Due solenni tirate d’orecchi (la prima di quasi un secolo fa) al letterato neritino Francesco Castrignanò (1857-1938)

di Armando Polito

castrignanò Francesco

Qualcuno, leggendo le prime cinque parole del titolo, si sarà aspettato un prosieguo all’altezza, infarcito di ingiurie e parolacce, come la corrente pratica più o meno giornalistica e televisiva impone per scopi ben diversi dall’interpretazione per quanto è possibile corretta (e urbanamente, lo dico con il massimo rispetto per chi non vive in città) di ciò che istante per istante accade. Sempre quel qualcuno sarà rimasto deluso nel leggere la determinazione temporale delle successive cinque parole, non certo perché fosse chiaro che non potevo essere stato io a tirare le orecchie a Francesco Castrignanò, ma per il fatto che acqua passata non macina più e, se di fronte ad un rimprovero pur non privo di fondamento più o meno tutti reagiamo, se siamo educati, con un’alzata di spalle, senza usare locuzioni in cui la parola finale della proposizione precedente mostra la perdita di s-…, figurarsi quanto può incuriosire l’annunciata, addirittura doppia, tirata d’orecchi fatta tanto tempo  fa. Non è questo un gossip che si rispetti! E poi, Francesco Castrignanò, almeno dalla foto allegata, non sembra che fosse un attore, un cantante, un atleta o qualcuno (stavo per dire, forse più opportunamente … qualcosa) di simile. Infatti era un letterato e, forse m’illudo, le cose per il lettore cambiano. La categoria dei cosiddetti intellettuali non gode, molto spesso a ragione, specialmente ai nostri tempi, di grande considerazione e noi, cosiddetti comuni mortali (sicuramente siamo mortali, ma, se non lo fossimo, ognuno di noi potrebbe discutere per secoli sul comuni), non possiamo rinunziare a quel pizzico di soddisfazione che si prova quando qualche personaggio meritatamente o no in vista viene colto in fallo, soprattutto se quest’ultimo riguarda il campo per il quale e nel quale ha acquisito la notorietà.  Forse, allora, mio unico lettore ancora rimasto, questa è un’occasione da non perdere.

Non ho nulla contro Francesco Castrignanò e l’alta considerazione, che di lui ho mostrato di avere parlandone ripetutamente su questo blog1, non è minimamente cambiata e le due tirate d’orecchi che sto per documentare hanno il solo scopo di scuotere quell’aureola di superiorità che noi stessi poniamo sulla testa di qualcuno un po’ per invidia suscitata dalla consapevolezza dei nostri limiti  o, al contrario, da un’eccessiva autostima.

Comincerò dalla testimonianza di Nicola Vacca (1899-1977), storico salentino (era nato a Squinzano). Una delle sue innumerevoli pubblicazioni riguarda il Libro d’annali de’ successi accaduti nella città di Nardò, una cronaca dal 1632 al 1656, il cui manoscritto autografo sembra perduto, anche se, per fortuna, esistono alcune copie. Nel fare la collazione di quelle a sua conoscenza il Vacca incappò nell’inconveniente che così racconta: Una copia fatta su quella del De Michele, o essa stessa, fu soltanto vista da me, in Nardò presso il Sig. Francesco Castrignanò che non me la volle affidare neanche con deposito cauzionale! È la prima volta che mi succede un fatto simile nel corso – ormai non breve – dei miei studi patri

Non è per giustificare il concittadino, ma è chiaro che per il Castrignanò quel manoscritto, pur se copia, aveva un valore inestimabile, anche se è facile dire, per chi ne è al di fuori, che le ragioni della cultura e della conoscenza non debbono essere prevaricate dalla paura del rischio. Tutt’al più il neritino, anche per evitare  qualsiasi rischio di essere accusato di temere, in un cero senso, la concorrenza7, avrebbe fatto molto meglio a proporre al Vacca di studiare sul posto il manoscritto ospitandolo per il tempo necessario, senza, naturalmente, sorvegliarlo a vista, quasi avesse a che fare non con un cartografo, quale il Vacca in un certo senso pure era, ma con un cartofago …

Non so se il Castrignanò lesse mai quanto appena riportato o come reagì essendone eventualmente venuto a conoscenza anche per via indiretta. Certo è che, se avesse potuto sentirla,  la seconda tirata d’orecchi sarebbe stata avvertita molto dolorosamente, non solo perché coinvolgeva il letterato ma anche per la statura mondiale del suo critio.  Quella tirata d’orecchi non potè sentirla perché era morto quasi vent’anni prima che Gerhard Rohlfs pubblicasse la sua opera ancora oggi fondamentale per chiunque si approcci seriamente, e con la dovuta competenza filologica, allo studio dei dialetti del nostro territorio. Due neritini ebbero l’onore di esservi citati tra le fonti scritte di cui lo studio, oltre quelle orali ricercate personalmente sul campo, si avvalse: Luigi Maria Personè per le sue Etimologie neritine, apparse a puntate sul quindicinale napoletana Giambattista Basile dal 1888 al 1889, e Francesco Castrignanò per il citato Cose nosce e, in particolare, per il vocabolarietto di voci dialettali posto in appendice. Se per il Personè l’unico appunto che si può fare al maestro tedesco è il fatto di aver citato solo il suo primo contributo (lacuna giustificata dalla reperibilità già allora difficile della rivista), pur dando il dovuto risalto ai lemmi in esso trattati, nulla si può obiettare a quanto si legge a proposito del Castrignanò: (il dizionarietto che segue le poesie) è molto incompleto e contiene parecchi errori.

E questa volta osservo che, se il buon Francesco, pur essendo un letterato, non aveva specifiche competenze filologiche, in tempi recenti, molto recenti,  è uscito un vocabolario etimologico del dialetto neritino, in cui la trattazione di moltissimi lemmi, e non solo per quello che riguarda gli etimi, ha scombussolato me e, credo, farebbe sobbalzare le spoglie del Rohfs, anche se posto a decine di km dalla sua tomba …

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/30/gli-affreschi-di-cesare-maccari-a-nardo-visti-con-gli-occhi-del-popolo-e-raccontati-da-un-poeta-dialetta       

2 https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/01/19/la-pazienza-agli-sgoccioli/

3 https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/06/sscercule/

4 Cose nosce, Tipografia neritina, Nardò, 1909 (ristampa Leone, Nardò, 1969)

5 Fiori di neve: versi, Tipografia neritina, Nardò, 1897

In morte di Giuseppe Garibaldi, Tipografia Garibaldi, Lecce, 1882

Antonio Caraccio: cenno biografico-critico,Tipografia Garibaldi, Lecce, 1895

Per il 1° cinquantenario dell’unità d’Italia, Mariano, Galatina, 1911

Un saluto a la R. Scuola tecnica gallipolina ospitata in Nardò, Tipografia Emilio Pignatelli, Nardò, 1913

L’alleanza de’ popoli, Bortone, Lecce, 1915 

Triste novembre, s. n., Nardò, 1921

A proposito del risultato della recente e rifatta graduatoria del concorso alla cattedra di lingua francese presso la scuola pareggiata di Nardò: abbasso il favoritismo, s. n. Nardò, 1921

Patria mia: rime, Vergine, Galatina, 1923

Per le nozze della sig.na Maria Zuccaro di Giacinto con l’avv. sig. Antonio de Mitri, Guido, Lecce, 1923

Il libro degli Acrostici (A’ turisti d’italia), Carrà, Matino, 1926

Lo Czar e il chimico: novella in versi e liriche sacre, Vergine, Galatina, 1926

A Benito Mussolini, Mariano, Galatina, 1928

La storia di Nardò esposta succintamentre, Mariano, Galatina, 19030

L’acquedotto pugliese e il duce: canzone in dialetto, Mariano, Galatina, 1930

Nel solenne ingresso a Castellaneta del suo novello vescovo mons. Francesco Potenza da Nardò, Tipografia R. Antonaci & C., Nardò, 1932

Per l’eccezionale festa a S. Antonio dopo eseguiti in gran parte i restauri della sua Chiesa in Nardò (19 giugno 1932), s. l., s. n., 1932

Nozze Nisio-Giubba, s. n., Nardò, 1933

Omaggio d’un settantenne a Mussolini, Gioffreda, Nardò, 1934

Vesi, Mariano, Galatina, 1935

Tirar dritto, resistere, vincere, Ferrari & C., Palermo, 1935

Ode, Ferrari & C., Palermo, 1935 

Siam tutti eroi, s. n. Nardò, 1936

Acrostici ì: Francesco Castrignanò a un suo concittadino, s. n., Nardò, 1936

6 Nicola Vacca, G. Battista Biscozzi e il suo “Libro d’Annali” in Rinascenza salentina, n. 1,  1936, p.

7 Ricordo, già citato in nota 5, La storia di Nardò esposta succintamente, Mariano, Galatina, 1930

8 Gerhard Rohlfs, Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto). Verlag der Bayer. Akad. d. Wiss., München, 2 volumi (1956-1957)

La pazienza? È agli sgoccioli

di Armando Polito

La menzogna, senza ritegno e ricorrente, contraddistingue le dichiarazioni di coloro che si sono impossessati del nostro destino, senza che la volontà popolare attribuisse loro quello che un tempo era considerato un onore ed un impegno da far tremare anche le persone più adatte ad interpretare quel ruolo, sinonimo di  consapevole e responsabile disponibilità al sacrificio e al servizio. La serie degli esempi eclatanti sarebbe pressoché infinita, perciò mi limiterò a ricordarne solo qualcuno. Un presidente del consiglio con aria da bullo e con un vocabolario degno di un promotore di vendite per anziani con annesso viaggio in pullman e pranzo a prezzi (solo del viaggio e del pranzo …) stracciati, promette che sparirà, politicamente parlando,  se il popolo avrà espresso parere negativo su una riforma da lui ritenuta d’importanza vitale; dopo la batosta, è sparito momentaneamente sì, ma solo per studiare come tornare al più presto in sella. Un ministro dell’economia, lui riconfermato non dico da chi …, ci rompe i timpani (ma, purtroppo anche altro …) mattina, pomeriggio e sera con la favoletta della granitica solidità del sistema bancario italiano e con l’assicurazione che i nostri conti sono a posto, mentre ogni banca mostra l’aspetto e il comportamento di uno zombie e l’Europa (avrà pure i suoi difetti, ma non sarà certo per caso che vi occupiamo, in tutto, compresa la famigerata litania della crescita, meno che per corruzione, l’ultimo posto …) gli tira le orecchie come la maestra all’alunno asinello che mostra di avere seri problemi con l’aritmetica. L’ISTAT dà i numeri, ma solo in senso metaforico … etc. etc.

Metti tutto questo in un quadro complessivo di delinquenza premiata, di onestà e merito umiliati, di corruzione eretta a sistema, d’ignoranza prorompente da tempo e, dunque, ormai sedimentata, di creatività (?) incompetente spacciata per genialità, d’incertezza della pena (anzi della sicurezza d’impunità) e non sarà necessario consultare il mago Otelma (magari invitandolo su una rete RAI con un compenso adeguato alla sua rilevanza sociale)  per sapere quale futuro attende noi e, quel ch’è più grave, i nostri figli e i nipoti, anche se la schiera di quest’ultimi si va riducendo progressivamente per i noti motivi di ordine demografico, da ricondurre anche loro, alla temperie culturale del nostro tempo, che si nutre sostanzialmente, anzi, quasi esclusivamente, di economia.

Più di cento anni fa, precisamente nel 1909,  il neretino Francesco Castrignanò scriveva una poesia, dal titolo Pacenzia, inserita con altre nel volumetto Cose nosce, ristampato, poi, nel 1968 dall’editore Leone di Nardò. Qui ne propongo la lettura con traduzione a fronte in italiano e qualche nota esplicativa in calce per gli amici non salentini, ma anche per qualche conterraneo più o meno giovane che quasi per ineluttabilità storica è condannato, come tutte le generazioni, ma oggi con un processo molto più accelerato, a fare i conti con situazioni per lui inconcepibili o con vocaboli obsoleti.

Per la serie le disgrazie non vengono mai da sole ho avuto poi l’infelice idea di far seguire sul tema un mio componimento con pari numero di strofe ed alternanza di rime e, per l’altra serie me la canto e me la suono, di corredare anche questo di qualche nota. L’idea sarà stata infelice, ma non intendo condannare nessuno all’infelicità, per cui: lettore avvisato mezzo salvato …

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a Corrisponde all’italiano cuneato (in riferimento alla sua forma).

b Voce infantile presente già in greco e in latino.

c https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/03/31/borbottare-meglio-strulicare/

d La variante ciuveddhi, non usata a Nardò, mostra ancor più chiaramente la derivazione dalla locuzione latina qui velles (=chiunque tu voglia). Alla lettera ceddhi significherebbe, dunque, qualcuno ma è sempre usato in frasi di significato negativo (non c’è ceddhi), anche quando, come nella nostra poesia,  il non che accompagna il verbo è sottinteso. L’omofono ceddhi è plurale di ceddhu =uccello) ed è, invece, dal latino tardo aucella, variante del classico avicella, diminutivo di avis.

e Corrisponde all’italiano gleba, che è dal latino gleba(m).

f Alla lettera fatico. Fatiàre e fatìa nel dialetto neretino sono sinonimi, rispettivamente, di lavorare e lavoro. È come se il salentino (quello di una volta …) desse per scontato che il lavoro è impegno fino allo sfinimento (qualcuno, invece, non esiterebbe a parlare di vittimismo …) e in tal senso si può dire che il lavorare stanca di Cesare Pavese è come la scoperta dell’acqua calda.

g Corrisponde, con differenziazione semantica, all’italiano cocci.

h Da in+il francese antico mucier (oggi mucher); trafila *inmucier>*immucier>*imbuccier>‘mbucciare.

i Corrisponde all’italiano letterario giamo.

 


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a Alla lettera: foglie.

b Probabilmente dal napoletano guagnì=piagnucolare, di origine onomatopeica.

c http://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/15/dallo-ntartieni-alla-playstation/

d Da ex (con valore estrattivo) e copulare; alla lettera togliere dall’accoppiamento, quindi scegliere.

e Da in+panna. Quando ci si addormenta è come se si scendesse la panna sugli occhi.

 

 

Credevo di essere stato originale; invece, niente di nuovo sotto il sole di Nardò …

di Armando Polito

Sono trascorse pochissime settimane dalle 12 di venerdì 27 febbraio 2015 (il corsivo lo si capirà dopo) ma solo un delinquente più o meno abituale potrebbe ricordare cosa stesse facendo (non solo lui …) a quell’ora; quello decisamente incallito ricorderebbe pure per associazione (a delinquere …) di idee che la data in corsivo era il termine ultimo del concorso pubblico bandito per assicurare a Nardò città d’arte il suo bravo logo e, anche se la cosa,  provenendo da un delinquente non mi fa piacere, ricorderebbe anche che il sottoscritto aveva in merito fatto una proposta provocatoria il 4 febbraio (sarebbe in grado di dichiarare anche l’ora precisa …) in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/02/04/il-mio-logo-immaginario-per-nardo-citta-darte/.

Non conosco né m’interessa sapere quante sono state le proposte di logo presentate; mi riservo solo di fare, eventualmente, le mie osservazioni quando l’apposita commissione avrà formulato la sua scelta e presentato pubblicamente la creazione vincitrice dei 500 euro.

Nel frattempo debbo recitare il mea culpa cedendo momentaneamente la parola al nostro concittadino Francesco Castrignanò, del quale ho avuto già occasione di presentare parecchie poesie1. Lo faccio oggi con una non tratta, come le altre, da Cose nosce, Leone, Nardò, 1969 ma inserita ne La storia di Nardò esposta succintamente da Francesco Castrignanò, Mariano, Galatina, 19302. Riporto le pagine (49-57) originali, in cui ho sottolineato in rosso le parti che poi ho provveduto a commentare a fronte.

* https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/02/19/20-febbraio-1743-quel-fierissimo-tremuoto/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/02/20/nardo-il-terremoto-del-20-febbraio-1743-in-una-testimonianza-poetica-diretta-o-quasi/

* https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/08/16/lolocausto-di-nardo-un-tributo-doveroso-ai-suoi-martiri-a-363-anni-dalla-loro-tragica-fine/

** https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/11/06/antonio-caraccio-nardo-1630-roma-1702-note-iconografiche/

* http://www.agendaeventi.com/scheda-evento.asp?id=12634 

http://www.positanonews.it/articolo/15628/ispani-salerno-la-ldquo-musica-rdquo-della-banda-la-castellana

Metricamente la poesia è costituita da strofe composte ognuna da cinque endecasillabi a rima variabile (ad esempio: nella prima strofa ABABA, nella seconda ABBCC, nella penultima ABACC,nell’ultima ABABA come nell’iniziale). Come espressamente indicato dall’autore nella nota 1 della pagina iniziale il componimento è tratto dalla raccolta Il libro degli Acrostici: a turisti d’Italia, uscito nel 1929 a Matino per i tipi dei Fratelli Carra: il lettore avrà notato che le lettere iniziali di ogni strofa danno NARDO, l’acrostico, appunto. Tuttavia anch’esso, come già visto per le rime non è perfetto, nel senso che in alcune strofe le lettere iniziali non danno NARDO ma il suo anagramma (ODRAN nelle strofe 16, 20, 21, 22, 23, 24, 26, 34, e 38) Probabilmente nelle intenzioni del Castrignanò Odràn Nardò [udranno (parlare di) Nardò] doveva avere un valore beneaugurante.

Ora, per tornare al titolo e chiudere, l’acrostico è una tecnica di composizione antichissima (se ne rinvengono in alcuni testi sacri babilonesi), dunque il Castrignanò non ha inventato nulla; tanto meno io che proprio in un acrostico avevo condensato il motto per il mio logo-fantasma per Nardò città d’arte. Lo avevo fatto  autonomamente, anche perché della poesia del Castrignanò sono venuto a conoscenza qualche settimana dopo per puro caso, collateralmente ad un’indagine che con l’acrostico, con Nardò e con tutti gli argomenti annessi e connessi non aveva nulla in comune.

Ciò che più mi dà fastidio, però, è che, insieme con l’acrostico, nulla di nuovo viene offerto, per quanto riguarda i contenuti, rispetto al passato stigmatizzato dal mio illustre concittadino nella sua poesia di quasi un secolo fa, dalla realtà odierna di Nardò provocatoriamente messa in risalto dal mio logo.

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1

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/07/13/la-tigre-o-la-calamity-jane-di-nardo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/07/08/ulia-bessu-vorrei-essere/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/07/06/cantine-sociali-cera-chi-piu-di-cento-anni-fa-a-nardo-aveva-le-idee-molto-chiare/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/07/03/un-neretino-a-new-york/https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/26/un-umanista-di-galatone-nel-ricordo-di-un-poeta-di-nardo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/19/linnamorato-imbranato/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/16/quandu-nci-ole-nci-ole-quando-ci-vuole-ci-vuole/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/15/la-scuola-di-cento-anni-fa-vista-da-un-poeta-neretino-con-gli-occhi-di-una-donna-di-nardo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/13/ritorno-al-passato/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/08/una-femminista-neretina-del-primo-novecento/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/04/luomo-e-le-macchine-in-una-poesia-in-dialetto-neretino-di-un-secolo-fa/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/30/gli-affreschi-di-cesare-maccari-a-nardo-visti-con-gli-occhi-del-popolo-e-raccontati-da-un-poeta-dialettale/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/27/una-grande-donna-dellottocento-nella-celebrazione-di-un-poeta-neretino/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/23/meglio-morire-zitella/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/22/studia-bardascia-studia-giovanottoarmando-polito/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/20/lu-pittaci-il-quartiere-di-un-tempo-in-una-poesia-di-altri-tempi/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/13/rusineddha-una-giovane-bagnante-di-cento-anni-fa-a-santa-caterina/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/10/nardo-vista-da-un-poeta-del-primo-novecento-tasse-incluse/

2 La Biblioteca comunale Achille Vergari di Nardò custodisce, oltre a questa, le seguenti altre pubblicazioni del Castrignanò:  Saggio di traduzione de Le orientali di Victor Hugo, Tipografia nazionale, Trani, 1884; Antonio Caraccio: cenno biografico-critico, Tipografia garibaldi, Lecce, 1895); Fiori di neve : versi, Tipografia neritina, Nardò, 1897; Cose nosce, Tipografia neritina, Nardò, 1909 (ristampa, assente nella Vergari, per i tipi di Leone, Nardò, 1969); Patria mia: rime, Vergine, Galatina, (1923?): Il libro degli acrostici: a turisti d’Italia, Fratelli Carra, Matino, 1926; Lo Czar e il chimico: novella in versi e liriche sacre, Vergine, Galatina, (1926?); A Benito Mussolini, Mariano, Galatina, 1928; L’ acquedotto pugliese e il duce : canzone in dialetto neritino, Mariano, Galatina (1930 ?); Versi, Mariano, Galatina, 1935;  Omaggio d’un settantenne a Mussolini : 25 marzo 1934, Gioffreda, Nardò, (1934?).

La storia di Nardò è l’unica opera del Castrignanò reperibile in rete in versione digitale e scaricabile all’indirizzo http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ABRI0333832&teca=MagTeca+-+ICCU. Come risulta dall’immagine che segue è stato digitalizzato proprio l’esemplare custodito a Nardò. Quanto bisognerà aspettare per fruire in rete delle altre opere del Castrignanò, dell’intero patrimonio librario non solo della Vergari ma di tutte le biblioteche d’Italia? Per non parlare degli archivi di Stato …

Nuovi documenti sulla guglia dell’Immacolata di Nardò

guglia di Nardò

di Ugo Di Furia

 

Da sempre gli archivi degli antichi notai rappresentano una fonte indispensabile per ricostruire le vicende relative ad artisti e alle opere da essi realizzate e di cui si era persa memoria, permettendo di individuare momenti importanti delle relative carriere, di valutarne la fortuna critica presso i contemporanei e di ricavare importanti informazioni circa i rapporti con la committenza. Per quanto riguarda poi in particolare gli studi di storia dell’arte nel Mezzogiorno d’Italia, si deve aggiungere il formidabile contributo, probabilmente unico al mondo, fornito dall’Archivio Storico del Banco di Napoli che, con il suo patrimonio quasi intatto di volumi provenienti dai sette Banchi principali del Regno rappresenta, grazie alla registrazione di milioni di documenti di pagamento, una vera e propria miniera di notizie in un arco temporale che va dagli ultimi decenni del XVI fino all’XIX secolo.

Proprio grazie a queste fonti documentarie, recentemente è stato possibile individuare gli autori della statua bronzea dell’Immacolata posta a coronamento della omonima guglia della città di Bitonto[1]. Da uno strumento notarile ritrovato da Gian Giotto Borrelli, datato 2 giugno 1733, scopriamo che il padre Michele Gentile della Compagnia di Gesù su incarico di padre Michele Calamita[2] di Bitonto aveva affidato allo scultore ed orefice napoletano Carlo Schisano[3] il compito di realizzare entro il 10 novembre dello stesso anno una statua di rame di sette palmi d’altezza su disegno di Domenico Antonio Vaccaro[4]. Il compenso, condizionato all’approvazione finale dello stesso Vaccaro, ammontava a 550 ducati. Il ritrovamento anche delle polizze di pagamento emesse dal Banco dei Poveri in numero di sette fra il 3 giugno del 1733 e il 13 gennaio 1734 conferma che tutti i termini del contratto vennero rispettati[5].

Ma tra i vari strumenti di indagine a disposizione degli studiosi, oltre agli archivi e le fonti bibliografiche, vi sono anche gli antichi giornali, già ampiamente diffusi nei secoli XVII e XVIII. Pur essendo non sempre facilmente fruibili in quanto dispersi in modo  lacunoso in varie biblioteche, non solo napoletane, essi rappresentano una fonte meno conosciuta di notizie spesso inedite e di grande importanza per la storia politica ed artistica del Regno di Napoli.

Utilizzati inizialmente soprattutto dai musicologi, solo più di recente sono stati oggetto di attenzione da parte degli storici dell’arte. Un esempio della loro importanza è rappresentato dai notevoli contributi ricavati dai cosiddetti Avvisi di Napoli[6], ancora una volta per lo studio di alcune delle diverse guglie erette per devozione popolare non solo a Napoli, ma anche in varie cittadine campane e pugliesi, nel corso del XVIII secolo[7].

Già nel 1976 Teodoro Fittipaldi traeva dal numero 10 di Avvisi dell’8 febbraio 1746 il giorno in cui veniva posta la prima pietra della guglia dell’Immacolata costruita di fronte alla chiesa del Gesù Nuovo di Napoli su iniziativa di padre Francesco Pepe, i cui lavori vennero solennemente iniziati il 1 febbraio di quell’anno[8]; l’interessante documento correggeva così la data erronea del 7 dicembre 1747 dovuta ad un refuso di Pietro degli Onofri che aveva, fino ad allora, rappresentato l’unica fonte per la datazione dell’avvenimento[9].

Più recentemente, sempre dallo stesso giornale, veniva ricavata la notizia dell’inaugurazione del medesimo monumento avvenuta, in perfetta concordanza con i documenti di pagamento relativi alla sua costruzione, tra il 6 e l’8 dicembre 1754[10].

E ancora da un numero di Avvisi veniamo a conoscenza dell’inaugurazione avvenuta nel mese di agosto del 1738 (probabilmente in occasione della festa patronale) della piccola e meno conosciuta guglia di S. Rocco, eretta nella frazione Penta di Fisciano (in provincia di Salerno)[11].

Ma la notizia più interessante sull’argomento e, per certi versi sorprendente, la ricaviamo dal n. 42 del 16 settembre 1749 del medesimo giornale[12]. Essa fa riferimento ai festeggiamenti celebrati alla presenza del vescovo Francesco Carafa per l’arrivo da Napoli della statua marmorea dell’Immacolata Concezione destinata ad essere posta in cima alla guglia eretta in suo onore nella piazza principale di Nardò.

 

particolare con la statua dell'Immacolata
particolare con la statua dell’Immacolata

 

“Dalla città di Nardò siamo ragguagliati, qualmente erettosi nella Piazza principale di quella un nobile, e magnifico Obelisco, in onore della SS. VERGINE IMMACOLATA di pure limosine spontaneamente offerte, e non richieste; giunse ivi ultimamente da questa Capitale una statua di marmo finissimo di palmi nove della stessa   GRAN VERGINE IMMACOLATA, di eccellente Scoltura, da mettersi nella cima di detto Obelisco. Ricevuta processionalmente in una delle porte della Città da Mons. Vescovo D. Francesco Carafa, e da lui Pontificalmente vestito ancor benedetta fu condotta in trionfo per le principali strade riccamente adobbate, seguita dal Capitolo, Mansionarj, e Clero; coll’intervento ancora degli Ordini Regolari, di tutto il Magistrato, Nobiltà, e Popolo innumerevole tra le pubbliche acclamazioni, e continovi Viva di giubilo, tra le armoniche Melodie di ben concertati istrumenti, e tra un continuo sparo di mortaretti, e fuochi artificiali; e giunti nella pubblica Piazza fu depositata la Statua vicino all’Obelisco, ed intonato il Te Deum in rendimento di grazie si proseguirono le Feste di sparo, ed illuminazioni fino alle molte ore della Notte. Detta Statua è stata scolpita da D. Matteo Bottigliero Scultore Napolitano”[13].

 

L’importanza del documento si fonda principalmente su due dati, fino ad oggi ignoti alla critica.

Il primo è che la statua di marmo posta a coronamento dell’obelisco, costruito interamente in pietra di carparo[14], venne realizzata dal napoletano Matteo Bottigliero[15], allievo di Lorenzo Vaccaro nonché figura fondamentale nel panorama artistico napoletano di metà del XVIII secolo, negli stessi anni in cui lo scultore lavorava insieme a Francesco Pagano alla decorazione marmorea della Guglia dell’Immacolata di Napoli[16]. L’artista aveva inoltre già operato in Puglia cinque anni prima per la cattedrale di S. Eustachio ad Acquaviva delle Fonti, come attesta un documento di pagamento emesso dal Banco dello Spirito Santo il 18 luglio 1744 ritrovato da Eduardo Nappi[17], grazie al quale si trae che lo scultore riceve da tal Francesco Molignani, 235 ducati per l’esecuzione, su disegno del pittore Nicola Maria Rossi, delle statue marmoree di Santa Theopista (moglie di S. Eustachio) e dei due suoi figli; la suddetta somma, da corrispondersi solo dopo giudizio favorevole dello stesso Nicola Maria Rossi[18], comprendeva anche il loro trasporto via mare da Napoli alla marina di Bari. Oltre alle sculture di Acquaviva, è stato ipotizzato da parte di Mimma Pasculli Ferrara, sulla base di considerazioni di carattere stilistico, un possibile intervento del Bottigliero anche per i putti capo altare nelle chiese di Santa Croce a Lecce e di San Domenico a Martano[19].

La seconda notizia, non meno importante della prima, riguarda la datazione del monumento che, per quanto in maniera controversa, veniva fino ad oggi ritenuta dalla maggior parte degli studiosi di epoca successiva alla guglia napoletana dell’Immacolata (i cui lavori si conclusero come già si è detto in precedenza nel 1754) sulla base di un resoconto del vescovo Luigi Vetta sui festeggiamenti celebrati a Nardò l’8 dicembre 1854, in occasione dell’introduzione da parte di Pio IX del dogma dell’Immacolata Concezione; questi infatti affermava che in quei giorni “Nella piazza principale faceva vaghissima mostra la guglia, che, innalzata molti anni prima, ad imitazione di quella eretta nel largo della trinità maggiore di Napoli, appariva con un bel disegno illuminata, per gran numero di lumi che splendevano in vetri colorati”[20].

nardò piazza

Per la verità, nonostante l’affermazione del Vetta, che va oggi considerata erronea alla luce dei nuovi elementi a nostra disposizione, i primi autori che si erano occupati del monumento nerentino individuavano nella fine del XVII secolo l’epoca della sua costruzione[21]. In seguito l’unico studioso a dimostrarsi concorde con tale datazione sarà Giuseppe Palumbo che nel 1953 lo definisce «opera del XVII secolo» e ne attribuisce la paternità, sebbene dubitativamente, all’architetto Giovan Bernardino Genoino di Gallipoli, già artefice della cattedrale di Sant’Agata nella sua città natale[22].

Tuttavia nel 1930 Francesco Castrignanò affermerà, senza fornire alcuna prova a sostegno, che la cosiddetta “colonna” venne edificata nel 1769 su iniziativa dell’Abate Francesco Antonio Giulio, sotto il vescovato di Marco Aurelio Petrucelli, come ringraziamento per lo scampato pericolo dal terremoto del 1743[23]. Da questo momento in poi, il 1769 sarà pedissequamente indicato come anno di costruzione della guglia da quasi tutti gli studiosi che ritorneranno successivamente sull’argomento. Fra questi Giovanni Siciliano[24], Michele D’Elia e Luciano Zappegno[25], Pantaleo Ingusci[26], Emilio Mazzarella[27], Benedetto Vetere e Salvatore Micali[28], Mario Manieri Elia[29], Stefano Leopizzi e Giovanni Vernich[30], Mario Mennonna[31], Mimma Pasculli Ferrara[32] ecc. Solo Antonio Castellano nel 1976 posticiperà ulteriormente al 1775 l’anno di costruzione del monumento, anch’egli astenendosi dal riportare prove a supporto di quanto dichiarato [33], mentre Pietro Marti nel 1932 l’aveva definita “opera settecentesca di ornamentazione esuberante fino al delirio”[34].

La data del 1749 riapre anche nuovi scenari circa l’attribuzione dello spettacolare monumento. Se da un punto di vista cronologico la già citata assegnazione a Giovan Bernardino Genoino da parte di Giuseppe Palumbo può essere considerata ancora plausibile, più problematica appare invece l’ipotesi avanzata da Mario Cazzato[35] e sostenuta anche da Mimma Pasculli Ferrara[36], di riferire l’opera all’architetto copertinese Adriano Preite (1724 – 1804) la cui lunga carriera si svolse fra il 1747 e il 1797; facendo i debiti conti dovremmo accettare la difficile anche se non del tutto impossibile eventualità che un’impresa di tale portata fosse stata affidata ad un architetto non ancora venticinquenne e comunque agli inizi della carriera.

La retrodatazione di circa vent’anni della “colonna” nerentina rispetto all’anno 1769 accettato finora come riferimento dalla maggior parte degli studiosi, induce a considerare con maggiore insistenza il possibile coinvolgimento di Ferdinando Sanfelice nel progetto dell’opera. L’importante architetto napoletano, fratello di Antonio, vescovo di Nardò dal 1708 al 1736[37], sarà presente più volte in quegli anni nella città pugliese ridefinendo l’assetto urbanistico dell’area circostante il duomo con una serie di interventi, non solo nella cattedrale, ma anche nei vicini edifici del vescovato e del seminario, nonché nel monastero di Santa Chiara. Non si può escludere quindi, che già prima del terremoto del 1743 sia maturata l’idea di realizzare nel cuore della città un’opera analoga a quella sorta all’inizio degli anni Trenta a Bitonto, il cui duomo, al pari di quello di Nardò, è consacrato alla Vergine Assunta. Un eloquente indizio a sostegno di tale ipotesi, come suggerisce Giovanni De Cupertinis[38], è rappresentato dallo Studio preliminare per una guglia dell’Immacolata, schizzo a penna inserito nel Corpus Sanfeliciano del Gabinetto disegni e stampe del Museo di Capodimonte; il disegno raffigura una struttura a sviluppo verticale che racchiude allo stesso tempo elementi architettonici tipici della guglia e della colonna e che potrebbe essere espressione di un preliminare momento progettuale, poi ampiamente modificato in fase di realizzazione.

Un rinnovato interesse da parte degli studiosi supportato dall’auspicabile ritrovamento di nuovi documenti potranno in futuro fornire una risposta definitiva anche a questo interrogativo.

 

Pubblicato integralmente su Il Delfino e la Mezzaluna n°2.

La Tigre o la Calamity Jane di Nardò?

di Armando Polito

Ebbene, lo confesso, trascorro intere nottate a tentare di dare a qualche mio post un titolo quanto più possibile accattivante, in modo da attrarre il maggior numero di lettori. L’espediente, però, applicato con successo soprattutto da certa (o da ogni tipo di?) stampa, per me potrebbe essere un’arma a doppio taglio, perché, dopo aver dato fondo alle energie migliori (ho in testa una pala eolica e da un’altra parte un pannello solare che ha anche la funzione di nascondere e proteggere le pudenda) per partorire il titolo, rischio di giungere spompato alla stesura del testo e, dunque, di deludere il lettore che, ammaestrato dall’esperienza, la volta successiva diserterà qualsiasi mio post, soprattutto se esso esibisce un titolo strano.

Da qualche tempo a questa parte sto applicando, però, un espediente compensativo, cioè sto facendo scrivere tutto o quasi ad altri e, siccome non sono fesso, le penne di cui mi servo non sono certo quelle di un gallo malandato. Ultimamente, poi, qualcuno se ne sarà pure accorto, mi sto avvalendo della collaborazione (uso questa espressione burocratica  per darmi un minimo di importanza …) del poeta neretino Francesco Castrignanò. Intendo dire che lui ci mette volta per volta  un suo testo, partendo dal quale, poi, io faccio le mie riflessioni. Profonde o meno, queste riflessioni si chiamano commento ad una poesia? Non lo sapevo e riconosco la mia ignoranza. Quel ci mette precedente andrebbe corretto in ci ha messo perché il poeta è morto nel 1939 e io sono nato nel 1945? Valga per l’ignoranza prima riconosciuta, ma questa volta debbo far presente al mio critico interlocutore che anzitutto un poeta non muore mai, mentre muore il suo commentatore, a meno che non sia lui stesso un poeta (calma, non è il mio caso!); in secondo luogo è come se tra il poeta e il tempo fosse stato stilato un contratto in cui l’uno (il poeta) ha già fornito la prestazione e via via i rappresentanti dell’altro (i vari commentatori di ogni epoca) assolvono alla loro che è destinata a non finire mai. Oltre al top commentatore è inevitabile che ci sia pure più di un commentatore di infimo livello (è, rubando ad altri questo gioco di parola, il tap commentatore) che, per riciclare (speriamo che io sappia fare bene almeno questo …) un linguaggio crozzano-briatoresco, andrebbe stoppato. Io ho incorporati, come ho detto, la pala eolica e il pannello solare, ma non il cartello segnaletico adeguato per fermarmi da solo. Nel vostro interesse, che aspettate a farlo? Nell’attesa, continuo …

La poesia di oggi ha come protagonista un’altra insolita (per quei tempi) figura femminile, insomma un maschiaccio. A scherzare con lei ci si brucia e quando gli scherzi, poi, sono di un certo tipo, si può perfino perdere la vita, perché è una che ha il grilletto facile. Tìcara1 (tigre) la definisce il poeta, che dà lo stesso titolo alla poesia, quasi a farne il nomignolo di questa, altrimenti, totalmente anonima donna.

Il Castrignanò ci presenta, dunque, un’altra originale, soprattutto per i suoi tempi, figura femminile e credo che il merito maggiore di Cose nosce, la raccolta del 1906 da cui la poesia è tratta insieme con le altre precedentemente lette, consista proprio nell’attribuire alla poesia il compito di celebrare fatti non convenzionali e personaggi non conformisti. Tìcara incarna perfettamente la contraddizione esistenziale della donna di quel tempo combattuta tra l’obbligo di apparire come un modello di “virtù” e la preclusione della difesa volontaria, all’occorrenza, di quella “sua virtù” che però era un patrimonio gestito unicamente dal marito o dai maschi della famiglia d’origine. Ticara si ribella ed applica a modo “suo”, senza intermediari,  l’istituto giuridico del delitto d’onore, obbrobrio giuridico  e prima ancora culturale, che, com’è noto, sarà abrogato solo nel 1981.

Ora sarà facile a qualcuno dire che Tìcara si era accorta che sotto il suo letto c’era un cozzo (corrispondente maschile di cozza … praticamente il mio sosia), ma, cozzo o non cozzo, questa donna mi attizza perché con le sue faciddhe non mi evoca certamente l’immagine di Caron dimonio, con occhi di bragia …    
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1 Tìcara rispetto all’italiano tigre presenta epentesi di –a– come in cancarena da cancrena. Sull’omografo in uso in altre zone del Salento col significato di vipera vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/11/ipra-vipera-un-pizzico-di-veleno-si-ma-nelletimologia/

2 Oggi a Nardò è in uso fraciddha, che è da facìddha con epentesi di –r– forse per incrocio con brace. Faciddha corrisponde all’italiano letterario facella, diminutivo di face, anch’esso letterario, che è dal latino face(m)=fiaccola.

3 Corrisponde formalmente all’italiano contare, semanticamente a raccontare, con ulteriore generalizzazione del significato (>parlare).

4 Da cutulare, per cui vedi la nota 8 in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/17/sul-termine-naca-la-culla-dei-nostri-avi/

5 Il Rohlfs rinvia a chiasciune, dove si legge: “nei documenti baresi del secolo XI troviamo plaione: è vocabolo introdotto dai longobardi, cfr. il friulano bleón<blaione nei documenti dell’Italia settentrionale del secolo IX; ha la sua origine nel germanico antico blahe e plahe=grossa tela”.

6 Deverbale da scazzicare, per cui vedi  https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/05/07/scazzicare-parente-di-calcio-chi-lavrebbe-mai-detto/

7 Corrispondente all’italiano (in)curiosito, con aggiunta di suffisso con valore intensivo e metatesi cur->cru– che ha agevolato la sincope di –io-.

8 Più vicino al latino abscònditus (participio passato di abscòndere) di quanto non lo sia il corrispondente italiano nascosto, che è da inabscònditum.

 

Cantine sociali? C’era chi più di cento anni fa a Nardò aveva le idee molto chiare.

di Armando Polito

La genialità che gli altri popoli, per quanto a denti stretti (la Merkel, poi, non apre mai bocca per non mostrare neppure quelli), ci riconoscono rappresenta la nostra salvezza ma anche la nostra perdizione. La genialità, infatti, suppone l’individualismo che, nella società globalizzata e nell’estrema parcellizzazione del sapere col conseguente frenetico sviluppo della specializzazione, non si trova a suo agio nell’adattarsi al lavoro di gruppo. Non bisogna, poi, scordarsi del binomio genio-sregolatezza; senza evocare i fumi dell’alcol o di altro o altro, va da sé che il genio per definizione è (e deve essere) sregolato, sia pure nel significato più nobile del termine: senza regole o, più vicino a quello etimologico, lontano dalle regole, da quelle “normali” ma rispettoso di un suo codice morale i cui principi fondamentali non confliggono con i valori che, sia pure solo teoricamente, sono alla base di quelle.

La nostra, scusate la figura etimologica, genetica genialità deve impegnarsi, perciò, ad adattarsi alle nuove sfide senza per questo rinunziare, sarebbe veramente la fine, alla sua creativa originalità. Certo, non è facile, paradossalmente proprio perché ai più fa comodo, ribaltare situazioni consolidate da secoli e liberarsi, per esempio, da quei sentimenti di fatalistica accettazione e rassegnazione che a lungo andare costruiscono il pericolosissimo alibi del vittimismo.

Qualcosa, per esempio, si è mosso in Puglia e nel Salento, in particolare nel settore enogastronomico, sicché oggi i prodotti della nostra terra possono competere tranquillamente con la concorrenza nazionale ed internazionale. In particolare per il vino da decenni, ormai, non siamo più i fornitori di quella materia prima con cui i produttori del resto d’Italia tagliavano, per rinforzarli, i loro deboli vini. Le cantine sociali prima hanno rappresentato un momento di aggregazione e di difesa dei piccoli produttori e singoli imprenditori coraggiosi poi hanno consentito il gran salto. Eppure già nel 1909, cioè quasi trent’anni prima che  fosse fondata la prima cantina sociale a Nardò, c’era , sempre a Nardò, chi si era posto problema e soluzione. E il bello è che costui non era né un agricoltore, né un economista, tanto meno un politico;  era un poeta:  Francesco Castrignanò. E chi sennò? Fa pure rima, ma cominciamo a fare bene i conti. La poesia che ci accingiamo a leggere ha come titolo La Madonna di li Turchi1, il nome di un’edicola (ma Topolino non è in vendita …) oggi periferica, ai tempi del Castrignanò alle porte di Nardò (altra rima …), sulla sinistra dell’incrocio per Leverano per chi viene da Avetrana.

 

 

Il lettore si chiederà che rapporto possa esserci mai tra la Madonna, i Turchi e la cantina sociale, anche se a poca distanza ne venne fondata una successivamente a quella prima ricordata.

Non voglio rovinare tutto anticipando quello che la poesia stessa ci guiderà a scoprire. Vanno dette, però, due cose: la prima è che la cappella venne probabilmente eretta (dopo il  1480, cioè dopo il saccheggio di Taranto, Gallipoli e Otranto?) a seguito di qualche incursione e non necessariamente anche a seguito del rapimento da parte degli incursori di alcune ragazze (riferimento alla Vergine) neretine per rimpolpare (chiedo scusa per l’immagine spudoratamente maschilista …) qualche harem2; la seconda è che i poeti sono i re della metafora. Posso solo anticipare che la Madonna è incolpevole… e passo la parola alla poesia.

Si è compiuto un altro dei miracoli che solo la poesia può fare: riunire in un unico abbraccio il passato, il presente e anticipare il futuro che, nel frattempo, è diventato il nostro presente. Per quanto riguarda, di futuro, il nostro, dato il tema, vale comunque brindare ma intelligentemente (non avevo detto all’inizio che bisogna rimodellare la nostra genetica genialità?), cioè nella misura che consenta per un attimo di tollerare quest’infame presente, più che di dimenticarlo.

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1 Nella seconda edizione di Cose nosce (Leone, Nardò, 1968) è a pag. 11.

2 È questa l’opinione di Giovanni Siciliano in Influssi delle dominazioni sul dialetto di Nardò, in La Zagaglia, anno III, N. 10 (giugno 1961): Nel 1255 si affacciarono i saraceni e nel 1375 in qualche incursione anche i turchi in cerca di fanciulle per il gineceo sultanino, tanto che sulla via per l’Avetrana fu eretta una edicola propiziatrice detta “Madonna dei turchi”. Purtroppo per il 1375 l’autore non cita la fonte.

Non è un caso, poi, che si chiama via Madonna di Costantinopoli quella opposta alla via che porta a Leverano (via Due aie).

3 Vedi

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/25/riflessioni-sulletimologia-di-arneo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/23/le-macchie-darneo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/15/il-paesaggio-dellarneo-attraverso-i-segni-e-i-luoghi-dellacqua/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/13/le-amarene-dellarneo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/04/calcare-e-calcinari-nellarneo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/06/04/arneo-la-maremma-della-puglia/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/08/06/arneotrek-cronaca-di-unescursione-guidata/

4 Per l’etimo vedi la nota 29 in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/28/lunes-dla-marenda-e-pascaredda-torino-chiama-nardo-risponde/

5 Corrisponde all’italiano appesi. Per l’etimo di ‘mpisu vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/11/mpisu-un-participio-passato-attualissimo/

6 Due testimonianze antiche sulla vocazione agricola di Nardò:

Leandro Alberti, Descrittione di tutta Italia, Giaccarelli, Bologna, 1550, pag. 214: …la città di Nardo molt’antica, da Tolomeo detta Neritum, la quale è molto civile, ricca & di popolo ben piena. Tiene un bello vago, & abondante territorio, ornato d’aranzi, limoni et di grande selve d’olivi, & di belle vigne.

Antonio De Ferrariis (Galateo), De situ Japygiae, Perna, Basilea, 1558, pagg. 112-113: Haec urbs in apricis campis aquarum minime indigentibus iacet. Caelum habet saluberrimum, & solum circa urbem non madidum, sed laetum & pingue, & olerum, & frugum supra sidera feracissimum: cunctarum rerum quas terra gignit, satis proveniens (Questa città [Nardò] giace in soleggiati niente affatto poveri di acque. Ha un clima molto salutare e il terreno attorno ad essa non umido ma fertile e grasso e fecondissimo di verdure e di frutti al di là delle stagioni: abbastanza fornito di tutto ciò che la terra fa nascere).

7 Corrisponde all’italiano accattare=chiedere in elemosina, dal latino ad+captare=prendere, intensivo di càpere; la corrispondenza, però, è di natura formale perché qui i ruoli risultano invertiti e il percettore dell’elemosina è il povero venditore di uva …

8 In senso traslato a poco prezzo. Il grano ai tempi del Castrignanò non era più in circolazione da un pezzo. Anche oggi il femminile grana (dal latino grana, neutro plurale di granum=grano) è usato come sinonimo generico di soldi.

9 Pure qui il Catrignanò sembra precorrere i tempi: camorra, ndrangheta e mafia non sono più prerogativa del sud ma nord e centro sembrano aver superato il maestro …

10 Il Rohlfs non propone nessun etimo; secondo me è da s-(dal latino ex)+carza=parte bassa della guancia o alta del collo; carza, sempre nel dialetto salentinoè anche la branchia del pesce e la voce ha dato vita al verbo in uso riflessivo scarzare (sta mmi scarzu=mi sto sgolando). In scarzare la s– (sempre dal latino ex) ha un valore chiaramente privativo (=mi sto privando della gola, della voce); credo che questo valore (l’altro sarebbe quello intensivo, ma è da escludere) valga, sia pur in forma più ridotta, per scarzone (il ceffone non è che faccia scomparire la guancia ma, comunque, la danneggia e, se dato con troppa energia, potrebbe pure compromettere la funzionalità della mascella …).

Un neretino a New York

di Armando Polito

Non è la recensione di una parodia del celebre Un americano a Parigi, il film del 1951 di Vincente Minnelli, che a sua volta mediò il titolo dall’omonimo poema sinfonico di Gershwin, contenuto nella colonna sonora. Eppure, anche qui come lì, il protagonista è un artista, non un pittore o un pianista, ma un poeta il cui nome sarà ormai diventato familiare a quei pochi pazienti lettori che mi hanno fin qui fedelmente seguito nelle mie pazze scorribande.

Per quanto riguarda l’italianità nel mondo  il passato è senz’altro più confortante del presente e minaccia di esserlo, ahi noi!, pure del futuro. Oggi anche la mozzarella ogni tanto appare blu o diossinata, la pizza scongelata e il mandolino non sempre risulta perfettamente accordato …; quanto a ciò che nell’immaginario collettivo di ogni popolo simboleggia la cultura nella sua manifestazione più alta, cioè la poesia, conviene secondo me, e vorrei sbagliarmi!, lasciar perdere il presente, non prefigurarsi un futuro e confortarsi (ma senza reprimere la rabbia che, ormai, è l’unico indizio che siamo vivi …) con qualche episodio del tempo che fu.

È quello che mi accingo a fare con l’aiuto, appunto, di Francesco Castrignanò.

Nella raccolta Cose nosce del 1909 c’è la poesia No mmi fidu e nella seconda edizione del 1969 per i tipi dell’editore Leone di Nardò curata dal figlio di Francesco, Corrado, compare in calce questa nota: N. B. Questa poesia venne pubblicata sull’importante giornale “La Follia” di New York – edizione del 28 settembre 1924. 

Mi riservo di commentare dopo la poesia e sarà questa la parte più originale, si fa per dire, di questo post; ora, invece, mi soffermerò a dare alcune notizie delle quali solo se fossi stato Mandrake avrei avuto conoscenza senza lo stimolo a cercarle che  la lettura di quella nota ha suscitato in me.

La Follia di New York, la cui pubblicazione continua regolarmente tuttora, è la creazione americana di un italiano e per giunta meridionale (e ti pareva …),  precisamente del calabrese Alessandro Sisca, più noto col soprannome di Riccardo Cordiferro.  Lo pseudonimo, ricalcato non senza ironia su Riccardo I d’Inghilterra detto Cuor di Leone, è la conferma che talora non solo i nomi, come dicevano i latini, ma anche i soprannomi, per quanto questi ultimi, in apparente parziale contraddizione, a posteriori …, sono presagi.

immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Alessandro_Sisca.jpg
immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Alessandro_Sisca.jpg

Alessandro, infatti, fu uno spirito radicalmente libero e chi volesse saperne di più sulla sua figura deve solo leggere quanto su di lui è riportato in Amelia Paparazzo, Katia Massara, Marcella Bencivenni, Oscar Greco e Emilia Bruno (è solo un caso che Oscar sia l’unico maschietto della compagnia?), Calabresi sovversivi nel mondo, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro), 2004,  pagg. 84-901.

Qui ci basti sapere (i segmenti in corsivo che seguono sono tratti fedelmente dal saggio appena citato) che Alessandro, che era nato nel 1875 a San Pietro in Guarano  in provincia di Cosenza, dopo le scuole primarie frequentò a Napoli il Collegio di San Raffaele a Materdei ma solo per brevissimo tempo perché ne venne ben presto espulso per le sue idee antireligiose; continuò per conto suo  gli studi, sempre a Napoli, finché nel 1892 emigrò a Pittsburg e l’anno successivo si trasferì a New York dove, alla fine di quello stesso anno, fondò il giornale “La Follia di New York”, un settimanale letterario e umoristico, nel quale egli pubblicava poesie satiriche e articoli polemici contro banchieri disonesti, medici ciarlatani e sedicenti padroni. 

http://www.lestoriedellastoria.it/Riccardo_Cordiferro.html
immagine tratta da http://www.lestoriedellastoria.it/Riccardo_Cordiferro.html

 

Di quanto Napoli fosse nel cuore e nelle corde, anche musicali …, di Alessandro dirò dopo, ma ora è sufficiente far notare come la testata de La Follia di New York sembra essere la figlia americana di quella de La follia che già dal 1877 usciva regolarmente a Napoli e continuò a farlo per un trentennio.

 

immagine tratta da http://www.fotonapoli.it/sancarlino/slides/La%20Follia.%20%20In%20evidenza%20la%20sola%20testata.html
immagine tratta da http://www.fotonapoli.it/sancarlino/slides/La%20Follia.%20%20In%20evidenza%20la%20sola%20testata.html

 

Probabilmente oggi Alessandro sarebbe accusato di populismo, qualunquismo, disimpegno e simili, e sarebbe definito come un Grillo ante litteram. Certo è che “La Follia” fu un giornale molto popolare nelle colonie italo-americane. Secondo un editoriale del 1914, la tiratura del giornale raggiungeva ben quattro milioni di copie.

Altrettanto certo è che il grande successo di Sisca si spiega difatti con il senso di identificazione e di riscatto che il pubblico traeva dalle queste opere [sic] in cui gli oppressori degli immigrati – il boss, il banchiere, il prete – erano inevitabilmente farabutti e imbroglioni mentre il povero lavoratore diveniva il vero e unico eroe.

Io aggiungerei che una parte non trascurabile del successo del settimanale era dovuto ad un fattore sentimental-nostalgico, cioè al fatto che esso era indirizzato ad un target (come oggi dice chi sa parlare …) ben definito, per il quale esso costituiva un sottilissimo ma ancora non reciso cordone ombelicale con la terra d’origine. Credo, perciò, che le poesie dialettali recitassero un ruolo da protagonista e che non venissero pubblicate esclusivamente per l’impegno civile che esse esprimevano; anche perché, se così non fosse, non si comprende assolutamente come del Castrignanò sia stata pubblicata una poesia d’amore (cioè appartenente ad un genere letterario che per comune definizione, secondo me un po’ stupida, soprattutto della critica di sinistra, è stato sempre considerato con sufficienza, in quanto “disimpegnato”) e non una delle numerose che il poeta neretino scrisse  inneggiando ai valori della libertà e dell’onestà.

Molto probabilmente non sapremo mai se e per quali motivi Alessandro scelse proprio questa nel materiale messogli a disposizione o se fu proprio il Castrignanò a fargli quest’unica proposta. D’altra parte va ricordato che nella notorietà del “sovversivo” calabrese un ruolo determinante dovette avere pure il fatto che egli scrisse il testo di parecchie canzoni in dialetto napoletano (era calabrese sì, ma di madre napoletana) e tra queste, nel 1911, quello della celeberrima Core ‘ngrato musicata da Salvatore Cardillo ed ispiratagli, un po’ di gossip storico non fa mai male …, dalla vicenda sentimentale di Enrico Caruso, abbandonato dalla compagna Ada Giacchetti (la Catarì della canzone, che simboleggiava anche la patria lontana e dimentica dell’emigrato). E del celebre tenore Alessandro pubblicò sul settimanale parecchie autocaricature (Caruso era molto bravo nel disegno).

immagine tratta da http://musicofilia.files.wordpress.com/2011/11/caruso-giordano.jpg
immagine tratta da http://musicofilia.files.wordpress.com/2011/11/caruso-giordano.jpg
http://iopera.es/wp-content/uploads/2012/08/img565.jpg
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Strano destino quello che ebbe Core ‘ngrato: nata in America, passò a Napoli (dove fu edita da Ricordi) e poi in tutto il mondo; nel suo piccolo Non mi fidu seguì, invece, lo stesso percorso delle altre canzoni napoletane: nacque in Italia e andò poi in America.

Sappiamo, così, che la poesia neretina a New York sbarcò; è colpa grave se mi piace  immaginare (i sogni sono gratuiti … in tutti e due i sensi che gratuito ha in italiano) pure che, grazie a La Follia di New York e anche se in misura immensamente più modesta rispetto a Core ‘ngrato, sbancò?

Il mondo è piccolo, oggi più che mai grazie soprattutto alla rete. Per questo voglio chiudere questa parte con un appello, sperando che non rimanga inascoltato. Se qualche lettore americano10, magari di origine italiana, ci inviasse le immagini digitalizzate di quel numero fatidico del 28 settembre 1924, farebbe un regalo di valore incommensurabile a me ma, mi permetto di credere, pure al nostro sito e, voglio esagerare, a tutti i lettori neretini e, spingo l’esagerazione al limite estremo, non.

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1 Le pagine sono leggibili, ad eccezione di 86-88, all’indirizzo

http://books.google.it/books?id=UtMYr1FrRNEC&pg=PA85&dq=giornale+la+follia+new+york&hl=it&sa=X&ei=rjHNUeqWEKSD4gSquICAAw&ved=0CDIQ6AEwAA#v=onepage&q=giornale%20la%20follia%20new%20york&f=false

2 Cambio di genere a parte, rispetto all’italiano zanzara la forma dialettale manifesta maggiore fedeltà all’originario latino tardo zinzala(m), voce di origine onomatopeica.

3 Alla lettera corrisponde all’italiano mette. Qui sta in senso riflessivo (si mette a letto, si posa sull’orizzonte). Da notare come il dialettale mente (da mintire, normalmente usato nel dialetto come l’italiano mettere, semanticamente connesso con posare) qui ha lo stesso uso dell’italiano letterario posa per si posa; un solo esempio: Fulvio, qui  posa il mio bel sole, allora (Torquato Tasso, Rime per Lucrezia Bendidio, XI, 1).

4 Potrebbe essere errore di stampa per mena mo!, la locuzione interiettiva attualmente usata e corrispondente all’italiano ora l’hai detta (o menata) grossa!, chi ci crede! e simili.

5 Per l’etimo vedi la nota 29 del post al link

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/28/lunes-dla-marenda-e-pascaredda-torino-chiama-nardo-risponde/

6 Mammone alla lettera è il tonchio delle fave che scava nel legume vere e proprie gallerie; in senso traslato è usato nel significato di pensiero fisso che rode o di cattivo pensiero. In passato veniva evocato come spauracchio per i bambini (corrispondente all’italiano gattomammone con gatto sottinteso). La voce, che a differenza dell’omografo italiano non ha niente a che fare con mamma, è dall’arabo maymun=scimmia.

7 Voce di etimo problematico. Le varianti registrate nel vocabolario del Rohlfs (pappacotu per Seclì, pappacola per Mesagne) non danno nessun aiuto, anche se, trattandosi di un frutto, il primo componente potrebbe essere pappa. In G. A. Pasquale, Catalogo del Real Orto Botanico di Napoli, Stabilimento tipografico Ghio, Napoli, 1867, pag. 7 è nominato un  pruno pappacodo. Che il primo componente sia pappa e il secondo deformazione di godo?

8 Nel mondo contadino il tempo del raccolto, in primis per i proprietari, coincideva con quello del guadagno, anche se in concreto bisognava attendere la vendita del frutto.

9 Alla lettera: non ho fiducia (sottinteso: nelle mie possibilità). Difficile dire se si tratti, nonostante tutto, di avversione al matrimonio o riconoscimento della propria avarizia …

10 Sul sito (http://www.ihrc.umn.edu/research/periodicals/italian.php) dell’Università del Minnesota nella sezione IHRC (Immigration History Researc Center) leggo: La Follia di New York (The New York Folly), New York, NY. Monthly (bi-weekly): 1907-1911, 1914-1924, 1926-1928, 1934-1954. (Microfilm: 1907-1911, 1914-1924, 1926-1928, 1934-1946). Includes English.

 

 

Il Galateo va bene, ma poi De Ferrariis o De Ferraris o De Ferrari?

di Armando Polito

 

Chi, e a Nardò sono in parecchi, ha un cognome in cui compare la preposizione latina De e poi una seconda parola terminante in is potrebbe avere un qualche interesse a leggere questo post in cui non è da ravvisare un’allusione alla sua scarsa educazione. Infatti il Galateo del titolo è solo lo pseudonimo di Antonio De Ferrariis, il famoso umanista di Galatone al quale recentemente ho dedicato la mia attenzione sfruttando una poesia del neretino Francesco Castrignanò.

Perciò proprio su quel De e sul successivo segmento saranno indirizzate le mie riflessioni.

Cognomi come De Ferrariis (e, quindi, trascrivendo per Nardò dall’elenco telefonico 2013-2014, De Bellis, De Benedittis, De Bonis, De Cupertinis, De Franchis, De Laurentis, De Lorensis, De Lorenzis, De Magistris, De Matteis, De Pascalis, De Riccardis, De Rinaldis, De Rubertis, De Santis e De Vitis) sono un nesso latino (preposizione de+ablativo plurale) che nella buona vecchia analisi logica si chiama complemento di origine.

Ne prendo uno a caso (ma l’osservazione vale per tutti): De Benedittis alla lettera va tradotto discendente dai Benedetti; quest’ultima parola l’ho scritta con l’iniziale maiuscola perché siamo già nella fase in cui la voce è diventata nome proprio o parte del cognome. E nella fase precedente? Molto probabilmente la voce valeva come soprannome, come è successo per quasi tutti gli altri cognomi, compreso il mio; e da un primo benedictus si è passati al Benedictus capostipite della serie di Benedicti che, in ricordo dell’avo comune, hanno assunto il cognome De Benedittis. Non sempre, perciò, a mio avviso, il De tradisce, come si è soliti affermare, un’origine nobiliare, anche se non è da escludere che questa patente sia subentrata col tempo.

In parecchi casi, poi, il cognome ha subito una traduzione: si ha così (per continuare col nostro esempio e ricordare chi non sta facendo dormire, più di Ruby Rubacuori, sonni tranquilli a qualcuno …) accanto a De Benedittis (e alla forma ancora più fedele all’originale latino: De Benedictis) De Benedetti che andrebbe scritto più correttamente De’ Benedetti [(della famiglia) dei Benedetti], ma non è il caso di scandalizzarsi perché da lui, poi, è nato Debenedetti. E qui entra in campo il livello culturale e … acustico di chi a suo tempo era addetto all’anagrafe …

Per farla completa spezzo una lancia in favore di chi potrebbe sentirsi menomato (!) perché la seconda parte del suo cognome è in ablativo sì, ma singolare:  (sempre per Nardò) De Braco, De Carlo, De Florio, De Razza, etc. etc.; io non mi angustierei più di tanto perché tutto è opinabile e il fatto che sia prevalente il ricordo diretto del capostipite (al singolare) può significare che la sua memoria si è conservata meno dissimulata da quello della famiglia (al plurale).

Torno ora al nostro Galateo e mi chiedo quale sia la grafia più esatta: De Ferrariis, De Ferraris o De Ferrari?

La prima è quella cronologicamente più antica, mentre la seconda ha cominciato ad alternarsi con essa a partire dal XVIII secolo. Tra le edizioni contemporanee (nella foto una targata BiblioBazaar del 13 novembre 2008) non mancano grafie esilaranti esibite in copertina (da notare non tanto il nome tradotto Antonio de Ferrari quanto, poco prima, Antonio de Ferariis).

 

Comunque sia, il problema non è recente, come dimostra la soluzione “artigianale” adottata nell’edizione leccese (1867-1868) di alcune opere in tre volumi, dei quali riproduco di seguito il frontespizio:

 

 

Il lettore noterà come (si direbbe successivamente alla stampa, perciò ho definito artigianale la soluzione) due parentesi tonde consentono di passare dal cognome latino (De Ferrariis) alla sua traduzione in italiano (De Ferrari).

Ho detto prima che la variante più antica è De Ferrariis e credo che questa sia la forma più corretta non solo perché il tempo, com’è facile intuire, favorisce in questo campo la trasformazione e sovente l’errore ma per motivi strettamente filologici: ferrariis, infatti, è ablativo plurale di ferrarius=fabbro e, per quanto detto all’inizio, ciò fa pensare che originariamente la famiglia del Galateo potesse essere dedita alla lavorazione del ferro.

La forma De Ferraris presenta la contrazione delle originarie due –i– in una sola. Tale fenomeno è assolutamente normale quando non c’è possibilità di equivoco. Per esempio: filis in latino è ablativo plurale di filus (=filo) e perciò non consente che filiis (ablativo plurale di filius=figlio) sia scritto filis. Nel nostro caso non c’è possibilità di equivoco perché, tutt’al più, potremmo ipotizzare, sulla scorta del dialettale firraru, un latino parlato ferrarus che sempre fabbro significherebbe.

De Ferrari (ripeto: più correttamente andrebbe scritto De’ Ferrari, ma a Nardò nessuno si sognerebbe di scrivere, per esempio, De’ Filippi o De’ Giorgi o De’ Mitri o De’ Rossi) è la forma italianizzata.

A voi la scelta …

Un umanista di Galatone nel ricordo di un poeta di Nardò

di Armando Polito

Continua la serie di poesie di Francesco Castrignanò tratte da Cose nosce (1909), la cui lettura ho iniziato da qualche post a questa parte. Il titolo di quella di oggi è Lu Calateu. L’iniziale maiuscola della seconda parola ci fa capire che il tema non riguarda le buone maniere, cosa che facilmente ci saremmo aspettato da un poeta dialettale, ma Antonio De Ferrariis più noto come il Galateo, cioè il figlio di Galatone per eccellenza. La composizione celebra  compiutamente e degnamente una grande personalità attraverso il ricordo non enfatico dell’essenziale e nella lingua del popolo che ben risponde all’istanza divulgativa mai assente nelle poesie del Castrignanò dedicate a personaggi reali.

Galatone; immagine tratta da http://www.chieracostui.com/costui/docs/search/schedaoltre.asp?ID=15217
Galatone; immagine tratta da http://www.chieracostui.com/costui/docs/search/schedaoltre.asp?ID=15217

 

 

Lecce; immagine tratta da http://www.chieracostui.com/costui/docs/search/schedaoltre.asp?ID=15188
Lecce; immagine tratta da http://www.chieracostui.com/costui/docs/search/schedaoltre.asp?ID=15188

 

Galatone; targhe apposte sul prospetto (fito successiva) della casa natale al civico 111 della via intitolata all’umanista.
Galatone; targhe apposte sul prospetto (fito successiva) della casa natale al civico 111 della via intitolata all’umanista.

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1 Non credo che si mbrazzò stia per si mbrazzara (si abbracciarono) per esigenze metriche o per concordanza al singolare col secondo presunto soggetto; credo, invece, che il soggetto sottinteso sia il Galateo e che l’intero verso significhi il Galateo fuse nel suo abbraccio terra e cielo con l’aiuto di Dio.

2 Forma aggettivale sostantivata da mascìa (magia).

3 Da babbare, per il cui etimo vedi vedi la nota 1 del post in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/02/quando-unagenda-vale-come-e-piu-di-un-libro/

4 Efficacissimo enjembement in cui la struttura metrica (che imporrebbe nella lettura una pausa dopo arte) finisce per prevalere su quella logica (che imporrebbe una lettura continua  arte sua) esaltando il significato dell’aggettivo possessivo.

5 Dallo spagnolo buscar.

6 Lo ricorda lo stesso Galateo alla fine del suo De situ Iapygiae scritto tra il 1506 ed il 1511 e pubblicato per i tipi di Pietro Perna a Basilea nel 1558: Hic et ego prima literarum fundamenta hausi. Galatana me genuit, haec urbs  educavit et fovit, et literis instituit. Hic Aquevivus tuus, imo et meus Bellisarius, magni Aquevivi frater, dominator. Neque ero ingratus, si ut initium descriptionis Tarento, sic et finem Nerito tribuero. Hoc exigit locorum ratio et conviviorum magistri semper aliquid, quod maxime delectet, in finem reservant, sic: Neritum longae finis chartaeque viaeque. (Qui [a Nardò] pure io attinsi i primi fondamenti delle lettere. Galatone mi dette i natali, questa città (Nardò) mi educò e nutrì e preparò alle lettere. Qui signoreggia il mio e il tuo [riferito a Giovan Battista Spinelli, conte di Cariati e funzionario del viceregno di Napoli, cui il libro è dedicato] Belisario Acquaviva, fratello del grande Acquaviva. Né sarò ingrato se dedicherò l’inizio della descrizione a Taranto come la fine a Nardò. Lo esige il rispetto dei luoghi  e i direttori dei conviti riservano sempre alla fine qualcosa che faccia enormemente piacere: così Nardò [fu] la fine del lungo cammino  e della lunga trattazione).

E col ricordo di Nardò, condensato nel verso  Neritum longae finis chartaeque viaeque (è un esametro), il Galateo concludeva la sua opera più nota.

Nelle foto in che seguono nell’ordine: il frontespizio originale (l’opera è scaricabile dal link http://books.google.it/books?id=TipTAAAAcAAJ&pg=PA113&dq=neritino&hl=it&sa=X&ei=cc3SUebqN4fV4QT–oGYBA&ved=0CFQQ6AEwBjha#v=onepage&q=neritino&f=false) e una riproduzione moderna dell’edizione di Basilea, volume realizzato in modo artigianale,  con materiali come la carta per la compagine e la pergamena per la legatura, dello stesso periodo dell’originale. Prezzo: € 400. Lascio immaginare quanto possa valere una copia originale originale … 

 

http://www.salentostores.it/vedi_vetrina.php?vedi=prodotto&link_azienda=Codex&codice_prodotto=20120711221852
http://www.salentostores.it/vedi_vetrina.php?vedi=prodotto&link_azienda=Codex&codice_prodotto=20120711221852

 

7 Di questa forma di miraggio il Galateo per primo diede la spiegazione scientifica. Vedi sull’argomento:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/19/il-marciano-e-la-fata-morgana/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/05/14/se-non-e-plagio-ditemi-voi-cose/

 

 

 

L’innamorato imbranato

di Armando Polito

immagine tratta da http://www.piazzasalento.it/wp-content/uploads/2012/03/Tessitrici-gallipoline.-Cartolina-Ed.-G.Stefanelli-1910-ca-Collezione-privata-di-C-Perrone-gallipoli-475x329.jpg
immagine tratta da http://www.piazzasalento.it/wp-content/uploads/2012/03/Tessitrici-gallipoline.-Cartolina-Ed.-G.Stefanelli-1910-ca-Collezione-privata-di-C-Perrone-gallipoli-475×329.jpg
immagine tratta da http://www.vizionario.it/wp-content/uploads/2012/01/Antico-telaio-salentino.jpg
immagine tratta da http://www.vizionario.it/wp-content/uploads/2012/01/Antico-telaio-salentino.jpg

Non è per diplomazia o, come si usa dire, per dare un colpo al cerchio e un altro alla botte, ma debbo riconoscere che Francesco Castrignanò, il poeta neretino divenuto familiare, almeno spero,  al lettore grazie allo spazio che ripetutamente gli ho dedicato, riesce a cogliere felicemente tutte le sfumature del nostro sentimento più profondo (anche perché legato al sesso, cioè a quell’istinto della perpetuazione della specie che solo gli animali hanno conservato “pulito” e indenne da complicazioni di sorta …) senza incorrere nella trappola, sempre in agguato, della banalità che non necessariamente si esprime nella rima amore/cuore. Eccomi, così, oggi, dopo aver espresso le mie perplessità sulla figura di maschio presentataci nell’ultima poesia letta1, a tentare di dare il giusto rilievo agli esiti indubbiamente più felici di un’altra che ha come protagonista l’esatto contrario dello sciupafemmine, vale a dire l’innamorato timido. Non è da escludersi che a ciò abbiano contribuito le mie inesistenti, da sempre, doti di conquistatore e che dunque l’immedesimazione nel personaggio che fra poco conosceremo abbia reso e continui a rendere meno credibili le mie velleità di critico della domenica.

Se lo sciupafemmine dava la stura al suo prorompente machismo parlando in prima persona, qui la figura dell’innamorato timido si delinea attraverso le parole della ragazza oggetto delle sue discretissime attenzioni. Cosa non si fa per amore! Si fanno pure cose che tradizionalmente non fanno parte del nostro sesso. E così c’è da meravigliarsi se il nostro giovane tenta maldestramente, pur di stare vicino alla ragazza, di manovrare l’arcolaio? Io non mi meraviglio se penso che, pur di stare vicino a quella che sarebbe diventata mia moglie e il cui tempo libero dallo studio era dedicato al ricamo, a suo tempo imparai pure ad eseguire il punto erba …

E pure io giornalmente, come e più di questo innamorato imbranato,  dovetti all’epoca sorbirmi una caterva di fatu, per fortuna non col punto esclamativo ma con quello interrogativo nella locuzione ma cc’è, si ffatu? (ma che è, sei stupido?)  con cui lei, anche per la presenza più o meno costante di tutta la famiglia (in alternativa, quando ci andava bene,  c’erano i turni tra madre, padre, i tre fratelli  e le due sorelle) teneva a bada le mie mani tese, appena il nemico si allontanava di un metro, verso punti ben diversi dal punto erba e simili …

Non voglio fare, una volta tanto, confronti fra il passato e il presente; dico solo che il piacere della conquista (sorella dell’allenamento al sacrificio …), oggi per lo più assente, probabilmente non ha giovato all’amore inteso nel suo significato più epidermico, quello sessuale, e nel più profondo, quello affettivo.

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/16/quandu-nci-ole-nci-ole-quando-ci-vuole-ci-vuole/

2 Corrisponde all’italiano fatuo.

3 Focaccia di cruschello (in dialetto neretino cruessu=grosso). Il Rohlfs per mburfettu non fornisce nessun etimo. A prima vista potrebbe essere deformazione dell’italiano  (pan) buffetto, anche se quest’ultimo è un pane fine e soffice. Buffetto è da buffo=soffio di vento, da buffare=soffiare, gonfiare (voce di origine onomatopeica).  Nel glossario del Du Cange sono riportati buffetus e buffectus col significato di panis albissimus (pane bianchissimo). Le esposte difficoltà di ordine semantico, nonché le piccole dimensioni rispetto al pane normale,  mi spingono, piuttosto, a considerare mburfettu come deformazione, con cambio di genere, dell’italiano formetta.

4 La voce va intesa depurata del suo significato negativo, anche perché, come si vedrà, la ragazza non appare totalmente insensibile alle attenzioni , per quanto per nulla invadenti, del suo silenzioso, si direbbe platonico, corteggiatore.

5 Dal latino machìnula(m)=piccolo congegno, diminutivo di màchina, quest’ultimo ancora oggi usato, prevalentemente col raddoppiamento  iniziale (mmàchina), come sinonimo di automobile. Sulla macènnula si posizionava la matassa dalla quale, sfruttando il movimento circolare del supporto, il filo veniva avvolto nei cànnuli.

immagine tratta da http://amicimuseoportafalsa.blogspot.it/p/museo-della-civilta-contadina.html
immagine tratta da http://amicimuseoportafalsa.blogspot.it/p/museo-della-civilta-contadina.html

 

Macinnulari è il nomignolo degli abitanti di Copertino (in provincia di Lecce, altra, ma non per etimologia, da Cupertino, la città californiana che trae il nome da quello dato da un cartografo spagnolo ad un fiume in onore di san Giuseppe da Copertino). Un aneddoto, probabilmente messo in giro per denigrazione campanilistica dagli abitanti di qualche centro vicino, narra che un contadino per sapere da quale direzione spirasse il vento collocò sul tetto della chiesa parrocchiale una macènnula. Siccome essa girava un po’ da una parte e un po’ dall’altra, il poveruomo diagnosticò che il vento quel giorno spirava da tutte le direzioni. Tuttavia, va detto che macinnulari non ebbe subito, come ci si aspettava, il valore di sinonimo di stupidotti ma quello, sempre metaforico e ancora più offensivo, di volta-faccia, cambia-bandiera. Mentre gli abitanti di Nardò non hanno nessun nomignolo (lungi da me l’idea che solo in base a questo possiamo ritenerci migliori), quelli di Copertino oltre che macinnulari sono detti anche mangia-ciucci per il fatto che in occasione della festa del patrono (il ricordato san Giuseppe) era consuetudine mangiare la carne di asino a pignatu (cioè cotta nella pignatta), piatto d’elezione anche nella trattorie che accoglievano per la circostanza i visitatori degli altri paesi, trattorie facilmente riconoscibili perché gli osti collocavano sulla porta del loro esercizio, a mo’ di insegna più o meno pubblicitaria, una bandiera e un ramo di olivo.

6 Corrisponde all’italiano imbroglia.

7 Probabilmente dal napoletano guaglione e questo forse dall’onomatopeico guagnì=piagnucolare.

8 Da mpannare, per il cui etimo vedi la nota 12 in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/13/rusineddha-una-giovane-bagnante-di-cento-anni-fa-a-santa-caterina/

9 Prepara i cànnuli, cioè avvolge il filo su rocchetti costituiti da segmenti di canna prelevando il filo dalla matassa posizionata sulla macènnula; se in altre poesie del Castrignanò qualche voce si prestava ad un’interpretazione ambigua (con riferimenti, tanto per cambiare, di natura sessuale), qui la supposizione che ncannulare possa avere il significato di possedere carnalmente che in italiano ha incannare non ha la minima ragione  di esistere.

10 Lei, però, avrebbe potuto pure prendere una qualche iniziativa, anche perché ho il sospetto che la zia più di una volta abbia fatto finta di addormentarsi (guardona delusa?).  Comunque, è proprio vero: lu Patreternu tae li frisèddhe a ccinca no lli rrosica (il Padreterno dà le friselle a chi non le mastica) …

 

Quandu nci ole, nci ole! (Quando ci vuole, ci vuole!)

di Armando Polito

Il corteggiatore galante, di Edmund Blair Leighton (1853-1922); immagine tratta da http://s663.photobucket.com/user/GeorgianaGarden/media/Immagini/Dipinti%20-%20analisi/255425B15D.jpg.html
Il corteggiatore galante, di Edmund Blair Leighton (1853-1922); immagine tratta da http://s663.photobucket.com/user/GeorgianaGarden/media/Immagini/Dipinti%20-%20analisi/255425B15D.jpg.html

C’è una cosa che mi dà un fastidio enorme al pari della menzogna, sorella della malafede, ed è l’approssimazione. Nei miei molteplici interventi su questo sito posso essere sembrato troppo precisino e a qualcuno eccessivamente pignolo. Assicuro, però, il lettore che ancora maggiore rigore riservo a me stesso e, non essendo la perfezione di questo mondo,  non ho alcuna difficoltà ad ipotizzare che anche io sia fatalmente incorso, ma involontariamente, in qualche errore o imprecisione. In attesa di esprimere la mia gratitudine al benevolo lettore che mi aiuterà a migliorare, oggi voglio prendere due piccioni con una fava: fare un esempio concreto di qualcosa che, secondo me, non va e fare nello stesso tempo onore alle mie ripetute affermazione sulla eccessiva benevolenza di alcuni recensori. E lo faccio, sia chiaro, non da quel recensore di professione che non sono ma da quel comune lettore, per quanto scalcinato, che presumo di essere.

Fino ad ora chi ha seguito la lettura di alcune poesie di Francesco Castrignanò (per chi ha interesse basterà digitare questo nome nell’apposita casella di ricerca, così, almeno per questa volta, evito di riportare una serie di links che comincia a diventare troppo lunga …) avrà notato che ho avuto da ridire su qualche dettaglio secondario di natura formale che, comunque, non inficiava l’esito poetico. Oggi la musica sarà totalmente diversa e per eseguirla passo subito al dunque.

Ti éciu rientra nel filone amoroso e, se nei casi precedenti il poeta neretino è riuscito ad estrarre oro, questa volta il prodotto finale, soprattutto nel finale, mi sembra ferro, per giunta un po’ arrugginito. E dire che la prima metà per vivacità di invenzione e d’espressione lasciava ben presagire!

Ho riservato alle note il compito di motivare questa mia impressione negativa, amplificata dal mio convincimento che il dialetto è nativamente più espressivo della lingua e che nel nostro caso, invece, ha dato esiti piatti anche sul piano squisitamente musicale. Il dibattito è aperto e questa sarebbe, oltretutto, un’occasione irripetibile di “vendetta” per qualche mio ex allievo, soprattutto per chi è diventato nel frattempo collega di un ex. Anche lui potrebbe prendere due piccioni con una fava: contestare, con motivazione, la mia opinione e maledirmi nel caso in cui la sua scelta professionale non fosse stata indipendente dalle mie quotidiane “uscite” di tanti anni fa ed ora, a ragione, egli non fosse felice di esercitare quello che per me, insieme con quello del medico, resta, nonostante tutto, il più bel mestiere del mondo. Pronto a cospargermi il capo di cenere, nessuna, una o due volte, a seconda della risposta …

 

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1 Participio presente da cutulare, da un latino *quatulare, dal classico quàtere (=scuotere) con suffisso iterativo come in italiano ventolare (in dialetto neretino intulàre) da ventare. Il verbo esprime felicemente la civetteria tutta femminile del gesto provocante e il compiacimento della consapevolezza del suo effetto.

2 Dal latino signum est; non è fuori luogo questa espressione che può sembrare dotta e, quindi, frutto del poeta-letterato. Al contrario, essendo locuzione ricorrente nel latino religioso, può essere inquadrata agevolmente nel repertorio latino di uso popolare.

3 Corrisponde all’italiano fiacco. Fiaccu nel dialetto neretino è usato nel senso di cattivo (cce ssi fiaccu!=che sei cattivo!) ma anche in quello di debole (mi sentu fiaccu=mi sento debole, non mi sento bene). In traduzione ho privilegiato il primo significato ma lascio al lettore decidere se il Castrignanò ne ha fatto un uso ambiguo con allusione anche ad un desiderio poco vivo stigmatizzato allusivamente dalla ragazza col suo canto dispettoso. Ad ogni modo, secondo me per fugare qualsiasi dubbio in proposito, il pretendente più avanti, senza mezzi termini, dirà: o prestu o tardu t’aggiu pussidire.

4 Non corrisponde all’italiano rigetto (da rigettare, a sua volta da reiectare, intensivo di reìcere=respingere, formato dal prefisso ripetitivo re-=di nuovo e da ìcere=gettare) perché riggettu deriva (come l’italiano ricetto) da receptu(m), participio passato di recìpere=mettere al sicuro, composto dal prefisso già visto re- e da càpere=prendere. L’uso principe di riggettu è in locuzioni del tipo no sta ttrou riggettu=non sto trovando pace, tranquillità. A differenza del precedente fiaccu mi pare, perciò, da escludere un’ambiguità basata sulla polivalenza linguistica della forma: pace sì (ricetto) ma anche rifiuto (rigetto di altri pretendenti, quasi sviluppo, offensivo, del precedente sacciu ca tu ndi faci tante e tante).

5 Corrisponde all’italiano concetto (diminutivo di concio). La similitudine può sembrare poco calzante dal momento che il tufo è una pietra abbastanza friabile, ma è di uso corrente l’espressione tieni la capu ti cuzzettu=hai la testa dura; il romanesco de coccio, invece, mette in campo coccio che molto probabilmente è da coccia=guscio di lumaca, dal latino còchlea(m); quest’ultimo è collegato con il nostro cuècciulu=conchiglia.

6 Questo verbo mi sembra un po’ esagerato e rozzo, nonostante convenga che il fuoco represso prima o poi doveva esplodere e che la voce era la più “delicata” tra le tante che la dominante mentalità maschilista aveva a disposizione per ribadire la sua concezione dell’amore anzitutto come possesso; e, anche se lei sembra averne fatte di cotte e di crude, non mi pare che questo pretendente infoiato, mostri, pur tenendo conto dei tempi, una delicatezza psicologica da manuale…

7 Vale l’osservazione fatta per pussidire; cioè nella prosaicità di panni vedo una carnalità troppo bullescamente dichiarata, sempre in rapporto a quei tempi. Può darsi, però, che sia io l’arretrato e che abbia capito ben poco dell’universo femminile, passato e presente … O, forse, il mio è solo un miserabile espediente per avere quel contraddittorio che da troppo tempo sto aspettando? Comincio, infatti, ad essere preoccupato: se nessuno contesta, nemmeno parzialmente, una tua (o non tua) affermazione vuol dire che la tua (o non tua) opinione non è degna neppure di considerazione, dovendosi escludere a priori la possibilità che tu (o chiunque altro sulla Terra) sia un genio infallibile.

La scuola di cento anni fa vista da un poeta neretino con gli occhi di una donna di Nardò.

di Armando Polito

Immagini tratte da Brunella Dalla Casa, Donne scuola lavoro. Dalla Scuola professionale “Regina Margherita” agli Istituti “Elisabetta Sirani” di Bologna, 1895-1995, Grafiche Galeati, Imola, 1996.
Immagini tratte da Brunella Dalla Casa, Donne scuola lavoro. Dalla Scuola professionale “Regina Margherita” agli Istituti “Elisabetta Sirani” di Bologna, 1895-1995, Grafiche Galeati, Imola, 1996.

 

Odio le operazioni-nostalgia quando servono solo ad affossare acriticamente o, peggio, strumentalmente, il presente, perché il loro successo è assicurato ed a me le cose dall’esito scontato non piacciono minimamente, anche perché nascono da un calcolo furbesco che fa leva sulla carica suggestiva del ricordo, anche negativo, alla quale, nonostante tutto, nessuno di noi è in grado di rinunciare.

Oggi, poi, il successo dell’operazione, già scontato in partenza per i risvolti psicologici appena detti, risulta esaltato da un clima di insofferenza generalizzato che, comunque per fortuna, si sta diffondendo nel mondo e che minaccia di raggiungere effetti esplosivi in Italia dove la classe dirigente continua imperterrita a cincischiare, senza adottare nessun provvedimento concreto e efficace, almeno potenzialmente, per la soluzione  dei problemi-cardine che quotidianamente con una disgustosa cantilena dichiara di aver definitivamente individuato: merito, lavoro e lotta all’evasione fiscale.  E tutto questo quando ormai siamo fuori tempo massimo e per giunta ricorrendo all’illuminato aiuto di menti in cui l’aureola della genialità e della saggezza si fondono, confondono ed abbagliano gli stessi portatori di cotanto cervello al punto che non si rendono conto nemmeno di aver accettato di essere comprimari (sempre irresponsabili …) di uno spettacolo osceno (nel suo immediato significato etimologico, cioè che non sarebbe dovuto andare in scena); e magari si attendono pure da un momento all’altro il titolo di salvatori della patria …

Mi si potrebbe far osservare che è facile recitare la parte del laudator temporis acti (il lodatore del passato) togliendosi le fette di prosciutto dagli occhi solo quando si osserva il presente. La crisi è esiziale pure per le metafore e già il prosciutto è stato soppiantato dalla mortadella. Allora, debbo aspettare che pure questa diventi preziosa per non essere tacciato di parzialità? Non ce n’è bisogno, perché come si sia ridotta in pochi decenni la scuola del nostro tempo è visibile a tutti e sulla scuola di un secolo fa cedo la parola a Francesco Castrignanò. Non ho stipulato un contratto promozionale con gli eredi né è mia intenzione pubblicare un saggio su di lui, ma è solo per dovere di documentare il lettore al quale sia sfuggito qualche mio precedente post che qui ribadisco che Cose nosce è il nome della raccolta di poesie del neretino uscita per i tipi di Leone nel 1909 e che A tiempu mia è il titolo di quella che mi accingo a leggere.

La protagonista della poesia vive nel rimpianto di non essere nata dopo e la fregatura non è, in ossequio ad un vecchio detto, il fatto che, almeno teoricamente, è destinata a morire prima, ma l’ignoranza in cui ha dovuto vivere; insomma, siamo in presenza non di una laudatio (lode) ma di una obtrectatio (denigrazione) temporis acti. Oggi, invece, chi ha una certa età resta bbabbatu constatando il degrado che in pochi decenni la cultura ha subito (anche per l’inflazione dei titoli di studio e per il pessimo uso dei nuovi media10 … ) e si augura solo di chiudere gli occhi al più presto per non restare abbrutito pure lui da questa spaventosa involuzione. Poi pensa al film che è valso l’Oscar a Benigni e (giustamente o ingiustamente, chi lo sa?) ci ripensa. Alla prossima …

 

 

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1 Alla lettera: mettono.

2 Variante del napoletano guaglione, voce che per il Rohlfs è dall’onomatopeico guagnì=piagnucolare.

3 Da scarzare, da s– estrattiva o privativa  (dal latino ex) e carza=branchia, corrispondente all’italiano gargia connessa col latino medioevale gargàlia=trachea.

4 Vedi la nota 9 in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/04/luomo-e-le-macchine-in-una-poesia-in-dialetto-neretino-di-un-secolo-fa/https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/04/luomo-e-le-macchine-in-una-poesia-in-dialetto-neretino-di-un-secolo-fa/

5 Etimo quanto mai controverso. Il Rohlfs invita ad un confronto con il siciliano caruso derivato dal verbo carusare=tosare, per il quale ipotizza dubitativamente un incrocio tra il greco κάρα (leggi cara)=testa e un latino *tonsare frequentativo del classico tondère=tosare. Altri, invece, come primo componente, mettono in campo non κάρα ma il verbo κείρω (leggi chèiro)=tagliare. Altri ancora per caruso propongono la derivazione da cariòsu(m)=cariato, poi liscio, calvo. Va detto che il milanese tosa=ragazza (da tonsa, participio femminile singolare di tondère) sembra rendere più attendibili le prime due ipotesi, Con lo stesso significato di carusare  il neretino usa caruppare, al cui esito diverso rispetto al siciliano non trovo spiegazione.

6 Questa dichiarazione oggi procurerebbe, a ragione, più di un linciaggio da parte delle femministe. Nella poesia è solo una protagonista dell’ancien regime, magari troppo anziana e troppo poco sveglia per mutare opinione (tra i giovani solo gli imbecilli non la mutano mai o la mutano troppo spesso …) e per questo va compresa. Non riesco a comprendere, invece, i comportamenti delle tante barbare, protagoniste di più di un fatto di cronaca recente,  non all’altezza del compito delicatissimo (magari avranno pure seguito, per corrispondenza, una cinquantina di corsi conseguendo regolarmente, cioè su pagamento …, i relativi attestati) loro affidato di curare persone con cui il destino non è stato prodigo fin dall’inizio della loro avventura sulla terra. In confronto a loro la Barbara della poesia è una santa.

7 Stessa etimologia di arancio (dal persiano  nāranǵ, che è probabilmente dal sanscrito nāgaranja=frutto degli elefanti), rispetto al quale, però, presenta la conservazione della consonante iniziale originaria.

8 Pure oggi tutti parlano di merito e della necessità di investire nella cultura, ma il riconoscimento dell’uno è una chimera, i fondi destinati alla seconda vengono sempre più tagliati, i migliori emigrano  e i cittadini onesti che rimangono sono solo polli da spennare o pecore da caruppare.

9 Da babbare, per cui vedi la nota 1 in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/02/quando-unagenda-vale-come-e-piu-di-un-libro/

10 Ultima, in ordine di tempo, la circolare ministeriale n.18 del 9 febbraio 2012 che rende obbligatoria per il prossimo anno scolastico l’adozione dei libri di testo esclusivamente in formato digitale, provvedimento utilissimo per i produttori di tablet ma esiziale per studenti neppure in grado, ormai, di leggere correttamente (quanto a capire ciò che si legge, meglio lasciar perdere …) il più elementare dei testi a stampa …

 

 

 

Ritorno al passato

di Armando Polito

immagine tratta da  http://www.mymovies.it/poster/?id=32800
immagine tratta da http://www.mymovies.it/poster/?id=32800

Non è la recensione ritardata, e non solo in senso cronologico …, di più di un film uscito con questo titolo (nella foto di testa la locandina originale in francese di quello del 1998 diretto da Jean Marie Poiré).

Avevo poco meno di vent’anni, ero iscritto alla facoltà di giurisprudenza di Urbino (già reduce da quella di Scienze biologiche a Roma, abbandonata per problemi alla vista) e, in un momento d’ispirazione (!), sulla copia fresca fresca della Costituzione avevo scritto nel posto di solito riservato alle dediche la seguente mia massima: Non si è nessuno nella vita se non si è procreato un figlio o scritto un libro. Non saprò mai (anche perché il giudice è scomparso da tempo) se il superamento con trenta e lode dell’esame di diritto costituzionale fu dovuto allo studio fatto o all’impressione che la lettura (che culo!) della mia massima esercitò su chi mi aveva esaminato, il professore Giorgio Lombardi. Non era neppure quella la mia strada e abbandonai anche Giurisprudenza per approdare all’antico amore, le Lettere. Di quella massima son rimaste due splendide figlie e nessun libro. Se fossi nato trenta o quaranta anni dopo molto probabilmente non mi sarei potuto permettere il lusso neppure di un solo figlio. La crisi demografica,  già da tempo in atto per una visione, a mio avviso, edonistica ed egoistica della vita di coppia, ha avuto un incremento non da poco quando ha cominciato ad intrecciarsi in un abbraccio mortale con l’altra crisi: quella economica. Ed ora i due serpenti in amore sono freneticamente impegnati a mordersi la coda: come si fa, in un clima di precarietà e incertezza generalizzate, a pensare di formarsi una famiglia quando già avendo un lavoro si vive costantemente nel timore di perderlo?

Quando sento dire che i soldi nella vita non sono importanti mi viene la tentazione di spaccare la faccia a chi ha appena finito di affermarlo (previo controllo della statura e del tono muscolare del soggetto …), specialmente oggi che, a quanto pare, sono tutto. E la memoria va a tempi meno lontani di quelli dei miei studi universitari, quando con i miei allievi sacrificavo forse qualche approfondimento di natura grammaticale per soffermarmi sulla lezione di vita dei classici e, soprattutto, sul carattere amaramente fasullo di certe affermazioni. Una per tutte: il ciceroniano historia magistra vitae (la storia è maestra di vita). Purtroppo, millenni di storia hanno dimostrato che così non è stato, anche se gli inguaribili sognatori come me, che considerano i bilanci fallimentari solo uno stimolo per cambiare, aggiungono non ma così dovrebbe essere, bensì  ma così dovrà essere. Ancor più impegnativo, poi, appare il compito se consideriamo nella sua interezza la frase da cui la massima è stata estrapolata: Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis (La storia in verità è testimone dei tempi, luce della verità, memoria della vita, maestra della vita, messaggera dell’antichità).

A proposito dei soldi, poi, e della loro importanza mi piaceva far osservare che chi ce li ha può pure guarire dal cancro, chi non ne ha può pure morire per le complicanze di un banale raffreddore. La conclusione nel caso particolare (ma ha anche valenza estensiva) è che i soldi cesseranno di essere importanti quando chi può guarire dal cancro si adopererà (anche non rubando e pagando le dovute tasse …) per non far morire chi lo può per i postumi di un raffreddore.

Poi venne Giambattista Vico con la sua teoria dei corsi e ricorsi storici e la consolante interpretazione che, tuttavia, mai il passato si ripete pedissequamente. Condivido la consolazione se penso solo alla forma; se guardo alla sostanza, la respingo al mittente.

Per farlo chiedo ancora una volta aiuto al poeta dialettale neretino Francesco Castrignanò ed alla sua poesia, tratta da Cose nosce (1909), dal titolo Forte nu ndore.

Il clima quasi da idillio che si respira attraverso le parole di lui per quasi tutta la poesia si ammanta di amarezza nella quartina finale attraverso le parole di lei, in cui il motivo economico e la conseguente volontà del padre non mi appaiono come pretesti messi in campo per fare la preziosa e mostrare così, secondo i canoni comportamentali del tempo, la propria “serietà”.

Oggi, per fortuna, la “dote” di lei non ha più importanza ma, destino infame!, né lei né lui, magari plurilaureati, sarebbero disposti (anche perché psicologicamente non attrezzati), per amore, a vivere sirchiandu scalore (sarchiando scarole), a meno che al padre (di lei o di lui o, meglio, di entrambi) non manchino li turnisi

 

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1 Corrisponde all’italiano odore. La n– di ‘ndore è per influsso di ‘ndurare, a sua volta da in+odorare con sincope e aferesi (trafila: *inodorare>*indorare>’ndurare), cioè non è, come l’italiano odore, dal latino odore(m), ma quasi di origine deverbale.

2 Dal greco σάμψυχον (leggi sàmpsiuchon).

3 Da ‘mpizzare, che è da in+pizzu (pizzo); la voce è usata anche nel significato di infilare e riflessivamente in quello di mettersi in mezzo.

4 Corrisponde all’italiano vento.

5 Corrisponde all’italiano seguito.

6 Corrisponde all’italiano parare, riservato, però, a momenti più solenni.

7 Per scàttuddha vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/10/il-diserbante-del-cuore/

8 Corrisponde all’italiano intesi.

9 Nonostante la lira fosse già in corso ai tempi dell’autore, qui turnisi (tornesi) sta nel senso estensivo di soldi e tale suo uso continua ancora oggi.

L’uomo e le macchine in una poesia in dialetto neretino di un secolo fa

di Armando Polito

 

Nel 1909 usciva Cose nosce, una raccolta di poesie in dialetto del neretino Francesco Castrignanò, dalla quale è tratta anche questa di oggi. Nello stesso anno nasceva ad opera di Filippo Tommaso Marinetti il movimento letterario, artistico e politico che prese il nome di Futurismo. Pretendeva di fare piazza pulita del passato, animato da un travolgente (quanto incosciente …) ottimismo in cui l’auto assumeva, per tutte le macchine, il ruolo di simbolo del dinamismo, della forza, della vitalità. Peccato però che accanto a questi concetti nel manifesto del movimento si legge testualmente : Non v’è più bellezza se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro … Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore …

C’è da meravigliarsi se queste idee (alcune per me deliranti …) che avevano avuto qualche anno prima la loro culla filosofica in Friedrich Wilhelm Nietzsche sarebbero sfociate, qualche anno dopo, nell’ideologia fascista?

Sono convinto che tutte le idee, anche le più nobili, innovatrici e rivoluzionarie, falliscono nella loro attuazione pratica nel momento in cui derogano al principio del rispetto dell’uomo e dei valori fondanti della sua umanità e, in generale, quando il potere, di ogni tipo, cessa di essere interpretato come servizio per il bene di ciascuno e di tutti.

Nel periodo appena espresso può essere compendiato lo spirito della poesia di oggi: Francesco Castrignanò non è insensibile al fascino del progresso che contraddistinse l’inizio del secolo scorso (ma anche l’inizio del nostro …), si mostra sbalordito da ciò che le macchine sono in grado di fare (come noi oggi lo siamo di fronte all’elettronica ed alla robotica…); tuttavia, non ne è soggiogato e rimane sufficientemente lucido per fare un consuntivo, non certo lusinghiero, dei risultati pratici e delle conseguenze morali rispetto al passato e per lanciare nel finale il suo accorato ed allarmato interrogativo (quando sarà ascoltato quello dei nostri tempi già ripetutamente da più di uno lanciato? …).  Il suo tacito invito, come fra poco vedremo,  a distanza di un secolo,  anche se lo si sgancia da ogni riferimento religioso e lo si vede solo nella sua laicità,  è di una sconvolgente attualità.

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1 Da mintuàre, corrispondente all’italiano letterario mentovare.

2 Dal greco δόλιχος (leggi dòlichos)=fagiolino.

3 Corrisponde formalmente all’italiano fiacco.

4 Dal latino in=dentro+adaquare=abbeverare.

5 Sull’etimo di spilu vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/12/16/lu-spilu-e-la-sciana/

Debbo aggiungere che oggi il plurale dell’articolo lu (corrispondente all’italiano lo) non è gli ma li, anche davanti ad s impura, per cui diciamo li spili; se non si tratta di errore di stampa, il gli del testo può essere perciò considerato come frutto dell’intervento correttivo (o della distrazione inconscia?) del poeta-letterato.

6 Di origine onomatopeica.

7 Da ccappare, per il cui etimo vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/09/tessere-del-tempo-che-fu/

8 Corrisponde all’italiano letterario gire, che è dal latino ire con influsso di giamo (prima persona plurale) che è da un latino *gimus, a sua volta dal classico imus.

9 Difficile dire da dove nasce, rispetto al successivo pircè, l’aggiunta di te; mi viene in testa un’analogia con l’italiano mercé/mercede, piè/piede. Nelle voci italiane appena elencate, però, la forma di partenza è la seconda perché mercede ha dato vita per apocope a mercé e così piede a piè. Bisognerebbe, perciò, immaginare per pircé/pircete un processo analogico per così dire invertito: si sarebbe formato prima pircé (corrispondente all’italiano perché) dal quale, per influsso di mercede e piede, si sarebbe sviluppato pircète. Conclusione; è più probabile che in pircede (oggi pircete) sia stata recuperata nel tratto finale la forma dialettale (ete) della terza persona singolare dell’indicativo presente di èssire (essere) persona più vicina al latino (est) di quanto non lo sia l’italiana è adottata nella variante pircé.

10 Corrisponde all’italiano ragnatela, ma è il frutto di deformazioni successive di altre varianti salentine: ragnatila>regnatila>ringatera>lingatera.

11 Da scamusu, corrispondente all’italiano squamoso.

12 Onestà deriva dal latino honestàte(m) che è dall’aggettivo honestus/honesta/honestum=onesto, a sua volta da honos=onore. Unistità  ha il suo corrispondente nell’italiano obsoleto onestità, dal latino medievale honestitate(m), sempre da honestus, ma con un suffisso apparentemente diverso. Fenomeno analogo  in vetùstas e vetùstitas (da vetustus/vetusta/vetustum), consuetudo e consuetitudo (da consuetus/consueta/consuetum). Ho parlato prima di suffisso apparentemente diverso. In realtà nelle forme classiche si tratta di un fenomeno di aplologia (caduta di una sillaba in una parola che dovrebbe avere, per la sua etimologia, due sillabe consecutive simili o uguali): in honestitate(m), per esempio, le sillabe simili sono -(s)tita– e, con la caduta di –ti-, si passa ad honestate(m). Le forme medioevali hanno recuperato quello che era stato perso dalle forme classiche.

Per completezza va detto che non sempre nel latino classico si verifica il fenomeno dell’aplologia. Alcuni esempi: dall’aggettivo castus/casta/castum si è formato il sostantivo càstitas (genitivo castitàtis) ma non castas (genitivo castàtis), da quantus/quanta/quantum si è formato quàntitas (genitivo quantitàtis) ma non quantas (genitivo quantàtis), da sanctus/sancta/sanctum si è formato sànctitas (genitivo sanctitàtis) ma non sanctas (genitivo sanctatis), etc. etc.

Qualcuno mi potrebbe far notare che negli esempi appena forniti il nominativo aplologico (castas, quantas, sanctas) non si è formato perché si sarebbe confuso con l’accusativo femminile plurale dell’aggettivo da cui ognuno di loro ha origine. Lo stesso, però, sarebbe dovuto valere per honèstas (che può essere oltre che nominativo singolare del sostantivo honèstas/honestàtis anche accusativo femminile plurale dell’aggettivo honestus/honesta/honestum. C’è da supporre, dunque, che il fenomeno sia legato all’elemento principe della lingua, cioè all’uso, che, com’è noto, da sempre travalica (e continua a farlo) la norma.

Tutta questa pappardella per sottolineare come unistità sia figlio di un processo antico e non di quel malinteso concetto di “volgarità” appioppato arbitrariamente al dialetto.

13 Corrisponde all’italiano gita (participio passato femminile singolare di gire) ed è participio passato di scire, per cui vedi la nota 8.

Gli affreschi di Cesare Maccari a Nardò visti con gli occhi del popolo e raccontati da un poeta dialettale

di Marcello Gaballo e Armando Polito

Non è raro il caso in cui leggendo la recensione di un libro, di un quadro, di una singola poesia vengono in mente le parole di Azzeccagarbugli al povero Renzo: – All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle –. Ora è vero, per esempio, che una parola comune usata da un poeta acquista per lo più nuovi significati, ma pare grottesco complicare ad ogni costo anche le cose più semplici e chiare. Così si ottiene solo un risultato: la superfetazione della stessa parola critico che diventa criptico, impegnato solo a trovare gli agganci più strani, le immagini più complicate, le parole più roboanti, le citazioni più o meno logore, anche quando basterebbero otto parole comuni per chiarire le quattro di loro usate, tal quali, dal poeta …

Sull’importanza, poi, del giudizio, espresso con questa oscena messinscena (dell’ossimoro non si è potuto fare a meno …) soprattutto in occasione di incontri, conferenze e simili eventi spacciati per culturali ma di taglio unicamente pubblicitario,  non sprechiamo parole, facciamo solo notare che il fatto che mai compaia una stroncaturina, magari solo parziale, dovrebbe far capire molte cose sull’onestà, anzitutto intellettuale, di autori, editori e recensori e sulla loro poco libera intelligenza, quando quest’ultima c’e.

La poesia che segue, tratta come le altre di Francesco Castrignanò fin qui lette dalla raccolta Cose nosce del 1909, è prevalentemente descrittiva ma riesce anche a coniugare felicemente il registro moderatamente didattico o didascalico del cicerone di turno (una guida che, comunque, si direbbe di estrazione popolare, insomma nnu cicerone fattu a ccasa) con l’espressione del sentimento popolare di orgoglio e meraviglia per un evento importante quale fu quello della decorazione del coro, dell’abside e della volta del presbiterio della Cattedrale di Nardò, eseguita da Cesare Maccari (Siena, 1840-Roma, 1919) tra l’estate del 1896 e la fine del 1899 su commissione del vescovo Giuseppe Ricciardi (1888-1908); decorazione tanto più coinvolgente perché alcune rappresentazioni (Traslazione delle reliquie di San Gregorio Armeno e Miracolo del Cristo nero) del ciclo riguardano memorie, antiche e ben radicate nella religiosità popolare, della storia neretina. Le foto, laddove non compare specifica indicazione, sono degli autori.

Autoritratto di Cesare Maccari (1914) custodito nel deposito della Galleria degli Uffizi; immagine tratta da http://www.polomuseale.firenze.it/inv1890/scheda.asp

Cristo in trono che accoglie l’Assunta/ San Giuseppe, San Gioacchino, San Giovanni Battista, San Lorenzo, Santo Stefano, San Giacomo Maggiore/ i profeti Geremia, Daniele, Isaia

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La figura che, accanto al soldato, osserva allibita il miracolo è l’autoritratto del Maccari. Difficile dire se fu abitudine vanitosa quella di lasciarci suoi autoritratti in parecchie opere. Uno tra i più famosi è quello presente nel dipinto realizzato nel 1887 nella Sala del Risorgimento nel Palazzo pubblico di Siena e raffigurante il trasporto della salma di Vittorio Emanuele II al Pantheon (di seguito vista intera e dettaglio).

immagine tratta da http://www.iltesorodisiena.net/2011/09/palazzo-pubblico-gli-affreschi-della.html
immagine tratta da http://www.iltesorodisiena.net/2011/09/palazzo-pubblico-gli-affreschi-della.html

 

Leone XIII (1878-1903) in un’immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Leo_XIII..jpg e nella rappresentazione del Maccari in un’immagine tratta da http://194.242.241.172/opencms/opencms/system/modules/com.culturaitalia_stage.liberologico/templates/viewItem.jsp?language=it&case=&id=oai%3Aartpast.org%3A160017175

Monsignor Ricciardi nella rappresentazione del Maccari; immagine tratta da http://194.242.241.172/opencms/opencms/system/modules/com.culturaitalia_stage.liberologico/templates/viewItem.jsp?language=it&case=&id=oai%3Aartpast.org%3A1600171755

Nell’anno 2000, al quale risale la sottostante foto degli autori, il dipinto raffigurante il Ricciardi era in restauro.

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1 Sarebbe veramente interessante sapere, tramite un’indagine (che lasciamo a chi ne ha voglia e tempo) nell’archivio della curia,  se cinquantamila lire corrisponde, più o meno, alla spesa reale oppure è, sempre più o meno, sinonimo dei nostri una cifra, una  fortuna o un sacco di soldi. A pelle ci pare più plausibile la prima ipotesi. Crediamo, comunque, che qualche notizia in merito debba esserci in Andrea Cappello e Bartolomeo Lacerenza, La Cattedrale di Nardò e l’arte sacra di Cesare Maccari, M. Congedo, Galatina, 2001, testo che non ci è stato possibile, almeno fino ad ora, consultare.

2 Alla lettera fiato. Per il resto vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/01/13/due-improbabili-anzi-impossibili-coniugi-la-fiata-e-lu-fiatu-la-fiata-e-il-fiato/

3 Il tema fu successivamente trattato dal Maccari in una tela ad olio eseguita nel 1903 e custodita ad Imperia nella chiesa di S. Maurizio. Crediamo di poter affermare, però, che tale dipinto non sembra tener conto della struttura compositiva di quello neretino ma dell’Assunzione di Tiziano conservata nella basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari a Venezia (foto in basso a destra).

Immagini tratte, rispettivamente, da:

http://194.242.241.172/opencms/opencms/system/modules/com.culturaitalia_stage.liberologico/templates/viewItem.jsp?language=it&case=&id=oai%3Aartpast.org%3A0700020419

http://2.bp.blogspot.com/-rAx4WBWx5uY/TxsxONgUYjI/AAAAAAAABd0/XJER_Ie41II/s1600/04+TAVOLA+DELL%2527ASSUNTA+DI+TIZIANO.jpg

4 Da babbare, per il cui etimo vedi la nota 1 del post in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/02/quando-unagenda-vale-come-e-piu-di-un-libro/

5 Trattasi di parte dell’avambraccio portato secondo la tradizione a Nardò nell’VIII secolo dai monaci armeni in fuga dalla furia iconoclasta di Costantino Copronimo.  Era contenuto in un reliquiario a forma di braccio terminante con una mano benedicente, fatto realizzare dal vescovo Cesare Bovio (1577-1583). Fu trafugato nel 1975 e l’originale, fino ad ora non ritrovato, fu sostituito con una teca ovaliforme contenente un metacarpo che prima faceva parte delle reliquie conservate a Napoli, dono fatto nel 1985 dal cardinale Corrado Ursi già vescovo di Nardò (1951-1961), poi arcivescovo di Acerenza e dal 1966 arcivescovo di Napoli.

6 Corrisponde all’italiano garbo.

7 Corrisponde all’italiano gabbo.

8 Oggi la forma in uso è strusce, da struscire, corrispondente all’italiano strùggere.

9 Oggi la voce in uso a Nardò è beddha; caleddha è diminutivo femminile del greco καλή (leggi calè)=bella. Da notare come caleddha forma con il successivo beddha un tipo di  rima (con parole legate dallo stesso significato) che non ha, a quanto ne sappiamo, un nome particolare di classificazione. Proporremmo rima semantica o concettuale.

10 È un crocefisso ligneo che attualmente si trova nell’omonima cappella nella navata sinistra della Cattedrale. Secondo alcune fonti il 18 maggio 1255 i Saraceni tentarono invano di asportare dalla chiesa il Crocifisso per bruciarlo insieme con altri arredi sacri;  urtando la porta, si spezzò il mignolo della mano sinistra. Alla vista del sangue che ne uscì  i soldati fuggirono atterriti  e abbandonarono Nardò.

Il dito spezzato, di cui non si aveva più notizia,  è stato ritrovato durante il restauro effettuato nel 1955 dall’Istituto Centrale per il Restauro di Roma, nascosto in una cavità sulla spalla.. Quanto alla datazione del simulacro, studi recenti la spostano al XIII secolo, mentre la tradizione voleva che fosse stato portato a Nardò nell’VIII secolo dai monaci basiliani insieme con le reliquie di S. Gregorio.

11 Ci pare di poter cogliere in reale un’ambiguità, non sappiamo quanto consapevole: cosa degna di re, ma anche cosa concreta, destinata a durare.

 

 

Una grande donna dell’Ottocento nella celebrazione di un poeta neretino.

di Armando Polito

Oggi non so se ancora esiste con questo nome, ma certamente i suoi contenuti sono cambiati. Parlo del sussidiario1 che ai miei tempi dedicava molto spazio agli eroi del Risorgimento, sicché nomi come Cesare Battisti, Carlo Pisacane, Amatore Sciesa, Daniele Manin erano molto familiari, anche se le loro gesta, nonostante l’enfasi retorica, ad essere sincero, non mi coinvolgevano per nulla e dedicavo loro il tempo strettamente necessario solo per mero dovere scolastico.

Forse, senza che allora me ne rendessi conto, era proprio quell’enfasi retorica, non ridimensionata adeguatamente per rendere il ricordo veramente coinvolgente sotto il profilo emozionale, a rendere un pessimo servizio a questi martiri della libertà. Peccato, perché alla luce di un’interpretazione più disincantata (chi sa parlare dice revisionista) degli eventi dei decenni immediatamente successivi, questi personaggi hanno acquistato paradossalmente ai miei occhi un’aureola più luminosa, avendo sacrificato inconsapevolmente (i confini tra la stupidità e l’idealismo sono molto labili, come quelli tra la genialità e la pazzia) la loro vita per preparare l’unità del paese con un processo che mi ricorda molto quello della relativamente recente unificazione europea.

Non è motivo di conforto, a maggior ragione, sapere che oggi i giovani a distanza di quasi un secolo e mezzo sanno benissimo chi è Cesare Battisti: peccato che si tratta non del patriota ma di un suo omonimo, terrorista. Poteva andar peggio: pensate se la storia ci avesse tramandato il nome di un Fabrizio Corona patriota …

Comunque. tra i personaggi oggetto di studio della mia verdissima età non ho citato a bella posta i fratelli Cairoli: Benedetto fu uno dei Mille e rimase gravemente ferito nel corso della spedizione;  durante la stessa morì di tifo nel 1860 Luigi; Ernesto era morto nel 1859 combattendo  tra i Cacciatori delle Alpi; Enrico, dopo aver partecipato pure lui alla spedizione dei Mille, morì nello scontro di Villa Glori nel 1867; due anni dopo, per i postumi delle ferite riportate in questo scontro, morirà Giovanni.

Non ho citato all’inizio i cinque fratelli perché intendevo cedere, come faccio, la parola al poeta dialettale neretino  Francesco Castrignanò del quale  mi sono ripetutamente occupato in precedenti post. In essa protagonista è, però, la madre Adelaide (1806-1871) e i fratelli appaiono come comprimari e non solo perché ad Adelaide toccò ripetutamente il destino più atroce che possa capitare ad un genitore: seppellire il proprio figlio. A lei, morta nel 1871, sopravvisse dei figli maschi solo Benedetto , mentre le due figlie Rachele ed Emilia erano morte entrambe nel 1856.   Quando ella morì il Castrignanò, che era nato nel 1857, aveva quattordici anni. La poesia, perciò non è il frutto di un’emozione vissuta personalmente ma, risalendo Cose nosce (il volume da cui è tratta) al 1909, di un ricordo sufficientemente sedimentato e che doveva fatalmente essere stato oggetto di studio, per quanto scolastico, emotivamente più coinvolgente di quanto non sarebbe stato il mio a distanza di quasi un secolo.

 

Adelaide Cairoli con i ritratti dei figli morti (1869). Immagine tratta da http://www.150anni.it/webi/index.php?s=58&wid=1864

Adelaide con i ritratti dei figli morti (1869). Immagine tratta da http://www.150anni.it/webi/index.php?s=58&wid=1864

 

Che poi Adelaide sia stata una grande donna lo dimostra non solo questo pesantissimo tributo che con rassegnazione e coraggio pagò alla vita ma anche il suo impegno politico e sociale, le sue lettere e, infine, queste sue parole: Prima ancora dunque che alla causa femminile, io mi ero votata a quella della mia patria e il mio amore per la prima nacque dal mio amore per la seconda.

Peccato che simili memorie vengano poi barbaramente strumentalizzate, come fu per Adelaide sotto il fascismo, com’è stato qualche giorno fa per Enzo Tortora. Sono i casi in cui sarebbe meglio, non fosse altro che per rispetto, far esprimere quel poco di intelligenza residua  con il pudore del silenzio.

 

 

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1 Sulla sua storia vedi http://www.treccani.it/scuola/dossier/2010/150anni_istruzione/cossetto.html

2 Si tratta del monumento inaugurato nel giardino dell’asilo infantile il 24 ottobre 1875 a Gropello Cairoli (Pavia), opera dello scultore Gerolamo Masini, alla presenza del figlio Benedetto (foto seguente).

Immagine tratta da http://www.museicivici.pavia.it/risorgimento/risorgimento/opere/img/C8_0001b.jpg
Immagine tratta da http://www.museicivici.pavia.it/risorgimento/risorgimento/opere/img/C8_0001b.jpg

 

Il monumento oggi. Immagine tratta da http://www.vallinorestauri.com/curriculum.html
Il monumento oggi. Immagine tratta da http://www.vallinorestauri.com/curriculum.html

 

Il ricordo dell’evento è in Baccio Emanuele Maineri, Il monumento ad Adelaide Cairoli in Gropello Lomellino, 24 ottobre 1875, Zanaboni, Milano, 1876. Proprio a questo monumento probabilmente allude l’articolo uscito sul settimanale L’emporio pittoresco (anno VIII, n. 344 del  2-8 aprile 1871) in cui, dopo la notizia  della morte di Adelaide, si legge: Una madre piemontese all’annunzio della morte della sublime donna ideò un monumento degno di lei, ed invita per mezzo della stampa tutte le madri italiane ad una quota di cinquanta centesimi per raccogliere la somma necessaria ad innalzarne una statua da collocarsi in quella città d’Italia che venisse prescelta, oppure nel sepolcreto della famiglia Cairoli in Gropello, dove, insieme ai resti mortali de’ suoi quattro figli, giace ora la spoglie della madre magnanime, tipo perfetto di bontà e di abnegazione! Chi tra le madri di cuore italiano non risponderà al patriotico e pietoso appello?  È molto probabile che, avendo il poeta nel 1876 diciannove anni, questa poesia sia stata scritta parecchi anni dopo.

2 Credo che con signura motu ricca e curaggiosa il Castrignanò intendesse esprimere la sua meraviglia che una donna ricca si votasse al sacrificio. Io, però, mi chiedo: se Adelaide non fosse stata ricca sarebbe stata tanto curaggiosa, cioè avrebbe trovato voglia e opportunità di affermare la sua forte personalità, cosa che ancora oggi con difficoltà riesce ad un uomo, figurarsi ad una donna? Rimane, comunque,  la nobiltà, quella vera, del suo modo di essere, al servizio di un ideale superiore e non del potere, mentre avrebbe potuto benissimo condurre, essendo ricca, un’esistenza più tranquilla. A chi state pensando, per contrasto?

 

Rusineddha, una giovane bagnante di cento anni fa a Santa Caterina

di Armando Polito

Santa Caterina (Nardò) in due foto del 1945. Immagini tratte da

http://www.myboxtv.com/public/risorse/myboxtv/santa%20caterina%20marina%20di%20nardo%201945%20archivio%20privato%20pasquale%20maria%20miccolis.jpg

 

Anche questa poesia, come l’altra precedentemente presentata1, è del neretino Francesco Castrignanò ed è tratta dalla raccolta Cose nosce del 1909. Il tema è quello eterno della giovinezza e dell’amore, trattato con un’apparente leggerezza che si manifesta già nella struttura metrica che è quella della canzone.

A beneficio di chi, soprattutto se è molto giovane, sta già pensando al festival di Sanremo dirò subito che ho usato canzone nel suo significato più antico, cioè quello di un componimento poetico che obbedisce a certe norme strutturali. Uno schema più antico, quello petrarchesco, prevede un certo numero (di solito cinque o sette) di strofe (o stanze) di un numero variabile di versi (tutti endecasillabi o endecasillabi e settenari), liberamente disposti, in rima tra loro; tutte le stanze hanno la stessa struttura e la canzone si chiude con un gruppo più breve di versi detto commiato o congedo. Lo schema più recente è quello leopardiano, molto più libero, in cui le stanze non hanno una struttura rigida e neppure l’alternanza dei versi e delle rime segue un ordine fisso.

Poi c’è la canzone festivaliera che nella sua struttura tradizionale si ispira ad un modello anch’esso antico di canzone, che ha la sua espressione più nota nel Trionfo di Bacco e Arianna scritto attorno al 1490 da Lorenzo de’ Medici, più noto come Lorenzo il Magnifico. Chi non ha mai sentito Quant’è bella giovinezza/che si fugge tuttavia!/Chi vuol esser lieto sia:/di doman non c’è certezza.? È la stanza di apertura della poesia e i suoi ultimi due versi fungono da ritornello alla fine di ogni stanza.

La struttura metrica della poesia che ci accingiamo a leggere ricalca liberamente questo schema e il ritornello (Mare beddhu, mare mia,/ccu te sempre stare ulìa) si ripete ogni due stanze e, con una piccola variazione, nel secondo verso (cu te stia totta la tia), chiude il componimento.

Non manca una stranezza tecnica: nella seconda stanza paddhàtule non è in rima con stròlicu, contravvenendo alla regola, rispettata nel resto, che ogni stanza ha rime alternate (ABAB). Mi pare, infine, piuttosto banale il verso pi mme llàcrama lu giurnu, in contraddizione, oltretutto, con l’atteggiamento da macho con cui viene rappresentato il soggetto in questione (a meno che non si riveda la punteggiatura spostando il punto e virgola da dopo nturnu a dopo gnuricatu, per cui pi me llàcrama lu giurnu significherebbe per me il giorno  è un mare di lacrime).  Ho sempre detto che qualsiasi commento ad una poesia è un atto di violenza, ma, siccome sono un pazzo incosciente, voglio, una volta tanto, spingermi oltre la violenza e fino al delitto, senza, tuttavia, sottrarmi al giudizio del lettore che a tal proposito vorrà intervenire: se la punteggiatura fosse quella originale io avrei scritto pi mme spràsima ogni ggiurnu (per me spasima ogni giorno).

Per quanto ho detto la poesia, sfruttando abilmente e rinnovando una struttura metrica antica, fornisce un piacevole quadretto di vita in cui ogni gesto ha un risvolto psicologico e, cosa che immagino audacissima per i tempi in cui fu scritta, non mancano neppure i sogni erotici della protagonista in cui pisci, nonostante l’alibi ambientale di mare, non riesce a liberarsi completamente dal suo, per quanto inconscio forse, significato metaforico con cui spesso è usato nel meridione e finisce per dare un’ ambigua connotazione, per giunta al di fuori del sogno, a iddhu s’azza tuestu tuestu

A distanza di tanti anni oggi è inconcepibile che una ragazzina, abituata a tornare a casa all’alba, abbia una madre che in pieno giorno ponga fine alle sue schermaglie balneari invitandola (una sola volta, anzi allora bastava solo uno sguardo …) ad uscire dall’acqua. Il troppo storpia, sempre;  voglio solo sperare che la Rusineddha di turno abbia conservato almeno un pizzico di quel misto di ingenuità e malizia che è, in fondo, l’espressione dell’eterno femminino.

Copertina di Volti di carta di Raffaella Verdesca, Gruppo Albatros Il filo, Roma, 2012
Copertina di Volti di carta di Raffaella Verdesca, Gruppo Albatros Il filo, Roma, 2012

Per il resto rinvio alle note, ma, se le osservazioni fatte nel penultimo periodo sono soltanto coincidenze vittime della mia farneticazione interpretativa, non attendetevi altre pruriginose coincidenze e non perdete tempo a leggerle …

 

4

 

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1 https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/10/nardo-vista-da-un-poeta-del-primo-novecento-tasse-incluse/

2 È la ragazza che parla in prima persona e l’anastrofe (inversione di ordine tra ndurante e mare) non è dovuta tanto ad esigenze di rima quanto alla felice intenzione, libera da ogni tentazione ironica, dell’autore di far diventare poetessa, grazie all’ispirazione fornita dall’amore, anche una ragazza del popolo come Rusineddha.

3 Diminutivo di un inusitato pallata=a forma di palla, da palla.

4 Participio passato di stindicchiare, da stindìre=stendere come in italiano dormicchiare da dormire (il suffisso dà una connotazione diminutiva), studicchiare e studiacchiare da studiare (connotazione peggiorativa), canticchiare da cantare (frequentativa). In stindicchiare io rinvengo una connotazione frequentativa che, rispetto a stindire, con la sua sillaba in più dà quasi l’effetto visivo dell’atto fisico.

5 Da strulicàre, per il quale vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/03/31/borbottare-meglio-strulicare/

6 Per il Rohlfs la voce è da un prelatino *pèntima=rupe e lo studioso tedesco invita ad un confronto con il sardo pèntuma=precipizio e il  toponimo ligure Pèntema . Io posso solo aggiungere che nel Regesto Sublacense per l’anno 858 è riportato un locum qui vocatur pentoma. Dico pure che pèntuma è ancora in uso a Nardò per indicare, oltre che una grossa pietra, una donna dalle forme giunoniche, retaggio del canone di bellezza femminile dominante fino alla metà del secolo scorso (le maggiorate); poi fu la moda della donna filiforme ma nessuno si sognò di chiamare coloro che la seguirono le minorate

7 Accrescitivo dell’obsoleto babbio. Entrambe le voci non sono del nostro dialetto che usa babbèu. Un esempio illustre di babbione: e la bertuccia e il pappagal babbione (Carducci, Juvenilia, LXXVII, 28).

8 In italiano si direbbe: con la faccia tosta.

9 Da scuffundare, da un latino *exconfundare, composto da ex (con valore intensivo)+cum=insieme+il latino medioevale fundare=affondare, dal classico fundus=fondo.

10 Diminutivo di Rusina (Rosina), a sua volta diminutivo di Rosa.

11 Per la voce capasa, intraducibile in italiano con una sola parola, vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/11/12/a-proposito-di-cumitati-ecco-le-terracotte-salentine/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/03/capasone-e-il-capofamiglia-capasa-la-mamma-capasieddhu-il-figlio/

12 Corrisponde, con significato traslato, all’italiano impannare che significa fissare al telaio d’una finestra riquadri di panno, tela o anche carta, per riparo dal freddo; l’impannata estensivamente è l’infisso della finestra. Nella voce dialettale le palpebre sono il panno metaforico. Un equivoco, invece, c’è in cozze mpannate o cozze cu lla panna, chiocciole con l’opercolo chiuso da una pellicola per lo più bianca; proprio questo colore deve aver indotto la confusione tra panno e panna, confusione, tutto sommato, ridimensionata dal fatto che panna è derivato da panno.

13 Oggi come pronome relativo singolare e plurale si usa ca, mentre ci significa se.

14 Da curiusitusi, forma frequentativa del participio passato  (in)curiusiti come disculusu da dìsculu; crusitusi rispetto a curiusitusi ripropone il dilemma della genuina forma dialettale fedelmente riportata o del suo adattamento letterario per motivi metrici.

Nardò vista da un poeta del primo Novecento, tasse incluse …

di Armando Polito

1

 

È questione antica se l’arte, la poesia in particolare, debba assumere connotazione politica, debba, cioè, essere espressione di impegno sociale. Purtroppo, secondo me, si è confusa, e si continua a confondere, la politica con la militanza più o meno disinteressata, più o meno fanatica,  in un partito o con la semplice adesione alla sua ideologia (la confusione, poi, è totale oggi che non solo è scomparsa l’ideologia ma, cosa più grave, sono scomparse le stesse idee e sappiamo benissimo quali ideali hanno preso il sopravvento …), dimenticando che l’artista, il poeta in particolare, è, o almeno dovrebbe essere, per definizione un uomo libero o, comunque, in grado di liberarsi almeno ogni tanto dai condizionamenti che gravano su ognuno di noi, per farsi portavoce di valori universali, autenticamente democratici, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione ed opinione politica. Per farlo, se non si è Dante (pure lui era politicamente impegnato)  o Foscolo (rinunziò, tra l’altro, all’allettante offerta di dirigere una rivista austriaca per non dover scendere a compromessi con la sua voglia di libertà), è indispensabile compensare con un minimo di talento alcuni peccati che potrebbero esserci imputati. Da chi? Ma dalla critica che, bontà sua, pur non essendo libera … , si scandalizza per qualche difettuccio. Per esempio, negli scorsi decenni (ora non so …) la sinistra a denti stretti ammetteva il valore degli artisti agenti nell’entourage di Augusto e del suo, si direbbe oggi, ministro della cultura (ma anche addetto stampa …) Mecenate: Virgilio e Orazio i nomi più famosi. Lo stesso trattamento era riservato ai maggiori rappresentanti della cultura rinascimentale. Io credo che bisogna far distinzione tra il modesto leccaculo di turno e chi, come ho detto, pur dovendo concedere qualcosa ai condizionamenti del suo tempo, grazie al suo talento, tutto sommato, se li fa perdonare. Insomma un uomo d’arte o di cultura allora per avere fortuna doveva avere innanzitutto talento ed essere in qualche modo disponibile ad assolvere qualche obbligo di gratitudine; oggi, e qualcuno mi dimostri che non è così, tutto dipende solo dal servilismo;  tale è quello politico di chi nel suo futuro si vede non come uno statista che ha tentato di passare alla storia per la sua dedizione al bene comune ma come proprietario a sua insaputa di uno o più appartamenti, come prestanome per traffici ed affari poco chiari, come consulente o presidente di questo o quell’altro ente pubblico o privato; tale è quello strettamente culturale di chi ha ottenuto,  non si sa come ma certamente non per merito, una cattedra universitaria o una sponsorizzazione della pubblicazione di qualche sua scemenza per la quale il critico di turno, cretino e schiavo anche lui del sistema, ha già da tempo preparato una bella recensione che con parole altisonanti dice, bene che vada, cose contraddittorie. I detentori di tanto talento pensano, magari, o altri hanno fatto credere loro e loro ci sono cascati, di essere dei geni; in realtà sono solo schiavi cretini o cretini schiavi (qui l’inversione non comporta il minimo spostamento di significato …), anche se dal loro appartamento godono di viste mozzafiato, anche se pasteggiano a caviale e champagne, anche se vanno in Ferrari per terra, in executive per aria e in yacht per mare, anche se saranno costretti a prostituirsi a fare il giro delle scuole (o delle emittenti televisive …) per poter piazzare qualche copia in più del loro capolavoro.

Questa premessa era necessaria per introdurre l’argomento di oggi che riguarda la riproposizione e il commento (riservato alle note, mentre a fronte il lettore troverà la traduzione in lingua) di una poesia di Francesco Castrignanò (Nardò 1857-1938): laureato in Lettere e in Lingue, professore, calligrafo, giornalista, storico, diresse il giornale La sentinella e fu autore di parecchie pubblicazioni1.  La poesia presa in esame è tratta da Cose nosce, la cui prima pubblicazione risale al 1909.

Il peccato originale di Nardò, cioè l’essere stata edificata in un luogo malsano, per il poeta costituisce solo un pretesto per delineare  a rapidi tratti una storia scandita da fatti negativi dovuti agli uomini (guerre, tirannia del Guercio di Puglia) o alla natura (peste, terremoti), sicché tutto il componimento è un progressivo inno alla libertà e il dettaglio finale sul fisco costituisce una lezione, semplice ma efficace, di educazione civica di fronte alla quale gli evasori fiscali di oggi si farebbero una sonora risata, mentre è vano sperare che gli amministratori di turno si facciano, una volta tanto, l’esame di coscienza. Dalle fosche tinte iniziali, dunque, si passa ad una visione che, anche se non è aulica, rientra nel  diffuso clima di ottimismo postunitario. Poi venne la stagione fascista e sarebbe certamente antistorico e scorretto definire il Castrignanò come il cantore neretino del fascismo solo per tre opuscoletti dedicati a Mussolini (gli ultimi tre della nota 1, rispettivamente del 1928, 1930 e 1934). Se si è onesti bisogna pure ammettere che il regime godette per molto tempo del favore popolare e che la sparuta schiera di oppositori che già aveva pagato un alto tributo alle sue idee di libertà si rimpinguò di botto solo quando apparve evidente che la situazione, a cominciare da quella militare, stava precipitando. E quasi tutti si affrettarono a salire sul carro del vincitore, anzi a scendere da quello dello sconfitto, esibendo molto spesso l’atteggiamento disinvolto del gatto che dopo una caduta maldestra, per nascondere la vergogna, fa finta di niente …

Il  Castrignanò morì nel 1938 ed è inutile starsi a chiedere quale atteggiamento avrebbe assunto nei confronti del regime se fosse vissuto ancora qualche anno e quale posto potrebbe occupare nel quadro all’inizio delineato. Leggiamo, perciò, questa poesia semplicemente come un bozzetto del tempo che fu, il cui pregio maggiore è, secondo me, quello di stimolare a fare il confronto con il nostro.

Per evitare qualsiasi influenza e condizionamento interpretativo (chiedo scusa per averlo, forse, fin qui maldestramente fatto), le note (sono mie anche quelle che corredano il testo originale) e l’eventuale commento saranno prevalentemente di natura filologica. La trascrizione del testo è, come doveva essere, fedele, anche se non condivido alcune grafie; per esempio, non tanto l’assenza del segno dell’aferesi (gne, mpantanati, nticamente, zziuni, lluntanandu) quanto la non puntuale geminazione della consonante iniziale : buta, tutti, bona, chiantare, manca, tuecchi, turri, barbari, butu, saggiatu, bene, bire, santa, cui fa da contraltare l’inopportuna applicazione in ccu. Comunque,  Cose nosce  venne tenuto in conto dal Rohlfs nella realizzazione del suo vocabolario dei dialetti salentini, che registra accanto alle voci raccolte sul campo anche quelle di attestazione letteraria. Non è qui il luogo per spiegare le mie perplessità e riserve su questa scelta; dico solo che, ogni volta che troverete nel vocabolario del maestro tedesco una parola contraddistinta dalla sigla L29, sappiate che è stata tratta proprio da Cose Nosce.

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1 In morte di Giuseppe Garibaldi (2 giugno 1882), Tipografia Garibaldi, Lecce, 1882

Le orientali di Victor Hugo: saggio di traduzione, Tipografia nazionale, Trani, 1884

Antonio Caraccio: cenno biografico-critico, Tipografia Garibaldi, Lecce, 1895

Fiori di neve: versi, Tipografia neritina, Nardò, 1897

Cose nosce: poesie dialettali, Tipografia Neritina, Nardò, 1909 (ristampato dal figlio Corrado  per i tipi di Leone Editore, Nardò, 1969)

L’alleanza dei popoli, Tipografia Bortone, Lecce, 1915

Per il 1° cinquantenario dell’unità d’Italia, Mariano, Galatina, 1911

Patria mia: rime, Vergine, Galatina, 1923

(in collaborazione con Assuntina Antico, Giovanni Calò e Salvatore Castelluzzo) Il libro degli acrostici: a turisti d’Italia, Fratelli Carra, Matino, 1926

Lo Czar e il chimico, novella in versi e liriche sacre, Vergine, Galatina, 1926

A Benito Mussolini, Mariano, Galatina, 1928

L’acquedotto pugliese e il duce: canzone in dialetto neritino, Mariano, Galatina, 1930

Omaggio d’un settantenne a Mussolini: 25 marzo 1934, Gioffreda, Nardò, 1934

La storia di Nardò esposta succintamente, Mariano, Galatina, 1930

Versi, Mariano, Galatina, 1935

2 Ho usato impropriamente questa voce per contrapporre la depressione in cui sorge Nardò (appena 37 metri sul livello del mare) alla modesta altitudine (appena tre metri in più rispetto alla città) della zona Pagani (Paiàni in dialetto neretino) diventata ormai un quartiere periferico. Quanto all’origine dell’etimo non ho notizia alcuna e, ignorando l’esistenza o meno di fonti documentarie, qui posso solo avanzare delle ipotesi:

1) dal latino pagani, plurale di paganus (da pagus=villaggio)=campagnolo, contadino; in tal caso il toponimo alluderebbe alla contrapposizione tra coloro che abitavano entro le mura cittadine e coloro che in modo non occasionale risiedevano a qualche km. di distanza in zona, allora, rurale , molto probabilmente pure selvatica.

2) da pagani in contrapposizione a cristiani, e ciò alluderebbe ad una specie di comunità religiosa a se stante e diversa da quella ufficiale, cosa di cui non c’è traccia nelle fonti. Lo stesso se si dovesse pensare ad un’occupazione temporanea  da parte di Saraceni abituati, però,  solo a fare razzie ad allontanarsi. Nardò subì un’invasione saracena agli inizi del X secolo.

3) Pagani potrebbe alludere alla nobile famiglia napoletana Pagano, legata ai sovrani angioini ed aragonesi; i primi dominarono a Nardò dalla seconda metà del XIII secolo, i secondi (Acquaviva d’Aragona) verso la fine del XV secolo; sotto il regno (1458-1494) di Ferdinando I d’ Aragona (Ferrante), Tommaso Pagano, morto nel 1480, fu primo siniscalco del Regno di Napoli.

Solo negli ultimi decenni il nucleo abitato di Nardò ha cominciato ad espandersi in direzione dei Pagani sfruttando quasi totalmente gli ampi spazi rurali tra le case di villeggiatura (casìni) preesistenti. Il Castrignanò osserva che sarebbe stato più opportuno costruire il primo nucleo in questa zona, riflessione che anche il cittadino comune fa oggi, per quanto riguarda la successiva espansione della città, nei suoi discorsi, senza, però, introdurre la giustificazione storica che il poeta non trascura, corrispondente al rispetto di un’antica legge: ogni città tende a sorgere dove l’acqua è abbondante e facile da emungere. Oggi i Pagani fruiscono dell’acquedotto, ma in passato il fabbisogno idrico venne soddisfatto con le cisterne prima e con i pozzi artesiani poi. Il cittadino ha perciò ragione a non mettere in campo una giustificazione che non esiste più ed a fare le allusioni che da che mondo è mondo si fanno nei riguardi dei piani regolatori, soprattutto quando,  a torto o a ragione (non sempre agevoli da dimostrare incontrovertibilmente l’uno o l’altra) si crede di essere rimasti vittima, diretta o indiretta, di favoritismi. L’avrei detto anche se non avessi avuto la fortuna di vivere ai Masserei, zona, anch’essa ormai troppo densamente popolata per i miei gusti …

4) Registrato nel vocabolario del Rohlfs solo come testimonianza letteraria. Impossibile per me dire se si tratta di un’invenzione del Castrignanò o se effettivamente la voce era di uso popolare; chiara è, comunque, la sua derivazione da mberda (=merda), per dissimilazione da mmerda.  Oggi la voce in uso è mbirdisciàre  forma frequentativa di un inusitato *mbirdare.

5 Participio passato di struscire,  corrispondente all’italiano struggere.

6 Da s– privativa+pricare=seppellire; su pricare vedi

https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/03/28/pricare-una-parola-senza-etimologia-definitiva-come-lei-anche-se-una-di-quelle-avanzate-nello-stesso-tempo-fa-e-non-fa-una-piega/

7 Participio passato di saccarire, da saccare (a Nardò, però, si usa la variante siccare)=seccare. Per spiegarci saccarire, apparentemente strano infinito presente da saccare,  bisogna ipotizzare una forma aggettivale *saccale da un originario aggettivo sostantivato *saccu (dal citato saccare) diventato poi siccu per evitare confusione con saccu=sacco; da *saccale, poi, *saccalire e, infine, saccarire.

8 Oggi si usa fèutu; fieu è registrato dal Rohlfs con la sigla L29.

9 Sull’etimo di Arnèu vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/25/riflessioni-sulletimologia-di-arneo/

10 Qui, sembrerà strano, ma debbo fare i miei complimenti all’autore (è preoccupante se parlo con i morti?) per aver saputo fondere e conciliare fino a correttamente confondere due esigenze filologiche: la diàstole (vale a dire lo spostamento dell’accento in avanti per esigenze di rima con tantu) e l’evoluzione del toponimo dal greco Τάρας/ Τάραντος  (leggi Taras/Tàrantos) al latino Tarèntum (o Tarèntus)/Tarènti. Non a caso in alcuni centri di Terra d’Otranto la variante in uso è Taràntu.

11 Il Rohlfs registra solo un citate con la sigla L28 che si riferisce al poema di Giuseppe Marzo De Gadhipuli a Marte, Gallipoli, 1903 e le varianti cetate e cità tratte sempre da opere con velleità letterarie, il che ripropone il consueto problema di affidabilità documentale dell’uso popolare, tanto più che tutte (a parte cità) sono, come l’italiano letterario cittade, dal latino civitate(m).

12 Fiata (dal francese antico fieé, a sua volta da un latino *vicata, da vicis=vicenda) è uno dei classici esempi di parola di uso letterario entrata nell’uso corrente (o viceversa?).

13 Si tratta di Giangirolamo Acquaviva, conte di Conversano e signore di Nardò, per il quale vedi

https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/08/16/lolocausto-di-nardo-un-tributo-doveroso-ai-suoi-martiri-a-363-anni-dalla-loro-tragica-fine/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/08/20/20-agosto-1647-lolocausto-di-nardo-seconda-parte/

14 Nei tempi passati era un flagello (naturale!, non come l’Ilva …) ricorrente. Ma non sempre il male viene per nuocere: nel 1528, per esempio, le truppe francesi al comando del capitano Lautrec non completarono l’opera di occupazione di Nardò perché preferirono fuggire costrette proprio dalla diffusione della peste. E nello stesso anno morì di peste a Napoli Belisario Acquaviva d’Aragona dal 1516 duca (prima ne era stato marchese) di Nardò.  Una triste esperienza analoga patita in epoca successiva (XIX secolo?) ha dato vita al toponimo Impestati (in dialetto neretino ‘Mpistati, per cui vedi  https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/05/29/toponomastica-li-mpistati-un-caso-simile-a-via-scapigliari/

15 Nonostante il terremoto del 20 febbraio 1743  (vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/02/20/lo-tsunami-che-nel-1743-colpi-il-salento/), oggi Nardò è classificata come zona sismica 4, cioè con pericolosità sismica molto bassa

16 La locuzione dialettale d’artrimonti se non è genuina è un’abile costruzione del Castrignanò realizzata con l’incrocio tra la forma (d’oltremonti) che, al pari di oggi, era la più diffusa ai suoi tempi (un esempio per tutti: Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia N. 44 del 21 Febbraio 1894: Del diritto parlamentare aveva fatto studio particolare traendone abilità ad opportuni riscontri, per dare lume ai sopravvenienti casi, col ricordo di altri nostrani, cogli esempi e coi canoni che ci vennero d’oltremonti quando vi ebbe una Costituzione simile alla nostra) e la variante d’altremonti di qualche decennio anteriore (di cui son riuscito a trovare due sole ma importanti attestazioni, delle quali molto probabilmente il nostro deve aver letto le rispettive opere  (Niccolò Morelli di Gregorio, Pasquale Panvini, Biografie degli uomini illustri del Regno di Napoli, Gervasi, Napoli, 1825, pag. 453: Ed ora il gusto oltramontano ci conduce agli stessi errori. Salute allo spirito filosofico di altremonti che à introdotto così strane censure!; Filippo M. Pagani, Istoria del Regno di Napoli, Tipografia San Giacomo, Napoli, 1839, v. III,  pag. 163: … il re di Spagna e Massimiliano, per impedire che fosser venuti d’altremonti aiuti a Carlo, rotta avrebbero la guerra in Francia …).

 

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