altro, l’esordio del sopra indicato centro culturale jonico come editore, siamo in presenza di un connubio tra due scrittori Arcangelo Conzo e Floriano Cartanì.
Entrambi poliedrici, i due autori si sono incontrati in questa spontanea quanto interessante collaborazione che, alla fine, ha portato a concretizzare nei fatti un loro progetto iniziale.
Nel testo del libro, che vede la cura di Salvatore Conte, è possibile rivivere vari racconti romanzati su alcuni santi, di cui vi è traccia devozionale nel complesso parrocchiale di Carosino. Nell’occasione, inoltre, si è dovuto dare necessariamente spazio anche a una leggere agiografia sulle memorie storiche di tali santi. Quest’ultime, in definitiva, vengono a loro volta usate come prologo ai racconti di che trattasi, insieme a interessanti fotografie di statue che li ritraggono.
Cultura, Scrittura e Arte, si sono quindi unite a rappresentare  non un mero devozionismo  ma una sincera forma di religiosità popolare. E’ infatti noto come dalle parti del Meridione d’Italia e soprattutto della nostra Terra d’Otranto, la venerazione verso i santi è stata spesso accompagnata, oltre che dalla loro memoria classica, anche da racconti popolari e persino da proverbi o piatti di cucina, tanto per fare alcuni esempi.
Insomma, a dirla veramente tutta, la tradizione storica sulla vita dei santi e soprattutto sul loro agire nel quotidiano delle persone, appare quasi sempre essere seguita da una miriade di racconti non sempre effettivamente prodigiosi, ma agli stessi in qualche modo collegati dalla “semplicità” popolare.
Vicende, come si può ben notare nel libro “I Santi Protettori – Tra Storia e Racconti”, che finiscono comunque e inevitabilmente per alimentare la sempreverde cosiddetta vox populi la quale, in certi casi giustifica in altri esalta addirittura, un qualsivoglia evento apparentemente inspiegabile che sembra avere del “soprannaturale”. La Chiesa, da questo punto di vista, continua ad essere assai vigilante.
Inoltre, come suggeriscono metaforicamente gli stessi autori, le persone in generale hanno sempre avuto sete d’infinito nel proprio animo. Ad alcuni è stata fornita un’illuminazione laica ad altri una fede profonda e matura. In entrambi i casi nel testo di questo libro, è stato convenuto alla fine di recuperare la solidarietà tra le persone, molto spesso attraversata da una dimensione religiosa e comunitaria allo stesso tempo.
Sono proprio queste le circostanze prese in considerazione da Arcangelo Conzo e Floriano Cartanì nell’elaborazione del libro “I Santi Protettori – Tra Storia e Racconti” il quale, come sottolineano gli stessi autori, tutto è tranne un mini trattato storico-agiografico né, tantomeno, teologico.

Libri| El italiano, di Arturo Pérez-Reverte

EL ITALIANO’ il romanzo storico dello scrittore spagnolo Arturo Pérez-Reverte che racconta con estro gli attacchi a Gibilterra condotti dai ‘Siluri a Lenta Corsa’ discendenti diretti di quei MAS che da Brindisi avevano iniziato la loro serie di successi strepitosi

di Gianfranco Perri

L’anno scorso a settembre ero di nuovo a Madrid, mese perfetto per un soggiorno che definir piacevole sarebbe probabilmente riduttivo. Lo scorso anno poi, grazie – si fa per dire – alla pandemia, il settembre ‘madrilegno’ si è arricchito di un evento generalmente destinato a svolgersi in primavera: la fiera del libro, giunta per l’occasione alla sua ottantesima edizione. Un evento culturalmente – e non solo – importantissimo per la voluminosa e prestigiosa letteratura spagnola, anzi di lingua spagnola, comprendente quindi anche tutta quella, per molti versi interessante, sudamericana. L’anno scorso, nonostante la pandemia, allestita nel magnifico scenario offerto dal ‘Parque El retiro’ ha contato con 320 stands – tra editori, librai, distributori e istituzioni – e si è svolta durante diciassette giorni: dal 10 al 26 settembre, accogliendo l’incredibile numero di 380.000 visitatori, in media più di 22.000 al giorno.

Ebbene, inevitabile – finanche per un visitante distratto – notare, già ai primissimi approcci con gli stands, la presenza discreta ma insistente di un libro dal titolo, per essere in Spagna, un po’ insolito, dalla copertina in bianconero, anzi in bruno-bianconero, con in primo piano una figura d’uomo vestito da palombaro camminando con l’acqua alle ginocchia tenendo la maschera con la mano sinistra e in atteggiamento tra l’assorto e il preoccupato, ma comunque tranquillo e sicuro di sé. Il titolo del libro? «El italiano» di Arturo Pérez-Reverte.

Con quel titolo, naturalmente, non poteva che richiamare d’immediato tutta la mia attenzione, e così, già al secondo stand lo stavo sfogliando, e già al terzo stand lo stavo comprando:

«Ultimi giorni del 1942: Elena, libraia ventisettenne, mentre all’alba passeggia sulla spiaggia vicina alla sua casa in Algeciras – sulla costa spagnola di fronte allo sperone di Gibilterra – s’imbatte nella figura evanescente d’un uomo giovane riverso tra la sabbia e l’acqua, indossando una muta da sommozzatore e dall’inoccultabile espressione ancora svanita. Più o meno conscia di quel che quell’uomo possa essere e possa rappresentare, lo soccorre, ignorando che quella determinazione cambierà la sua vita e che l’amore sarà solo parte di un’avventura molto pericolosa…»

Ovviamente, ho da subito inteso di cosa si parlava; troppi e molto chiari gli indizi in quelle poche righe che, infatti, così proseguivano: «’El italiano’ relata una impressionante storia di amore, mare e guerra. Negli anni 1942 e 1943, durante la Seconda guerra mondiale, incursori subacquei italiani, con una serie di missioni affondarono o danneggiarono seriamente ben quattordici mezzi navali alleati presenti nella base navale di Gibilterra nella baia di Algeciras. In questo romanzo, ispirato a fatti realmente accaduti, sono immaginari solamente alcuni dei personaggi così come alcune delle situazioni.»

Il romanzo – di uno scrittore già di fama notevole in Spagna e già autore di altri numerosi romanzi storici di successo – con le sue quattrocento pagine, lette quasi tutto d’un fiato, mi è piaciuto molto e spero possa essere presto editato anche in lingua italiana affinché molti altri italiani possano, ne son certo, apprezzarlo. È anche il caso di segnalare che ‘El italiano’ è stato il libro più venduto tra le migliaia di libri presenti nella Fiera del libro di Madrid 2021.

Arturo Pérez-Reverte è nato a Cartagena, in Spagna, a fine 1951. È stato giornalista di guerra per più di vent’anni, coprendo da reporter numerosi conflitti armati in Africa, America ed Europa, per giornali, radio e televisione. A Cipro, in Libano, in Eritrea, nel Sahara, alle Falkland, in El Salvador, in Nicaragua, in Ciad, in Libia, in Sudan, in Mozambico, in Angola, nel Golfo, in Tunisia, in Romania, in Croazia e in Bosnia. Con oltre venti milioni di lettori in tutto il mondo, alcuni dei suoi romanzi sono anche stati trasformati in film. I suoi numerosi titoli permangono presenti sugli scaffali bestseller delle librerie, anche oltre i confini spagnoli. Ha ricevuto infatti importanti riconoscimenti letterari internazionali ed è stato tradotto in più di 40 lingue. Oggi si dedica esclusivamente alla letteratura e condivide la sua vita tra letteratura, mare e navigazione: le sue passioni.

Ma torniamo a “El italiano” e facciamolo con parole dell’autore, con alcune delle cose dette in occasione della presentazione di questo suo ultimo romanzo, il 21 settembre 2021, proprio a Gibilterra, sullo scenario del libro, quello di un dramma quasi incredibile e pur verissimo.

« Quando avevo undici anni, mio padre mi portò al cinema a vedere ‘I due nemici’ con David Niven e Alberto Sordi. E all’uscita mi disse: “Non credere che gli italiani fossero tutti come Alberto Sordi nel film; hanno fatto anche cose molto coraggiose” e mi raccontò della X Mas. Perciò ho da sempre voluto scrivere quella storia e così ho continuato per anni ad accumulare documentazione ed ho anche visto qualche “maiale” nei musei di Venezia e La Spezia. Il romanzo è andato maturando per anni nella mia testa, perché un romanziere è ciò che legge, ciò che ricorda e ciò che immagina. Tra le mie letture sull’argomento, il classico ‘Suicide Ships’ di Luis de la Sierra, e i più moderni ‘Le scorribande della Decima flottiglia Mas’ e ‘Platea’ di Esteban Pérez Bolívar. Ricordo anche il film ‘The Silent enemy’ di William Fairchild. E ricordo bene il vecchio coltello di un sommozzatore italiano che un amico giornalista di Gibilterra, Eddie Campello – sì, lo stesso nome che compare nel romanzo – una volta mi mostrò…»

Poi, segnalando verso ovest, verso il mare e Algeciras: « Ecco da dove vennero, nel secondo molo che da qui si può vedere in lontananza era ancorata l’Olterra, il cavallo di Troia, la nave mercantile italiana presumibilmente in riparazione che nascondeva la base dei “maiali” e da cui attraverso una botola partì il gruppo dell’Orsa Maggiore per andare all’attacco. Vennero con i loro siluri come fossero sedili, con l’acqua fino al petto, e quando raggiunsero il varco si immersero per superare le reti di difesa per poi attaccare e affondare alcune delle navi ormeggiate. Immaginate come deve essere stato attraversare quello spazio di mare sporco e pericoloso, di notte, con il freddo e con il nemico in guardia. Bisognava essere di pasta molto speciale – e fu il loro grande vantaggio – per poter fare quelle cose che gli inglesi non si potevano nemmeno immaginare. A Gibilterra affondarono ben quattordici navi alleate e alcuni di quei sommozzatori d’assalto italiani rimasero uccisi. Ebbene, tutto questo è ciò che io ho voluto tradurre in romanzo. Però, le azioni condotte e le circostanze narrate, gli episodi storici raccontati insomma, sono stati la realtà (*). Una realtà così spettacolare da lasciare ognuno stupefatto e, infatti, il mio romanzo è stato anche frutto del mio stupore…

Laggiù c’è anche la spiaggia dove all’inizio della storia, la protagonista – Elena Arbués – trova il sommozzatore – il sottufficiale italiano Teseo Lombardi – steso sulla sabbia: una donna sulla spiaggia, un uomo esausto in tuta di gomma restituito dal mare e una nave in fiamme in lontananza. Elena, donna di grande cultura classica, ha una libreria che si chiama Circe; Teseo, non è il tipico eroe che ha sangue sulle unghie e nella sua memoria, ma, invece, è primitivo, puro, non malevolo, persino ingenuo, non parla e non legge. Ed è, infatti, proprio la protagonista, col suo sguardo allenato alla lettura, in Omero, in Tucidide, in Senofonte, in Virgilio, che fa di lui un eroe. Ed alla fine, lei sarà più audace, eroica, avventurosa di lui…

Nel mio romanzo c’è il Mediterraneo come patria culturale, il luogo da cui provengono gli eroi che son rimasti ben saldi nella nostra testa. La mia storia è un omaggio al Mediterraneo classico, alla cultura della memoria del nostro mare, e una rivendicazione di tutti quegli eroi. Un atto di giustizia per ridare dignità a quegli audaci sommozzatori della X Mas e, per inciso, ai combattenti italiani della seconda guerra mondiale, spesso vituperati e ingiustamente sottovalutati, specialmente dagli anglosassoni, E poi c’è Gibilterra, un confine, e le cose importanti succedono ai confini, dove si trova sempre una grande ricchezza di personaggi e di situazioni, un palinsesto di tante storie ed imprese umane.»

Così, invece, il giornalista Jacinto Antón del quotidiano El Pais intitolò quella presentazione: «Arturo Pérez-Reverte s’immerge con una storia d’amore nella grande avventura dei sommozzatori italiani della seconda guerra mondiale: ‘El italiano’ un romanzo sugli audaci attacchi dei siluri guidati dagli uomini della Decima Flottiglia Mas alla base britannica di Gibilterra. Le gesta belliche dei mitici incursori della X Mas del principe nero Junio Valerio Borghese, un’élite di nuotatori d’assalto, antecedenti italiani dei ‘navy seals americani’ che, cavalcando i loro instabili e pericolosi “maiali” – come chiamavano i loro mezzi di trasporto, le loro armi, i “Siluri a Lenta Corsa” – s’infiltrarono più volte nei porti britannici del Mediterraneo ed affondarono le navi da guerra alleate. Missioni quasi suicide che suscitarono lodi da parte dello stesso Churchill e l’invidia dei tedeschi. Gli attacchi ad Alessandria, a Creta, a Malta e a Gibilterra, rivendicarono per sempre, nonostante i luoghi comuni, gli italiani come guerrieri di prima classe.»

Lo scrittore spagnolo Arturo Pérez-Reverte, che non disdegna certo la sana polemica, ha anche voluto cogliere l’occasione della presentazione di questo suo recente romanzo per deplorare “la terribile tendenza molto spagnola a non riconoscere il valore dei nemici politici”. Sottolineando in proposito, che “si può riconoscere che Franco è stato un coraggioso comandante della Legione, senza con ciò dover  negare che fosse un sinistro dittatore”.

In Italia, invece, da parte di alcuni si fa anche di peggio: si ha la tendenza a non riconoscere il valore, e finanche a nascondere l’eroismo, di uomini “aprioristicamente e subdolamente” supposti essere nemici “ideologici” sol perché agirono in uniforme militare, durante un periodo storico in cui lo Stato di turno meritò poi di essere esecrato. E gli esempli sono tanti. Non ancora proprio una ‘italian cancel culture’, quanto una specie di ‘damnatio memoriae’.

Arturo Pérez-Reverte: sullo sfondo la baia di Algeciras

 

La motonave “Olterra”

 

L’incursore “Gamma”

 

Due incursori su un SLC

 

 

Dal romanzo alla realtà

Anche se, come del resto è normale e giusto che sia, l’autore ha introdotto alcuni elementi e personaggi immaginari nel suo racconto – “con la certezza che, paradossalmente, la finzione permette penetrare ancor più nell’accaduto che il semplice relato dei fatti” – la realtà storica delle vicende di questo romanzo non è certo rimasta mistificata, anzi, tutt’altro. Le missioni degli intrepidi sommozzatori italiani della X Mas condotte contro la base britannica di Gibilterra furono parecchie, nove per l’esattezza, alcune di esse con esito positivo altre negativo, alcune con caduti e prigionieri altre senza soffrire perdite. Ebbene, furono le ultime tre – la B.G.5 la B.G.6 e la B.G.7 – quelle che, partite dalle viscere della motonave Olterra, se pur intrecciate in una specie di compendio, fanno da sottofondo alle pagine di ‘El italiano’. La B.G.5 fu eseguita nella notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1942 da sei incursori su tre Siluri a Lenta Corsa – SLC – al comando del Tenente di Vascello Licio Visintini, capo di quella Squadriglia dell’Orsa Maggiore da lui stesso ideata e meticolosamente addestrata al riparo della motonave Olterra da cui partirono i tre “maiali” alla volta della rocca: fu quella la prima,  e l’unica con esito negativo e tragico, delle tre operazioni intraprese dall’Olterra. Seguirono le altre due missioni, condotte rispettivamente l’8 maggio e il 4 agosto 1943, entrambe con tre SLC e con esito positivo: rientro indenne dei rispettivi sei incursori e tre obiettivi colpiti ogni volta per un totale di 42.782 tonnellate di navi nemiche affondate.

Discendenti in primo grado dalla Torpedine Semovente Rossetti, nota come “mignatta” a sua volta variante dei famosi MAS, gli SLC – Siluri a Lenta Corsa – più popolarmente chiamati “maiali”, durante la seconda guerra mondiale portarono a segno numerose azioni contro la flotta alleata, penetrando nelle più importanti basi navali nemiche, strategicamente ubicate nel Mediterraneo. Seguendo quindi le orme di quei MAS che già nella prima guerra mondiale si erano superati in valore e gloria, attaccando e abbattendo la potente flotta austro-ungarica schierata nell’Adriatico, fino ad affondarne anche la nave ammiraglia, la corazzata Szent István il 10 giugno 1918 nell’impresa di Premuda al comando di Luigi Rizzo.

MAS che avevano già portato a segno numerose azioni vincenti: le prime, il 7 e il 26 giugno 1916 con i MAS 5 e 7, che partendo dalla loro base di Brindisi, al comando di Vincenzo Berardinelli e Gennaro Pagano di Melito, penetrarono la rada di Durazzo, affondando il piroscafi austriaci Lokrum e Sarajevo. Poi, nell’Alto Adriatico, nel dicembre del 1917 i MAS 9 e 13, al comando di Luigi Rizzo e Andrea Ferrarini, affondarono nella rada di Trieste la corazzata austro-ungarica Wien e danneggiarono la Budapest. Nella notte tra il 10 e l’11 febbraio 1918, i tre MAS 94, 95 e 96, con Luigi Rizzo Costanzo Ciano e Gabriele D’Annunzio, penetrarono nella baia di Buccari, a sud di Trieste, per eseguire quella che doveva essere ricordata come la ‘Beffa di Buccari’. Il 13 maggio 1918, di nuovo dalla base di Brindisi, i MAS 99 e 100 comandati da Pagano e Mario Azzi, affondarono il piroscafo austriaco Bregenz. La “mignatta” di Raffaele Rossetti, infine, penetrata al suo comando nel porto di Pola, il 1º novembre 1918 avrebbe affondato la corazzata austriaca Viribus Unitis.

Il Siluro a Lenta Corsa fu ideato dal maggiore Teseo Tesei assieme  al maggiore Elios Toschi: un mezzo subacqueo – prototipo 1936 – che trasportava una carica esplosiva da oltre 200 Kg, in grado di muoversi sottacqua portando a cavallo due operatori subacquei che lo guidavano. Il primo reparto nella Marina militare italiana denominato “Comando dei mezzi d’assalto” venne costituito a La Spezia nel 1938 e il 1º luglio 1939, al comando del capitano di fregata Paolo Aloisi, fu costituita la I Flottiglia MAS il cui nominativo nel 1941 fu cambiato in X Flottiglia MAS. Il sommergibile Ametista, al comando del tenente di vascello Junio Valerio Borghese, venne destinato come trasportatore dei “maiali” inquadrati nella I Flottiglia MAS.

Attacco alla base di Gibilterra

 

Nella base britannica di Gibilterra, all’inizio di dicembre 1942, erano entrate un buon numero di unità della rinnovata squadra navale inglese. Gli Inglesi perciò, erano all’erta e, forti delle conoscenze acquisite sulle metodiche di attacco degli italiani, avevano potenziato le difese nel tentativo di impedire il minareto delle navi. Le reti a protezione del porto e delle navi erano state rafforzate impiegando delle ostruzioni che avevano un lungo imbando che si distendeva sul fondo, esse variavano nel numero, ma non erano mai inferiori a tre e la loro apertura non avveniva mai contemporaneamente. Inoltre, cariche esplosive subacquee venivano lanciate ad intervalli di circa dieci minuti. Riflettori posizionati in punti strategici illuminavano a giorno lo specchio d’acqua interessato. E il tenente di vascello Licio Visintini, comandante della “Squadriglia dell’Orsa Maggiore”, sapeva tutto questo grazie ad un osservatorio sistemato dietro ad un oblò dell’Olterra, da cui, con cronometrica assiduità, spiava tutto ciò che avveniva nella baia e nel porto di fronte, per così imparare le abitudini dei nemici.

I tre equipaggi uscirono con ritardo e separati tra loro per cause banali e per piccole avarie. La coppia Visintini-Magro uscì alle 23.15, procedendo verso le ostruzioni battute dal fascio dei proiettori e sotto gli schianti delle bombe di profondità, lanciate a brevissimi intervalli. Giunse alle ostruzioni e le superò. Un rapporto britannico, diretto all’ufficio storico, riferisce: una coppia entrò nel porto, ma poi perì in seguito ad attacchi di bombe di profondità. Non poteva che essere la coppia Visintini-Magro. La seconda coppia, Manisco-Varini, uscì alle 24.15 e, sempre secondo il rapporto britannico, fu avvistata da una sentinella, illuminata e attaccata dai colpi di un cannone e di bombe di profondità. I due incursori furono recuperati da una nave mercantile e quindi fatti prigionieri. Interrogati i prigionieri, gli inglesi ritennero che fossero giunti con il sommergibile Ambra. La terza coppia, Cella-Leone, anch’essi attardati per alcune avarie, uscirono dall’Olterra alle 01.40, quando l’allarme era già scattato. Solo Cella riuscì a rientrare alla base, mentre andò perso il suo secondo, probabilmente ucciso da una carica, dopo essere stato sbalzato fuori dal seggiolino del suo SLC.

Le operazioni B.G.6 e B.G.7 furono comandate entrambe dal Tenente Ernesto Notari e gli altri cinque incursori partecipanti furono: Vittorio Cella – l’unico che era rientrato dalla B.G.5 – Camillo Tadini, Eusebio Montalenti, Salvatore Mattera e Ario Lazzari – sostituito nella B.G.7 da Andrea Gianoli.

In conclusione, alcune cifre, aride come inevitabilmente lo sono tutte le cifre, ma che in questo caso rendono chiaramente l’idea di quello che, per l’Italia e in particolare per la marina italiana nella seconda guerra mondiale, rappresentarono gli incursori della X Squadriglia Mas e di quale fu il loro professionalismo, il loro coraggio e la loro eroicità:

« I poco più di 200 uomini che servivano nei mezzi d’assalto subacquei e di superficie, affondarono il 38% del naviglio militare nemico distrutto dalla nostra marina militare nella seconda guerra mondiale, ed il 15% di quello mercantile. E ciò avvenne – in numerosi scenari tra cui, Gibilterra, Suda, Malta e Alessandria d’Egitto – con atti di grande valore che furono riconosciuti anche dagli avversari, in particolare dal Primo ministro Winston Churchill nella Camera dei Comuni di quella coraggiosa nazione, che ci fu avversaria, di Gran Bretagna…» [Dal discorso del presidente della Repubblica Francesco Cossiga a La Spezia, 9 giugno 1991]

Più precisamente, furono colpiti mezzi navali nemici per più di 200.000 tonnellate tra cui due navi da battaglia, due incrociatori e un cacciatorpediniere. Furono effettuate 38 operazioni d’assalto e furono impiegati 238 uomini: 20 caduti, 53 prigionieri e 165 rientrati incolumi. Furono assegnate in totale, alcune volte allo stesso militare partecipante a operazioni diverse, 200 medaglie: 50 di bronzo, 117 d’Argento e ben 33 Medaglie d’Oro al Valor Militare.

Libri| San Lorenzo da Brindisi in dialogo con i Luterani

IL COLLOQUIUM CHARITATIVUM E L’IMPEGNO DI P.ALFREDO DI NAPOLI SU SAN LORENZO DA BRINDISI

 

di Paolo Vincenti

Ormai vastissima la bibliografia su San Lorenzo da Brindisi, al secolo Giulio Cesare Russo (Brindisi, 1559-Lisbona, 1619). Beatificato da Pio VI (1783) e canonizzato da Leone XIII (1881), fu proclamato Doctor Apostolicus da Giovanni XXIII (1959) con il breve Celsitudo ex humilitate, confermando il decreto della Congregazione dei Riti del 28 novembre 1958.

Il titolo gli venne conferito per i suoi meriti nell’ambito della esegesi biblica, della teologia e della predicazione. Su tutti, degno di menzione è il lavoro svolto da Arturo M. da Carmignano di Brenta: San Lorenzo da Brindisi, dottore della chiesa universale (1559-1619),[1] soprattutto con riferimento all’Opera Omnia del santo da Brindisi.[2]

Nel 2017, presso la Biblioteca Provinciale dei Cappuccini di Puglia di Bari, si è tenuto il Convegno “Colloquium Charitativum”, sia per celebrare l’anno luterano (2016-2017), che in vista delle commemorazioni per il IV Centenario della morte di San Lorenzo (2019).  Nel 2018 è stato pubblicato, a cura di Alfredo di Napoli, il volume “Colloquium Charitativum”: San Lorenzo da Brindisi in dialogo con i Luterani, che ne riporta gli Atti.[3]

Nel volume, dopo il Discorso inaugurale di Alfredo Marchello,[4]l’Indirizzo di saluto di Ruggiero Doronzo,[5] e l’Introduzione di Alfredo di Napoli,[6] si trova il primo contributo, che è di Francesco Neri, OFM, Docente di Teologia Sistematica presso la Facoltà Teologica Pugliese. Nel suo contributo, San Lorenzo da Brindisi “Doctor Apostolicus”. La teologia al servizio dell’evangelizzazione,[7]l’autore, pur riconoscendo che “su questo Dottore della Chiesa non mancano studi di carattere storico e spirituale”, lamenta che essi siano “sovente carichi di un pregiudizio d’ammirazione e devozione, che però sortiscono l’effetto di rendere san Lorenzo tanto esemplare quanto irraggiungibile e ininfluente. Inoltre proprio lo specifico teologico, per quanto oggetto di approfondimenti settoriali, attende ancora di essere dettagliatamente studiato e sistematicamente divulgato”. Pertanto propone: “Con le nostre pagine, tentiamo di offrire un contributo proprio alla lettura teologica di san Lorenzo da Brindisi.”[8]

Gianluigi Pasquale OFM, Professore incaricato nella Facoltà di Sacra Teologia della Pontificia Università Lateranense, Stato della Città del Vaticano, Docente di Teologia Fondamentale a Milano nella sezione parallela dello Studio Teologico affiliato «Laurentianum» di Venezia, è autore del saggio La Teologia della Storia nella dottrina di san Lorenzo da Brindisi. In un margine di confronto con Martin Lutero.[9] “Questa ricerca si presenta come il primo studio in assoluto che enuclea la «teologia della storia» a partire dall’intera Opera omnia di San Lorenzo da Brindisi. E della stessa punta a evidenziarne l’intrinseca originalità, declinabile in alcuni tratti. Il primo sta nello sforzo, impari, attuato dal Brindisino nell’aver saputo leggere la Sacra Scrittura attraverso una costante lente d’ingrandimento cristologica. Il secondo, di essersi inserito adeguatamente nella tradizione francescana la quale, valorizzando l’atomo della libertà umana per ottenere la salvezza, della stessa privilegia la nerbatura volontaristica, rispetto a quella intellettiva. Nel terzo, Lorenzo da Brindisi esibisce quell’originale capacità di interpretare la storia a partire dai tre attori in essa perennemente coinvolti: Dio, l’uomo e il male, potenza oscura che solo Gesù Cristo potrà debellare. Infine, il Dottore Apostolico evidenzia, ante litteram, lo stigma soteriologico afferente alla storia, sapendo che essa non è un banale transitare di accadimenti, ma utilizza gli stessi per «concedere» a Dio di salvare l’uomo, innalzandolo dal presente verso l’eternità.”[10]

Questo contributo è pure importante perché si dà notizia di un’opera poco conosciuta di San Lorenzo, ovvero il Commentariolum, una sorta di poscritto al Lutheranismi Hypotyposis Martini Lutheri [11]che “è un manoscritto avventuratamente trovato, lacero, nell’anno 1770 da fra’ Giovanni Maria da Bergamo (1705-1773), Cappuccino, Segretario del Reverendissimo Padre Francesco Maria da Bergamo, Predicatore del Sacro Palazzo Apostolico”, come chiarisce l’autore, che cita a suffragio dell’autenticità dell’opera laurenziana, Bonaventura da Coccaglio.[12]

Paolo Cocco OFM, Professore invitato presso la Pontificia Università San Tommaso “Angelicum” di Roma e presso l’Istituto di Teologia della Vita Consacrata “Claretianum” incorporato alla Pontificia Università Lateranense, è autore di Lorenzo da Brindisi e Martin Luther. Dal conflitto alla comunione?.[13] In questo contributo, analizza la polemica fra Policarpo Leyser e Lorenzo da Brindisi e fra Lorenzo e Martin Luther, preludio al conflitto armato che da lì a poco avrebbe contrapposto i cattolici ai protestanti. Proponimento del Cocco è, seguendo le sue stesse parole, “analizzare lo spessore e il significato del conflitto che Lorenzo da Brindisi ha alimentato nei confronti di Martin Luther e quindi tra cattolici e luterani […] scavare al di sotto del conflitto e sondare se ci sia, al di sotto delle apparenze e delle evenienze storiche, comunione tra Lorenzo e Luther […] cercare di cogliere il messaggio che Lorenzo e Luther possono offrire a noi cristiani del XXI secolo e le istanze che essi possono suggerire e sollecitare, perché sia posta più adeguatamente in rilievo la comunione in Cristo che già sussiste tra noi, perché possa meglio brillare, a gloria di Dio, in questa nostra epoca.”[14]

Angelo Romita, Direttore dell’Ufficio per l’Ecumenismo, diocesi di Bari-Bitonto, è autore del saggio Papa Francesco e i risultati di Lund. La Dichiarazione congiunta cattolico-luterana (31.X.2016),[15]che offre “alcune riflessioni sulla Dichiarazione congiunta cattolico-luterana firmata il 31 ottobre 2016 a Lund (Svezia), […] corredate dalla presentazione di due importanti documenti dottrinali: la citata Dichiarazione congiunta e la ‘Dichiarazione lungo il cammino: Chiesa, Ministero ed Eucaristia’, che contiene le 32 affermazioni teologiche della Commissione per le questioni ecumeniche e interreligiose della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti (USCCB) e della Chiesa evangelica luterana in America (ELCA).”[16] Alfredo di Napoli, Università del Salento, Consulente scientifico del Convegno, è autore del saggio Dal Conflitto tra san Lorenzo da Brindisi e P. Leyser al Consenso cattolico-luterano (1607-1999.[17] “Attraverso la narrazione di un episodio avvenuto a Praga nel 1607, riguardante la disputa teologica tra san Lorenzo da Brindisi e il luterano Polykarp Leyser, l’articolo propone una rivisitazione delle posizioni teologiche dei protagonisti alla luce dei risultati della Dichiarazione congiunta tra la Chiesa Cattolica e la Federazione Luterana Mondiale (Augusta, 1999) per evidenziare le possibili convergenze sulla dottrina della giustificazione tra le due teologie.”[18]Nel saggio, l’autore si chiede: “San Lorenzo da Brindisi: uomo ecumenico?”, e risponde: “La domanda non è retorica. Per dare una risposta bisognerebbe da una parte venir fuori dalle prospettive odierne di “fare ecumenismo”, dall’altra evitare di correre il rischio di “fare irenismo”. Oggi le Chiese cristiane si incontrano, dialogano, organizzano meeting, soprattutto pregano. Non è poco; sappiamo però quanto difficili siano i rapporti di confronto basati sulle riflessioni teologiche. L’azione “ecumenica” di san Lorenzo da Brindisi rivela un proprium e assume il suo significato positivo nella sua stessa definizione di teologo impegnato nella ricerca e nell’affermazione della verità. Egli fu un uomo di incontro e di confronto, base indispensabile del dialogo.”[19] E porta altri esempi di campioni del dialogo e dell’ecumenismo, a partire dallo stesso Valeriano Magni, discepolo di Lorenzo, che nel 1645 a Toruń partecipò al Colloquium Charitativum teologico tra i rappresentanti delle confessioni cristiane convocato da Ladislao IV di Polonia (1632-1648). Ma anche il cardinale veneziano Gasparo Contarini durante la dieta di Ratisbona; e poi i teologi del Cinquecento Albert Pigge, Julius Pflug, Johann Gropper e prima di loro Caetano Tommaso De Vito. “Essi certamente non aderivano all’opinione di Lutero, ma si richiamavano ad Agostino e a Bernardo da Chiaravalle. Mossi da un profondo spirito che oggi possiamo definire “ecumenico” ante litteram, hanno cercato il dialogo senza eccedere nell’irenismo.”[20]

Vi è anche un contributo di Mechthild Lattorf, Pastora della comunità evangelica-luterana di Bari.[21]

Nello stesso libro, dopo le Conclusioni di Mario Spedicato, Università del Salento,[22]viene pubblicato, nella sezione Documenti, il Carteggio sulla disputa teologica tenuta a Praga nel 1607 tra Leyser e san Lorenzo da Brindisi,[23] già edito nella citata opera di Arturo M. da Carmignano di Brenta. Un volume consistente per numero di pagine, ma soprattutto notevole per il denso contenuto di analisi e interpretazione laurenziana.

Un plauso va a Padre Alfredo di Napoli per il suo impegno di infaticabile promoter dell’opera di san Lorenzo. Basti qui citare alcune fra le ultime iniziative che lo hanno visto coinvolto. Prima del libro qui recensito, nel 2016 ha pubblicato La storia si fa preghiera. Litania pro serenissimo rege Maximiliano II contra Turcas (1566),[24] presentato lo stesso anno nel XX Colloquio Laurenziano organizzato dalla Cattedra Laurenziana dell’Arcidiocesi di Brindisi-Ostuni e dalla Società di Storia Patria per la Puglia-Sezione di Brindisi.

Il libro riporta il testo di una Litania, recitata da Massimiliano II d’Asburgo in occasione della guerra contro i Turchi del 1566 e dedicata a San Lorenzo, che era cappellano militare in Ungheria nel 1601; il testo originale si trova presso l’Archivio di Stato di Vienna.
Nel 2017, ha publicato Secundum Regulam ex Eleemosinis, con Prefazione di Mons. Benigno L.Papa. Molta parte del libro è dedicata a San Lorenzo da Brindisi.[25] L’autore riporta una ponderosa cronologia di fonti bibliografiche edite ed inedite sulla vita e le opere del santo. In particolare modo, sulla partecipazione di Lorenzo alla battaglia di Albareale del 1601, di Napoli pubblica una memoria inedita, contenuta nella Relazione degli avvenimenti occorsi al santo nei paesi transalpini dal 1599 al 1612, ovvero Commentario manuscritto originale fatto per obbedienza dal venerabile servo di Dio il p.Lorenzo da Brindisi, il cui originale autografo è conservato in Archivio Provinciale Cappuccini Milano. Ms.338.

Di Napoli si sofferma sui processi diocesani e di canonizzazione di San Lorenzo, iniziati all’indomani della sua morte, e di alcuni di questi riporta diversi estratti, tutti comunque presenti in A.M Carmignano del Brenta, nel Volume IV/2 della già citata opera. Segue poi le travagliate vicende della beatificazione e della canonizzazione del santo lungo i secoli Settecento e Ottocento, fino ad arrivare alla proclamazione di Dottore della Chiesa universale del 1959.

Nel libro viene anche riportata la summenzionata Litania pro serenissimo rege Maximiliano II contra Turcas di Massimiliano II d’Asburgo, nella doppia versione latina e italiana. Inoltre, un documento, anch’esso inedito, delle monache clarisse del Convento cappuccino di Alessano che dedicano a San Lorenzo da Brindisi la Cronaca della loro fondazione.[26]

 

Note

[1] Arturo M. Da Carmignano Di Brenta, San Lorenzo da Brindisi, dottore della chiesa universale (1559-1619), I-IV/2, Venezia, Curia provinciale dei Frati Minori Cappuccini, 1960-1963.

[2] Questo il titolo completo: S. Laurentii a Brundusio, Opera omnia a Patribus Min. Capuccinis prov. venetae e textu originali nunc primum in lucem edita notisque illustrata, Patavii, Ex Officina Typographica Seminarii, 1928-1956, con la seguente progressione: I. Mariale; II/1-3. Lutheranismi Hypotyposis; III. Explanatio in Genesim; IV. Quadragesimale primum; V/1-3. Quadragesimale secundum; VI. Quadragesimale tertium; VII. Adventus; VIII. Dominicalia; IX. Sanctorale; X/1. Quadragesimale quartum; X/2. Sermones de tempore adiectis opusculis: 1. De rebus Austriae et Bohemiae, 2. De numeris amorosis.

[3] “Colloquium Charitativum”: San Lorenzo Da Brindisi in dialogo con i Luterani Atti del I Convegno di studi storico-ecumenici Bari, 29 aprile 2017, a cura di Alfredo di Napoli, Bari, L’aurora Serafica, 2018.

[4] Alfredo Marchello, Lorenzo da Brindisi: uomo del passato, santo del nostro tempo, in Colloquium Charitativum”: San Lorenzo Da Brindisi in dialogo con i Luterani, cit., pp.XV-XVII.

[5] Ruggiero Doronzo, La Biblioteca Provinciale dei Cappuccini di Puglia e il Colloquium Charitativum, Ivi, pp. XIX-XX.

[6] Alfredo di Napoli, La proposta del ‘Colloquium Charitativum’ nell’Anno Luterano (2017), Ivi, pp. XXI-XXV.

[7] Francesco Neri Ofm, San Lorenzo da Brindisi “Doctor Apostolicus”. La teologia al servizio dell’evangelizzazione, Ivi, pp. 1-19.  Il saggio è stato già pubblicato in Solus amor hic me tenet. Scritti in onore di Salvatore Palese, a cura di L.Lotti, Monopoli (BA), Edizioni Viverein, 2013, pp. 319- 335.

[8] Ivi, p.1. Francesco Neri, è anche autore di San Lorenzo da Brindisi “Doctor Apostolicus”. La teologia al servizio dell’evangelizzazione, in “Italia Francescana” 85, 2010, pp.126-141.

[9] Gianluigi Pasquale Ofm, La Teologia della Storia nella dottrina di san Lorenzo da Brindisi. In un margine di confronto con Martin Lutero, Ivi, pp.21-66.

[10] Ivi, p.21.

[11] S. Laurentii Brundisini, De rebus Austriae et Bohemiae 1599-1612. Commentariolum autographum. Primum evulgavit notisque ac multis monumentis ineditis illustravit p. Eduardus Alenconiensis ejusdem Ordinis Archivo Praefectus, Romae, Apud Curiam Generalitiam, 1910. Sul Commentariolorum, si veda anche A.J.G. Drenas, Lorenzo da Brindisi’s ‘Commentariolum de rebus Austriae et Bohemiae’: an introduction to, and translation of, the Document in English, in “CF”, 85/3-4, 2015, pp. 595-629.

[12] Bonaventura Da Coccaglio, Ristretto istorico della vita, virtù e miracoli del B. Lorenzo da Brindisi, Generale dell’Ordine de’ Cappuccini, Venezia, Ed. Simone Occhi, 1783.  Di Gianluigi Pasquale, si segnala anche La parola dalla Scrittura: l’attualità della teologia in San Lorenzo da Brindisi Dottore della Chiesa, in “Italia Francescana” 85, 2010, pp.249-255.

[13] Paolo Cocco Ofm, Lorenzo da Brindisi e Martin Luther. Dal conflitto alla comunione?, Ivi, pp.67-75.

[14] Ivi, p.67.

[15] Angelo Romita, Papa Francesco e i risultati di Lund. La Dichiarazione congiunta cattolico-luterana (31.X.2016), Ivi, pp.77-83.

[16] Ivi, p.77.

[17] Alfredo di Napoli, Dal Conflitto tra san Lorenzo da Brindisi e P. Leyser al Consenso cattolico-luterano (1607-1999), Ivi, pp.101-134. Questo contributo è stato già pubblicato in “Parola e Storia”, Rivista dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose “San Lorenzo da Brindisi” dell’Arcidiocesi di Brindisi-Ostuni (Facoltà Teologica Pugliese), 21, a. XI/1, 2017, pp.39-66.

[18] Ivi, p. 101.

[19] Ivi, p.105.

[20] Ivi, p.108.

[21] Mechthild Lattorf, Predigt zum 500. Gedenktag der Reformation Bari 2017, Ivi, pp.135.143.

[22] Mario Spedicato, Conclusioni, Ivi, pp.145-148.

[23] Documenti, Ivi, pp.149-181.

[24] Alfredo di Napoli, La storia si fa preghiera. Litania pro serenissimo rege Maximiliano II contra Turcas (1566), Bari, L’Aurora Serafica, 2016.

[25] Alfredo di Napoli, Secundum Regulam ex Eleemosinis. Il Salento e i suoi frati cappuccini (secoli XVI-XVII), L’Aurora Serafica, Bari, 2017, pp.239-328.

[26] Si veda anche Vincenzo Criscuolo, San Lorenzo da Brindisi e i due monasteri brindisini delle cappuccine “Santa Chiara” e “Santa Maria degli Angeli”, in “Collectanea Franciscana,” 79/1-2, Assisi-Roma, 2009, pp.149-179.

 

Libri| Guida al Grottesco

AA.VV. , GUIDA AL GROTTESCO, A CURA DI CARLO BORDONI E ALESSANDRO SCARSELLA, BOLOGNA, ODOYA, 2017, PP. 287.

di Paolo Vincenti

Il genere letterario della saggistica è in piena salute, come conferma questo libro edito da Odoya: Guida al Grottesco, a cura di Carlo Bordoni e Alessandro Scarsella (Bologna 2017). Il volume è diviso in 17 capitoli, più un’Appendice, firmati da vari autori, compresi i due curatori.

La definizione di grottesco si fa storicamente risalire alla scoperta romana delle grotte nella casa di Nerone, sul Colle Esquilino, e alla definizione di grottesche che ai disegni parietali che le caratterizzavano diede Benvenuto Cellini nel Cinquecento. In queste grotte, che si trovavano sotto la Domus Aurea infatti, erano dipinte strane creature, animali, volatili, vegetali, esseri bizzarri, che in mancanza di categorizzazione vennero definiti grotteschi per via della loro localizzazione. Questo genere artistico si colloca fra il comico ed il tragico.

Il grottesco è tutto ciò che attiene alla ibridazione, alla stranezza, alla irregolarità, tutto ciò che sfugge alla normalità, insomma potremmo dire tutto ciò che è, o appare, anormale. Di contro alla simmetria delle forme classiche, il grottesco dà vita a forme bizzarre, sfuggenti, volutamente esagerate, eccessivamente ingrandite o rimpicciolite; ecco allora che oggetti che amiamo ci appaiono sotto un’altra luce o addirittura i corpi umani ci sembrano ributtanti, osceni, se ingranditi nei loro minimi particolari anatomici, come per esempio dovevano apparire a Gulliver i corpi nudi delle donne giganti nell’opera di Jonhatan Swift.

In altri termini, il grottesco è il deforme, il subnormale, il mostruoso. Deforme è l’aspetto di Tersite, nell’Iliade, le teste degli Ortolani nei quadri di Arcimboldo, smisuratala è la bocca di Gargantua e ancor di più di Pantagruele, in Rabelais, il naso di Cirano, il ventre di Ubu Roi, mostruoso è il volto del Fantasma dell’Opera, dell’Orco cattivo delle favole, di Elephant man al cinema. A dominare è l’iperbole, la voluta enfatizzazione di caratteri fisici o psicologici, la messa in risalto delle funzioni primarie del corpo, come defecare o far minzione, quelle che si è portati a nascondere, l’ostentazione delle parti intime, non a caso chiamate pudenda.

In pittura, nella raffigurazione con la tecnica della condensazione, vengono aggrumati degli elementi per cui diventa incomprensibile, non più riconoscibile la loro funzione originaria, oppure vengono dilatati, allontanati, con lo stesso risultato. Ancora, degli oggetti possono essere decontestualizzati rispetto al loro uso abituale, oppure viene fatta una sostituzione di elementi con altri elementi; il grottesco è un ribaltamento delle forme o rovesciamento, quando per esempio il deretano prenda il posto della testa, o il didietro del corpo venga messo davanti, oppure i piedi girati all’indietro.

Da punto di vista teoretico, il brutto, nella sua identificazione con il grottesco, ha seguito un percorso lungo che, secondo la ricostruzione di Remo Bodei (Le forme del bello, 2003), si potrebbe sintetizzare nelle seguenti tappe. Nella concezione classica, a partire da Platone, il brutto viene condannato radicalmente ed estromesso da qualsiasi considerazione sull’arte. Il brutto, per essere incongruità, disarmonia, scardina il concetto eminentemente classico di bello come proporzione ed eleganza delle forme, e per questo non compare nelle dissertazioni. Come si sa, infatti, la bellezza viene intesa dai classici secondo la triade, appunto platonica, di bello, buono e vero. Il brutto è in questo senso il contrario dell’arte, e questa condanna totale, da Platone giungerà, attraverso Plotino con le sue Enneadi, anche al Medioevo, permeando la teorie estetiche dei secoli fino al Rinascimento.

Il bello nella concezione classica ha una valenza morale, sintetizzata dalla formula greca kaloskaghatòs, e a maggior ragione il brutto, che è indecenza, corruzione morale, non vi rientra. Nel Settecento, che infatti riprende il concetto classico di bellezza come armonia delle forme, pulizia, linearità, il brutto viene ancora estromesso dall’arte neoclassica, di cui uno dei massimi teorizzatori è Lessing con il suo Laoconte, che utilizza come grandiosi esempi della bellezza le statue dell’arte antica.

Dunque, prima di tutto il grottesco rientra nella categoria del brutto, inteso come assenza del bello o come contrapposizione al bello. Inoltre, il grottesco appartiene alla categoria del comico e in particolare al novero del ridicolo, che del comico è una degenerazione. Esso può considerarsi un venir meno dell’ordine formale che caratterizza l’essenza del bello, dunque come disarticolazione, confusione e anche assenza di unità; per esempio, nel corpo umano, si potrebbe pensare ad una scomposizione delle parti, come quella attuata da Hieronimus Bosch nei suoi quadri in cui sezioni del corpo, disaggregate, volutamente esagerate, campeggiano in un caos senza limiti.

Il grottesco utilizza un iperrealismo talmente forte che appare assurdo, o al contrario una incompiutezza quasi astratta; in ogni caso, i suoi elementi nodali rimangono la discrepanza, la smisuratezza, l’anomalia, come informa uno dei suoi massimi teorizzatori che è Michail Bachtin. Questa iperbolicità nel grottesco procura degli effetti di straniamento simili a quelli del comico, che però debordano nel ridicolo, e Bachtin utilizza come caso esemplare il romanzo Gargantua e Pantagruel di Rabelais.  La rappresentazione iperbolica del corpo umano può suscitare il riso, apparire divertente, sia pure nel suo effetto straniante, giocosa, in fin dei conti positiva, come in Rabelais, oppure può essere triste, quando del corpo vengano messe in risalto le funzioni corporali, e in questo caso è attuata in chiave negativa, quasi deprimente, come per esempio avviene in Swift. Il ridicolo è proprio conditio sine qua non del grottesco, fin dalla Commedia d’età classica, analizzata anche da Aristotele nella sua Poetica.

Nell’Ottocento, il brutto entra nelle teorizzazioni estetiche e acquista un suo statuto autonomo, viene considerato come categoria a sé, in termini di contrapposizione e ribaltamento della categoria del bello. Il brutto quindi, come contrario del bello, guadagna una sua dimensione ontologica. La principale teorizzazione in questo senso è quella di Karl Rosenkraz con l’Estetica del brutto del 1853, ma si deve anche a Victor Hugò, il quale espone le sue idee in materia nella Prefazione della tragedia Cromwell, del 1827.  Hugò rappresenta il brutto, nella sua dimensione grottesca, in opere come Notre Dame de Paris, con la famosa figura del gobbo Quasimodo, repellente e deforme, e L’uomo che ride, con la inquietante e sardonica figura di Gwynplaine, ma anche ne I lavoratori del mare, con la orrorifica figura della piovra antropomorfa, e ne Il re si diverte, con la figura dello sciancato gobbo Triboulet che, trasposto in musica da Giuseppe Verdi, diventa Il Rigoletto. Grottesco è il paese di Cuccagna e in generale tutti i mondi alla rovescia partoriti dalla letteratura, come Bengodi, Capinculo, il Paese di Prete Gianni, il Paese di Carnevale, ecc.

Quanto finora sommariamente descritto viene dettagliatamente esposto nel libro che si recensisce. Nel capitolo su “Barocco ed eccesso”, si passa in rassegna l’uso del grottesco nella letteratura inglese d’età elisabettiana e giacobita. Il riferimento è alle opere La duchessa di Amalfi, di Webster, Peccato che sia una puttana, di Jhon Ford o Tito Andronico di Shakespeare, nelle quali sulla componente orrorifica, mutuata direttamente da Seneca, si colloca l’elemento grottesco, in termini di straniamento o paradosso, soprattutto in opere come Re Lear, di cui viene analizzata l’emblematica figura del fool, il buffone di corte, o Macbeth o Troilo e Cressidra. In un altro capitolo del libro, si passano in rassegna le maschere della commedia dell’arte: Arlecchino e Colombina, Pantalone, Rosaura, Brighella, la Gnaga o donna gatto, e il loro rapporto con Venezia.

Uno dei capitoli più interessanti è quello su circo e cinema. Un saggio sul grottesco non può non prendere in considerazione la figura del diavolo nelle infinite sue declinazioni, dai trattati medievali fino alla sua rappresentazione nella letteratura horror e nella cinematografia contemporanee, passando per L’Inferno di Dante, Belfagor di Machiavelli ed il Faust prima marlowiano cinquecentesco, poi goethiano settecentesco, per arrivare ai Faust novecenteschi di Pessoa e di Thomas Mann. Viene trattata anche la Fiaba per poi arrivare al Grand Guignol, che può essere considerato il teatro del grottesco par eccellence. In questo capitolo, viene analizzato un classico del grottesco, ovvero il già citato L’Ubu Roi di Alfred Jarry, rappresentato nel 1896 a Parigi, uno dei testi fondamentali della dissoluzione contemporanea, nelle sue varie declinazioni di Ubu incatenato, Ubu cornuto, Ubu sulla collina e gli altri episodi di una saga al centro della quale troneggia, pantagruelico, Ubu con il suo ventre enorme e la sua fame insaziabile, soprattutto con la sua deformità del fisico che riflette quella dell’animo.

Jarry aveva inventato il personaggio nel suo romanzo Guignol, del 1893, che si può considerare un precursore del genere. Questa forma di teatro, ideata da Oscar Meténier,  rappresenta forse l’estensione più emblematica del grottesco novecentesco, con i  personaggi dei bassifondi cittadini che mette in scena, le puttane, i delinquenti, i derelitti e tutta la vara umanità di scarto della moderna civiltà, grazie agli autori Antona Taverna e Andrè de Lorde, i quali, insieme a molti altri, rappresentano sul palco, con tocco verista, uccisioni e scannamenti, con abbondante uso di strumenti di tortura, armi da taglio e sangue che sgorga a fiotti insozzando gli spettatori della prima fila. Il Grand Guignol è un teatro di avanguardia che attraverso la spettacolarizzazione dell’orrore, della violenza, delle pulsioni più basse di un’umanità criminale e assassina, sulla quale si esercita letterariamente Antonin Artuad, costituisce la punta più estrema del grottesco, che si avvale di tinte forti, contrasti netti, e fa gridare allo scandalo i benpensanti.

E se il grottesco rimanda a tutto ciò che è bizzarro, deforme, spaventevole, quale migliore estrinsecazione dei mostri? Dalla letteratura gotica al fantastico moderno, il libro offre una imperdibile cavalcata attraverso i migliori parti letterari degli autori del terrore.  Così come attraverso i vampiri e gli spettri e i fantasmi. Nella vasta letteratura e nella cinematografia su mostri, vampiri e fantasmi, va da sé che sia facilissimo che si scada nel ridicolo, che l’orrore divenga parodia, demistificazione del genere stesso.

Anche nel genere fantascientifico, il grottesco rappresenta una degenerazione nel senso del suo opposto; dalla fantascienza classica, cioè che si basa sulla scienza e innesta su una base scientifica l’elemento di incredibilità, si passa al grottesco che è invece anti classico, ovvero anti scientifico. In particolare il grottesco riguarda quel sottogenere della fantascienza che è il fantascientifico comico, in cui esso si manifesta più che altro come satirico. In conclusione, Guida al grottesco è un saggio molto denso e ricco di spunti di riflessione erudita.

Sabatino De Ursis e la questione dei riti cinesi nel Nome di Dio (1610-1939)

“ANDIAMO ERRATI, ANDIAMO ERRATI”

SABATINO DE URSIS E LA QUESTIONE DEI RITI CINESI NEL NOME DI DIO (1610-1939).

 

di Francesco Frisullo – Paolo Vincenti

 

ABSTRACT. The work De cognitione Veri Dei apud Litteratos, by the Jesuit from Salento Sabatino de Ursis (1575-1620), a missionary in China, can be considered the starting point of the thorny and secular “Question of rites”, which involved the Church in various several times over, from 1610 to 1939. The work was lost but his arguments were taken up in the drawing up of the Traitè sur quelques points de la religion des chinois by Nicolò Longobardo. The treaty deals with the question of the translation of the word “god” into Chinese, with the compatibility with Catholicism of the Confucian rites attributed to the deceased and Confucius and ultimately with the relationship between Catholicism and Confucianism. Opinions on these subjects were radically divergent, even among the Jesuits themselves, so as to create a profound fracture with all the other religious orders. The treatise by Longobardo, therefore, will not be published by the Jesuitical Society, but by the philosopher Leibniz, in 1701.  

 

RIASSUNTO. L’opera De cognitione Veri Dei apud Litteratos, del gesuita salentino Sabatino de Ursis (1575-1620), missionario in Cina, può essere considerato il punto di partenza della spinosa e secolare “Questione dei riti”, che coinvolse la Chiesa, in varie riprese, dal 1610 al 1939. L’opera fu smarrita ma le sue argomentazioni vennero riprese nella stesura del Traitè sur quelques points de la religion des chinois di Nicolò Longobardo.

Il trattato affronta la questione della traduzione del termine “dio” in cinese, della compatibilità con il cattolicesimo dei riti confuciani tributati ai defunti e a Confucio e in definitiva del rapporto tra Cattolicesimo e Confucianesimo. Le opinioni su tali argomenti erano radicalmente divergenti, anche tra gli stessi gesuiti, tanto da creare una frattura profonda con tutti gli altri ordini religiosi. Il trattato di Longobardo, pertanto, non verrà pubblicato dalla Compagnia di Gesù ma dal filosofo Leibniz, nel 1701.

 

Nel 1618, il gesuita salentino Sabatino de Ursis (1575-1620)[1], missionario in Cina, scrive il De cognitione Veri Dei apud Litteratos, opera smarrita, le cui argomentazioni saranno riprese nella stesura del Traitè sur quelques points de la religion des chinois di Nicolò Longobardo. Il trattato affronta la questione della traduzione del termine “dio” in cinese, della compatibilità con il cattolicesimo dei riti confuciani tributati ai defunti e a Confucio e in definitiva del rapporto tra Cattolicesimo e Confucianesimo. Le opinioni su tali argomenti erano radicalmente divergenti, anche tra gli stessi gesuiti, tanto da creare una frattura profonda con tutti gli altri ordini religiosi. Il trattato di Longobardo, pertanto, non verrà pubblicato dalla Compagnia di Gesù ma dal filosofo Leibniz, nel 1701. Ma procediamo con ordine.

 

“Pigliate da noi”

Tutto parte da Matteo Ricci (1552-1610), il grande evangelizzatore della Cina, matematico, geografo e sinologo. Il carisma di Ricci faceva la sua parte nel guadagnare alla religione cristiana nuovi accoliti in Cina, ma il numero delle conversioni aumentò progressivamente anche grazie ai missionari giunti dopo di lui a rinforzare l’opera cristiana, fra i quali Niccolò Longobardo (1559-1654)[2], che poi sostituì Ricci nella guida della missione. Matteo Ricci, nell’opera Il vero significato del “Signore del Cielo”, redatta con la supervisione del dotto cinese Feng Yingjjng e pubblicata nel 1603, affronta in forma dialogica la questione della compatibilità fra la religione cinese e quella cristiana. Frutto di una lunghissima elaborazione, l’opera di Ricci cerca di dimostrare l’esistenza di un unico e vero Dio, chiamato appunto Signore del Cielo, comune a tutte le religioni e quindi anche al Confucianesimo, alla cui autorità, a partire dai testi più antichi di quella religione, l’autore si appella per dimostrare, alla luce della ragione naturale, l’esistenza di un unico Creatore onnipotente del cielo e della terra. Con grandissima erudizione, Ricci, nel dialogo, che si svolge fra un gesuita europeo ed un dotto cinese, spesso in funzione antibuddista, chiamando in causa i più importanti testi dell’antichità classica, sia delle Sacre Scritture che del Confucianesimo, le concezioni scientifiche acquisite, e dimostrando anche la dottrina dell’immortalità dell’anima, mira a colpire l’immaginario del lettore colto della Cina del suo tempo. “Questo Qualcuno non è altri che il Signore del Cielo che le nostre nazioni occidentali chiamano Deus”, afferma Ricci, con riferimento a Dio[3].

In realtà, fu Michele Ruggieri (1543-1607) il primo a studiare il cinese e a pubblicare un’opera di teologia in quella lingua. Ruggieri fu battistrada e punto di riferimento per Matteo Ricci. Egli diede alle stampe il primo Catechismo in cinese, il Tianzhu shilu (“Vera esposizione del Signore del Cielo”), oltre a molti componimenti poetici che coniugavano la fede cristiana con il buddismo. Il Catechismo di Ruggieri costituiva una prima pionieristica prova di scritto cristiano, destinato poi ad essere sostituito dal nuovo Catechismo, Tianzhu shiyi, pubblicato da Matteo Ricci. Il testo ricciano, che fu inviato nel 1603 al Generale Acquaviva per l’approvazione, ma iniziato a scrivere già dal 1593, emendava gli errori dell’opera di Ruggieri, che infatti venne distrutta per ordine dei superiori Valignano e de Sande.

Ricci sceglie il confucianesimo[4] come dottrina con cui dialogare e rifiuta il Buddismo poiché, se così si può dire, ritiene questo più “concorrenziale” con il Cristianesimo, avendo un suo clero e contenendo numerosi elementi metafisici all’interno delle sue dottrine. Nel contrastare il buddismo, utilizza argomentazioni aristoteliche[5].

Nella sua opera Dell’entrata, sottolinea le somiglianze cultuali fra le due religioni e accusa i buddisti di averle “copiate”, travisandole dal Cristianesimo:“pigliate da noi”, afferma[6].

Se però da un lato rifiuta Buddismo e Taoismo, d’altro canto è costretto a ricorrere spesso alla terminologia buddista quando deve esprimere “la credenza nell’aldilà, l’idea del paradiso e dell’inferno e il celibato, che non sono proprie del Confucianesimo”[7].

Il temine Shangdi, ossia “Sovrano dell’alto”, inteso come espressione del “dio unico”, risale alla dinastia Shang (1766-1122 a.C.), i cui sovrani erano considerati manifestazione terrena della divinità suprema e anello di congiunzione tra il popolo e gli antenati. I Sovrani Shang e i loro successori, per tutta l’epoca imperiale, si attribuiranno l’appellativo “di”, traducibile come “imperatore”.

In epoca Zhou (900- 221 a. C), si volle svincolare la dignità imperiale dal legame dinastico e quindi si passò a esprimere la divinità con “Tian”, “Cielo”. Inoltre, per legittimare il passaggio dinastico, venne formulata la teoria del “Mandato Celeste”  (“Tiān mìng”); la dinastia Shang non godeva più della protezione del Cielo che “ ha  inviato i Zhou  per punirli e  sostituirli  e attuare il Mutamento del Mandato ( Geming)”. Su tali presupposti si fonda ancora oggi la concezione dello stato cinese[8]. Se per la questione di Dio, Ricci poteva fare affidamento sulla tradizione locale, non così facilmente gli fu possibile affrontare il tema dell’anima. Egli si trovò di fronte a maggiori difficoltà poiché, come osserva Corradini, in Cina l’opposizione sostanziale tra anima e corpo era sconosciuta [ …]  Ricci tradusse questa parola con linghun; questa terminologia fu approvata in una conferenza dei missionari gesuiti a Macao nel 1600”[9]. Secondo Etiemble, come tutte le questioni, anche quella dei riti è fondamentalmente un questione “grammairiennes ” (grammaticale): il punto è se i cinesi “venerano” o “adorano” Confucio, il Cielo, gli antenati, e se le manifestazioni tributate siano da considerarsi “riti” o “cerimonie”[10]. I gesuiti, nel loro obbiettivo di infondere il messaggio cristiano, hanno enfatizzato la “religione naturale” dei cinesi che, per l’assenza della Rivelazione divina, ha lasciato spazio alla superstizione e all’idolatria[11]. Ricci ravvisava nei cinesi la presenza di un “monoteismo naturale” o “di un antico monoteismo di cui si è persa la memoria”[12]. Questa posizione verrà messa in discussione dai suoi confratelli durante la conferenza dei missionari a Jiading del 1628, ma sarà ripresa sostanzialmente dai cosiddetti “figuristi” e abbracciata da Kircker e Leibniz, come meglio vedremo[13].

 

Dio, angeli e anima razionale dei Cinesi

Bisogna dire che, a spingere “verso una linea maggiormente compromissoria nei confronti del confucianesimo”, erano anche i letterati convertiti giapponesi e cinesi[14], che chiedevano spesso ai padri gesuiti “di confrontarsi con la cultura locale alle sue stesse condizioni”[15]. Standaert parla proprio di un cristianesimo che è stato “modellato”  dai cinesi  nel XVII secolo e tale è oggi rimasto[16].

Il libro Il vero significato del “Signore del Cielo” procurò a Ricci, inevitabilmente, la forte ostilità del clero buddista e numerosi incidenti anche abbastanza gravi.

Longobardo, successore di Matteo Ricci, dimostra di non approvare la riforma religiosa da quello propugnata. Egli rigetta la soluzione ricciana, ritiene che nessun termine cinese sia “accomodabile” alla parola Dio cristianamente intesa[17]e cerca una translitterazione della stessa in cinese, come fatto dai gesuiti giapponesi con quella lingua: per esempio, Francesco Saverio, all’inizio della sua predicazione, ricorse a termini buddisti per rendere alcuni concetti cristiani ma da subito li abbandonò affidandosi alla traslitterazione delle parole portoghesi[18]. Longobardo, democraticamente, volle coinvolgere tutti i gesuiti cinesi nella questione, chiedendo loro se fosse accettabile il compromesso ricciano fra cristianesimo e confucianesimo o se invece non fosse ritenuta, la religione di Confucio, materialista e tutt’affatto lontana dalla vera spiritualità, caratterizzandosi più che altro come un sistema di pensiero, una elaborazione teorica più vicina alla filosofia che alla teologia. Longobardo mise in dubbio l’efficacia di alcuni termini, come “angeli”, “anima” e soprattutto il nome cinese di “dio”. La stessa posizione fu assunta da de Ursis e Rodriguez, i quali sostenevano che i cinesi non avessero una nozione di dio e che quindi nessun termine adottato nei classici fosse assimilabile al dio dei cristiani[19]. La soluzione della “controversia terminologica”[20] proposta da Longobardo era “dousi” già sperimentata da Ricci ma poi abbandonata, come pure non ebbe successo nel tardo periodo Ming[21].

Vediamo di esaminare attentamente come andarono le cose. Longobardo a Pechino incontra Padre Sabatino de Ursis, “alle prese con i miei stessi scrupoli”, scrive[22], ed esprime i suoi dubbi in un trattato a due mani proprio con de Ursis, che però non ebbe alcuna influenza sulla questione perché restò manoscritto[23].  È del 1617 un trattato di Sabatino de Ursis, non pervenutoci, intitolato de Verbo Xam – ti[24].

Il nuovo Visitatore Valentino Caravallo ordinò di esaminare gli scritti classici delle “Tre sette” cinesi (Confucianesimo, Buddismo e Taoismo) e propose una lista di termini non accettabili nei testi cristiani, ordinando di individuare quelli di cui bisognava servirsi. Tale disposizione venne confermata da Francesco Viera, che diede, altresì, mandato di sottoporre le varie questione ai Mandarini cristiani. Lombardo invia il lavoro dei gesuiti di Pechino a Macao:

gli invia entrambe le cose tramite Padre Sabatino, quando questi con altri nostri Padri fu esiliato a Macao e io e gli altri raccomandai di dire a viva voce molti altri particolari che non scrivevo, facendo assegnamento su di lui come di una persona molto versata in queste materie. Assolse il compito alla perfezione; ma il Padre Visitatore, vedendo che i Padri Pantoja e Banoni (Vagnoni) che erano a Macao avevano un parere diverso dal nostro, reputò che tali controversie non potessero terminare senza che fossero trattate nella forma opportuna. Perciò ordinò ai tre Padri di scrivere ciascuno per suo conto un trattato sull’argomento, e per tenere un metodo fissò loro tre argomenti. Il primo fu Dio; il secondo gli Angeli; e il terzo l’Anima razionale; e li esortò in particolare a cercare se nelle scienze cinesi ci fossero alcunché di rapportabile a queste tre cose perché da ciò dipendeva la risoluzione da prendere sui termini cinesi di cui si poteva servire e su quelli che bisognava rigettare. I tre Padri fecero il loro trattato. I Padri Pantoja e Banoni risposero affermativamente, e cercarono di provare che i cinesi avevano avuto una qualche conoscenza di Dio, degli angeli e dell’anima, che chiamavano Xangti, Tienxin e Ling-hoen. Invece Padre Sabatino rispose negativamente, sostenendo che i cinesi, secondo i principi della loro Filosofia, non hanno conosciuto una sostanza spirituale distinta dalla materia, così come noi la concepiamo, e che di conseguenza non hanno ne conosciuto né Dio né Angeli né l’Anima razionale. Questo parere fu accolto dai Padri del Giappone  che erano a Macao , come il più conforme alla dottrina dei cinesi; poco mancò che il Padre Visitatore non si pronunciasse a favore di Padre Sabatino  […]”[25].

Nel 1618, come detto in apertura di articolo, Sabatino de Ursis scrive il De cognitione Veri Dei apud Litteratos[26]. L’opera fu smarrita ma in buona parte confluì in quella di Longobardo.

Sempre nel 1618, il Visitatore Vieira chiede a Cammillo Costanzo, Luis Naito, João Rodrigues e de Ursis un ulteriore approfondimento sulla questione.

In una lettera del Natale 1618 di Camillo Costanzo al Generale Vittelleschi, il gesuita lascia chiaramente intendere che tali questioni siano già state ampiamente dibattute dai padri giapponesi, arrivando alle stesse conclusione di alcuni gesuiti in Cina, tra cui “Sabbino de Ursi,, il quale quando scriveva di questo in Pechino , et io nel Giappone senza comunicarci sin non poi dicemmo lo stesso”[27]. Molto alta è la considerazione che Costanzo ha di “Padre Sabbatino D’Artis (Ursis) , et altri , i quali sanno bene , chi la setta di Confuso , chi la setta di Xaca ( Budda) , e Roxxio[28].  Infatti, quando João Rodrigues (1561-1633), grande conoscitore della cultura giapponese[29], nel 1615 venne in Cina per affrontare i termini della questione con i “tre Pilastri” (Leone, Paolo e Michele, i tre mandarini cinesi convertiti), a Pechino a fargli da interprete fu proprio de Ursis[30].

Nel repertorio bibliografico sulla questione dei riti scritto dal vice provinciale Giandomenico Gabiani (1623-1694) il 22 settembre 1680 e inviato a Roma, è riportato un trattato del 1614 di de Ursis: “Sabbatino de Ursis super nomine XAMTI Pekini an 1614 elucubratus, in quo explicatur multiplex ejus nominis acceptio apud Sinenses litteratos tum antiquos tum recentiores; ac deum exponitur christianus sensus sub quo in nostrum hominum libris accipitur, ac legittime ponitur pro vero Deo[31].

Gabiani oltre alle “Adnotationes” di de Ursis e agli scritti di Longobardo fa riferimento a un’opera scritta da Sabatino a Macao nel 1618, ovvero “Copiosus tractatus a P. Sabbatino de Ursis Macaensi in urbe anno 1618 ex praescripto P[atr]is Fr[ancisc]i Vieirae Visitatoris latine conscriptus, in quo P. Sabbatinus ita probare contendit Sinenses literatos …”[32]. Lo stesso trattato è citato da Dehergne[33]. In una lettera del 3 ottobre 1620 dal Giappone al Generale Vitteleschi, Camillo Costanzo[34] conferma che la sua posizione sulla questione argomento del dibattito fosse contraria a quanto affermato da Vagnone e in accordo con quella de Ursis:

Come ben lo mostro nell cose della Cina , hoggi tante errate come sono, et io con Padre Sabbatino gli provammo con quattro trattati. E già toccai in questo Padre voglio che sappia Vostro paternità ch’il Padre Sabbatino per la nostra humiltà stando in Macao andò dal Padre Visitatore Francisco Viera dicendogli:Andiamo errati, andiamo errati. Et in segnale di ciò, lo detto Padre gli fece fare un trattato contro il padre Vagnone”[35].

 

Ciò che darà veramente il via alla “Questione dei riti” è lo scandalo provocato dal fatto che i gesuiti consentissero ai cristiani convertiti di celebrare i riti in onore degli antenati e Confucio. Così, nel 1636 tale pratica venne denunciata al vescovo di Manila[36]. Questo è il primo atto della controversia che durerà quasi trecento anni. La liceità dei riti in onore di Confucio e degli antenati era stata affrontata in due Conferenze che i Gesuiti tennero a Macao nel 1603 e 1605[37] e ulteriormente in una conferenza del 1621 sempre a Macao, indetta dal Visitatore Jeronimo Ruiz, che portò alla stesura delle Ordinationes Anno 1621 approbatae in favorem P. Matthaei Ricci[38].

Nel 1623 Longobardo pubblicò le sue teorie nell’opera Responsio brevis super controversias de Xanti [Shangdi], tienxin [Tianshen], linghoen [linghun] alijsque nominibus et terminis Sinicis, ad determinandum qualia eorum uti possint vel non in hac Christianitate, nella quale rigettava il compromesso con la religione confuciana, la cosiddetta accomodatio[39]. Tuttavia, la disputa, piuttosto che essere placata, si rinfocolò e vennero prodotti vari scritti per confutare o avallare le affermazioni di Longobardo[40]. Come osserva Rule, la controversia non è riducibile ad una mera questione speculativa, come invece sostenuto da Dunne[41], ma il vero obiettivo da affrontare era la strategia dell’accomodamento così come declinata da Ricci per la Cina[42]. Ad un certo punto, il nuovo Visitatore, André Palmeiro (1569-1635), poco propenso alla linea ricciana ma preoccupato di mantenere una posizione equilibrata tra le due “fazioni”, per riportare la pace tra i gesuiti cinesi[43], indisse nel 1628 a Jiadiang, nella provincia dello Jiangsu, una conferenza, che trattò ben 38 proposizioni. A coordinare i lavori, oltre a Longobardo, anche Giulio Aleni[44]. Durante la conferenza emersero chiaramente i distinguo tra i vari padri ed inoltre, come evidenzia Feng-Chuan Pan, si confermò la fondamentale diversità tra la visione dei gesuiti, che in quanto cattolica è di tipo trascendentale, e quella dei confuciani, che è di tipo  esistenziale[45].

Questa volta però Longobardo con le sue argomentazioni ebbe il definitivo sopravvento e cosi il Palmeiro nelle Ordinationes Anno 1629 da una parte prescrisse l’uso, sia nei sermoni che nei libri, dei termini Shang di e Tian, dall’altra quello di Tian zhu, per significare l’idea di Dio. Nel 1630 il Generale dell’ordine, Muzio Vittelleschi, dichiarò nulla questa disposizione. Nel 1635, il Vescovo agostiniano di Manila denunciò i gesuiti al Papa, successivamente ritirò la denuncia, ma ciò fu sufficiente per fare allargare i confini della Questione dei Riti, che da quel momento interessava non più solo i gesuiti ma tutta la Chiesa[46].

Del resto, a complicare il quadro degli eventi si aggiunse la nascita di “Propaganda Fide”, con la Costituzione Inscrutabili divinae providentiae di Papa Gregorio XV del 22 giugno 1622[47], e, nel 1658, del MEP, ovvero le “Missions Etrangères de Paris”[48] che posero fine alla condizione di monopolio in cui di fatto operavano i gesuiti in Cina e al protettorato portoghese, in un quadro geo-politico in forte mutamento, soprattutto con l’avanzata nell’area asiatica delle altre grandi potenze europee, in primis l’Olanda. Se mettiamo in conto la nascita della “Compagnia delle Indie Orientali” e un cambio epocale in Cina nel 1644 con la fine dell’era Ming, iniziata nel 1368, e l’inizio dell’era Qing (che si protrarrà fino al 1911)[49], possiamo capire quanto questi eventi abbiano influenzato la questione che stiamo affrontando. Si aggiunga che già dal1631 il monopolio delle missioni dei gesuiti in Cina era di fatto terminato con l’arrivo del primo domenicano, il fiorentino P.Angelo Cocchi[50].

 

Dubbi o proposizioni

È chiaro che la proibizione delle cerimonie in onore degli antenati e di Confucio fosse inaccettabile per i cinesi e infatti l’atteggiamento non “accomodante” dei missionari nuovi arrivati provocò nel 1638 il cosiddetto “Incidente di Fujian” che determinò  l’espulsione degli stessi e una ricca produzione di scritti anticristiani  che  verranno  pubblicati nella raccolta  Poxieji  (1640)[51]. Il bando, tuttavia, non interessò i membri della Compagnia per via della loro fedeltà alla linea di Ricci.

Il 12 settembre 1643 il domenicano Morales giunge a Roma e ottiene il primo decreto di condanna dei riti da Papa Innocenzo X (1645). Nel 1649, Morales ritorna in Cina e  notifica il decreto al Vice Provinciale Diaz, che  ritenne improvvida le decisione canonica “adducendo che  era stata presa parte inaudita[52].  Così venne inviato a Roma nel 1651 il gesuita trentino P. Martino Martini (1614-1661) per perorare la causa dei missionari  ignaziani. Questi presenta a Propaganda Fide quattro Dubbi  o proposizioni, contro le argomentazioni di Morales[53]e una Brevis Relatio[54]. Le argomentazioni portate da Martini furono convincenti, e il 23 marzo 1656 Papa Alessandro VII emanò un decreto che sconfessava quello del predecessore. Morales scrive un nuovo memoriale (1661) all’indirizzo della Sacra Congregazione, che il 13 novembre 1669 si pronuncia a favore del domenicano. Papa Clemente IX conferma il decreto. Nel 1664, alla morte di Morales, nuovo superiore dei Domenicani è lo spagnolo Navarrete[55].

L’opposizione ai riti cinesi non era accettabile da parte dell’Imperatore, le cerimonie in onore degli antenati costituivano uno dei pilastri su cui si fondava il Confucianesimo, sicché nel 1665 tutti i missionari presenti in Cina (15 gesuiti, 3 domenicani e il francescano Caballero) vennero confinati a Canton.

Nella forzata permanenza in quella città, i missionari tennero nel 1667-68 una importante conferenza sulla Questione dei riti, nella quale venne redatta e sottoscritta  una dichiarazione che in 42 punti riaffermava la liceità dei riti. Il documento non fu firmato da Caballero. Proprio in occasione della conferenza di Canton, Navarrete e Caballero entrarono in possesso dello scritto (o degli scritti) di Longobardo[56]e presumibilmente anche di de Ursis[57].

 

Uno scritto che risorge dalle ceneri

E torniamo così allo scritto di Nicola Longobardo che avevamo lasciato.

Come già spiegato, il trattato non venne pubblicato dalla Compagnia di Gesù che riteneva non si potesse affidare alle stampe, anche se ne verranno pubblicati degli stralci da esponenti di altri ordini religiosi in funzione polemica contro i gesuiti. Come riporta Tabaglio, “il libro del Longobardi (viene dato) alle fiamme”[58].

Quest’opera, scritta in portoghese, venne tradotta in latino dal padre minorita Antonio de Sancta Maria o Caballero, nel 1661[59]e successivamente in spagnolo dal frate Domingo Navarrete, nel libro Tratados históricos, políticos, éthicos y religiosos de la monarchia de China, nel 1676[60] che cita espressamente de Ursis, alla p.125[61].

Navarrete il 6 gennaio 1673 era a Roma per esporre i suoi casi a Propaganda Fide e l’anno dopo a Madrid[62]. Il domenicano, a sostegno delle proprie tesi, chiamava in causa i più vecchi missionari tra cui de Ursis[63], ma, come osserva Sisto Rosso[64], ometteva i gesuiti più anziani che erano di parere avverso, primo fra tutti Pantoja, a lungo compagno di de Ursis[65].

L’opera di Longobardo fu tradotta in francese dall’abate de Ciré nel 1701 col titolo Traité sur quelques points de la religion des Chinois, con annotazioni del filosofo  Leibniz.  Nel Preambolo l’autore ricostruisce la tematica della “Questione del Signore del Cielo”[66]. Quest’opera “fu resa nota da G.W. Leibniz nel Journal des sçavants nel 1701 (pp.154-158), ed ebbe un’influenza profonda sul suo pensiero (G.W. Leibniz, Opera omnia, IV, 1, Genève 1768, pp. 89-144), in particolare sulla redazione del Discorso sulla teologia naturale dei Cinesi, molto più di quanto non ne abbiano avuto gli scritti del Ricci”[67].

Leibniz sviluppa meglio queste riflessioni nel Discours sur la théologie naturelle des Chinois, del 1716, in cui viene affrontata più da vicino la tesi dell’ “ateismo” dei cinesi sostenuta da de Ursi-Longobardo. È solo in quell’occasione che Leibniz entra in possesso diretto del Trattato di Longobardo e di quello di Antonio di Santa Maria, per mano di Nicolas Remond, che aveva spedito i due scritti al filosofo tedesco per averne un parere[68]. Contro le affermazioni di de Ursis-Longobardo, Leibniz prendeva posizione in difesa di Ricci ritenendo che nel pensiero cinese fosse presente l’idea di Dio al pari della dottrina cristiana. In una lettera al Bosses (1716), Leibniz sostiene che ancor più dei filosofi greci i cinesi si sono avvicinati alla verità[69].  Egli avrebbe voluto meglio precisare questa sua posizione ma lo colse la morte[70].

Nel De cultu Confucii, scritto prima della Novissima sinnica (1697), il filosofo tedesco riporta la questione della natura dei riti religiosi /civili degli antenati a una dimensione puramente semantica (si quam ejus definitionem Quaeramu )[71]. Come sostiene Piro, per “Leibniz, è possibile che i Cinesi non sappiano essi stessi se i loro culti sono civili o religiosi. […] Le lingue storiche umane sono infatti contrassegnate dall’ambiguità di senso, dalla polisemia. Solo un linguaggio di tipo matematico, una Characteristica Universalis, potrebbe sottrarsi completamente all’ambiguità. Per contro, le formule di un rito sono contrassegnate dall’opposta tendenza ad avere un significato non del tutto esplicitabile”[72].

Leibniz, osserva Etiemble, vedeva nell’accomodamento la capacità di operare una sintesi tra le diverse culture orientale e occidentale[73]. Infine, nel 1748 il Trattato viene pubblicato in versione integrale dal filosofo tedesco[74].

 

“Ex illa die”

Tornando in Cina, al momento in cui avevamo lasciato la nostra narrazione, il 22 marzo 1692, l’imperatore Kangxi (1654 -1722) emanò l’editto di tolleranza con il quale si aprivano ufficialmente le porte all’apostolato missionario[75]. Come osserva Durconet, l’editto era quasi un segno di riconoscenza ai gesuiti per i servizi scientifici, militari e diplomatici resi. L’editto non riconosceva la libertà di professare la religione cristiana né di fare proselitismo e tuttavia la posizione raggiunta a corte da vari gesuiti li fornì di una “copertura politica” anche nei momenti più duri per il cattolicesimo in Cina[76].

Nel 1687, il Papa Innocenzo XII aveva nominato il sacerdote parigino Charles Maigrot vicario apostolico del Fujian. Nel 1693, Maigrot emana il Mandatum seu Edictum, che riporta sette divieti relativi alla controversia dei riti. I gesuiti, non riconoscendo l’autorità di Maigrot, che di fatto sconfessava le disposizioni apostoliche, non vollero osservare i divieti. Maigrot allora inviò a Roma Nicholas Charmot per far approvare comunque il Mandatum[77].

Propaganda Fide riesamina la questione ed emana un nuovo decreto di proibizione, Cum Deus optimus (20 novembre 1704), e intanto invia in Cina Carlo Tommaso Maillard de Tournon (1688-1710), con il mandato segreto di bandire i riti  malabarici e cinesi[78],  gli uni con decreto Inter graviores emesso il 23 giugno 1704 a Pondichéry, gli altri con il decreto Quandoquidem audivimus emesso a Nanchino il 25 gennaio 1707[79].

L’Imperatore Kangxi, che ricevette il legato il 31 dicembre 1705, per nulla persuaso dall’atteggiamento di Tournon[80], anzi molto contrariato dall’opposizione ai riti, fece espellere da Pechino Tournon e relegarlo prima a Canton e poi ai domiciliari a Macao dove morì, in stato di prigionia, nel 1710, prima ancora di ricevere la berretta cardinalizia, che intanto gli era stata conferita a Roma.

Nel 1707, Kangxi impose il cosiddetto piào, ossia il permesso di predicare in Cina  vincolato al giuramento di rispettare  la prassi missionaria di Matteo Ricci[81].

Il Papa Clemente XI, il 19 marzo 1715, emana la costituzione apostolica Ex illa die[82] che impone il rispetto di tutte le precedenti disposizioni che proibivano i riti cinesi, vincolando i missionari al giuramento. L’imperatore Kangxi nel 1716 volle avere dei chiarimenti dal Papa inviando per mano del gesuita torinese Giuseppe Provana il cosiddetto Piao Rosso sottoscritto dai missionari presenti a Pechino. Tuttavia Provana, giunto a Roma, vi rimase e non tornò più in Cina, per sommo disdoro dell’Imperatore[83]che considerò questo un affronto diplomatico[84].

Il Papa inviò solo nel 1720 a Pechino una nuova delegazione, guidata da Carlo Ambrogio Mezzabarba. Questi fece delle concessioni nei confronti di alcuni gesti rituali in precedenza condannati, con le otto Permissioni (1721)[85]. 

Nel 1717, Kangxi  proibisce il proselitismo e la predicazione del cristianesimo. Il figlio, Yongzheng (16781735),che gli successe sul trono, decretò nel 1724 l’espulsione di tutti i missionari (relegati a Canton), eccetto quelli di Pechino, che continuarono ad operare a corte come funzionari[86]. Il provvedimento verrà confermato dall’imperatore Qianlong(1711-1799). Poiché le Permissioni di Mezzabarba non furono unanimemente accettate, la Questione dei riti ebbe una nuova ripresa. Promotore ne fu Carlo Orazio da Castoramo (1643-1755)[87].

Papa Bendetto XIV pubblicò, l’11 luglio 1742, la costituzione apostolica Ex quo singulari, con la quale confermava in maniera definitiva le proibizioni dell’Ex illa die[88].  Ciò determinò la fine della Controversia di riti cinesi, poiché si imponeva il divieto anche della sola ripresa della discussione, pena l’erogazione di provvedimenti canonici[89], e contestualmente si sanciva la non liceità della strategia dell’accomodamento di Ricci. Una decisione storica, che ebbe “conseguenze catastrofiche per il cristianesimo in Cina”, come osserva, sulla scorta di Pastor, Hans Kung[90]. Con la sua definitiva sanzione, Papa Lambertini, proibendo i riti, riduceva ad uno stato di marginalità sociale e al rischio di perseguibilità penale i cinesi convertiti, anche se l’obbiettivo  principale era più estesamente colpire la strategia missionaria dei gesuiti[91].

Una nuova ondata di missionari arriverà in Cina, al seguito degli eserciti europei dopo gli umilianti “Trattati ineguali” del 1842, dopo la “rivolta dell’Oppio” e la “ rivolta dei Boxer” contro i “diavoli stranieri “. Con l’aumento dei neofiti, però, si riproporrà la questione della formazione del clero locale e del rapporto con la millenaria cultura cinese. Il 25 marzo 1935 Propaganda Fide fece richiesta ai vicari apostolici in Cina di nuova documentazione che riavviasse “l’incresciosa” Questione dei riti[92]. La Questione può dirsi conclusa solo nel 1939, coll’emanazione dell’Istruzione Plane compertum, emanata dalla Congregazione di Propaganda della Fede (8 dicembre 1939), che riconosce il caratte­re civile delle cerimonie in onore di Confucio e degli omaggi ai defunti dinanzi alle tavolette funerarie:

“Si approva la partecipazione dei fedeli ai riti in onore di Confucio, sia nelle scuole sia in altri edifici, come pure si accetta la collocazione della sua immagine nelle scuole cattoliche, per il saluto con l’inchino del capo. Si permette la partecipazione passiva alle cerimonie con carattere superstizioso, in caso di necessità. Si riconosce la liceità delle manifestazioni di ossequio civile dinanzi ai defunti e alle tavolette memoriali”[93].

 

Va fatta una riflessione su quanto abbia influito in questo atto di Papa Pio XII il ruolo diplomatico svolto da P. Piero Tacchi Venturi, nel processo di riappacificazione tra Stato Italiano e Santa Sede. Non è un caso che nel 1942 verranno pubblicate dalla Libreria dello Stato le “Fonti Ricciane” di Pasquale D’Elia[94]. Si può dire che in Cina, tra XVII e XVIII secolo, si sia di fatto celebrato un “Concilio Vaticano II” ante litteram, quando in Europa erano ancora freschi di stampa i decreti del Concilio di Trento. Una interessante conclusione ci viene data da Etiemble, il quale evidenzia che se non si è avuta l’europeizzazione della Cina, di converso si è avuta la “sinesizzazione” dell’Europa, alla quale fu proposto, in una maniera distorta, appunto “accomodata”, il Regno di mezzo[95]. L’immagine della Cina, trasmessa dai gesuiti, come quella di un paese meritocratico, governato da filosofi laici[96], ebbe tanto successo in Europa che, paradossalmente, questo finì col ritorcersi contro i suoi stessi proponenti[97]. Cioè, i gesuiti loro malgrado fornirono agli intellettuali illuministi un pretesto per la secolarizzazione dell’Europa. Tra questi, per esempio, il fondatore della scuola fisiocratica Francois Quesnay(1694-1774), soprannominato il “Confucio D’Europa”[98], l’illustre esponente del razionalismo tedesco Christian Wolff[99] e il famoso Voltaire, fra tutti il più accanito detrattore dei gesuiti[100]. In tutti questi autori, ci fu una profonda ammirazione nei confronti del millenario regno cinese. In loro si ritrova il parallelismo “Confucio-Socrate”, veicolato dai gesuiti in Cina, in seguito alla questione dei riti che, al di là dei contenuti propriamente teologici, si rivelò la causa del primo grande confronto interculturale tra i due antichi mondi, un confronto iniziato nel “nome di Dio”.

 

 

Un vivo ringraziamento a P. Robert Danieluk, al dott. Sergio Palagiano e al dott. Mauro Brunello,dell’Archivio Storico dei Gesuiti di Roma,per le preziose indicazioni  nelle  ricerche  in ARSI,  al  personale dell’ Institutum Historicum Societatis Iesu (IHSI), al sign. Antonio Piscopiello, della Biblioteca comunale “A. Caloro” di Alessano, per la solerte disponibilità nell’accogliere le richieste bibliografiche.

 

Note

[1] Per una bibliografia essenziale su de Ursis, si vedano: Vita del P. Carlo Spinola della Compagnia di.Giesù morto per la Santa Fede nel Giappone del p. Fabio Ambrosio Spinola dell’istessa Compagnia all’Illustriss. e Reverendiss. Signore, e Padron Colendissimo, Monsignor Prospero Spinola Digniss. Vicelegato di Bologna, in Roma e in Bologna, per Clemente Ferroni, 1628, p. 165; Dell’Historia della Compagnia di Giesu la Cina terza parte dell’Asia descritta dal P. Daniello Bartoli della medesima Compagnia, Roma, Stamperia del Varese, 1663, passim; P. Couplet, Catalogus Patrum SocietatisJesu qui post obitum S.Francisci Xaverii primo saeculo sive ab anno 1581 usque ad 1681 in Imperio Sinarum Jesu Christi fidem. Propagarunt, Paris 1686, pp.12-13; Menologio di pie memorie d’alcuni religiosi della Compagnia di Gesù raccolte dal Padre Giuseppe Antonio Patrignani della medesima Compagnia e distribuite per quei giorni dell’anno, ne’ quali morirono. Dall’anno 1538. Fino al 1728. Tomo I, che contiene gennajo febbrajo, e marzo, Venezia, Niccolò Pezzana, 1730, pp. 51-52; H. Cordier, L’imprimerie sinoeuropéenne en Chine : bibliographie des ouvrages publiés en Chine par les européens au XVIIe et au XVIIIe siècle / par M. Henri Cordier, Parigi, Imprimerie Nationale, 1901, p. 41 e pp. 51-52; P.Ricci S.J., Relacao escripta pelo seu companheiro P.Sabatino De Ursis S.J. publicacao commemorativa do Terceiro Centenario da sua morte (II de maio de 1910) mandada fazer pela Missao Portoguesa de Macau, Roma, Tipografia Enrico Voghera, 1910; L.Pfister, Notices Biographiques et Bibliographiques sur les Jésuites de l’Ancienne Mission de Chine, Xangai, 1932-1934, pp. 103-105; L. G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti, Vol.I, Lecce, Gaetano Campanella, 1874, p. 56; Opere storiche del P.Matteo Ricci S.I., a cura di Pietro Tacchi Venturi, Macerata, Tipografia F.Giorgetti, 1913, Volume II, p. 58; G. Barrella, I Gesuiti nel Salento Appunti di storia religiosa da documenti editi ed inediti pubblicati in occasione del III Centenario dalla morte del B. Bernardino Realino apostolo e compatrono di Lecce (1616-1916) Parte prima, Lecce, Tipografia Giurdignano,1918, pp. 71-72; Idem, La Compagnia di Gesù nelle Puglie, 1574-1767, 1835-1940, Lecce, Tipografia Ed. Salentina, 1941, p. 81; Storia dell’introduzione del Cristianesimo in Cina scritta da Matteo Ricci S.I. nuovamente edita ampiamente commentata col sussidio di molte fonti inedite delle fonti cinesi da Pasquale M. D’Elia S.I.,Parte II, Libri IV-V, Da Nancian a Pechino (1597-1610-1611), Roma, La Libreria dello Stato,1949, p. 387; G. Ruotolo, Ugento Leuca Alessano Cenni storici e attualità, Siena Cantagalli, 1952, p.7; J.Wicki, Liste der Jesuiten-Indienfahrer:1541–1758, Münster Aschendorff, 1967, pp. 283-284; J. Dehergne S.J., Répertoire des Jésuites de Chine, de 1542 à 1800, Biblioteca Instituti Historici S.I. Volumen n.37, Roma, 1973, p. 75; J. F. Schutte, Monumenta Missionum Societas Iesu, Vol. XXXIV, Missiones Orientales, Monumenta Historica Japoniae I, Textus Catalogorum Japoniae 1549-1654, Roma, 1975, passim; Dictionary of Ming Biography 1368-1644, L.Carrington Goodrich, Editor Chaoyng Fang, Associate Editor, Volume II, M-Z, Columbia University Press, New York and London, 1976,pp. 1331-1332; F. Iappelli, I gesuiti nel Salento 1574 -1767, in «Societas», n.4-5, 1992, p.112; U. Baldini, Saggi sulla cultura della Compagnia di Gesù (secoli XVI-XVIII), Padova, Cleup Editrice, 2000, p. 94; G. Ricciardolo, Oriente e Occidente negli scritti di Matteo Ricci, Napoli, Chirico, 2003, p.164; G. Spagnolo, Xion Sanba. Sabatino de Ursis, un gesuita salentino alla corte di Pechino, in «Il Bardo», a.XX, n.1, Copertino, dicembre 2010, p. 4; ecc.

[2]Su Niccolò o Nicola Longobardo o Longobardi si vedano: Voce, a cura di Elisabetta Corsi, in Dizionario Biografico degli Italiani, Vol.65, 2005, on line,; J.Dehergne S.J., Répertoire des Jésuites de Chine, de 1542 à 1800, Biblioteca Instituti Historici S.I. Volumen n.37, Roma, 1973, pp. 153-154; L.Pfister, Notices biographiques et bibliographiques sur les Jésuites de l’39;ancienne mission de Chine 1552-1773, I, Changhai 1932, n. 32, pp. 58-66; N. Longobardo, Trattato sui terremoti, a cura di  Silvia Toro, Prefazione di Francesca Failla,  Bologna, EDB, 2017.

[3] Matteo Ricci, Il vero significato del “Signore del Cielo”, traduzione di Alessandra Chiricosta, Roma, Città del Vaticano, Urbaniana University press, 2006, p. 79.  La traduzione presente in questa edizione è quella del 1607 rivisitata dal dotto cinese Li Zhizao e da questi inserita nella raccolta di libri cristiani Tianxue Chu Han (1629) e tradotta in varie lingue nei paesi asiatici: Ivi, pp. 60-61.

[4] Il Confucianesimo “non contiene niente contro l’essentia della fede Catholica”, afferma Ricci nella sua opera Della entrata della Compagnia di Giesù e Christianità nella Cina, a cura di Maddalena Del Gatto, Prefazione di Filippo Mignini, Milano, Quodlibet, 2015, p. 98.

[5] T. Meynard, Chinese Buddhism and the Threat of Atheism in Seventeenth-Century Europe, in «Buddhist-Christian Studies», Vol. 31, University of Hawai’i Press, 2011, p. 3.

[6] M. Ricci, Dell’entrata cit., nota 3, p. 100.  Questa accusa verrà ripresa anche da Bartoli: “i riti propri di questa legge, tolti dalla Religione Christiana, fondata in que’medefimi tempi da gli Apostoli S.Bartolomeo e S.Tommaso”, afferma, in  Dell’Historia della Compagnia di Giesu La Cina Terza parte dell’Asia descritta dal P. Daniello Bartoli della medesima Compagnia, Roma, Stamperia del Varese, 1663, pp. 126-127.

[7] N.Standaert, Matteo Ricci e la cultura cinese, in Nell’anima della Cina. Saggezza, storia, fede, a cura di Antonio Spadaro, Roma, Ancora- La Civiltà Cattolica, 2017, p. 91.

[8] A. Cheng, Storia del pensiero cinese. Vol.I. Dalle origini allo “studio del Mistero”, Torino, Einaudi, 2000, pp. 36-39.

[9] P. Corradini, La questione dei riti cinesi nei secoli XVII e XVIII, in L’Europa e l’evangelizzazione delle Indie Orientali, a cura di Luciano Vaccaro, Milano, Centro Ambrosiano, 2005, p. 191.

[10] R. Étiemble, Les Jésuites en Chine. La querelle des rites (1552-1773), Collection Archives Julliard, Parigi, 1966, pp. 21-34.

[11] P. Corradini, op.cit., p.188; P. Santangelo, L’impero del Mandato Celeste La Cina nei secoli XIV-XIX, Bari, Laterza,2014, p. 299.

[12] M.Catto, L’ateismo dei cinesi in Matteo Ricci e Niccolò Longobardo, in www.giornalidistoria.net, p. 5.

[13] Ivi, p.9.  Sul Figurismo: Voce, a cura di J.Lopez Gay, in Diccionario histórico de la Compañía de Jesús (4 volúmenes) biográfico-temático, a cura di Charles E. O’Neill e Joaquín María Domínguez, Universidad Pontificia Comillas Madrid 2001, pp. 3058-3059; A. Albanese, La Cina secondo il figurismo di Foucquet (1665-1741) in alcuni documenti dell’epoca, in L’invenzione della Cina Atti dell’VIII Congresso AISC Lecce 26-28 aprile 2001, a cura di Giusi Tamburello, Università del Salento, Galatina, Congedo, 2004,pp. 39-59;  V. Pinot, La Chine et la formation de l’esprit philosophique en Million (1640- 1740), Genève, Slatkine Reprints, 1971, pp. 347-48.

[14] S. Pavone, I Gesuiti dalle origini alla soppressione, Bari, Laterza, 2004, p. 107.

[15] J. Casanova, I gesuiti e la globalizzazione, in «Annali di studi religiosi», n.16, 2015, pp. 11-31; inoltre si veda: J. Ücerler, Christianity and Cultures. Japan & China in Comparison,1543-1644, a cura di M. Antoni e J. Ücerler, Institutum Historicum Societatis Iesu, Roma, 2009.

[16] N. Standaert, Christianity shaped by the Chinese, in The Cambridge History of Christianity: Volume 6, Reform and Expansion 15001660, a cura di R. Po-chia Hsia, Cambridge Univerity Press, 2008, p. 575.

[17] Longobardo “sembra […] che avesse una conoscenza più profonda rispetto allo stesso Ricci, del cinese classico e dei commentari neoconfuciani”, scrive Nicolas Standaert in Matteo Ricci e la cultura Cinese, in Nell’anima della Cina. Saggezza; storia, fede, a cura di Antonio Spadaro, Roma, Ancora-La Civiltà Cattolica, 2017, p. 86.

[18] G. Elison, Deus Destroyed. The image of Christianity in Early Modern Japan, Harvard University Press, 1988, pp. 30-40.

[19] F. Bontinck, La Lutte autour de la Liturgie Chinoise aux XVIIe et XVIIIe Siècles, Publications de l’Université Lovanium de Léopoldville, 1962, p. 60.

[20] G. Criveller, Matteo Ricci Missione e ragione, Bornago, Pimedit, 2010, p. 82.

[21] Ivi, p.83.

[22] Gottfried Wilhem Leibiniz, La Cina. Presentazione di Carlo Sini, Milano, Spirali, 1987, p. 42.

[23] H. Cordier, La Question des rites chinois in «Annales du Musée Guimet  Bibliotèque de vulgarisation  Tomo 41  Conferences Au Musee Guimet 1914», Parigi, 1916,  p.151.

[24]Apostolic Legations to China of the eighteenth century, a cura di Sisto Rosso, South Pasadena, P.D. and Ione Perkins, 1948, p. 93.  Un volume del Settecento sembrerebbe alludere ad un’altra opera ancora di Sabatino: “Così che l’Orsi, ed il Ruiz composero  cadauno separatamente dall’altro, un Trattato, concordemente provando. che li Cinesi principi della loro Filosofia mai conobbero darsi sostanza alcuna distinta dalla materiale”: Giuseppe Maria Tabaglio, Giovanni Battista Benedetti, Baldassare Montecatin, Il disinganno contraposto de un religioso dell’Ordine de’Predicatori alla difesa de’Missionarii Cinesi della Compagnia di Giesù: Et ad un altro libricciuolo Giesuitico intitolato L’esame dell’autorità e[tc] : parte seconda, Colonia, Berges,1701, pp. 130-131.

[25] G. W. Leibiniz, La Cina. Presentazione di Carlo Sini, Milano, Spirali, 1987, pp. 43-44

[26] Apostolic Legations..cit., a cura di  Sisto Rosso, p. 93.

[27] S. De Fiores, Il Beato Camillo Costanzo di Bovalino. Con 17 lettere inedite dal Giappone alla Cina, Milano, Jaca Book, 2000, p. 149.

[28] Ivi, p.166.

[29]Joao Rodrigues è noto con l’appellativo “Tsüzu”, ossia l’“interprete”, perché era l’intermediario tra i giapponesi e i mercanti portoghesi; si deve a lui un dizionario portoghese-giapponese che è anche la prima grammatica giapponese scritta da un occidentale, ossia Arte da lingoa de Iapam, pubblicata a Nagasaki nel 1604: J.E. Moran, The Japanese and the Jesuits. Alessandro Valignano in Sixteenth-Century Japan, Routledge, London and New York, 1993, pp. 178-188.

[30] M. Cooper, Rodrigues the Interpreter An Early Jesuit in Japan and China, Weatherhill, New York and Tokyo, 1974, p. 283.

[31] H. B. Maitre, Un dossier bibliographique de la fin du XVIIe siècle sur la question des termes chinois, in «Recherches de Science Religieuse », n.36, Parigi, 1949, p. 66.

[32] Ivi, p. 67. Possiamo supporre che questo scritto sia il De vera cognizione. Su Gabiani: Voce, a cura di Giuliano Bertuccioli, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 51,1998, on line.

[33] J. Dehergne, R. Malek, Catéchismes et Catéchèse en Chine de 1584 À 1800, in «Monumenta Serica », Vol. 47, 1999, p. 424.

[34] Per Camillo Costanzo (1572-1622), si veda: Voce, a cura di J. López-Gay, in Diccionario cit., p. 2159.

[35] S.De Fiores, Il Beato Camillo Costanzo cit., pp. 173-174. Su Alfonso Vagnone (1566-1640): G. Falato, Tongyou Jiaoyu [educazione dei giovani] (ca. 1632), in Associazione Italiana di Studi Cinesi Atti del XV convegno 2015, a cura di Tommaso Pellin e Giorgio Trentin, Venezia, Libreria Editrice Cafoscarina, 2017, pp. 87-97.

[36] E. Menegon, Christian Loyalists, Spanish Friars, and Holy Virgins in Fujian during the MingQing Transition, in «Monumenta Serica », n. 51, 2003 p .342.

[37]P. Corradini, La questione dei riti cinesi nei secoli XVII e XVIII, in L’Europa l’evangelizzazione delle Indie Orientali, a cura di Luciano Vaccaro, Milano, Centro Ambrosiano, 2005, p. 191.

[38] Apostolic Legations to China of the eighteenth century, a cura di Sisto Rosso, South Pasadena, P.D. and Ione Perkins, 1948, p. 96.

[39] Ivi, pp. 96-97.

[40] Ivi, pp. 99-103.

[41] G. H. Dunne S.J., Generation of Giants The story of the Jesuits in China in the Last Decades of the Ming Dynasty, University of Notre Dame Press, Indiana, 1962, p. 286.

[42] P. A. Rule, KUng-Tzu or Confucius?: The Jesuit Interpretation of Confucianism, tesi Au s t r a l i a n N a t i o n a l U n i v e r s i t y, Canberra 1972, p. 257.

[43]Su Palmeiro si veda: L. M. Brockey, The Visitor André Palmeiro and the Jesuits in Asia,   Belknap Press Harvard, 2014, pp. 218 -245 e  pp. 278-326.

[44]Su Giulio Aleni si veda, fra gli altri: Voce, a cura di Pietro Pirri, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 2, 1960, on line; Giulio Aleni, Vita del Maestro Ricci Xitai del Grande Occidente, a cura di Gianni Criveller, Brescia, Centro Giulio Aleni, 2010; Idem, Geografia dei paesi stranieri alla Cina. Zhifang waiji, Traduzione, introduzione e note di Paolo De Troia. Brescia, Centro Giulio Aleni, 2009; Voce, a cura di B. Luk, in Diccionaro cit., p. 185.

[45] Feng-Chuan Pan, The Chinese-Jesuit metaphysical debate about Ultimacy  https://www.uniroma1.it/it/node/16399.

[46] L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del medio evo: compilata col sussidio dell’Archivio segreto pontificio e di molti altri archivi / Ludovico Pastor ; nuova versione italiana sulla 4. ed. originale del sac. prof. Angelo Mercati Volume XIII: Storia dei papi nel periodo della Restaurazione Cattolica e della Guerra dei Trent’anni: Gregorio XV (1621-1623) ed Urbano VIII (1623-1644), Roma, Desclée e C., 1934, p. 780.

[47]P. Guilday, The Sacred Congregation de Propaganda Fide (1622-1922), in  «The Catholic Historical Review», Vol. 6, n. 4, gennaio 1921, p. 479.

[48] notoriamente avverse ai gesuiti e più vicine alle posizioni gianseniste: S. Pavone, I Gesuiti dalle origini allo loro soppressione, Bari, Laterza, 2004, p. 104.

[49] Sulle Mep, si veda: M. Lunay, G. Moussay, Les Missions étrangères: Trois siècles et demi d’histoire et d’aventure en Asie, Parigi, Librairie Académique Perrin,2008. Su Propaganda Fide si rinvia a: G. Pizzorusso, La congregazione romana “De Propaganda fide” e la duplice fedeltà dei missionari tra monarchie coloniali e universalismo pontificio (XVII secolo), in Librosdelacorte.es Monográfico 1, año 6 (2014)  ISSN 1989-6425.

[50] Su Angelo Cocchi, si veda: Voce, a cura di Giuliano Bertuccioli, in Dizionario Biografico degli Italiani, Vol.26, 1982, on line; I.Vecchi O.P., I primi martiri d’Oriente, in « Dominicus», n.1, gennaio-febbraio 2001, Bologna, p. 4.

[51] E. Menegon, Jesuits, Franciscans, and Dominicans in Fujian,  in “Scholar from the West” GuilioAleni S.J. (1582-1649) and the Dialogue between Christianity and China, a cura di Tiziana Lippiello e Roman Malek, Nettetal Steyler,Verlag, 1997,  p. 222.

[52] G. Borsa, La nascita del mondo moderno in Asia Orientale. La penetrazione europea e la crisi delle società tradizionali in India, Cina e Giappone, Milano, Rizzoli,1977, p. 56.

[53]B. Bolognani, L’Europa scopre il volto della Cina Prima biografia di Martino Martini, in «La natura alpina», Rivista Trimestrale di Aggiornamento e di divulgazione Scientifica, Volume 30 fascicolo 18, Trento, 1979, p. 96.

[54] Brevis Relatio de Numero, Et Qualitate Christianorum apud Sinas Auctore Martino Martinio Tridentino Viceprovinciae Sinensis Procuratore è Societate Iesu Iuxta exemplar Romanum, Coloniae, Apud Ioannem Buseum, 1655. Su Martino Martini, si vedano: J. Sebes, Il ruolo di Martino Martini  nella Controversia dei Riti cinesi, in  Martino Martini  geografo   cartografo   storico teologo  Atti del convegno di Studi internazionali  Provincia autonoma di Trento-Museo Tridentino di scienze naturali, a cura di  Giorgio Melis, Trento, 1983 pp. 445 -471; Voce, a cura di Federico Masini, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 71, 2008, on line; G. Criveller, Martino Martini e la controversia dei Riti cinesi, in  Martino Martini, Man of Dialogue, a cura di Luisa M. Paternicò, Claudia von Collani, Riccardo Scartezzini, Università degli studi di Trento, 2016, pp. 199 -220.

[55] H. Cordier, Histoire générale de la Chine et de ses relations avec les pays étrangers. Tome III Librairie Paul Geuthner, Parigi, 1920 pp. 318-332.

[56] G. Criveller, La controversia dei riti cinesi storia di una lunga incomprensione, in «I quaderni del museo », n.23, Milano, 2012, p. 12. Un’altra ricostruzione ci è fornita da D.E. Mungello, Source Malebranche and Chinese Philosophy, in «Journal of the History of Ideas »,Vol. 41, n.4 Oct.-Dec., University of Pennsylvania Press, 1980, nota 23, pp. 558-559

[57]J. Ries, I cristiani e le religioni dagli Atti degli Apostoli al Vaticano II, Milano, Jaca Book, 2006, pp. 352-356. Una raccolta dei documenti dibattuti nella Conferenza è stata data alla stampe in: Acta Cantoniensia authentica: in quibus praxis missionariorum Sinensium Societatis Jesu circa ritus Sinenses approbata est communi consensu patrum Dominicanorum, & Jesuitarum, qui erant in China; atque illorum subscriptione firmata. Nunc primum prodeunt transmissa ex Archivio Romano Societatis Jesu, cum accessione epistolae di. Ludovici de Cice’ (senza indicazioni editoriali ),1700. Una ricca raccolta di atti e documenti sulla controversia dei riti, dal 1646 al 1698, in Giacomo Fatinelli, Historia Cultus Sinensium, seu varia scripta de Cultibus Sinarum, inter Vicarios Apostolicos Gallos aliosque Missionarios, & Patres Societatis Jesucontroversis, oblata Innocentio Tertio Pontifici Maximo ex Sacra Congregationi Em.um Cardinalium dirimendae huic Causae praepositorum: Adjecta Appendice Scriptorum Patrum Societatis Jesu de eadem Controversia. Coloniae, s.t., 1700.

[58]Giuseppe Maria Tabagli, Giovanni Battista Benedetti, Baldassare Montecatin: Il disinganno contraposto de un religioso dell’Ordine de’Predicatori alla difesa de’Missionarii Cinesi della Compagnia di Giesù: Et ad un’altro libricciuolo Giesuitico intitolato L’esame dell’autorità e[tc] : parte seconda Colonia, Berges,1701, pp. 130-131, ma la vicenda, nelle pagine successive, è  ancor meglio  precisata.

[59]Una copia della Responsio “de lusitano idiomata versata in latinum   per fr , Antonio de santa Maria 32 ff datag 1661”, è conservata presso la Biblioteca Casanatese a  Roma,  come riporta E. Menegon, The Casanatense Library (Rome) and its China Materials. A Finding List, in « Sino-Western Cultural Relations Journal », XXII, Waco, TX, USA, 2000, p. 40. Liam Matthew Brockey, in Journey to the East: the Jesuit mission to China, 1579-1724, Cambridge, Belknap Press of Harvard University Press, 2007, p. 133, riferisce di un’altra copia che è una parziale versione dello scritto di Longobardo del 1620 nella nota a commento di questa affermazione: «Santa Maria (forse grazie a Jean Valat) trovò la “Resposta breve” di Longobardo nella residenza di Shandong dei Gesuiti nei primi anni del 1660. Due terzi del trattato erano stati bruciati, ma l’introduzione – una discussione sulla cosmologia cinese e le interviste di Longobardo ai letterati sui termini controversi – era intatta. Santa Maria inviò una traduzione latina ai cardinali della Propaganda Fide, l’organo ecclesiastico romano responsabile degli affari missionari. Questo testo è stato stampato in diverse lingue in Europa dai rivali della Società, eppure i volumi mancavano degli avvertimenti di Longobardo che avvertivano il lettore che i suoi argomenti potevano essere correttamente compresi solo nel contesto degli altri trattati di João Rodrigues, Sabatino de Ursis, Alfonso Vagone e Diego de Pantoja. Per la lettera di Santa Maria, vedi Antonio de Santa Maria ai Cardinali della Propaganda Fide, [Jinan?], 29 marzo 1662, APF Scritture Riferite nei Congressi, Indie Orientali Cina, 1: 23r / v. »: Ivi, p. 444.

Un altro scritto di Longobardo sempre riprodotto da Santa Maria è conservato presso la BNF: https://archivesetmanuscrits.bnf.fr/ark:/12148/cc35020j 

Una copia della Responsio autenticata nel 1662 dal domenicano Juan Bautista Morales  è l’origine del Trattato di Navarrete: M. Catto, L’ateismo dei cinesi in Matteo Ricci e Niccolò Longobardo, in www.giornaledistoria.net, p. 10. Su Antonio di Santa Maria o Caballero si veda: A. Van Den Wyngaert, Sinica franciscana: Vol. 2., Relationes et epistolas fratrum minorum saeculi 16. et 17. / collegit, ad fidem codicum redegit et adnotavit p. Anastasius Van Den Wyngaert, Firenze (Quaracchi) : Tip. Barbera, Alfani e Venturi, 1933, pp. 317-606.

[60]Domingo Navarrete, Tratados históricos, políticos, éthicos y religiosos de la monarchia de China, I, Madrid, 1676.  Il Trattato contiene, alle pp. 246-289, la Respuesta breve sobre las controversias de el Xang  ti …., ossia la traduzione spagnola della Responsio di Longobardo, che, come dichiara Navarrete, si basa sull’originale conservato nell’Archivio di Propaganda Fide di Roma che ne autorizza altresì la pubblicazione: Ivi, p. 245.

Il Trattato, secondo quanto riporta Intorcetta, per mano del gesuita Vallat, venne in possesso di Santa Maria che lo tradusse anche in spagnolo: R.P.Prosperi Intorcetta Societatis Jesu. Testimonium de cultu sinensi, datum anno 1668, Parigi, 1700, p. 227.

La copia di cui parla Intorcetta, riferendo la testimonianza dei padri Francesco de  Ferrari e Adam Shall, è l’unica  salvatasi dalle fiamme ordinate  dai due superiori nel 1649: “igne combusti anno 1649”: R.P. Prosperi Intorcetta. Testimonium cit., p .226.   Come precisa Criveller, si tratta del rapporto di Nicolò Longobardo bocciato dai confratelli nel gennaio1628 in occasione della conferenza di Hángzhōu che si presumeva distrutto, secondo la pratica di cancellare, quando vi fossero, le evidenze dei disaccordi: G. Criveller, La controversia dei riti cinesi storia di una lunga incomprensione, in « I quaderni del museo », n.23, Milano, 2012, p. 12.

La posizione del Bartoli, nella sua opera La Cina del 1663, alle pp. 895-898, è  in difesa delle soluzioni ricciane, contro  ogni oppositore anche interno  alla compagnia stessa; dura, ad esempio, è la sua reprimenda  nei confronti dei gesuiti giapponesi ai quali rimproverava di intervenire su questioni che riguardavano il confucianesimo e non il buddismo che loro conoscevano meglio; né  va dimenticato che la sua stessa opera di “Istorico della Compagnia in lingua volgare”, cioè L’Asia, va considerata come rientrante nelle azioni apologetiche messe in campo dalla Compagnia sotto attacco per la questione dei Riti. Si vedano: W. Yinlan, La Cina di Daniello Bartoli, Roma, Urbaniana University Press, 2014, pp. 33-34; D. Bartoli, L’Asia Istoria della Compagnia di Gesù, a cura di Umberto Grassi, Introduzione di Adriano Prosperi, Contributi di Elisa Frei, Torino, Einaudi, 2019.

Parimenti in un’ottica apologetica va vista la pubblicazione del De Christiana expeditione apud sinas suscepta ab Societate Jesu. Ex P. Matthaei Riccii eiusdem Societatis commentariis Libri V: Ad S.D.N. Paulum V. In Quibus Sinensis Regni mores, leges, atque instituta, & novae illius Ecclesiae difficillima primordia accurate & summa fide describuntur auctore P. Nicolao Trigautio, Belga, ex eadem Societate, Augsburg,1615, che si inserisce nel clima della controversia: G. Ricciardolo, Oriente e Occidente negli scritti di Matteo Ricci, Napoli, Chirico, 2003, pp. 176-194.

[61]Stralci dell’opera di Longobardo, anche in Apologia de padri Domenicani missionarii della China; o pure risposta al libro del padre Le Tellier Giesuita, intitolato difesa de nuovi christiani, e dilucidatione del P. Le Gobien della stessa Compagnia, sopra gli honori, che li Chinesi prestano à Confucio, ed a i morti. Per un religioso dottore, e professore di teologia dell’ordine di S. Domenico, Colonia, Cornelio D’Egmon,1699, p. 206.

[62]Apostolic Legations to China of the eighteenth century, a cura di Sisto Rosso, cit., p.124.

[63] D. Navarrete, Tratados históricos, cit., p.125.

[64] Apostolic Legations to China of the eighteenth century, a cura di Sisto Rosso, cit, p.124.

[65]Zhang Kai, Diego de Pantoja Y China, Editorial Popular, Madrid, 2018, nello specifico pp. 279-329; Diego De Pantoja, Sj (1571-1618) Un puente con La China de los Ming, a cura di Wenceslao Soto Artuñedo Xerión, 2018. Su Diego Pantoja (1571-1618): Voce, a cura di J. Sebes, in Diccionario cit., p. 6147.

[66] Traité Sur Quelques Points De La Religion Des Chinois Par le R.P. Nicolas Longobardi, Ancien supérieur des missions de la Compagnie de Jésus à la Chine  Imprimé à Paris l’an 1701, auquel on a joint quelques remarques de M. G. W. Leibniz.  Si veda: F.Perkins, Leibniz and China: A Commerce of Light, Cambridge University Press, 2004, p. 159

[67] E. Corsi, Niccolò Longobardo, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Treccani, 2005, 65, pp. 716-720.

[68] G.W. Leibniz, Lettre sur la philosophie chinoise à M. de Rémond, in Opera Omnia, Tomo IV, Genève, chez Fratres de Tournes, 1768, p.171.  La Parte I contiene altri scritti di Leibniz  sulla  Cina,  le pp. 89-144 contengono il Trattato di Longobardo.

[69] G. W. Leibniz, The Leibniz–Des Bosses Correspondence, a cura di Daniel Garber e Robert C. Sleigh, Jr., Yale University, 2007, p. 359.

[70] M. R. Antognazza, Leibniz una biografia intellettuale, Milano, Hoepli, 2015, pp. 605-606; M. Laerke, On religions, in Leibniz e la cultura enciclopedica, a cura di Massimo Mori, Bologna, Il Mulino, 2018, pp. 265-266. Inoltre, come riporta Franklin Perkins, alla base del Discours sur la théologie naturelle des Chinois (1716) di Leibniz,  ci sono due scritti: Confucius, Sinarum Propaganda Philosophus, sive Scientia Sinensis latina exposito studio et operâ Properi Intorcetta, Christiani Herdtrich, Francisci Rougemont, Philippi Couplet, PP. Soc. Jesu, Parigi 1687,  e il  Trattato di Longobardo: F. Perkins, Leibniz and China: A Commerce of Light, Cambridge University Press, 2004, p. 159. Sul gesuita Intorcetta (1625-1696): F. M. Abbate, Prospsero Intorcetta un gesuita piazzese missionario in Cina, Caltanissetta, Edizioni Lussografica, 2018.

Per una ricchissima raccolta di lettere di Leibniz con i gesuiti missionari in Cina, si veda: G. W. Leibniz, Der Briefwechselmit den Jesuiten in China(1689 – 1714),Herausgegeben und mit einer Einleitung versehen von Rita Widmaier Textherstellung und Ubersetzung von Malte-Ludolf Babin Felix Meiner Verlag  Hamburg, 2006. Secondo Spence, per Leibniz la questione della natura dei riti era un aspetto di secondaria importanza, mentre egli era più interessato ai contenuti  propriamente filosofico-morali del confucianesimo: J. D. Spence, Les Chinois vus par les Occidentaux, de Marco Polo à nos jours, Société et cultures de l’Asie, ‘Université de Montréal, 2000, p. 108.  Per un’approfondita analisi delle influenze della cultura cinese sull’opera e sul pensiero filosofico di Leibniz si rinvia a: D. E. Mungello, Leibniz and Confucianism: The Search for Accord, University Press of Hawaii Honululu, 1977.

[71] I. Klutstein-Rojtrnan, R.J. Zwi Werblowsky, Leibniz: De cultu Confucii civili, in «Studia Leibnitiana», n. 16, 1984, p. 98.

[72]F. Piro, Che cosa è precisamente un ‘culto civile’?Un confronto tra le strategie accomodazionistiche di Intorcetta e Leibniz”, in Prospero Intorcetta S.J.: Un Siculus Platiensis nella Cina del XVII secolo, a cura di Antonino Lo Nardo, Vanessa Victoria Giunta, Giuseppe Portogallo, Fondazione Prospero Intorcetta Cultura Aperta, Piazza Armerina, 2018, pp. 174-184.

[73] R. Eteimble, Conosciamo la Cina? La Cina ieri e oggi, Milano, Il Saggiatore, 1972, p.74. Più recentemente il gesuita sinologo Standaert ha messo in evidenza come il più grande errore fatto dalla Chiesa nel dirimere la Questione dei Riti fu quello di non aver tenuto debitamente conto del parere degli intellettuali cinesi: N. Standaert, Chinese Voices in the Rites Controversy Travelling Books, Community Networks, Intercultural Arguments Bibliotheca Instituti Historici, V. 75, Roma, 2012.

[74] Lettre sur la Philosophie Chinoise à M. de Rémond par Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) Genève, chez Fratres de Tournes, 1748.  La traduzione italiana del Trattato, insieme ad altri scritti di Leibinz sulla Cina, si trova in G. W. Leibiniz, La Cina. Presentazione di Carlo Sini, Milano, Spirali, 1987.

[75] E. Ducornet, La Chiesa e la Cina, Milano, Jaca Book, 2008, p. 32; C. Giraudo, Se Matteo Ricci fosse sbarcato in Madagascar… La sacramentaria del 3° millennio: una tradizione in cerca di traduzione, in L’inculturazione della prassi sacramentaria: una traduzione?, a cura di A. Gasperoni e B. Selene Zorzi, Assisi, Cittadella Editrice, 2012,  p. 93.

[76]J. E. Wills Jr., The World from 1450 to 1700, The Oxford University Press 2009, p. 43.

[77] C. Von Collani, Charles Maigrot’s Role in the Chinese Rites Controversy, in The Chinese Rites Controversy. Its History and Meaning, a cura di David E. Mungello, Monumenta Serica Monograph Serie 33, Steyler Verlag, Nettetal 1994, pp. 149-183.

[78] G. Dell’Oro, Oh quanti mostri si trovano in questo nuovo mondo venuti d’Europa: vita e vicissitudini di un ecclesiastico piemontese tra Roma e Cina: Carlo Tommaso Maillard de Tournon 1668-1710, in «Annali di storia moderna e contemporanea», 1998, anno IV, n. 4 p. 325.

[79]M. Fatica, Il Portogallo, la Santa Sede e la legazione di Carlo Tommaso Maillard de Tournon in India e in Cina (1704-1710), in L’Orientalistica a Napoli. Atti dei convegni internazionali Il Portogallo in Cina e Giappone nei secoli XVI-XVII (Napoli, 12-13 maggio 2014) e Riflessi europei della presenza portoghese in India e nell’Asia orientale (Napoli, 4 maggio 2015), a cura di Rosaria de Marco, Napoli, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, 2017, p. 207;

Su de Tournon: Voce, a cura di Giacomo Di Fiore, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 67, 2006, on line.

[80] M. Biffi, Ridefinizione del sinocentrismo come criterio ermeneutico della diplomazia cinese. Modelli teorici, strategie attuative e riferimento alle relazioni con la Santa Sede, Padova, Cedam, 2019, pp. 99-105. Come sottolinea Gagliardi, la  controversia fu gestita da parte  di Roma e Pechino in un clima di “reciproca intransigenza”:  E. Gagliardi,  L’inculturazione del cattolicesimo in Cina da padre Matteo Ricci a Pio XI, in « Cultura e Identità », Anno II, n. 7, settembre -ottobre Roma, 2010, p. 66.

[81] V. Cronin, Il saggio dell’Occidente (1552-1610 ), Milano, Bompiani, 1956, p. 345.

[82]Collectanea S. Congregationis de Propaganda Fide Seu decreta instructiones rescripta pro apostolicis missionibus Vol.I 1622- 1866,  Typographia Polyglotta Roma, 1907, pp. 39-40.

[83] Su Provana, si veda: Voce, a cura di Eugenio Menegon, in Dizionario Biografico degli Italiani,Volume 85, 2016, on line.  G. Criveller, Messaggio dell’imperatore Kangxi a Papa Albani sulla controversia dei riti cinesi, in «L’Osservatorio Romano»,  22/08/ 2109,  p. 4.

[84]F. Vossilla, Artistic diplomacy during and after the Rites Controversy, in Ferdinando Moggi (1684-1761). Architetto e gesuita fiorentino in Cina, a cura di S. U. Baldassarri, C. Cinelli, F. Vossilla, Firenze, Pontecorboli Editore, 2018, p. 25 .

[85] Sostegno Maria Viani, Historia delle cose operate nella China da Monsignor Gio. Ambrogio Mezzabarba, patriarca d’Alessandria, legato apostolico in quell’Impero, Monsù Brianson, Parigi, 1739.

[86] P. Corradini, La Cina  – Storia Universale dei Popoli e delle Civiltà,  Volume XIX, Torino, UTET, 1969 p. 217.

[87] Su Castorano: Voce, a cura di Michela Catto, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 79, 2013, on line; G. Di Fiore, La Legazione Mezzabarba in Cina (1720-1721), Istituto Universitario Orientale, Collana “Matteo Ripa” VII, Napoli, 1989.

[88] Confirmatio, et innovatio constitutionis incipientis: ex illa die: a Clemente papa XI. In causa ritum, seu ceremoniarum Sinensium editaeRomae: ex Typographia reverendae Camerae Apostolicae, 1742.

[89] A. Santini, Cina e Vaticano dallo scontro al dialogo, Roma, Editori riuniti, 2003, p. 49.

[90] H. Kung, J. Ching, Cristianesimo e religiosità cinese, Milano, Mondadori,1988, p. 257.

[91] G. Greco, Benedetto XIV Riforme e conservazione, Roma, Salerno editore, 2011, p. 161.

[92] Storia della Chiesa, Vol.XXIV ( 1846-1965 ), a cura di Josef Metzerl, Cinisello Balsamo, Ed. San Paolo, 1999, p. 111.

[93] Plane compertum est in Orientalium Regionibus nonnullas caeremonias, licet antiquitus cum ethnicis ritibus connexae essent, in Acta Apostolicae Sedis Commentarium Officiale Annus X X X I I- Series  II- Vol. VII; Romae, Tipys  Polyglottis Vaticanis 1940, pp. 24-27.

[94] Tacchi Venturi dal febbraio 1923 riveste il “ ruolo informale di  incaricato d’affari”  della Segreteria di Stato della Santa Sede: G. Sale, La chiesa di Mussolini. I rapporti tra fascismo e religione, Milano, Rizzoli,2011, p. 90. L’11 febbraio 1932, Mussolini  si reca in visita ufficiale in Vaticano e responsabile dei preparativi è proprio Tacchi Venturi, come riporta un altro storico gesuita, Giacomo Martina, in Storia della Compagnia di Gesù in Italia (1984- 1983 ) Brescia, 2003, p. 264. Sul ruolo diplomatico svolto da Tacchi Venturi si rinvia a: S. Palagiano, Pio XI e Pietro Tacchi Venturi SJ, in Pio XI e il suo tempo, Atti del Convegno Desio, 10 Febbraio 2018, a cura di Franco Cajani, in  «I Quaderni della Brianza», anno 498, n.184, 2018, pp. 545 -565; sul suo contributo alle vicende editoriali dell’Enciclopedia Italiana: G.Turi, Il Mecenate il filosofo e il gesuita. L’ «Enciclopedia Italiana » specchio di una nazione, Bologna, Il Mulino, 2002.

[95] R. Etiemble, Conosciamo la Cina ? La Cina ieri e oggi, Milano, Il Saggiatore, 1972, p. 66.

[96]Ivi, pp. 66-67; M. Catto, Atheism: A Word Travelling To and Fro Between Europe and China, in The Rites Controversies in the Early Modern World, a cura di G. Županov e Pierre Antoine Fabre, Brill 2018, pp. 68-88.

[97] J. Wrigth, in I gesuiti storia mito e passione, Roma, Newton Compton, 2005, p. 160, dice: “ La cultura che distrusse la Compagnia doveva la maggior parte dei propri svaghi e mode ai reportage dei missionari gesuiti”.

[98] L. Lanciotti, Che cosa ha veramente detto Confucio, Roma, Astrolabio Ubaldini Editore,1997 p. 104; V. Pinot, Les physiocrates et la Chine au XVIIIe siècle, in «Revue d’histoire moderne et contemporaine»,tome 8, n.3,1906, pp. 200-214.

[99] F. Marcolungo, La nozione di progresso in Christian Wolff: tra metodo matematico, logica e impegno etico, in Modernità e progresso Due idee guida nella storia del pensiero, a cura di Gregorio Piaia e Iva Manova, Padova, CLEUP, 2014, pp. 99-100; M. Campo, Cristiano Wolff e il razionalismo precritico Vol. 2 Vite e pensiero, Miano 1939, pp. 519-520.

[100] Voltaire, Il secolo di Luigi XIV, 1739,1752, con Saggio di Giovanni Macchia, Introduzione a cura di Enrico Sestan, traduzione Umberto Morra, Torino, Einaudi,1994.

Libri| In Terra d’Otranto tra ‘800 e ‘900

Davide Elia, In Terra d’Otranto tra ‘800 e ‘900. Vicende, personaggi, strade e luoghi da non dimenticare, Roma, 2022, ISBN 979-12-210-0186-0.

 

di Fabrizio Suppressa

Fresco di stampa è il libro di Davide Elia, ricercatore presso l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) di Roma ed appassionato storico salentino, con cui l’autore presenta al pubblico le sue ricerche condotte, oltre che minuziosamente presso i vari archivi storici locali, anche direttamente sul “campo” in sella alla sua fedele bicicletta.

Il libro è composto da quattro episodi sconosciuti di microstoria salentina, avvenuti tra Otto e Novecento, accomunati da una metodologia di ricerca scientifica ed una esposizione, che seppur tecnica, è ampiamente comprensibile a tutti i lettori, grazie anche alle esaustive note a piè di pagina.

Nel primo capitolo l’autore illustra le sue tesi atte a smentire due curiosi falsi storici riportati in molti libri di storia locale e poi rimbalzati sul web: una battaglia risorgimentale combattuta tra Copertino e Nardò e il passaggio in incognito di Giuseppe Garibaldi che avrebbe contribuito ad assegnare il nome ad una remota contrada tra Copertino e Lequile.

Nel secondo capitolo il ricercatore ripercorre il “giallo” del “delitto Corina”, avvenuto a Martano nel 1815, che portò alla sommaria fucilazione di undici persone su ordine del generale inglese Richard Church, già inviato dalla corte di Napoli con il compito di debellare il diffuso fenomeno del brigantaggio in Terra d’Otranto. L’autore ha qui il merito di aver rettificato nomi e circostanze, riportati erroneamente dallo storico Pietro Palumbo nel 1911 nel celebre e corposo libro “Risorgimento Salentino”, poi riedito acriticamente nel 1968.

Prosegue il testo con l’approfondimento di uno sconosciuto “monumento trigonometrico”, ben conservato tra le campagne di Copertino e Galatina e che costituiva uno dei due estremi della cosiddetta “Base di Lecce”, una linea immaginaria ad altissima precisione, propedeutica alla redazione della Carta Topografica del Regno d’Italia pubblicata a partire del 1875.

Infine, nell’ultimo capitolo l’autore, per dovere civico e come promessa a un caro amico, riporta alla luce l’episodio dimenticato della strage ferroviaria del 1944 avvenuta nella sua Copertino, dove il deragliamento del treno proveniente da Nardò causò la morte di otto persone. Un terribile frammento di storia cittadina, purtroppo già rimosso dalla memoria collettiva, avvenuto mentre il resto della Penisola è allo sbando per la guerra civile. Il triste epilogo di questa vicenda, complice il periodo di estrema povertà causato dalla Seconda Guerra Mondiale, è sicuramente il seppellimento completamente nudo di uno dei deceduti, in quanto gli abiti, di buona fattura, furono sottratti furtivamente alla salma. Un episodio, forse già “neorealista”, ma che può essere da stimolo o l’occasione per le Autorità Cittadine per il collocamento di una lapide commemorativa nella locale stazione ferroviaria a memoria delle otto innocenti vittime.

Un libro che pertanto raccoglie un lungo lavoro di ricerca, che pur riassumendo “il frutto di quattro o cinque” curiosità dell’Autore, non rimane confinato nel cassetto, ma è offerto da Davide a tutti gli appassionati di storia del Salento.

 

Il libro è acquistabile contattando l’autore o presso la libreria Trono di Copertino.

Il culto di San Biagio ad Avetrana

processione con la statua di San Biagio ad Avetrana

 

a cura del Comitato Festa Patronale

 

Nel 1118 la contessa Teodora di Lecce decise di costruire una chiesa, dedicata alla Madonna, da donare a suo fratello Goffredo e ai suoi soldati veterani che pattugliavano i confini della contea salentina. 

Ciò contribuì a indicare queste terre come quelle dei “Veterani”, per cui anche la chiesetta costruita dalla contessa prese il titolo di “Santa Maria della Vetrana”, che diede poi il nome al piccolo borgo formatosi intorno. 

Non fu allora difficile ai soldati leccesi diffondere fra gli abitanti la devozione verso il proprio concittadino, San Biagio. 

E così, con le offerte di tutta la popolazione e l’aiuto dei monaci basiliani, che contribuirono ad alimentare la devozione verso questo santo, fu costruita un’altra piccola chiesetta, fornita di tutto l’occorrente per la celebrazione della Santa Messa; e in essa i soldati lasciarono, come dono alla popolazione, una reliquia del santo. 

Tuttavia, a causa delle incursioni dei Saraceni, presto la popolazione dovette abbandonare il piccolo borgo per rifugiarsi dentro le mura del torrione fortificato. Ma la chiesetta di San Biagio non perse la sua importanza e divenne meta giornaliera di pellegrinaggio da parte dei fedeli. 

La statua del santo venerata in Avetrana

 

Passarono i secoli e la vita scorreva tranquilla nel piccolo borgo fortificato della Vetrana quando, improvvisamente, il 20 febbraio 1743, nelle prime ore del pomeriggio un violento terremoto si abbatté sulla città e su tutto il Salento, mietendo inaspettatamente pochissime vittime. 

Le violente scosse fecero crollare la chiesa matrice e parte del Torrione; non vennero risparmiate nemmeno la chiesa costruita secoli prima dalla contessa Teodora e la chiesetta di San Biagio, come del resto buona parte delle abitazioni del paese. 

La popolazione si riversò impaurita per le piazze e lì vide il miracolo: apparve San Biagio, nelle vesti di vescovo glorioso, che appoggiò al suolo il pastorale che aveva tra le mani, fermando le violente scosse e soccorrendo la popolazione che lo pregava incessantemente da secoli. 

Da allora non ci fu casa che non custodisse un’immagine di “Santu Lasi” (come veniva affettuosamente chiamato nel vernacolo locale), in onore del quale ardeva giorno e notte, come segno di gratitudine, una lampada ad olio, che sembrava veicolare poteri curativi. Infatti, quando qualcuno della famiglia aveva a che fare con tosse, laringiti o faringiti, la donna più anziana intingeva le dita in quell’olio e ungeva la gola del malato.

Nella nuova chiesa matrice fu dedicato a San Biagio il primo altare della navata sinistra; fu quindi commissionata una tela che non lo rappresentasse nell’atto di guarire il bambino che soffocava, ma che  ricordasse, a perenne memoria, il patrocinio e la protezione che il santo vescovo elargì a tutta la popolazione avetranese. 

Da quel lontano 1743, ogni anno si rinnova il legame tra gli avetranesi e il loro glorioso patrono San Biagio. E, per ringraziare della particolare protezione concessa, viene organizzata in suo onore una delle feste più belle del Salento.

Luminarie per la festa di San Biagio ad Avetrana

luminarie Avetrana

 

Ritagli di cielo. La pittura di Marcello Torsello

CARDIGLIANO-LA CHIESA-

 

di Paolo Vincenti

È recentemente scomparso Marcello Torsello. “Ritagli di cielo” è il titolo di una mostra pittorica da lui tenuta nel 2010 al Museo Internazionale Mariano di Arte Contemporanea di Alessano, a Borgo Cardigliano di Specchia e a Villa Meridiana di Santa Maria di Leuca, e raccolta in un Catalogo curato dal professor Carlo Franza. L’autore era forse più conosciuto per essere il padre del fotoreporter Gabriele Kash Torsello, all’attenzione delle cronache nazionali e mondiali per il suo rapimento avvenuto in Afghanistan nel 2006 e animatore dell’agenzia fotografica “ProPugliaPhoto”.

Carlo Franza, nella presentazione del Catalogo, spiega che  “le vicende della pittura di Marcello Torsello,[…] lasciano leggere dichiarazioni di attualità, dove passato presente e futuro si svelano intrecciati al filo del desiderio…. Il paesaggio di Torsello se da una parte guarda all’americano Edward Hopper per una sorta di pittura silenziosa, calma, stoica, luminosa e classica, dall’altra si allontana dalle forme e dall’iconicità, per segnalarsi come addirittura svolta astratto-geometrica, per via dei tagli e delle scenografie, per via di certi comignoli sui tetti che sono fortemente evocativi, immagini avvolte nella luce e nell’ombra, addirittura fantasmi dei luoghi…”.

PARLANO LE OMBRE 100X70, ACRILICO SU TELA

 

E’ facile dunque farsi sorprendere da questi dipinti di Torsello, realizzati con la tecnica dell’acrilico, da questi “ritagli di cielo” appunto, in cui leggiamo, tra astrazione e consistenza, quei comignoli su tetti, quei meriggi pallidi e assorti, quelle edicole votive, in un paesaggio marcatamente salentino, su sfondi bianchi e grigi fra i quali si stagliano quel blu e quell’azzurro così poetici.

Una poesia silenziosa, una pittura di colore, emozione incomprimibile, attraverso la quale l’autore realizza il proprio animo.  Marcello Torsello, nato ad Alessano nel 1935, si era dedicato, per motivi professionali, alla tabacchicoltura. Una volta in pensione, aveva deciso di volgersi all’arte seguendo un’antica inclinazione che lo ha portato a dare corpo pittorico ai suoi sogni, ideali, speranze.

LA MASSERIA

 

Nel 2009, a Milano gli è stato conferito dal Circolo della Stampa il Premio delle Arti per la pittura, edizione XXI. Ha tenuto diverse mostre, nel Salento, fra Alessano e Santa Maria di Leuca, e poi Firenze, Roma. Una bella foto dell’autore, in quarta di copertina, ci mostra un volto sereno, seppur scavato dalle rughe, di chi forse ha consapevolezza della finitezza dell’uomo a raffronto dell’eternità dell’arte.

L’iconografia Vaniniana nel tempo: da Antonio Bortone a Donato Minonni

 

di Paolo Vincenti

    

Nell’ambito dell’arte scultorea vaniniana, fra le opere degne di menzione è il busto realizzato nel 1868 dal grande scultore ruffanese, ma fiorentino di adozione, Antonio Bortone(1844-1938). Troppo note la figura e le opere del Bortone per dovercene soffermare in questa sede più del dovuto. Lo scultore Antonio Ippazio Bortone, nato a Ruffano, dopo la formazione napoletana, si trasferisce a Firenze dove raggiunge la gloria, divenendo uno dei più ammirati artisti italiani dell’epoca. Basti pensare che a Firenze viene chiamato a lavorare alla facciata di Santa Maria del Fiore, per la quale realizza, tra gli altri, le due statue di Sant’Antonino e San Giacomo Minore (1887) e i due bassorilievi di Michelangelo e Giotto (1887), oppure al Michele di Lando (1895), nella Loggia del Mercato Nuovo. Per quanto riguarda le opere salentine, molte sono quelle degne di menzione, fra le quali: il busto di Giuseppe Garibaldi (1867), in marmo, che si trova presso il Castello Carlo V di Lecce; i busti in marmo di Francesco Milizia (1872), di Antonio Galateo (1873) e di Filippo Briganti (1875), presso la Biblioteca Provinciale N. Bernardini di Lecce; la statua in marmo di Sigismondo Castromediano (1890), che si trova nel Museo omonimo di Lecce, il Monumento a Sigismondo Castromediano (1903), nella omonima piazzetta leccese; il Monumento a Francesca Capece (1900) a Maglie; il monumento a Salvatore Trinchese (1907) a Martano; il ritratto di Pietro Cavoti (1912), presso il Convitto Colonna a Galatina, ma soprattutto Il Fanfulla (1877), che gli valse l’appellativo  di “mago salentino dello scalpello”, come lo definì Brizio De Santis, nel basamento dell’opera. Il Fanfulla gli diede fama anche in Francia, poiché all’Esposizione Universale di Parigi nel 1878 ottenne la medaglia di 3° grado. Questo monumento, oggetto pochi anni fa di un intervento di restauro, dopo essere stato a lungo nella Villa Comunale, si trova oggi in Piazza Raimondello Orsini, a Lecce[1].

Fu l’Onorevole Gaetano Brunetti[2], all’epoca Presidente della Provincia di Lecce, nonché mecenate dello scultore, a commissionare la realizzazione in marmo di un busto dedicato a Giulio Cesare Vanini,“affidandone l’esecuzione all’esimio scultore Antonio Bortone da Ruffano, dimorante a Firenze”, come scrive Cosimo De Giorgi[3]. Vi è una nota corrispondenza fra il Bortone e il Deputato Brunetti, che per i suoi interessi professionali e politici frequentava Firenze, dove risiedeva anche l’illustre conterraneo. Esistono due lettere di Antonio Bortone a Gaetano Brunetti, una datata 30 settembre 1868 e l’altra 2 gennaio 1869, entrambe da Firenze[4]. Della statua del Bortone è stata da più parti evidenziata la scarsa verisimiglianza all’originale (o ad un presunto originale, che comunque non esiste). Il Bortone infatti, come tutti gli artisti del periodo, si rifece certamente al ritratto di Raffaello Morghen (1758-1833), autore di una delle prime incisioni del filosofo taurisanese, risalente agli inizi dell’Ottocento, nella Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli[5]. Se si vuol ricostruire una iconografia vaniniana filologicamente corretta bisogna però partire almeno dall’incisione anonima del 1685 inserita nel frontespizio del libro di Johann Müller, Atheismus devictus… (Franckfurt,1685), e da quella del 1714, tratta dalla rivista “Neue Bibliothec oder Nachricht und Urtheile von neuen Büchern und allerhand zur Gelehrsamkeit dienenden Sachen”, (n.34, 1714), curata da Nicolaus Hieronymus Gundling, in cui l’autore delle incisioni potrebbe essere Johann Adam Delsenbach. Traggo queste informazioni dal libro di Andrzej Nowicky, Giulio Cesare Vanini (1585-1619) La sua filosofia dell’uomo e delle opere umane[6], una edizione rarissima in possesso del prof. Francesco De Paola (con dedica personale di Nowicky). Dal ritratto del Morghen,[7]dicevamo, si giunge al busto di Bortone.Vanini viene raffigurato con baffi e pizzetto, folta capigliatura, e in un atteggiamento vagamente romantico[8]. Il busto viene conservato presso la Biblioteca Provinciale “N.Bernardini” di Lecce.

Allo stesso modo Vanini è rappresentato nella litografia del Petruzzelli del 1878 per il libro di Raffaele Palumbo, Giulio Cesare Vanini e i suoi tempi [9], riproposta nel volume taurisanese del 1969 sulle celebrazioni per i 350 anni della morte di Vanini[10]. In quest’ultima pubblicazione, alla litografia del Petruzzelli, in basso, è aggiunta la formula del giuramento di Vanini all’atto del conseguimento del titolo di dottore in utroque iure. In realtà, si tratta di un fotomontaggio, ovverosia di due documenti a sé stanti assemblati insieme: infatti la litografia è nel summenzionato volume di Raffaele Palumbo, mentre la formula del giuramento è conservata in Archivio di Stato di Napoli e pubblicata da Francesco De Paola in un suo saggio del 2008[11].

Come nella litografia del Petruzzelli, così Vanini viene ritratto anche in una tela anonima ad olio del 1902 che si trova a Taurisano in una collezione privata[12]. Tutte queste rappresentazioni di Vanini corroborano quella del Bortone. Occorre dire, a maggior difesa dello scultore ruffanese, che egli, su consiglio del Brunetti, si rivolse al Barone Giovanni Casotti e all’erudito Luigi Giuseppe De Simone, per attingere informazioni sul Vanini, prima di apprestarsi alla realizzazione dell’opera. Bortone voleva giustamente documentarsi al meglio. Per questo chiedeva un ritratto, che infine gli fu mandato dal De Simone. Questo ritratto doveva essere quello del Morghen, tolto alla già citata Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, come suppone Francesco De Paola[13]. Allo stesso modo Vanini viene raffigurato da Eugenio Maccagnani (1852-1930) nel busto del 1886 che si trova nella Villa Garibaldi a Lecce, e anche da Ettore Ferrari (1845-1929) nel medaglione che si trova nella base del monumento a Giordano Bruno del 1889, in piazza Campo dei Fiori a Roma[14]. In quest’ultimo monumento, costituito da otto medaglioni che riproducono i ritratti di altrettanti eroi del libero pensiero (Paolo Sarpi, Tommaso Campanella, Pietro Ramo, Aonio Paleario, Michele Serveto, John Wyclif e Jan Hus), nel medaglione che raffigura Vanini è posto anche un ritratto più piccolo di Martin Lutero[15]. Sempre con pizzetto e folta capigliatura Vanini è raffigurato in uno schizzo pubblicato da Cesare Serafini nel 1914[16] e da Martin Zbigniew nel 1976[17]. Bortone era figlio del suo tempo. Come spiega De Paola, “in quei momenti, dominati dal desiderio di sconfiggere il potere temporale del Papato e di riconquistare Roma elevandola al suo giusto rango di capitale d’Italia, la figura del filosofo morto tragicamente e atrocemente a Tolosa per mano (come si riteneva, ma in modo errato) dell’Inquisizione e vittima dell’intolleranza religiosa e dell’oscurantismo scientifico, sembrò, al mazziniano e massone Brunetti, lo strumento più adatto per condurre e inasprire una campagna politica contro lo Stato Pontificio e la religione cattolica, esaltandone non la reale dimensione culturale, bensì solo l’aspetto di vittima della Chiesa cattolica”[18]. Bortone insomma sentiva a sé consentanea la natura del Vanini e ne sposava idealmente la causa. In questo, era certamente influenzato dal suo amico e conterraneo, l’erudito Pietro Marti, giornalista e scrittore, che qualche anno dopo dedicherà proprio al martire di Tolosa il libro Giulio Cesare Vanini[19]. Marti, nel suo elogio del filosofo, definito il “precursore del trasformismo scientifico”, seguendo le parole di Bodini[20], passa in rassegna tutti gli studiosi che avevano severamente contestato il Vanini e quelli che invece lo avevano difeso. Si sofferma lungamente sulle vicende biografiche di Vanini, sulle numerose tappe del suo lungo peregrinare e soprattutto sulle sue opere, approfondendo il pensiero del filosofo, che inquadra nel contesto storico in cui visse e operò. Porta illustri esempi di filosofi del Cinquecento, Seicento, Settecento, per esaltare l’eroismo del taurisanese, e tuttavia non si sottrae a quella visione che erroneamente lo considerava un martire della repressione cristiana, accomunandolo idealmente al grande Giordano Bruno.

Anche da Firenze, intermediario il Brunetti, si voleva erigere un monumento al Vanini, ma questo non fu mai realizzato. Si costituì un comitato, il cui principale animatore era Giuseppe Ferrari, il quale richiedeva a Sigismondo Castromediano il ritratto del Vanini. “Tu solo puoi guidarci […] ti preghiamo di darci un’indicazione che possa condurre lo scalpello”[21], scrive il Ferrari da Firenze al Duca Castromediano, il quale con Casotti, De Simone e Maggiulli era intento alla preparazione del Dizionario biografico degli uomini illustri di Terra d’Otranto[22].

Quest’opera non si realizzò mai. «Appaiono evidenti i motivi per cui questi spiriti risorgimentali» scrive De Paola, citando Palumbo, «intendevano esaltare la figura e l’opera del Vanini, “ultima vittima della reazione cattolica durante le guerre di religione”: farne lo strumento della lotta contro la chiesa cattolica e arruorarlo nel proprio schieramento nel conflitto per l’unificazione dell’Italia, anche a scapito della verità storica e del reale svolgimento degli avvenimenti biografici del filosofo di Taurisano. […] nulla si sa dei motivi del fallimento di questo tentativo degli spiriti risorgimentali di Firenze di innalzare una statua al Vanini in Taurisano che, come è ben noto, non fu mai realizzata. Ma una qualche attività del gruppo dovette aver luogo, perché effettivamente lo scultore di Ruffano elaborò un bozzetto in gesso di un bel monumento […] che è possibile rinvenire in varie pubblicazioni»[23]. Nowicky dice di essere in possesso di una fotografia del monumento sulla quale è scritta una dedica del Bortone al dott. Nicola Vacca[24].

Facciamo ora un salto temporale per occuparci delle opere dedicate a Vanini da Donato Minonni, scultore e pittore, conterraneo dello stesso Vanini, essendo nato nel 1943 a Taurisano, dove risiede e opera[25].

Minonni lavora con le più svariate tecniche come lo smalto, l’argento, il mosaico vetroso, l’intarsio. Fra le realizzazioni più importanti, occorre segnalare: il Monumento a Padre Pio, in marmo di Carrara, alto m.2.30 a Taurisano, del 1989; la statua di San Francesco d’Assisi in bronzo patinato verde pompeiano, alta 2 metri e 50, che si trova a Gemini di Ugento, voluta dalla Confraternita Maria Ss. Del Rosario nel 1994; la statua di Santa Lucia in legno di cirmolo, realizzata nel 1998,  che si trova a Brindisi, nella chiesa di San Nicola; l’angelo con un’ala sola in marmo bianco di Carrara, a Gallipoli. Bellissima e poetica la scultura “Apollo e Dafne” del 1989, recentemente entrata a far parte di collezione privata. Donato Minonni opera in vari contesti e in più settori dando man forte a quella schiera di pittori, scultori, grafici, designers che con le arti figurative impreziosiscono il nostro Salento. Notevoli le sue realizzazioni all’interno della Fondazione Filograna a Casarano, come la grande fontana centrale ed i giardini, e poi alcune opere in bronzo per il Calzaturificio Filanto di Casarano. Fino a qualche anno fa, suo stretto collaboratore era il figlio Carlo, che ora ha intrapreso nuove strade, essendosi trasferito a Firenze. Una delle realizzazioni in cui è stato impegnato insieme col figlio, è quella del sarcofago della serva di Dio Mirella Solidoro, presso la chiesa taurisanese “Ss. Mm. Maria Goretti e Giovanni Battista”. Un foto-catalogo a stampa della sua produzione riporta le varie fasi dell’opera, dal progetto alla scelta dei blocchi di marmo a Carrara, fino alla lavorazione e posa in opera, con l’inaugurazione finale. Nella stessa chiesa, opera di Minonni sono le grandi e bellissime vetrate realizzate in vetri colorati e grisaglia ad alto fuoco, e poi la recentissima Via Crucis, che adorna le pareti della chiesa, realizzata in vetro con colori ceramici e retroilluminata.

Nell’antropologia del Salento affondano le matrici artistiche del suo fare scultura. Minonni mi spiega come nascono le opere che gli vengono commissionate. La prima fase è quella degli studi preparatori in cui si documenta leggendo tutto ciò che è stato scritto sul soggetto o sul tema che deve essere realizzato, anche con l’ausilio di filmati, ove se ne disponga, documentari e strumenti della nuova tecnologia, come i dvd. Quindi procede ai bozzetti preparatori che sottopone all’attenzione dei committenti  e, dopo il placet degli stessi, passa all’ultima fase, quella della realizzazione vera e propria. Perché ciò avvenga però, deve scoccare la scintilla, ovvero deve arrivare l’ispirazione. In questo caso, alla technè si unisce la theia dynamis, per dirla con Platone, cioè la magia dell’ispirazione che ha sempre qualcosa di divino, che irrompe ed invade l’artista. Una delle opere più imponenti di Minonni è il monumento a Padre Pio in bronzo che si trova a Parabita, voluto da un comitato promotore presieduto dal compianto poeta Rocco Cataldi. Il monumento scultoreo, realizzato da Donato insieme al figlio Carlo, venne inaugurato nel giugno del 2002. L’opera, come spiega lo stesso Minonni, “raffigura un grande tronco di ulivo scavato dagli anni nella secolare ricerca della luce. Dalle vecchie radici, come per miracolo, continuano a spuntare sempre nuovi germogli e ramoscelli. Sembrano mani protese verso il cielo in segno di preghiera, auspici di pace e riconciliazione. Dall’albero, animato da varie figure, emerge il Santo di Pietralcina. La sua mano sinistra si protende porgendo la corona del Rosario a chi la implora, l’altra si alza per benedire due ragazzini intenti a ripetere il rito millenario della piantagione, rimando al culto della Madonna della Coltura di Parabita”[26].  A Rocco Cataldi, per volontà dei vecchi alunni, Minonni ha dedicato un busto ricordo, ovvero una Stele con ritratto in pietra, posizionata nello stesso spiazzo in cui ha luogo il monumento a Padre Pio.

Fra le sue opere, ancora: la stele funeraria con ritratto di Marcello Lezzi a Matino, del 1997; l’Angelo ad ali spiegate, in marmo bianco di Carrara, a Gallipoli, del 2001; il Monumento a Papa Giovanni Paolo II, realizzato in marmo bianco di Carrara, alto 3 metri e 15 e posizionato nella omonima piazzetta a Casarano, nel 2007. Questa statua potrebbe in realtà definirsi un gruppo scultoreo, dati l’alto contenuto simbolico dell’opera e le diverse serie allegoriche tracciate nella materia. Infatti, sulle spalle del Papa, vediamo delle colombe e dei ramoscelli di ulivo che il Santo Padre solleva con la mano destra. In basso, sotto la sua stola, un nido di pace per l’infanzia; ai piedi del santo, troviamo il gruppo di “Solidarietà e Carità”, rappresentate con dei giovani che offrono acqua e cibo ad un denutrito; a sinistra in basso è rappresentata l’ “Accoglienza”, con una barchetta carica di disperati che cerca di guadagnare la riva mentre qualcuno da terra tenta di mettere in salvo un bambino. Nella parte posteriore invece sono rappresentate scene di guerra, i campi di concentramento, le fosse comuni, le deportazioni e il pianto delle madri che genera un mare di lacrime.

Fra le opere più recenti, un busto in marmo di Giosue Carduci, voluto dal Circolo Tennis “G.Verardi” di Taurisano, posizionato nel cortile dell’omonimo edificio scolastico taurisanese e inaugurato nel dicembre del 2011, per i 150 anni dell’Unità d’Italia.

Veniamo dunque alle opere che Minonni ha dedicato a Vanini:

  • Nel 1969 una medaglia ed un busto in occasione del primo convegno di studi sul filosofo taurisanese, a 350 anni dalla morte[27];
  • Sempre nello stesso anno, una versione modificata della statua, in graniglia di marmo di Carrara e cemento grigio, in cui è stata ridotta parte del busto che si presenta con una camicia accollata, e che oggi fa parte di collezione privata;
  • Nel 1985, un Annullo postale realizzato in occasione del 400° anniversario della nascita del filosofo. Nel disegno si riprendono le fattezze dei busti realizzati nel 1969;
  • Nel 1995, una medaglia per il Liceo Scientifico di Casarano, dove Minonni ha insegnato Disegno e Storia dell’Arte fino al congedo[28];
  • Ancora nel 1995, un busto in bronzo per il Liceo Scientifico di Casarano, che venne intitolato allo stesso Vanini[29];
  • Nel 2017, il busto del 1969, conservato e legato con filo di ferro nell’edificio scolastico Vanini di Taurisano, rifatto per volontà dello stesso Minonni.

A coloro che si soffermano sulla raffigurazione del suo primo Vanini, in abbigliamento da guascone francese (o“alla D’Artagnan”, come si dice comunemente), si potrebbe facilmente obbiettare elencando una serie di statue che ornano il ballatoio del Museo del Louvre, come Giovanni Cassini, Perinaldo (1625-1712), Cartesio (1596-1650), J. Goujon (1510-1572), Pier Corneille (1606-1684), Moliere (1622-1673) che documentano l’abbigliamento tra la fine del ‘500 e i primi del ‘600, epoca in cui visse e morì il filosofo di Taurisano. E per la precisione: Molti infatti hanno sempre pensato che Vanini dovesse indossare il saio dei Carmelitani, ritenendolo quasi un Giordano Bruno minore. Così non è, e basterebbe consultare una minima parte della ormai sterminata bibliografia vaniniana, perché come si sa il pensatore taurisanese fu solo per brevissimo tempo un predicatore[30]. Ma questo è un altro discorso nel quale non mi avventuro, rimandando il lettore ai più ragguardevoli saggi presenti negli Atti. Non si può concludere questa carrellata sull’iconografia vaniniana senza citare l’opera più recente, ovverosia il ritratto di Vanini installato nel 2017 nella centrale Piazza Castello di Taurisano, e comunemente conosciuto come “La maschera”. Questa scultura, che ha suscitato divergenti pareri, è stata realizzata dall’architetto Paolo Prevedini in bronzo e secondo alcuni è ispirata all’opera dello scultore polacco Igor Mittoray.

 

Note

     [1] Per una bibliografia essenziale sullo scultore, si vedano: A. De Gubernatis, Dizionario degli artisti italiani viventi, Firenze, 1906, p. 68; E. Giannelli, Artisti napoletani viventi: pittori, scultori ed architetti: opere da loro esposte, vendute e premii ottenuti in esposizioni nazionali ed internazionali, Napoli, Tip. Melfi e Joele, 1916, pp. 520-525; P. Marti, Antonio Bortone e la sua opera, Lecce, 1931; I. Laudisa, L’opera di Antonio Bortone, in Aa.Vv., Antonio Bortone, Pro Loco Ruffano, Lecce, Conte Editore, 1988, pp. 15-34; A. de Bernart, Antonio Bortone nella stampa periodica salentina, Ivi, pp. 37-45; A. Laporta, Rarità bibliografiche: un sonetto dedicato ad Antonio Bortone, Ivi, pp. 49-51; A. E. Foscarini, Lettere edite ed inedite di Antonio Bortone, Ivi, pp. 53-67; A. de Bernart, Antonio Bortone e le figure dei suoi monumenti. Nel 150° di sua nascita (1844-1994), in «Bollettino storico di Terra d’Otranto», n.4, 1994, pp. 72-78; O. Casto, Bortone a Firenze, in Colloqui 150° Anniversario della nascita di Antonio Bortone. 1844-1994, Pro Loco Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis, 1994, pp. 3-8; A. E. Foscarini, Bozzetti in gesso di Antonio Bortone, Ivi, pp.27-28; E. Inguscio, Della “vittoria alata” di Antonio Bortone in Ruffano, in «Il Bardo», Copertino, a. VII, n.2, dicembre 1997, p. 13; A. de Bernart, Antonio Bortone e la sua casa natale in Ruffano, Amministrazione Comunale Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis, 2004; P. Vincenti, L’arte commemorativa postbellica. Antonio Bortone da Ruffano e una sua opera inedita, in «L’Idomeneo», Rivista del Dipartimento di Beni Culturali-Università del Salento, in collaborazione con Società Storia Patria Puglia, Sezione di Lecce, n.26, 2018, Castiglione, Grafiche Giorgiani, 2019, pp. 247-282; Idem, Dal Fanfulla a Quinto Ennio nel segno di Antonio Bortone, in «Il Filo di Aracne», Galatina, n.3, luglio-settembre 2019, pp. 42-43.

     [2] Sull’On. Gaetano Brunetti, avvocato e uomo di vasta cultura, si veda: P. Palumbo, L’on. Gaetano Brunetti e i suoi tempi (1829-1900), Lecce, Tipografia Salentina, 1915.

     [3]  C. De Giorgi, La Provincia di Lecce, Vol. II, Galatina, Congedo, 1975, p. 145.

     [4] Pubblicate da P. Palumbo, L’on. Gaetano Brunetti cit., pp. 334-335, e da A. E. Foscarini, Lettere edite ed inedite di Antonio Bortone, in Aa.Vv., Antonio Bortone, Pro Loco Ruffano, Lecce, Conte Editore, 1988, p. 57.

     [5] Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli ornata de’ loro rispettivi ritratti, compilata da diversi letterati nazionali, Napoli, N. Gervasi, 1817. Si tratta di un’opera monumentale in 15 volumi, usciti dal 1815 al 1830.

     [6] A. Nowicky, Giulio Cesare Vanini (1585-1619) La sua filosofia dell’uomo e delle opere umane, Accademia Polacca delle Scienze, Biblioteca e Centro di Studi a Roma, fascicolo 39, Ossolineum, Wroclaw-Warszawa-Krakòw, 1968, pp. 38- 44. Ringrazio sentitamente il prof. De Paola per avermene permesso la consultazione.

     [7] Il ritratto del Morghen, nella già menzionata Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, è allegato alla biografia di Vanini a cura di Andrea Mazzarella da Cerreto. Ne riferisce A. Nowichy, op.cit., p. 40. Questo ritratto viene pubblicato per la prima volta in ambito salentino da Francesco De Paola in F. De Paola – M. Leopizzi, I documenti originali sui “processi” a Vanini, Fasano, Schena Editore, 2001, p. 15.

     [8] Così è ritratto anche in M. Laval, Le philosophe Uciglio Vanini, in «Mosaique du Midi», 1837-1838, p. 22. Il busto di Bortone viene pubblicato nel libro di Guido Porzio, Antologia vaniniana, Lecce, 1908, prima del frontespizio. Si veda A. Nowicky, op.cit. p. 40.

     [9] R. Palumbo, Giulio Cesare Vanini e i suoi tempi. Cenno biografico-storico corredato di documenti inediti, Napoli, 1878, riportato da A. Nowicky, op.cit. p. 41.

     [10] Amministrazione Comunale di Taurisano, Celebrazioni in onore di Giulio Cesare Vanini. 350° Anniversario della morte, a cura di Antonio Santoro, Francesco De Paola, Luigi Crudo, Prefazione di Aldo de Bernart, Cutrofiano, Panico &Toraldo,1969, p. 8.

     [11] Archivio di Stato di Napoli, Collegio dei Dottori, busta 171, Folio 43v, in F.  De Paola, Note sui Vanini di Taurisano e sui dottori dell’antica Terra d’Otranto, in Aa.Vv., Filosofia e Storiografia. Studi in onore di Giovanni Papuli, Vol. II – L’età moderna, a cura di S. Ciurlia, E. De Bellis, G. Iaccarino, A. Novembre, A. Paladini, Galatina, Congedo,2008, p. 113.

     [12] Tela in casa del dottor Luigi Ponzi di Taurisano. La nota è in A. Nowicky, op.cit. p. 42.

     [13] F. De Paola, Vanini nel Salento: origine e fine di un’icona anticlericale, in Aa.Vv., Nei giardini del passato. Studi in memoria di Michele Paone, a cura di P. Ilario D’Ancona e Mario Spedicato, Lecce, Edizioni Grifo, 2011, p. 112.

     [14] A. Nowicky, Centralne Kategorie filozofii Vaniniego, Panstwowe Widawnictwo Naukowe, Warszawa 1970, p. 176, fuori testo.

     [15] Sull’argomento, fra gli altri, si veda L. Montonato, Presenze luterane in Giulio Cesare Vanini, in «L’Idomeneo Lutero in Terra d’Otranto. Atti del Convegno di Studi (Lecce, 25,26 ottobre 2017)», Rivista del Dipartimento di Beni Culturali-Università del Salento, in collaborazione con Società Storia Patria Puglia, Sezione di Lecce, n.24-2017, Lecce, 2018, pp. 225-228.

     [16] C. Serafini, Giulio Cesare Vanini, Roma, Editoriale G. Galilei, 1914.

     [17] Uno schizzo pubblicato da A. Nowicky, in Ostatnia noc Vaniniego, Katowice, 1976, p. 183. Lo stesso Nowicky parla di un altro quadro del 1935 conservato nel Museo di Storia della Religione e dell’Ateismo a Leningrado, dipinto da Rada Efimovna Chusid, e di un disegno del 1952, di autore ignoto, nel Circolo Vaniniano di Taranto, probabilmente tratto dal medaglione del monumento di Campo dei Fiori: A. Nowicky, Giulio Cesare Vanini (1585-1619) La sua filosofia dell’uomo e delle opere umane, cit. p. 44.

     [18] F. De Paola, Vanini nel Salento: origine e fine di un’icona anticlericale, cit., p. 110.

     [19] P. Marti, Giulio Cesare Vanini, Lecce, Editrice Leccese, 1907. Su quest’opera, si sofferma E. Inguscio nel suo saggio Vanini nel pensiero di Pietro Marti, in Idem, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013, pp.123-134. Marti dedicò anche un saggio all’opera dell’amico scultore: P. Marti, Antonio Bortone e la sua opera, Lecce, 1931.

     [20] V. Bodini, In memoria di Pietro Marti. La vita e l’opera, in «La Voce del Salento», n,11, Lecce, 18 maggio 1933, p. 1.

     [21] Come da lettera riportata da P. Palumbo, op.cit., p. 335. L. M

     [22] Che sarà pubblicato solo nel 1999: F. Casotti, S. Castromediano, L. De Simone, L. M aggiulli, Dizionario biografico degli uomini illustri di Terra d’Otranto, a cura di Gianni Donno, Alessandra Antonucci, Loredana Pellè, con Prefazioni di Donato Valli, Ennio Bonea e Alessandro Laporta, Manduria, Lacaita, 1999.

     [23] F. De Paola, op.cit., p.113. Il bozzetto in gesso per un monumento a Vanini venne pubblicato da L.Ponzi, Onoranze mancate per Giulio Cesare Vanini, in «La Zagaglia», a. X, n.38, Lecce,1968, p. 12, e poi nel già citato Antonio Bortone, Pro Loco Ruffano, cit., a p. 145.

     [24] A. Nowicky, op. cit. p. 42.

     [25] Si rinvia a P. Vincenti, Fare scultura: Donato Minonni, in «Il Filo di Aracne», Galatina, n.5, novembre-dicembre 2014, pp. 41-43.

     [26] Ivi, p. 42.

     [27] Si veda: Amministrazione Comunale di Taurisano, Celebrazioni in onore di Giulio Cesare Vanini. 350° Anniversario della morte, cit. Interessanti le dichiarazioni dell’autore sulla genesi delle due opere: “Il busto, realizzato con graniglia di marmo di Carrara e cemento bianco da modello in argilla, venne posizionato nella Scuola elementare G.C.Vanini di Taurisano. La mia prima scultura in assoluto”, informa Donato Minonni, “avevo frequentato a Lecce, presso l’Istituto Statale d’Arte G. Pellegrino la sezione Pittura. Ispirandomi al busto di Eugenio Maccagnani, tuttora esistente nella Villa comunale di Lecce, volli interpretare un mio ritratto del Filosofo dandogli un’espressione piuttosto corrucciata e allo stesso tempo determinata a perseguire le proprie idee. In questo caso, come in tantissimi esempi della ritrattistica neoclassica anche il Nostro si presenta privo di abbigliamento. Il modello per la medaglia in gesso, invece, del diametro di 10 cm, venne pubblicato dal prof. Andrzej Nowicky, in un suo libro del 1970”. Il libro a cui fa riferimento Minonni è, A. Nowicky, Centralne Kategorie filozofii Vaniniego, cit., p. 283.

     [28] Si tratta di una medaglia in bronzo dorato, del diametro cm. 5, realizzata in numerosi esemplari per premiare ogni anno l’alunno più meritevole nel corso di studi del Liceo. Rappresenta la medesima immagine del busto in bronzo del filosofo.

     [29] L’opera è stata realizzata con fusione a cera persa, presso la fonderia Bruno Sordini di Milano. Questa l’interpretazione che lo scultore dà all’opera: “In questo caso, una maggiore libertà di interpretazione dell’espressione del volto e della composizione danno una rappresentazione del filosofo che, avvolto dalle fiamme del rogo, conserva la sua espressione pensante ma determinata. I capelli corti isolano la testa dal gioco delle fiamme che avvolgono la sua figura mentre dal basso parte e si avvolge a spirale una forma che si lega al resto della composizione”. Sulla statua si leggono i versi del prof. Francesco Politi, nativo della stessa Taurisano, che cosi recitano: “Di Natura gli arcani anelò con ardore indagare, / lasciò tra le fiamme la vita, / svanì cenere sparso da mani sacrileghe al vento, / ma dell’audace suo spirito i lumi furono albori /alle ansie e alle ricerche dell’età nuova”.

     [30] La letteratura sul Vanini ha sempre presentato il filosofo, sulla base della documentazione esistente in quell’epoca, come un frate carmelitano in fuga dall’ordine e dalla Chiesa cattolica. Ciò è vero solo in parte. Come indiscutibilmente dimostrano i documenti pubblicati nel 1998 da Francesco De Paola, il pensatore salentino ritornò nel mondo cattolico dall’Inghilterra nel 1614, dopo avere ottenuto la dispensa dal suo ordine e il permesso di vivere in “habito di prete secolare”. Si veda: F. De Paola, Giulio Cesare Vanini da Taurisano filosofo europeo, con nuovi documenti e testimonianze; introduzione di Giovanni Dotoli, Fasano, Schena Editore, 1998, pp. 220-221 (doc.XX), pp. 221-222 (doc.XXI), p. 223 (doc. XXII), pp. 224-225 (doc.XXIII), da cui risulta il nuovo status di Vanini al suo ritorno dall’esperienza inglese.

Libri| La Baita di Campo Tartano – L’Amore al Tempo della Frana

 

Si intitola La Baita di Campo Tartano – L’Amore al Tempo della Frana (Londra-Roma, Titani Editori, 2022, € 15.00),  l’ultimo lavoro letterario del giornalista-scrittore salentino Antonio Tarsi[1].

La narrazione  si sviluppa intorno a due nuclei fondamentali, la storia d’amore fra due amici di vecchia data, un uomo di chiare origini salentine ed una donna dell’Alta Valtellina, che coincide con la terribile frana che colpi nel luglio del 1987 tutta la Valtellina, una fra le più belle valli alpine, seminando morte, lutti, disastri ambientali e seppellendo un intero paese come sant’Antonio in Morignone.

Il romanzo del copertinese Tarsi si avvale di una cifra  stilistica particolarmente sostenuta e per certi versi simile ad una sequenza cinematografica a montaggio alternato. Da un lato la vicenda d’amore dei due giovani protagonisti, il salentino Federico e la valtellinese Giusy e dall’altro l’allucinante devastazione creata dalla frana. I due all’interno del loro nido d’amore, la piccola Baita Inferno, si ritrovano, loro malgrado, testimoni di una tragedia che semina morte, lutti, disastri ecologici e annientamento di risorse economiche ed ambientali. Nel corso della loro prima notte d’amore, dopo aver percepito i disastri che le frane stavano seminando,  non molto lontane da loro, abbandonato il rifugio che li ospita, spinti da un alto senso di solidarietà, si catapultano nel cuore di una valanga  che aveva già abbattuto l’albergo Gran Baita, bersaglio innocente di un apocalisse  di acqua e fango che non risparmiò nessuno, e vide la morte di tanta gente.

Insomma “La Baita di Campo Tartano”, per i due protagonisti del romanzo di Tarsi, si trasforma in una rosa ricca di spine per un’intera comunità, per un territorio da favola di grande bellezza e per loro stessi, che avevano scelto di vivere nella Val Tartano, la loro piccola storia d’amore.

Nel romanzo amore e morte intrecciano l’eterna vicenda con una natura che si rivela matrigna, non sponte propria, ma sempre con alle spalle le scelte ambientali ed economiche dell’uomo. I due con l’aiuto della protezione civile sono tratti in salvo, scampando cosi ad un probabile destino di morte. Giusy potrà raggiungere, cosi, il suo paesino d’origine dell’Alta Valle, dove probabilmente andrà a vivere con i suoi genitori, considerando virtualmente finito il suo matrimonio. Federico, invece, una volta raggiunta Milano, dopo un breve soggiorno in casa di amici in Calabria, raggiungerà il suo amato Salento, la terra del mare, del sole e del vento, alla ricerca del suo tempo, degli amici di una volta e terra d’origine dei suoi nonni e dei propri genitori.

 

La Baita di Campo Tartano – L’Amore al Tempo della Frana (Londra-Roma, Titani Editori, 2022, € 15.00)

 

[1] Antonio Tarsi, docente di “Materie Letterarie e Storiche”, laurea in “Storia del Cinema”, con una tesi su Paolo e Vittorio Taviani, giornalista pubblicista, membro del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, si occupa di storia e critica del film, teatro e poesia. Tra i suoi lavori Il cinema di Paolo e Vittorio Taviani, Lacaita, Manduria 1978; Film 1966-1986, Milella, Lecce 1985;  Cinema e Sessantotto, Capone, Cavallino-Lecce 1988; La luce filmica e il suo ascolto, in Voci dell’ascolto, a cura di Giuseppe Rizzo, Marietti, Genova 1992; Pupi Avati o della sostenibile leggerezza del film d’autore in Il cinema italiano degli anni  Ottanta… ed emozioni registiche, a cura di Vincenzo Camerino, Manni, Lecce 1992; Il cinema di Krzysztof Kieslowski, Barbieri, Manduria, 1993; San Giuseppe da Copertino nel cinema e nel teatro,  Panico, Galatina 2004; Alla confluenza di due fiumi-Poesie, Tharsys Edizioni, Copertino 2016;  Meraviglie di Fra Lucio da Corsano, Tharsys Edizioni, Copertino 2016; I sogni risorgono all’alba, Tharsys Edizioni, Copertino 2019; L’ANGELO È VOLATO IN ALTO IN ALTO IN ALTO! Omar Enrique Dominique Sivori, Panico Edizioni, Galatina-Tharsys Edizioni, Copertino 2019.

Film-maker indipendente, ha realizzato Da scene di vita politica (1970), Salento-Roma (1973), I pescatori svizzeri (1975), Disabili un problema irrisolto (1983 ), Delitto (1993), Giuseppe Desa (2004).

 

Il “Romanico fiorito” a Lecce. Una sintesi esplicativa e le sue immagini

di Paolo Marzano*

Questa indagine ha lo scopo di riflettere sull’arte di agire dell’uomo, sulla materia. Egli in effetti, ricerca e sperimenta le diverse espressività che il mondo e il corpo consentono, generando con la sua ‘industria’ artistica, delle ‘serie’ di oggetti che soddisfano quelle soluzioni formali capaci di tradurre i suoi bisogni, evidenziando prima di tutto, il grado della tecnologia adottata per produrli ed essenzialmente confermando come sia sempre più appropriato il metodo ‘multidisciplinare’, d’intervento, proprio quando si tratta di analizzare, come in questo caso, il salto che fa passare una forma da un’arte all’altra.

L’oggetto d’arte ha particolari premure nel far rispettare le condizioni del suo uso in un particolare tempo, mediando di continuo la propria autonomia con l’ambiente esterno che lo ingloba e lo considera. Far mutare il progetto della sua identità sia nella forma e sia per l’uso a cui è destinata, è il compito degli ‘artigiani’ che creano e inventano nuovi ‘assoggettamenti’ tra materiali e tra materiali e luoghi. D’altronde tutta una vasta letteratura coglie dettagliatamente quel valore ‘limite’ tra il profilo dell’oggetto e la sua potenziale propagazione nello spazio; la continua e costante dilatazione o contrazione progettuale, permette all’antiquaria di inventare, vivendo di sorprese e interazioni inattese sulla base delle prevedibili mutazioni che quella particolare materia, sollecitata fino al suo limite, può permettere di creare.

E’ il caso di dire che la proprietà di un ‘manufatto’ artigianale (intendendolo anche come architettura o sistema urbano) si possa affermare come risultato della variante di un ‘modello’ che, sapendo ‘usare’ la materia, ne gestisce la grandezza e permette all’oggetto di “ricollocarsi” tra gli schemi conosciuti e di riferimento, ai quali di certo si rifanno i committenti con l’appoggio della migliore esperienza tecnologica. A questo proposito tra i tanti casi che possiamo individuare nella storia delle arti delle “cose” dell’uomo, ricordiamo l’esempio della cornice di coronamento mistilineo tardogotica che, coinvolse diversi materiali; dai gioielli alle suppellettili, dai mobili alle finiture delle pale d’altare, agli apici di edifici, all’arredo liturgico, impreziosendosi di dorature e contemporaneamente venendo “adottata” per diventare il profilo aggiornato, quindi riconoscibile, della “linea/forma” di quel tempo. Un ‘oggetto’ (linea) garante di sofisticate preziosità che dunque ha fatto salti da un’arte all’altra, ripresentandosi tradotto poi, in altre serie con le dovute varianti, per molte facciate di altrettante chiese e palazzi lungo le rotte europee, nelle diverse latitudini.

Successe anche con i mobili in noce intagliato che pur sulla base della trattatistica italiana seppero modificare la loro competenza assolvendo a compiti del tutto rinnovati. Essi, infatti, vennero ‘riscritti’, riaggiornati e trasformati nelle diverse varianti che dalle Fiandre, alla Spagna, alla Francia fino al Salento e dunque in tutta Europa, confermavano l’importanza del commercio e dei flussi di linguaggi decorativo-figurativi seguendo tendenze ben precise, quasi standardizzate, a conferma di una dotta selezione e controllo di qualità (vedi l’esempio approfondito la facciata del San Domenico di Nardò

La facciata del San Domenico di Nardò. Un aggiornato manifesto di denuncia contro l’eresia (europea) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Adottiamo allora lo stesso metodo di osservazione, di confronto, di ricerca, di studio e verifica, facendone l’obiettivo delle nostre riflessioni ed esaminiamo attentamente quel monumento stra-ordinario, in “romanico fiorito”, della facciata di Santa Croce a Lecce.

Cerchiamo di sommare alla sua riconosciuta peculiarità, data dall’inatteso luminoso impatto plastico-visivo, anche l’origine (ed è questo lo scopo dello studio) della scelta della sua ‘forma’. L’insieme viene letto come una confluenza di elementi accordati dallo stesso suono, costituenti la sua struttura ‘materica’. Mi riferisco all’originaria, molto probabile, componente ‘antiquaria’ che ne rappresenta la matrice generativa e filologica.

Ogni forma per meglio esprimersi ha degli ambiti di riferimento e di ‘competenze’ relative all’ eco delle tante modifiche assorbite che l’hanno poi individuata, tra-dotta (selezionata) e dunque fatta diventare ‘linguaggio’ per quel preciso tempo. Un principio che conosciamo bene e che fonda le sue radici su ottime riflessioni discusse da una vasta letteratura. Invece qui, cercherò di evidenziare a quale probabile tipologia di riferimento appartiene o a quale presumibile forma può essere assimilabile, la facciata di Santa Croce di Lecce, rispetto alla ‘serie’ da me individuata tra le “cose” che l’uomo, il tempo e la tecnologia, in quel periodo avevano già prodotto.

Un’interpretazione (o variazione, ritengo, della serie già esistente) assolutamente di altissimo livello che i nostri scalpellini hanno saputo ‘ri-collocare’, riproponendone la sublime traduzione in pietra di un testo “di ritorno” a favore dell’ampliamento delle possibilità espressive e dell’esperienza umana a contatto del mondo delle ‘cose’. Ancora una volta, come detto in premessa, ‘linee’, poi ‘forme’ e ‘oggetti’ sono capaci di trasportare messaggi utili ad una maggiore conoscenza del potenziale espressivo inserendolo nell’evoluzione della storia utile a spostare ‘artigianalmente’ l’attenzione verso un prodotto/forma che, in-potenza, è gioiello, edificio, città.

Una condizione di gestione progettuale che, sceglie la procedura scultorea ed è capace di regolare ed organizzare un fitto palinsesto di temi, simboli e significati che la Chiesa realizza per meglio comunicare la sua dottrina. Lo scritto non ha la presunzione di scoprire nulla se non individuare l’appartenenza di genere e di serie, di alcuni linguaggi e procedure costruttive, confrontando e verificando come sia meraviglioso il fenomeno della rivelazione delle qualità dell’architettura e quali strumenti preziosi possa usare, per propagarsi e così viaggiare sui territori, spostarsi tra gli oggetti e muoversi fra le cose.

Un dovuto e obbligato allineamento di dati e immagini che ritengo possano aprire ad una possibile alternativa percettiva della nostra realtà monumentale e paesaggistica, verificandone l’interessante profilo d’eccellenza proprio perché derivante da una commistione di lingue e dalle competenze che ne fanno un esempio altamente culturale. Vediamo dunque come funziona l’interessante ‘salto’ concettuale e fisico che permette ad una materia di modificarsi e specializzarsi in altra competenza, mutando funzione, grandezza e la sua stessa intima struttura, aiutandoci così a percepirla per il suo tono e la sua migliore ‘voce’.

Siamo nel periodo delle corti ‘ambulanti’ come quella di Carlo V, per le quali, durante un viaggio (conosciamo bene l’immenso territorio del suo Impero), una volta decisa la sede della sosta e del soggiorno, si prevedeva, nelle sedi adeguate ad ospitare il suo seguito, la possibilità di dislocare le centinaia di persone e di bagagli, arredi e suppellettili, in ambienti non fissi, pur mantenendo un dignitoso e autorevole aspetto. In effetti fu Filippo II che scelse di fermarsi a Madrid. Ricordo che proprio Carlo V prediligeva certi tipi d’armadi a ‘due corpi’ dalla Germania, come gli stipi dall’Italia e molti rappresentanti dei relativi paesi erano in Spagna per questo importante commercio. Da quali materiali e di quali forme e disegni era composto il mobilio? Ecco allora bauli, cassoni, stipi, che il ferro compatta il legno sovrapponendosi con schermature a celle e disegnando alveari di pigne, con punte lanceolate metalliche si salvano gli angoli o con i rombi si inglobano gli spigoli, consolidandosi in grandi cerniere; praticamente il segno considera l’altra sua funzionalità e allora ecco le forme più elaborate delle maniglie, dei pomi d’apertura e delle toppe di serrature tonde, quadre o romboidali poste e adeguate alla ritmata decorazione mudejar. E’ come se la scena esterna della città entrasse in casa sotto forma di modelli della scala di un baule o più bauli posti l’uno sull’altro.

Si alternano blocchi e volumi sovrapposti come fosse un allestimento di piccoli opulenti edifici o di ridimensionati, ‘grandiosi’ palazzi che costituiscono davvero l’arredo di un paesaggio. Una fantastica città/mobilio che contiene facciate-estraibili o ad ante e cassetti, con interi modelli di edifici trasformati in preziosi scrigni. Il mobilio è l’oggetto che definisce la grandezza media proporzionale tra il piccolo gioiello decorato e la città da allestire, per comunicare l’importanza e la potenza dei regnanti, compresa la cultura della gente che vi ci vive e se ne pregia. L’arredo recupera le linee di forza e le “adatta” alla materia secondo l’uso e il desiderio che l’individuo, aspirando ad una vita diversa e sicuramente migliore, sceglierà.

Tra questi particolari mobili, quello che diventò l’elemento caratterizzante gli interni delle case spagnole è il bargueño (piccolo stipo). E’ un pregiato contenitore con anta a ribalta composto al suo interno da diversi piccoli cassetti per conservare denaro, documenti, carte. La caratteristica più importante di questo mobiletto era quella che fondava la sua funzionalità sul contrasto e sulla sorpresa che poteva provocare la decorazione del contenuto una volta aperto.

Poteva contenere scomparti segreti o cassette nascoste difficili da trovare (la tipologia simile ad una cassaforte). Faceva parte del bagaglio di viaggio del conquistatore o del missionario quando si trattava di trasportare effetti amministrativi, diplomatici o personali specialmente nelle spedizioni nel Nuovo Mondo. Oppure faceva bella mostra di sé, con il suo tono ‘aureo’, quando era aperto, nei grandi saloni tra arazzi murali e tappeti.

Lo sportello aperto poggia su due aste estraibili telescopicamente dai lati, decorate alle estremità con una conchiglia che funge da pomo prensile e, aprendolo scopre la splendente serie di cassetti diversamente posizionati. Alternatamente sia nella parte centrale che in quelle laterali sono evidenti, nella maggior parte dei casi, per questo genere di mobile, delle piccole facciate, simili a quelle di piccoli templi architettonici. Tutti questi elementi stilisticamente elaborati, sono formati da piccole placchette sovrapposte in avorio, a volte dipinte con decori floreali e si caratterizzano dall’uso di legno policromo su fondo di velluto rosso o colorato o ancora dai profili dorati.

Ogni piccolo tempio in effetti è un’anta apribile o cassetto estraibile, incorniciato da un fregio scolpito; il tempietto consiste di un ‘portico all’antica’, brevi volute a frontone spezzato poi arrotondato a voluta o orecchia nascono dallo spazio d’intervallo tra le due corrispondenti colonnette inferiori. Lo spazio della toppa della chiave centrale dunque è affiancato da doppie colonnine tortili in osso, che rimanendo staccate dal fondo, offrono un prezioso effetto di rilievo. Seguito da un architrave con spessa trabeazione può anche essere fiancheggiato da placchette in avorio, poggiante su quattro o più colonne di osso tortili, che incorniciano la serratura. Queste a loro volta sono posizionate su appoggi mensole modellate e dorate.

I pomelli dei cassetti molte volte hanno la forma di un guscio Saint-Jacques, in riferimento ai bauli portatili utilizzati dai pellegrini in viaggio verso Compostela. Ricordo che il bargueño rappresentava per molti l’oggetto del desiderio, in quanto arredava da sè intere zone di ambienti interni, infatti era considerato sia un mobile per cerimoniali da parata che veniva mantenuto aperto nelle sontuose sale del palazzo, o una volta chiuso, riproponeva il suo antico significato, un baule da viaggio come è attestato dalle maniglie laterali e dall’imponente dispositivo di serrature. Con l’affilato strumento della ‘variazione di scala’, l’architettura riesce dunque a propagarsi nello spazio con i flussi commerciali e, nel tempo, attecchendo sui territori, soddisfacendo bisogni e desideri.

Le piccole facciate riproposte nei piccoli modelli per le antine del bargueño si svilupparono in tantissime tipologie diverse, appartenenti tutte a quella classicità ‘ri-trattata’ che “tornava” dalla Spagna, ed arrivava nel Viceregno, in Italia o scendendo dal nord, nel meridione, seguendo la direzione adriatica, ad ispirazione per architetti e artigiani, guidati da capitoli o commissioni ecclesiastiche per la composizione di facciate di chiese, conventi, monumenti e altari. Lo scritto conferma ancora una volta come la possibilità del cambiamento di scala degli oggetti, comporti, a seconda della sensibilità, della tecnologia e della cultura di chi li adotta, quell’alchimia della mutazione, risultato dell’azione diretta dell’uomo sulle materie a sua disposizione.

Una fondamentale condivisione di espressività antiquarie che continuando a proporre con diplomazie le sue specifiche potenzialità all’architettura, capace di sostanziarle e coglierne per vocazione naturale, una visione sempre fantastica e sempre possibile del nostro paesaggio. Il bargueño dunque dava il senso di un “tutto possibile”, proprio come nella scoperta di spazi nascosti e luoghi riservati come può esserlo una donna o la propria casa e ancora, il proprio spirito. Il concetto figurato ed evidente della luce dorata come simbolo di purezza, nascosta, meditata, attesa, ma che si rivela, in tutto il suo splendore, aprendo un cupo scrigno, ogni giorno, all’alba di sé.

 

Immagini:

Alcune tipologie di bargueño: il bargueño con taquillón” (stipo con mobile di base) e “bargueño de pie de puente” (stipo con sostegno a ponte decorato ad archetti e colonne). La tipologia di bargueño è presa in esame per lo studio della mia ipotesi di recupero della forma del piccolo tempietto centrale o laterale del registro centrale del mobile, assimilabile alle varianti antiquarie tra le quali è possibile individuare la soluzione compositiva del secondo livello della facciata di Santa Croce a Lecce.

E’ evidente nel secondo livello della basilica, la presenza, come nel bargueño, delle due colonnine laterali che poggiano all’altezza della balaustra aggettante e mensolata. Poi lo spazio quadrato al centro, con l’alta trabeazione e il timpano, ormai inesistente, che non è del tipo spezzato, ma trasformato e ripreso solo come coronamento con orecchie laterali contratte, la cui genesi corrisponde esattamente al vuoto delle colonnette inferiori. Sono tanti i dettagli che coincidono con quella che si rivela come la cultura formale diffusa e sempre più comunicante, esistente nell’immaginario consolidato e ben strutturato da Filippo II e sostenuto dai suoi successori. Infatti, è Filippo III che pone il suo stemma sulla facciata sopra l’ingresso principale di Santa Croce a Lecce; chiaro a questo punto il risultato impreziosito, ma disponibile a trasformazioni, di una cultura potente spagnola tornata da noi, con il suo immaginario figurativo, dopo la sua partenza post-rinascimentale, da trattato. Il bargueño tipico di Salamanca. Una volta aperto mostra il fronte dorato con decorazioni di osso in rilievo che richiama l’impianto dei grandi retabli. I materiali usati sono i più diversificati, alcuni esempi del XVI secolo, hanno una decorazione di intarsio di osso di mucca e legno di noce su plateresco, talvolta manierista. Nel XVII secolo i due stili mudéjar e plateresco sono misti. Generalmente questi mobili sono fatti di noce o noce su legno meno ricco. Ricordo che la tecnica dei ‘mori’ (mussulmani spagnoli), era proprio quella di usare l’intarsio come replica della tecnica del mosaico consistente nell’intarsiare piccoli pezzi di legno pregiato sovrapponendoli ad altri meno pregiati. E dunque l’ebano, l’aloe, il limone o piccoli pezzi di avorio ricoprivano legni più semplici, pur mantenendone alto, il valore artistico. Teniamo presente che artigiani che lavoravano in Spagna per questi mobili erano per la maggior parte moreschi o ebrei molto abili nella lavorazione di legno, cuoio, metallo e benché ricevessero nuove soluzioni decorative, tendenzialmente privilegiavano le soluzioni a nodi, stuccatura a fogliami come rappresentazioni schematiche di vegetali miste talvolta a lettere mussulmane o altra simbologia.

Sostengo da sempre l’importanza di recuperare l’immaginario progettuale e artistico per scoprire e tradurre meglio i “caratteri” delle storie dell’arte, non legati al tempo, ma alla tecnologia artigianale e alle lingue (forme) diverse che la compongono, con attenzione all’approccio alla diversità della materia lavorata.

 

 

Le foto della facciata di Santa Croce sono di Élise Delle Rose.

Le immagini dei dettagli del bargueño sono prese dal Web e sono accessibili scrivendo le parole chiave: “bargueño con taquillón”, “bargueño de pie de puente”, “bargueño di Salamanca”, “bargueño”.

Il testo è una sintesi dell’articolo già pubblicato, con allegate le immagini mancanti: di Paolo Marzano, L’ Impero delle città mobili – Storie di viaggi e di idee, dall’architettura all’antiquaria e ritorno, in “Rassegna Storica del Mezzogiorno, Studi in onore di Alfredo Calabrese”, Organo della “Società Storica di Terra d’Otranto”, Continuazione della “Rivista storica del Mezzogiorno” fondata da Pier Fausto Palumbo, n. 4, Stampa CMYK – Alezio (Le), 2020.

(note e riferimenti bibliografici sono nell’articolo già pubblicato nel 2020)

Breve storia del Collegio Argento di Lecce

RELIGIONI AC BONIS ARTIBUS[1].

BREVE STORIA DEL COLLEGIO ARGENTO DI LECCE

di Paolo Vincenti

 

La storia della Compagnia di Gesù a Lecce parte nel 1574 sotto la guida di Padre Bernardino Realino[2]. In quella data, nasce a Lecce la prima Casa Professa gesuitica di Puglia che, divenuta in seguito Collegio, è anche la prima per importanza fra i nove collegi pugliesi[3].  Il Collegio, nato nel 1583, viene annesso alla Chiesa del Gesù[4].

La sede dei Gesuiti sorge sull’antica Chiesa di San Nicolò dei Greci, dove si officiava con rito greco, poi divenuta Chiesa del Buon Consiglio, la cui confraternita, in seguito alla presa di possesso da parte dei gesuiti, si trasferisce in San Giovanni del Malato[5]. La Chiesa del Gesù viene solennemente inaugurata e aperta al culto nel 1577[6], e contiene tele dell’Imperato, di Letizia, Antonio Verrio ed altri notevoli pittori[7]. Il Collegio fu fondato dall’Avv. Raffaele Staivano e realizzato anche grazie alle donazioni di numerosi benefattori provenienti dalle famiglie più agiate di Lecce[8].

Dopo Lecce, i Gesuiti si insediarono a Cerignola nel 1578, dove sorse il primo Collegio di Puglia in ordine di tempo; nel 1583, in concomitanza con quello leccese, nacque il Collegio di Bari; nel 1592 quello di Barletta; nel 1605 fu la volta di Bovino; nel 1611 i Gesuiti giunsero a Molfetta, dove nel 1618 nacque anche il Collegio; nel 1613 fu fondato il Collegio di Monopoli; nel 1617 la Residenza di Taranto, che nel 1624 divenne Collegio; infine, nel 1753 vide la luce il Collegio di Brindisi[9].

Ma, come detto, il Collegium Lupiense fu il più importante del Regno dopo quello di Napoli, e qui furono inviati i migliori professori, luminari nelle loro discipline, quali, uno su tutti, il Beato Carlo Spinola (1564-1622)[10].

All’opera spirituale dei Padri si devono poi la nascita delle Congregazioni mariane, dei Ministeri Apostolici e soprattutto delle Missioni[11]. Il Collegio si trovava all’epoca in quell’edificio che oggi è occupato dal Palazzo di Giustizia. Ivi si insegnavano latino, greco, filosofia, teologia, matematica, e queste materie attiravano l’attenzione della classe più agiata della Terra d’Otranto che inviava a studiare i propri rampolli nel Collegio di Lecce.

Un episodio particolare riguarda la permanenza a Lecce di P. Onofrio Paradiso, che il Barrella definisce “il Realino redivivo di Lecce”[12]. Il suo operato era talmente apprezzato che gli stessi sovrani Carlo IV e Maria Amalia pregarono il Provinciale nel 1757 di voler trasferire P. Paradiso nella Capitale. La richiesta incontrò la ferma opposizione non solo dei suoi confratelli del Collegio ma di tutta la popolazione di Lecce dove Paradiso era ormai tenuto in conto di santo, tanto che i cittadini presidiarono l’entrata del Collegio affinché nessuno della pubblica autorità potesse prelevare il frate e addirittura murarono la porta carraia dell’istituto segregando di fatto il Paradiso all’interno della sua stessa casa[13].

Nel 1767 vi fu la prima espulsione dei Gesuiti dal Regno di Napoli e la loro missione educatrice si arrestò. Il loro istituto passò ai Benedettini, come attesta Sigismondo Castromediano in uno scritto in cui rievoca la storia del prestigioso Liceo Palmieri che egli stesso frequentò e dove, per sua ammissione, trascorse gli anni più belli della propria vita[14].

Dopo la cacciata della Compagnia di Gesù dal Regno di Napoli, i resti mortali di Bernardino Realino vennero trasportati nella Cattedrale leccese e poi, nel 1855, nella chiesa di San Francesco della Scarpa, dopo il ritorno dei Gesuiti a Lecce, chiamati a reggere il Real Collegio San Giuseppe (poi divenuto Liceo Palmieri)[15]. Fu il Re Giuseppe Bonaparte a fondare nel 1807 il Real Collegio e Convitto “San Giuseppe” (intitolato al suo santo onomastico) presso l’istituto dei Missionari di San Vincenzo di Paola, fuori Porta Rugge; questi ultimi furono spostati in altra sede.

Con il ritorno dei Borbone, secondo la narrazione del Castromediano, il Collegio San Giuseppe venne trasferito nell’ex Istituto dei frati di San Francesco d’Assisi, che nel frattempo era divenuto deposito del sale, dopo essere stato caserma e ospedale militare. Nel 1832, ritornati in città i Gesuiti, a loro venne affidata la conduzione del Collegio, per sommo disdoro del Castromediano stesso, il quale aveva in uggia l’ordine gesuitico e non risparmia nella sua opera parole avvelenate nei confronti dei padri. Probabilmente, alla base di questo astio, come spiegano Rossi e Ruggiero, vi doveva essere il fatto che Castromediano ritenesse i Gesuiti collusi con la dinastia dei Borboni che era stata causa delle sue tribolazioni, e inoltre egli addebitava ai padri anche la dispersione dei beni archeologici rinvenuti negli scavi di Rugge e custoditi nel loro Collegio[16].

Sta di fatto che la scuola dei Gesuiti contava sempre nuovi iscritti ed un crescente successo. Infatti il Collegio venne notevolmente ampliato sotto la direzione dei lavori del gesuita Gianbattista Jazzeolla, ingegnere, e nel 1833 solennemente inaugurato[17]. Intervennero quindi i torbidi del 1848.

I Gesuiti, come in tutta la penisola, vennero cacciati anche da Lecce. Infatti, in seguito alla soppressione dei Gesuiti, anche nel capoluogo salentino vi furono disordini fra la cittadinanza. Come informa P. Barrella, nella Rivoluzione del 1848, fra le voci entusiastiche ed i festeggiamenti per la concessione della costituzione da parte del Re Ferdinando II, si insinuavano anche moti di dissenso nei confronti dei Gesuiti: liberali e carbonari chiedevano al Papa Pio IX la soppressione dell’Ordine. Quasi ogni sera, sostiene Barrella, si riunivano “gruppi di tumultuosi e giovinastri sotto le finestre del Collegio di Lecce” che gridavano “Viva Gioberti, morte ai Gesuiti!”[18] La Piazzetta di San Francesco della Scarpa si riempì di guardie nazionali che cercavano di placare gli animi dei manifestanti.

Così come a Napoli, dove il popolo furioso invadeva le scuole, le chiese e i collegi dei Gesuiti, gridando “fuori o sangue!”, a Lecce si crearono disordini e tafferugli, i frati vennero cacciati e dispersi fra Brindisi e Taranto, dove furono ricevuti dal clero regolare ed ospitati in attesa di nuova sistemazione[19]. Nel 1850, con il ristabilimento dell’Ordine, i Gesuiti ritornarono anche a Lecce, dove ripresero la direzione del Collegio di San Giuseppe, con nuovo Rettore, P.Carlo M.Turri[20].

Nel 1852 il Collegio dei Gesuiti venne elevato a Regio Liceo. Alle cattedre di diritto civile e penale, vennero aggiunte quelle di medicina, fisiologia, farmacia, anatomia, e inoltre alla dipendenza del Collegio era una casa rurale, Villa Mellone, nella periferia di Lecce, sede di villeggiatura per le vacanze estive degli studenti[21]. Il Collegio era frequentato da un numero crescente di studenti provenienti dalle più illustri famiglie leccesi.

Dopo l’Unità d’Italia, con la definitiva cacciata dei Gesuiti, il Liceo venne intitolato all’illustre economista leccese Giuseppe Palmieri[22]. La prima collocazione dell’Istituto, nel 1874, era stata il Palazzo Rossi di fronte alla Chiesa di San Matteo: successivamente venne spostato nel Palazzo Lubelli, di fronte alla Chiesa delle Alcantarine. Nel 1884 vi fu la concessione del terreno da parte del Comune di Lecce e nel 1888 iniziarono i lavori di costruzione che terminarono nel 1896[23]. Nicodemo Argento fu il primo Rettore, alternandosi con altri Direttori fino al 1904, anno della sua morte.  P. Giovanni Barrella, che è il principale biografo di Nicodemo Argento, ci fa sapere che egli, nato a Monopoli l’11 febbraio 1832, uomo dottissimo e dotato di preclare virtù (certo infiorettate dal correligionario biografo), dopo varie peregrinazioni fra Francia e Italia, giunse nel 1872 a Lecce, come precettore privato presso la famiglia Bozzi-Corso. Dopo una breve permanenza a Napoli, ritornò nel 1874 a Lecce[24]

In quel tempo, dopo l’espulsione dei Gesuiti del 1860, il Collegio leccese, al pari degli altri, era non più esistente e in tutta la Terra d’Otranto permanevano solo 36 gesuiti senza fissa collocazione. Argento ricostituì l’Istituto, come detto, presso il Palazzo Rossi, e successivamente presso il Palazzo Lubelli di fronte alla Chiesa delle Alcantarine, al quale, con il cresciuto numero dei convittori, venne annesso l’attiguo Palazzo De Marco[25]. Proprio per le mutate esigenze del Collegio, lo stabile in cui esso era allocato si rivelò insufficiente, sicché nel 1884 Padre Argento ebbe a censo dal Comune di Lecce una vasta area fuori dalle mura della città dove erigere un nuovo e più ampio edificio[26].

Nel 1888, dunque, con la posa della prima pietra, iniziarono i lavori e, nonostante le enormi difficoltà economiche incontrate, proseguirono fino al completamento, nel 1896, quando i primi studenti si insediarono nelle nuove classi: era lo stesso anno, come non manca di sottolineare Padre Barrella, della beatificazione di P. Bernardino Realino, alla cui intercessione celeste Barrella attribuisce la realizzazione della nuova struttura[27]. E proprio a Padre Argento si deve, a prezzo di un enorme carico burocratico e grazie ai buoni uffici presso la Santa Sede di Roma, la traslazione dei resti mortali di San Bernardino Realino dalla Chiesa di San Francesco della Scarpa nella chiesetta del nuovo Collegio.

Ciò avvenne nel 1896 e insieme ai resti di Padre Realino vennero traslati quelli del Beato P. Onofrio Paradiso[28]. Dopo alcuni Rettori che si avvicendarono alla guida del Collegio, Argento riprese la direzione nel 1903, quando il Collegio versava in uno stato di crisi, dalla quale egli prontamente lo risollevò. Dopo la sua morte, nel 1906, per volontà dei suoi confratelli, gli venne eretta nel Collegio una lapide, inaugurata in pompa magna dal Vescovo Mons. Trama e dalle autorità cittadine, con grande concorso di amici ed ex studenti e colleghi dell’Argento e con la lettura di un discorso commemorativo da parte del prof. Gianferrante Tanzi[29].

Alcuni anni dopo, nel 1915, per volere dei professori Brizio De Santis, che era stato allievo dell’Argento al Regio Liceo San Giuseppe, e Carmelo Franco, che ne sostennero le spese, venne eretto, nell’atrio dell’istituto, un busto in bronzo, opera pregevolissima dell’esimio scultore Antonio Bortone, posizionato su un piedistallo in pietra di Trani, sul quale si legge: “A Nicodemo Argento Gli alunni e gli ammiratori 1915”[30].

Nel 1908 la scuola venne trasformata in Seminario Interdiocesano divenendo il Primo seminario regionale Pugliese[31], Così il Collegio Argento venne chiuso per fare spazio al grandioso progetto voluto dal Papa Pio X[32].

Il primo Rettore fu P. Guglielmo Celebrano, cui seguì nel 1909 P. Arturo Donnarumma e nel 1912 P. Luigi Tullo[33]. Nel 1911 il Seminario Regionale Pugliese venne trasformato in Università teologica[34].

Allo scoppio della guerra, nella quale perse la vita, sul Monte San Michele, P. Pietro Giannuzzi, cappellano del Seminario Regionale Pugliese, primo dei cappellani militari morti sul campo[35], l’Istituto venne requisito e divenne Ospedale Contumaciale delle Regia Marina, fino al 1920, quando riprese le sue funzioni[36]. Le attività del collegio nel frattempo si trasferirono a Molfetta[37]. In quegli anni, la terribile epidemia di spagnola, che si diffuse a Lecce, in particolare nel 1918, non risparmiò nemmeno il Collegio Argento[38].  Dopo la guerra, le attività dell’Argento ripresero più fiorenti che mai fino a giungere ad un grande successo di iscrizioni nell’anno 1924, importante anche per una fausta ricorrenza per i Gesuiti leccesi.

Infatti, in quell’anno, nell’occasione del cinquantenario dell’Istituto, venne scoperta una lapide dedicata a tutti i caduti in guerra ex alunni del Collegio, come riportato da tutti gli organi di stampa dell’epoca. Purtroppo la targa venne poi rimossa e di essa si è persa ogni traccia. Molto probabilmente anche questa targa era opera dell’illustre scultore Bortone ma, essendo irreperibile, non se ne può trovare conferma. In quella solenne occasione, la salma di Padre Argento, grazie all’opera infaticabile del Rettore Barrella, venne traslata dal Cimitero di Lecce alla Cappella dell’Istituto e fu anche inaugurato il busto del fondatore, opera di Antonio Bortone, e nel locale d’ingresso fu apposta una targa ricordo con il testo di Brizio De Santis, Preside dell’Istituto Tecnico di Lecce e che già era stato allievo dell’Argento presso il Regio Liceo San Giuseppe[39]. La salma del Padre Argento venne tumulata ai piedi dell’altare dove erano custoditi anche i resti di Bernardino Realino, il santo tanto amato e venerato dall’Argento.

La cerimonia, presieduta dal Vescovo Mons. Trama, vide una folla immensa di partecipanti, insieme alle autorità cittadine di Lecce e di Monopoli: nella cittadina barese, patria dell’Argento, venne anche collocato un suo ritratto nell’Aula consigliare del Municipio e a lui venne intitolata la stradina dove sorgeva la sua casa natale; nel contempo a Lecce gli fu intitolata una piazza[40]. Nel 1930 il Regio Liceo Argento venne parificato. Nel 1947 un’altra tappa importante fu la canonizzazione del fondatore Padre Realino, con la consegna delle chiavi della città al Santo. L’Istituto venne acquistato dalla Provincia di Lecce che vi realizzò le sedi della Biblioteca Provinciale “Nicola Bernardini” – la cui prima dotazione fu proprio quella proveniente dalla biblioteca dei Gesuiti -, e del Museo Provinciale “Sigismondo Castromediano”[41].

 

Note

[1] È il motto che campeggia tuttora sulle mura dell’ex Collegio Argento, lo stesso che si trova anche nel più importante Collegio Romano. Si veda: Ilaria Morali, Religioni ac bonis artibus: l’“apostolato scientifico” dei gesuiti in Cina,  in Pianeta Galileo 2009, a cura di Alberto Peruzzi, Regione Toscana, Firenze, 2010, pp. 399-415.

[2] Su San Bernardino Realino (1530-1616), esiste una vasta bibliografia. Fra le fonti più antiche: Giulio Cesare Infantino, Lecce sacra, Lecce, Tip. Pietro Micheli, 1634, pp. 162-176; Vita del Padre Bernardino Realino da Carpi della Compagnia di Gesù composta dal P. Giacomo Fuligatti della medesima Compagnia, Viterbo, 1644; Menologio di pie memorie di alcuni Religiosi della Compagnia di Gesù, raccolte dal P. Giuseppe Antonio Patrignani della medesima Compagnia e distribuite per quei giorni dell’anno ne’ quali morirono, dall’anno 1538 fino all’anno 1728, v. III, Venezia, Tip. Nicolò Pezzana, 1730, passim; Vita del Venerabile Padre Bernardino Realino della Compagnia di Gesù scritta dal P. Giuseppe Boero della medesima Compagnia, Postulatore della causa, Roma, Tip. Bernardo Morini, 1852; Cenni biografici del Venerabile Padre Bernardino Realino scritti dal suo concittadino Isidoro Maini, Modena, Tip. Immacolata Concezione, 1869; Compendio della vita del V.P. Bernardino Realino d. C[ompagnia] d[i] G[esù] apostolo della città di Lecce, scritto dal P. Giuseppe Broia della medesima Compagnia, Lecce, Tip. Fratelli Spacciante, 1892; Ettore Venturi, Storia della vita del Beato Bernardino Realino: sacerdote professo della Compagnia di Gesù, scritta e illustrata dal P. Ettore Venturi della medesima Compagnia, Roma, Tipografia Befani, 1895; Vincenzo Dente, Un santo educatore e letterato gesuita, in «La civiltà cattolica», n. LXXXII, 1931, pp. 21-36 e 209-225; Giuseppe Germier S.J., San Bernardino Realino, Firenze, Libreria editrice Fiorentina 1942, p. 408; Pietro Tacchi Venturi, Mario Scaduto, Storia della Compagnia di Gesù in Italia, v. III, L’epoca di Giacomo Laínez, il governo (1556-1565), Roma, 1964, p. 293. La fonte più recente è Defensor Civitatis Modernità di padre Bernardino Realino Magistrato, Gesuita e Santo. Atti del Convegno Internazionale di Studi a quattrocento anni dalla morte (1616-2016), Lecce, 13-15 ottobre 2016, a cura di Luisa Cosi e Mario Spedicato, Società Storia Patria-Sezione di Lecce, Lecce, Grifo Editore, 2017.

[3] P. Giovanni Barrella, La Compagnia di Gesù nelle Puglie 1574-1767, a cura dell’Istituto Argento di Lecce, Lecce, Tipografia Salentina, 1941, p.17.

[4] Sul Collegio di Lecce: Francesco Schinosi, Istoria della Compagnia di Gesù appartenente al Regno di Napoli descritta da Francesco Schinosi della medesima Compagnia, parte prima, libro IV, Napoli, Stamperia Michele Luigi Mutio, 1706, pp. 283-291.

[5]Giulio Cesare Infantino, Lecce sacra cit., pp.217-218.

[6] P. Giovanni Barrella, La Compagnia di Gesù nelle Puglie cit., p.23.

[7] Ivi, p.26.

[8] P. Giovanni Barrella, Un grande educatore. Vita aneddotica del P. Nicodemo Argento S.I. 1832-1905 con rapidi cenni sul Collegio da lui fondato in Lecce 1874-1950, pubblicata in occasione del LXXV della fondazione del Collegio stesso, Lecce, Tip. Scorrano, 1951, p.70.

[9] P. Giovanni Barrella, La Compagnia di Gesù nelle Puglie cit., p.15.

[10] Ivi, p.24. Sullo Spinola, si vedano: Vita del P. Carlo Spinola della Compagnia di Giesù morto per la Santa Fede nel Giappone del p. Fabio Ambrosio Spinola dell’istessa Compagnia all’Illustriss. e Reverendiss. Signore, e Padron Colendissimo, Monsignor Prospero Spinola Digniss. Vicelegato di Bologna, In Roma e in Bologna, per Clemente Ferroni, 1628; Daniele Frison, The office of procurator through the letters of Carlo Spinola S.J., in «Bulletin of Portuguese – Japanese Studies», vol. 20, giugno, Universidade Nova de Lisboa, Portugal, 2010, pp. 9-70; Idem, ‘La piu difficile, e la piu disastrosa via, che mai fino allora niun altro’ Carlo Spinola and his attempts to get to the Indias, in «Revista de Cultura», Instituto Cultural do Governo da Regiao Administrativa Especial de Macau, 44, 2013, pp.88-109.

[11] Ivi, pp.67-79.

[12] P. Giovanni Barrella, La Compagnia di Gesù cit., p.70.

[13] Ivi, p.77.  Sul Paradiso si veda: Salvatore Bini, Onofrio Paradiso-Apostolo del Salento, Salerno, Ed. Arci Postiglione, 2011.

[14] Sigismondo Castromediano, La commissione conservatrice dei Monumenti storici e di Belle Arti di Terra d’Otranto al Consiglio Provinciale Relazione per gli anni 1874-1875 del Duca Sigismondo Castromediano, Lecce, Tip. Salentina, 1876, pp.14-16.

[15] P. Giovanni Barrella, Un grande educatore cit., p.23.

[16] Aa. Vv., Il gabinetto di fisica del Collegio Argento, I Gesuiti e l’insegnamento scientifico a Lecce. Spunti per una storia, a cura di Arcangelo Rossi e Livio Ruggiero, Lecce, Edizioni Grifo, 1998, p.16.

[17] P. Giovanni Barrella, La Compagnia di Gesù cit., p.109.

[18] P. Giovanni Barrella, Un episodio del 1848 a Lecce. La cacciata dei Gesuiti (da Mss.inediti), Lecce, Tip. Giurdignano, 1923, p.7.

[19] Ivi, p.13.

[20] Nicola Bernardini, Lecce nel 1848: figure, documenti ed episodi della rivoluzione, Lecce, Tip. Bortone, 1913 p.499.

[21] P. Giovanni Barrella, La Compagnia di Gesù cit., p.111.

[22] Sigismondo Castromediano, La commissione conservatrice dei Monumenti storici e di Belle Arti di Terra d’Otranto cit., p.16.

[23] Valentino De Luca, “Stringiamoci a coorte siam pronti alla morte l’Italia chiamò”. La Prima guerra mondiale nei monumenti e nelle epigrafi di Lecce, Galatina, Editrice Salentina, 2015, p.64.

[24]  P. Giovanni Barrella, Un grande educatore cit., p.11.

[25] Ivi, p.13.

[26] Ivi, p.14.

[27] Ivi, p.22.

[28] Ivi, p.26.

[29] Ivi, p.69.  Il Discorso letto dal Prof. Cav. Gianferrante Tanzi nella cerimonia dello scoprimento della lapide viene pubblicato da Giovanni Barrella, in La figura del P. Nicodemo Argento, Lecce, Tip. Editrice Salentina Fr.lli Spacciante, 1906, pp.5-16, in cui è pubblicato anche 25 giugno 1906, un discorso informale tenuto da Cosimo De Giorgi a mensa: Ivi, pp.17-20.

[30] Ivi, pp.69 -70.

[31] Teodoro Pellegrino, Il Primo seminario regionale Pugliese a Lecce, in “Il popolo del Salento”, 18 febbraio 1955, riportato da Valentino De Luca in Lecce negli anni della Grande Guerra, Galatina, Editrice Salentina, 2019, p.79.

[32] Salvatore Palese, Ugento – Santa Maria di Leuca, in Storia delle Chiese di Puglia, a cura di S. Palese e L.M. De Palma, Ecumenica Editrice, Bari 2008, p. 356: «Il rinnovamento del clero fu originato pure dalla formazione dei giovani chierici nel nuovo seminario regionale che Pio X aveva voluto a Lecce nel 1908 e affidato ai Gesuiti e trasferito a Molfetta nel 1915».

[33] P. Giovanni Barrella, Un grande educatore cit., p.76.

[34] Aa. Vv., Il gabinetto di fisica del Collegio Argento, I Gesuiti e l’insegnamento scientifico a Lecce cit.,  p.11.

[35]P. Giovanni Barrella, Un grande educatore cit., p.76. Sull’esperienza dei cappellani militari, si vedano: F. Lovison, I cappellani militari nell’Europa in guerra, Relazione al Convegno di giovedì 16 ottobre 2014, Pontificio Comitato di Scienze Storiche, Roma, 2014; R. Morozzo Della Rocca, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti soldato, Studium, Roma, 1980.  Su Mons. Angelo Bartolomasi, primo Vescovo militare italiano: N. Bartolomasi, Mons. Angelo Bartolomasi. Vescovo dei soldati d’Italia, vol. I, Il Vescovo del Carso e di Trieste liberata, edito a cura dell’Opera Mons. Bartolomasi, Roma 1966; con specifico riferimento alla partecipazione del clero pugliese e salentino: Salvatore Palese-Ercole Morciano, Preti del Novecento nel Mezzogiorno d’Italia. Repertorio biografico del clero della Diocesi di Ugento-S. Maria di Leuca, Galatina, Congedo, 2013, passim; V. Robles, Vescovi, clero e popolo di Puglia durante la grande guerra, in La Chiesa barese e la Prima Guerra Mondiale (Per la storia della Chiesa di Bari-Bitonto n. 31), a cura di Salvatore Palese, Bari, Edipuglia, 2016, pp.11-81; Ercole Morciano, La “Grande Guerra” nelle carte dell’archivio Storico Diocesano di Ugento, in «Bollettino Diocesano S. Maria de Finibus Terrae Atti ufficiali e attività pastorali della Diocesi di Ugento – S. M. di Leuca»,  a cura di Mons. Salvatore Palese, a. LXXXI – n. 2, Luglio-Dicembre 2018, pp.788-823, in particolare I cappellani militari, pp.791-794.

[36] Si vedano: P. Giovanni Barrella, P. Nicodemo Argento S.J. e il suo “Istituto” nel primo cinquantenario dalla fondazione dell’ “Istituto Argento” 1874-1924, Lecce, Tip. Lit. Vincenzo Masciullo, 1924; Pietro Marti, Il Collegio Argento, in «Il Salento. Almanacco illustrato», 1933 e Valentino De Luca, “Stringiamoci a coorte siam pronti alla morte l’Italia chiamò” cit., p.64.

[37] Valentino De Luca, Lecce cit., p.80.

[38]P. Giovanni Barrella, Un grande educatore cit., p.79.

[39] Valentino De Luca, Stringiamoci a coorte cit., pp.61-64.

[40]P. Giovanni Barrella, Un grande educatore cit., p.87.

[41] Valentino De Luca, Stringiamoci a coorte cit., p.64.

 

L’attività letteraria del Circolo Culturale “G. D’Annunzio” di Casarano

CIRCOLO CULTURALE D’ANNUNZIO: PRIMA VERA – RACCOLTA DI VERSI IN VERSI

 

di Paolo Vincenti

Una antologia poetica inaugura l’attività letteraria del Circolo Culturale “G. D’Annunzio” di Casarano. Onore al merito della Presidente e del consiglio direttivo che in vario modo hanno continuato e continuano ad operare cultura in tempi tristi come quelli che stiamo vivendo. Una silloge, dunque, un florilegio, una somma di poeti e poetesse che, diversi per formazione e professione, stile e sensibilità, sono accomunati dalla medesima propensione. Essi, tutti, hanno deciso di accordare la propria lira a quella del dio Apollo, auspice e protettore della poesia, rendendo omaggio all’arte antica e sempre nuova della poesia; e ciò, al di là di ogni intenzione programmatica, fuori da qualsiasi manifesto estetico, ché qui, lungi da un mero spontaneismo, è l’ispirazione a governare il canto e a muovere la penna, l’afflato, al quale questi autori si consegnano toto corde. “Poesia istintuale”, potremmo definirla, prendendo a prestito una definizione utilizzata dal critico letterario Luca Canali, esprimente cioè “un irrefrenabile desiderio di comunicazione”, forse compresso nella vita di tutti i giorni. Si tratta di diciassette autori, una poesia per ognuno.

La prima prova poetica è di Anna Maria Bianco, giovane studentessa originaria di Melissano, la quale “ama guardare, osservare, creare e scrive prevalentemente poesie che rappresentano per lei piccoli pezzi di storie che devo lasciare andare”. Così dice lei stessa in limine alla sua poesia, “Scriverei una lettera”.  La seconda autrice presente nel volume è Anna Pia Merico che, originaria di Taranto, vive a Gallipoli.  Sono probabilmente le due città di mare, quella d’origine e quella d’elezione, ad ispirarle accorati versi che germinano dall’amore per la vita, per l’arte e per la sua terra, come la stessa scrive in una breve scheda di presentazione. Significativa è la sua poesia, nella quale chiede ad un liutaio di accordare i sogni.  Un profilo variegato ed una robusta formazione professionale portano Antonella Screti, psicopedagogista, trainer in tecniche per il benessere e comunicazione ecologicamente corretta, a scrivere versi densi di valenze sociali, umane, antropologiche, come questi in cui celebra idealmente il matrimonio fra Oriente ed Occidente, prima che un destino incombente ponga fine al mondo come noi lo conosciamo. La Screti ha già pubblicato volumi quali Calze a rete e maliziosi sorrisi (Ed. Oistros), Storia di Raidha e la chiesetta (Musicaos Ed.), Dipingendo e narrando Otranto (all’interno della Collana “Lungo la costa di questo nostro mare”).

Erina Pedaci, la quarta autrice ospite del volume, è laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne ed è docente di Lingua inglese. Ha pubblicato altri due libri di filastrocche: Non solo filastrocche (2015) e Tanti grilli per la testa (2018). Per l’Associazione Fidapa BPW-Italy di cui fa parte, ha pubblicato nel 2019 un opuscolo per la Campagna HE FOR SHE sulla parità di genere, dal titolo Io, mamma e papà, insieme per la parità. Nella sua poesia si rivolge alla luna, un tema che ha ispirato i poeti fin dagli albori della letteratura. Basti pensare, solo per rimanere al Novecento, al Dino Campana dei Canti Orfici (“La notte”), al Quasimodo di Terra (“Notte, serene ombre, culla d’aria) o di Ed è subito sera, al Pascoli del Gelsomino notturno (“E s’aprono i fiori notturni, nell’ora che penso ai miei cari), alla notte del Carducci in A Virgilio (“Come quando su’ campi arsi la pia Luna imminente il gelo estivo infonde”), o anche alla bellissima Rapsodia su una notte di vento di T. S. Eliot, ecc.

Non nuova all’esperienza poetica è Fernanda Quarta Marzano, che scrive da sempre ed ha già ricevuto notevoli apprezzamenti e riconoscimenti per le sue poesie raccolte in sillogi, quali Gabbiani azzurri, Mescia Nina, O riti o fusci, Petali di gerani, Terra Noscia, Raccontini, Sorrisi di bimbi, La storia di Puccio primario, Storielline curiose, ecc. Evocativa la poesia che qui presenta, nella quale il sorriso diventa un porto quiete nella tempesta che squassa la festa della natura, ed il sorriso è quello di mamma passera che mette al sicuro i propri piccoli in un caldo nido mentre la bufera può anche continuare.

Forte di una robusta formazione culturale è anche Giuseppe Giovanni Orsi, di Poggiardo, insegnante di Materie letterarie e socio fondatore del Nuovo centro Studi Utopici dell’Università del Salento, nonché presidente dell’Associazione Culturale AION con sede a Santa Cesarea Terme. Orsi, che ha già all’attivo svariate pubblicazioni, anche di carattere socio pedagogico, qui propone “Fronde di sguardi”, una poesia dall’atmosfera vagamente sognante che trova la sua espressione più felice in quelle “dita” che “arpeggiano al telaio la coperta del tuo domani”.

Laura Rotella, originaria di Collepasso, scrive poesie, o meglio “pensieri, esplorazioni dell’anima su un foglio bianco”, come lei le definisce, da sempre, e molte di queste sono state selezionate e pubblicate sulla rivista online “Osservatorio Poetico Salentino”. Una delle più intense, la sua poesia senza titolo, ha come tema il paesaggio del Sud, con al centro quel portato magico-folklorico-antropologico che è il tarantismo e intorno la bellezza aspra e selvaggia delle nostre contrade.

Luigina Parisi, autrice già nota al pubblico salentino, coltiva la scrittura, sia poetica che narrativa, fin dall’adolescenza, ed ha partecipato a diversi concorsi letterali. Nel 2019 ha pubblicato la raccolta di racconti Malurmia (VJ Edizioni) e il romanzo Un abbraccio sospeso (Musicaos Editore). “Ritagli di cielo” sono i protagonisti dei suoi raffinati versi.

Marco Giorgio Reho, che, nato a Gagliano del Capo, vive a Matino e di professione fa l’idraulico, ci lascia, lui salentino, l’immagine di una aurora boreale che è uno spettacolo atmosferico certo molto raro alle nostre latitudini, ma si sa che il potere della fantasia può far viaggiare i poeti nel tempo e nello spazio, senza limitazioni di sorta.

Maria Consiglia Mercuri, gallipolina, docente di materie giuridiche, confessa un grande mai rinnegato amore per la poesia, con una rilevante attenzione per le parole che ne compongono la trama: “Quando parlerò di te, saprai le parole mai dette. Il silenzio avrà voce, il pensiero sarà vento, i miei occhi cristalli di luce”, scrive.

Anche Maria D’Albenzio, campana d’origine e salentina d’adozione, non è nuova sul palcoscenico letterario, essendo avvezza all’esercizio della scrittura, ch’ella esplica in recensioni per artisti e poeti e in pubblicazioni varie. Come per tutti noi, a muoverla sono le “passioni”, che danno anche il titolo alla poesia che qui propone.

La giovanissima Martina Fiorentino, parabitana, ama la scrittura e la lettura ed esprime la propria creatività in pregevoli versi come quelli che compongono questa poesia, nella quale è presente una Mafior, suo alter ego letterario, messaggera del suo bisogno comunicativo, ch’è forse quello della generazione dei post millennials, la sua, denominata “zeta” dai sociologi.

Patrizia Carlino presenta la bellissima “I luoghi del cuore”. Coltivatrice diretta di professione, è poetessa e pittrice autodidatta. “Scrivere per me”, afferma, “è una necessità che mi fa sentire maggiormente legata a ricordi e ad affetti che ormai non ci sono più e che col tempo potrebbero svanire del tutto e a tematiche universali che mi sono particolarmente a cuore”.

Quello di Pina Petracca è un nome noto agli amanti della poesia. Ella è autrice di sillogi poetiche, quali Inno alla vita (Liber Ars- Lecce), del 1999, L’Antidoto (Carra Editrice) del 2007, Il senso dell’incanto (Libellula Edizioni), del 2013, che contiene sue poesie ispirate dai dipinti della pittrice Laura Petracca, e poi Solitudini a Sud della tua luce (Esperidi Edizioni), del 2017. Le sue poesie sono inserite in diverse antologie e riviste letterarie. Una raffinatissima penna, come conferma il testo qui presente, “Dio aveva i piedi di mio padre”, da leggere d’un fiato e da meditare in un tempo lungo.

La poetessa Tonia Romano dice di avere una “forte sensibilità verso tematiche sociali importanti”.  Ha partecipato a moltissimi concorsi letterari riportandone premi e riconoscimenti. “Rivestita di foglie e cespugli”, scrive nella sua poesia, “un senso di pace accoglie l’immenso”.

La casaranese Valeria Pacella, laureata in Archeologia presso l’Università degli Studi di Lecce, ha collaborato negli anni con varie associazioni attente alla cura della formazione dei più piccoli. Scrive e compone per diletto, coltivando la passione per l’arte, la letteratura e la musica. Protagonista della sua poesia è l’alba, celebrata in versi dai più grandi poeti (pensiamo all’“aurora ditirosata”, di cui parla già Omero e che diventa un topos della letteratura greca e latina) che qui sorride mentre si allontana, “lasciando un dolce calore che mantiene calda la terra promessa di una nuova speranza”.

Anche Maria Campeggio, di Parabita, maturità magistrale, Laurea in Pianoforte presso il Conservatorio “T. Schipa” di Lecce e Laurea in Didattica della Musica, è poetessa di lungo corso.  Ha partecipato a vari reading letterari ed ha pubblicato nel 2014 il libro La rosa di Gerico (Il Laboratorio Ed.). Versi aerei, i suoi, eterei, come quella luna, custode dei ricordi bambini, protagonista della sua delicata lirica “Al tramonto”.

La forma lessicale di questi componimenti si presenta molto accessibile. Invero, la semplicità espressiva nasconde la ricchezza interiore, un giacimento di risorse, pensieri, emozioni, aspirazioni, di cui sono portatori questi poeti i quali non cercano il rimbombo, la grancassa, gli esperimenti verbo visivi e gli effetti speciali di altre stagioni poetiche e letterarie, ma si offrono così, con le loro prove versificatorie, senza orpelli né finzioni, sospesi fra antico e moderno, fra il farsi della poesia e il viverla. Non omnes arbusta iuvant humilesque Myricae, cioè “non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici”, scrive il grande Virgilio nel IV Libro delle Bucoliche, scolpendo in questi versi quello che diverrà quasi il manifesto della poesia semplice, dimessa, tanto che vennero ripresi da Giovanni Pascoli in epigrafe a molte sue opere, prima fra tutte quella che da essi traeva il titolo, ovvero Myricae. Anche della raccolta che qui si presenta non sono protagonisti “poeti laureati”, come li definì Eugenio Montale ne I limoni.

I nostri autori sono cantori di un tempo fatto di strade e paesaggi, suoni e colori, situazioni e quadri di vita; purtuttavia, per tornare Montale, è bello lasciarsi richiamare da quel cortile semiaperto e dal giallo vivido dei suoi limoni, è uno struggimento necessario, anzi, è proprio “la nostra parte di ricchezza”.

Libri| Una monografia sulla pittura di Egidio Presicce

Sarà presentato il 29 dicembre 2021, presso la chiesa di San Francesco da Paola, il volume dedicato alla produzione pittorica di Egidio Presicce, edito per i tipi di Congedo editore (volume in brossura, formato cm 23,5×33,5, pp. 248, interamente a colori).

 

Egidio Presicce nasce nel 1927 a Nardò, in provincia di Lecce, dove vive e lavora sino alla sua scomparsa nel 2017. Inizia a disegnare da giovanissimo esordendo nella grafica caricaturale, per poi applicarsi nella pittura senza tralasciare le diverse tecniche pittoriche: dall’olio all’acrilico, dall’acquerello all’inchiostro di china, fino alle matite colorate, seguendo i canoni dell’arte figurativa. Dedica particolare attenzione a quanti hanno vissuto nella sua terra, dalla quale astrae un brulichìo di figure che popolano vicoli, piazze e campagne, mettendone in risalto le qualità o i difetti, la triste o gloriosa fama, le peripezie o le vicissitudini.

Sempre sperimentando nuovi linguaggi espressivi, attraverso un irripetibile percorso descrittivo e figurativo, in prosa, con il disegno e con la pittura, crea una galleria straordinaria di istantanee popolaresche, non sempre caricaturali, mai grottesche, con centinaia di concittadini estratti da ogni ceto, quasi sempre a lui ben noti e colti con l’affetto della compartecipazione.

Molti dei disegni sono stesure su carta di immagini ancora in divenire, quasi delle riflessioni che poi l’artista riprodurrà sulle sue tele, risentendo soprattutto dell’influsso dell’Espressionismo, comunicando con vivaci giochi di colore il suo personale ed originale modo di sentire e vedere quanto lo circonda.

Ha organizzato personali di Pittura ed ha partecipato a numerose Mostre collettive in Italia e all’estero, raccogliendo consensi di pubblico e critica.

Il suo nome è noto in tutta Italia in quanto ideatore e curatore di dieci edizioni della Rassegna Pittori in Ribalta, tenute a Nardò negli anni Ottanta, con felici estemporanee settembrine che tanto lustro hanno dato alla città facendone una vetrina nazionale dell’arte.

Il suo bagaglio culturale e la sua esperienza di vita sono raccolti nell’edizione postuma Luci ed Ombre di un’Epoca. Nardò nel primo cinquantennio del ‘900: avvenimenti, personaggi, usi, costumi (Besa ed., Nardò 2019), che la moglie Antonietta e i suoi figli Paolo e Francesco hanno voluto far conoscere al grande pubblico. In esso ha descritto in maniera autentica e piacevole i fatti salienti, le tradizioni e le figure neritine caratterizzanti la prima metà del secolo scorso che coincide con la sua fase giovanile.

Enza Pagliara e Dario Muci. La santa allegrezza. Canti e racconti del Natale

LA SANTA ALLEGREZZA

CANTI E RACCONTI DEL NATALE

 

Enza PAGLIARA e Dario MUCI

con

Marco Tuma, Michele Bianco, Gianluca Longo, Gianni Gelao, Giovannangelo De Gennaro e il maestro puparo Dario De Micheli

 

È un viaggio tra i canti natalizi del Salento e del Sud Italia quello che propone “La Santa allegrezza”: un viaggio di parole e musica che da Betlemme ci porta nelle nostre case, al profumo di pittule, ai suoni della pastorale. Un viaggio per rivivere insieme la magia di quella notte, in compagnia di pastori, magi e Mamminieddhi zuccarati. Il concerto natalizio di Enza Pagliara e Dario Muci, prende ispirazione da una lunga ricerca sulle tradizioni e i riti del Natale proponendo canti, strine, filastrocche e leggende che ci introdurranno al nuovo anno.

Quanno nascette Ninno a Betlemme, era notte e pareva mienzojuorno. Correva l’anno 1754 quando Sant’Alfonzo Maria de’Liguori scrisse i versi di uno dei più popolari canti natalizi per raccontare ai suoi villani, poveri ed analfabeti, il mistero del Natale. Un mistero che da duemila anni ispira pittori, scultori, poeti e che ogni anno si incarna nel silenzio magico del presepe. Ma è la musica, forse, tra tutte le arti, quella che meglio ha saputo svelare questo mistero, vestendolo di melodie divenute immortali. A partire da Sant’Alfonzo, ogni musicista, popolare o colto che sia, si è misurato con la nascita del Dio Bambino, per raccontare di quella notte prodigiosa, di pastori, di angeli e di pace.

 

I CONCERTI:

08 dicembre – Chiesa di San Michele Arcangelo, Trepuzzi ore 20:00, con Marco Tuma

22 dicembre – Chiesa Madre Santa Maria della Neve, Cutrofiano ore 19:30, con Michele Bianco

26 dicembre – Chiesa Madre, Torchiarolo ore 19:30, con Gianluca Longo e Giovannangelo de Gennaro

27 dicembre – Sulla via dei presepi nel Borgo, Tuglie ore 19:30, con Giovannangelo de Gennaro

28 dicembre – Cattedrale, Molfetta ore 19:30, con Gianluca Longo e Gianni Gelao

29 dicembre – Chiesa di Santa Domenica, Scorrano ore 19:30, con Gianluca Longo

30 dicembre – Chiesa di Santa Teresa, Nardò ore 19:30, con Marco Tuma

 

EVENTI ORGANIZZATI GRAZIE A:

Comune di Cutrofiano

Comune di Torchiarolo

Comune di Molfetta

Comune dio Scorrano

Comune di Nardò

Don Emanuel Riezzo e la Parrocchia di San Michele Arcangelo Trepuzzi

Gianpiero Pisanello e l’Associazione Culturale “Festival Nazionale del libro

siQura Energy

Pro LocoTorchiarolo-Turchellis

Vincenzo De Pinto e Fabulanova Molfetta

 

 

Contatti: naunacm@gmail.com 3298483493

Social: https://www.facebook.com/Naunacantierimusicali

https://www.instagram.com/naunacantieri/

 

“Nauna Cantieri Musicali” è una etichetta indipendente che rievoca l’antica denominazione dell’attuale Santa Maria al Bagno, la bellissima località sullo Ionio, in provincia di Lecce; è nata all’interno dell’omonima associazione culturale con il fine di pubblicare sia documenti etnomusicali e vocali raccolti nell’area salentina, sia opere di riproposta, più complesse, che coniugano la meticolosa cura dei repertori con un progetto artistico originale. Le anime e le voci di questo programma sono Dario Muci ed Enza Pagliara, ricercatori e musicisti ampiamente noti nel panorama della musica popolare, decisi a cercare una nuova direzione in cui orientare il frutto delle indagini sul campo e delle esperienze maturate nella loro attività.

Nauna produce nel 2018 “Marea” di Enza Pagliara e Dario Muci, e “Canti narrativi a Nardò” delle Sorelle Gaballo. Nel 2020 pubblica “Suddissimo – Omaggio a M. Salvatore e A. Doriani” e realizza una ricerca sul campo a Otranto, dando vita al Coro Popolare di Terra d’Otranto. Nel 2021 è impegnata alla realizzazione del disco “A te sarò per sempre” di Miro Durante e Pubblica sulle piattaforme digitali i primi due volumi dedicati alla Barberia, la musica delle sale da barba nel Salento. Coo-produce con ZeroNoveNove lo spettacolo in streaming di Enza Pagliara dal titolo Simpatichina e con Moscara Associati e Nostos Produzioni progettano un “viaggio, un documentario e un libro fotografico” dal titolo Sulla via Francigena il cammino degli Asini Dotti.

La poesia di Maria Campeggio

di Paolo Vincenti*

Maria Campeggio non è nuova all’attività poetica. Scrive da sempre.  Qui si presenta una summa della sua produzione, un florilegio delle sue liriche, selezionate dalla stessa autrice.

Quella di Maria Campeggio è poesia di assoluta e limpida soggettività. Sono il suo apprendistato e il lungo esercizio a determinare le soluzioni formali dei suoi scritti, sempre sorrette dai sentimenti che le presuppongono. Tuttavia, il suo universo poetico si apre a tante suggestioni e tutte le cose, gli eventi minimi quotidiani, quell’orto concluso ch’è la sua dimensione esistenziale, credo elettiva, sebbene percettibili nella trama dei versi, sono proiettati in una dimensione più ampia, alare, nei suoi raffinati testi. Tangibile la maturazione artistica dell’autrice, di pari passo con quella umana. Si definisce una donna in cammino, infatti: “eppure sono sempre in cammino”, scrive, “albero fecondo di questa terra” (Cammino di vita).

La sua formazione culturale è prevalentemente musicale e chissà che questa non le abbia fornito l’humus, la condizione ideale per la gestazione dei componimenti poetici, molti dei quali recano in sé una musicalità che viene da lontano, come conferma la stessa etimologia del termine “lirica”, composizione poetica che i Greci accompagnavano appunto col suono della lira, strumento caro al dio Apollo, protettore e auspice della poesia.

Si tratta di versi sciolti, sorretti da un linguaggio che si compone nel farsi della poesia. Intravedo, quali referenti letterari, i grandi poeti del Novecento, Saba, Montale, Quasimodo, ma senza addebiti scoperti. Il suo vocabolario è certamente poetico, ricercato, per quanto facilmente intellegibile, avulso dalle problematicità dell’oggi, contemporaneo, sebbene lontano dalla lingua dell’omologazione. Le parole sono connotative delle emozioni, dei palpiti, dei moti dell’anima che muovono l’ispirazione. È poesia intimistica, poesia dei minimi dettagli, della natura, delle relazioni famigliari – forte, simbiotico, il rapporto con il padre e la madre-, amicali, sentimentali – dell’amore negato, perso, respinto: versi intensi, pensosi della vita, dei destini umani, delle relazioni fra simili, come quei richiami che sussumono un mondo, gremito di presenze e assenze, sospeso fra la ordinata armonia del cosmo ed il caos che la sconquassa, così come la vita, del resto, sempre in bilico fra dolore e gioia, buio e tenebre, vittorie e sconfitte.

Tre sono i temi nei quali si può dividere questo canzoniere: l’amore; il paesaggio; la spiritualità. Al primo tema appartengono alcune liriche scelte, di un intimismo sofferto e donato. Il secondo tema si materia di liriche che cantano la natura nei suoi aspetti fenomenologici e nella quale è facile scorgere il paesaggio vitale, ovvero il Salento, sua dimora larica, mai nominato ma comunque iconizzato dai chiari elementi geografici che ne connotano il territorio. Le poesie che appartengono al terzo tema, in cui l’autrice dispiega una forte spiritualità, sono occasionate dalle feste del calendario liturgico, il Natale, l’Epifania, la Pasqua, il Lunedì dell’Angelo, ma anche da quei momenti topici che segnano la vita dell’anno.

Fra le poesie dell’amore, troviamo Lasciami il tempo (una delle più significative: “Stasera l’ultimo grido di una stella sarà la mia voce che ti abbandona”), Rose di maggio, Incontrarti, Io e te, Non ci sei (“Tormentoso hai spezzato la mia anima. No, non voglio il tuo caffè: è troppo poco raccontarti solo per un momento quando non basterebbe l’intera vita per viverti”), Tu, Dimenticami (“come l’estate dimentica i ciclamini in ritardo”, scrive, “e rende spumeggianti le spighe di grano mature. Dimenticami. Come l’ape lussuriosa che dimentica il fiore dopo averne rubato il nettare. Dimenticami…”).

Da segnalare Rinascita continua e Attimo, fra le più belle della raccolta.

Rientrano nel secondo tema, del paesaggio e del passare delle stagioni, liriche come Pomeriggio gallipolino, Agosto e Tramonto, queste ultime notevolissime per il grado di concentrazione che riesce a raggiungere, e ancora Al tramonto, Neve, Mattino di dicembre, La primavera. Mai viene meno, nell’autrice, una visione superiore del tutto, come le liriche che rientrano nel terzo tema confermano: Universo, Festa dell’Immacolata, Santa Lucia, In attesa del Natale, la bellissima Adeste Fideles (“I pastori ci guidano e cantano magnificenza. Adeste fideles … Gli Angeli s’abbandonano ai suoni nei cieli e l’amaro sulla terra si fa miele da versare su grevi torpori”), Natale 2020 (con quella “voglia di versarmi addosso vino fresco frizzante e un’allegria schiacciante sotto abeti avvampati di luce…”), Fine anno, Capodanno 2021, in cui scrive: “Nei tuguri dei cuori miserabili coppe colme s’affannano Del Nulla il nulla s’è fatto portabandiera”. E poi Epifania, Vigilia dell’Immacolata, Carnevale, Lunedi dell’Angelo.

Ancora: Vigilia di Santa Cecilia protettrice dei musicisti, evidentemente cara alla poetessa, la quale congiunge le Muse Euterpe e Calliope in fertile connubio, e, strettamente collegata a questa, Perle di pensieri.

Ha valenze sociali L’attimo, dedicata al magistrato Giovanni Falcone e ai membri salentini della sua scorta che persero la vita nell’attentato del 1992 ad opera di Cosa Nostra. Maria si unisce ad una lunga schiera di artisti ed intellettuali che ne hanno celebrato l’eroico gesto.

Non può mancare l’invocazione alla luna: l’astro che fin dagli albori della civiltà, da Saffo per arrivare al grande Leopardi, da Omero a Pablo Neruda, da D’Annunzio a Tagore, ispira i poeti e gli scrittori in un lungo canto d’amore.

Maria Campeggio conosce il valore salvifico della poesia, come lenimento dal tramenio della vita, quasi balsamo per i mali e le brutture da cui è colpita l’attuale società. La poetessa, per quell’umanissimo bisogno di comunicazione che è proprio di tutti, è disponibile a squadernare il suo album poetico e a condividere le sue accensioni liriche, certi “momenti dell’essere”, per dirla con Virginia Woolf, e lo fa con testi nei quali il reticolato poetico di emozioni, sussulti, suoni, colori, si dispiega quasi come logos svelato che spazza via le interrogazioni sul senso della vita, i dubbi e le incertezze che denotano un vuoto, proprio di quest’era in dissoluzione, ma da cui Maria sembra essere immune perché salva nel proprio credo e niente affatto disposta a barattarlo per le mode effimere, per le convenienze del momento.  I lettori, comunque, giudici finali di ogni opera, troveranno altri semi di senso sparsi in questa silloge in cui potranno ben apprezzare la poesia di Maria Campeggio.

 

Prefazione in Maria Campeggio, Cristalli d’anima, Tipografia 5emme, Tuglie, 2021

La maledizione del Travancore. Intervista a uno degli Autori

Ultime voci dai fondali profondi – La maledizione del Travancore. Intervista a uno degli Autori (Pier Francesco Liguori)

 

Come è nata questa storia che ci porta lontano nello spazio e nel tempo?

La storia prende spunto da un fatto realmente accaduto: il naufragio del piroscafo inglese Travancore, meglio noto genericamente come la “Valigia delle Indie” . Si trattava del servizio postale – ma che trasportava anche passeggeri e merci – sulla rotta che univa l’India a Venezia (a Brindisi un treno speciale imbarcava la posta e i passeggeri e attraversava l’Europa, passando da Torino fino a Calais e l’Inghilterra). Il naufragio che ebbe particolare risonanza sulla stampa dell’epoca, sia italiana che inglese, si verificò davanti al porto di Castro, a qui tempi – fino agli anni ’70 – frazione di Diso,  più precisamente davanti alla caletta dell’Acquaviva. Non vi furono vittime e il medico condotto del paese fornì assistenza ai naufraghi. In questo fatto di cronaca abbiamo innestato il mistero: cosa ha fatto naufragare il piroscafo in condizioni atmosferiche tutt’altro che sfavorevoli? Qual è l’origine della strana malattia di Miss Palmermoore (personaggio di fantasia) ospite-degente in casa del medico?

 

Sono almeno due le vicende principali che raccontate ed in fondo, mistero a parte, sono storie di persone e di luoghi…

Il naufragio è strumentale alla localizzazione iniziale dei fatti: si verifica davanti al promontorio di Castro, citato da Virgilio nell’Eneide come primo approdo di Enea in terra italica. Enea scorge sul promontorio un noto santuario dedicato alla dea Atena (il Castrum Minervae) che gli archeologi hanno puntualmente ritrovato negli ultimi anni. Si trattava di uno dei santuari principali del Mediterraneo, toccato dalle rotte dell’antichità.

Nel secolo scorso alcuni studiosi elaborarono la teoria della “geografia sacra” ovvero una serie di allineamenti dedicati alla stessa divinità, che seguivano particolari costellazioni e che avevano origine – per alcuni – a Delfi. Di questi allineamenti facevano parte, per esempio, i santuari dedicati a Zeus. Tra questi anche Siwa, in Egitto. Questo perché gli antichi identificavano Ammone con Zeus. Lo stesso avvenne per altre divinità, come Atena, che Erodoto e altri identificarono con la dea Neith di Sais, nel delta occidentale del Nilo. Attualmente vengono considerati allineamenti sacri quelli che uniscono i santuari dedicati a S. Michele: Monte S. Michele in Puglia, la Sacra di S. Michele vella Valle di Susa, Mount St. Michel in Francia…

Nel romanzo alcuni personaggi sono realmente esistiti e contemporanei all’incirca alla parte iniziale del romanzo, altri totalmente di fantasia. Tra i personaggi realmente esistiti ci sono il professor Lanzone, che possiamo considerare il primo direttore dell’Egizio di Torino, Sir William Matthew Flinders Petrie, uno dei più grandi egittologi del XIX secolo e Filippo Bottazzi famoso fisiologo salentino – nato a pochi chilometri dal luogo del naufragio – che insegnò a Napoli e a Cambridge.

Tra i personaggi di fantasia Michele, figlio di emigrati pugliesi che incontrerà il suo destino nella terra d’origine dei suoi genitori, spinto dal fato, che gli metterà praticamente in mano alcune lettere del carteggio Petrie-Lanzone. Poi c’è Eduardo Bromer che, spinto dal desiderio di riabilitare il nonno archeologo dalle macchie di un tragico passato, ripercorre le tappe dell’ultima missione del vecchio, che porteranno anche lui a Castro. Ultime ma non in ordine di importanza, Susy e Terry le due inseparabili amiche che involontariamente daranno una svolta all’intera storia.

 

Il rapporto tra Torino e l’antico Egitto è strettissimo. Qui avete inserito anche forti legami con il Salento…

Come già accennato, sono proprio Atena, la dea del promontorio, e la sua geografia sacra, il fil rouge che nel romanzo unisce l’Egitto e il santuario di Castro, attraverso il furto sacrilego di un antico mercante di Lesbo.

 

Curioso incontrare personaggi come Conan Doyle. Perché avete deciso queste ‘partecipazioni speciali’?

Nella primavera del 1880 si tenne a Londra l’udienza presso la Corte di Westminster per appurare le responsabilità del naufragio del piroscafo Travancore. All’udienza, pubblica, ho immaginato un giovane Arthur Conan Doyle alla vigilia della laurea in medicina, a caccia di notizie curiose o misteriose. Va ricordato che Conan Doyle nel 1879 aveva pubblicato un racconto del fantastico: “Il mistero di Sasassa Valley” e successivamente, “Il capitano della Stella Polare”, storia di un misterioso naufragio tra i ghiacci.

Successivamente faccio incontrare a Cambridge Conan Doyle e Filippo Bottazzi (chissà che non si siano realmente incontrati) nello studio del fisiologo professor Foster, anch’egli realmente esistito. Bottazzi insegnò a Cambridge per un semestre, poi ritornò in Italia. Tutti sanno che Conan Doyle fu un noto sostenitore dello spiritismo. Pochi sanno invece che Filippo Bottazzi, sulle orme di Cesare Lombroso, condusse nel 1908 a Napoli esperimenti sulla fisiologia dei medium, pubblicati poi nel 1909.

 

Scrivere a quattro mani non è mai facile. Come avete lavorato?

Sì, scrivere a quattro mani è veramente complicato, tant’è che per necessità – io vivo a Torino e Bucci nel Salento – non abbiamo potuto realmente lavorare a quattro mani, tantomeno in presenza: ognuno di noi ha sviluppato una parte del racconto. Ci siamo confrontati – eravamo in piena pandemia – anche più volte al giorno tramite telefono e e-mail. Una brava editor Heléna Paoli dell’Editore Les Flâneurs, ci ha aiutato a ricucire il tutto.

 

Pier Francesco Liguori (1959)

Salentino trapiantato a Torino, è autore di numerosi articoli specialistici e di alcuni saggi storici. Ha fatto parte del Comitato editoriale del Laboratorio di Sociologia dell’Editore Franco Angeli. Ha destato grande interesse il suo saggio Viaggiatori e Liberi Muratori – Una nuova interpretazione della veduta settecentesca di Maglie realizzata da Louis-Jean Desprez per il Voyage Pittoresque ou Description des Royaumes de Naples et de Sicile, pubblicato da Ananke nel 2016. Ha pubblicato anche due romanzi (Il Custode delle reliquie, del 2010, con lo pseudonimo di Vittorio L. Perrera, e La stanza del Naturalista, del 2012, entrambi editi sempre da Ananke, Editore in Torino) in cui archeologia, storia, scienze naturali e mistero si fondono per dar vita a incredibili avventure al limite del soprannaturale. Nel 2017 gli è stato conferito il Premio Meridiana.

Francesco Bucci (1961)

É nato a Maglie, nel Salento, dove è tornato a vivere da alcuni anni. Insegna in un Istituto Superiore della sua città. Ha scritto di musica e fatto traduzioni per le riviste Mucchio Selvaggio, Jamboree e Outsider. Negli anni Novanta del secolo scorso, ha realizzato la micro-rivista Doctor Sax (poesia-e-altre-storie-a-sorpresa). Ha pubblicato racconti e poesie su riviste, nonché due romanzi brevi: Se un pomeriggio d’estate una pompa di benzina (Doctor Sax, 2010) e I giorni perduti d’Inghilterra (Bookabook, 2018).

 

Pier Francesco Liguori – Francesco Bucci

ULTIME VOCI DAI FONDALI PROFONDI

La maledizione del Travancore

2021 Les Flâneurs Editore, Bari. Pagine  210, brossura. € 16,00

 

Distribuito da: Libro Co. Italia (www.libroco.it)

 

Acquistabile on-line presso l’EDITORE : www. https://www.lesflaneursedizioni.it/product/ultime-voci-dai-fondali-profondi/

e le maggiori piattaforme di vendita on-line:

AMAZON: www. https://www.amazon.it/Ultime-voci-dai-fondali-profondi-ebook/dp/B093ZWS7YY

IBS: https://www.ibs.it/ultime-voci-dai-fondali-profondi-libro-pier-francesco-liguori-francesco-bucci/e/9788831314886

LA FELTRINELLI: https://www.lafeltrinelli.it/ultime-voci-dai-fondali-profondi-libro-pier-francesco-liguori-francesco-bucci/e/9788831314886

LIBRACCIO: https://www.libraccio.it/libro/9788831314886/pier-francesco-liguori-francesco-bucci/ultime-voci-dai-fondali-profondi-maledizione-del-travancore.html

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Disponibile presso alcune Librerie selezionate:

Libreria Belgravia – Via Vicoforte, 14/D -Torino

Libreria Campus – Via Toma 76 – Bari

Libreria Piccoli Labirinti – Via Gramsci 5 – Parma

Libreria Feltrinelli – Via Melo 119 – Bari

Libreria Laterza – Via Dante 53 – Bari

Libreria Quintiliano – Via Arcidiacono Giovanni 9 – Bari

Libreria Roma – Piazza Aldo Moro 13 – Bari

Libreria Quintiliano – Via Arcidiacono Giovanni 9 – Bari

Libreria 101 – Via Cairoli 101 – Bari

Libreria del Teatro – Largo Teatro 7 – Bitonto (Bari)

Libreria Calib – Via Ciro Menotti 8 – Cisternino (Brindisi)

Libreria Odusia – Via Turi 5 – Rutigliano (Bari)

Libreria Piepoli – Piazza Garibaldi 30 – Castellana Grotte (Bari)

Libreria Skribi – Via Europa Unita 14/F – Conversano (Bari)

Libreria Equilibri – Corso Tripoli 2 – Santeramo in Colle (Bari)

Libreria Internet Point Im@n – Via Colonnello Scarano, 14 – Massafra (Taranto)

Libreria CARTEL, P.zza A.Moro 1 – Maglie (Lecce)

Libreria EUROPA, Via Alcide De Gasperi 15 – Maglie (Lecce)

Libri| La maledizione del Travancore

 

É un curioso giallo che attraversa il tempo questo “Ultime voci dai fondali profondi-La maledizione del Travancore” (titolo liberamente adattato da un verso del Poeta magliese Salvatore Toma) scritto da Pier Francesco Liguori e Francesco Bucci per Les Flâneurs Edizioni di Bari. Un’avventura che parte nel 1880 e si conclude ai giorni nostri portandoci dal Salento a Torino, dall’Egitto a Londra.

É uno di quei libri che sarebbe il caso di affrontare senza saperne assolutamente nulla, perché gli autori costruiscono una storia che si snoda senza fretta tra i luoghi e i tempi. Tutto parte da un naufragio, effettivamente accaduto, sulle coste di Castro, in Puglia. Siamo nel 1880 e il medico del paese si occupa di assistere una donna che mostra segni preoccupanti. Sembra l’inizio di un’avventura incentrata in quegli anni ed il lettore finisce quasi per convincersene,  quando arriva invece il salto temporale di quasi un secolo, che sembra raccontarci un’altra storia.

Ovviamente ben presto i collegamenti sono chiari e la nuova avventura getta profondamente le radici in quello che è successo un secolo prima e poi negli anni a venire. Il centro della vicenda possiamo fissarlo negli anni 70 del Novecento, ma quanto accaduto prima non è solo un’introduzione.

Scopriamo così un mondo antico ed uno meno antico, ma molto lontano da quello di oggi. Ci addentriamo in una vicenda che parla di misteri, di antico Egitto, di maledizioni… Eppure tutto è narrato come una storia di famiglie e personaggi che vivono il loro tempo.

Al centro troviamo il medico del paesino, quello del 1880 ed il suo successore del secolo successivo, figlio di emigrati del Sud, che arriva da Torino e porta in dote tre lettere recuperate al Balôn – il famoso mercatino delle pulci della città sabauda -lettere antiche, lettere private, che lo legano ad una storia misteriosamente avvenuta proprio in quei luoghi.

E poi abbiamo giovani ragazze degli anni ’70, un sindaco, un archeologo che arriva dal Sud America. E non manca l’incontro con alcuni personaggi storici che in qualche modo si legano alla vicenda inventata, da Lombroso ad Arthur Conan Doyle al fisiologo salentino Filippo Bottazzi, collega e amico di quel Giuseppe Moscati che sarà elevato all’onore degli altari nel 1987.

Insomma un bel crogiuolo di storie e personaggi. Un mistero da risolvere. Figure di cui innamorarsi. Ma soprattutto una storia ottimamente narrata, da godersi pagina dopo pagina, senza fretta e senza troppa voglia di arrivare alla soluzione finale.

Mostre| Il cuore di Adriano Radeglia

a cura di Danilo Pastore

Partner Lightingdesign Andrea Ingrosso

Una celebrazione artistica del cuore in due luoghi sacri; l’ex chiesa di San Sebastiano a Lecce – oggi Fondazione Palmieri – ed il portale e sagrato della chiesa di Sant’Anna a Mesagne, in provincia di Brindisi.

L’artista Adriano Radeglia, con un lungo background di sperimentazioni e ricerche nel campo delle più varie espressioni artistiche, sceglie, per questo progetto, le potenzialità plastiche dell’argilla, suo materiale d’elezione. Egli plasma la materia in maniera sapiente e dà forma alle opere introducendo nel suo lavoro una nuova valenza simbolica. La natura come spunto per incuriosirsi e le ricerche artistiche delle stagioni degli anni Cinquanta e Sessanta solo come punto di partenza di un linguaggio informale da superare in una nuova definizione delle forze primigenie.

Il cuore di Adriano Radeglia è fatto di acqua, terra e fuoco. Eppure l’artista lascia intendere che siamo ben lontani dalle forme plasmate dagli elementi naturali. Nel gioco di rimandi, messo in scena nel buio del luogo sacro, abbiamo l’esatta percezione che l’artista voglia sussurare alle nostre coscienze che in fondo è semplice accettare le emozioni proprie e quelle altrui come atti naturali.

“Come è più difficile a ‘ntendere l’opere di natura che un libro d’un poeta” (Leonardi da Vinci).

Il progetto prenderà vita a Lecce lunedì 13 dicembre alle ore 17, si protrarrà nelle serate del 14 e 15, fino alle 22, e sarà ospitato a Mesagne nelle serate del 18 e 19 dicembre dalle 17 alle 22.

 

Lecce – 13/14/15 dicembre dalle 17 alle 22
Mesagne – 18/19 dicembre dalle 17 alle 22

Spigolature bibliografiche sul Settecento letterario minore

di Paolo Vincenti

Il Settecento letterario meridionale è caratterizzato da una vasta produzione di scritture di viaggio, che costituiscono una non trascurabile fonte per la conoscenza di usi e costumi, economia, politica e religione, del nostro territorio durante il secolo dei Lumi. Molto si è scritto sull’apporto dato da questi documenti letterari compilati dai visitatori stranieri in trasferta nelle nostre terre. A voler dare una lettura trasversale di una simile messe letteraria, si offrono delle noterelle bibliografiche che legano insieme certe opere della letteratura odeporica settecentesca, con alcuni dei maggiori protagonisti di Terra d’Otranto che hanno informato di sé la seconda parte del secolo, culminata nella Rivoluzione Napoletana del 1799. Nello specifico, vengono trattati l’abate francese Richard de Saint-Non ed il suo Voyage pittoresque ou Description des royaumes de Naples et de Sicile. Si ripercorrono le tappe della travagliata genesi di quest’opera monumentale e i rapporti dell’abate con la corte borbonica napoletana e del suo editore Benjamin Delaborde con il canonico Annibale De Leo, attraverso un’opera poco conosciuta del Vescovo di Brindisi. L’opera di Saint Non si lega strettamente a quella di un altro viaggiatore, l’inglese Henry Swinburne, e cioè Travels in the Two Sicilies by Henry Swinburne in the Years 1777, 1778 e 1779,  attraverso un caso di furto letterario di cui si forniscono i dettagli. Lo Swinburne, a sua volta, è legato al Vescovo di Taranto Giuseppe Capecelatro, attraverso il salotto culturale dell’ambasciatore inglese William Hamilton. Il Capecelatro, che fornisce allo Swinburne molto materiale per il suo libro, anche attraverso le ricerche malacologiche del naturalista Padre Antonio Minasi, era al centro di un vasto movimento culturale fra Taranto e Napoli a fine Settecento ed è complice e auspice delle opere di altri viaggiatori stranieri in Terra D’Otranto, quali il Conte svizzero Carlo Ulisse De Salis Marschlins e gli scrittori tedeschi Friedrich Leopold Stolberg e Georg Arnold Jacobi.  Di furti letterari, e non solo, si potrebbe parlare allora, o anche di libere reinterpretazioni, con riferimento a certi scambi culturali, e di seguito se ne capirà il motivo.

 

Come si sa, con il termine Grand Tour si indica il viaggio di istruzione e di formazione, ma anche di divertimento e di svago, che le élites europee intraprendevano attraverso l’Europa fra Settecento e Ottocento. Protagonisti di questo vasto fenomeno, quegli intellettuali europei che percorrevano l’Europa, imbevuti di cultura classica e affascinati dalla bellezza dell’Italia nella quale essi vedevano la culla dell’arte e per esteso della civiltà mediterranea. Quando vengono avviati gli scavi archeologici a Pompei ed Ercolano, sotto il Re Carlo di Borbone nel 1748, il Grand Tour nel nostro Paese riceve un ulteriore incremento[1].

Fra i viaggiatori francesi, un posto di primissimo piano spetta all’Abate Jean-Claude Richard de Saint-Non(1727-1791), con il suo Voyage pittoresque ou Description des royaumes de Naples et de Sicile, un’opera consistente, molto citata in tutte le biografie, dalla travagliata gestazione. L’abate era un uomo di straordinaria cultura e un personaggio eclettico: erudito, pittore, secondo alcune fonti anche musicista, scrittore ed editore, con una grande passione per l’arte e per la storia[2]. Con Benjiamin Delaborde progettò una grande opera divisa in due parti, una dedicata alla Svizzera e una all’Italia, da pubblicare in un unico libro. Ma i progetti iniziali cambiarono, a causa di un parziale fallimento della prima uscita dell’opera. L’Abate di Saint Non fece il suo viaggio fra il 1759 e il 1761. Fra i suoi collaboratori, Jean Louis Desprez, pittore e architetto, che fu in Italia dal 1777 al 1784, prima di essere chiamato in Svezia alla corte del Re Gustavo III, dove rimase per il resto della vita. A lui si devono i bellissimi acquerelli che illustrano il Voyage del Saint Non[3]. Di tutti i suoi magnifici disegni, particolarmente degni di nota sono quelli che riproducono monumenti oggi non più esistenti, come la Madonna di Santa Croce di Barletta, l’antico assetto della Cattedrale di Trani, quello della Piazza Sant’Oronzo di Lecce[4].

Ma la collaborazione più importante di Saint Non, per quanto gravida di spiacevoli conseguenze, fu quella con Vivant Denon (1747-1825), autore di buona parte dei testi del libro, pittore di talento, egittologo e diplomatico in Russia, Svezia, Svizzera e a Napoli, autore del fondamentale Voyage dans la Haute e direttore del Louvre sotto Napoleone, che seguì nella campagna d’Egitto[5]. Il motivo per cui Denon si ritrovò fra gli autori del Voyage si deve al fatto che Saint Non, nel suo viaggio in Italia, si era fermato a Napoli e non conosceva le altre regioni meridionali. Affidò dunque a Dominique Vivant Denon l’incarico di compiere il viaggio alla volta di Sicilia, Calabria, Puglia. Questi riportò le sue annotazioni di viaggio, o come si diceva allora “impressioni”, che però l’abate non recepì in toto ma volle rimaneggiare e adattare a quello che era il suo precostituito disegno, soprattutto per conciliare il testo con le immagini realizzate da lui stesso e dai numerosi collaboratori. Fu così che Saint Non venne accusato di plagio da Denon, sebbene egli fosse il committente dell’opera e quindi in pieno diritto di utilizzare il materiale che aveva profumatamente pagato. Bisogna infatti aggiungere che lo sforzo finanziario sostenuto per la realizzazione dell’opera fu notevole, in ispecie dopo il primo insuccesso dell’iniziativa editoriale e le ingarbugliate vicende burocratiche che ne seguirono. Il risultato finale però fu notevole. Il Voyage viene pubblicato in 4 tomi e diviso in 5 grandi volumi in-folio, fra il 1781 e il 1786.

Il primo tomo è interamente dedicato a Napoli. Saint Non è prima di tutto colpito dall’arte e quindi riserva alla pittura, alla scultura e all’architettura la maggiore attenzione, anche per i suoi interessi personali di pittore e curatore d’arte; un posto importante è occupato dall’antropologia, ossia dall’osservazione degli usi e costumi del popolo napoletano. Importanza viene riservata anche al Vesuvio e quindi alla storia naturale. In questo, il Saint Non era influenzato senz’altro dal circolo culturale vicino alla corte borbonica che egli frequentava e che vedeva fra i principali promotori l’ambasciatore inglese William Hamilton, accreditato vulcanologo. Saint Non, da erudito e appassionato della civiltà classica, non può non riportare nelle sue descrizioni anche quanto dicono gli autori greci e latini e quindi la storia dei luoghi. Il tutto corredato dalle stupende vedute dei pittori, in primis Desprez. Il secondo tomo è dedicato alla Campania e agli scavi di Ercolano e Pompei, che in quel momento suscitavano l’interesse appassionato della comunità scientifica europea. Il terzo tomo è dedicato alla Magna Grecia. Si descrivono i monumenti di Puglia, Basilicata e Calabria, le colonne, le monete e le antiche vestigia della civiltà classica. Il quarto tomo è dedicato alla Sicilia. Dalla descrizione di Saint Non emerge buona parte della civiltà di Terra d’Otranto negli anni della dominazione borbonica. Più specificamente, nel terzo tomo, dedicato alla Magna Grecia, vi è la descrizione del viaggio da Napoli a Barletta (passando per Benevento, Lucera, Siponto, Manfredonia, Monte Sant’Angelo), da Canne a Polignano (passando per Canosa, Trani, Bisceglie, Bari, Mola e l’abbazia di San Vito), da Polignano a Gallipoli, attraverso la Terra d’Otranto (passando da Brindisi, Squinzano, Lecce, Soleto e Otranto), infine da Taranto sino ad Eraclea, passando per Metaponto, Bernaldo e Policoro, e giù fino alla Sicilia. Nel nostro territorio, l’autore si sofferma sul Castello di Brindisi, sul Chiostro dei Domenicani di Lecce, e poi su Maglie, Otranto, fino al Tallone d’Italia.

Come detto, però, la collaborazione con Denon sfociò in una denuncia di plagio. Alla base di questo inconveniente fu la rottura fra l’Abbè e il primo editore dell’opera, Benjamin de Laborde (1734-1794), compositore e storico della musica, uno degli uomini più influenti della corte di Luigi XV. Denon, forse sobillato dall’editore Laborde (deluso e amareggiato per essere stato escluso dal progetto), accusò Saint Non di essersi appropriato dei suoi testi, senza citarlo come autore, sebbene queste fossero le precise condizioni contrattuali sottoscritte dallo stesso Denon.

Ma ora lasciamo un momento il Saint Non per occuparci di un altro viaggiatore del Settecento nelle nostre contrade. L’inglese Henry Swinburne (1743–1803) pubblicò la sua opera Travels in the Two Sicilies by Henry Swinburne in the Years 1777, 1778, and 1779, in due volumi nel 1783-85, con una successiva edizione nel 1790, sul suo viaggio fatto in Calabria, Sicilia e Puglia tra il 1777 e il 1779. Il primo volume include cenni storici sul Regno di Napoli, tabelle riguardanti le dinastie, le monete, le unità di misura, le strade, le rotte e una descrizione geografica dei territori. Nel secondo volume, si sofferma sul territorio pugliese e, cosa che ci interessa più da vicino, su Terra d’Otranto. Nel suo viaggio era assieme alla moglie Martha Baker. L’opera è un documento veritiero della realtà delle province meridionali del Settecento, perché tratta di testimonianze raccolte sul campo dall’autore, si potrebbe dire in presa diretta. Di particolare interesse, il suo disappunto di fronte al barocco leccese e a quello che ne è il monumento simbolo, la Chiesa di Santa Croce, che derubrica a pessimo esempio di commistione fra stili diversi. Lo Swinburne detesta la città di Lecce e la sua architettura, però racconta gli aneddoti, le leggende, le tradizioni e le curiosità che raccoglie parlando con la gente del luogo[6].

Nella prima traduzione in francese dell’opera, nelle note, viene riportato proprio il diario di viaggio di Denon, prima ancora che questo fosse pubblicato da Saint Non, ossia dal legittimo proprietario. Le traduttrici francesi erano Mademoiselle de Kéralio e Madame de La Borde. Lo conferma lo stesso autore nella Prefazione alla seconda edizione: «Due signore hanno onorato il mio lavoro con traduzioni in francese: una è Mademoiselle de Kéralio, una stimata scrittrice di biografie; mentre l’altra è Madame de La Borde, l’amabile e compita moglie di un Fermier-General, ultimo cameriere personale di Luigi XV. La sua versione è elegante e stampata in uno stile molto bello da Didot. Suo marito, che ha pubblicato una storia della musica di grande valore, ha aggiunto due volumi di note per correggere le mie mancanze, dove credeva di averne trovate e per spiegare più dettagliatamente molti punti relativi alla storia, alla chimica e alla musica, che erano stati solo toccati. Ho adottato le sue correzioni dove le ho ritenute giuste e ho aggiunto le informazioni che ho ricevuto sulle Due Sicilie dopo la pubblicazione della prima edizione»[7].

Il marito della Laborde altri non è che il già citato editore Benjamin, il quale non si fece scrupoli di pubblicare il materiale inedito di Denon senza l’autorizzazione del legittimo proprietario. Ma c’è di più. In questo contesto si inserisce anche la figura del Canonico Annibale De Leo, Vescovo di Brindisi (1739-1814)[8].

Infatti, Laborde, quando era ancora coinvolto nel progetto editoriale del Voyage, invia una lettera al Canonico De Leo, il 2 agosto 1779. La lettera, che si trova presso la Biblioteca arcivescovile di Brindisi, viene pubblicata per la prima volta da Franco Silvestri (a lui segnalata dall’allora bibliotecario della “De Leo”, Rosario Jurlaro), nella sua edizione del Voyage Pittoresque[9]. In questa lettera, Laborde chiede al canonico De Leo di inserire un suo saggio su Brindisi all’interno dell’opera di Saint Non. Da questa lettera si rileva il fatto che Delaborde nel 1779 non solo era ancora coinvolto nella realizzazione dell’opera, ma anzi la riteneva interamente sua, o almeno, a sé stesso la accreditava nella missiva al presule brindisino, al quale chiedeva anche un’opera sulla “Vita di Pacuvio”, di cui il Denon gli aveva parlato[10]. Questo dimostra che l’impianto originale del Voyage doveva essere diverso e avvicinarsi di più ad un’opera collettiva, una raccolta di saggi di studiosi locali sul territorio dell’Italia Meridionale. Forse anche a questo cambio di impostazione si devono le divergenze fra il vero autore Saint Non e l’editore “millantatore” Delaborde. Non c’è la risposta di De Leo, così come all’interno dell’opera dell’abate francese non compare il saggio dello storico brindisino. Ciò ha portato gli studiosi a credere che De Leo avesse opposto un diniego alla richiesta di Laborde[11].

tavole di Castellan inserite nel testo Lettres sur l’Italie. Colonna di Brindisi

 

L’opera su Brindisi venne pubblicata autonomamente nel 1843[12].Vito Guerriero, il curatore dell’opera, che trova il manoscritto ancora inedito presso la Biblioteca e lo pubblica, spiega nell’Introduzione: «Si sapeva comunemente e con certezza, che il signor De la Borde, gentiluomo di Camera di Luigi XVI, ed autore del Viaggio pittoresco d’Italia, capitato in Brindisi, ebbe premura di trattare col prelato De Leo, come letterato di gran rinomanza. Tra le altre cose di cui si parlò nelle dotte lor conferenze, cadde discorso sopra una memoria inedita del detto De Leo, portante il titolo testé enunziato. L’importanza del soggetto mosse il signor De la Borde a chiederne la lettura, della quale gentilmente accordatagli fu invaghito in maniera che, come in attestazione di stima, pregò il De Leo ad essergli compiacente di dargli quello autografo, sulla parola di onore di farlo stampare in Parigi nel suo ritornarvi… la Memoria però, o per la morte di costui o per gli sconvolgimenti da lui trovati in Francia nel suo ritorno, non fu mai stampata né mai se ne poté sapere il destino»[13].

Il porto di Brindisi ritorna nell’opera pittorica di un altro viaggiatore straniero, val bene Jacob Philipp Hackert (1737-1807), con I porti delle Due Sicilie (prima versione stampata a Napoli nel 1792)[14]. Hackert era pittore di corte del re Ferdinando IV e in questa veste fu in Italia con molti incarichi come quello di supervisionare il trasferimento della collezione Farnese da Roma a Napoli. Ma l’incarico più prestigioso che ricevette dal re Ferdinando IV fu la commissione del famoso ciclo di dipinti raffiguranti i porti del Regno di Napoli. Le numerose vedute dei porti si articolano in tre gruppi suddivisi tra le vedute campane, pugliesi, calabresi e siciliane. Per eseguire i disegni preparatori, si recò in Puglia e in Campania. La serie comprende 17 quadri e si trova ancora oggi custodita presso la Reggia di Caserta, massima realizzazione artistica voluta dal Re Carlo di Borbone; vi sono raffigurati esattamente i porti di Taranto, Brindisi, Manfredonia, Barletta, Trani, Bisceglie, Monopoli, Gallipoli, Otranto[15].

Annibale De Leo, avviato agli studi dallo zio, Ortenzio De Leo, illustre giurista, storico e scrittore, di formazione napoletana, divenne Vescovo di Brindisi nel 1797. Importante il suo rapporto con il frate cappuccino Giovan Battista Lezzi, casaranese, suo Segretario e biografo, che divenne, alla morte di De Leo, primo bibliotecario della biblioteca arcivescovile di Brindisi, fondata da De Leo nel 1798 (e che a lui oggi è intitolata), che constava di circa seimila volumi[16].

Ma perché i lettori non pensino che abbiamo perso il filo della nostra narrazione, torniamo al manoscritto del vescovo di Brindisi richiesto da Delaborde. Non è vero che De Leo non spedì mai l’opera al Delaborde. In realtà, il francese dovette di questa venire in possesso. Infatti, Petra Lamers ci fa sapere dove andò a finire[17]. Il Laborde inserì alcuni estratti dell’opera di De Leo proprio nelle note sulla traduzione francese di Travels in the Two Sicilies di Swinburne, curata dalla moglie, per l’esattezza nel volume 2, da pag.249 a pag.262, dove si parla di Brindisi[18]. Ma nella descrizione e storia del porto di Brindisi, l’editore non fa riferimento al canonico De Leo. Ciò dimostra la abituale scorrettezza del Laborde, a tutto vantaggio dell’Abbè di Saint Non. Si può dunque parlare, in questo caso, di un furto letterario a danno del Saint Non, sebbene sia impari il confronto fra la sua opera e quella di Swinburne, anche perché diverso era l’intento. Scrive Franco Silvestri: «l’Inglese fa del suo libro una guida per i turisti eruditi, lo correda di scarse, scadenti e scialbe incisioni e di molte tariffe, orari di poste, elenchi di pesci, molluschi, prodotti del suolo, entrate doganali e dazi; il Saint Non vuole un libro che nessun viaggiatore potrà mai portarsi appresso, con i suoi grandi cinque volumi in folio del peso complessivo di circa mezzo quintale, e che vuol essere una summa di arte, di storia, di ricerche archeologiche, ed immagini preziosamente incise e stampate: lo spirito colto, raffinato, avido di bellezza del viaggio in Italia dei Francesi, è in evidente contrapposizione allo spirito pratico del Grand Tour inglese»[19].Tornando allo Swinburne, suo tramite per il viaggio in Italia era l’Ambasciatore inglese presso il Regno di Napoli, il già citato Sir William Hamilton. Il suo salotto culturale costituiva il centro di raccordo della intellettualità napoletana sotto Ferdinando IV. Sir William Hamilton (1730-1803), «uno dei primi tombaroli della storia», come lo definisce Angelo Martino in «Nuovo Monitore Napoletano»[20],era archeologo, diplomatico, antiquario e vulcanologo e pubblicò a Napoli Les Antiquités étrusques, grecques et romaines nel 176667. Egli, che aveva accesso agli scavi per via della sua alta funzione, non si fece scrupoli di impossessarsi di molti reperti archeologici, sia per motivi di studio che di prestigio personale. Da un furto letterario siamo passati ad un furto vero e proprio, o quanto meno ad appropriazione indebita e ricettazione. Lo stesso Goethe, che gli fa visita nella sua villa il 27 maggio 1787, all’ambasciatore che gli mostra orgoglioso la collezione di reperti archeologici, rendendosi conto che molti di questi provenivano dagli scavi di Pompei, consiglia di non diffondere la notizia del loro rinvenimento, perché potrebbe riceverne dei guai giudiziari. Cosa puntualmente avvenuta. Infatti, a causa delle sue frequenti e sospette visite sui siti, Hamilton viene deferito al Ministro Bernardo Tanucci, il quale fa arrestare l’informatore dell’Ambasciatore, non potendo incriminare Hamilton stesso. Hamilton evita la prigione, ma perora la causa del suo informatore presso il Re Ferdinando IV, il quale intercede con Tanucci per la liberazione dell’informatore. Molta parte di questo materiale archeologico viene trasferito da Hamilton presso il British Museum di Londra, dove si trova ancor oggi[21]. Indiscutibili invece i meriti scientifici dell’inglese, specie con riguardo alla sperimentale scienza della mineralogia[22].

Un altro frequentatore del circolo napoletano era l’Arcivescovo di Taranto Giuseppe Capecelatro, come informa Benedetto Croce[23]. Capecelatro fu il corrispondente culturale dello scrittore Swinburne, che lo menziona nelle note della sua opera: «Sono particolarmente grato a Monsignor Capecelatro, arcivescovo di Taranto; al Consigliere Monsignor Galliani; a Don Filippo Brigante Patrizio di Gallipoli; a Don Pasquale Baffi; a Don Domenico Cirillo; a George Hart, scudiero; a Padre Antonio Minasi, dell’ordine di San Domenico; a Don Domenico Minasi, arciprete di Molocchio; e a Don Giovanni Presta di Gallipoli»[24]. In particolare, Capecelatro fornì buona parte del materiale di cui lo Swinburne si è servito per la compilazione dei capitoli relativi alla Puglia.

Giuseppe Capecelatro (1744-1836), personaggio vastissimo ed eclettico, aveva fondato a Taranto una Accademia scientifica presso il Seminario Arcivescovile, intorno alla quale ruotavano molti studiosi delle più varie materie. Uomo di ampie vedute, contraddittorio, accusato di giansenismo, acceso anticurialista e regalista, molto dotto, imbevuto dello spirito illuminista del secolo, avversava la corruzione della chiesa e la superficialità con cui i prelati si approcciavano al sacro, ma nello stesso tempo si costruiva una favolosa villa a Portici, “Leucopetra”, dove riceveva il fior fiore della intellettualità e della nobiltà napoletana, dando costosi e raffinatissimi banchetti. Protetto dal potente Ministro Bernardo Tanucci, gli fu facile divenire arcivescovo di Taranto, a seguito di un mirabile cursus honorum. Fedele al re di Napoli ma sospettato di appoggiare la rivoluzione giacobina del 1799, venne anche arrestato; ritornato fedele ai Borbone ma pronto a passare al servizio dei napoleonidi durante il decennio francese (fu membro del Consiglio di Stato istituito da Giuseppe Bonaparte e addirittura da Murat nominato Ministro dell’Interno), per poi di nuovo rientrare nei ranghi, intrattenne rapporti con intellettuali e regnanti e con gli esponenti di spicco della politica europea, da Caterina II a Leopoldo di Toscana, da Gustavo III di Svezia ad Amalia di Weimar, da Goethe a Madame de Stael, da Herder a  Münter, da Swinburne a Lady Morgan, da Walter Scott ad Alessandro Verri. Dottore in utroque iure, poi ordinato sacerdote, influenzato nel suo acceso anticurialismo dalla lezione di Muratori e Giannone, tenne posizioni originali e spregiudicate, ai limiti dell’eresia, che gli costarono inimicizie, guai giudiziari e invidie. Si schierò spesso accanto al Governo Borbonico nella polemica giurisdizionalista contro la Chiesa. Coltivò svariati interessi eruditi e fu autore di molte opere. A Taranto si costruì una lussuosa residenza sul Mar Piccolo dove poteva dedicarsi alle sue speculazioni filosofiche[25].

Gino L. Di Mitri in un saggio apparso sulla rivista «L’Idomeneo»[26]dimostra come l’autore delle note zoo-geo-botaniche della famosa opera Deliciae tarentinae di Tommaso Niccolò D’Aquino, sia Padre Antonio Maria Minasi, domenicano, rigorosissimo scienziato di fede linneana, docente di botanica all’Università di Napoli, e frequentatore anche del circolo tarantino di Mons. Capecelatro per il quale compila una Memoria sui Testacei di Taranto classificati secondo il sistema del CH.Linneo (Napoli s.d. ma 1782), trattato che serviva a perfezionare quello precedente scritto dal Vescovo tarantino, vale a dire Spiegazione delle conchiglie che si trovano nel piccolo mare di Taranto (Napoli, 1780), spedito alla Zarina di Russia Caterina II. Poiché la Spiegazione era stata scritta molto frettolosamente in vista dell’invio in Russia e conteneva diverse imperfezioni, all’Accademia di Capecelatro si impose l’esigenza di riparare con un’opera più organica e completa. Di quest’opera, ufficialmente attribuita al Vescovo Capecelatro, Di Mitri restituisce al Minasi la paternità sulla base di riscontri oggettivi. Così pure le notizie di carattere malacologico contenute nel libro di Swinburne sono opera del domenicano di origini calabresi Minasi, che allo Swinburne venne introdotto certamente dall’arcivescovo tarantino. È lo stesso inglese che lo ringrazia nell’opera: « Ho ricevuto dal mio amico F.Ant Minasi la seguente lista di molluschi trovati in acque tarantine. L’ha messa su secondo il sistema di Linneo, a partire da un vasto assortimento di specie, che lui doveva classificare prima che fossero presentate dall’arcivescovo di Taranto all’Infante Don Gabriele»[27]. E segue la lunga lista dei molluschi. Dalla nota di Swinburne apprendiamo che il Capecelatro fosse intento alla compilazione di un altro trattato malacologico, auspice il Minasi, da inviare stavolta all’Infante Gabriele di Borbone, quarto figlio di Carlo III di Spagna e Maria Amalia di Sassonia. E vediamo come gli scambi letterari si intensifichino, man mano che procediamo nella trattazione.

Taranto nel 1789, Incis. da Hackert

 

Figura fondamentale, il Capecelatro, anche per altri viaggiatori stranieri come il Conte Carlo Ulisse De Salis Marschlins (1728-1800), svizzero, la cui opera è un caposaldo della letteratura di viaggio in Puglia. Egli percorre le nostre contrade nel 1789 e si dimostra fortemente interessato a tutti i nostri paesi. Si sofferma sugli aspetti economici della nostra terra, in particolare è interessato all’agricoltura, ovverosia alla coltivazione dell’olivo, della vite, del tabacco, degli agrumi. Pubblica per la prima volta le sue impressioni di viaggio in tedesco in due volumi a Zurigo nel 1790 e nel 1793. La prima pubblicazione del libro in lingua italiana viene fatta nel 1906,[28] con la traduzione di Ida Capriati De Nicolò, e poi viene più volte ripubblicato[29].

Il De Salis scruta il Salento con occhio attento e indagatore, analizza tutti i fenomeni sociali e di costume che osserva. Imbevuto dello spirito illuminista, si pone di fronte alle realtà locali con mente lucida e scientifica. Il De Salis conobbe nel 1788 a Taranto il Capecelatro, che lo accompagnò nel viaggio in Puglia[30]. De Salis era insieme ad un altro religioso, il noto scienziato veneto Alberto Fortis al quale si deve la scoperta delle nitriere di Molfetta, in particolare per lo studio del pulo[31]. L’Abate Fortis diede un impulso fondamentale al progresso degli studi naturalistici nel Regno di Napoli. Ma questo è un altro discorso[32].

È sempre l’arcivescovo Capecelatro che riceve a Taranto i viaggiatori tedeschi Stolberg e Jacobi, che ne riportano vivissima impressione e si dicono attratti dalla sua grande personalità. Il poeta Friedrich Leopold Stolberg (1750-1819) documenta il viaggio nel sud Italia nell’opera Reise in Deutschland, der Schweiz, Italien und Sicilien in den Jahren 1791 und 1792, 4 voll., 1794, recentemente tradotta in italiano da Laura A. Colaci,[33] che scrive: «Dopo il viaggio nel Sud della Germania e della Svizzera col fratello e con Goethe, Stolberg ne intraprese uno più lungo in compagnia della moglie Sophie von Redern, del figlioletto, di G.A. Jacobi e G.H.L. Nicolovius attraverso la Germania, la Svizzera e l’Italia. Frutto di questo viaggio è il volume Reise in Deutschland, der Schweiz, Italien und Sicilien in den Jahren 1791 und 1792. Viaggiò in Puglia dal 3 al 17 magio del 1792»[34]. Si tratta di un’opera epistolare, composta delle lettere che egli aveva inviato durante il suo soggiorno nel nostro Paese a vari corrispondenti tedeschi. Queste lettere però vennero rielaborate per la loro pubblicazione e ciò portò ad una certa stilizzazione, soprattutto in quelle che hanno un maggiore contenuto politico e religioso. Visitò Brindisi, Lecce, Otranto, Gallipoli. Il compagno di viaggio di Stolberg, Georg Arnold Jacobi (1768-1845), al ritorno pubblica Briefe aus der Schweiz und Italien nel 1796-7, una raccolta delle sue lettere inviate da Brindisi, Lecce e Gallipoli[35]. Sempre di un’opera epistolare si tratta, ma le lettere dello Jacobi sembrano essere quasi in presa diretta,  meno stilizzate di quelle del suo compagno di viaggio Stolberg, e soprattutto si nota in lui una minore componete polemica, pur essendo protestante e classicista anch’egli. È molto più critico però nei confronti del governo di Napoli e del malcostume che in quella città allignava. Mentre la prosa dello Stolberg è più accattivante, controllata e in qualche modo romantica, avendo egli rimaneggiato le lettere, quella dello Jacobi è più scarna e realistica. Entrambi i viaggiatori sono attratti dai resti dell’antichità classica, per cui, specie quando giungono in Puglia, a partire da Taranto, la loro attenzione si sofferma sulle influenze greche della nostra civiltà. Il classicismo di Stolberg però è filtrato dal cristianesimo. Questo lo porta a vedere l’Italia, e in particolare il Sud, in quanto più diretta emanazione di quella cultura, come una sorta di paradiso perduto che egli idealizza, dandone una visione edenica, certo lontana dalla realtà. «Pur vivendo nel clima del classicismo winckelmaniano, lo Stolberg è distante dall’idea di classico alla Winckelmann», scrive Scamardi[36].

Stolberg ripudia ogni idea dell’arte che non sia classica, per esempio il barocco leccese. «I ruderi classici evocano, sì, l’idea della caducità della vita umana, un elemento, questo, certo presente in tanta poesia sulle rovine della fine del Settecento, solo che lo Stolberg oppone la certezza della fede cristiana[…] In questo lo Stolberg anticipa non solo taluni stilemi di un certo romanticismo, ma anche un certo kitsh romantico»[37].

Questo può spiegare la grande fascinazione che la personalità così aperta del Capecelatro esercita sullo Stolberg, che ritrova «l’esperienza di un cattolicesimo illuminato nella persona dell’arcivescovo di Taranto, in cui intelligenza, senso dell’amicizia e dell’ospitalità, una vita vissuta in sintonia con la natura si fondono in un modello di fede cristiana (cattolica) in cui un protestante in crisi può più agevolmente ritrovarsi»[38].

Fermiamoci qui, con la speranza di avere assolto al meglio il compito prefissato e di non avere annoiato oltremisura i benevoli lettori.

Scritti di viaggio, religione, politica, arte, cultura, interessi eruditi, salotti mecenateschi fra la capitale e Terra d’Otranto fanno da contrappunto ad una stagione letteraria nel regno di Napoli, quella del Settecento meridionale, che se definire minore è appropriato nel raffronto con altre più dense di nomi altisonanti, tuttavia non può non dirsi viva ed interessante.

Note

[1] Si vedano fra gli altri, C. De Seta, L’Italia nello specchio del Grand Tour, in «Storia d’Italia», n. 5, Torino, Einaudi, 1982, pp.127-263 e G. SCianatico, Scrittura di Viaggio. Le terre dell’Adriatico, Bari, Palomar, 2007. Ma anche T. Scamardi, La Puglia nella letteratura di viaggio tedesca. Riedesel- Stolberg-Gregorovius, Lecce, Milella, 1987.

[2] Sull’Abate di Saint Non e sul Voyage, i testi consultati sono: F. Silvestri, Viaggio pittoresco nella Puglia del Settecento: dal Voyage pittoresque, ou Description des Royaumes de Naples et de Sicile, Milano-Roma, Carlo Bestetti Edizioni d’arte, 1977; P. Lamers, Il viaggio nel Sud del’Abbè de Saint-Non, Presentazione di Pierre Rosemberg, Napoli, Electa, 1992; Jean Claude Richard De Saint-Non, Viaggio Pittoresco, a cura di Raffaele Gaetano, Soveria Mannelli, Rubbettino 2009; Jean Claude Richard De Saint-Non in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, ad vocem.

[3]Su Jean Louis Desprez, fra gli altri: Jean Louis Desprez, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, ad vocem; F. Silvestri, Viaggio pittoresco nella Puglia del Settecento: dal Voyage pittoresque, ou Description des Royaumes de Naples et de Sicile, Milano-Roma, Carlo Bestetti Edizioni d’arte, 1977, pp.37-60; Jean Louis Desprez, in F. Fiorino, Viaggiatori francesi in Puglia dal Quattrocento al Settecento, Vol.VII, Fasano, Schena, 1993, pp.241-334.

[4] F. Silvestri, op.cit., p.44.

[5] Su Dominique Vivant Denon, fra gli altri:  Vivant Denon, in  Treccani.it  -Enciclopedie on line, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, ad vocem; F. Silvestri, op.cit., pp.31-33; Dominique Vivant Denon,  Lettere inedite a Isabella Teotochi Albrizzi, introduzione e note di Mario Dal Corso, Padova, Centro Stampa Palazzo Maldura, 1979 ( poi Padova, Alfasessanta, 1990); Id., Viaggio a Palermo, traduzione di Laura Mascoli, introduzione di Carlo Ruta, Palermo, Edi.bi.si., 2000; Id., Viaggio nel regno di Napoli, 1777-1778, traduzione e commento di Teresa Leone, Napoli, Paparo edizioni, 2001; Id., Calabria felix, traduzione di Antonio Coltellaro, Catanzaro, Rubbettino 2002; Id., Bonaparte in Egitto. Due cronache tra illuminismo e Islam, scelta e commento di Mammoud Hussein, traduzione di Vito Bianco, Roma, Manifestolibri, 2007.

[6] Sull’opera di Swinburne, si veda: A. Cecere, Viaggiatori inglesi in Puglia nel Settecento, Fasano, Schena, 1989, pp. 37ss.; Ead., La Puglia nei diari di viaggio di H. Swinburne, Crauford Tait Ramage, Norman Douglas, in «Annali della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Bari», Terza serie, 1989 -90/X, Fasano, 1993.

[7] Henry Swinburne, Viaggio Nel Regno Delle Due Sicilie negli Anni 1777, 1778 e 1779 (Sezioni XVII-XXXV) Viaggio da Napoli a Taranto, Traduzione e Introduzione a cura di Lorena Carbonara, Edizioni Digitali Del Cisva, 2010, p.12 (on line).

[8] Su De Leo, fra gli altri, R. Jurlaro, Annibale De Leo nella storia della storiografia italiana, in «Ricerche e Studi», a cura di Gabriele Marzano, n.1, 1964, Fasano, 1964, pp.29-30; G. Liberati, Annibale De Leo e la cultura del ‘700 in Brindisi, in «Brundisi Res», n.II, 1970, pp. 17-18; G. Perrino, Annibale De Leo teologo, storico, pastore, in «Brundisii res», n.VII, 1975, p.289; S. Palese, Seminari di Terra d’Otranto tra rivoluzione e restaurazione, in B.Pellegrino (a cura di), Terra d’Otranto in età moderna. Fonti e ricerche di storia religiosa e sociale, Galatina, Congedo, 1984, pp.121ss.

[9] F. Silvestri, Viaggio pittoresco nella Puglia cit.,p.61.  L’opera curata da Silvestri, edita la prima volta nel 1972, riproduce solo il tomo terzo che contiene il “Viaggio pittoresco della Magna Grecia”, suddiviso in 4 capitoli, con traduzione italiana e testo francese a fronte in stampa anastatica. Si veda anche P. Lamers, op.cit., p.33.

[10] Il riferimento è a Delle memorie di M. Pacuvio antichissimo poeta tragico dissertazione di Annibale de Leo, Napoli, nella Stamperia Raimondiana, 1763, unica opera pubblicata in vita dal Vescovo di Brindisi.

[11] F. Silvestri, op.cit., p. 62.

[12] A. De Leo, Dell’antichissima Città di Brindisi e Suo Celebre Porto. Memoria inedita di Annibale De Leo. Seguita da un articolo storico de’vescovi di quella chiesa compilato da Vito Guerriero Primicerio della Cattedrale della stessa Chiesa, per ordine dell’attuale Arcivescovo D.Diego Planeta come dalla pagina seguente, Napoli, dalla Stamperia della società Filomatea, 1846. Poi ripubblicato in ristampa anastatica in Id., Dell’antichissima Città di Brindisi e Suo Celebre Porto, a cura di Rosario Jurlaro, Bologna, Forni, 1984.

[13] A. De Leo, op.cit., p. IV, riportata anche in F. Silvestri, op.cit., p. 62.

[14] Su Jacob Philipp Hackert, si veda: Philipp Hackert, Dodici porti del Regno di Napoli, a cura di M. Vocino, Napoli, Montanino, 1980; A. Mozzillo, Gli approdi del Sud. I porti del regno visti da Philipp Hackert (1789-1793),Cavallino, Capone, 1989.

[15] La serie è stata in mostra, dal 20 giugno al 5 novembre 2017, presso la Sala Ennagonale del Castello di Gallipoli (Lecce).  L’esposizione, intitolata I porti del Re, a cura di Luigi Orione Amato e Raffaela Zizzari, è stata prodotta dal Castello in collaborazione con la Reggia di Caserta e il Comune di Gallipoli ( http: www.famedisud.it/il-sud-settecentesco-di-philipp-hackert-in-mostra-a-gallipoli-i-porti-…). Nel giugno 2018, si è tenuta a Brindisi la grande mostra: “Brindisi: Porto d’Oriente”, presso Palazzo Nervegna, dove è stato possibile “ammirare per la prima volta il celebre quadro ‘Baia e Porto di Brindisi’ che il vedutista prussiano Jakob Philipp Hackert realizzò nella seconda metà del ‘700 su incarico del re Ferdinando IV di Borbone. L’esposizione è stata organizzata nell’ambito del progetto ‘La Via Traiana’ e comprendeva una serie di opere che raccontano la storia della città attraverso alcune vedute del porto, fatte dai viaggiatori del ‘700” ( http:www.brundarte.it/2018/03/23/baia-porto-brindisi-jakob-philipp-hackert/).

[16] Ernesto Marinò attribuisce ad Ortenzio De Leo la paternità di un’opera su San Vito degli Schiavi, città natale di De Leo (Succinta Descrizione Storica sull’Origine e Successi della Terra di Sanvito in Otranto Provincia del Regno di Napoli Scritta nel 1768 Da N.N.) sottraendola ad Annibale De Leo, al quale era stata fino ad allora dai più attribuita, proprio sulla base di un documento del Lezzi, ovvero la sua opera Memorie degli scrittori salentini, nella quale, parlando del Vescovo Annibale De Leo e delle sue opere, il cappuccino attribuisce allo zio di Annibale, Ortenzio De Leo, la redazione della detta opera. E. Marinò Ipotesi sull’attribuzione del manoscritto sulla Storia di Sanvito del 1768,  in  «L’Idomeneo», Società Storia Patria Sezione di Lecce, n.5, Galatina, Edizioni Panico, 2003, pp.83-118. Strano che l’estensore dell’articolo, parlando di Giovan Battista Lezzi, non citi in bibliografia una delle fonti più autorevoli in merito, ossia Gino Pisanò (fra i vari contributi, G. Pisanò, Un informatore letterario de Settecento: G.B.Lezzi tra Puglia Napoli e Firenze, in Id., Lettere e cultura in Puglia tra Sette e Novecento (Studi e testi), Galatina, Congedo, 1994, pp.9-35).

[17] P. Lamers, op.cit., p.58.

[18] Ivi, p.36.

[19] F. Silvestri, op.cit., p.19.

[20] A. Martino, Un tombarolo illustre, Sir William Hamilton

http: www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?…sir-william-hamilton

[21] N. H. Ramage, Sir William Hamilton as collector, exporter and dealer, American Journal of Archaeology – luglio 1990, riportata da A. Martino  http: www.nuovomonitorenapoletano.it/index.php?…sir-william-hamilton

[22] Sull’ambiente intellettuale napoletano che ruotava attorno all’ambasciatore inglese, si vedano: G. Doria (a cura di), Campi Phlegraei: Osservazioni sui vulcani delle Due Sicilie comunicate da Sir William Hamilton e illustrate da Pietro Fabris, Milano, Il Polifilo, 1964; C. Knight, Hamilton a Napoli. Cultura, svaghi, civiltà di una grande capitale europea, Napoli, Electa, 1990 (ristampa 2003); G. Pagano De Divitiis, V. Giura (a cura di), L’Italia nel secondo Settecento nelle relazioni segrete di William Hamilton, Horace Mann e John Murray, Napoli, ESI, 1997; Aa.Vv., The Hamilton papers. Carte donate alla società di storia patria, Napoli, Associazione Amici dei Musei di Napoli, 1999.

[23] B. Croce, Uomini e cose della vecchia Italia, vol.II, Bari, Laterza, 1943, pp.158-182.

[24] H. Swinburne, op.cit., p.13, nota 13.

[25] Su Giuseppe Capecelatro, fra gli altri, B. CROCE, Uomini e cose della vecchia Italia, Vol. II, Bari, Laterza, 1943, pp.158-182; M. Zazzetta, Capecelatro,Giuseppe, in «Enciclopedia Cattolica», III, Città del Vaticano, 1949; N. Vacca, Terra d’Otranto. Fine Settecento inizi Ottocento (Spigolature da tre carteggi), Società Storia Patria Bari, 1966; P. Stella, Capecelatro, Giuseppe, in Dizionario Biografico degli Italiani, XVIII, Treccani, Roma,1975, pp. 445-452; C. Laneve, Le visite pastorali di mons. Giuseppe Capecelatro nella Diocesi di Taranto alla fine del Settecento, in «Ricerche di storia sociale e religiosa», 13, 1978, pp.195-226; G. Peluso, Giuseppe Capecelatro arcivescovo di Taranto e ministro di due re, in «L’Arengo», n.III, Taranto, 1980, pp.197-221; V. De Marco, La Diocesi di Taranto nel Settecento: 1713-1816, Roma, Edizioni Storia e Letteratura, 1990; A. Pepe, Il clero giacobino: documenti inediti, I, I riformatori: Capecelatro, Rosini, Serrao, Napoli, Procaccini, 1999; D. Pisani, Note bio-bibliografiche su Giuseppe Capecelatro, in G. Capecelatro, Discorso istorico-politico dell’origine, del progresso, e della decadenza del potere de’ chierici su le signorie temporali con un ristretto dell’istoria delle Due Sicilie (rist. anastatica), Taranto, 2008; S. Vinci, Giuseppe Capecelatro (1744-1836). Un arcivescovo tra politica e diritto, in «Archivio Storico Pugliese», n.LXV , Società di Storia Patria per la Puglia Bari, 2012, pp.41-78; ecc.

[26] G. L. Di Mitri, Il vero autore del commentario scientifico alle «Delizie tarantine», in  «L’Idomeneo», n.3, Società Storia Patria Puglia sezione di Lecce, Lecce, Edizioni Panico, 2000, pp.69-90.

[27] H. Swinburne, op.cit., p.85, nota72.

[28] C. U. De Salis Marschlins, Nel Regno di Napoli: viaggi attraverso varie province nel 1789, Trani, Vecchi, 1906.

[29] Fra gli altri, in C. U. De Salis Marschlins, Viaggio nel Regno di Napoli, Galatina, Congedo, 1979, con Introduzione di Tommaso Pedio, e in Id., Viaggio nel Regno di Napoli – che riproduce la prima traduzione italiana di Ida Capriati De Nicolò -, a cura di Giacinto Donno, Lecce, Capone, 1979 e 1999, e ancora in Id., Nel Regno di Napoli Viaggi attraverso varie provincie nel 1789, Avezzano, Edizioni Kirke, 2017.

[30] T. Scamardi, op.cit., p.82.

[31] Si veda, fra gli altri, M. Toscano, Alberto Fortis nel Regno di Napoli: naturalismo e antiquaria 1783-1791, Bari, Cacucci, 2004.

[32] Dell’Abate Alberto Fortis (1741 –1803),  letteratonaturalista e  geologo, religioso atipico, come il Capecelatro, citiamo solo l’opera più importante, ovvero il Viaggio in Dalmazia, in due volumi, stampato a Venezia nel 1774.

[33] Friedrich Leopold Graf Zu Stolberg, Reise In Deutschland, Der Schweiz, Italien Und Sizilien In Den Jahren 1791 Und 1792 1794 Viaggio In Germania, Svizzera, Italia e Sicilia negli anni 1791 e 1792 1794 Con traduzione italiana a cura di Laura A. Colaci, Edizioni Digitali Del Cisva, 2010 (on line).

[34] F.L. Graf Zu Stolberg, op.cit., p.1 (on line).

[35] C. Stasi, Dizionario Enciclopedico dei Salentini, Vol.2, Lecce, Grifo, 2018, p.1128; T. Scamardi, op.cit., pp.61-91.

[36] T. Scamardi, op. cit., p.76.

[37] Ivi, p.77.

[38] Ivi, p.91.

Gaetano Salvemini e lo strappo dal meridionalismo moderato di Villari, Sonnino, Franchetti, Fortunato

di Michele Eugenio Di Carlo

 

Gaetano Salvemini, nato a Molfetta l’8 settembre 1873, è stato uno dei maggiori intellettuali italiani della prima metà del Novecento. Storico, giornalista, politico, attento studioso delle condizioni sociali ed economiche del Mezzogiorno, ha dato vita a una critica radicale al meridionalismo moderato interpretato dagli esponenti che facevano capo alla rivista fiorentina “Rassegna settimanale”, fondata nel 1878 dai giovani toscani Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, autori de “La Sicilia del 1876” [i]. Rivista che aveva accolto tra le sue fila meridionalisti di spessore quali Pasquale Villari, autore delle “Lettere meridionali” [ii], e Giustino Fortunato, che già nel 1879 aveva scritto “La questione demaniale nell’Italia meridionale” [iii].

Gaetano Salvemini

 

I cosiddetti “rassegnati” [iv] avevano fatto emergere la questione meridionale. Partendo da Villari, avevano stimolato finalmente un dibattito serio sulle condizioni sociali ed economiche del Mezzogiorno, riservando alle politiche governative dei primi decenni una critica serrata, parte rilevante della storia del meridionalismo. Grazie ad essi la questione meridionale era diventata una questione nazionale, sempre e solo nell’ambito limitato di un contesto politico conservatore che, nel 1876, passava dalla Destra storica alla Sinistra. Molti dei rassegnati, nell’ambito del trasformismo inaugurato nel 1882 da Agostino De Pretis, avrebbero fatto carriera, rivestendo anche ruoli politici di prim’ordine.

Gli intellettuali della “Rassegna settimanale” avevano ingenuamente confidato nel riformismo sociale dello Stato e nel senso di responsabilità della potente classe della borghesia agraria latifondista, affinché si ponesse fine alla discriminazione che il Mezzogiorno e le sue masse popolari subivano in ragione di scelte politiche economiche e fiscali inique. Ma il divario Nord-Sud, a fine secolo, era notevolmente cresciuto, come rimarcava Francesco Saverio Nitti nel 1900 in “Nord e Sud” [v], opponendosi radicalmente a chi tentava di ridurre il mancato sviluppo del Mezzogiorno a condizionamenti di natura antropologica, trascurando totalmente studi, analisi, statistiche, bilanci statali, che attestavano distintamente che il divario era nient’altro che il risultato untuoso di scelte politiche economiche, finanziarie e fiscali.

Lo storico Massimo Luigi Salvadori, in un saggio su Salvemini[vi], in merito alla critica netta ai “rassegnati”, riporta le seguenti rivelanti parole dell’intellettuale pugliese: «Se sono stati studiati benissimo i rimedi, non è   stato ancora detto chi rimedierà. In generale gli studiosi del problema meridionale questa domanda o non se la mettono mai o rispondono subito con una parola bisillaba: lo Stato! […] E lo Stato fa il sordo. E poi studiosi continuano nelle loro concioni e eloquentissime. Lo Stato italiano non farà mai nulla, come non ha fatto finora mai nulla»[vii].

Gaetano Salvemini si laurea in Lettere a Firenze nel 1896, dove riceve le lezioni di storia di Pasquale Villari. Nell’ex capitale toscana frequenta i circoli socialisti ed entra in contatto con il materialismo storico, maturando una tendenza già innata a difendere i diritti degli ultimi. Già nel 1898, a soli venticinque anni, Salvemini pubblica il saggio “La questione meridionale”, in cui valuta il sottosviluppo del Mezzogiorno basandosi su ricerche storiche e individuando nell’accordo tra la borghesia industriale del Nord e quella agraria del Sud, – complice lo Stato sabaudo -, le ragioni reali e concrete dell’arretratezza. Un’arretratezza che si basa sulla conservazione voluta di una struttura economica nel Mezzogiorno semifeudale, dove i cittadini sono tenuti in condizioni di totale sottomissione al ceto dominante, con governi sempre pronti alla repressione violenta dei frequenti moti popolari o rivolte. Da qui la polemica salveminiana contro i governi liberali, la critica ai meridionalisti moderati, immobilizzati alla ricerca sterile di un solo immaginaile “mito del buongoverno”. Il tutto mentre cresce l’esigenza di costituire una forza politica e un blocco sociale che tutelino finalmente il Mezzogiorno, quando i suoi rappresentanti in Parlamento vengono accuratamente selezionati per tutelare gli interessi degli industriali del Nord e dei latifondisti del Sud.

Il radicalismo classista di Salvemini lo porta a fine secolo a immaginare la fine di una monarchia, che aveva tentato, nel 1894, con Francesco Crispi contro i fasci siciliani e, nel 1898, con Antonio Starabba di Rudinì a Milano e altrove, la repressione violenta dei moti e delle rivolte causate dal carovita e l’adozione permanente delle cosiddette leggi liberticide. Ma nonostante l’avvento al potere di Giuseppe Zanardelli nel 1901, che inaugura l’Età giolittiana, le aspettative democratiche e repubblicane di Salvemini andranno deluse: non saranno attuate quelle politiche antiprotezioniste tanto auspicate a garanzia delle masse contadine del Mezzogiorno con l’accordo delle rappresentanze operaie del Nord.

Salvemini, infatti, aveva pienamente aderito alla battaglia antiprotezionista che il corregionale Antonio De Viti De Marco aveva condotto per primo all’indomani della tariffa doganale del 1887 e che, secondo il salentino, determinava la caduta innaturale dei prezzi dei prodotti agricoli e l’aumento dei prezzi dei manufatti provenienti dalle industrie del Nord, entrambi fattori responsabili di una «depressione economica cronica dell’Italia meridionale»[viii].

Lo storico pugliese, nel mentre il nuovo secolo si presenta con migliori prospettive in termini di legislazione sociale e di peso dei partiti che difendono i diritti dei lavoratori (il radicale Mussi a Milano viene eletto sindaco nel 1899, i socialisti raddoppiano gli esponenti in Parlamento nel 1900), diventa titolare della cattedra di Storia all’università di Messina.

L’inizio del Novecento è anche il momento in cui Francesco Saverio Nitti esprime in “Nord e Sud” la sua radicale critica regionalista alle politiche governative dei primi quarant’anni del Regno d’Italia; un’ analisi che lo storico Salvatore Lupo riassume e sintetizza compiutamente con le seguenti espressioni: «Il Sud ha ricevuto dall’Unità grandi danni, perché le politiche del debito pubblico e del prelievo fiscale lo hanno espropriato dell’abbondante capitale circolante del periodo borbonico, perché le industrie allora fiorenti sono state rovinate dalle scelte libero-scambiste del nuovo Stato, perché i lavori pubblici sono andati al Nord, perché gli impiegati sono in maggioranza settentrionali». Una dura presa di posizione e una ferma scelta di campo che impegna a fondo Giustino Fortunato nel cercare di parare i contraccolpi, allarmato e consapevole che gli scritti del melfese stavano alimentando le già consistenti nostalgie borboniche e i lievitanti sentimenti antiunitari, che nel rionerese avevano sempre trovato un fiero e determinato oppositore, quale convinto allievo desanctisiano[ix].

Un atteggiamento, quello di Fortunato, che induce Antonio Gramsci a ritenerlo, insieme a Benedetto Croce, tra «i reazionari più operosi della penisola», sempre attento a che l’ «impostazione dei problemi meridionali non soverchiasse certi limiti, non diventasse rivoluzionaria»[x]. Un atteggiamento che non lascia indifferente lo stesso Nitti che nel 1903 scrive: «Quando pubblicai il mio libro Nord e Sud sentii dirmi d’ogni parte, soprattutto dai meridionali: – Voi aumentate la discordia». Per Nitti, invece, le sue analisi potevano produrre del bene, aumentare il controllo, diminuire gli abusi; occorreva al contrario temere «la rassegnazione torpida da una parte, la spoliazione sistematica dall’altra»[xi].

Salvemini rappresenterà pienamente le tendenze regionaliste e antigovernative, contro le politiche protezioniste di inizio Novecento e tenterà anche, tra le soluzioni possibili per uscire dall’asfissiante centralismo inaugurato con il processo unitario, la via del federalismo in relazione alle tesi di Carlo Cattaneo.

La travagliata esperienza con il Partito socialista si conclude nel 1911, quando Salvemini prende atto che la sua idea di legare i destini del mondo operaio del Nord con quello dei contadini meridionali, al fine di scalfire l’egemonia del blocco agrario latifondista del Mezzogiorno e quello industriale della borghesia settentrionale, non avrebbe avuto un futuro.

È questo l’anno in cui Salvemini fonda “L’Unità”, iniziando o proseguendo un’intensa collaborazione con gli intellettuali che si oppongono alle posizioni protezionistiche di Antonio Giolitti. Tra questi intellettuali è bene ricordare Luigi Einaudi, Edoardo Giretti, Gino Luzzatto, Giustino fortunato, Giovanni Carano Donvito, Umberto Zanotti Bianco, oltre a Piero Gobetti, Ernesto Rossi, Pietro Calamandrei. Un giornale che dal 1911 al 1920 affronta ed esamina tutti i temi caldi di una società che va incontro alla tragedia della guerra mondiale, e che già normalmente deve affrontare e risolvere mille problemi, dalle questioni tributarie e fiscali alle necessarie riforme elettorali, dagli esiti delle politiche protezioniste alla questione meridionale, dall’esodo migratorio alla riforma agraria.

Il Salvemini interventista entra poi in relazione, incoerentemente, con i nazionalisti e con la Destra fino a trovare nella monarchia elementi positivi, dimenticando che il peso maggiore della guerra lo avevano subito pesantemente proprio i suoi contadini del Sud. E nel dopo guerra, distante ormai dai socialisti che lo avevano deluso sul piano del liberismo economico e della questione meridionale, si ritrova in Parlamento grazie alla vicinanza con i gruppi combattenti, dai quali ben presto prende le distanze quando respinge le tentazioni autoritarie del nascente fascismo. Un fascismo che lo vede esule, dopo l’arresto del 1925; prima a Parigi, dove nel 1929 dà vita con altri intellettuali antifascisti (Tarchiani, Lussu, Cianca, Nitti, i fratelli Rosselli, Rossi, Parri, Ginzburg) al movimento Giustizia e Libertà, poi ad Harvard, dove insegna Storia della civiltà italiana.

Tornato in Italia nel 1949, Salvemini riprende a insegnare a Firenze. Lo storico piemontese Salvadori riassume le riflessioni degli ultimi anni di vita dell’intellettuale pugliese: aveva perso la fiducia nella capacità delle élite meridionali, non nutriva più grandi speranze nel suffragio universale che il «ministro della malavita» Giolitti aveva concesso nel 1912, si era ricreduto persino sul federalismo, quasi a permettere una «rivincita tardiva di Turati» che aveva profondamente osteggiato, quasi «un’implicita presa di posizione critica nei confronti della “rivoluzione meridionale” progettata da Dorso» e, persino, «guardando le forze in campo a favore del Sud, non ne vedeva altra se non i comunisti», di cui aveva aspramente combattuto non solo l’ideologia, ma in maniera decisa la linea politica[xii].

 

[i] L. FRANCHETTI – S. SONNINO, La Sicilia nel 1876, Firenze, Barbera, 1877.

[ii] P. VILLARI, Lettere meridionali al direttore dell’Opinione: marzo 1875, Torino, Tipografia l’Opinione, 1875.

[iii] G. FORTUNATO, La questione demaniale nell’Italia meridionale, «Rassegna settimanale», 2 novembre 1879.

[iv] Intellettuali della rivista «Rassegna settimanale».

[v] F.S. NITTI, Nord e Sud, Torino, Roux e Viarengo, 1900.

[vi] M.L. SALVADORI, Gaetano Salvemini riformista e meridionalista, in Lezioni sul meridionalismo (a cura di Sabino Cassese), Bologna, Società editrice il Mulino, 2016.

[vii] Ivi, p. 133.

[viii] A. DE VITI DE MARCO, Finanza e politica doganale, «Giornale degli economisti», gennaio 1891; ora in R. VILLARI (a cura di), Il sud nella storia d’Italia, vol. 1°, Bari, Laterza § Figli, 1966, p. 202.

[ix] S. LUPO, Storia del Mezzogiorno, questione meridionale, meridionalismo, «Meridiana», n. 32, a. 1998, p. 38.

[x] A. GRAMSCI, Alcuni temi della quistione meridionale, in Id., Scritti sulla questione meridionale (a cura di M. Rossi-Doria, vol. III, Bari, Laterza, 1978, pp. 14-15.

[xi] F.S. NITTI, Napoli e la questione meridionale, in Id., Scritti sulla questione meridionale (a cura di M. Rossi-Doria), vol. III, Bari, Laterza, 1978, pp.14-15.

[xii] M.L. SALVADORI, Gaetano Salvemini riformista e meridionalista, in Lezioni sul meridionalismo (a cura di Sabino Cassese), Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 140-141.

La ritrattistica di Casa Imperiali: Andrea I e Michele III Imperiali

di Mirko Belfiore

 

Volendo fare il punto sulle vicende di quella che fu la collezione artistica della famiglia Imperiali dei Principi di Francavilla, abbiamo bisogno di fare un passo indietro fino ai primi decenni del XVII secolo e analizzare un contesto che raggruppi sia i possedimenti del casato in terra pugliese che la città di Napoli, vero polo magnetico di tutta la nobiltà regnicola durante l’Età moderna. Un lavoro di ricerca stimolante ma molto complesso, che vede questa raccolta protagonista delle fortune di casa Imperiali quanto vittima di numerose circostanze negative che ne intaccarono l’integrità come suddivisioni ereditarie, dispersioni e in alcuni casi sottrazioni indebite.

Di tutto questo grande “passato” ci rimane ben poco, se non i due piccoli nuclei ancora siti in quelli che erano i centri di governo nella regione salentina. Il primo, il più cospicuo, si trova conservato presso palazzo Imperiali di Latiano, dominio di uno dei rami cadetti, il quale consta di una quindicina di tele recanti soggetti di varia natura (tema che affronteremo in un prossimo articolo). Il secondo, più esiguo, trova ancora dimora nella residenza feudale di Francavilla, già cuore pulsante del principato, il quale consta delle due grandi tele raffiguranti Andrea I (II Principe di Francavilla e V Marchese di Oria) e Michele III (III Principe di Francavilla e VI Marchese di Oria).

Ci soffermeremo proprio su questi due ritratti di autore ignoto, i quali campeggiano in uno dei vani dell’edificio francavillese a non molto distanza dalla celebre “Sala del Camino”, luogo di rappresentanza della dimora. Come parte integrante del patrimonio artistico cittadino, esse possono essere definite le uniche testimonianze dell’antico potere feudale, nonché l’unica occasione per entrare in contatto con i volti e le parvenze di coloro che questi ambienti li arricchirono con “mobili, gioie ed argenti”. Alla base dello studio di questi quadri dobbiamo inserire gli inventari redatti per conto di alcuni dei membri della famiglia e in buon parte conservati presso l’Archivio Storico di Brindisi. Questa documentazione è stata utile solo in parte, visto che il modus operandi di redazione degli incartamenti risente non solo della mano inesperta del notaio addetto alla compilazione dell’elenco ma anche delle diverse tipologie di catalogazione. Alcuni di questi elenchi sono redatti per “categorie” e quindi molto lacunosi nei riferimenti principali (indicazione dell’artista, soggetto, misure), mentre altri si presentano realizzati secondo una visione “topografica”, dove più scrupolosi sono i particolari sulla collocazione dei manufatti nei diversi palazzi.

Palazzo Imperiali, Latiano

 

In questa sede utilizzeremo solo alcuni di questi fondi e in particolare: gli inventari redatti per conto di Michele III durante gli anni 30’ del XVIII secolo (1735-1736-1737-1738), l’inventario del 1816 realizzato alla morte di Vincenzo Imperiale dei Marchesi di Latiano, cugino ed erede designato di Michele IV Imperiale dei Principi di Francavilla, e l’elenco dei beni mobili di Francesco Imperiali, figlio di Vincenzo, il quale una volta morto nel 1820 passò tutte le sue proprietà alla figlia Maria Antonia, che a sua volta lasciò tutto alle figlie Francesca Carmina e Giovanna, asse patrimoniale testimoniato da un inventario del 1830. Come era uso all’epoca, alla grande mole di incartamenti redatti durante le successioni testamentarie, una piccola appendice era dedicata alla catalogazione degli oggetti di valore e dei luoghi in cui gli stessi erano dislocati, il che ci permette di compiere un vero e proprio tour virtuale di alcune delle dimore di Casa Imperiali, utilizzate come sede principale (Francavilla), con scopi più ludici come caccia, svago e villeggiatura o semplicemente per vigilare sulle proprie rendite feudali (Oria, Latiano, Avetrana, Manduria etc.). Dalle descrizioni sul complesso di Francavilla, si può comprendere come l’edificio emergesse sia per la magnificenza delle architetture che per gli sfarzosi arredi, in buona parte voluti proprio dal penultimo Michele, i quali declinati in tutte le forme dell’arte andavano a sottolineare la forza e la ricchezza raggiunta dalla dinastia.

A ciò si aggiungono alcuni interessanti particolari come le specifiche sui centri di produzione manufatturieri dai quali il Principe Michele III attinse per ammobiliare le sue proprietà: da Napoli gli argenti e le preziose stoffe provenienti dalle rinomate botteghe dal quartiere di Porta Nuova, da Roma gli arazzi con tematiche di “storia antica” provenienti dall’ospizio di San Michele a Ripa Grande, da Venezia i broccati e i costosi specchi prodotti dalle vetrerie di Murano e infine dalla madre patria genovese la biancheria e le rinomate porcellane albisolesi; a cui va aggiunta la cospicua raccolta di dipinti. In generale, esaminando i vari rami della famiglia e con la sola eccezione della quadreria di Giuseppe Renato Imperiali a Roma, la raccolta pittorica di Casa Imperiali che andò ad accumularsi fra XVII e XVIII secolo fu realizzata secondo una visione molto periferica, all’ombra di quel centro d’arte che fu Napoli.

Era usuale creare una raccolta che conferisse in primis lustro al casato, ma i limiti per una collezione di questo tipo vanno ricercati nella disponibilità dei collezionisti di poter accedere ai grandi nomi della scuola pittorica napoletana o della Penisola. L’unica soluzione era quella di utilizzare l’abilità degli artisti locali, i quali venivano inviati a imparare la maniera presso l’ambiente partenopeo, per poi riproporlo nel luogo di origine secondo una lettura più personale.

Deposizione di Cristo (attrib. Gherardo delle Notti, XVII secolo, olio su tela, Latiano, pinacoteca di palazzo Imperiali)

 

Dalle diverse analisi inventariali di Casa Imperiali possiamo constatare la presenza di un piccolo nucleo di grandi maestri del Seicento: Jacopo Bassano, Francesco Salviati, Guido Reni e Pacecco de Rosa, insieme alla più cospicuo numero di opere risalenti al XVIII secolo, in buona parte copie attribuibili alla vivace scuola pittorica locale, francavillese e non, patrocinata dagli Imperiali.

Questo gruppo di artisti dalle capacità poliedriche: pittori, scultori, cartapestai e orafi, operavano seguendo la maniera dei grandi artisti napoletani come Luca Giordano, Paolo de Matteis o Francesco Solimena. L’analisi dei diversi cataloghi permette di capire come gli interessi di gusto dei proprietari presentassero alcuni interessanti spunti di ricercatezza: icone con soggetti sacri, soggetti con tematiche profane, scene allegoriche, paesaggi o ambientazioni bucoliche, carte geografiche con i vari possedimenti del casato, pergamene, immagini cesellate su supporti d’argento o rame e una lunga serie di ritratti di famiglia. Quest’ultimi seguivano le linee guida allora imperanti nel mondo della ritrattistica: mezzo busto o figura intera, ed erano sempre volti a mettere in risalto la condizione sociale del personaggio attraverso un abbigliamento specifico che ben evidenziasse i tratti dell’uomo di finanza, di politica o di religione. Ed è proprio in questo frangente che si inseriscono le due tele custodite a Francavilla.

 

Ritratto di Andrea I Imperiali (Anonimo, XVIII secolo, olio su tela, Francavilla Fontana) (Foto Alessandro Rodia)

 

La prima, se procediamo in ordine di successione feudale, è quello di Andrea I Imperiali (1647-1678) raffigurato in età adulta, riccamente abbigliato e dai modi signorili, posizionato al centro di un ambiente, forse uno studiolo, dalla scenografica pavimentazione a scacchiera. Quest’ultima, oltre a dare una parvenza di prospettiva, mette in comunicazione il “vano principale” e una fittizia ambientazione esterna tramite una scalinata di collegamento non visibile, ma che è ben evidenziata dall’elegante corrimano e dalla fioriera posta in testa alla rampa. Alcuni drappi di color porpora si aprono con una linea diagonale sulla parte sommitale del dipinto e compongono insieme al piccolo tavolo di forma rotondeggiante, posto alla sinistra del quadro, una precisa perpendicolare. Sul piano d’appoggio riccamente adornato da una tovaglia di seta, quasi accennata, trova posto un orologio. Esso è sorretto da una coppia di figure antropomorfe che reggono il dettagliato quadrante, regalando alla composizione pittorica dello strumento meccanico quel senso di eleganza e ricercatezza. Il Nobiluomo veste secondo la moda seicentesca di matrice spagnoleggiante: giacca color rosso, ricami dorati che corrono lungo i risvolti e linee geometriche ben definite per le maniche dell’indumento. La posizione rigida del corpo è ingentilita dai due avambracci, i quali con la loro torsione restituiscono un certo dinamismo alla figura. Il primo si inserisce con decisione sul fianco sinistro denotando sicurezza nel Principe, mentre il secondo si posiziona con delicatezza sul tavolo imbandito, a pochi centimetri da un cappello ripiegato su stesso.

3. Ritratto di Michele III Imperiali Seniore (Anonimo, XVIII secolo, olio su tela, Francavilla Fontana, Castello-residenza).

 

Nel secondo ritratto invece troviamo Michelle III, facilmente identificabile nella tipologia iconografica di tipo “istituzionale”, dove vengono esaltate le peculiarità del soggetto raffigurato: il valore umano, il lignaggio e la posizione politica raggiunta. Il Principe è raffigurato in età adulta, in posizione eretta e posto al centro dell’ambiente di piccole dimensioni, probabilmente uno studiolo. Sullo sfondo troviamo un vistoso drappo e un accenno di colonna, forse parte di un porticato a noi non visibile. Egli si rivolge verso l’osservatore con atteggiamento austero e risoluto, recando nella mano sinistra un foglio di appunti, probabile metafora della laboriosità dell’uomo impegnato, preso dagli affari e dalle dinamiche politiche del tempo. Dall’analisi degli arredamenti di matrice sei-settecentesca, posti alle spalle del soggetto, emergono sulla destra un’elegante poltrona in raso mentre sulla sinistra si sistema un raffinato tavolino in legno, su cui lo stesso poggia la mano destra e al contempo stringe un paio di guanti bianchi. Nel contesto cromatico ormai particolarmente compromesso risalta l’abbigliamento, un’ampia parrucca sul capo e una sontuosa cappa magna di velluto rossa bordata d’ermellino che scende sul corpo. Quest’ultimi sono gli indumenti che mettono in risalto lo status sociale, gli incarichi ottenuti e gli onori raggiunti (Consigliere di Stato, Gran Camerario del Regno, Grandeza de Espagna e Gentiluomo di Camera d’entrata), il tutto guadagnato prestando servizio presso la corte borbonica napoletana.

In conclusione, parafrasando il compianto Michele Paone, a nessuno certamente è dato recuperare gli oggetti che gli Imperiali accumularono durante il loro governo e quindi risistemarli a Francavilla, come nelle altre residenze del principato. Grazie alla lettura di questi elenchi noi possiamo ricostruire i contorni di tutti questi oggetti, figli di un tempo perduto, testimonianze d’arte uniche che ci riportano la presenza di un mercato dell’arte e del lusso molto vivace. Grazie a questi documenti, i manufatti riacquistano consistenza, forme e colori, ritrovando la loro antica realtà come riflesso della grandezza di una corte signorile che seppe distinguersi non solo in un contesto come quello del Salento ma anche e soprattutto in quello che fu il composito ceto nobiliare del Vicereame spagnolo prima e del Regno di Napoli poi.

 

In attesa di veder realizzato il progetto di restauro delle tele attualmente in fase di definizione, si auspica che le due opere possano diventare le protagoniste di un successivo ampliamento di quella che è l’attuale offerta museale del MAFF, il Museo archeologico di Francavilla Fontana. La volontà è quella di realizzare una vera e propria “Sala Imperiali”, luogo dove raccontare un “pezzo” importante della storia della città di Francavilla. Una storia che corre di pari passo con le vicende di un casato dalle origini lontane e dal respiro internazionale, che per duecentosette anni resse le sorti politiche dell’abitato contribuendo allo sviluppo sociale ed economico di tutta l’area circostante.

 

Castello. Residenza Imperiale (fondazione XV secolo)

 

 

 

 

DOCUMENTI CITATI NEL TESTO

A.S. Br, Sezione notarile, notaio F.T. Chiarelli da Santa Susanna, 1735, Inventario 7617, folio 47-137, t.

A.S. Br, Sezione notarile, notaio F.T. Chiarelli da Santa Susanna, 1735, Inventario 7620, folio 102-108, t.

A.S. Br, Sezione notarile, notaio S. Stasi, 1816, Inventario 4173, cc. 646-740.

 

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Nardò. Musica classica nel periodo natalizio. Il programma e gli artisti

Dopo l’incredibile successo del primo Festival Cameristico Internazionale del Capo di Leuca, rassegna svoltasi in estate in nove comuni del Basso Salento attraverso diciotto concerti in poco più di due mesi, Eleusi APS è pronta ad una nuova sfida.

Neretum classica – Natale 2021“, questo il nome della rassegna concertistica che allieterà il centro storico di Nardò per l’intero mese di dicembre.

Quattro concerti nelle più suggestive chiese neretine ed una rappresentazione teatrale che verrà eseguita presso l’ex Convento dei Carmelitani, ove sono da poco terminati i lavori di ristrutturazione.

Attori e musicisti riuniti in un’unica grande festa e con un solo ambizioso scopo: portare arte e cultura nei luoghi più belli della città neretina.

Durante la rassegna, che si svolgerà dal 4 al 26 dicembre 2021, si susseguiranno talentuosi musicisti salentini, dal duo Synaistisìa, composto dal violista Cristian Musio e dal pianista Gabriele De Carlo, alla pianista neretina Laura Pinnella, dal Coro Harmonia Mundi al Duo Licchetta-Sequestro, formato dai pianisti Alessandro Licchetta e Andrea Sequestro, direttore artistico di Neretum Classica.

A coronare la programmazione, la prima assoluta di uno spettacolo teatrale all’insegna del Natale, scritto e interpretato dagli attori Chiara Serena Brunetta e Salvatore Cezza, accompagnati dagli interventi musicali di Vera Andrea Longo.

L’ingresso agli spettacoli sarà gratuito e necessiterà esclusivamente la registrazione all’entrata e l’esibizione del Greenpass, in ottemperanza alla normativa anti Covid-19. Il direttore artistico della rassegna è il neretino M° Andrea Sequestro.

Nel comitato artistico sono presenti anche i maestri Alessandro Licchetta e Cristian Musio. Luca Antonio Esposito invece ricopre il ruolo di direttore amministrativo. Gli eventi sono patrocinati dal Comune di Nardò. Si ringrazia Giulia Puglia, Assessore alla Cultura e al Marketing Territoriale, e Creativibar per la gentile collaborazione.

 

PROGRAMMA DELLA RASSEGNA

4 dicembre, Chiesa di Sant’Antonio, ore 20 Duo Synaistisìa Cristian Musio, viola Gabriele De Carlo, pianoforte Musiche di Schumann, Bruch e Brahms

11 dicembre, Chiesa del Carmine, ore 20 Laura Pinnella, pianoforte Musiche di Listz, Schumann, Brahms, Rachmaninoff

14 dicembre, Chiostro dei Carmelitani, ore 20 “Ogni Santo Natale” Spettacolo teatrale di e con Chiara Serena Brunetta e Salvo Cezza, interventi musicali a cura di Vera Andrea Longo In collaborazione con Creativibar

18 dicembre, Chiesa di San Domenico, ore 20 Coro Harmonia Mundi, Musiche di Mozart, Palestrina, Gabrieli e altri

26 dicembre, Cattedrale, ore 20.30 Duo Licchetta-Sequestro, pianoforte a quattro mani Musiche di Fauré, Listz e Tchaikovsky.

 

Il coro Harmonia Mundi è una formazione inedita che nasce da un gruppo di amici e cantori con anni di esperienza corale nei più diversi ambiti.
I ragazzi che compongono il coro cantano insieme nel Coro Giovanile Pugliese diretto da Luigi Leo, formazione che li ha portati a esibirsi in prestigiosi concerti di ambito nazionale ed internazionale (National Concert Hall di Dublino, Musikverein di Vienna, tra i vari) e condividono, oltre che la passione per la musica e la coralità, un’armonia affettiva e umana che cercano di far trasparire attraverso la loro musica e le loro voci.
Nasce da qui l’idea di Harmonia Mundi: cercare attraverso la musica e la coralità di creare ordine e bellezza, in un connubio di ricerca repertoriale, cura timbrica e una particolare attenzione al rito musicale su più ampia prospettiva, convinti che è nella musica che si riesca a trovare il linguaggio più efficace per ricostruire l’armonia nel mondo.

 

Currricula dei musicisti

ANDREA SEQUESTRO, nato il 25 ottobre 1994, dimostra fin da giovanissimo uno spiccato interesse verso lo studio del pianoforte.La sua formazione pianistica inizia a 5 anni sotto la guida della Maestra Francesca Iachetta, a Cosenza, per poi continuare a Nardò con la Maestra Serena Caputo.
Partecipa sin da bambino a numerosi concorsi di portata nazionale ed internazionale come solista, come accompagnatore e in formazione da camera, quali: La Vallonea di Tricase, vincendo anche una borsa di studio e il premio per la miglior interpretazione , Le Nouveau Jongleur di Ruffano, il “ Concorso Nazionale Premio Musica Italia” di Barletta, il Magnificat Lupiae e l’Erik Satie di Lecce e molti altri, piazzandosi sempre ai primi posti.
Ha partecipato, inoltre, a diverse masterclass di maestri di chiara fama quali Cristiano Burato, Emilia Fadini, Roberto Cappello, Gianfranco Sannicandro, Egon Mihajlovic, Franco Mezzena, Vladimir Mlinaric ricevendo sempre numerosi apprezzamenti.
Ha frequentato per 8 anni la classe di pianoforte della professoressa Concita Capezza presso il conservatorio Tito Schipa di Lecce per poi diplomarsi con il massimo dei voti, lode e menzione sotto la guida del maestro Corrado De Bernart con cui ha conseguito anche il diploma accademico di secondo livello in pianoforte solistico con votazione di 110 lode e menzione. Successiva ha frequentato il corso di perfezionamento pianistico presso l’Accademia Musicale Pescarese sotto la guida del M° Pasquale Iannone.
Si è esibito, come solista o in formazione da camera, nell’ambito di diversi festival ed enti concertistici quali: “Tithonos Festival” a Vaste (LE); a Lecce per l’inaugurazione del “Maggio Salentino” presso il Teatro Apollo, per l’Associazione Mozarte presso il Museo Castromediano, per il “Festival del XVIII Secolo” presso la Fondazione Palmieri, “Strade Maestre” presso i Cantieri Teatrali Koreja, vari concerti presso gli Amici della Lirica, con cui ha anche collaborato in qualità di maestro accompagnatore al pianoforte , i “Concerti del Conservatorio” presso l’Auditorium del Conservatorio “T. Schipa”, in duo con il sassofonista Alessandro Malagnino per il festival“Classiche Forme” sotto la direzione artistica di Beatrice Rana, presso il rettorato dell’Unisalento per la manifestazione “Musica in aula”,” Tra musica e parole” presso Palazzo Turrisi, “Cortili aperti” presso il museo Castromediano per “Associazione Mozart”; a Martina Franca “PianoLab”, oltre ad essersi esibito diverse volte presso la Fondazione Grassi; a Cosenza il “CosenzaPianoFest” presso la Sala Quintieri del Teatro Rendano; a Milano “Piano City” ,in collaborazione con il pianista Francesco Libetta, presso la Casa degli Atellani in un concerto registrato da Sky Classica; a Nardò per “M’illumino di meno” , “ Corti aperte”, “Calici di note”, “Piano e Forte Festival”, varie esibizioni presso il “Caffè letterario”, ” Beethoven e le nove sinfonie” dove ha eseguito, in formazione cameristica, la seconda e l’ottava sinfonia di Beethoven; “Gran Galà del Fuoco” a Novoli;” Tempo di Musica” a Galatone, Fundacion Eutherpe di Leòn ,in Spagna, Primo Festival Internazionale Cameristico del Capo di Leuca in un concerto per due pianoforti, insieme al pianista Alessandro Licchetta, in una serata interamente dedicata a Saint-Saëns.
Ha inciso un CD, in collaborazione con i Maestri Enrico Tricarico e Alessandro Licchetta, interamente dedicato alla figura di Francesco Luigi Bianco, compositore gallipolino del XIX secolo.
Ha collaborato con il M° Corrado De Bernart nella realizzazione di una serie di conferenze sulla vita di Gioachino Rossini,in occasione dei 150 anni dalla scomparsa del compositore pesarese attraverso l’esecuzione di trascrizioni per quattro mani delle più celebri ouverture rossiniane, e sul panorama musicale americano del XVII-XIX, ponendo particolare attenzione sulla musica di Louis Moreau Gottschalk, sul ragtime e su George Gershwin.
È socio fondatore e segretario dell’associazione Eleusi di Corsano (Lecce).

 

SALVATORE CEZZA. Attore, doppiatore e formatore fonetico professionista. Si diploma a Roma presso “L’accademia Nazionale di Arte Drammatica – La Maschera in Soffitta”. Lavora come interprete, autore e formatore nel campo teatrale e cinematografico. Docente di corsi di dizione,  respirazione, interpretazione, Public Speaking e linguaggio del corpo. Presidente dell’Associazione “La Bottega di Uroboro – APS”, attiva nel campo artistico, culturale e formativo.

 CHIARA SERENA BRUNETTA. La sua formazione artistica inizia studiando canto sin da giovanissima. A 18 anni studia recitazione teatrale, approfondendo la respirazione diaframmatica, la dizione italiana e i diversi stili interpretativi. Lavora per 9 anni come attrice e cantante nella compagnia teatrale “La Busacca – Teatro Stabile del Salento”, spaziando dalla Tragedia Greca alla Commedia dell’Arte, dalla Commedia Napoletana al Dramma Contemporaneo. Oggi, lavora anche come attrice cinematografica per spot pubblicitari, videoclip musicali e cortometraggi, occupandosi inoltre di corsi di Public Speaking, lettura, respirazione, teatro, canto ed eventi artistici con l’Associazione “La Bottega di Uroboro – APS”. 

GABRIELE DE CARLO intraprende lo studio del pianoforte all’età di 6 anni. Sin da tenera età ha l’occasione di confrontarsi con moltissime grandi personalità della musica quali P.Bruni, C.Burato, P. Camicia, R. Cappello, E.Degli Esposti Elisi, D.Franceschetti, F.Gamba, P. Gililov, A.Harasiewicz, B.Lupo, S. Perticaroli, R.Plano, R.Risaliti, F.Thiollier, L.Trabucco e molti altri. Diplomato presso il Conservatorio di musica “Tito Schipa” di Lecce col massimo dei voti e la lode, ha proseguito il suo perfezionamento presso l’Accademia Musicale delle Marche “B.Gigli”, studiando con i Maestri Lorenzo Di Bella e Gianluca Luisi. Tra le grandi personalità con cui ha avuto l’onore di confrontarsi, coloro che maggiormente hanno contribuito alla sua crescita artistica sono Marisa Somma ed Enrico Pace, con il quale ha avuto l’opportunità di perfezionarsi quattro anni presso l’Accademia di musica di Pinerolo, dove ha conseguito il diploma Master. Si è laureato in didattica dello strumento presso il Conservatorio di Monopoli “N.Rota”. Ha partecipato inoltre a numerosissimi concorsi pianistici italiani ed internazionali, conseguendo un numero considerevole di affermazioni. Nel 2011 il Comune di Vernole gli ha conferito il “Premio Excellentiae”, per essersi distinto in ambito musicale nel territorio salentino. Ha un’intensa attività concertistica in qualità di pianista solista, accompagnatore ed in varie formazioni cameristiche in Italia ed all’estero, tra cui il duo Synaistisìa con il violista Cristian Musio. Tra le molteplici suggestive cornici presso le quali si è esibito, si menzionano l’Escuela Superiòr de Canto de Madrid, nel cui teatro ha tenuto un recital da solista, primo di una serie di concerti nella capitale spagnola, in palcoscenici prestigiosi come il Museo Nacionàl del Romanticismo e l’Auditorium “Carmen Laforet”, il museo diocesano di Catania, l’auditorium del Conservatorio “G.Verdi” di Torino, la Cappella dei Banchieri e dei Mercanti, Palazzo Cisterna per la rassegna Expo 2015, la reggia di Venaria Reale. Ha inoltre partecipato al “Festival Mozart” per l’Unione Musicale presso il Teatro Vittoria di Torino. Ha preso parte alla 49esima ed alla 50esima stagione della Camerata Musicale Salentina, con il duo Synaistisìa e da solista. E’ docente di esecuzione ed interpretazione pianistica presso il Liceo musicale “E.Giannelli” di Casarano.

VERA ANDREA LONGOIl M° Vera Andrea Longo ha conseguito la laurea magistrale in violino presso il “Conservatorio Tito Schipa” di Lecce nella classe del M° Fernando Toma. Nel 2017 si è perfezionata con il M° Francesco D’ Orazio. Nell’anno accademico 2017/18 ha frequentato il “Master course in violin performance” con il M° Ervis Gega presso la “Talent Music Master Courses” di Brescia conseguendo il Master degree in violin performance. Nel 2020 prende parte come cantante e polistrumentista al “Fuorimoda tour” de La Municipàl. Attualmente è docente presso la “World Music Academy” di S. Vito dei Normanni, l’Orpheo[SPACE] di Lecce, la scuola secondaria di primo grado Polo 2 – Istituto Comprensivo “Rina Durante” di Nardò e violinista del “Progetto Seme” di Claudio Prima.

CRISTIAN MUSIO si diploma in viola presso il Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce nel 2015. Nello stesso anno entra a far parte dell’Orchestra Giovanile Italiana, dove collabora con artisti di fama internazionale, quali Danilo Rossi, Stanislav Kochanovsky, Dietricht Paredes, Guido Corti, Gianpaolo Pretto, Luca Ranieri, Danusha Waskiewitz, Lorenza Borrani e altri. Nel 2016 diventa prima viola dell’Orchestra dell’Accademia del Teatro alla Scala di Milano, dove viene diretto da Zubin Metha, David Coleman, Michele Mariotti e altri. Dal 2015 al 2017 si perfeziona con il M°Antonello Farulli presso la Scuola di Musica di Fiesole. Nel 2017 esordisce nell’Orchestra Giovanile “Luigi Cherubini” sotto la direzione di Riccardo Muti. Ha collaborato con l’Orchestra di Lecce e del Salento OLES, l’Orchestra ICO di Lecce, l’Orchestra ICO della Magna Grecia, l’Orchestra Filarmonica della Calabria, l’Orchestra Giovanile Napolinova, l’Orchestra del Conservatorio “Nino Rota” di Monopoli, l’Orchestra del Conservatorio “G. B. Martini” di Bologna. Si esibisce presso il Teatro alla Scala di Milano, l’Auditorium Arturo Toscanini di Torino, l’Auditorium Parco della Musica di Roma, il Colosseo, il Teatro San Carlo di Napoli, il Teatro Petruzzelli di Bari, il Nuovo Teatro dell’Opera di Firenze e tanti altri. È componente di svariati ensembles cameristici, dal duo alla piccola orchestra, con cui ha accompagnato solisti di eccellenza, tra cui Massimo Quarta, Francesco d’Orazio, Pierluigi Camicia, Alessandro Perpich, Carlo Romano, Benedetto Lupo, Francesca Dego, Oleksandr Semchuk, Pasquale Iannone e altri. Tra le formazioni di cui è componente, con le quali si è classificato in posizioni di rilievo in diversi concorsi di musica nazionali e internazionali, si citano il Quartetto Primaldo, il Duo Synaistisìa, il Duo Musìo, il Duo Musìo-Licchetta, il Trio Leucàsia, il Sybar String Quartet. Dal 2016 al 2020 è stato docente di viola presso il liceo musicale “E. Giannelli” di Parabita (Le) e dal 2017 al 2020, con il medesimo incarico, presso il liceo musicale “G. Palmieri” di Lecce. Nel 2019 consegue la laurea di II livello in violino presso il conservatorio “Tito Schipa” di Lecce e un’ulteriore specialistica in Metodologie narrative nella didattica artistico-musicale presso l’Università “D. Alighieri” di Reggio Calabria. Presente, negli anni, in progetti discografici di vari artisti, con il Maestro Gabriele Musìo pubblica per l’etichetta discografica Indipendemo Records, nell’estate del 2020, due album: le 15 invenzioni a due voci di Johann Sebastian Bach, in una versione per violino e violoncello, e i 12 Canoni dell’Opera Prima di Filippo Baroni, nell’adattamento per viola e violoncello.

LAURA PINNELLA, nata a Nardò nel 1993, ha intrapreso lo studio del pianoforte all’età di 8 anni. Si diploma con lode nel 2017 presso il conservatorio “Nino Rota” di Monopoli, nella classe del Maestro Carlo Gallo. È vincitrice di numerosi Concorsi Nazionali ed Internazionali tra cui: 1° premio “Ischia international piano competition”, 1°” Eurorchestra” di Bari, 1° premio assoluto concorso “I.Stravinsky” , 1° concorso internazionale “Città delle Ceramiche”, 2° premio concorso Nazionale “Terra degli Imperiali”, 1° premio concorso Internazionale “Grand Prize Virtuoso di Londra”. Si è esibita in numerosi festival e rassegne pianistiche in Italia e all’estero. Ha suonato per la stagione di Ischia Classica “Note sul mare”, per i concerti presso il teatro di Tonfano a Pietrasanta, per il Festival del XVIII Secolo (sia da solista, sia in formazione da camera”) sotto la direzione artistica del Maestro Francesco Libetta. Ha tenuto un concerto per la prestigiosa fondazione Benetton, presso l’auditorium della chiesa di S. Teonisto a Treviso, in occasione del rientro di importanti opere pittoriche. Nel 2011, in occasione dei 150 dall’Unità d’Italia, ha tenuto un concerto in qualità di pianista accompagnatore del coro del Politeama Greco di Lecce. È risultata finalista regionale all’importante concorso “Soroptimist” come rappresentante del conservatorio “Nino Rota” di Monopoli. Il concorso è dedicato ai giovani talenti femminili della Musica classica. Nel 2016, dopo la vittoria del Concorso “Grand Prize Virtuoso” di Londra, si è esibita, durante la cerimonia di premiazione, nella prestigiosa Royal Albert Hall. Alla sua formazione artistica, hanno contribuito Maestri di chiara fama internazionale tra i quali: C.Burato, R.Cappello, M.Ferrati, F.J.Thiollier, M.Vacatello, D.Rivera , A.Deljavan.

ALESSANDRO LICCHETTA. Nato a Tricase (LE) nel dicembre 1993, ha dimostrato sin da giovanissimo uno spiccato interesse verso lo studio del pianoforte, avviato all’età di cinque anni. Ha studiato dapprima con il M° Luigi Nicolardi, successivamente con il M° Adalberto Protopapa presso l’Accademia Musicale del Salento. Ha conseguito la Laurea di I Livello in Pianoforte con il massimo dei voti e la lode presso il Conservatorio “P. I. Tchaikovsky” di Nocera Terinese sotto la guida del M° Filippo Arlia e la Laurea di II livello in Pianoforte Cameristico con il massimo dei voti, la lode e la menzione presso il Conservatorio “T. Schipa” di Lecce nella classe del M° Corrado De Bernart e nella classe di Musica da Camera del M° Francesco Libetta. Dopo aver frequentato il corso di perfezionamento pianistico presso l’Accademia Musicale Pescarese sotto la guida del M° Pasquale Iannone, attualmente prosegue gli studi pianistici con lo stesso Maestro presso la Barletta Piano Festival Academy.
Ha vinto numerosi concorsi di portata nazionale e internazionale, risultando spesso vincitore di categoria, conseguendo il 1° premio al Concorso musicale internazionale “Erik Satie” di Lecce nel 2016 e al Concorso pianistico internazionale “Giuseppe Piliego” di Brindisi nel 2018 e il 1° Premio Assoluto al Concorso Musicale Nazionale “Premio Bernstein” di Alliste (LE) e al Concorso Musicale Nazionale “Il Terzo Suono” di Acquarica del Capo (LE) nel 2013, al Concorso Musicale Internazionale “La Vallonea” di Tricase (LE) e al Concorso Musicale Internazionale “Le Nouveau Jongleur” di Ruffano (LE) nel 2015, al Concorso Musicale Internazionale “Giuseppe Tricarico” di Gallipoli nel 2016 e nel 2017, al Concorso Musicale Internazionale “Salento Music Competition” di Ruffano (LE) nel 2016 e nel 2019 e al Concorso internazionale di musica classica e jazz “Trofeo San Lazzaro” di Gallipoli LE nel 2018 e nel 2019. È, inoltre, risultato vincitore del Premio della Critica al Concorso Musicale Internazionale “Giuseppe Tricarico” di Gallipoli nel 2015 e al Concorso Musicale Internazionale “Salento Music Competition” di Ruffano (LE) nel 2019 in duo con il violista Cristian Musio, vincitore del Premio per la Migliore Interpretazione al Concorso Musicale Internazionale “La Vallonea” di Tricase (LE) nel 2016 e Vincitore Assoluto di Edizione al Concorso Musicale Internazionale “Le Nouveau Jongleur” di Ruffano (LE) nel 2015, al Concorso Musicale Internazionale “Salento Music Competition” di Ruffano (LE) nel 2016, al Concorso Musicale Nazionale “Carmelo Preite” di Presicce (LE) nel 2017, vincendo in quest’ultimo anche il Premio Pianoforte per una pubblicazione discografica di brani per pianoforte del compositore presiccese Carmelo Preite, e al Concorso internazionale di musica classica e jazz “Trofeo San Lazzaro” di Gallipoli nel 2019 in duo con il violista Cristian Musio.
Ha partecipato a Masterclass di perfezionamento con i Maestri Francesco Libetta, Adalberto Protopapa, Aldona Budrewicz-Jacobson, Gianfranco Sannicandro, Aylen Pritchin, Egon Mihajlović e Vladimir Mlinarić, Franco Mezzena, Pasquale Iannone.
Si è esibito, come solista o in formazione da camera, nell’ambito di diversi festival ed enti concertistici, quali, tra gli altri, il “Tithonos Festival” a Vaste (LE); il “Festival Terra tra due mari” a Gallipoli presso il Castello Angioino; la “Camerata Musicale Salentina” a Castro presso il Castello Aragonese; a Lecce il “Maggio Salentino” presso il Teatro Apollo, Associazione Mozart, il “Festival del XVIII Secolo” presso la Fondazione Palmieri, “Strade Maestre” presso i Cantieri Teatrali Koreja, gli Amici della Lirica, i “Concerti del Conservatorio” presso l’Auditorium del Conservatorio “T. Schipa”, presso il Museo Castromediano per “Associazione Mozart”; a Martina Franca “PianoLab”, oltre ad essersi esibito diverse volte presso la Fondazione Grassi; a Barletta il “Barletta Piano Festival”; a Cosenza il “CosenzaPianoFest” presso la Sala Quintieri del Teatro Rendano; a Milano “Piano City” presso la Casa degli Atellani; a Salisburgo (Austria) presso la Steinway Saal del Musikum; a Leòn (Spagna) presso la Fundación Eutherpe; a Santa Maria di Leuca e Tricase per il Primo Festival Internazionale Cameristico del Capo di Leuca.
Suona in duo con il pianista neretino Andrea Sequestro (Duo Licchetta-Sequestro).
Ha, inoltre, collaborato con l’Orchestra Filarmonica Valente diretta dal M° Giuseppe Guida, con la quale ha eseguito il Concerto n. 21 K 467 di Mozart, e con il Balletto del Sud.
È stato Direttore Tecnico, per conto dell’Associazione Seraphicus di Nardò, della Prima edizione del Concorso Musicale Internazionale “Premio Vittoria De Donno” tenutosi a Lecce dal 4 all’8 giugno 2018. È membro fondatore e presidente dell’Associazione di Promozione Sociale Eleusi di Corsano (Lecce).
Oltre agli studi musicali, ha conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza presso l’Università del Salento e successivamente ha ottenuto l’abilitazione a praticare la professione legale. è stato docente di Pianoforte presso la scuola media di Alessano (Lecce) nell’a.s. 2020/2021.

 

Il salentino Antonio De Viti De Marco e la battaglia antiprotezionista contro la tariffa doganale del 1887

di Michele Eugenio Di Carlo

 

Le tesi meridionaliste del salentino Antonio De Viti De Marco, nato a Lecce il 30 settembre 1858, possono essere ritenute, per alcuni versi, la via di passaggio da un meridionalismo moderato liberale, incarnato da Villari, Franchetti, Sonnino, Fortunato, a un meridionalismo popolare, democratico, rivoluzionario, che con Salvemini, Gramsci, Dorso segnerà lo strappo definitivo dalle pretese antipopolari e autoritarie della monarchica sabauda e dalla gestione illiberale dei governi conservatori dei primi quarant’anni unitari. Il transito quindi da un meridionalismo critico, ma piantato nell’alveo di governi fedeli alla monarchica sabauda dai labili e, spesso inapplicabili, principi di democrazia liberale, a un meridionalismo di rottura che prevedeva il netto superamento della monarchia e indicava la via di una nuova forma di gestione del paese, democratica, repubblicana, partecipata dalle masse popolari.

De Viti De Marco è sostanzialmente un liberaldemocratico, tanto che aderisce nel 1904, insieme a Francesco Saverio Nitti, al neonato Partito Radicale Italiano, l’ala più moderata e liberale della Sinistra non trasformista. Dal punto di vista economico è stato uno dei maggiori liberisti ed è in questa veste che sviluppa la sua polemica contro la tariffa doganale protezionista del 1887. Da questo punto di vista imposta il suo meridionalismo, portando avanti per primo la tesi che la protezione degli interessi industriali del Nord ha danneggiato irrimediabilmente l’economia e lo sviluppo del Mezzogiorno.

Antonio De Viti De Marco

 

De Viti De Marco, nonostante nella prima fase avesse visto nel fascismo una possibilità concreta di riforme e una barriera contro il pericolo socialista, diventa antifascista appena si rende conto che democrazia e libertà sono a rischio. Nel 1931 è uno dei diciotto docenti universitari che rifiuta, perdendo la cattedra, di prestare giuramento di fedeltà al regime fascista come previsto dal decreto regio n. 1227 del 28 agosto 1931.

Il salentino, nato in una famiglia di grandi proprietari terrieri di origini nobiliari, consegue la laurea in Giurisprudenza a Roma nel 1881 e, passando per le università di Camerino, Macerata e Pavia, giunge ad ottenere la cattedra di Scienze delle finanze nel 1887 proprio nella Capitale. Nel 1890, insieme ai fedeli amici economisti Maffeo Pantaleoni, conosciuto durante gli studi universitari, e Ugo Mazzola, acquisisce la maggioranza azionaria della nota rivista accademica “Giornale degli economisti”, diventandone condirettore.

De Viti De Marco non usa mezzi termini per contestare la tariffa doganale del 1887, posta a tutela degli interessi delle piccole e nascenti industrie del Nord, a discapito del mondo agricolo meridionale. Diventa sicuramente il capostipite della campagna antiprotezionista e del liberalismo economico, tanto che già nel 1891 pubblica sul “Giornale degli economisti” un articolo che precisa le sue posizioni denunciando un protezionismo che altera il corso dello sviluppo economico incentivando una politica che sacrifica il mondo agricolo più produttivo. Come rivela chiaramente lo storico Rosario Villari, riprendendo l’articolo dell’economista salentino, il protezionismo «devia i capitali e le energie dai settori più produttivi, instaura un rapporto privilegiato e parassitario tra produttori e consumatori nocivo alla vita economica e politica; aggrava e rende permanente, in particolare, lo squilibrio tra Nord e Sud»[i].

La tariffa protezionista del 1887, votata a larga maggioranza in Parlamento, aveva garantito con il dazio sul grano il silenzio e la complicità dei grandi proprietari latifondisti, ma aveva determinato un forte contrasto con gli altri comparti agricoli più intensivi e produttivi, innanzitutto con il settore della viticoltura, le cui esportazioni con la Francia erano entrate in una profonda e irrisolvibile in crisi.

 

Per De Viti De Marco, che considera e condivide quanto scrive il direttore del “Giornale degli economisti”, Ugo Mazzola, sul «connubio tra protezionisti industriali e agrari»[ii], il dazio sul grano è «il prezzo che i così detti ceti agrari, auspici gli on. Branca e Salandra» avevano ricevuto in cambio dell’appoggio ai «dazi industriali propugnati dagli on. Ellena e Luzzatti»[iii]. Ma i dazi sul grano e sul riso, secondo l’intellettuale pugliese, erano inefficaci, in quanto la produzione di grano e riso era quasi sempre sufficiente al consumo interno, mentre la chiusura del mercato francese causato dalla tariffa doganale aveva comportato la caduta innaturale dei prezzi di olio e vino. Inoltre, l’applicazione della tariffa aumentava i prezzi dei manufatti prodotti in regime protetto dalle industrie del Nord che andavano a gravare soprattutto sul Mezzogiorno, oltre che sulle entrate dello Stato; infatti, «i produttori di grano, di olio, di vino, di riso, di bestiame, ecc., videro a un tratto falcidiato il loro reddito non solo in ragione della caduta dei prezzi agricoli, ai quali vendevano i loro prodotti, ma ancora in ragione dei prezzi industriali, ai quali compravano!». Per De Viti De Marco queste erano le due cause della «depressione economica cronica dell’Italia meridionale. L’una dovuta al protezionismo francese, l’altra al protezionismo italiano». Per l’economista salentino non vi erano dubbi: i maggiori prezzi dei manufatti industriali nazionali erano dovuti ai costi di produzione non competitivi di un’industria nazionale che riteneva poco produttiva. Le tariffe doganali avevano deviato «il capitale e il lavoro dagl’investimenti più fruttiferi», diminuendo complessivamente «la produzione nazionale e quindi la ricchezza privata del paese», da cui derivavano le entrate pubbliche[iv].

L’Italia dei primi anni del Novecento – l’economista salentino veniva eletto in Parlamento nel 1901, rimanendoci quasi ininterrottamente fino all’avvento del fascismo – aveva appena superato il tragico ultimo decennio dell’Ottocento, tra conflitti sociali e risoluti tentativi repressivi e autoritari dello Stato. Le organizzazioni dei lavoratori si erano notevolmente rafforzate: nel 1891 nasceva a Milano la prima Camera del lavoro con funzioni di assistenza, tutela e rappresentanza, nel 1892 a Genova veniva fondato il Partito dei lavoratori italiani, dal 1895 Partito socialista. Francesco Crispi, l’ex garibaldino già capo del governo dal 1887 al 1891, oltre alla svolta protezionistica, si era decisamente orientato in direzione di prospettive politiche imperialistiche e colonialiste nell’intesa di rafforzare il blocco industriale-agrario dominante, concedendo il minimo possibile alle masse subalterne in termini di legislazione sociale. Tornato al governo nel 1893, dopo le brevi parentesi al governo del marchese Antonio Starabba di Rudinì (1891-1892) e di Antonio Giolitti (1892-1893), diversamente dalla moderazione di quest’ultimo nell’affrontare i conflitti sociali, Crispi si scagliava con violenza estrema contro il movimento dei fasci siciliani proclamando lo stato d’assedio in Sicilia, come in Lunigiana, e affidando la risoluzione del conflitto alla repressione militare e poliziesca. In perfetta continuità con la legge sulla pubblica sicurezza varata nel 1889, che prevedeva misure di limitazione della libertà quali la sorveglianza speciale e il domicilio coatto, oltre che restrizioni nell’ambito della possibilità di riunirsi e di esprimere opinioni, nel 1894, il governo Crispi emetteva provvedimenti contro le associazioni anarchiche e metteva in atto lo scioglimento del Partito dei lavoratori italiani e delle associazioni operaie. L’ex garibaldino era costretto alle dimissioni nel 1896, a seguito della sconfitta militare di Adua, orma indelebile del fallimento delle sue politiche imperialistiche. Tornava a capo del governo di Rudinì, il quale, scoppiati nel 1898 tumulti in tutta Italia generati dal malcontento popolare e dall’aumento del prezzo del pane, consegnava, in maggio a Milano, al generale Fiorenzo Bava Beccaris la facoltà di reprimere col sangue i tumulti, lasciando sul selciato centinaia di morti e feriti e portando davanti ai tribunali militari migliaia di contestatori. Niente affatto soddisfatti, prima di Rudinì, poi il suo successore Luigi Pelloux da fine 1898, tentavano di far approvare in maniera definitiva le cosiddette leggi liberticide, nonostante la forza delle proteste popolari e l’ostruzionismo dell’opposizione parlamentare dell’Estrema Sinistra (socialisti, repubblicani, radicali). Il tentativo reazionario della Destra si arrenava: a Milano alle amministrative del 1899 veniva eletto il radicale Mussi e alle politiche del 1900 il Partito socialista raddoppiava gli eletti in parlamento rispetto alle precedenti elezioni del 1897. Il 29 luglio a Monza re Umberto I°, che aveva decorato il generale Bava Beccaris per l’eccidio di Milano, veniva assassinato dall’anarchico Gaetano Bresci. Con il governo Zanardelli del 1901 iniziava l’Età giolittiana, più disponibile a trattare i conflitti sociali con gli strumenti della politica e dell’economia[v].

In un noto articolo del 1898[vi], l’economista salentino spiegava le cause delle sommosse, represse con il sangue, con il disinteresse dello Stato verso i lavoratori e i ceti deboli, asfissiati dalle tasse e dal carovita, impoveriti dal protezionismo industriale, minacciati nelle libertà fondamentali, mai loro realmente riconosciute.

Nel 1904, De Viti De Marco incontrava nei banchi del Parlamento, eletto nel suo stesso partito, Francesco Saverio Nitti, il quale con “Nord e Sud” [vii] pubblicato nel 1900 aveva reso noto, studiati i bilanci dello stato dal 1862 al 1896-97, che la ripartizione della spesa pubblica in Italia era stata costantemente discriminante nei riguardi del Mezzogiorno e fondamentalmente tesa allo sviluppo industriale del Nord. Pur condividendo le cause che avevano portato nel giro del primo quarantennio unitario all’enorme divario economico tra le “due Italie”, i due economisti proponevano soluzioni diverse e confliggenti: Nitti, in stretti rapporti con Giolitti, suggeriva un forte impegno statale con leggi speciali volto all’industrializzazione del Mezzogiorno, De Viti De Marco, in sintonia con Fortunato, puntava tutto sull’eliminazione della tariffa doganale e su una riforma fiscale più favorevole all’agricoltura.

La fondazione a Milano, nel marzo del 1904, della Lega antiprotezionista, che metteva insieme socialisti, liberali, repubblicani, radicali e, persino, per poco tempo sindacalisti rivoluzionari, era l’occasione per ribadire posizioni pacifiste contrapposte a un protezionismo sempre più legato a tendenze nazionaliste e imperialiste, oltre che per iniziare una collaborazione con Gaetano Salvemini e Luigi Einaudi, che lo riterrà sempre il “Maestro”.

Lasciato nel 1911 il Partito socialista, Salvemini fondava “L’Unità”, un giornale che avrebbe avuto tra i propri collaboratori le migliori menti dell’epoca: Luigi Einaudi, Edoardo Giretti, Ettore Ciccotti, Gino Luzzatto, Benedetto Croce, Giustino Fortunato, Giovanni Carano Donvito, Umberto Zanotti Bianco, oltre ai giovani Piero Gobetti, Ernesto Rossi, Pietro Calamandrei. Il giornale avrebbe affrontato tutti i temi economici, sociali e politici del secondo decennio del Novecento, dalle questioni tributarie e fiscali alle riforme elettorali, dalla questione meridionale al protezionismo, dalla questione agraria all’emigrazione. De Viti De Marco vi giungeva nel 1912, dopo aver risolto i suoi rapporti con “Il Giornale degli economisti”.

L’attività di De Viti De Marco, culturale nel “Giornale degli economisti” e in numerose collaborazioni, poi politica da deputato, nel 1929, per volontà di Umberto Zanotti Bianco e di Ernesto Rossi, è stata raccolta nel testo “Un trentennio di lotte politiche 1894-1922” [viii].

[i] R. VILLARI (a cura di), Il Sud nella storia d’Italia, vol. 1°. Bari, Laterza § Figli, 1966, p. 199.

[ii] U. MAZZOLA, L’aumento del dazio sul grano, «Giornale degli economisti», a. II, febbraio 1891, pp. 190-198.

[iii] A. DE VITI DE MARCO, Finanza e politica doganale, «Giornale degli economisti», a. II, gennaio 1891.

[iv] Ibidem, ora in R. VILLARI (a cura di), Il Sud nella storia d’Italia, cit., pp. 202-203.

[v] Si veda G. C. JOCTEAU, La lotta politica e i conflitti sociali nell’Italia liberale, in La storia. L’età dell’imperialismo e la I guerra mondiale, vol. 12, Milano, Mondadori, 2007, pp. 304-321.

[vi] A. DE VITI DE MARCO, Le recenti sommosse in Italia. Cause e riforme, «Giornale degli economisti», a. IX, giugno 1998, pp. 517-546.

[vii] F. S. NITTI, Nord e Sud, Torino, Roux e Viarengo,1900.

[viii] A. DE VITI DE MARCO, Un trentennio di lotte politiche (1894-1922), Roma, Collezione di studi meridionali, 1930.

La “mappa di Soleto”: nel contesto geografico delineato dalle fonti narrative antiche

di Nazareno Valente

 

Sebbene vada affievolendosi l’interesse su quella che viene  comunemente chiamata la “Mappa di Soleto”, resta tuttora vivace il dibattito tra chi propende per la sua l’autenticità e chi, invece, la ritiene più uno scherzo riuscito bene.

Il tutto ebbe inizio il 21 agosto 2003 quando, durante una delle campagne annuali di scavi compiuti a Soleto da Thierry Van Compernolle, due operai, impegnati a rimuovere terreno archeologico di risulta, rinvennero un piccolo frammento di cm 5,9 x 2,8 dell’orlo d’un vaso a vernice nera, di probabile produzione attica, su cui era stato inciso il profilo della parte meridionale della penisola salentina1. Da come il disegno è impaginato sul coccio, parrebbe con tutta evidenza che le coste del Basso Salento siano state disposte da nord a sud, contornate nei due opposti litorali dai due mari a noi ampiamente noti, vale a dire lo Ionio ad Ovest e l’Adriatico ad Est. In pratica, in una raffigurazione grafica che, nella sostanza, rispecchia la visione canonica fornita da una qualsivoglia rappresentazione cartografica moderna.

All’interno del profilo risultano comprese dodici località, riportate in gran parte nei loro toponimi abbreviati, mentre all’esterno, parallelamente alla linea di costa occidentale, è tracciata la scritta ΤΑΡΑΣ (Taras), indicante il golfo di Taranto, incisa «sulla ‘mappa’ forse con la funzione di ‘indicatore di direzione’»2.  Di questi tredici toponimi, tre appaiono scritti in alfabeto greco — ΗΥΔΡ (HYDR), ΣΤΥ (STY) e ΤΑΡΑΣ (TARAS) —; due, per diversi motivi, risultano di difficile assegnazione linguistica — ΓΡΑΧΑ (GRAXA) e ΦΙΛ? (PHIL) —; i rimanenti otto potrebbero attribuirsi sia all’orizzonte linguistico indigeno, sia a quello greco — ΒΑΛ (BAL), ΒΑΣ (BAS), ΛΙΚ (LIK), ΛΙΟΣ (LIOS), ΜΙΟΣ (MIOS), ΝΑΡ (NAR), ΟζΑΝ (OZAN), ΣΟΛ (SOL)3.

Non tutti i toponimi presenti sono stati identificati in maniera incontrovertibile, tuttavia anche in questi casi è possibile formulare delle ragionevoli ipotesi di individuazione. Pertanto il riconoscimento con le attuali località potrebbe avvenire secondo lo schema di seguito riportato. ΒΑΛ (BAL): Alezio, ΒΑΣ (BAS): Vaste, ΓΡΑΧΑ (GRAXA): forse Porto Cesareo, ΗΥΔΡ (HYDR): Otranto, ΛΙΚ (LIK): probabilmente Castro, ΛΙΟΣ (LIOS): verosimilmente Leuca, ΜΙΟΣ (MIOS): forse Muro Leccese, ΝΑΡ (NAR): Nardò, ΟζΑΝ (OZAN): Ugento, ΣΟΛ (SOL): Soleto, ΣΤΥ (STY): forse Cavallino, ΤΑΡΑΣ (TARAS): Taranto, ΦΙΛ? (PHIL): forse Rocavecchia.

Il tema su cui verte la controversia non è tanto l’autenticità del coccio, al di sopra di ogni possibile sospetto, quanto piuttosto sulle incisioni su di esso impresse. In particolare le perplessità riguardano il periodo in cui il disegno è stato confezionato. Chi lo dice antico, al pari dell’ostrakon che lo ospita; chi, invece, lo ritiene fatto addirittura poco prima del ritrovamento.

In questa accesa polemica, che si ravviva ogni qualvolta spuntano nuovi elementi di valutazione, emerge tuttavia che gli entusiasmi iniziali manifestati dagli studiosi per il reperto vanno, con il passar del tempo, via via scemando. Lo denota il fatto stesso che sia stato di fatto reso impossibile pubblicare gli atti del convegno di Montpellier, svoltosi nel 2005 per presentare la “mappa”, in quanto molti ricercatori, che s’erano in prima istanza espressi in senso favorevole, non hanno in seguito presentato il testo del loro intervento. Cosa questa usuale, quando si modifica il proprio parere e si vogliono evitare “cantonate” che, se messe per iscritto, rimangono a futura memoria.

Malgrado la mancanza di questa preziosa documentazione, è in ogni caso possibile contare su studi autorevoli condotti sugli aspetti alfabetici ed epigrafici4, su quelli monetari5,  e su quelli archeologici6, da cui sono risultate molte importanti indicazioni. Ad esempio, come rilevato da Mario Lombardo, che «gli elementi desumibili dai caratteri alfabetico-paleografici delle abbreviazioni toponimiche incise sul nostro frammento sembrerebbero deporre … per una datazione entro la seconda metà del V sec. a.C., o al più tardi agli inizi del IV»7 e, soprattutto, che «il quadro complessivo continua ad indurci, in definitiva… ‘a mantenere aperti i problemi’»8.

Un po’ meno equidistante si dimostra Francesco D’Andria il quale, confrontando i siti della “Mappa” con i dati desumibili da una ricerca sul campo, rileva che «l’impressione iniziale è quella della mancanza di corrispondenza tra la realtà archeologica e il dato epigrafico attestato dalla “Mappa”. Infatti proprio il V secolo è caratterizzato da processi di crisi e di destrutturazione in cui il sistema degli insediamenti evapora in una presenza sparsa»9. Anche se poi attenui il suo giudizio facendo presente che, nel contesto di questa trasformazione cui fu soggetta la zona, si possa aver conservato memoria, oltre che dei nuclei centrali, anche di quelli arcaici «poco visibili nella documentazione archeologica»10.

In questa prima fase c’era infatti molta cautela tra gli esperti nel trarre conclusioni sull’autenticità della “mappa”, per tutta una serie di motivi, non certo ultime le circostanze che il rinvenimento del frammento iscritto fosse avvenuto in un regolare scavo archeologico e che, in questioni così dibattute, sia meglio evitare errate valutazioni che possano poi incidere sulla credibilità futura di chi le esprime. Comunque sia, dopo un successivo studio di Mario Lombardo11, su cui mi soffermerò più avanti, sulla “mappa” è calato il silenzio che, in un certo qual modo, ha avuto il potere di accrescere ancor più la curiosità dei non addetti ai lavori.

Ritornando all’articolo di D’Andria, è, a mio avviso, interessante l’approccio avuto dallo studioso nel valutare il documento in termini di corrispondenza con la realtà archeologica. Un metodo di lavoro che forse sarebbe il caso di perseguire nella valutazione della “mappa” pure riguardo ad altri  possibili aspetti.

Fosse pervenuto qualche esempio della cartografia antica o, quantomeno, ci fossero a disposizione maggiori dettagli sulle conoscenze acquisite in campo geografico, si potrebbe adottare lo stesso criterio, verificando, ad esempio, se lo scenario proposto dalla mappa di Soleto risulti coerente con le cognizioni a quel tempo possedute. Purtroppo in carenza di tali informazioni non è possibile desumerlo direttamente, resta però la possibilità di farlo in maniera indiretta, consultando le fonti letterarie antiche. In particolare, ricercando le eventuali annotazioni che danno un’idea dell’eventuale configurazione geografica assegnata alla penisola salentina nel periodo di presunta incisione del disegno sull’ostrakon.

Da un punto di vista grafico è già stato registrato che, in antichità, le mappe non venivano probabilmente stilate da nord a sud, come avviene adesso, né che si usavano puntini per indicare dov’erano collocate le varie località, come fatto invece dall’autore della “mappa”. Tuttavia, nessuno ha indagato sul disegno in sé, vale a dire se la rappresentazione delle coste del Basso Salento sia confacente alla visione che si aveva di esse nel V secolo a.C. Per questo, si cercherà qui di appurarlo, prendendo le cose un po’ alla lontana, considerato che, come già dichiarato, il quadro informativo è alquanto evanescente.

Nel VI secolo a.C., grazie all’intuizione di Anassimandro (VII secolo a.C. – VI secolo a.C.), ad una Terra che l’epica arcaica concepiva priva di profondità e circondata da Oceano, da dove sorgevano e tramontavano il sole e gli altri pianeti, se ne andava sostituendo una che, senza il sostegno di Atlante, poteva galleggiare autonoma nello spazio e, quindi, in teoria raffigurabile graficamente. Non è quindi un caso che il genere letterario del periplo, con il primo apporto manualistico scritto d’aiuto alla navigazione, nasca in quello stesso periodo.

In un’epoca storica in cui le vie marittime risultavano di gran lunga favorite rispetto a quelle di terra, i peripli  fornivano una standardizzata descrizione dei porti greci che s’incontravano in un percorso navale, le cui conoscenze derivavano dalle esperienze di viaggi compiuti nelle aree periferiche ed inesplorate del mondo allora noto. I primi resoconti di cui si ha notizia riguardano l’Atlantico e  l’oceano Indiano che precedono forse di poco quelli che si interessano del Mediterraneo, la cui sistemazione geografica ha le sue basi iniziali nei viaggi commerciali del IX secolo a.C. ma, soprattutto, in quelli della colonizzazione greca del secolo successivo.

Occorre rilevare che la quasi totalità delle colonie greche sceglieva il luogo di stanziamento in prossimità del mare ed era lungo i litorali che di fatto si svilupparono gli insediamenti. Per questo le informazioni sulle principali rotte marine — ed i peripli che indicavano le tappe dei diversi percorsi — costituivano la base conoscitiva indispensabile per chi doveva intraprendere un qualsiasi viaggio.

Oltre ai peripli, circolavano pure quelli che potremmo definire proto-mappamondi, il più antico dei quali era dovuto ad Anassimandro che, a detta di Strabone, Eratostene (III secolo a.C. – II secolo a.C.) considerava il primo autore capace di redigere un «dipinto geografico» («γεωγραφικὸν πίνακα»12). Notizia questa attestata anche da Diogene Laerzio, il quale in più precisava che Anassimandro «fu il primo a disegnare i contorni della terra e del mare e costruì anche una sfera» («καὶ γῆς καὶ θαλάσσης περίμετρον πρῶτος ἔγραψεν, ἀλλὰ καὶ σφαῖραν κατεσκεύασε»13), quindi il primo a disegnare una carta geografica, contenente le linee di costa, ed un mappamondo. Agatemero, un geografo del III secolo d.C., impreziosisce ancor più l’informazione evidenziando che Anassimandro per primo «osò riprodurre la terra abitata su una tavola» («ἐτόλμησε τὴν οἰκουμένην ἐν πίνακι γράψαι»14). E, in questo suo “osò”, sono racchiuse sia la rottura con certi schemi leggendari del periodo arcaico, sia la difficoltà tecnica a raffigurare l’ecumene in maniera calzante con la realtà.

 

Peccato che questo «πίναξ» («pinax», dipinto) — termine, con cui i Greci indicavano in genere la tavoletta per scrivere e far di conto, ma che adoperavano anche per identificare quadri, dipinti e carte geografiche —  di Anassimandro non sia giunto a noi e che tutte le ricostruzioni, basate sui pochi frammenti rimasti di questo autore, non possano fornirne se non dei semplici saggi solo vagamente comparabili con l’originale. Come sottolineato da Agatemero, era in effetti un vero e proprio azzardo, con  le nozioni e gli strumenti allora disponibili, quello di predisporre un mappamondo che riproducesse, sia pure in maniera approssimativa, le linee di coste e le configurazioni dei Paesi conosciuti. E che i pinakes allora circolanti potessero contenere parecchie approssimazioni ed evidenti difetti, lo si evince dalla critica che senza mezzi termini, circa un secolo dopo, Erodoto esprime a riguardo: «Non riesco ad impedirmi di ridere quando vedo che molti hanno già tracciato varie figurazioni della terra» («Γελῶ δὲ ὁρέων γῆς περιόδους γράψαντας πολλοὺς ἤδη»15). Per quanto sia necessario chiarire che lo storico manifestava le sue perplessità più per le opere grafiche in sé, in quanto collegate a schemi geometrici astratti e non all’esperienza, che per gli specifici manufatti.

Non abbiamo modo di appurare sino a qual punto le lamentele di Erodoto siano giustificate, non essendo sopravvissuto nessuno di questi antichi mappamondi. Con tutte le cautele del caso, possiamo farcene una lontana idea unicamente dalle ricostruzioni moderne compiute in base alle poche informazioni superstiti ed ai dati forniti dai peripli. Va inoltre tenuto presente che, constatata la preminente importanza delle rotte marittime rispetto a quelle terrestri, le attenzioni erano più che altro rivolte alle informazioni sull’andamento delle coste e delle distese marine, vissute comunque come complesso di conoscenze derivate in modo empirico dai vari viaggi compiuti con destinazioni e rotte diverse. Le rappresentazioni dello spazio erano di conseguenza condizionate da percezioni concrete ed analitiche riguardanti le singole vie o gli specifici percorsi compiuti, cui però mancava una precisa visione d’assieme. In pratica, tante tessere disparate, appartenenti ad esperienze e scenari diversi, difficilmente collocabili in uno stesso quadro conoscitivo.

Con questi limiti, e sempre con la dovuta cautela, un confronto tra cartografia antica e moderna è invece possibile compierlo usando il rifacimento della carta geografica di Eratostene, che ha ben altra consistenza in quanto compilata in base ad una serie di elementari coordinate geografiche che permettono di tracciarla contando su pochi, ma significativi, elementi comuni. Per quanto la “tavola” di Eratostene sia stata realizzata due secoli dopo la mappa di Soleto e, quindi, si avvalga di ulteriori concetti nel frattempo acquisiti, essa dà una visione geografica molto prossima a quella posseduta dall’ignoto disegnatore soletano e, in definitiva, si dimostra un termine di paragone utile.

La carta di Eratostene resta comunque un rifacimento e può ugualmente indurci in errore, per questo, come già preannunciato, alle informazioni da essa acquisibili si anteporranno quelle desumibili dalle fonti letterarie del tempo, così da avere la disponibilità di più dati e di porsi nelle condizioni di valutare a ragion veduta se il Basso Salento impresso sull’ostrakon rispecchi le conoscenze che si avevano a riguardo tra la fine del V secolo a.C. e l’inizio del secolo successivo. Oppure se, al contrario, presenti qualche elemento che faccia dubitare che il disegno sia contemporaneo al frammento che lo ospita.

Più che sul Salento in sé, le fonti letterarie forniscono maggiori dettagli sui mari che ne bagnavano le coste; analizzando questi si scopre che gli antichi avevano una diversa idea dello Ionio e, soprattutto, dell’Adriatico. L’Adriatico infatti non era vissuto come un mare nel vero senso della parola: al massimo lo si considerava un mare di passaggio tra due terre oppure una generica distesa marina ma, molto più spesso, era ritenuto un golfo. Lo si intuisce dai termini usati dagli autori che non lo definiscono mai «θάλασσα» (thálassa), come si usava per i mari per antonomasia, ma a volte «πόντος» (pόntos), quindi un mare che consentiva il transito tra una sponda ed un’altra, o più raramente «πέλαγος» (pélagos), una generica profondità marina. Più comunemente, però, era denominato «kόλπος» (kόlpos), vale a dire golfo. Oltre alla concezione che fosse prevalentemente un golfo, trovava ampio credito l’opinione che si distribuisse in due distinti bacini che occupavano rispettivamente la parte più remota (il nostro Alto Adriatico) e quella meno distante dalle coste greche (soprattutto il nostro Basso Adriatico).

In epoca arcaica il tratto settentrionale dell’Adriatico era chiamato dai Greci golfo di Crono16, perché il dio Crono rappresentava in sé uno spazio remoto collocato nelle contrade più estreme del mondo allora conosciuto. In seguito divenne golfo di Rea che, essendo moglie di Crono, richiamava probabilmente lo stesso concetto. Infine assunse la denominazione di «Adrías», Adriatico.

Eschilo17 ci svela invece com’era chiamato il tratto di mare che bagnava le coste della penisola salentina. Narrando la storia di Io, la donna amata da Zeus e tramutata da Era in giovenca, il tragediografo lo denomina «Iónios kolpos» (golfo Ionio). Quest’ultimo nome serviva anche ad identificare genericamente tutto l’attuale Adriatico ma in maniera specifica e più spesso indicava solo l’Adriatico centro-meridionale. In definitiva la parte settentrionale aveva una doppia nomenclatura — golfo Ionio o Adriatico — mentre quella centro-meridionale golfo Ionio.

A volte l’Adriatico veniva trattato come mare e, in questo contesto era chiamato mare Ionio, con la locuzione «Iónion pélagos»18, che interessava però soltanto le acque prospicienti le coste a settentrione del Salento per lo più non coinvolte nel tragitto di passaggio tra le due sponde. Mentre, come già riferito, il tratto  di mare che separava il Salento dalle coste greco-albanesi era denominato, «Iónios kόlpos»19 (golfo Ionio). Infine con «Iónios pόros»20Ιόνιος πόρος») si identificava quello che per noi è il Canale d’Otranto, vale a dire il braccio di mare usato quale via marittima per andare da un litorale all’altro dell’Adriatico. Fornisco tali precisazioni perché, salvo non si ricorra al testo originale in greco, le varie traduzioni riportano, a prescindere dall’espressione usata, genericamente “mar Ionio”, rendendo impossibile capire di quale tratto dell’Adriatico l’autore stia effettivamente parlando: se ben a nord del Salento («Iónion pélagos»); se quello antistante il Salento (golfo Ionio, «Iónios kόlpos») o se quello del Canale d’Otranto («Iónios pόros»).

In ogni caso, di là dai nomi utilizzati e dalle generiche traduzioni che non fanno salvi aspetti essenziali invece contenuti nei testi originali, in antichità il Basso Adriatico era ritenuto a tutti gli effetti mare Ionio. Di conseguenza, nel periodo tra il V e IV secolo a.C. in cui dovrebbe essere stata confezionata la mappa di Soleto, era idea comune che la costa orientale del Salento era bagnata dal mar Ionio, così come avveniva per il litorale occidentale. A differenza delle nostre attuali certezze, non c’erano due mari distinti a solcare i fianchi della penisola salentina, ma uno solo. E questo mare era lo Ionio, sia pure nell’accezione di golfo. Non a caso, ad esempio Erodoto, parlando di Apollonia21 — porto dell’Epiro da cui, in alternativa a Durazzo,  si faceva rotta per Brindisi — afferma che è una città situata sul golfo Ionio, perché quel tratto di mare era ai suoi tempi, senza dubbio alcuno, Ionio e non Adriatico

Soltanto nel secolo successivo, e molto lentamente, il nome che aveva contraddistinto sino ad allora unicamente il bacino settentrionale  — «Adrías» —  prese ad identificare anche la restante parte di golfo, e “nacque” così l’Adriatico che tutti conosciamo. Tuttavia tale nuova denominazione non faceva comunque dell’Adriatico, in particolare per la sua parte meridionale, un mare diverso dallo Ionio. Non a caso nel Periplo dello Pseudo-Scilace — databile al IV secolo a.C. — l’autore,  nel trattare della traversata che si faceva per raggiungere Otranto, dopo essersi riferito senza distinzione allo Ionio e all’Adriatico, per timore di confondere il lettore, precisa che Adriatico e Ionio sono la stessa cosa («τὸ δὲ αὐτὸ Ἀδρίας ἐστὶ καὶ Ἰόνιο»22).

Ancora secoli dopo, il geografo Strabone continuava ad affermare che  il golfo Ionio e l’Adriatico hanno la stessa imboccatura (il canale d’Otranto), come dire che il Basso Adriatico era ancora mare Ionio mentre la parte settentrionale era mare Adriatico23. Lo stesso Virgilio, fa dire a Eleno, cui Enea aveva chiesto consiglio, «fuggi le terre e le contrade della riva italica bagnate dalle onde del nostro mare» («terras Italique hanc litoris oram, proxima quae nostri perfunditur aequoris aestus, effuge»24). E, poiché per Eleno il “nostro mare” era lo Ionio e le città da lui elencate si trovavano collocate sia sul litorale adriatico, sia su quello ionico dell’Italia meridionale, anche ai tempi di Virgilio si riteneva che lo Ionio e il Basso Adriatico non fossero mari distinti.

A differenza nostra erano pertanto i due bacini dell’Adriatico, quello settentrionale e quello meridionale, ad essere eventualmente percepiti come mari diversi. C’è infine  da precisare che gli scoliasti chiamavano mar Ionio d’Italia («Iónios pélagos tes Italías»25) il mare che bagnava complessivamente i bacini del Basso Adriatico e dello Ionio delle sponde italiane, per non confonderlo con il mar Ionio del litorale greco.

Morale della favola, in antichità, la penisola salentina non era considerata dai Greci e dai Latini bagnata da due mari differenti, come ci farebbe invece comprendere la mappa di Soleto, ma da un unico mare.

Va peraltro sottolineato che questa non era una mera questione formale, derivante dai diversi idronimi utilizzati ma, all’opposto, rispecchiava un aspetto sostanziale. Alla base di tutto c’è, infatti, una difformità di prospettiva tra un osservatore moderno ed uno di epoca antica che comportava percezioni necessariamente differenti. È quanto in maniera originale ipotizzato da Pietro Janni26, il quale attribuisce le possibili distorsioni rilevabili tra le configurazioni geografiche date nelle due diverse epoche alla circostanza che quella antica raffigura lo spazio del percorso, ossia il tragitto sperimentato al proprio interno, mentre quella moderna lo ritrae osservandolo dall’esterno, per esempio dall’alto o su una carta geografica. Per rendere più comprensibile il concetto, uso un esempio che coinvolge chi fa lunghi percorsi, vale a dire i maratoneti. Come tutti sanno una maratona ha una lunghezza codificata di 42,195 km, misurata con strumenti di precisione da chi l’organizza. Eppure, al traguardo, ogni singolo partecipante riscontra al suo orologio GPS che il tragitto compiuto è superiore  a quella lunghezza, magari anche di due o trecento metri. Il perché è facilmente spiegabile: i maratoneti, muovendosi all’interno del percorso, non sono in grado di seguire la linea ideale che, invece potrebbero individuare se stessero all’esterno, compiendo così traiettorie che fanno loro percorrere più strada. C’è, quindi, uno spazio odologico (ovvero del percorso) che, derivando dall’esperienza di ciascuno, è soggettivo e dà misurazioni non solo diverse ma pure distorte rispetto alla realtà, ed uno spazio oggettivo, teorizzabile in astratto con riscontri reali. Gli antichi viaggiatori non avevano una visione dall’alto ma, come i maratoneti, interna ai tragitti su cui dovevano muoversi e, per questo motivo, non avevano un quadro d’assieme sulle direzioni e sulle rotte da seguire, né perfetta cognizione delle ampiezze e delle forme con cui avevano a che fare.

Si è già evidenziato che ancora ai tempi in cui operava Strabone, quindi tra il I secolo a.C. e I secolo d.C., si riteneva che il Canale d’Otranto fosse l’accesso comune alle coste salentine dello Ionio e dell’Adriatico. In aggiunta è il caso di tener presente che la navigazione avveniva in genere lungo le coste (cabotaggio) e, soltanto se non si poteva fare altrimenti, si affrontava il mare aperto. Per questo le traversate d’alto mare venivano fatte in punti predeterminati in base all’esperienza, così da minimizzare i rischi conseguenti. Per  l’Adriatico il punto più agevole per passare da una sponda all’altra era proprio il Canale d’Otranto che si attraversava compiendo un tragitto che andava all’incirca da est ad ovest. Ed era questa la direzione di navigazione presa da chi, provenendo dalla Grecia, voleva accedere ad entrambi i litorali salentini. Questo faceva percepire a chi percorreva questa rotta che tutte e due le coste — l’adriatica meridionale e quella ionica — si disponessero lungo la stessa direttrice est-ovest di attraversamento del canale. La configurazione della fascia costiera dipendeva così dalla prospettiva marittima, la quale finiva per deformarne la rappresentazione geografica facendo ritenere ai naviganti che il Salento fosse allineato con la direzione del percorso seguito per approdarvi. A conferma di ciò, è significativo che Strabone, parlando dell’Italia, affermi in maniera esplicita che il promontorio degli Iapigi («τῶν Ἰαπύγων ἄκρα»), intendendo quindi proprio il Basso Salento, si estende in senso «laterale» («παρεμπίπτουσα»27), e non, com’è nella realtà in senso verticale. In pratica era opinione diffusa che le coste del Basso Salento avessero un allineamento grosso modo da ovest ad est, e non da nord a sud, come in effetti è. Quindi il suo disegno era ritenuto di fatto traslato di quasi 90° rispetto alla direzione di vero sviluppo.

I rifacimenti della carta geografica di Eratostene ci danno in genere concreta conferma di questo diverso allineamento, rappresentando tutto il Salento di fatto disposto quasi lungo la direzione dei paralleli. E, ancor più esplicita, si dimostra quella ricostruita in base alle indicazioni fornite da Erodoto — che, ricordiamo, era contemporaneo dell’ignoto disegnatore della “mappa” — dove sperone e tacco d’Italia, essendo bagnati dallo stesso mare, sono collocati l’uno in parallelo all’altro.

In conclusione era pacifico convincimento che il Salento meridionale avesse un diverso sviluppo rispetto a quello effettivo e, da questa rappresentazione falsata, derivava pure l’altra errata convinzione che entrambe le coste della penisola salentina  fossero bagnate da un medesimo mare.

In realtà era l’Italia stessa che veniva percepita in modo inesatto. Polibio — ancora nel II secolo a.C.  — la descriveva con una configurazione triangolare («τριγωνοειδοῦς») con base le Alpi e per vertice il capo Cocinto28, attuale punta Stilo, lasciando intendere che tutte le terre ad oriente di questo punto, e quindi anche il Salento, fossero necessariamente fiancheggiate da un solo mare. Ed a evidenziare questa circostanza, lo storico di Megalopoli precisa che Cocinto, da lui denominato il promontorio d’Italia, «separa il Canale di Otranto dal mare di Sicilia»  («διαιρεῖ δὲ τὸν Ἰόνιον πόρον καὶ τὸ Σικελικὸν πέλαγος»29). Successivamente pure Strabone, sebbene conscio che l’Italia non sia assimilabile ad un triangolo, la concepisce tuttavia «racchiusa sui due fianchi dall’Adriatico da una parte, dal mar Tirreno dall’altra» («σφιγγομένη δ´ ἑκατέρωθεν, τῇ μὲν ὑπὸ τοῦ Ἀδρίου τῇ δ´ ὑπὸ τοῦ Τυρρηνικοῦ πελάγους»30). In aggiunta, cercando di equiparare la penisola italica ad una qualche configurazione geometrica, pur riconoscendo che la costa occidentale, vale a dire «quella bagnata dal mar Tirreno e che finisce sullo stretto [di Messina]» («τὴν ἐπὶ τὸν πορθμὸν τελευτῶσαν, κλυζομένην δὲ ὑπὸ τοῦ Τυρρηνικοῦ πελάγους»31), possa considerarsi rettilinea, l’altra — quella orientale adriatica — la dichiara curvilinea («περιφερές»32). Asserendo inoltre che la costiera adriatica s’inarca verso oriente («ἀνατολάς»33), proprio nei pressi del promontorio Iapigio, attuale Capo S. Maria di Leuca, («ἐπὶ τὴν ἄκραν τὴν Ἰαπυγίαν»34).

Se non bastasse è ancor più esplicito quando, riferendosi al Capo Iapigio, narra che il promontorio si estende per grande distanza sul mare in direzione dell’oriente invernale («ὁ σκόπελος, ὃν καλοῦσιν ἄκραν Ἰαπυγίαν, πολὺς ἐκκείμενος εἰς τὸ πέλαγος καὶ τὰς χειμερινὰς ἀνατολάς»35) e si volge poi un po’ verso occidente in direzione del Capo Lacinio36ἐπιστρέφων δέ πως ἐπὶ τὸ Λακίνιον ἀνταῖρον ἀπὸ τῆς ἑσπέρας αὐτῷ»37). Il che rafforza la convinzione che agli occhi degli antichi il Basso Salento era di fatto orientato da ovest verso est e, quindi, con uno sviluppo orizzontale. E questo orientamento, che pare acquisizione comune e del tutto scontata, costituiva la causa principale della supposizione che la penisola salentina non si trovasse tra due mari.

Con buona certezza, si può pertanto affermare che la mappa di Soleto, nel proporre  le coste del Basso Salento disposte in modo evidente da nord a sud, riproduca pari pari la visione attuale e non quella che ne avevano i geografi e gli storici antichi.

Salvo che l’anonimo grafico non precorresse i tempi, tutto ciò invoglia a credere che il disegno contenuto nella “mappa” sia più recente di almeno sei secoli  rispetto all’ostrakon su cui è stato inciso. Infatti, soltanto a partire da Tolomeo, e quindi dal II secolo d.C., si incomincia a diffondere una configurazione del Salento che s’avvicina a quella reale.

L’impressione che se ne trae è che, in definitiva, non c’è corrispondenza tra conoscenze geografiche di quel periodo e disegno ospitato dalla “mappa”. Anzi lo schizzo fatto sull’ostrakon dimostra una qual certa precocità per questa visione moderna della direzione delle coste del Basso Salento e dei mari che lo bagnano.

In definitiva anacronismi che spingono a dubitare che si tratti d’un disegno fatto tra il V ed il IV secolo a.C. e che, al contrario, ci siano elementi consistenti per sospettare che sia stato confezionato in tempi molto più recenti.

In altre parole che potrebbe trattarsi di un falso.

Anche se per motivi del tutto diversi da quelli da me esposti, la stessa tesi è stata prospettata da Mario Lombardo, tornato a discutere della “mappa” in un articolo che ho lasciato appositamente per ultimo perché rappresenta uno dei più recenti ed illustri pareri sulla validità del documento38.

Gli aspetti essenziali che hanno indotto lo studioso ad ipotizzare che la “mappa” sia un falso riguardano la circostanza che «la qualificazione precisa del contesto di rinvenimento non risulti del tutto chiara né univoca»39 e, inoltre, il «problematico rapporto che si lascia cogliere, almeno in tre casi, tra denominazioni toponomastiche» e «ubicazione geografica»40. Il riferimento è alle sequenze toponimiche ΒΑΛ (BAL), ΣΤΥ (STY) e ΓΡΑΧΑ (GRAXA) le quali trovano riscontro solo nelle legende di emissioni monetali da parte di località vicine a Brindisi (rispettivamente Valesio, Stulni e Graxa) e quindi in una zona a nord di quella rappresentata sull’ostrakon.

Su queste basi, Mario Lombardo considera possibile e lecito supporre che la “mappa” «costituisca un falso realizzato da qualcuno che aveva un qualche interesse a rappresentare un’area geografica specifica dell’orizzonte territoriale dell’antica Messapia, quella con al centro Soleto»41 e, in aggiunta, dotato di ampie e svariate conoscenze. E che, in definitiva, la “mappa” possa essere considerata «come espressione di una ‘imposture’ in qualche misura ‘savante’»42.

Quindi una “impostura erudita”, anche se sprovvista, a quanto sembrerebbe, di precise e buone conoscenze degli aspetti cartografici e geografici del mondo antico.

 

Note

[1]In effetti anche le modalità del rinvenimento rappresentano un piccolo giallo, considerato che le versioni ufficiali fornite da chi aveva condotto gli scavi risultano tre e tutte diverse tra loro.

2 M. LOMBARDO, La “Mappa di Soleto”: aspetti epigrafici, in M. LOMBARDO, C. MARANGIO (a cura di), Antiquitas. Scritti di storia antica in onore di Salvatore Alessandrì, Congedo editore, Galatina 2011, p. 206.

3 Ibidem, p.208.

4 Ibidem, pp. 203-212.

5 A. SICILIANO, La cosiddetta “Mappa di Soleto”: aspetti numismatici, in L’indagine e la rima. Studi in onore di Lorenzo Braccesi (Hesperìa 30), L’erma di Bretschneider, Roma 2013, pp. 1253-1288.

6 F. D’ANDRIA, La “mappa di Soleto” nel contesto archeologico e topografico del Salento (V sec. a.C.), in M. LOMBARDO, C. MARANGIO (a cura di), Antiquitas. Scritti di storia antica in onore di Salvatore Alessandrì, Congedo editore, Galatina 2011, p. 57-66.

7 M. LOMBARDO, Cit., p. 209.

8 Ibidem, p. 210; A. SICILIANO, Cit., p. 1283.

9 F. D’ANDRIA, Cit., p.65.

10 Ibidem.

11 M. LOMBARDO, Nuove scoperte e falsi nell’epigrafia greca tra XIX e XXI secolo. Falsi, imposture erudite e scoperte problematiche, in Studi di Antichità 16. Impostures Savantes. Le faux, une autre science de l’antique?, Congedo editore, Galatina 2018, pp. 97-108.

12 STRABONE (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, I 1, 11.

13 DIOGENE LAERZIO (II secolo d.C. – III secolo d.C.), Vite dei filosofi, II 1, 2.

14 AGATEMERO (III secolo d.C.), Geografia, I 1.

15 ERODOTO (V secolo a.C.), Storie, IV 36, 2.

16 APOLLONIO RODIO (III secolo a.C.), Le Argoutiche, IV 327.

17 ESCHILO (VI secolo a.C. – V secolo a.C.), Prometeo incatenato, 837-840.

18 STEFANO BIZANTINO (VI secolo d.C. – …), Ethnica, voce “Πευκέτιοι”, «Πευκέτιοι, ἔθνος περὶ τὸ Ἰόνιον πέλαγος» (Peucezi, popolo che vive sulle coste del mar Ionio).

19 FERECIDE di ATENE (V secolo a.C.), presso DIONISIO di ALICARNASSO (I secolo a.C.), Antichità Romane, I 13, 1;  TUCIDIDE (V secolo a.C. – IV secolo a.C.), La guerra del Peloponneso, VI 44,1; PSEUDO-SCILACE, Periplo (forse IV secolo a.C.), par. 14; EUDOSSO di RODI (III secolo a.C.), presso l’Etimologico Magno, 18.54, voce Adrías; STRABONE, Cit., II 5, 20 – VI 3, 5 – VII 5, 8; APPIANO (I secolo d.C. – II secolo d.C.), Storia Romana, VII 33; DIONE CASSIO (II secolo d.C. – III secolo d.C.), Storia Romana, presso TZETZE, Scoli all’Alessandra di Licofrone, 602.

20 PINDARO (VI secolo a.C.- V secolo a.C.), Ode Nemea IV, vv. 50 – 53; POLIBIO (III secolo a.C. – II secolo a.C.), Storie, II 14, 5; PSEUDO-SCIMNO, Descrizione della terra (II secolo a.C.), v. 361;DIODORO SICULO, (I secolo a.C.), Biblioteca Storica, XVI 5, 3.  C’è da aggiungere a riguardo che, in alternativa alla denominazione di «Iónios pόros», veniva usata quella di «stóma tou Ionίou kólpou» (imboccatura del golfo Ionio). Pertanto, il Canale di Otranto era indicato con due diverse locuzioni.

21 ERODOTO, Cit., IX 92, 3.

22 PSEUDO-SCILACE, Cit., par. 27.

23 STRABONE, Cit., VII 5, 8-9.

24 VIRGILIO (I secolo a.C.), Eneide, III 396-398.

25 Scolii ad APOLLONIO RODIO, Cit., Frg. 4, 308. Si noti che nel suo complesso lo Ionio diventa pélagos, vale a dire “mare aperto”.

26 P. JANNI, La mappa e il periplo. Cartografia antica e spazio odologico, Giorgio Bretschneider, Roma 1984.

27 STRABONE, Cit., II 4, 8.

28 POLIBIO, Cit., II 14, 4 – 5.

29 Ibidem, II 14, 5 – 6.

30 STRABONE, Cit., V 1, 3.

31 Ibidem, V 1, 2.

32 Ibidem.

33 Ibidem.

34 Ibidem.

35 Ibidem, VI 3, 5.

36 Attuale Capo Colonna.

37 Ibidem, VI 3, 5.

38 M. LOMBARDO, Cit, in Studi di Antichità 16, Congedo editore, Galatina 2018, pp. 97-108.

39 Ibidem, p. 102.

40 Ibidem, p. 104.

41 Ibidem, p. 105.

42 Ibidem.

 

Raffaele Marti (1859-1945), un letterato salentino da riscoprire

UN LETTERATO SALENTINO DA RISCOPRIRE: RAFFAELE MARTI. PRIMO CONTRIBUTO BIO-BIBLIOGRAFICO

di Paolo Vincenti

Fratello del più noto Pietro Marti, fu scienziato e letterato di non poco momento. Raffaele Marti nacque a Ruffano nel 1859 da Elena Manno e Pietro. Suoi fratelli accertati: Luigi Antonio, nato nel 1855, Francesco Antonio, nato nel 1856, Maria Domenica Addolorata, nel 1858, Pietro Efrem (che morì dopo 3 mesi) nel 1861, Pietro Luigi, nel 1863[1]. Tuttavia, sappiamo da alcuni fogli autobiografici di Pietro Marti, ritrovati in una biblioteca privata, che erano quindici i fratelli, di cui Pietro, l’ultimo[2]. Fra questi, anche Giuseppe, al quale il poeta Luigi Marti dedica la sua opera, Un eco dal Villaggio (Alla memoria di mio fratello Giuseppe morto giovanissimo vissuto a bastanza per conoscere e patire”), ma su di lui, fino ad ora, alcun riscontro.

La notorietà di Raffaele, probabilmente, fu offuscata da quella di Pietro Marti.[3] Nella prima parte della sua vita, il suo percorso si intreccia strettamente con quello del più illustre fratello, per formazione e per le prime esperienze lavorative. Ma è giunto il momento che anche Raffaele raccolga la messe che i suoi indiscutibili meriti hanno prodotto.

Come i fratelli Pietro e Luigi, anch’egli frequentò il corso primario inferiore e quello superiore, a costo di grandi sacrifici per la madre, per altro vedova. Come i fratelli, fu maestro elementare a Ruffano, e poi a Lecce, dove fondò, insieme a loro, nel 1884, un istituto secondario di istruzione privato, che era uno dei due ginnasi privati leccesi insieme a quello del Padre Argento.[4] Come Pietro, si trasferì a Comacchio, dove insegnò per alcuni anni.

Raffaele, insigne scienziato, doveva godere della stima della comunità scientifica dell’epoca se il grande Cosimo De Giorgi scrive anche una Presentazione della sua opera Golfi di Taranto, Napoli e Valli di Comacchio, definendolo “un benemerito della scienza e della nostra provincia”.[5]Il prof Marti, il matematico insigne, che per tanti anni ha illustrato la scuola, s’appalesa oggi uno scienziato di alto valore”, scrive di lui Don Pasquale Micelli, recensendo l’opera Le coste del Salento su “L’Ordine” (Lecce, 9 maggio 1924), e continua “Il recente lavoro è un insieme armonico di tutto ciò che forma una solida cultura moderna; la Geologia, la Fisica, la Litologia, l’Idrografia, la Flora, la Fauna, la Mineralogia, la Storia, la Preistoria, la Politica, la Letteratura, l’Arte, l’Agraria, la Pesca, ecc. sono trattate con pennellate da maestro”[6].

Nel 1894, pubblica L’acqua conferenza letta nella sala del consiglio comunale di Norcia e Operazioni del calcolo e loro analogia.[7]  Nel 1896, pubblica Golfi di Taranto, Napoli e Valli di Comacchio (loro produzione alimentare),[8]con Presentazione di Cosimo De Giorgi, in cui si occupa della fauna marina nei due golfi tarantino e napoletano e nelle valli di Comacchio: uno studio approfondito sulle specie ittiche che vivono nei tre mari Ionio Adriatico e Tirreno. Inoltre pubblica Elementi di Algebra.[9] Nel 1907, pubblica Dalla P. della Campanella al C. Licosa [10]e, nello stesso anno, Foglie sparse[11]. Nel 1913, dà alle stampe Gli acari o piaghe sociali. Dramma in quattro atti e cinque quadri.[12]Quest’opera viene premiata dalla Reale Accademia Filodrammatica di Palermo nel 1910 e dal Teatro Italiano di Roma il 31 luglio 1911, come opera edificante e di elevata valenza sociale[13].

Lunga fu la collaborazione di Raffaele come pubblicista nelle riviste fondate o dirette dal fratello, l’infaticabile promoter Pietro Marti. Pietro, infatti, diresse, fra gli altri, i periodici “L’Indipendente”, nel 1891, “Il Salotto” di Taranto, nel 1896, “L’avvenire”, di Taranto, nel 1897, e sempre nella città ionica collaborò a “Il lavoro” e “La palestra”; inoltre a Lecce fondò e diresse “La democrazia”, dal 1893 al 1896, poi divenuto “Il corriere salentino”, dal 1902 al 1920, “Fede”, dal 1923 al 1926, “La voce del Salento”, dal 1926 al 1933, per citare solo i più importanti. In particolare, su “La voce del Salento”, Raffaele collaborò con articoli di carattere storico e archeologico e recensioni di libri.[14] Se con Pietro condivideva l’amore per il patrimonio artistico della nostra terra d’Otranto e la necessità di una sua strenua difesa (Pietro fu anche Regio Ispettore ai Monumenti della Provincia di Lecce, dal 1923 al 1929, nonché Direttore della Biblioteca Provinciale “Bernardini”), quindi un interesse di carattere erudito, con l’altro fratello, Luigi, (1855-1911), condivideva l’amore per la poesia e le belle lettere.[15]  Ma, come detto, gli interessi culturali in casa Marti coinvolgevano tutti i fratelli maschi. Infatti, anche Antonio (1856- 1926) fu un letterato.[16]

Raffaele scrive anche diverse commedie, a conferma della poliedricità e della varietà dei suoi interessi, come: Un’ora prima di scuola. Commedia in un atto; Patriottismo. Commedia in un atto; Il ciabattino di Sorrento. Dramma in tre atti; Gli orfani del vecchio impiegato. Queste composizioni, a quel che ci risulta, restano manoscritte e non trovano sbocco editoriale. Non sappiamo neppure se esse siano state rappresentate in teatro ma è certo che vengono fatte circolare in versione manoscritta, se ricevono alcuni premi e menzioni d’onore, come si rende noto nell’opera Le coste del Salento, che riserva una pagina alle “Opere di stampa del Prof. Raffaele Marti”, ossia una sintetica sua bibliografia degli scritti. Ed è appunto del 1924 Le coste del Salento Viaggio illustrativo, per i tipi della Tipografia Conte di Lecce:[17] un excursus storico- letterario fra le coste della penisola salentina, condito anche dalle tante leggende che avvolgono queste contrade. Nella sua nota iniziale, Marti si rivolge “Ai giovani”, invitandoli a trarre profitto da questo suo lavoro di “Geografia fisica, della Fisica terrestre, della Mineralogia, della Geologia, della Paleontologia, della Fauna, dell’Ittiofauna e della Malacologia, della Flora terrestre e marina”. Un programma certo ambizioso, forse troppo, che si propone anche di parlare delle torri, dei castelli, dei villaggi e della varia architettura salentina sparsa fra i due mari Ionio e Adriatico. Occorre però rapportare questo pur vasto programma alle conoscenze del tempo, che erano certo più scarse, per cui certe ricerche apparivano quasi pionieristiche, ed inoltre occorre tener conto dell’intraprendenza con cui taluni eruditi dagli interessi universali quale Marti si aprivano alla conoscenza.  Il libro dimostra di essere molto apprezzato dalla critica. Se ne occupano tutti i giornali locali, da “La Provincia di Lecce” a “Il Nuovo Salento”, da “La Gazzetta di Puglia” a “La Freccia”, periodico di Palermo. “In una sintesi mirabile”, scrive Pasquale Micelli  su “L’Ordine” (Lecce, 9 maggio 1924), “egli ha saputo raccogliere, in poco più di 100 pagine, quanto riguarda la penisola salentina, nella varietà delle coste bagnate dall’Adriatico e dallo Ionio, l’origine, la storia e l’antico splendore delle città sparse su di esse o nell’immediato hinterland, i costumi dei popoli, che la abitano, lo sviluppo intellettuale e commerciale, la natura e la fertilità del terreno […] In tutto il libro si trova mirabilmente concentrato quanto moltissimi scrittori hanno diluito in vari poderosi volumi”[18].“Il libro ci fa tornare alla memoria i magnifici prodotti della letteratura storica e scientifica francese, che tende a popolarizzare l’arte ed il pensiero”, scrive un articolista (probabilmente Pietro Marti) su “Fede” (Lecce, 20 giugno 1924)[19].“Mai mi era capitato di leggere un libro in cui fossero fermate tutte le espressioni del Salento”, sostiene Pietro Camassa sul periodico brindisino “Indipendente” (ottobre 1924), “Vi si parla di mitologia, di preistoria, di letteratura, d’arte, di storia militare, civile, politica, di pesca, di caccia, di industria…”[20].  Gli scrive anche il famoso archeologo Luigi Viola, in una lettera che Marti inserisce nel libro L’estremo Salento, insieme ai giudizi critici di cui stiamo riferendo.[21] Nel 1925 è la volta di Lecce e i suoi dintorni.[22]

Anche questo libro è accolto molto bene dalla critica di settore. Ne scrive “L’Indipendente” di Brindisi (11 luglio 1925) come di un libro molto riuscito e interessante, giudizio condiviso da Nicola Bernardini su “La Provincia di Lecce” del 24 maggio 1925[23]. E sul “Corriere Meridionale” (Lecce, 20 agosto 1925), afferma Francesco D’Elia: “il presente volume del Prof. Marti ha un carattere popolare, in quanto le principali notizie storiche dei luoghi, esposte in forma spicciola, sono fuse insieme con numerose indicazioni delle varie forme di attività cittadina, culturale, artistica, industriale, che crediamo utilissime perché ci dimostrano il progresso raggiunto nella civiltà dei nostri luoghi, e quel migliore avvenire che attendono di raggiungere”[24]. Anche in questo libro, Marti dà cenni di Geografia, idrografia, si occupa di storia e di arte dei principali centri dell’hinterland leccese, come Surbo, San Cataldo, Acaia, Strudà, Pisignano, San Cesario, Monteroni, Novoli, Campi, Trepuzzi, oltre naturalmente al capoluogo di provincia. Nel 1931 esce L’estremo Salento,[25]  con Prefazione di Amilcare Foscarini, il quale afferma che “se i precedenti libri di questo benemerito ed instancabile autore sono riusciti dilettevoli e istruttivi per la generalità dei lettori, quest’ultimo li supera per un maggiore interesse, poiché tratta di una contrada incantevole, lussureggiante, ricca di memorie, di terreni fertilissimi e di prodotti commerciali, cinta da ridenti marine, da stazioni balneari e termo-minerali di eccezionale importanza, poco apprezzata perché poco conosciuta”[26].

Come recita il titolo, l’opera si occupa dell’estrema propaggine del Salento, il Capo di Leuca, ovvero il Promontorio Iapigio, che divide l’Adriatico dallo Ionio. Parte dalla preistoria, citando le fonti greche e latine e passando in rassegna tutte le più svariate e oggi abusate ipotesi sulle origini del nostro popolo. Si occupa della storia antica del Salento, della storia medievale e moderna, delle famiglie gentilizie e dei grandi personaggi del passato, secondo uno schema paludato che se oggi è superato, ai tempi di Marti era ancora in auge e anzi era l’unico metodo storiografico in uso. Si può dunque apprezzare lo sforzo profuso dal Nostro, in questa notevole attività pubblicistica e nel suo impegno nella scoperta e parimenti nella valorizzazione dell’enorme portato culturale di cui è depositaria la terra salentina. Pur essendo uno scienziato, di robusta formazione positivista, Marti fu amato dalla Musa e seppe coltivare generi letterari così diversi con immutata partecipazione.  Ulteriori approfondimenti potranno rendere più nitida una figura così interessante.

Raffaele Marti morì a Lecce il 5.2.1945, all’età di 86 anni.

 

Note

[1] Devo queste e le successive notizie anagrafiche all’amico studioso Vincenzo Vetruccio, il quale ha condensato le sue ricerche sulla famiglia Marti in un “Discorso Su Pietro Marti pronunciato il 19 febbraio 2015 presso la scuola primaria Saverio Lillo” Inedito.

[2] Si tratta di opera inedita, lasciata incompleta e segnalata da Alfredo Calabrese, Le memorie di Pietro Marti, in “Lu lampiune” n.1 Lecce, Grifo, 1992, pp.27-34.

[3] Sulla figura dell’erudito Pietro Marti (1863-1933), storico, giornalista, conferenziere, illustre concittadino di Ruffano, esiste una cospicua bibliografia. Tra gli altri:

Carlo Villani, Scrittori ed artisti pugliesi antichi, moderni e contemporanei, Trani, Vallecchi, 1904, p.578 (nuova edizione Napoli, Morano, 1920, pp-137-138);  Domenico Giusto, Dizionario bio-bibliografico degli scrittori pugliesi (dalla Rivoluzione Francese alla rivoluzione fascista), Bari, Società Editrice Tipografica, 1929, pp.187-188;  Aldo de Bernart, Nel I centenario della nascita di Pietro Marti, in “La Zagaglia”, Lecce, n. 21, 1964, pp.63-64;  Pasquale Sorrenti, Repertorio bibliografico degli scrittori pugliesi contemporanei, Bari, Savarese, 1976, pp.375-376; Ermanno Inguscio, La civica amministrazione di Ruffano (1861-1999). Profilo storico,  Galatina, Congedo Ed., 1999, pp.174-175; Paolo Vincenti, Pietro Marti da Ruffano, in “NuovAlba”, dicembre 2005, Parabita, 2005, pp-17-18; Aldo de Bernart, In margine alla figura di Pietro Marti,  in “NuovAlba”, aprile 2006, Parabita, 2006, p.15;  Ermanno Inguscio, Vanini nel pensiero di Pietro Marti, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie,  n. XX, Lecce, Argo, 2009, pp.137-148;Idem, Pietro Marti direttore di giornali, in “Terra di Leuca. Rivista bimensile d’informazione, storia, cultura e politica”, Tricase, Iride Edizioni, a. VII, n. 39, 2010, p. 6; Idem, L’attività giornalistica di Pietro Marti,  in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie,  n. XXI, Lecce, Argo, 2010-2011, pp.227-234;Idem, Il giornalista Pietro Marti, in “Terra di Leuca. Rivista bimensile d’informazione, storia, cultura e politica”,Tricase, Iride Edizioni, a.VIII, n.40, 2011, p.7;Idem, Liborio Romano e le ragioni del Sud nel periodo postunitario. Il contributo di Pietro Marti sul patriota salentino, in “Risorgimento e Mezzogiorno. Rassegna di studi storici”, n.43-44, dicembre 2011, Bari, Levante Ed., pp.147-161; Idem, Pietro Marti e la cultura salentina. Apologia di Liborio Romano, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie, n. XXII, Lecce, Grifo,2012, pp.164-185;Aldo de Bernart, Cenni sulla figura di Pietro Marti da Ruffano, Memorabilia 35, Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis,2012; Ermanno Inguscio, Pietro Marti, il giornalista, il conferenziere, il polemista, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia, sezione di Maglie, n. XXIII, Lecce, Argo, 2013, pp.40-58; Idem, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013.

[4] Ermanno Inguscio, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013, p.34.

[5] “…imitate questo vostro compagno di studio, che ha scritto il suo libro raccogliendone gli elementi dalla natura vivente e reale […] Fate, fate, fate voi come ha fatto lui, e vi renderete benemeriti, non solo alla scienza, col contributo che darete, ma anche alla nostra provincia”: Cosimo De Giorgi, Prefazione, in Raffaele Marti, Golfi di Taranto, Napoli e Valli di Comacchio (loro produzione alimentare), Lecce, Tip. Lazzaretti, 1896, p.6.)

[6] Giudizi sopra alcune opere del Marti, in Raffaele Marti, L’estremo Salento, Lecce, Stabil. Tipografico F.Scorrano e co., 1931, pp.8-9.

[7] Raffaele Marti, L’acqua conferenza letta nella sala del consiglio comunale di Norcia e Operazioni del calcolo e loro analogia , Lecce,  Tip. Cooperativa, 1894.

[8] Idem, Golfi di Taranto, Napoli e Valli di Comacchio (loro produzione alimentare), Lecce, Tip. Lazzaretti, 1896.

[9] Idem, Elementi di Algebra, Taranto, Tip. Latronico, 1896.

[10] Idem, Dalla P. della Campanella al C. Licosa, Taranto, Tip. Spagnolo, 1907.

[11] Idem, Foglie sparse, Taranto, Tip. Spagnolo, 1907.

[12] Idem, Gli acari o piaghe sociali. Dramma in quattro atti e cinque quadri, Lecce, Tip. Conte, 1913.

[13] Ermanno Inguscio, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013, p.195.

[14] , Ermanno Inguscio, Letteratura arte e storia nel periodico “La voce del Salento”, in Idem, Pietro Marti (1863-1933), op.cit.., pp.149-160.

[15] Luigi, sposato a Pallanza, in provincia di Novara, anch’egli firma de “La voce del Salento”, fu apprezzatissimo poeta e scrittore.  Fra le sue opere, per citare solo qualche titolo: Un eco dal villaggio, Lecce, Stab. Tip. Scipione Ammirato, 1880; Manfredi nella Storia e nella Commedia dell’Alighieri, Lecce, Tipografia Salentina, 1887; Liriche, Lecce, Tipografia Garibaldi, 1889; La verde Apulia, Lecce, Tipografia Salentina, 1889; Napoleone e la Francia nella mente di Foscolo, Pallanza, Tipografia Verzellini, 1891; Un secolo di patriottismo, Pallanza, Tipografia Verzellini, 1891; Il Salento, Taranto, Editore Mazzolino, 1896; Dalle valli alle vette, Milano, La Poligrafica, 1898; ecc. Luigi morì improvvisamente a Salerno nel 1911, all’età di 56 anni.

[16] Fra le opere di Antonio Marti, basti citare: il volume di poesie Povere foglie, Lecce Tip. Editrice Sociale- Carlino, Marti e Cibaria, 1891, e Scritti vari – Novelle e Viaggi, Intra, Tipografia Bertolotti Paolo e Francesco,1893.

[17] Raffaele Marti, Le coste del Salento Viaggio illustrativo, Lecce, Tip. Vincenzo Conte, 1924.

[18] Giudizi sopra alcune opere del Marti, in Raffaele Marti, L’estremo Salento, Lecce, Stabil. Tipografico F.Scorrano e co., 1931, p.8.

[19] Ivi, p.10.

[20] Ivi, p.12.

[21] Ivi, p.11.

[22] Idem, Lecce e suoi dintorni. Borgo Piave, S. Cataldo, Acaia, Merine, S. Donato, S. Cesario ecc., Lecce Tip. Gius. Guido, 1925.

[23] Giudizi sopra alcune opere del Marti, in op.cit., p.14.

[24] Ivi, p.13.

[25] Idem, L’estremo Salento, Lecce, Stabil. Tipografico F.Scorrano e co., 1931.

[26] Amilcare Foscarini, Prefazione, in op.cit., p.3.

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