Una campagna elettorale nella Ugento della seconda metà del XIX secolo

Una campagna elettorale nella Ugento della seconda metà del XIX secolo molto simile alle campagne elettorali dei nostri tempi

 

di Fernando Scozzi

Mi capita di leggere un opuscolo1 scritto da Niccola Vischi  (Trani, 1849 – Napoli, 1914) uno dei più illustri avvocati italiani, deputato e poi senatore a vita. E’ la pubblicazione dell’arringa pronunciata “Pei Signori Colosso Luigi, Massimo e Adolfo”, rispettivamente padre e figli, imputati di avere minacciato alcuni elettori allo scopo di indurli a votare per i candidati della loro lista. Le elezioni sono quelle per il rinnovo di un quinto dei consiglieri comunali, tenutesi ad Ugento il 31 luglio 1882.2 Al  partito di Vito Pezzulla, sindaco in carica, si contrappone il partito dei  Colosso che risulta vincitore delle elezioni.

La prima pagina dell’opuscolo dell’avv. Vischi

 

Che cosa fanno gli amici del Pezzulla dopo la sconfitta? Si oppongono alla convalida degli eletti;  ma il ricorso viene respinto. “A questo punto – secondo l’avv. Vischi –  il sindaco cerca di gittare un grido di allarme e rivolgendosi al magistrato inquirente scrive: A disimpegno dei miei doveri, quale Autorità locale di pubblica sicurezza ed ufficiale governativo vedomi nell’obbligo e nell’interesse della giustizia, di porgere quei lumi che portano allo scovrimento dei fatti ed indicando dodici testimoni denunzia alcune situazioni che secondo lui devono costituire i capi di accusa contro i signori Luigi, Adolfo e Massimo Colosso, Giovanni Rovito, Vincenzo Milone e Carmine Rizzo.” A conferma delle sue accuse, il  sindaco scrive: “ Colgo di poi questa opportunità per far conoscere alla Giustizia come gli elettori Vito Molle, Vito Congedi, Basile Lorenzo, Luigi Fiorito, Salvatore Ponzo, Luigi Santacroce, tutti di Ugento, mi dichiararono che i signori padre e figli Colosso, nonché il principe d’Amore Francesco ripetute fiate li minacciarono che ove non dessero il voto a seconda dei loro desideri, siccome si trovano, come si trovavano, fittuari e colòni di proprietà loro, li avrebbero scacciati a viva forza il giorno dopo la elezione; anzi, il primo dei nominati, Vito Molle, aggiungeva di essere stato minacciato di revolverata. Mi consta, poi – continuava il Sindaco – che dalla minacce passarono alle blandizie e vennero corrotti chi con pranzi, chi con denari, chi con generi”.

Panorama di Ugento. Acquerello di Cosimo De Giorgi (1882).

 

Le indagini sono affidate ad un delegato di pubblica sicurezza, il quale nella sua relazione al sottoprefetto di Gallipoli sottolinea “lo stato di eccessiva esaltazione in cui i partiti si contendono il potere amministrativo in Ugento”. Ciò nonostante  i Colosso sono rinviati a giudizio.

I primi a deporre sono Lorenzo Basile, Vito Molle, Luigi Fiorito ed altri, i quali negano di avere ricevuto minacce dai Colosso.  E d’altronde,  anche se le minacce ci fossero effettivamente state, potevano costoro testimoniare contro i loro “padroni?” Successivamente, depongono altri testimoni definiti dall’avv. Vischi come “i dodici apostoli” del Sindaco che hanno il compito speciale di asserire i fatti e la missione generale di avvalorare i detti degli altri con le parole anch’io ho inteso a dire, etc… .  Tra costoro – secondo il Vischi – abbiamo il vero capo partito nella persona di Donato Piccinno che si presenta con i suoi due figli: Oronzo, (assessore spodestato dal partito dei Colosso) e Giuseppe, definito violento e prepotente. In seconda linea vengono Salvatore Moro3 , maestro della scuola elementare della frazione Gemini, Ambrogio Rizzo, medico condotto (del quale i Colosso vogliono il licenziamento) e Paolo Andrioli, esattore delle imposte. Tutti  tre, essendo dipendenti comunali, sono dalla parte del sindaco, al quale  devono la nomina.  In terza linea – continua l’avv. Vischi –  vengono gli agenti dell’ultima classe, quelli che nei partiti hanno la missione di sbraitare, correre, encomiare, calunniare, sempre facendo da eco, e lavorando poco di coscienza e di mente, molto di gambe, di polmoni e di fiele, e tutto ciò per l’unica soddisfazione di sentirsi dire bravi ad ogni loro racconto di eccessi compiuti, nonché l’altra di potere esclamare: abbiamo vinto noi. Poveri iloti del ceto elettorale! Esercitano anch’essi in questa maniera la loro sovranità!…”

Insomma,  è la  descrizione di una campagna elettorale di 140 anni fa che, per molti aspetti, è uguale alle contese elettorali dei nostri tempi. Infatti, come non paragonare Donato Piccinno (definito  dal Vischi il vero capo del partito del Sindaco) ai tanti personaggi che, pur non scendendo in campo in prima persona, manovrano dietro le quinte e poi ottengono un posto di assessore per  un loro parente? Ed i “poveri iloti” di quel periodo non sono i “galoppini” contemporanei  che,  alla stessa maniera, sbraitano, calunniano, corrono di qua e di là…? Il discorso non cambia per i dipendenti comunali, che si comportano come la maggior parte degli impiegati, sempre pronti ad interpretare la volontà del Capo allo scopo di ottenere una promozione. E poi vengono i Colosso, il cui potere economico insieme a quello dei Rovito (con i quali sono imparentati) pervade la società ugentina del XIX secolo. Per questi è quasi un gioco vincere le elezioni  avendo dalla loro parte uno stuolo di affittuari, di colòni, di inquilini e di debitori ben disposti a  votare la lista dei Colosso pur di non avere altri problemi oltre a quelli dovuti alla povertà.  In un certo senso, è una sorta di voto di scambio, come quello che, in molti casi, si consuma tra elettori e candidati di tutte le campagne elettorali: cambiano i tempi, cambiano i protagonisti, ma ci sarà sempre chi sfrutterà i bisogni economici degli elettori, le loro convinzioni ideologiche, la loro fede religiosa per conquistare o mantenere il potere.

Ma torniamo al processo contro i Colosso ed all’arringa dell’avv. Vischi il quale, dopo aver ribaltato le accuse affermando che sono gli amici del Pezzulla ad essere “rei di broglio elettorale”, invoca l’assoluzione dei suoi assistiti, “distintissimi gentiluomini”, non per “insufficienza di prove” (come chiede il Procuratore del Re) ma per inesistenza del reato, giacchè l’influenza e le pressioni  non possono essere confuse con le minacce”.

E il sindaco Pezzulla? Il suo destino politico è segnato perché l’anno successivo si vota per il rinnovo dell’altro quinto dei consiglieri comunali e vince ancora una volta la lista dei Colosso. Il Pezzulla non ha più l’appoggio della maggioranza dei consiglieri comunali e quindi si dimette. Al suo posto si insedia un regio delegato straordinario;  poi il Re nomina Sindaco il principe Francesco d’Amore: i baroni Colosso (almeno in quel periodo)  non sono lusingati dall’umile carica di Sindaco di Ugento.

Antico stemma del Comune di Ugento

 

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(1) L’opuscolo è datato Trani, 29 agosto 1883

(2) La legge elettorale n. 2248 del 20.3.1865 prevedeva che i consigli comunali si rinnovassero, ogni anno,  di un quinto dei loro componenti. Le operazioni di voto si svolgevano nel seguente modo: gli elettori si riunivano nella sala della votazione; quindi, il presidente del seggio elettorale chiamava ciascun elettore nell’ordine della sua iscrizione nella lista. Trascorsa un’ora dal termine del primo appello, si procedeva  ad una seconda chiama degli elettori che non avevano votato. Per essere elettore occorreva avere compiuto il 21° anno di età, godere dei diritti civili e pagare un certo tributo rapportato alla classe del Comune. Le donne non erano ammesse al voto. La Giunta veniva eletta dal Consiglio Comunale, mentre il Sindaco, nominato dal Re fra i consiglieri comunali, durava in carica tre anni.  Il Comune di Ugento, nel 1882, aveva una popolazione superiore a 3.000 abitanti e quindi il Consiglio era composto da 20 consiglieri.

(3) Salvatore Moro, originario di Galatina e maestro elementare a Gemini (frazione di Ugento)  era il nonno dell’ on. Aldo Moro. In quel periodo, i maestri della Scuola Elementare venivano nominati dal Consiglio Comunale essendo l’istruzione primaria di competenza del Comune.

 

100 anni per il Comune di Melissano

di Fernando Scozzi

 

14 aprile 1921 – 14 aprile 2021 

Cento anni fa la Frazione Melissano diventava Comune, ma l’autonomia amministrativa non poteva risolvere i problemi causati dalla carenza di risorse economiche e dalla scarsa coesione sociale

 

Le vicende storiche di Melissano possono essere paragonate alle vicissitudini  dell’ultimo pulcino della nidiata che, per essere più debole degli altri, non ha la forza per pretendere la sua porzione di cibo e quindi deve accontentarsi degli avanzi. Di conseguenza, cresce più debole e questo suo handicap lo segna per tutta la vita. Il paragone è utile per comprendere la storia di Melissano, ultimo “arrivato” fra i paesi limitrofi, tanto è vero che il feudo melissanese fu separato da quello di Casarano ed assegnato al cavaliere Romeo Piex solo nel 1269, periodo in cui la maggior parte dei paesi di Terra d’Otranto erano già strutturati.

Per il nuovo feudo furono ritagliati solo 1250 ettari, confinanti  con il feudo di Ugento (che di ettari ne contava quasi 10.000) e con i territori di Matino, Racale, Taviano e Casarano dalla cui serra le acque piovane, scendendo a valle, formavano vasti acquitrini. Tutto ciò rese difficile l’insediamento umano che avvenne con grande ritardo rispetto ai paesi limitrofi e, per giunta, fu interrotto nel 1412, quando il casale fu abbandonato  prima che le milizie di Giacomo Caldora, al servizio della regina Giovanna di Napoli, scendessero nel Salento per distruggere i possedimenti degli Orsini del Balzo, fra cui Melissano.

Così, il feudo ritornò nelle sue condizioni originarie e fu ripopolato con difficoltà tanto che solo alla fine del 1500 risulta abitato da un centinaio di “bracciali”. Costoro, dovevano comunque misurarsi con le problematiche del primo periodo di vita del casale, aggravate dall’ulteriore ritardo con il quale Melissano ricominciava la sua storia.  Fra l’altro, mentre nei paesi limitrofi la presenza dei proprietari dei feudi trainava in qualche modo lo sviluppo dei territori, il marchese di Specchia e signore di Melissano, Don Andrea Gonzaga, risiedeva nel capoluogo del marchesato e l’unico motivo di interesse per il casale era quello della riscossione delle decime.

L’antico stemma civico di Melissano raffigurato nella ex-chiesa parrocchiale di Sant’Antonio di Padova

 

La situazione migliorò con i De Franchis (acquirenti del feudo melissanese nel 1618) che, comunque, preferirono abitare a Taviano dove, anche con il ricavato dei balzelli imposti ai melissanesi contribuivano allo sviluppo del capoluogo. Il casale, invece, languiva nelle sue condizioni misere originarie. Ma lo scarto fra Melissano e gli altri paesi  si aggravò ulteriormente quando l’olivicoltura, attività non confacente alle caratteristiche pedologiche della maggior parte dei terreni melissanesi,  divenne la principale fonte di reddito della Terra d’Otranto.  Cosicchè, mentre i feudi degli altri paesi si coprivano di uliveti e la commercializzazione dell’olio lampante determinava la formazione di una classe di proprietari terrieri e di commercianti interessati allo sviluppo urbanistico dei propri luoghi di residenza, Melissano, ancora agli inizi del 1800,  aveva più l’aspetto di una grande masseria che di un paese: pochi vicoli ricalcanti gli antichi sentieri campestri, un grappolo di casupole affacciate sulla campagna, la chiesa parrocchiale ed una casa a due piani, di proprietà del feudatario, che agli occhi dei melissanesi sembrava un castello. D’altronde, il tessuto urbano esprimeva la povertà dei 500 abitanti che si dedicavano ad un’agricoltura di sussistenza, fra carenze alimentari ed epidemie ricorrenti.

Melissano, anni Cinquanta – Piazza del Mercato Vecchio (foto Velotti)

 

La situazione peggiorò nel decennio francese quando Giuseppe Bonaparte riformò la ripartizione amministrativa del Regno di Napoli sulla base del modello francese e con decreto reale n. 922 del 1811 stabilì, fra l’altro, che il borgo Melissano, non avendo i requisiti per l’autonomia amministrativa, doveva essere aggregato al Comune di Taviano.

Le conseguenze dell’unione furono gravissime per lo sviluppo economico e sociale del paese perché i melissanesi dovettero attendere ben 110 anni per ottenere l’autonomia amministrativa. C’era una sola strada per uscire da questa situazione di subalternità e fu tentata nel 1850 quando ”i naturali di Melissano chiesero di separarsi dal Comune di Taviano per reggersi in isolata amministrazione”.

Il paese contava in quel periodo 981 abitanti, ma per esercitare l’elettorato attivo e passivo era necessario avere una rendita imponibile annua di almeno 12 ducati, per cui gli eleggibili si riducevano a sole 35 unità. Inoltre, le entrate comunali raggiungevano appena la somma di  307 ducati, importo insufficiente per fronteggiare le spese del nuovo Comune. Il Consiglio di Intendenza, quindi, respinse la richiesta proprio per l’estrema povertà del paese che, per molti aspetti, non era ancora uscito dalle nebbie del medioevo.

Melissano negli anni Cinquanta (foto Velotti)

 

Il monotono scorrere del tempo fu rotto dagli eventi che nel 1860 condussero il Mezzogiorno all’unificazione nazionale,  ma anche in questa occasione (come dalle riforme del periodo francese) i melissanesi non trassero alcun giovamento perché la politica accentratrice dello Stato Unitario comportò la chiusura dell’Ufficio dello Stato Civile, dell’Ufficio di Conciliazione e perfino della farmacia. Ormai, solo la Parrocchia rimaneva a testimoniare l’esistenza della Frazione.

Tuttavia, l’identità melissanese, fattasi strada fin dall’inizio degli anni Settanta, andava sempre più consolidandosi in relazione alla disponibilità di  risorse economiche provenienti dalla viticoltura. La grande espansione della superficie vitata si ebbe allorchè i vigneti francesi furono devastati dalla fillossera e quindi la forte richiesta di vini da taglio proveniente d’oltralpe indusse gli agrari pugliesi a procedere rapidamente a nuovi impianti, dissodando vaste aree boscose o incolte e sfruttando l’enorme forza-lavoro dei braccianti.

Melissano non rimase estranea a questa rivoluzione colturale tanto è vero che proprio quei terreni inidonei alla olivicoltura, furono coperti da vigneti e  divennero il principale fattore di ricchezza del paese. Lo sviluppo della viticoltura favorì, fra l’altro, la formazione di un gruppo di piccoli e medi proprietari terrieri indispensabile per la crescita della Frazione. Contemporaneamente, si aprirono nuove possibilità di lavoro per contadini, artigiani e commercianti che si trasferirono a Melissano dai paesi limitrofi e dal Capo di Leuca contribuendo ad uno straordinario aumento del numero degli abitanti ed alla costituzione di una classe bracciantile che caratterizzerà per lunghi anni le vicende socio-economiche di  Melissano.

Melissano, anni Novanta del secolo scorso. Vigneti in località “Franze” (Foto F. Scozzi)

 

Lo sviluppo della viticoltura determinò importanti conseguenze anche a livello amministrativo perchè all’insofferenza per il trattamento ricevuto dal Comune di Taviano, si aggiunse la diversificazione degli interessi economici fra le due Comunità. Tutto ciò spinse i viticoltori melissanesi ad intensificare i rapporti commerciali con Casarano (centro vitivinicolo fra i più importanti della provincia) ed a chiedere la separazione da Taviano.  Quindi,  dal 31 dicembre dello stesso anno, la Frazione Melissano veniva aggregata al Comune di Casarano.

Alla fine del XIX secolo, dunque, l’economia di Melissano era in pieno sviluppo, tanto è vero che fu possibile iniziare la costruzione della nuova chiesa parrocchiale, simbolo della fede operosa dei melissanesi. Ma il relativo benessere e l’eterogeneità della maggior parte della popolazione (proveniente da paesi diversi e quindi priva di una storia comune) contribuirono all’acuirsi di una serie di problematiche che impedirono  l’ulteriore crescita economica e sociale del paese. La divisione della comunità trovava la sua massima espressione nel gruppo consiliare melissanese e ciò consentiva al Comune di Casarano di rinviare la realizzazione di opere pubbliche indispensabili per la civile convivenza nella Frazione: orologio pubblico, ufficio postale, edificio scolastico, viabilità interna, ecc….

Le difficoltà aumentarono nel secolo successivo quando la Comunità melissanese andò sempre più differenziandosi al suo interno con la costituzione di due fazioni capeggiate, rispettivamente, dal prof. Luigi Corvaglia e dall’avv. Felice Panico.

L’avv. Felice Panico, primo sindaco di Melissano

 

Lo scontro assunse toni molto aspri e fu alimentato non solo dalle critiche che il Corvaglia avanzava nei confronti del Panico (referente del Comune nella Frazione) ma anche da rancori personali e familiari. Questa situazione di sostanziale equilibrio delle forze impedì l’ulteriore sviluppo della comunità melissanese che non volle riconoscersi in un leader in grado di portare avanti le esigenze del paese che contava, ormai, 3.000 abitanti. Anche per questo, si erano create le condizioni previste dalla legge per la concessione dell’autonomia amministrativa alla Frazione che fu sancita dalla legge n. 496 del 14 aprile 1921.

Doveva essere l’occasione per recuperare il tempo perduto in decenni di dipendenza amministrativa, ma il nuovo Comune nasceva con un debito di L. 4.000 nei confronti di Casarano, con la necessità di retribuire gli impiegati e di costituire al completo l’ufficio comunale senza che fosse previsto alcun aiuto finanziario da parte dello Stato.

In quel periodo, le entrate dei Comuni provenivano quasi esclusivamente dalla sovrimposta sui terreni; ma Melissano poteva riscuotere ben poco, considerato che il suo feudo era costituito da soli 1250 ettari, compreso l’abitato. Pertanto, l’autonomia amministrativa aumentò le difficoltà che avevano caratterizzato la storia della comunità melissanese fin dalle origini. Soprattutto per questo, i nuovi amministratori, compresi i fratelli Corvaglia (che fino a pochi mesi prima avevano assunto un ruolo progressista nella comunità) rigettarono in blocco le proposte del commissario prefettizio, avv. Edoardo Poli, il quale “aveva sognato di trasformare una povera borgata campestre in una capitale” solo per aver fatto progettare l’edificio scolastico ed il macello pubblico e per avere assunto due netturbini. D’altronde, per i consiglieri comunali la gestione della cosa pubblica melissanese consisteva soltanto nel “coprire le esigenze imprescindibili per il regolare funzionamento dei pubblici uffici”.

Su queste premesse si realizzò un’effimera unità fra gli antichi avversari e quindi la maggior parte dei consiglieri comunali elessero primo sindaco di Melissano l’avv. Felice Panico, mentre i fratelli Luigi e Michelangelo Corvaglia furono eletti assessori. Tutti d’accordo, quindi,  ma solo per pochi mesi perché la riproposizione dei contrasti fra il Sindaco e l’assessore Luigi Corvaglia causarono lo scioglimento del Consiglio Comunale e la nomina di un Commissario prefettizio. In realtà, l’autonomia amministrativa aveva accentuato gli antichi problemi della comunità melissanese che riemersero con maggiore evidenza negli anni Cinquanta e Sessanta, quando lo sviluppo economico fu reso possibile soprattutto per le rimesse degli emigranti, mentre la divisione sociale trovò nuove motivazioni dallo scontro fra i partiti politici.

Oggi, la situazione sociale ed economica del paese è così cambiata che sembrano trascorsi secoli da quel 1921: la viticoltura è ormai un ricordo del passato, la popolazione diminuisce, l’economia del paese trova gran parte delle risorse negli interventi previdenziali ed assistenziali.  Tuttavia, è importante ricordare, perché dalla conoscenza delle vicende del passato possiamo trovare nuovi stimoli per rinsaldare il senso di appartenenza alla Comunità.

 

Melissano e la statua di Sant’Antonio di Padova

La tela seicentesca che diede origine al culto di S.Antonio di Padova a Melissano

Per i trecento anni della statua di Sant’Antonio di Padova venerata nella chiesa parrocchiale di Melissano

 

di Fernando Scozzi

La statua di Sant’Antonio di Padova, venerata nella chiesa parrocchiale di Melissano, compie 300 anni. Non è una ricorrenza di secondaria importanza perchè nel difficile lavoro di ricostruzione delle vicende religiose e sociali della comunità melissanese anche l’immagine del Santo Patrono ha la sua rilevanza. Il simulacro, infatti, testimonia la generosità del vescovo di Nardò, Mons. Antonio Sanfelice e la devozione dei melissanesi per Sant’Antonio di Padova il cui patrocinio non trae origine da avvenimenti straordinari, ma da un dipinto del Santo che i De Franchis, feudatari di Melissano, donarono alla nuova chiesa parrocchiale nei primi anni del XVII secolo. (1)

Melissano, la facciata dell’antica chiesa parrocchiale di S. Antonio (sec. XVII) (foto Fernando Scozzi)

 

Fin da quel periodo, quindi, Sant’Antonio di Padova divenne il Santo di riferimento del piccolo paese, anche se il primo documento che ne attesta il patronato risale al secolo successivo. Dalla relazione della visita pastorale del 11 maggio 1719 apprendiamo, infatti, che il vescovo Sanfelice, accompagnato dal parroco, Don Ottavio Piamonte, visitò la chiesa parrocchiale intitolata a Sant’ Antonio di Padova, confessore e patrono principale di Melissano; visitò gli altari del Rosario e del Protettore, ma la non la statua del Santo, dal momento che la parrocchia era così povera da esserne sprovvista.

Mons. Antonio Sanfelice che commissionò la statua di Sant’Antonio di Padova per la chiesa parrocchiale di Melissano (da fondazioneterradotranto.it)

 

L’anno successivo, lo stesso presule visitò nuovamente la chiesa, la torre campanaria, il sepolcro dei defunti, le suppellettili sacre e la nuova statua di Sant’Antonio di Padova con sacra reliquia, circostanza riportata nella relazione della visita pastorale  ..… visitavit novam statuam Santi Antonii de Padua cum sacra reliquia. Nessun dubbio, quindi, riguardo alla datazione del simulacro che fu intagliato fra il 1719 ed il 1720. E’ molto probabile che fu lo stesso Sanfelice a commissionare la statua, dopo aver constatato, nel corso della prima visita pastorale, che la parrocchia ne era priva. Il vescovo si rivolse, quasi certamente, al “maestro di legname” Giovanni Antonio Colicci (attivo a Napoli negli anni fra il 1692 ed il 1740) che in quello stesso periodo scolpiva le statue dell’Assunta per la cattedrale di Nardò e del San Filippo Neri per il seminario della medesima città, mentre per la parrocchiale di Lequile firmava il mezzobusto ligneo del Santo dei miracoli (2).

Quest’ultimo è simile alla statua di Sant’Antonio venerata nella chiesa di Melissano (occhi grandi, viso ovale, panneggio della tunica che cade sul basamento) il che ne avvalora l’attribuzione all’artista napoletano. Il Santo è raffigurato insieme a Gesù Bambino che, con una mano benedice e con l’altra indica il volto di Sant’Antonio come ad esortare i fedeli ad imitarne le virtù. Completano l’immagine il giglio ed il libro simboli, rispettivamente, di purezza e di ispirazione alla Sacra Scrittura.

Melissano, anni Sessanta del secolo scorso – La statua di Sant’Antonio addobbata con gli ori offerti per grazia ricevuta

 

Nel 1788 si rese necessario l’ampliamento dell’antica chiesa parrocchiale al cui interno fu edificato un artistico altare del Protettore che, con le sue linee settecentesche, caratterizza il sacro edificio. Qui, sulla controfacciata, si nota un’effigie di Sant’Antonio di Padova che, a detta dei più anziani, fu impressa sulla parete dalla scarica di un fulmine durante l’infuriare di un temporale. Certo è che il dipinto risale ai primi anni del secolo scorso, ma non è escluso che sia stato eseguito su una preesistente immagine del Santo.

Dagli atti del Comune di Taviano (cui Melissano fu aggregata agli inizi del XIX secolo) risulta che nel 1812 il Municipio stanziava otto ducati per solennizzare la festa patronale che, fin da quel periodo, prevedeva due appuntamenti annuali: il 13 giugno (festa liturgica) e la prima domenica di settembre (festa solenne). In questa occasione, fin dal 1877, fu istituita una fiera a supporto di un’economia agricola in forte espansione che aveva fatto della viticoltura il punto di svolta per lo sviluppo socio-economico della comunità melissanese. E proprio negli ultimi decenni del XIX secolo, con le risorse finanziarie provenienti dalla commercio del vino, si edificava la nuova chiesa parrocchiale che, in continuazione ideale con l’antica matrice, fu aperta al culto nel 1902 e dedicata al Protettore e alla Madonna del Rosario, titolare della parrocchia.

La statua di Sant’Antonio, quindi, passò dall’antico al nuovo tempio e continuò ad essere accompagnata nelle tre processioni annuali, parte integrante dei festeggiamenti svolti secondo un programma che, per molti aspetti, è stato seguito fino allo scorso anno: concerti di bande musicali, illuminazione delle principali vie del paese, messa solenne con panegirico e conclusione della festa con lo spettacolo di fuochi pirotecnici. (3)

Nel 1910 il simulacro fu impreziosito (per devozione di Fortunato Caputo) da un medaglione d’argento, mentre Francesca Panico donò la corona lignea dorata sotto la quale viene esposta ancora oggi la statua del Santo. Successivamente, il parroco Don Salvatore Tundo, pubblicò un libro in versi sulla vita di Sant’Antonio (4) mentre i coniugi Giuseppe e Antonia Musio fecero dipingere il maestoso altare del Protettore dove campeggia un’immagine del Santo (risalente al 1902) pregevole opera del pittore leccese Luigi Scorrano. Nel 1931, fu realizzato un ciclo di dipinti che raffigura gli episodi più significativi della vita del Santo dei miracoli (il transito, la gloria, la distribuzione del pane ai poveri) mentre la devozione popolare si manifestava con i numerosi monili offerti al Protettore per grazia ricevuta (esposti sull’immagine in occasione delle processioni) con la capillare diffusione del nome del Santo fra i melissanesi, le edicole sacre, le immagini fra le mura domestiche.

L’ultimo restauro della statua, il tredicesimo, risale al 2008. I lavori, affidati ad un’impresa specializzata, sotto la sorveglianza della Soprintendenza dei Beni Culturali di Lecce, ne hanno confermato la datazione, visto che la reliquia del Santo, posta nell’incavo centrale dell’immagine è autenticata dal sigillo di Mons. Antonio Sanfelice. E’emerso, inoltre, che il simulacro, di pregevole fattura, “è costituito dall’assemblaggio di tre pezzi di legno tenero tenuti insieme da un sistema di chiodi passanti che ne assicura la tenuta”. (5)

La statua, secondo gli addetti ai lavori, è stata riportata al suo stato originario; ma, nonostante gli interrogativi suscitati da un intervento così radicale, rimane un elemento di identificazione della Comunità melissanese affidatasi nel corso dei secoli a Sant’Antonio di Padova, uno dei Santi più amati dalla cristianità.

Melissano, chiesa parrocchiale – La statua del Santo dopo il restauro del 2008 (foto R. Lanza)

 

Note

  1. I De Franchis, marchesi di Taviano ed utili signori di Melissano, erano così devoti a Sant’Antonio di Padova da far costruire e dedicare nel 1643 al Santo dei miracoli il convento dei francescani riformati di Taviano.
  2. Maura Sorrone https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/12/26/giovanni-antonio-colicci maestro-di-legname/
  3. “La Gazzetta del Mezzogiorno” riporta il programma della festa del 1951: “Hanno avuto inizio i festeggiamenti in onore del Patrono S. Antonio di Padova. Il Comitato ha preparato il seguente vasto ed interessante programma. Nelle ore pomeridiane di sabato 1 settembre e in quelle antimeridiane di domenica, la statua del Santo sarà portata processionalmente per le vie del paese. Una solenne messa in musica sarà celebrata nella parrocchia a termine della processione di domenica 2 settembre, messa che sarà eseguita dall’orchestra lirico-sinfonica “Città di Taranto”. Terrà il panegirico il Prof. Padre Gerardo Miccioli dei Frati Minori. Per l’occasione sono stati ingaggiati l’orchestra lirico-sinfonica “Città di Taranto” e il concerto musicale di Corigliano d’Otranto rispettivamente diretti dal Maestro Dino Milella e dal Maestro Marcianò. L’addobbo sarà curato dalla locale ditta Fratelli Parisi e vi saranno batterie di fuochi artificiali. Come per tradizione la fiera del bestiame e merci avrà luogo domenica 2 settembre”. Dalla fine degli anni Settanta, al tradizionale programma è stato aggiunto uno spettacolo di musica leggera con l’ingaggio di cantanti anche di fama nazionale. Invece, la processione che si svolgeva nel giorno della festa solenne è stata soppressa con il conseguente impoverimento dei festeggiamenti religiosi, ora limitati alla sera della vigilia. Ma, in generale, sono cambiate le motivazioni alla base delle feste patronali. Per quanto riguarda Melissano in particolare, la festa solenne che fino a pochi anni fa segnava l’inizio della vendemmia e quindi il rientro in paese dei melissanesi residenti nella abitazioni estive, è diventata (per l’abbandono dell’attività agricola e per il cambiamento climatico) un appuntamento da passare al mare ed a cui partecipare, tutt’al più, nelle ore serali.
  4. Arc. Salvatore Tundo, S. Antonio, Carra, 1936. Così esordiva Don Salvatore nella sua pubblicazione: “Fortunata sei tu Melissano/d’aver scelto a celeste Patrono/ chi di gemme ha cosparso il suo trono/ed è ricco i tutti i tesor. I tuoi padri da Fede guidati/quando assursero a libera vita/ al Rosario cercarono aita/ad Antonio fidarono i cuor”.
  5. Don Giuliano Santantonio , “Sant’Antonio … ritrovato”, in “Il Carrubo”, a. 1, n. 3, giugno 2008.

I colori del paesaggio salentino

di Fernando Scozzi

Campo di grano e torre colombaia nei pressi di Felline, ovvero i colori del paesaggio salentino: dal verde del grano al giallo-oro delle spighe, dal rosso dei papaveri all’azzurro del cielo al bianco delle case fra gli ulivi.

La torre merlata, visibile dalla provinciale che da Felline porta alla marina di Ugento,  faceva parte di una grande costruzione rurale i cui ruderi sono ancora evidenti.

Sembra incredibile come la torre, già fonte di ricchezza per l’allevamento dei colombi, abbia potuto resistere alle ingiurie del tempo, alla noncuranza degli uomini e all’urbanizzazione selvaggia del territorio.

Dalla “spagnola” al coronavirus speriamo che la storia non si ripeta

di Fernando Scozzi 

Fino a pochi anni fa viveva ancora qualche testimone oculare della terribile febbre spagnola (1) che negli anni 1918/19 causò solo nel nostro Paese più di 600.000 morti, un numero addirittura superiore a quello degli italiani caduti nella prima guerra mondiale. L’immane conflitto cessò proprio nel periodo di massima diffusione della pandemia che, secondo alcune fonti, aveva decimato gli eserciti degli imperi centrali causandone la resa. Ma il contagio non conosceva confini e la malattia si diffuse ben presto dai campi di battaglia in tutto il mondo. Chi aveva vissuto quel triste periodo nei piccoli paesi del Salento, ricordava lo straordinario numero di morti, il divieto di celebrare i funerali, la calce viva cosparsa sui cadaveri e la mancanza di ogni tipo di prevenzione e di cura dal momento che l’assistenza sanitaria pubblica era quasi inesistente, i presidi sanitari del tutto sconosciuti e la maggior parte delle abitazioni prive di servizi igienici. La spagnola, quindi, fu considerata una tragica fatalità che infierì sulle famiglie già duramente colpite dal conflitto bellico.
Per avere un’idea dell’ecatombe che colpì anche il Salento basti pensare che nel 1918, fra i circa 37.000 leccesi, si contarono 1.542 decessi (esclusi i caduti in guerra) contro i 910 dell’anno precedente, tanto da indurre le autorità a rinviare la riapertura delle scuole. Non andò meglio nei paesi della provincia, dove le vittime dell’influenza furono ugualmente numerose e determinarono una consistente diminuzione della popolazione. (2) A Casarano, per esempio, fu necessario un registro supplementare degli atti di morte, perché fra il 1917 ed il 1918, su una popolazione di circa 8.500 abitanti il numero dei decessi aumentò da 203 a 301, mentre nella frazione Melissano (circa 3.000 abitanti) i defunti, in prevalenza femmine da zero a cinque anni e da 20 a 40 anni, furono 117 (contro i 68 dell’anno precedente) con punte di 5 morti il 1°, il 4, il 6, l’11 ed il 14 ottobre (3).

La Stampa del 22.11.1918

 

Nell’Ufficio dello Stato Civile del Comune di Maglie, il 31 dicembre 1918, fu compilato l’atto di morte n. 300, mentre l’anno precedente la prima parte del registro si chiuse con l’atto n. 184. A Gallipoli l’epidemia anticipò i suoi effetti agli ultimi mesi del 1917, tanto è vero che in quell’anno i morti furono 321, contro i 228 dell’anno precedente.

Sul Corriere delle Puglie (4) del 2.10.1918, si legge un articolo sulle precarie condizioni igieniche del Comune jonico, cui si faceva risalire la recrudescenza dell’epidemia. “Alcune strade della città, per non dire tutte – affermava il giornalista – sono diventate un letamaio, da cui esala un odore sgradevole, l’innaffiamento stradale manca, e le disinfezioni si fanno con tale parsimonia che il loro effetto diviene nullo”.  Lo stesso giornale annunciava la morte, avvenuta il 4 ottobre 1918, dell’arcivescovo di Trani, Mons. Giovanni Règine “colpito da influenza e successiva polmonite contratta durante le quotidiane, assidue, faticose peregrinazioni nei quartieri maggiormente colpiti dal morbo che ci affligge”.

L’Avanti del 23.10.1918

 

Da Giovinazzo, invece, si partecipava la morte del Sindaco Dagostino Donato  “scomparso dalla scena del mondo in soli cinque giorni di malattia ribelle alle cure dei sanitari che fino agli estremi hanno lottato per sottrarlo alla inesorabile morte”, mentre il Comune di Bitonto invitava i cittadini a “non recarsi colà in occasione della festa di Santi Medici che avrebbe dovuto avere luogo il venti corrente, e che è stata sospesa in vista delle attuali condizioni sanitarie ”.

Era così grave la carenza di personale sanitario che il Consiglio Scolastico Provinciale di Bari, nella seduta del 30 settembre 1918, ritiene opportuno e necessario che “nella volgente epidemia gli insegnanti portino il loro contributo di opera di assistenza degli ammalati”. Il Regio Commissario del Comune di Brindisi, da parte sua, “fa appello a tutti i volenterosi per un servizio volontari di assistenza e disinfezione”, mentre l’on. Cotugno interrogava il ministro degli Interni “per sapere quali provvedimenti abbia adottato per supplire alla grave deficienza di medici, medicine, nettezza pubblica, servizio trasporto cadaveri ed inumazione nella provincia di Bari fortemente colpita dalla febbre spagnuola”.

In effetti, la situazione era ormai fuori controllo tanto che, il 26 settembre 1918, nel Circondario di Bari si contarono 100 morti ed il successivo 3 ottobre, nel Circondario di Barletta i decessi furono addirittura 240. Il Consiglio Provinciale Sanitario deliberava, quindi, la chiusura dei cimiteri in quanto “con l’agglomeramento di persone i germi del male potrebbero agevolmente propagarsi”.

Corriere delle Puglie del 1 ottobre 1918

 

Questo è solo un breve resoconto di quanto succedeva in una regione periferica del Regno, ma nel resto dell’Italia le cose non andavano meglio, anche se a leggere i giornali pubblicati a Roma e nelle grandi città del Nord sembra che l’epidemia non toccasse affatto gli italiani. In realtà, la censura militare impediva la pubblicazione di notizie allarmanti che avrebbero depresso lo spirito pubblico nella fase finale della guerra contro l’Austria, ma le informazioni filtravano ugualmente attraverso i notiziari dall’estero per i quali le maglie della censura erano più larghe. Infatti, La Stampa del 27 ottobre 2018 in un “Servizio Speciale da Londra” informava i lettori sulla recrudescenza dell’epidemia in Inghilterra e soprattutto fra le popolazioni indigene dei grandi centri coloniali, dove il contagio assumeva forme micidiali.

Il successivo 22 novembre lo stesso giornale non esitava a scrivere che “L’epidemia continua a fare stragi in Danimarca, specificando che gran numero di medici e infermieri ne sono colpiti.” . Il Corriere delle Puglie, in un servizio dall’estero intitolato “La febbre spagnuola”, comunicava che a “Berlino l’epidemia ha preso un tale sviluppo che, oltre alla chiusura delle scuole, uffici pubblici ed amministrazioni pubbliche, i tramway hanno dovuto ridurre in gran parte il loro servizio. L’epidemia – continuava il giornale pugliese – prende proporzioni formidabili anche a Pietrogrado e la situazione non è migliore in Svizzera dove a Friburgo si contano, solo in una settimana, ben 1437 casi di “grippa spagnola” e quindi sono aperti i lazzaretti nelle scuole.”

Riguardo all’Italia, invece, nessuna notizia, se non la pubblicità, nelle ultime pagine dei giornali, della “Brevettata maschera antimicrobica”, della “Pozione Arnaldi contro la febbre spagnola” e dello “Sciroppo S. Agostino, depurativo e rinfrescante”.

In realtà, la strage causata dall’epidemia si evinceva dalla lettura dei numerosissimi necrologi, che non indicavano mai la spagnola come causa della morte. I decessi avvenivano, invece, per “implacabile e crudele  morbo”, per “inesorabile morbo” , oppure per “insidioso e crudele morbo che spezzava in pochi giorni un’esistenza buona e gentile”.

Le direttive delle autorità militari erano quelle di minimizzare, ma ciò non impediva al quotidiano socialista “Avanti” di titolare: “Il Consiglio Superiore di Sanità dice che l’influenza … è l’influenza”, ironizzando sulle deliberazioni del consesso per il quale “l’attuale forma epidemica altra non è che influenza identica a quella che già infierì e fu felicemente superata negli anni 1889/90”.   Ma basta leggere i resoconti delle rubriche degli Uffici dello Stato Civile di Torino, Roma, Milano, riportate sui vari giornali, per rendersi conto del flagello. Il 21 ottobre1918, nella Capitale, il numero di morti per influenza fu di 194, a Milano di 125, con 1.031 nuove denunzie di malattia, a Torino il numero dei decessi fu di 110, nonostante si fosse deliberata la chiusura dei cimiteri, dei cinematografi, dei teatri, la riduzione degli orari delle osterie e la sospensione, fino a nuovo avviso, di alcuni treni che collegavano Milano con alcune grandi città.

Intanto si aspettava l’arrivo di materiale farmaceutico dall’America che,” per sopperire agli attuali bisogni dei cittadini, aveva messo a disposizione i propri prodotti”. In realtà, i più disparati tentativi di trovare una cura per l’epidemia, compresi l’utilizzazione della china gialla ridotta in polvere impalpabile, la soluzione acquosa con acido fenico allo 0,5% corretto con essenza di viola, o l’inalazione periodica di tintura di iodio, riportati anche dal Corriere delle Puglie, non avevano avuto successo.

Esito negativo pure per l’utilizzazione del sangue ricco di anticorpi delle persone guarite per curare i malati, (6) terapia sperimentata anche ai nostri giorni per debellare il coronavirus con il quale la spagnola ha numerose analogie. In entrambi i casi i virus sarebbero passati dagli animali agli uomini (suini per la “spagnola”, pipistrelli o mammiferi per il coronavirus). Le modalità del contagio ed i tentativi di contenimento sono identici.

Entrambe sono malattie influenzali che attaccano principalmente l’apparato respiratorio. Non manca nemmeno l’ipotesi della guerra batteriologica che nel 1918 sarebbe stata scatenata dagli imperi centrali contro la Triplice Intesa, oggi dalla Cina, dove il virus sarebbe stato prodotto in qualche segreto laboratorio per colpire i Paesi occidentali. Infine sia la “spagnola” che il coronavirus possono definirsi pandemie della globalizzazione: la prima innescata dal movimento di milioni di militari impegnati nella Grande guerra, la seconda dalla libera circolazione di uomini, di capitali e di merci fra le diverse aree del mondo.

Speriamo solo che l’epilogo del coronavirus non sia uguale a quello della spagnola.

La Stampa del 26.10.1018

Note

(1) L’epidemia fu denominata in vari modi fra cui “febbre estiva” (perché apparve nell’estate del 1918) “influenza spagnola”, “spagnuola”, “grippa spagnola”. Il riferimento alla Spagna è dovuto al fatto che le prime notizie della malattia giunsero proprio dal Paese iberico che non essendo intervenuto in guerra poteva contare su una stampa senza censura. In realtà l’epidemia era già presente in diversi Paesi e soprattutto fra i combattenti. Per approfondire l’argomento si può leggere l’ottimo lavoro di Eugenia Tognotti, La “spagnola” in Italia – Storia dell’influenza che fece temere la fine del mondo (1918-19) Angeli, Milano, 2007.

(2) I dati relativi alla mortalità dei Comuni del Salento sono reperibili sul seguente sito http://dl.antenati.san.beniculturali.it/v/Archivio+di+Stato+di+Lecce/Stato+civile+italiano/Lecce/Morti/

(3) Fernando Scozzi, Melissano, società, economia, territorio, fra 800 e 900, Edizioni del Grifo, Lecce, 1990.

(4) I siti dei giornali citati nell’articolo sono i seguenti: “La Stampa” http://www.archiviolastampa.it/, “Avanti “ avanti.senato.it, il “Corriere delle Puglie” archivio.lagazzettadelmezzogiorno.it.

(5) Il “Corriere delle Puglie” del 20 ottobre 1918.

(6) Infatti, l’Avanti del 26 ottobre 1918, così titolava “Il rimedio dell’influenza scoperto da un medico italiano”. Si tratta del tenente Luigi Mille che ha pensato di “giovarsi del siero di sangue dell’ammalato stesso per curarne la malattia. In numerosi casi gravi di malattia egli estrasse una piccola quantità di sangue direttamente dalle vene dell’infermo e si è servito del siero ottenuto da questo sangue per fare delle iniezioni sottocutanee allo stesso ammalato. I risultati ottenuti hanno superato ogni aspettativa; il mal di capo immediatamente scompare, svanisce pure il senso di depressione nervosa dell’ammalato, la temperatura si abbassa rapidamente senza più risalire ed il decorso della malattia risulta di molto abbreviato”.

Il 24 febbraio 1869, a Melissano, il miracolo della Madonna

di Fernando Scozzi

“Era un giorno tranquillo e ridente”, così inizia l’inno alla Madonna del Miracolo, unica fonte scritta di quell’avvenimento straordinario di cui furono testimoni i nostri avi 151 anni fa. Una comunità, quella melissanese, costituita nel 1869 da poco più di 1.000 persone che si dedicavano ad un’agricoltura di sussistenza. Un tessuto urbano che esprimeva chiaramente la povertà della frazione: poche casupole affacciate sulla campagna, la parrocchiale di Sant’Antonio ed una casa a due piani, di proprietà dell’ex-feudatario, che agli occhi dei melissanesi sembrava un castello.

Assenti i proprietari terrieri che preferivano abitare nei più confortevoli paesi limitrofi. Né l’eversione della feudalità prima e l’unificazione nazionale poi avevano portato alcun miglioramento sociale ed economico; anzi, la politica accentratrice perseguita dallo Stato unitario comportò la chiusura della farmacia, dell’ufficio di conciliazione e perfino dell’ufficio dello stato civile della Frazione. Un paese, quindi, che non era ancora uscito dalle nebbie del Medioevo e nel quale il solo punto di riferimento era la Fede cristiana, l’unica istituzione la parrocchia.

La devozione per il Santi, come negli altri paesi del Mezzogiorno, permeava la vita di tutti i giorni e si manifestava non solo in chiesa, ma anche fra le mura domestiche dove le famiglie si raccoglievano in preghiera dinanzi a piccole statue commissionate da alcuni devoti “per grazia ricevuta” ed accolte di casa in casa. Tra queste, c’era un’immagine lignea della Madonna Immacolata che il 24 febbraio 1869 si trovava presso l’abitazione di Vito Fasano. L’ultracentenaria Luisa Margari, ultima testimone oculare, così raccontava l’avvenimento: ”Quella mattina, nulla lasciava presagire l’imminente, furioso scatenarsi degli elementi. Più tardi, all’improvviso, incominciarono ad addensarsi su Melissano delle nubi sempre più nere, pregne d’acqua e di grandine, foriere di una spaventosa catastrofe. In pochi minuti, nell’immensa nube nera a forma di cono si produsse un vortice turbinoso. Tutto divenne buio, mentre nei paesi limitrofi splendeva il sole. Dai campi la gente osservava sconvolta volare per aria turbinosamente, come pagliuzze, pesanti fascine. Un vento violentissimo, inizio del ciclone, rovesciò i muri degli orti quasi fossero canne, i guizzi di una luce sinistra ed il pauroso rombo del tuono si alternavano al crescendo delle raffiche del vento, mentre grida di terrore si sentivano qua e là. La furia degli elementi pareva stesse per risucchiare il piccolo paese quando, all’improvviso, il vento si placò, le nubi si diradarono ed il sole tornò a splendere in cielo. Un grido di letizia per il ritorno della vita si diffuse in un baleno da un capo all’altro dell’abitato dopo un’ora di furia infernale. Miracolo! Le campane suonarono a festa. Melissano, infatti, era scampata ad un cataclisma, in un istante, per un prodigio, vecchi, donne, bambini ed uomini ritornati subito dai campi corsero in casa dei Fasano dov’era la piccola statua della Madonna. Lì videro attoniti e sbigottiti che il volto della Vergine, madido di sudore, veniva asciugato con un fazzoletto.” Da quel giorno, l’immagine miracolosa divenne patrimonio della Comunità melissanese e fu custodita nella chiesa della confraternita. La parrocchia istituì una festa ed il Consiglio Comunale di Taviano deliberò l’istituzione di una fiera nella ricorrenza della solennità della Vergine del Miracolo.

Melissano, 24 febbraio 1979 – L’uscita della processione della Madonna del Miracolo

 

Ma, avvenimenti del genere non erano una novità. A Casarano, nel 1842, San Giovanni Elemosiniere salvò il paese dalle piogge torrenziali che minacciavano i raccolti e la stessa popolazione. Anche in quel caso, il sudore che bagnava il viso della statua del Santo fu asciugato con un fazzoletto, mentre le nubi si diradavano ed il sole ritornava a splendere. Nel 1866 la Madonna Addolorata liberò i tavianesi da un’epidemia di colera e l’anno successivo, San Giorgio Martire e Santa Cristina salvarono dalla peste, rispettivamente, Matino e Gallipoli.

Il 24 febbraio 1869, dunque, un miracolo anche a Melissano, un evento prodigioso che contribuì ad affermare l’esistenza di una Comunità dimenticata da tutti, ma non da Dio ed impegnata proprio in quel periodo a gettare le basi per il suo sviluppo. Alcuni anni dopo, infatti, la distruzione dei vigneti francesi (causata dalla fillossera) indusse gli industriali d’oltralpe a chiedere grandi quantità di vini pugliesi e quindi anche a Melissano si verificò una rivoluzione colturale di notevole portata. Il trionfo della viticoltura consentì la formazione di una classe agraria interessata allo sviluppo socio-economico ed all’autonomia amministrativa del paese. Melissano divenne polo di attrazione per numerosi braccianti ed artigiani dei paesi limitrofi, mentre con le risorse finanziarie provenienti dalla commercializzazione del vino fu edificata la nuova chiesa parrocchiale, simbolo della Fede operosa dei melissanesi che erano riusciti a superare la situazione di oggettivo svantaggio rispetto ai paesi limitrofi.

Melissano, chiesa della Confraternita dell’Immacolata. La statuetta della Madonna del Miracolo (XIX sec.)

Oggi, invece, i vigneti e gli uliveti sono fagocitati dal deserto che avanza tra l’indifferenza dei più e la sofferenza dei pochi che ricordano ancora il paesaggio materno e di tanto in tanto si avventurano, come fantasmi, per quella campagna dalla quale i loro avi hanno tratto le risorse per lo sviluppo di Melissano. Il cordone ombelicale che univa il territorio al paese è stato tagliato. Ormai non bastano nemmeno i miracoli.

 

Libri| I cognomi dei melissanesi

Nasce dall’amore per il paese natale l’ultimo lavoro di Fernando Scozzi “I cognomi dei melissanesi, significati, provenienze, vicende sociali” che sarà presentato sabato, 23 febbraio, alle ore 17.00, presso l’antica chiesa parrocchiale di Melissano. La pubblicazione ripercorre le vicende familiari e sociali dei melissanesi offrendo motivi di riflessione per comprendere la storia della Comunità e ricordare il contributo che i predecessori hanno dato allo sviluppo economico e sociale del paese. Un’analisi che, partendo dall’etimologia dei cognomi ne individua l’etimologia, la provenienza e le motivazioni che indussero numerosi braccianti ed artigiani dei paesi limitrofi a trasferirsi a Melissano fra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX.

Ma il lavoro vuole essere anche un contributo per la fusione dei Comuni di Racale, Taviano, Alliste-Felline e Melissano, perché sapere che circa il 40% dei capi-famiglia storici melissanesi proviene dalle altre quattro Comunità dovrebbe far pensare alla fusione con maggiore concretezza in un contesto di superamento delle divisioni divenute ormai anacronistiche.

L’autore auspica che il lavoro, frutto di anni di ricerca, sia utile a rinsaldare quei legami di parentela sciolti dal benessere economico e dal conseguente egoismo. Nella pubblicazione -conclude l’autore nella presentazione del volume – “rivivono” coloro i quali ci hanno preceduto, i cui nomi rimangono nella memoria insieme al bene che hanno fatto alla Comunità melissanese.

150 anni fa moriva Don Marino Manco, vittima del brigantaggio (*)

 

Melissano, Piazza del Mercato Vecchio. (foto Velotti)
Melissano, Piazza del Mercato Vecchio. (foto Velotti)

di Fernando Scozzi

 

Terra d’Otranto visse solo di riflesso le vicende dell’unificazione nazionale, ma i problemi di quel difficile periodo (fra i quali il brigantaggio) non mancarono di interessare anche la nostra provincia dove Quintino Venneri,  detto “Melchiorre”, costituì una banda brigantesca della quale fecero parte, tra gli altri, Barsanofrio Cantoro, di Melissano, Ippazio Ferrari, di Casarano, Vincenzo Barbaro, di Alliste e Ippazio Gianfreda, di Casarano.

Una delle vittime di questa banda fu il prete Don Marino Manco, giudice conciliatore della Frazione Melissano e nemico dei briganti sia per la sua adesione allo Stato unitario che per vecchi rancori con il compaesano Barsanofrio Cantoro.  Questi confessò in tribunale: Ce l’avevo con lui da tanto tempo perché prima di andare per soldato, amoreggiavo con una giovane di Melissano ed in cena, don Marino, vedendomi ricevuto in quella casa, mi discacciò.

Per Barsanofrio fu facile convincere gli altri briganti dell’opportunità di colpire quel prete che   aveva cantato due “Te Deum” per Garibaldi, Dittatore delle Due Sicilie  e che, spesso, ospitava nella sua casa i Carabinieri di Gallipoli, i rappresentanti di quello Stato sconosciuto al quale si erano ribellati. Così, verso le ore tre della notte del 24 giugno 1863, i briganti, capitanati da “Melchiorre”, penetrarono a Melissano. Alcuni di essi presidiarono le uscite del paese, altri si fermarono in piazza. L’arciprete, don Vito Corvaglia, intuendo le loro intenzioni e riconosciuto il compaesano Barsanofrio Cantoro gli disse: Guardati che il paese non abbia a soffrire qualche disastro per causa tua – ma questi gli rispose: ritìrati.  I briganti, quindi, bussarono alla porta del Manco. Apri, sono un messo di Gallipoli, porto un plico pressante del Sottogovernatore, disse uno di loro con voce affettata da piemontese.  Don Marino – testimoniò la domestica – ebbe qualche sospetto e non voleva aprire, ma al picchiare violento del culacchio dei fucili da far crollare la porta e alle grida “Apri carogna fottuta”, si alzò e aprì. Otto individui, vestiti alla contadina, armati di fucili, sciabole e pistole, irruppero in casa.  Don Marino – disse “Melchiorre” – mi servono mille ducati ebestemmiava dicendogli: “Assassino che sei, ai carabinieri continuamente dai da mangiare e a noi non vuoi dare nulla? Frugarono in ogni angolo della casa e rinvenute solo 170 piastre minacciarono di morte il malcapitato. Per la Madonna del Carmine, non ne tengo più – diceva il prete – ma  i briganti lo obbligarono a chiedere in prestito altro denaro, scortandolo a casa dei suoi parenti. Lo vidi in piazza, in mezzo a due briganti, scalzo, sconvolto, vestito dei soli pantaloni. “Ho bisogno  di  duecento  piastre, voglio salva  la vita, disse Don Marino a Vincenzo Manco che, insieme a Pietro Paolo Corvaglia e all’arciprete raccolsero la somma richiesta. Mentre “Melchiorre” contava il denaro, Barsanofrio disse ad un brigante che voleva uccidere don Marino: Basta! Che altro pretendi? Allontanandosi da Melissano, i briganti frantumarono gli stemmi dei Savoia posti sul corpo di guardia e sul botteghino delle gabelle.

Ma  don   Marino  non  era  persona  che  subiva  senza  reagire. Il giorno seguente, infatti,  denunciò l’accaduto alla giustizia mandamentale di  Casarano, producendo  formale  istanza di punizione di Barsanofrio Cantoro e della compagnia da lui condotta e riservandosi di costituirsi parte civile nell’eventuale giudizio. In questo modo, don Marino sottoscrisse la sua condanna a morte perché i briganti, venuti a conoscenza della denuncia, decisero di vendicarsi.

Il  loro proposito divenne di pubblico dominio e lo stesso don Marino fu avvertito da alcuni conoscenti  di stare in guardia perché si voleva attentare alla sua vita. Tuttavia, egli non adottò particolari precauzioni e prevedendo un altro assalto notturno, dormì nella cantina della sua abitazione. Ma la morte non arrivò di notte.

L’arresto  del  fratello  di “Melchiorre”, accusato ingiustamente  di essere in  possesso  del  denaro  rubato al prete, determinò il tragico epilogo della vicenda. La madre del Venneri si precipitò presso il nascondiglio della banda per avvertire “Melchiorre” di quanto era accaduto. Questi, propose  di “sollevare” la  popolazione  di  Alliste  e  affrontare la   forza   pubblica.  Partirono   immediatamente  ma,  per strada, “Melchiorre” cambiò idea e disse ai compagni: “Andiamo a saziarci di sangue! Ad uccidere Marino Manco”.

Erano le ore 13 del 27 luglio, don Marino uscì dalla chiesa parrocchiale e rientrò nella sua abitazione  perché – affermò una testimone –  diceva volersi recitare l’ufficio. Verso le ore 14, nella piccola borgata immersa nella calura estiva, si sentì urlare: Dov’è il brigante papa Marino? Il prete aprì la porta: due colpi di fucile lo raggiunsero al volto e al petto. La vittima  cadde a terra in una pozza di sangue, il braccio sinistro proteso, il destro piegato sul torace. Io  sono stato il boia, ho tirato il primo colpo – disse Ippazio Ferrari –  Quintino Venneri, il secondo.

Barsanofrio  Cantoro non partecipò all’assassinio e si rifugiò  in campagna. Lo trovai vicino al mio pozzo – testimoniò un contadino – mi chiese da bere. In quel momento sorse un vento così impetuoso che lo stesso Barsanofrio si sorprese dicendo:” Questa è l’anima di papa Marino”. Io gli chiesi:” L’avete ucciso?” E quegli:”Lo lasciavamo…? Poi, il brigante fuggì verso il bosco del Belvedere. Lì fu catturato il 13 novembre 1863; condannato a 30 anni di reclusione, morì in carcere. “Melchiorre”  riuscì ad evadere dalla prigione e dopo numerose azioni delinquenziali rimase ucciso in un conflitto a fuoco con carabinieri, il 24 luglio 1866, dietro la cappella di Santa Celimanna, nei pressi di Supersano. Il suo corpo fu esposto come monito, per tre giorni, sulla piazza di Ruffano.

 

 

(*) La vicenda è stata ricostruita mediante la consultazione degli atti processuali conservati presso l’Archivio di Stato di Lecce.

Briganti di casa nostra

Archivio di Stato Lecce, Pref. Gab. Ctg. 28, fasc. 2636

di Fernando Scozzi

Ancora oggi emerge come siano contrastanti  le interpretazioni che i vari indirizzi storiografici danno del brigantaggio meridionale postunitario. Cosicché, la  storiografia di destra che prima condannava il brigantaggio vedendo in esso la personificazione della reazione borbonico-clericale, oggi  lo  rivaluta  facendolo assurgere a lotta partigiana contro l’invasore  piemontese,  mentre gli storiografi di sinistra, che fino ad un certo periodo hanno  visto  nel  brigantaggio  i  prodromi  delle  lotte  contadine  contro la protervia dei galantuomini, usurpatori dei demani, oggi lo condannano vedendo in esso più l’aspetto delinquenziale che quello politico. In effetti, non fu l’unificazione nazionale a creare il brigantaggio, perché le molteplici cause di questo fenomeno, da sempre esistito, non sono di origine politica, ma di origine sociale. I presupposti per lo sviluppo della rivolta si svilupparono sotto i Borbone e se pure a Napoli e in Campania c’erano delle isole felici, (dovute alla presenza della corte e di alcune industrie manifatturiere) nel resto del Regno delle Due Sicilie e specialmente nelle campagne, si  viveva nella miseria. Il caos politico e sociale scatenato dall’unificazione, la leva militare, le tasse, l’usurpazione dei demani (che i Borbone, comunque, non avevano provveduto a far dividere fra i contadini)  la politica anticlericale del governo, innescarono la miccia. Ma  non ci fu un brigantaggio politico, bensì un brigantaggio utilizzato per fini politici. E’ lo stesso Pasquale Villari a scrivere che il brigantaggio meridionale antico e contemporaneo trae unicamente origine dalla triste condizione delle popolazione, non dagli avvenimenti politici, che se possono aumentargli forza, non basterebbero mai a dargli vita; il brigantaggio altro non è che una questione ardente agraria e sociale. I borbonici, quindi, strumentalizzarono il malessere del Mezzogiorno servendosi del brigantaggio per impedire la stabilizzazione del nuovo ordine. I briganti accettarono il patrocinio politico perché  in  questo  modo  le  loro imprese uscivano dal  novero  delle azioni delinquenziali   e  della mera vendetta contro i signorotti locali per assurgere a lotta politica contro l’invasore piemontese. In realtà, sia i briganti che i borbonici combattevano per scopi diversi e si servivano gli uni degli altri.   La comunanza  di  interessi  si  ruppe  per  il mancato intervento delle Potenze assolutistiche europee nel Mezzogiorno e per il conseguente rafforzamento dello Stato unitario. A quel punto, chi dalle retrovie aveva soffiato sul fuoco della rivolta si dileguò; ma i briganti non potevano tornare indietro e furono fucilati, deportati, massacrati senza pietà.

In Terra d’Otranto non c’erano le condizioni per una rivolta di grandi dimensioni, perché – scriveva un funzionario di pubblica sicurezza al prefetto –  la Provincia di Lecce non sarà mai la prima a ribellarsi contro l’attuale ordine di cose, essendo pronta sì alla parola, ma tarda, anzi nemica di ogni azione. I leccesi hanno buone viscere, calda fantasia, facile parola,  ma tardo il braccio.   In realtà, più che di brigantaggio si può parlare di gravi problemi di ordine pubblico per evitare i quali  era necessario assicurare pane e lavoro ai contadini che, ben presto, iniziarono a manifestare il loro malcontento. Il contadiname del piccolo Comune di Surbo – infatti – falsamente imbevuto dell’idea del rientro in Napoli di Francesco II,  si abbandonava dall’avemaria fino alle ore sette  circa  della sera di domenica 10 marzo, alle maggiori sfrenatezze reazionarie imperocché,  principiando a gridare in piazza “Viva Francesco II , Abbasso la Costituzione”, in più centinaia si davano a percorrere le vie del paese, continuando sempre nelle stesse grida e portando un lenzuolo bianco come vessillo. Nel giro che facevano abbatterono gli stemmi reali, mentre nel corpo di guardia venivano presi e rotti alcuni fucili e bistrattato un militare in servizio che tostamente se la svignava per la paura. Poscia aggredirono diverse persone che avevano fama di liberali arrecando loro molti danni. Al municipio si davano a sconquassare la poca mobilia, rompendo i quadri di Garibaldi e di Vittorio Emanuele, nonché disperdendo diverse carte dell’archivio, molte delle quali bruciarono in piazza. E durante il tumulto alcuni dei più facinorosi gridavano: “ Vittorio Emanuele, che ci dai? Noi moriamo di fame e dobbiamo rivoltare per farci dare lavoro. A Marittima la popolazione insorse il 23 marzo 1861 mentre i tumulti si propagavano nei comuni di Ortelle, Andranno e Spongano. A Taviano, nel corso di un tumulto popolare scoppiato il 7 aprile 1861, fu ucciso Generoso Previtero, primo eletto del Comune, mentre la rivolta si estendeva rapidamente ai limitrofi comuni di Racale, Melissano e Alliste dove  furono  devastati  i locali del municipio e fatto un corteo con l’immagine di Ferdinando  II.

Ma la causa scatenante della rivolta è da ricercarsi nella legge per la coscrizione militare, obbligo fino ad allora sconosciuto nel Mezzogiorno d’Italia, che privava le famiglie dell’apporto indispensabile dei figli più giovani i quali non intendevano marciare sotto le bandiere di uno Stato lontano e sconosciuto. A Vernole l’affissione della lista dei reclutabili provocò un tumulto popolare con grida ostili e laceramento della medesima, mentre a Gallipoli un centinaio di popolani e di pescatori, si spinse fino al palazzo municipale fra le grida: Non vogliamo la leva! Abbasso il Municipio, Viva la libertà! La guardia nazionale, prima di essere sopraffatta da una violenta sassaiola, aprì il fuoco; quando la folla si dileguò rimasero sul terreno due morti e numerosi feriti.

Furono quindi i renitenti alla leva, uniti ai soldati sbandati del disciolto esercito borbonico a costituire le prime bande brigantesche anche nel Salento meridionale. Gli ex soldati borbonici, infatti, rientrati a casa col rancore di una perduta carriera, non avevano altra prospettiva che il duro lavoro dei campi e si comprendere benissimo come la possibilità di darsi alla macchia  e spadroneggiare col pretesto della difesa del trono e dell’altare, costituisse per alcuni di loro una valida alternativa.  Fra questi,  Rosario Parata, alias lo Sturno che dopo il 1860, soldato sbandato del disciolto esercito borbonico, ritornò a Parabita. Lo Sturno era un brigante “sui generis” perché non si macchiò mai di delitti di sangue. Si faceva annunciare da uno squillo di tromba e al grido di Viva Francesco II,  irrompeva nei vari centri abitati sventolando la bandiera bianca gigliata dei Borboni e disperdendo i militi della guardia nazionale. Così invase  Supersano, Nociglia, Scorrano e Gagliano, dove prese un caffè e poi attraversò la pubblica piazza con i fucili spianati. Nel 1864, venne catturato. Processato, fu condannato a sette anni di reclusione e a due di lavori forzati. Un anno dopo, a soli 34 anni, fu trovato morto in carcere.

L’esempio dello Sturno fu seguito da alcuni renitenti alla leva di Carpignano, Borgagne e Martano i quali costituirono una banda brigantesca capitanata da Donato Rizzo, alias Sergente e il 7 agosto 1861 penetrarono in Carpignano impadronendosi dei fucili della Guardia Nazionale e ingaggiando un conflitto a fuoco con i carabinieri nel bosco del Belvedere.

Molto più pericolosa si rilevò la banda capeggiata  da Quintino Venneri, detto Macchiorru, di Alliste. Costui,  partito  militare  nel  1859,   ritornò in   Alliste  nel 1860 come sbandato del disciolto esercito borbonico e il 7 aprile 1861 prese  parte al tumulto popolare scoppiato a Taviano. Fu arrestato ed uscito dal carcere l’anno seguente, si diede alla macchia.  Attorno a lui si raccolsero una ventina di persone, fra le quali il melissanese Barsanofrio Cantoro anch’egli sbandato del disciolto esercito borbonico, il gallipolino Scardaffa, Ippazio Gianfreda, alias Pecoraro, di Casarano, Vincenzo Barbaro, alias Pipirusso, di Alliste, Giuseppe Piccinno, di Supersano, detto Mangiafarina. Questa banda, il 25 giugno 1863, penetrò in Melissano per derubare e poi uccidere don  Marino Manco, uno dei pochi sacerdoti della diocesi di Nardò favorevole all’unificazione nazionale. Ma  le azioni delinquenziali del Venneri non finirono qui perché, pochi giorni dopo l’assassinio del Manco, assaltò il carcere di Ugento per liberare suo fratello, ivi recluso; ferì un carabiniere, si rese responsabile di numerosi furti ed estorsioni. Arrestato, riuscì ad evadere dal carcere di Lecce e infine, il 24 luglio 1866, fu ucciso in un conflitto a fuoco con i carabinieri,  dietro la cappella di Santa Celimanna, nei pressi di Supersano.  Il suo corpo fu esposto, come monito,  sulla piazza di Ruffano.

Nella zona di Alliste operava anche la banda di Salvatore Coi che nel 1865 arruolò soldati sbandati nei Comuni di Racale, Alliste e Felline, con la promessa di quattro carlini al giorno e di saccheggio delle abitazioni dei liberali. I briganti costrinsero quindi il sindaco di Alliste a consegnare 12 fucili e dopo aver requisito altre armi si diressero verso Melissano, ma si scontrarono con i carabinieri e si diedero alla fuga. La banda fu poi catturata dalle forze dell’ordine nei pressi della masseria “Campolusio”, in agro di Ugento.

Con la morte dello Sturno e di Macchiorru  e con la cattura del Coi,  il brigantaggio nella nostra provincia poteva dirsi esaurito; rimanevano i problemi di una terra cui occorreranno decenni per uscire dalle nebbie del sottosviluppo.

Solo un’autentica rivoluzione popolare avrebbe potuto risolvere il problema agrario, coagulando intorno al nuovo Stato il consenso delle masse contadine.  Ma nel Mezzogiorno, l’Italia nasceva per opera di una minoranza che, assediata dal malcontento, consegnò le province napoletane alla monarchia sabauda. I meridionali si rassegnavano ancora una volta alla fame e alla miseria, mentre la borghesia celebrava il trionfo della sua rivoluzione.

Lettera minatoria al sindaco di Laterza per la mancata divisione dei demani comunali.

Uno sconosciuto insediamento rurale tardo antico tra Melissano e Racale

 di Stefano Cortese

Tra i tanti racconti che mio nonno Paolo mi tramandò ha sempre suscitato nel sottoscritto una certa curiosità la scoperta di alcune tombe e reperti in ceramica che lo stesso, insieme a suo fratello Antonio, ebbero modo di rinvenire lavorando il terreno di “donna Rosa Panico”, al fine di impiantare alcuni uliveti negli anni ’50.

Si tratta di una contrada sita tra le masserie Cuntinazzi e Cutura, tagliata dalla provinciale Melissano-Felline, sul confine amministrativo tra la stessa Melissano e Racale.

Ebbi modo di segnalare l’episodio sulla personale tesi di laurea magistrale (Cortese 2009, 22-23) in quanto questa contrada, a personale avviso, doveva essere lambita dal  percorso che da Ugento portava al monastero italo-greco di santa Maria del Civo, per poi proseguire in direzione Alezio.

L’amico Fernando Scozzi (2009, 10), in un suo contributo inerente la masseria Cutura, accenna inizialmente alla storia della masseria e del suo passaggio di proprietà alla famiglia Panico (con istrumento del 12 febbraio 1896), poi ha modo di riportare una fonte orale, quella di Giuseppe Cortese, il quale ricorda che in questa contrada, denominata Spagnuli, furono scoperchiate delle tombe che si diceva facessero parte di una necropoli di un non meglio precisato convento degli “Spagnuli”.

Grazie alle sue ricerche, il professore Scozzi segnala che il toponimo Spagnuli era già presente nel catasto onciario dell’università di Racale del 1754, tra i possedimenti del duca Basurto, segnalando come sulla stessa contrada insistesse il toponimo monte d’Ercole e quello di calcara di Cola, a causa appunto di una calcara ancora viva nella memoria degli anziani.

In vista della pubblicazione “Nei Borghi dei Tolomei. Formazione e caratteristiche dei centri storici di Racale, Alliste e Felline” (Cortese 2010), ho avuto modo di compiere un sopralluogo in zona per poter meglio delineare le caratteristiche di questo insediamento. Nel fondo dove furono trovate delle tombe è presente oggi una piccola cava e molto probabilmente, se le tombe non erano terragne, almeno parte della necropoli è andata distrutta; dall’altro lato della strada, in un terreno adibito a giovane oliveto, i fondi sono cosparsi una grande quantità di ceramica di datazione tardo antica, a partire soprattutto dal II-III secolo d. C.

Tra la ceramica rinvenuta, laterizi, ceramica anforaria e da mensa (in particolare sigillata africana C). Poca, ma presente, la ceramica bizantina (non si esclude una residualità d’uso di ceramica romana imperiale nell’età bizantina), mentre è assente la ceramica invetriata.

La vocazione agricola del piccolo insediamento rurale romano viene corroborata dalla testimonianza orale fornitami da Giuseppe Cortese, il quale ricorda di aver visto il negativo, nel terreno, di due grandi contenitori, probabilmente due grandi pithoi o dolia. Non sappiamo il toponimo del sito, ma la vicina toponimo prediale Ruggiano e la presenza a poco meno di un centinaio di metri di distanza di almeno 3 tracce di centuriazione romana (direzione sud-sudest), testimoniano l’antropizzazione della contrada.

Infine, ci fu mai una comunità monastica sul sito? Il toponimo Spagnuli, a personale avviso, è da riferirsi alla caratteristica erba selvatica conosciuta nel volgo con tale nome, oppure alla origine spagnola dei proprietari della contrada, cioè i Basurto. Nessuna fonte, purtroppo, ci autorizza a pensare la presenza di un’antica comunità monastica in zona, anche se in un vicino sito analogo già frequentato, leggermente più ampio (un probabile vicus), si insediò la comunità italo-greca di Civo, reimpiegando, come accadeva spesso, i conci dagli edifici romani.

E’ grazie all’archeologia del ricordo che è emerso l’ennesimo insediamento rurale romano (fattoria?) che costellavano il nostro territorio in epoca imperiale, scoperta il cui input va tributato al  mio compianto nonno.

BIBLIOGRAFIA

-Cortese S. 2009, L’insediamento monastico di Santa Maria del Civo fra indagine storica ed archeologica, tesi di laurea magistrale in topografia medievale, relatore prof. Paul Arthur, a. a. 2008/09

-Cortese S. 2010, Nei Borghi dei Tolomei. Formazione e caratteristiche dei centri antichi di Racale, Alliste e Felline, edito dal CRSEC Le/46 Casarano, tip. Martignano, Parabita

-Scozzi F. 2009, “La masseria “Cutura” note di storia e di archeologia” in Rosso di sera, a cura della Pro Loco, Melissano gennaio 2009, p. 10

La parrocchiale di Melissano a 110 anni dalla dedicazione

F. Campasena, 1885. Disegno della chiesa di Melissano

di Fernando Scozzi

Una chiesa, una comunità: la parrocchiale di Melissano a 110 anni dalla dedicazione

D.O.M.

Precum effusio

Datori bonorum omnium

et indefessa populi

largitio

ad exitum opus duxerunt

die 8 februarii 1902

In questa scritta, che leggiamo all’ingresso della chiesa parrocchiale di Melissano, è riassunta la storia del sacro edificio, di cui, alcuni giorni fa, abbiamo ricordato il 110° anniversario della dedicazione. La Fede, le preghiere e l’instancabile generosità dei nostri Padri edificarono questa chiesa i cui lavori iniziarono nel 1885, quando Melissano contava appena 1500 abitanti: un agglomerato di casupole affacciate sulla campagna, pochi vicoli ricalcanti gli antichi sentieri campestri e due chiese, fra le quali l’antica parrocchiale, dedicata al Protettore S. Antonio e non più adeguata al culto.

Fin dal 1877, infatti,  il parroco, don Vito Corvaglia, scriveva al Papa Pio IX facendosi ardito a presentare a Sua Beatissima la preghiera come appresso: lo stesso trovasi parroco di una meschinissima chiesa, indegna al culto di Dio e neppure idonea a contenere una popolazione crescente di giorno in giorno:

Luigi Corvaglia (Melissano, 1892 – Roma, 1966) non solo letterato

Luigi Corvaglia: non solo letterato

Impegno sociale e fedeltà agli ideali repubblicani caratterizzarono la vita dell’autore di Finibusterre

 

di Fernando Scozzi

“Prigioniero del compito”. Luigi Corvaglia nella sua biblioteca di Melissano

Di Luigi Corvaglia (Melissano, 1892 – Roma, 1966) si conoscono le opere filosofiche e letterarie, lo spirito critico e l’ardore polemico; ben pochi conoscono, invece, il suo impegno sociale che si manifestò non solo nell’attività di amministratore comunale, ma anche in quella  di imprenditore.

Fin dal 1910, studente universitario del primo anno di Giurisprudenza, si iscrisse al P.R.I. rimanendo fedele per tutta la vita all’Idea mazziniana di Giustizia e Libertà. (1) Rivendicò i diritti della comunità melissanese spesso sacrificati alle esigenze del Comune capoluogo e agli interessi di pochi notabili locali.  Nel suo opuscolo Melissano (edito nel 1910) Luigi Corvaglia invitò i concittadini all’unità: Unitevi figli del popolo, emancipate la frazione elevandola a Comune indipendente.  Auspicò l’associazione dei  lavoratori nei rischi e nei vantaggi della proprietà terriera; chiese ai contadini di mandare  i propri figli a scuola, tutti i figli, sopportando anche la miseria, poiché nella evoluzione progressiva della società, li renderete capaci di seguire il progresso universale. Accusò il sindaco di Casarano di aver privato la frazione di servizi pubblici indispensabili: per due anni, o Signori, Melissano è rimasta senza guardie, senza custode pel cimitero, senza spazzino e perfino senza levatrice.

 In realtà, le critiche di Luigi Corvaglia non erano dirette all’amministrazione comunale, ma all’avv. Felice Panico (assessore delegato della frazione) il cui potere economico pervadeva la società melissanese e impediva l’affermazione di una classe di professionisti che intendeva guidare lo sviluppo della comunità melissanese.

In occasione delle elezioni politiche del 1915, Luigi Corvaglia si schierò con Nicola Marcucci ed avversò il deputato uscente Antonio De Viti De Marco perché – scrisse in un manifesto –  il Collegio esige che sia liberato dall’incubo che  l’opprime: l’ambizione, il disprezzo verso gli umili, il favoritismo agli alti eunuchi del privilegio.(2)

Con una serie di fogli pose all’attenzione degli amministratori comunali e soprattutto dei suoi concittadini (dei quali auspicava la redenzione umana e civile) le esigenze della Comunità melissanese, evidenziando la necessità dell’approvvigionamento idrico dell’abitato, l’importanza del piano regolatore, della pubblica illuminazione, della viabilità urbana e rurale. Nel 1920, di fronte alla volontà dell’amministrazione comunale di impegnare le risorse finanziarie in tutt’altra direzione, Luigi Corvaglia propose un referendum  per conoscere se prima di erogare il denaro pubblico in opere voluttuarie non convenga, per per senso di dignità e di igiene, provvedere alle esigenze più urgenti e sistemare le vie interne, rese per l’abbandono impraticabili. Se non convenga di più dare al paese il suo accesso logico alla stazione ferroviaria, ordinando lo sviluppo delle vie che di giorno in giorno si sviluppano senza nesso e sistema. Se prima delle opere sciagurate progettate dal Comune di Casarano, giovi un edificio scolastico e lo sanno i figli dei poveri ed i poveri insegnanti, che marciscono d’inverno e soffocano d’estate, in abituri miserabili. (3)

In vendita. Dopo la morte della figlia, Maria, la casa di Luigi Corvaglia è in vendita; che fine farà il materiale bibliografico e documentario dell’autore di Finibusterre?

 

Dopo la grande guerra, alla quale partecipò con il grado di tenente,  si impegnò per l’autonomia della frazione e quando nel 1923 Melissano divenne Comune, fu nominato assessore. Era l’occasione per far recuperare al paese il tempo perduto in secoli di dipendenza amministrativa;  invece,  nel volgere di pochi mesi, i contrasti con il sindaco, avv. Felice Panico, determinarono lo scioglimento del primo consiglio comunale. Invano, Luigi Corvaglia chiese al prefetto di fare piena luce sulle Questioni morali di Melissano; (4) inutilmente si appellò al patriottismo dei reduci,  perché l’affermazione del movimento mussoliniano e la nomina del fascista podestà  Luigi Sansò, misero a tacere ogni polemica e seppellirono nell’archivio della prefettura le carte dell’inchiesta, con le denuncie, i manifesti e le richieste del filosofo melissanese.

Luigi Corvaglia, quindi,  si ritirò a vita privata, non aderì al fascismo e si dedicò agli  studi filosofici e letterari. Infatti, dal 1925 al 1931, pubblicò le commedie (La Casa di Seneca, Rondini, rappresentata a Lecce nel teatroPaisiello”, Tantalo, Santa Teresa e Aldonzo);  nel 1934 diede alle stampe Vanini, edizioni e plagi, l’anno successivo scrisse un saggio su Vanini e Leys per la rivista crociana La Critica.

Contemporaneamente si dedicò all’imprenditoria: aprì uno stabilimento vinicolo, un molino ed un panificio, bonificò 200 ettari di terreno incolto e malarico facente parte della masseria “Marini”, situata a due passi da quel mare Jonio che fece da sfondo al suo romanzo Finibusterre.

Fu uno dei fondatori della Cantina Cooperativa e dell’Unione Agricola di Melissano, costituite per sottrarre i rurali (così definiva i lavoratori della terra, rivalutandone la funzione) allo strapotere contrattuale degli acquirenti di uva.

Terminata la seconda guerra mondiale, egli fu nuovamente chiamato a far parte della giunta comunale di Melissano ed essendo uno dei fondatori del P.R.I. a Lecce,  fu candidato nella lista repubblicana per l’Assemblea Costituente: battaglia di testimonianza in una provincia tra le più monarchiche d’Italia e così lontana dal partecipare alla formazione di quella  coscienza nazionale che Luigi Corvaglia auspicava nei Quaderni Mazziniani. Il Nostro, infatti, fu votato solo dal 10% degli elettori melissanesi, mentre in ambito circoscrizionale conseguì 562 preferenze su 6.970 voti di lista.

L’insuccesso elettorale e il dissenso con Randolfo Pacciardi (segretario nazionale del P.R.I.)  segnarono il distacco dalla politica, vista, ora, come gioco del parteggiare, vecchio tristo gioco italico, che consente ancora una volta di essere contro qualcuno(5) e come regno dei partiti nei quali si perpetua la gestione del potere fine a sè stesso. Tra l’altro, i suoi interessi culturali lo rendevano quasi “estraneo” alla comunità melissanese; anche per questo si trasferì a Roma dove, frequentando le biblioteche Casanatense, dei Lincei, Nazionale e Vaticana, approfondì gli studi di filosofia rinascimentale e scrisse una grande quantità di opere, molte delle quali rimaste inedite. Solo d’estate ritornava a Leuca per abitare in  compagnia degli “Dei Terminali”, ai quali aveva dedicato la sua villa.

Ma, nonostante la lontananza, Luigi Corvaglia non dimenticò mai il suo paese, lo testimonia anche la lettera seguente nella quale egli constata amaramente la distanza che lo separa da Melissano e ne sintetizza le vicende degli ultimi cinquanta anni, nelle quali è facile intravedere un acherontico retaggio, causa dei tanti problemi della comunità melissanese. La lettera, datata Roma, 27 febbraio 1958, è indirizzata al sindaco di Melissano, avv. Elio Santaloja, che aveva chiesto al Corvaglia notizie sullo stemma civico:

Caro Elio,

    lo stemma che ha Melissano è quello di Casarano. Quando il paese fu eretto Comune autonomo, i Commissari (io, l’avv. Felice Panico e il dott. Vito Caputo) chiedemmo alla prefettura l’autorizzazione ad assumere come stemma quest’impresa: un cespuglio di melissa in fiore, su cui un’ape si libra cogliendo il polline; intorno, in cartiglio, la scritta “Apis non vespa”. Che il motto non piaceva per il suo mordente, proponemmo in subordine un tratto dell’ape oraziana. Ma a quei tempi montava la marea fascista e la prefettura bocciò la proposta in odium auctoris. Così restò l’impresa casaranese della quercia, con la serpe che sale per il tronco, vieto motivo dell’iconografia araldica italiana. “Impresa cesarea”, secondo i facili etimi che ritrovano Cesare alle origini del paese di Papa Tomacelli, Ottavio a quelle di Taviano, Eraclio a quelle di Racale e sciolgono in prae-siccum Presicce, in ricca d’acqua Acquarica, o appiccicano le ali ad Alliste, marchianamente ignorandone l’origine greca della bellissima, rimasta nel nome dialettale “Kaddhiste”, ecc… .

     Per l’impresa di Casarano c’è pero un’altra versione meno aulica. Essa trae l’etimo dal gergo, per metatesi, da casara, alias sacàra, il che spiegherebbe la presenza della serpe che monta per raggiungere i nidi della chioma dell’albero. Se così fosse, bisognerebbe conservare quest’impresa ch’è così congeniale anche a Melissano, per via del rettile.

Caro Elio, sorvola su questa nota, che a dirla col De Bonald, mi suggerisce la “collera dell’amore”, verso il mio paese natale, sempre e ancora a me diletto, ma purtroppo così remoto da come io l’avrei voluto. E se ti riesce, dai pure  a Melissano uno stemma tutto suo; ma sovrattutto risveglia intorno a te la gioventù non ancora decrepita per ridare al paese la sua tradizione di serietà, di onestà e di intelligenza operosa. Luigi Corvaglia.

————————–

(1)     La fedeltà alle idee mazziniane venne richiamata dallo stesso Corvaglia nel suo epitaffio, trascritto  sulla lapide affissa dal Comune di Melissano sulla casa dell’illustre studioso:

Luigi Corvaglia

Letterato

Trasfigurò in religione umana

Finibusterre

Del pensiero rinascimentale

Trasse alla luce obliterate sorgive

In tempi scardinati

Vivendo intrepidamente fedele

All’idea mazziniana

Di Giustizia e Libertà

(2) “Vigilia elettorale nel collegio di Gallipoli”, manifesto di L. Corvaglia, datato 19.3.1915.

(3) “Per un referendum”, manifesto di L. Corvaglia, datato aprile 1920.

(4) “Le Questioni Morali di Melissano”, manifesto di L. Corvaglia, datato 6.12.1924

(5) “L’acherontico retaggio (con elogio della vita comune)” , Matino, S. A. Tipografia, 1945  (« Quaderni mazziniani », n. 3).

 

Quintino Sicuro: una vita diversa

Quintino Sicuro: una vita diversa

Ricordo del sacerdote-eremita di Melissano

a 42 anni dalla morte

 

di Fernando Scozzi

Il 26 dicembre 1968, sulle pendici del Monte Fumaiolo, muore don Quintino Sicuro, sottobrigadiere della Guardia di Finanza, eremita e sacerdote. Nato a Melissano nel 1920, si arruola nelle Fiamme Gialle  e nel 1941 partecipa alle operazioni di guerra sul fronte greco-albanese. Nel 1946 è promosso sottobrigadiere, ma l’anno successivo si congeda dalla Guardia di Finanza ed entra nel convento dei Minori Francescani di Ascoli Piceno. Il mondo non può darmi quella pace spirituale che si gusta all’ombra di una casa religiosa; e per questo, solo per questo – dice Quintino Sicuro – ho deciso di abbandonare il mio attuale regime di vita e mettermi sulla buona strada.

Quintino Sicuro, sottobrigadiere

Tuttavia non è ancora quello che vuole  e nel 1949 abbandona anche il saio francescano e i con i panni della Provvidenza, da vero sposo di Madonna Povertà, si ritira sull’eremo di San Francesco, a Montegallo (AP) dove vive nella preghiera, nella solitudine  e nella più assoluta indigenza.  Da qui, dopo diversi mesi, scrive alla madre una delle lettere più belle per spiegare un cambiamento così radicale nella sua vita, una scelta che non può essere compresa dai familiari. Quintino lo sa e scrive: Avrei tante cose da dirvi onde giustificare il passo fatto e per pacificarvi del mio nuovo stato di cose, eppure mi astengo, perché superfluo, e vi dico semplicemente  di avere fatto la volontà di Dio e di stare bene, perché sulla mia strada.

Quintino Sicuro, eremita

L’eremo costituisce una tappa importante per la ricerca di quella pace spirituale che Quintino spera di trovare pregando e facendo penitenza. Abbandona tutto, comprese le persone più care e proprio questa scelta costituisce la prova dell’autenticità della vocazione. La vita dei Santi, infatti, è costellata da chiamate e cambiamenti repentini: Gesù chiama e gli apostoli lo seguono abbandonando familiari e occupazioni; San Francesco, per rimarcare la separazione dalla famiglia, restituisce a suo padre perfino i vestiti; San Paolo cambia improvvisamente la sua vita sulla via di Damasco. Quintino Sicuro modifica radicalmente la sua esistenza tanto da rinunciare ad ogni preoccupazione della vita e quindi  poco importa se la gente mi dice

Libri/ Lavoro in movimento – Storie, volti, documenti dell’emigrazione melissanese

Associazione Pro Loco Melissano

 
 
Sabato 23 ottobre, alle ore 18.30, presso il circolo culturale “Q. Scozzi”, sarà presentato il libro di Fernando Scozzi: “Lavoro in movimento – Storie, volti, documenti dell’emigrazione melissanese“.
 

La S.V. è invitata a partecipare.

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

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