Il “Romanico fiorito” a Lecce. Una sintesi esplicativa e le sue immagini

di Paolo Marzano*

Questa indagine ha lo scopo di riflettere sull’arte di agire dell’uomo, sulla materia. Egli in effetti, ricerca e sperimenta le diverse espressività che il mondo e il corpo consentono, generando con la sua ‘industria’ artistica, delle ‘serie’ di oggetti che soddisfano quelle soluzioni formali capaci di tradurre i suoi bisogni, evidenziando prima di tutto, il grado della tecnologia adottata per produrli ed essenzialmente confermando come sia sempre più appropriato il metodo ‘multidisciplinare’, d’intervento, proprio quando si tratta di analizzare, come in questo caso, il salto che fa passare una forma da un’arte all’altra.

L’oggetto d’arte ha particolari premure nel far rispettare le condizioni del suo uso in un particolare tempo, mediando di continuo la propria autonomia con l’ambiente esterno che lo ingloba e lo considera. Far mutare il progetto della sua identità sia nella forma e sia per l’uso a cui è destinata, è il compito degli ‘artigiani’ che creano e inventano nuovi ‘assoggettamenti’ tra materiali e tra materiali e luoghi. D’altronde tutta una vasta letteratura coglie dettagliatamente quel valore ‘limite’ tra il profilo dell’oggetto e la sua potenziale propagazione nello spazio; la continua e costante dilatazione o contrazione progettuale, permette all’antiquaria di inventare, vivendo di sorprese e interazioni inattese sulla base delle prevedibili mutazioni che quella particolare materia, sollecitata fino al suo limite, può permettere di creare.

E’ il caso di dire che la proprietà di un ‘manufatto’ artigianale (intendendolo anche come architettura o sistema urbano) si possa affermare come risultato della variante di un ‘modello’ che, sapendo ‘usare’ la materia, ne gestisce la grandezza e permette all’oggetto di “ricollocarsi” tra gli schemi conosciuti e di riferimento, ai quali di certo si rifanno i committenti con l’appoggio della migliore esperienza tecnologica. A questo proposito tra i tanti casi che possiamo individuare nella storia delle arti delle “cose” dell’uomo, ricordiamo l’esempio della cornice di coronamento mistilineo tardogotica che, coinvolse diversi materiali; dai gioielli alle suppellettili, dai mobili alle finiture delle pale d’altare, agli apici di edifici, all’arredo liturgico, impreziosendosi di dorature e contemporaneamente venendo “adottata” per diventare il profilo aggiornato, quindi riconoscibile, della “linea/forma” di quel tempo. Un ‘oggetto’ (linea) garante di sofisticate preziosità che dunque ha fatto salti da un’arte all’altra, ripresentandosi tradotto poi, in altre serie con le dovute varianti, per molte facciate di altrettante chiese e palazzi lungo le rotte europee, nelle diverse latitudini.

Successe anche con i mobili in noce intagliato che pur sulla base della trattatistica italiana seppero modificare la loro competenza assolvendo a compiti del tutto rinnovati. Essi, infatti, vennero ‘riscritti’, riaggiornati e trasformati nelle diverse varianti che dalle Fiandre, alla Spagna, alla Francia fino al Salento e dunque in tutta Europa, confermavano l’importanza del commercio e dei flussi di linguaggi decorativo-figurativi seguendo tendenze ben precise, quasi standardizzate, a conferma di una dotta selezione e controllo di qualità (vedi l’esempio approfondito la facciata del San Domenico di Nardò

La facciata del San Domenico di Nardò. Un aggiornato manifesto di denuncia contro l’eresia (europea) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Adottiamo allora lo stesso metodo di osservazione, di confronto, di ricerca, di studio e verifica, facendone l’obiettivo delle nostre riflessioni ed esaminiamo attentamente quel monumento stra-ordinario, in “romanico fiorito”, della facciata di Santa Croce a Lecce.

Cerchiamo di sommare alla sua riconosciuta peculiarità, data dall’inatteso luminoso impatto plastico-visivo, anche l’origine (ed è questo lo scopo dello studio) della scelta della sua ‘forma’. L’insieme viene letto come una confluenza di elementi accordati dallo stesso suono, costituenti la sua struttura ‘materica’. Mi riferisco all’originaria, molto probabile, componente ‘antiquaria’ che ne rappresenta la matrice generativa e filologica.

Ogni forma per meglio esprimersi ha degli ambiti di riferimento e di ‘competenze’ relative all’ eco delle tante modifiche assorbite che l’hanno poi individuata, tra-dotta (selezionata) e dunque fatta diventare ‘linguaggio’ per quel preciso tempo. Un principio che conosciamo bene e che fonda le sue radici su ottime riflessioni discusse da una vasta letteratura. Invece qui, cercherò di evidenziare a quale probabile tipologia di riferimento appartiene o a quale presumibile forma può essere assimilabile, la facciata di Santa Croce di Lecce, rispetto alla ‘serie’ da me individuata tra le “cose” che l’uomo, il tempo e la tecnologia, in quel periodo avevano già prodotto.

Un’interpretazione (o variazione, ritengo, della serie già esistente) assolutamente di altissimo livello che i nostri scalpellini hanno saputo ‘ri-collocare’, riproponendone la sublime traduzione in pietra di un testo “di ritorno” a favore dell’ampliamento delle possibilità espressive e dell’esperienza umana a contatto del mondo delle ‘cose’. Ancora una volta, come detto in premessa, ‘linee’, poi ‘forme’ e ‘oggetti’ sono capaci di trasportare messaggi utili ad una maggiore conoscenza del potenziale espressivo inserendolo nell’evoluzione della storia utile a spostare ‘artigianalmente’ l’attenzione verso un prodotto/forma che, in-potenza, è gioiello, edificio, città.

Una condizione di gestione progettuale che, sceglie la procedura scultorea ed è capace di regolare ed organizzare un fitto palinsesto di temi, simboli e significati che la Chiesa realizza per meglio comunicare la sua dottrina. Lo scritto non ha la presunzione di scoprire nulla se non individuare l’appartenenza di genere e di serie, di alcuni linguaggi e procedure costruttive, confrontando e verificando come sia meraviglioso il fenomeno della rivelazione delle qualità dell’architettura e quali strumenti preziosi possa usare, per propagarsi e così viaggiare sui territori, spostarsi tra gli oggetti e muoversi fra le cose.

Un dovuto e obbligato allineamento di dati e immagini che ritengo possano aprire ad una possibile alternativa percettiva della nostra realtà monumentale e paesaggistica, verificandone l’interessante profilo d’eccellenza proprio perché derivante da una commistione di lingue e dalle competenze che ne fanno un esempio altamente culturale. Vediamo dunque come funziona l’interessante ‘salto’ concettuale e fisico che permette ad una materia di modificarsi e specializzarsi in altra competenza, mutando funzione, grandezza e la sua stessa intima struttura, aiutandoci così a percepirla per il suo tono e la sua migliore ‘voce’.

Siamo nel periodo delle corti ‘ambulanti’ come quella di Carlo V, per le quali, durante un viaggio (conosciamo bene l’immenso territorio del suo Impero), una volta decisa la sede della sosta e del soggiorno, si prevedeva, nelle sedi adeguate ad ospitare il suo seguito, la possibilità di dislocare le centinaia di persone e di bagagli, arredi e suppellettili, in ambienti non fissi, pur mantenendo un dignitoso e autorevole aspetto. In effetti fu Filippo II che scelse di fermarsi a Madrid. Ricordo che proprio Carlo V prediligeva certi tipi d’armadi a ‘due corpi’ dalla Germania, come gli stipi dall’Italia e molti rappresentanti dei relativi paesi erano in Spagna per questo importante commercio. Da quali materiali e di quali forme e disegni era composto il mobilio? Ecco allora bauli, cassoni, stipi, che il ferro compatta il legno sovrapponendosi con schermature a celle e disegnando alveari di pigne, con punte lanceolate metalliche si salvano gli angoli o con i rombi si inglobano gli spigoli, consolidandosi in grandi cerniere; praticamente il segno considera l’altra sua funzionalità e allora ecco le forme più elaborate delle maniglie, dei pomi d’apertura e delle toppe di serrature tonde, quadre o romboidali poste e adeguate alla ritmata decorazione mudejar. E’ come se la scena esterna della città entrasse in casa sotto forma di modelli della scala di un baule o più bauli posti l’uno sull’altro.

Si alternano blocchi e volumi sovrapposti come fosse un allestimento di piccoli opulenti edifici o di ridimensionati, ‘grandiosi’ palazzi che costituiscono davvero l’arredo di un paesaggio. Una fantastica città/mobilio che contiene facciate-estraibili o ad ante e cassetti, con interi modelli di edifici trasformati in preziosi scrigni. Il mobilio è l’oggetto che definisce la grandezza media proporzionale tra il piccolo gioiello decorato e la città da allestire, per comunicare l’importanza e la potenza dei regnanti, compresa la cultura della gente che vi ci vive e se ne pregia. L’arredo recupera le linee di forza e le “adatta” alla materia secondo l’uso e il desiderio che l’individuo, aspirando ad una vita diversa e sicuramente migliore, sceglierà.

Tra questi particolari mobili, quello che diventò l’elemento caratterizzante gli interni delle case spagnole è il bargueño (piccolo stipo). E’ un pregiato contenitore con anta a ribalta composto al suo interno da diversi piccoli cassetti per conservare denaro, documenti, carte. La caratteristica più importante di questo mobiletto era quella che fondava la sua funzionalità sul contrasto e sulla sorpresa che poteva provocare la decorazione del contenuto una volta aperto.

Poteva contenere scomparti segreti o cassette nascoste difficili da trovare (la tipologia simile ad una cassaforte). Faceva parte del bagaglio di viaggio del conquistatore o del missionario quando si trattava di trasportare effetti amministrativi, diplomatici o personali specialmente nelle spedizioni nel Nuovo Mondo. Oppure faceva bella mostra di sé, con il suo tono ‘aureo’, quando era aperto, nei grandi saloni tra arazzi murali e tappeti.

Lo sportello aperto poggia su due aste estraibili telescopicamente dai lati, decorate alle estremità con una conchiglia che funge da pomo prensile e, aprendolo scopre la splendente serie di cassetti diversamente posizionati. Alternatamente sia nella parte centrale che in quelle laterali sono evidenti, nella maggior parte dei casi, per questo genere di mobile, delle piccole facciate, simili a quelle di piccoli templi architettonici. Tutti questi elementi stilisticamente elaborati, sono formati da piccole placchette sovrapposte in avorio, a volte dipinte con decori floreali e si caratterizzano dall’uso di legno policromo su fondo di velluto rosso o colorato o ancora dai profili dorati.

Ogni piccolo tempio in effetti è un’anta apribile o cassetto estraibile, incorniciato da un fregio scolpito; il tempietto consiste di un ‘portico all’antica’, brevi volute a frontone spezzato poi arrotondato a voluta o orecchia nascono dallo spazio d’intervallo tra le due corrispondenti colonnette inferiori. Lo spazio della toppa della chiave centrale dunque è affiancato da doppie colonnine tortili in osso, che rimanendo staccate dal fondo, offrono un prezioso effetto di rilievo. Seguito da un architrave con spessa trabeazione può anche essere fiancheggiato da placchette in avorio, poggiante su quattro o più colonne di osso tortili, che incorniciano la serratura. Queste a loro volta sono posizionate su appoggi mensole modellate e dorate.

I pomelli dei cassetti molte volte hanno la forma di un guscio Saint-Jacques, in riferimento ai bauli portatili utilizzati dai pellegrini in viaggio verso Compostela. Ricordo che il bargueño rappresentava per molti l’oggetto del desiderio, in quanto arredava da sè intere zone di ambienti interni, infatti era considerato sia un mobile per cerimoniali da parata che veniva mantenuto aperto nelle sontuose sale del palazzo, o una volta chiuso, riproponeva il suo antico significato, un baule da viaggio come è attestato dalle maniglie laterali e dall’imponente dispositivo di serrature. Con l’affilato strumento della ‘variazione di scala’, l’architettura riesce dunque a propagarsi nello spazio con i flussi commerciali e, nel tempo, attecchendo sui territori, soddisfacendo bisogni e desideri.

Le piccole facciate riproposte nei piccoli modelli per le antine del bargueño si svilupparono in tantissime tipologie diverse, appartenenti tutte a quella classicità ‘ri-trattata’ che “tornava” dalla Spagna, ed arrivava nel Viceregno, in Italia o scendendo dal nord, nel meridione, seguendo la direzione adriatica, ad ispirazione per architetti e artigiani, guidati da capitoli o commissioni ecclesiastiche per la composizione di facciate di chiese, conventi, monumenti e altari. Lo scritto conferma ancora una volta come la possibilità del cambiamento di scala degli oggetti, comporti, a seconda della sensibilità, della tecnologia e della cultura di chi li adotta, quell’alchimia della mutazione, risultato dell’azione diretta dell’uomo sulle materie a sua disposizione.

Una fondamentale condivisione di espressività antiquarie che continuando a proporre con diplomazie le sue specifiche potenzialità all’architettura, capace di sostanziarle e coglierne per vocazione naturale, una visione sempre fantastica e sempre possibile del nostro paesaggio. Il bargueño dunque dava il senso di un “tutto possibile”, proprio come nella scoperta di spazi nascosti e luoghi riservati come può esserlo una donna o la propria casa e ancora, il proprio spirito. Il concetto figurato ed evidente della luce dorata come simbolo di purezza, nascosta, meditata, attesa, ma che si rivela, in tutto il suo splendore, aprendo un cupo scrigno, ogni giorno, all’alba di sé.

 

Immagini:

Alcune tipologie di bargueño: il bargueño con taquillón” (stipo con mobile di base) e “bargueño de pie de puente” (stipo con sostegno a ponte decorato ad archetti e colonne). La tipologia di bargueño è presa in esame per lo studio della mia ipotesi di recupero della forma del piccolo tempietto centrale o laterale del registro centrale del mobile, assimilabile alle varianti antiquarie tra le quali è possibile individuare la soluzione compositiva del secondo livello della facciata di Santa Croce a Lecce.

E’ evidente nel secondo livello della basilica, la presenza, come nel bargueño, delle due colonnine laterali che poggiano all’altezza della balaustra aggettante e mensolata. Poi lo spazio quadrato al centro, con l’alta trabeazione e il timpano, ormai inesistente, che non è del tipo spezzato, ma trasformato e ripreso solo come coronamento con orecchie laterali contratte, la cui genesi corrisponde esattamente al vuoto delle colonnette inferiori. Sono tanti i dettagli che coincidono con quella che si rivela come la cultura formale diffusa e sempre più comunicante, esistente nell’immaginario consolidato e ben strutturato da Filippo II e sostenuto dai suoi successori. Infatti, è Filippo III che pone il suo stemma sulla facciata sopra l’ingresso principale di Santa Croce a Lecce; chiaro a questo punto il risultato impreziosito, ma disponibile a trasformazioni, di una cultura potente spagnola tornata da noi, con il suo immaginario figurativo, dopo la sua partenza post-rinascimentale, da trattato. Il bargueño tipico di Salamanca. Una volta aperto mostra il fronte dorato con decorazioni di osso in rilievo che richiama l’impianto dei grandi retabli. I materiali usati sono i più diversificati, alcuni esempi del XVI secolo, hanno una decorazione di intarsio di osso di mucca e legno di noce su plateresco, talvolta manierista. Nel XVII secolo i due stili mudéjar e plateresco sono misti. Generalmente questi mobili sono fatti di noce o noce su legno meno ricco. Ricordo che la tecnica dei ‘mori’ (mussulmani spagnoli), era proprio quella di usare l’intarsio come replica della tecnica del mosaico consistente nell’intarsiare piccoli pezzi di legno pregiato sovrapponendoli ad altri meno pregiati. E dunque l’ebano, l’aloe, il limone o piccoli pezzi di avorio ricoprivano legni più semplici, pur mantenendone alto, il valore artistico. Teniamo presente che artigiani che lavoravano in Spagna per questi mobili erano per la maggior parte moreschi o ebrei molto abili nella lavorazione di legno, cuoio, metallo e benché ricevessero nuove soluzioni decorative, tendenzialmente privilegiavano le soluzioni a nodi, stuccatura a fogliami come rappresentazioni schematiche di vegetali miste talvolta a lettere mussulmane o altra simbologia.

Sostengo da sempre l’importanza di recuperare l’immaginario progettuale e artistico per scoprire e tradurre meglio i “caratteri” delle storie dell’arte, non legati al tempo, ma alla tecnologia artigianale e alle lingue (forme) diverse che la compongono, con attenzione all’approccio alla diversità della materia lavorata.

 

 

Le foto della facciata di Santa Croce sono di Élise Delle Rose.

Le immagini dei dettagli del bargueño sono prese dal Web e sono accessibili scrivendo le parole chiave: “bargueño con taquillón”, “bargueño de pie de puente”, “bargueño di Salamanca”, “bargueño”.

Il testo è una sintesi dell’articolo già pubblicato, con allegate le immagini mancanti: di Paolo Marzano, L’ Impero delle città mobili – Storie di viaggi e di idee, dall’architettura all’antiquaria e ritorno, in “Rassegna Storica del Mezzogiorno, Studi in onore di Alfredo Calabrese”, Organo della “Società Storica di Terra d’Otranto”, Continuazione della “Rivista storica del Mezzogiorno” fondata da Pier Fausto Palumbo, n. 4, Stampa CMYK – Alezio (Le), 2020.

(note e riferimenti bibliografici sono nell’articolo già pubblicato nel 2020)

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Un commento a Il “Romanico fiorito” a Lecce. Una sintesi esplicativa e le sue immagini

  1. Eccellente palingenesi che:ancora lo studio delle diversità architettoniche tra manufatti diversi, porgendoli all’attenzione – allo studio e ricerca – complimenti – mi auguro in seguito di poter dire qualcosa – cordialità sempre

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