La Terra d’Otranto in un prezioso arazzo (1/3)

di Maria Grazia Presicce e Armando Polito

La superiorità dell’arte si gioca, probabilmente sulla miracolosa convergenza di due elementi contrapposti: da un lato la sinteticità del linguaggio, dall’altro la pluralità semantica che esso racchiude in sè e che, vuoi in modo immediato e superficiale, vuoi in modo più profondo, magari proprio col suo carattere allusivo, riesce a trasmettere. Così anche un manufatto apparentemente senza pretese, nel nostro caso un arazzo, può narrare nello spazio di un solo sguardo quello che in un libro di storia richiederebbe tanti sguardi quante sono le pagine dedicate all’argomento o al problema trattato.

L’arazzo che ci accingiamo a leggere è, se non il più antico documento iconografico della Terra d’Otranto, certamente il più completo, e il suo valore storico appare doppio in quanto testimonia anche una sorta di passaggio di consegne tra l’antica provincia, quella di Terra d’Otranto appunto, e la nuova, quella di Lecce, la cui non dichiarata preminenza è attestata, come vedremo, dal fatto che tutti i dettagli paesaggistici in esso raffigurati si riferiscono a Lecce. Questa sorta di tacita rivendicazione di un primato di prestigio rispetto alle provincie di Brindisi e Taranto sul piano amministrativo con l’acquisizione come suo stemma di quello che era stato della Provincia di Terra d’Otranto (il delfino e la mezzaluna1) è per fortuna compensato dalla citazione di nomi di personaggi non esclusivamente leccesi, a riprova che, al di là di stupidi orgogli campanilistici, la cultura non vive di miopi rivendicazioni in molti casi perfino disgiunte dalla conoscenza storica, quando non nutrite, addirittura, da interpretazioni di comodo, alterazione delle fonti, per non parlare delle innumerevoli superfetazioni succedutesi nel tempo, fino ad arrivare alle bufale pure in questo settore giornalmente propalate dalla stampa (non esclusi i cosiddetti saggi) e dalla rete.

Il prezioso manufatto è custodito nella sala di ricevimento dell’Istituto Marcelline di Lecce2, che ringraziamo qui pubblicamente per la generosa disponibilità dimostrata, senza la quale questa nostra modesta fatica non avrebbe potuto vedere nemmeno l’inizio, ringraziamento tanto più doveroso perché in evidente contrasto con i paletti vari che la burocrazia laica interpone quando si tratta di visionare materiale pubblico, non fosse altro che un semplice atto d’archivio. Non siamo riusciti a reperire documenti che ne attestino la datazione, che si colloca, comunque, tra il 1893 (data del trasferimento dalla vecchia sede) e, prudenzialmente, il 1921, data di spedizione della cartolina in cui è ritratto. Proprio le cartoline d’epoca, quando non diversamente specificato, hanno fornito un notevole supporto, mentre le foto recenti, ad attestare lo stato attuale, sono degli autori.

Nel suo insieme l’arazzo appare come la copertina anteriore di un libro dotato di rilegatura monastica3. Le parti centrali del settore superiore ed inferiore (il primo con lo stemma4), il secondo con la scritta, ne  costituiscono a tutti gli effetti il titolo.

La conformazione di ciascun ovale e di ciascuna cornice sembra echeggiare quella presente in Scipione Mazzella, Descrittione del Regno di Napoli, Cappello, Napoli, 1601, p. 81 (prima immagine). Com’è noto lo stemma della Terra d’Otranto fu adottato, a partire dal 1933 dalla Provincia di Lecce (seconda immagine).

Al di là dei richiami, reali o presunti, ad un libro appena evocati, sul piano squisitamente tecnico si tratta di un ricamo su un canovaccio a nido d’ape minuto in seta e cotone di colore giallo pallido su cui è stato sistemato il disegno preparatorio poi realizzato in oro a rilievo. Tutto si accorda in un’armonia di segni e colori che stupiscono per la minuta precisione e le sfumature  che fanno apparire l’opera quasi pittura.

Al centro dell’arazzo campeggia, e non poteva essere altrimenti, la personificazione della Terra d’Otranto.

Una giovane donna in chitone5 bianco e imatio6 rosso reca nella destra un ramoscello d’olivo e con la sinistra  regge, appoggiato verticalmente a terra, uno scudo sagomato7 su cui campeggia un delfino (è, come abbiamo detto, lo stemma di Terra d’Otranto).

Alla sua destra, adagiata per terra una cornucopia, notorio simbolo dell’abbondanza e ai suoi piedi, un po’ distanti, quelle che si direbbero spighe.

A nostro avviso non è da escludersi un influsso della rappresentazione della Puglia, contaminata con quella dell’Italia, quali si vedono in Cesare Ripa, Iconologia, Farii,  Roma, 1603, rispettivamente alle pp. 266 e 247.

 

Al di là delle evidenti allusioni in Ripa al fenomeno del tarantismo, che comporta anche inevitabili differenze nel panneggio, tratti in comune ci sembrano l’acconciatura (anche se nell’arazzo i capelli si direbbero trattenuti da una benda), a parte i dettagli indiscutibili della destra che impugna il ramoscello d’olivo e quello, probabile, delle spighe, pur nella loro differente collocazione.

Quella che segue è, a nostra conoscenza, la seconda personificazione  della Terra d’Otranto e di questa, a differenza di quella dell’arazzo (sul problema torneremo in seguito),  conosciamo  la data di realizzazione: 1882. Si tratta del verso di una medaglia (ideazione del galatinese Pietro Cavoti, modello del leccese Eugenio Maccagnani, incisione del fiorentino Giovanni Vagnetti)8. Le due immagini presentano in comune la posizione dello scudo (non la forma, essendo quello dell’arazzo sagomato, quello della moneta ellittico, simile a quello che i Romani chiamavano parma) retto con la sinistra e la cornucopia; la caratteristica parte terminale, che le dà il nome, nell’arazzo è nascosta dalla parte inferiore della figura femminile e nella medaglia manca il ramoscello d’olivo perché la destra della Terra d’Otranto è impegnata a stringere quella dell’Italia.

 

Le due immagini costituiscono quasi una specializzazione locale della figura classica dell’Abbondanza (quella dell’arazzo, più specificamente della Pace, come mostra l’immagine che segue risalente al XVII secolo un’incisione di Carol De Mallery su disegno di M. De Vos stampata da Joan Galle ad Anversa), nella cui rappresentazione la cornucopia è il dettaglio più significativo. E il distico elegiaco che costituisce la didascalia sintetizza i concetti complementari di pace ed abbondanza: Pax alma, ingenuas praesertim quae fovet artes,/orbi suppeditat denique divitias (L’alma pace, che favorisce soprattutto le nobili arti, alla fine procura al mondo ricchezza).      

Per completezza d’informazione va detto che questo processo di personificazione aveva avuto il suo primo timido avvio con l’assunzione delle fattezze di una testa di donna da parte di quella del delfino, come risulta dallo stemma presente a. p. 17 del saggio Antiquitates Neapolis di Benedetto di Falco  inserito nella prima parte del nono tomo del Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae uscito a Lione per i tipi di Pietro Vander Aa nel 1723, a cura di Giovanni Giorgio Grevio e Pietro Burmanno.

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/12/30/la-terra-dotranto-in-un-prezioso-arazzo-2-3/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/01/04/la-terra-dotranto-in-un-prezioso-arazzo-3-3/

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1 Sul tema vedi http://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/11/il-delfino-e-la-mezzaluna-prima-parte/

2 Per le notizie storiche sull’istituto vedi http://www.marcellinelecce.it/wp-content/uploads/2016/06/Istituto-Marcelline-Lecce.pdf.

3 Sul tema vedi http://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/11/il-delfino-e-la-mezzaluna-prima-parte/

4 Sullo stemma vedi Il delfino e la mezzaluna in http://www.fondazioneterradotranto.it/2012/05/11/il-delfino-e-la-mezzaluna-prima-parte/ (in calce alla prima parte i collegamenti alle restanti quattro) e Il delfino “stizzoso” dellantico stemma di Terra d’Otranto, in http://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/30/il-delfino-stizzoso-dellantico-stemma-di-terra-dotranto/

5 Dal greco χιτών (leggi chitòn), che significa tunica.

6 Dal greco ἱμάτιον (leggi imàtion) o εἱμάτιον (leggi eimation), diminutivo di ἱμα (leggi ima) o εἷμα (leggi èima), che significa veste.

7 Così in araldica viene chiamato lo scudo con lembi a frastagli mistilinei. Scudi simili, recanti nella parte centrale una testa di Gorgone, protomi animali o teste di divinità sono visibili in fregi dell’età imperiale.

8 Lo stesso ideatore dichiara nell’opuscolo, da lui curato e scritto per gran parte, Medaglia offerta dalla Provincia di Terra d’Otranto a s. e. Agostino Magliani, ministro delle finanze e senatore del Regno, Stabilimento tipografico Scipione Ammirato, Lecce, 1883 (nello stesso anno ripubblicato con accresciuto numero di pagine per i tipi di Spacciante, sempre a Lecce): Il Consiglio Provinciale di Terra d’Otranto volle, con unanime e spontanea cortesia, affidarmi l’incarico della Medaglia d’oro e dell’Indirizzo in pergamena, che, per sua speciale deliberazione del 1882, stabiliva doversi offerire al Ministro delle Finanze, AGOSTINO MAGLIANI, fautore di un contratto di mutuo colla Cassa dei depositi e prestiti, necessario ad agevolare, per il tempo e pel dispendio, la costruzione delle strade ferrate da Taranto a Brindisi, e da Zollino a Gallipoli, dalle quali s’impromette gran bene la Provincia e la nostra gran patria. Sulla medaglia vedi pure http://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/12/magliani-agostino-detto-tino-e-la-sua-medaglietta-la-ferrovia-tra-brindisi-e-taranto-lho-portata-io/

Quella seconda mensola del balcone del castello di Nardò … (5/6)

di Armando Polito

L’iconografia tradizionale si arricchisce di ulteriori riferimenti religiosi cristiani nell’immagine disegnata da Gottofr. Eichler junior facente parte della raccolta pubblicata da Giovanni Giorgio Hertel col titolo Historiae et allegoriae, Ausburg, 1758.

1

 

L’Amicizia ricalca il Ripa (che a sua volta, come abbiamo visto, si era rifatto all’Alciato)  ma l’immagine complessiva conterrebbe secondo la didascalia allusioni alla pacificazione tra i fratelli Giacobbe ed Esaù (Genesi, 33). Io ci vedo pure il cieco ed il paralitico che si aiutano a vicenda (visibili a destra) e, nelle tavola in mano al bambino, le tre Grazie,  dettagli che corrispondono alla penultima ed all’ultima rappresentazione testuale dell’Amicizia nel testo del Ripa e la prima a quella iconografica dell’Alciato dal titolo Mutuum auxilium (Vicendevole aiuto) riprodotta di seguito dalla pag. 16 dell’edizione degli Emblemata, uscita a Parigi per i tipi di Christian Weckel nel 1534.

2

 

Insomma, l’ultima immagine del 1758 sembra riassumere tutti i dettagli delle precedenti rappresentazioni; non manca nemmeno il cuore che aveva fatto la sua comparsa in un repertorio addirittura anteriore a quelli fin qui presi in considerazione: Emblemata di Giovanni Sambuco pubblicato ad Anversa per i tipi di Cristoforo Plantin nel 1564; ne riproduco di seguito  la pag. 16 contenente la scheda Vera amicitia.

3

 

Nonostante questo labirinto di superfetazioni in cui è difficile, anche perché il riferimento alle fonti è piuttosto latitante, distinguere l’autenticodall’inventato1, son riuscito con Holcot ad andare a ritroso nel tempo con certezza fino al XIV secolo e, purtroppo senza riscontri,  al V-VI secolo con Fulgenzio da lui citato.  Per quanto riguarda le raffigurazioni antiche nulla ci è rimasto e per completezza, però, va detto che prima ancora che nel Ripa MORS ET VITA e LONGE ET PROPE sono ricordati anche dal Vasari in Vite de’ più eccellenti pittori, scultori et architettori, la cui prima edizione uscì a Firenze per i tipi di Torrentino nel 1550 (qui cito dall’edizione Giunti, Firenze, 1568, v. VI, pag. 347): Stravagantemente fu poi l’Amicizia, che dopo loro veniva figurata, percio che questa benche in forma di giovane donna, si vedeva havere di frondi di melagrano, & di Mortella, la nuda testa inghirlandata, con una rozza veste in dosso, in cui si leggeva Mors et vita; & col petto aperto, si che scorgevisi entro il quore si poteva; in cui si vedeva similmente scritto LONGE ET PROPE; portando un secco Olmo in mano da una fresca, & feconda vite abbracciato.

E una conferma temporalmente più vicina a noi si ha pure in quanto si legge in Il Buonarroti, una serie di “quaderni” con articoli di vari autori pubblicati a Roma a cura di Benvenuto Gasparoni  per i tipi della Tipografia delle scienze matematiche e fisiche. Nel quaderno II del Febbraio 1866 in un articoletto a firma del curatore dal titolo La casa di Carlo Lambardo architetto (pagg. 51-53) si legge: … egli (Carlo Lambardo) si fabbricò (a Roma) alcune casette nel rione di Colonna, presso S. Maria in Via. Delle quali una, dove egli si riparava, è ancora in essere, e nell’architrave del portone, scolpito di lettere cave nel traverstino, si legge il suo nome –CAROLUS LAMBARDUS-. Questa, come che piccolina e con pochi ornamenti, sendovi ogni cosa accomodata con arte, e con giudicio, lasciasi guardare con piacere; ed ha due ordini di stanze sopra il basamento, dove da un lato s’apre il portoncino, che volgesi in arco, contrassegnato col n° 50. Sonovi in ciascuno ordine tre finestre, se non che quelle di mezzo sono finte; e nel quadro delle luci si vedono dipinte di buon fresco due figure, tenute in pregio da chi conosce di pittura. Delle quali quella di sotto è fatta per l’Amicizia, che ha nella mano destra un cuore, e si tiene abbracciata con la sinistra ad un albero, cui s’attortiglia una vite, ed una fettuccia le esce dal petto dove è scritto un motto che dice “Longe et prope”.

Lo stesso curatore ci fa sapere che l’architetto morì nel 1620 e, a scoraggiare l’eventuale tentazione che possa cogliere qualche lettore, magari romano,  di individuare questa casa, in nota 1 (la riporto integralmente perché contiene la denuncia di un fenomeno che continua ai nostri giorni) a pag. 53 ecco l’infausto presago messaggio:  Affrettisi chi volesse vedere questa casa del lambardo ancora in piedi, poiché fra pochi giorni sarà atterrata, a quanto si può fare giudicio dal vederla disabitata e lavorarvi dentro i muratori. O quando ci torremo noi questo vitupero da dosso, di distruggere quelle cose, che fanno il grido e la fama della città nostra? La quale non solo di storiche memorie va onorata e degna sopra molte, ma veramente si può dire che dal lato delle arti, sia la scuola e l’esempio del mondo. Se non che continuandoci in questo mal giuoco, non passeranno molte diecine di anni, che a così famos città, non rimarrà che il lustro del nome. Dove qui non mi posso ritenere di ricordare cosa, che mi ha fatto fremere di sdegno: dico del mal governo e del guato che di questi dì si è fatto del palazzetto Amici, già Strozzi, in Banchi Vecchi, delle più belle architetture di Jacopo Sansovino;  dove è stata appiccicata al primo piano una ribalda loggia che lo difforma, e scarpellato di oltre due dita, per racconciarlo, il bugnato rustico del basamento, che ne ha perduto di maestà e di bellezza tanto, che questo solo basterebbe a far testimonio della nostra ignoranza e della nostra ignavia. Ma non intendiamo con queste parole recar onta a quel nobile Signore  che lo fece ristaurare, e vi ebbe bonissima intenzione; se non ch’egli fu mal servito.

(CONTINUA)

prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/10/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-16/

seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/11/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-26/

terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/12/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-36/

quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/13/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-46/

sesta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/20/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-66/

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1 Non a caso la prima edizione dell’opera del Ripa (1593), di cui si è sopra riprodotto il frontespizio, reca il titolo Iconologia overo descrittione dell’immagini universali cavate dall’antichità et da altri luoghi da Cesare Ripa Perugino, mentre quello dell’edizione uscita a Roma nel 1603 per i tipi di Lepido Facii è Iconologia overo descrittione dell’immagini universali cavate dall’antichità, & di propria inventione, trovate, et dichiarate da Cesare Ripa Perugino, Cavaliere dei Santi Mauritio & Lazaro

Quella seconda mensola del balcone del castello di Nardò … (4/6)

di Armando Polito

Volendo andare a ritroso nel tempo va aggiunto che il Ripa nello scrivere la scheda relativa all’Amicizia si rifece pure a quanto aveva scritto Robert Holcot (XIV secolo) nel suo In librum sapientiae regis Salomonis praelectiones CCXIII (cito dall’edizione del 1586, s. e., s. l., pag. 731):

Pictura amoris sive amicitia MORALITAS XXVI. Narrat Fulgentius in quodam libro de gestis Romanorum: quòd Romani verum amorem sive veram amicitiam hoc modo descripserunt, scilicet: quod imago amoris vel amicitia depicta erat instar iuvenis cuisdam valdè pulchri, induti habitu viridi. Facies eius et caput discooperta erant sive nudata, et in fronte ipsius erat hoc scriptum: HYEMS ET AESTAS. Erat latus eius apertum, ita ut videretur cor, in quo scripta erant haec verba: LONGE ET PROPE. Et in fimbria vestimenti eius erat scriptum: MORS ET VITA. Similiter ista imago habebat pedes nudos, etc. SEQUITUR MYTHOLOGIAE EXPOSITIO. Ista imago quae depicta erat ad similitudinem hominis iuvenis, in signum: quod verus amor & sincera amicitia non potest diu latere in corde, sed sese extendit in opere exterius: iuxta illud Gregorij: Probatio dilectionis, est exhibitio operis. Erant scripta, hyems & aestas: id est, adversitas & prosperitas, in signum: quod veri amici secreta cordis invicem debent intimare, & necessitates quaslibet alter alteri ostendere: et ideò scriptum est in corde, longè & propè, in signum: quod amicus tantundem diligendus est quando distat, ac si prope existeret. In fimbria scriptum erat, Mors & Vita, in signum: quod verus amor & sincera amicitia senescere non debet, & per consequens in necessitate non deficere, sed semper iuvenescere, & aeque stabilis esse in principio & in fine. Ista imago habebat caput, & faciem discoopertam, in signum: quod verus amor & sincera amicitia non potest diu latere in corde, sed sese extendit in opere exterius: iuxta illud iuxta illud Gregorij: Probatio dilectionis, est exhibitio operis. Erant scripta, hyems & aestas: id est, adversitas & prosperitas, in signum: quod veri amici secreta cordis invicem debent intimare, & necessitates quaslibet alter alteri ostendere: et ideò scriptum est in corde, longè & propè, in signum: quod amicus tantundem diligendus est quando distat, ac si prope existeret. In fimbria scriptum erat, Mors & Vita, in signum: quod verus amor & amicus sincerus debet esse perseverans non solùm in vita praesenti, sed etiam in morte, quae per fimbriam designatur. Item vestis viridis indicat amicitiam semper debere esse recentem & suavem, nulla que temporis diuturnitate tepescentem, & instar hederae sempere virescere, etc. per omnia tempora & loca inseparabiliter amico adhaerere, etc.

Il testo presenta la ripetizione, probabilmente per errore nella trascrizione dal manoscritto, di un lungo periodo. Ne fornisco la traduzione fedele anche perché tale errore non comporta nessuna conseguenza ai fini della nostra ricerca: Rappresentazione dell’amore o amicizia MORALITÀ XXVI. Narra Fulgenzio in un libro sui fatti dei Romani che i Romani descrissero il vero amore o la vera amicizia in questo modo, cioè che l’immagine dell’amore o dell’amicizia era rappresentata a guisa di un giovene molto bello, che indossava una veste verde. Il suo volto e il capo erano scoperti o nudi e sulla sua fronte c’era questa scritta: HYEMS ET AESTAS. Il suo fianco era aperto così che si vedeva il cuore sul quale erano scritte queste parole: LONGE ET PROPE. E sull’orlo della sua veste era scritto: MORS ET VITA. Inoltre questa immagine aveva i piedi nudi, etc. SEGUE L’ESPOSIZIONE DELLA MITOLOGIA. Questa immagine che era rappresentata a somiglianza di giovane uomo simboleggiava che il vero amore e la sincera amicizia non possono a lungo nascondersi nel cuore, ma si mostrano esteriormente in concreto, secondo quel famoso concetto di Gregorio: Prova dell’amore è l’esibizione del concreto1. Era scritto hyems et aestas, cioè avversità e prosperità, a simboleggiare che i veri amici debbono  vicendevolmente comunicare i segreti del cuore e l’uno mostrare all’altro ogni bisogno; e perciò è scritto sul cuore longe et prope , a simboleggiare che l’amico deve essere amato allo stesso modo quando è lontano e quando è vicino. Sull’orlo era scritto mors et vita a simboleggiare che il vero amore e la sincera amicizia non debbono invecchiare, e di conseguenza non venir meno nel bisogno ma sempre ringiovanire ed essere ugualmente stabile all’inizio e alla fine. Questa immagine aveva la testa e il volto scoperti a simboleggiare che il vero amore e la sincera amicizia non possono a lungo nascondersi nel cuore, ma si manifestano esteriormente in concreto, secondo quel famoso concetto di Gregorio: Prova dell’amore è l’esibizione del concreto1. Era scritto hyems et aestas, cioè avversità e prosperità, a simboleggiare che i veri amici debbono  vicendevolmente comunicare i segreti del cuore e l’uno mostrare all’altro ogni bisogno; e perciò è scritto sul cuore longe et prope , a simboleggiare che l’amico deve essere amato allo stesso modo quando è lontano e quando è vicino. Sull’orlo era scritto mors et vita a simboleggiare che il vero amore e l’amico sincero devono essere perseveranti non solo nella vita presente ma anche nella morte, che è simboleggiata dall’orlo della veste. Inoltre la veste verde indica che l’amicizia deve essere sempre vigorosa e dolce, non intiepidita dal trascorre del tempo e sempre verdeggiante come l’edera e per ogni tempo e luogo essere unita inseparabilmente all’amico etc.

L’etc. che chiude il passo  di Holcot ci autorizza a supporre che lo scolastico dominicano inglese abbia, più che parafrasato, quasi citato (difficile dire se a memoria o meno) Fulgenzio. L’indicazione estremamente generica in quodam libro de gestis Romanorum e il tema trattato mi hanno fatto immediatamente pensare al Mythologiarum libri tres di Fabio Planciade Fulgenzio (V-VI secolo), ma un controllo ha evidenziato nel libro non solo l’assenza del brano in questione ma anche di qualsiasi trattazione del tema dell’amore o dell’amicizia.

E se, ad ogni modo, Holcot si rifece a Fulgenzio, per quanto riguarda la rappresentazione tutte le tavole successive al Ripa si mossero sulla sua scia. Ecco, per esempio, di seguito quella tratta da Jean Baptiste Boudard, Iconologie, Carmignani, Parma, 1759.

1

 

Va pure detto che il motto HYEMS ET AESTAS, che in tutti gli autori fin qui citati è riferito all’amicizia, è un nesso già presente come simbolo dell’alternarsi delle stagioni della vita (perciò MORS ET VITA ne appare una sorta di integrazione) in Marco Terenzio Varrone (I secolo a. C.), De lingua latina, V, 10: … omne corpus, ubi nimius ardor aut humor, aut interit aut, si manet, sterile. Cui testis aestas et hiems, quod in altera aer ardet et spica aret, in altera natura ad nascenda cum imbre et frigore luctare non volt et potius ver expectat. Igitur causa nascendi duplex: ignis et aqua ( … ogni corpo quando c’è eccessivo calore o umidità o muore o, se sopravvive, è sterile. Ne sono prova l’estate e l’inverno, poiché nell’una l’aria è calda e la spiga si dissecca, nell’altro la natura non vuole lottare con la pioggia e con il freddo e aspetta piuttosto la primavera, Dunque duplice è la causa del nascere: il fuoco e l’acqua).

Andando ancora più a ritroso nel tempo esso è presente nel libro della Genesi, 8, 22, il cui testo nella vulgata suona così: Cunctis diebus terrae, sementis et messis,  frigus et aestus, aestas et hiems, dies et nox non requiescent (In tutti i giorni della Terra il freddo e il caldo, l’estate e l’inveno, la notte e il giorno non verranno meno). Mi ha sorpreso scoprire che a suo tempo la Chiesa respinse l’interpretazione teologica di Emanuel Swedemborg che in Arcana coelestia (1749-1756; la citazione che segue è tratta dall’edizione uscita a Tubingen nel 1833, v. I, pag. 392) scrive: Et aestas et hiems’: quod significent statum hominis regenerati quoad nova ejus voluntaria quorum vices se habent sicut aestas et hiems, constare potest ab illis quae de frigore et aestu dicta sunt; vices regenerandorum assimilantur frigori et aestui, sed vices regeneratorum aestati et hiemi: quod de regenerando ibi actum, hic autem de regenerato, constat inde quod ibi primo loco ‘frigus’ nominetur et secundo ‘aestus’; hic autem primo loco ‘aestas’ et secundo ‘hiems’; causa est quia homo qui regeneratur, incipit a frigore, hoc est, a nulla fide et charitate, at cum regeneratus est, tunc incipit a charitate (“Et aestas et hiems”: poiché significherebbero lo stato dell’uomo rigenerato finché è possibile che le nuove volontà il cui corso procede come l’estate e l’inverno risultino da ciò che è stato detto sul freddo e sul caldo; le vicende dei rigenerandi sono assimilate al freddo e al caldo, ma le vicende dei rigenerati all’estate e all’inverno: ciò che lì è avvenuto del rigenerando, qui (avviene) del rigenerato; risulta perciò che lì in primo luogo è nominato il freddo e in secondo il caldo, qui in primo luogo l’estate e in secondo l’inverno; la causa è che l’uomo che viene rigenerato comincia dal freddo, cioè da nessuna fede e carità, ma, quando si è rigenerato allora comincia dalla carità).

Mi viene il sospetto che quest’interpretazione non piacque per partito preso, dal momento che questo genio poliedrico (si cimentò con ottimi risultati nelle più svariate discipline: dalla matematica alla chimica, dall’anatomia alla filosofia, dalla musicologia all’omeopatia) fu uno dei precursori dello spiritismo …

 

(CONTINUA)

prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/10/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-16/

seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/11/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-26/

terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/12/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-36/

quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/19/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-56/

sesta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/20/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-66/

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1 L’atto concreto di cui parla Gregorio (Homiliarium in Evangelia, I, XX) è l’elemosina:  Sed etsi fructum proprium ulmus non habet, portare tamen vitem cum fructu solet, quia et saeculares viri intra sanctam Ecclesiam, quamvis spiritalium virtutum dona non habeant, dum tamen sanctos viros donis spiritalibus plenos sua largitate sustentant, quid aliud quam vitem cum botris portant? (Ma sebbene l’olmo non abbia un proprio frutto suole tuttavia reggere la vite col frutto, perché anche i laici nella santa Chiesa, sebbene non abbiano il dono delle virtù spirituali, mentre sostentano tuttavia con la loro generosità i santi uomini pieni di doni spirituali, che altro sorreggono se non la vite con i grappoli?).

È evidente che Gregorio si è rifatto alla seconda similitudine de Il pastore di Erma.

Quella seconda mensola del balcone del castello di Nardò … (3/6)

di Armando Polito

Quello del Ripa, come i repertori di ogni epoca, fu scritto utilizzando fonti che qui tenterò di individuare nello specifico iconografico e testuale.

Non poteva il Ripa non rifarsi al padre dei repertori di simboli, cioè all’Emblemata di Andrea Alciato, pubblicato senza autorizzazione la prima volta ad Augusta nel 1531 per i tipi di Heinrich Steyner, comprendente 104 emblemi; la prima edizione autorizzata uscì a Parigi per i tipi di Christian Wechel nel 1534 e contava 113 emblemi (in basso il frontespizio).

1

 

A pag. 16, in basso riprodotta, c’è la scheda relativa all’amicizia (a fronte la traduzione della parte testuale).

2

Il testo dell’Alciato ebbe, lui vivente, una serie sterminata di edizioni. In quella uscita a Lione per i tipi di Guglielmo Rovillio nel 1948, mentre il testo è identico a quello delle edizioni precedenti, cambia leggermente l’immagine dell’olmo e della vite (foto in basso), adottata anche nell’ultima edizione, lui vivente,  uscita a Lione, ancora per i tipi del Rovillio, nel 1550.

3

L’opera dell’Alciato continuò ad essere pubblicata dopo la sua morte avvenuta, come ho detto, nel 1550, con aggiunte ed integrazioni di altri irrilevanti ai fini di questa indagine.

Quello dell’olmo e della vite è un topos antico che è presente già in Catullo (I secolo a. C.), dove ricorre come metafora dell’amor coniugale1, mentre Orazio (I secolo a. C.) parla genericamente di arbores2 che traggono giovamento dall’accoppiamento con la vite. E questi stessi autori in altri passi ci danno indicazioni più precise sull’essenza allo scopo utilizzata, oltre l’olmo: il platano3 e il pioppo4. Columella (I secolo d. C.), poi, ci darà la graduatoria di tutti i potenziali mariti della vite togliendo dall’insieme delle essenze citate dagli altri il platano ed aggiungendo il frassino5.

Il Cristianesimo farà sua la metafora pagana nella seconda similitudine che Erma (II secolo) ci presenta nel Pastore, un testo che ebbe una fortuna tale che alcuni Padri della Chiesa lo tennero in considerazione come se facesse parte delle Sacre scritture: Mentre passeggiavo per il campo e osservavo un olmo e una vite e riflettevo  su di essi e sui loro frutti, il pastore mi appare e dice: –  Che cerchi in te stesso intorno all’olmo e alla vite? -. Dico: – Cerco di capire, signore,  perché  sono reciprocamente adatti -. Dice: – Questi due alberi costituiscono un simbolo per i servi di Dio-. Dico: – Vorrei conoscere il simbolo di questi alberi dei quali parli -. – Vedi l’olmo e la vite? -. Dico: – Li vedo, signore -.  Dice: – Questa vite porta il frutto, l’olmo, invece, è un albero senza frutto. Ma questa  vite se non sale sull’olmo  non può produrre  frutti in abbondanza mentre giace per terra e Il frutto che porta se non è sospesa all’olmo, lo porta marcio. Quando dunque la vite si attorciglia all’olmo  produce frutto per merito suo e per merito dell’olmo. Vedi dunque che l’olmo dà molto frutto, non meno della vite, anzi anche di più -. Dico: – Come, signore, di più? -. Dice: – Perché la vite sospesa all’olmo dà un frutto abbondante e bello; , giacendo per terra, invece, scarso  e marcio. Questa similitudine  si addice ai servi di Dio, al povero e al ricco -. Dico: – Fammelo sapere, signore, in che modo -. Dice: -Ascolta. Il ricco ha beni ma questi non valgono nulla davanti al Signore; tutto preso dalla sua ricchezza, rivolge pure al Signore un ringraziamento troppo piccolo  e una preghiera, quella che fa,  piccola e debole, non avente la forza di un uomo. Quando dunque il ricco va in aiuto del povero e gli fornisce il necessario, credendo che colui che si adopererà per il povero  potrà trovare la ricompensa da parte di Dio, che il povero è ricco nel ringraziamento e nella preghiera e la sua preghiera presso Dio ha una grande forza, il ricco dunque aiuta il povero in tutto senza titubanza. Il povero, aiutato dal ricco, intercede per lui presso Dio e lo ringrazia per il dono ricevuto; e l’altro ancora si preoccupa del povero perché non si abbandonato nella sua vita; infatti sa che la preghiera del povero è gradita e ricca per Dio. Entrambi dunque compiono un lavoro: il povero fa la preghiera in cui è ricco, quella che ha preso dal Signore e questa rende al Signore per chi lo aiuta e il ricco ugualmente offre senza titubanza al povero la ricchezza che ha preso dal Signore e quest’azione è grande e  gradita per Dio perché ha inteso bene la sua ricchezza e ha lavorato per il povero utilizzando i doni del Signore e ha compiuto correttamente il servizio al Signore. Presso gli uomini  dunque l’olmo sembra non portare frutto ed essi non sanno né comprendono che, se c’è siccità, l’olmo che ha acqua nutre la vite e la vite avendo incessantemente acquaproduce frutto doppio e per conto suo e per conto dell’olmo. Così anche i poveri intercedendo presso il Signore per i ricchi ricolmano la ricchezza di questi e a loro volta i ricchi provvedendo i poveri del necessario riempiono il loro animo. Diventano dunque entrambi partecipi dell’opera giusta. Chi dunque fa questo non sarà abbandonato da Dio ma sarà iscritto nei libri dei viventi. Beati coloro che posseggono e comprendono  che sono ricchi per opera di Dio.6

Probabilmente al Ripa non sfuggì quanto è contenuto nell’estratto di un’orazione tenuta nel 1587 da un certo Aldorfio pubblicata da Filippo Camerario in Operae horarum subcisivarum, sive meditationes historicae, Hoffmann, Francoforte, 1609,  pagg. 196-197: CAPUT LIII. Commendatio et typus amicitiae et concordiae, ac viceversa detestatio discordiae, excerpta ex oratione Aldorfii habita Anno 1587 postridie Petri et Pauli. Temporis et loci ratio praesens postulare, & me monere videtur, mihique materiam suppeditavit, ut amicitiae typum, utputa ingeniosum, & non vulgarem, veluti in tabula, ante oculos proponendum & explicandum, et hac ratione auditores commonere faciendum censuerim, ut diligenter perpendant, quantam vim & utilitatem vera amicitia contineat: econtra quam innumera mala, ea sublata, in locum eius succedat: ut recte Comicus dixerit: Neque falsum neque suave esse quicquam, ubi amor non admiscetur. Pictura autem apud Romanos amicitiae quam tamque Deam , quae a Graecis φιλία appellatur, gentiles inter sua numina collocavere, licet peculiares aras et templa, huic Deae dedicata fuisse, non reperiam antiquitus, talis fuit. Pingebatur puella iuvenis forma, detecto capite, quae erat tunica rudi induta, in cuius fimbria scriptum erat, MORS ET VITA. In fronte, AESTAS ET HYEMS. Latus habebat apertum vique ad cor, & brachium inclinatum, digito cor ostendens, ibi scriptum erat, LONGE ET PROPE. Huius ingeniosae picturae mysteria ita explicari possunt. Forma iuvenilis indicare videtur amicitiam semper recentem, vigore & alacritate florentem, nullaque temporis diuturnitate tepescentem. Nudum caput, ut omnibus pateat, & amicus, nullo unquam tempore, amicum publice suum fateri erubescat. Rude autem indumentum ostendit, ut amicus nulla ardua, extremamque inopiam pro amico subire non recuset: Vita & mors in vestimento scripta indicat, quod, qui vere diligit, usque ad mortem amat, imo etiam post mortem, ut epigramma quoddam monet “ … tales nos quaerere amicos/quos neque disiungat foedere summa dies”. Aestas et hyems, quia in prosperis & adversis aeque amicitia servanda; latus apertum habet usque ad cor, quia nihil amicum celat, sed cum eo omnia communia habet. Brachium inclinat, & digito cor ostendit, ut opus cordi, & cor verbis respondeat, nihilque fictum fucatumve admisceat. Longe & prope scriptum est, quia vera amicitia nullo tempore aboletur, nec locorum intercapedine disiungitur. Hanc statuam & descriptionem amicitiae ideo libentius introducere, & ante oculos proponere volui, cum ea germana soror Concordiae fingatur, eaeque ut coniunctissimae, & a Deo genitae, ut humanis mentibus utilissimae et integris iucundissimae sunt.

La mia traduzione che segue aiuterà il lettore a cogliere agevolmente la dipendenza del Ripa da Aldorfio o, quanto meno, da uno sviluppo, già diventato canonico, del tema7 : CAPITOLO LIII. Elogio ed immagine dell’amicizia e della concordia e, al contrario, condanna della discordia, estratte da un’orazione di Aldorfo tenuta nell’anno 1587 il giorno dopo quello di Pietro e Paolo. Motivi connessi col tempo e col luogo sembrano richiedere e ammonirmi, e me ne hanno fornito l’argomento, come l’immagine dell’amicizia, per esempio ingegnosa e non volgare come nella tavola, da proporre agli occhi e da spiegare, e per questo motivo credo che si debbano esortare gli uditori affinché diligentemente pensino quanta forza e utilità contenga l’amicizia e al contrario quanti mali, quando lei vien meno, subentrano al suo posto. Così giustamente avrebbe detto il Comico8: Non c’è niente di falso o di soave, dove l’amore non si mescoli. Tale fu poi presso i Romani la pittura dell’amicizia che i pagani collocarono tra i loro dei come una dea, quella che dai Greci è chiamata φιλία, sebbene non trovi che anticamente fossero state dedicati a questa dea particolari altari e templi: era dipinta come una fanciulla  giovane di aspetto, col capo scoperto, che era vestita di una rozza tunica sul cui orlo era scritto MORS ET VITA, in fronte AESTAS ET HYEMS. Aveva il fianco aperto e a forza fino al cuore, il braccio inclinato che mostrava col dito il cuore, dove era scritto LONGE ET PROPE. I misteri di questa ingegnosa pittura possono essere spiegati così. L’aspetto giovanile sembra indicare l’amicizia sempre fresca, fiorente di vigore ed energia, che non diventa tiepida per nessun trascorrere del tempo. La testa nuda affinchè a tutti si mostri e l’amico non arrossisca in nessun tempo mai di chiamare (un altro) pubblicamente amico. Mostra poi una rozza veste affinché l’amico non rifiuti di subire per l’amico qualche difficoltà e l’estrema povertà. Vita et mors sul vestito indica che chi ama veramente ama fino alla morte, anzi anche dopo la morte, come ammonisce un epigramma: “ … dobbiamo cercare amici tali che neppure l’ultimo giorno sciolga dal patto”9. Aestas et hiems perché l’amicizia dev’essere mantenuta egualmente nella prosperità e nell’avversità; ha il fianco aperto fino al cuore poiché nulla nasconde all’amico ma ha tutto in comune con lui. Inclina il braccio e mostra col dito il cuore affinché l’opera del cuore e il cuore corrispondano alle parole e non vi si mescoli nulla di artificioso o di affettato. È scritto longe et prope perché l’amicizia non è cancellata da nessun tempo né viene disgiunta dalla distanza dei luoghi. Piuttosto volentieri perciò volli introdurre questa statua dell’amicizia e proporla alla vista, essendo essa rappresentata come sorella germana della Concordia, ed esse come unitissime e generate da Dio, siccome sono giocondissime per le menti umane e integre.       

(CONTINUA)

prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/10/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-16/

seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/11/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-26/

quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/13/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-46/

quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/19/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-56/

sesta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/20/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-66/

 

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1 Carmina, LXII, 51-58: Ut vidua in nudo vitis quae nascitur arvo/numquam se extollit, numquam mitem educat uvam/sed tenerum prono deflectens pondere corpus/iam iam contingit summum radice flagellum,/hanc nulli agricolae nulli coluere iuvenci,/ at si forte eadem est ulmo coniuncta marito/multi illam agricolae multi coluere iuvenci,/sic virgo … (Come la vite che nasce vedova nel nudo campo mai s’innalza, mai produce dolce uva ma piegando il tenero corpo per il peso che abbatte ormai con la radice tocca la punta del tralcio, ma se per caso essa è stata unita al marito olmo molti agricoltori l’hanno curata, molti giovenchi, così la vergine …).

2 Odi, IV, 5, v. 30: Et vitam ad viduas ducit arbores (E porta la vita agli alberi vedovi).

3 Carmina, LXIV, 290): non sine nutanti platano lentaque sorore (non senza l’oscillante platano e la flessibile sorella). Il platano è citato insieme con la vite in un’epigramma di Antipatro (Antologia palatina, IX, 231):  Ἆυον μὲ πλατάνιον ἐφερπύζουσα καλύπτει/ἄμπελος ὀθνείη δ’ἀπφιτέθηλα κόμη,/ἥ πρὶν ἐμοῖς θαλέθουσιν ἐνιτρέψασ’ὀροδάμνοις/βότρυας, ἥ ταύτης ὀυκ ἀπετηλοτέρε./Τοῖον μέντοι ἔπειτα τιθηνείσθω τὶς ἐταίριον,/ ἥ τις ἀμείψασθαι καὶ νέκυον οἷδε μόνη (Una vite procedendo a poco a poco nasconde me platano secco; con la chioma altrui mi son ricoperto di fiori io che prima con i miei rami in fiore avevo nutrito i grappoli, io che non meno di lei ero privo di foglie. A sua volta qualcuno nutra tale amica che da sola seppe ricambiare anche un morto).

4 Odi, II, 2, vv. 9-10: adulta vitium propagine/altat maritas populos (… e col tralcio adulto delle viti marita gli alti pioppi).

5 De agricultura, XVI: Vitem maxime populus alit, deinde ulmus, deinde fraxinus (Soprattutto il pioppo fa crescere la vite, poi l’olmo, poi il frassino).

6 Riporto il testo originale dall’edizione a cura di R. Auger, Weigel, Lipsia, 1856, pagine 55-56:

4 prima in nota

5 seconda in nota

 

7 E lo sarà anche dopo. Uno tra i tanti esempi, Francesco di Sales (XVI-XVII secolo); cito da Opere complete, Borroni e Scotti, Milano, 1845,  v. XII, pag. 53:  Voi sapete che l’amicizia è nemica mortale dell’oblio: onde gli antichi quando la dipingevano, mettevano per emblema sopra i suoi abiti: Aestas et hyems, procul et prope, mors et vita: d’estate e di verno, da vicino e da lontano, in vita e in morte; quasi volendo dire che mai non si dimenticava in alcun tempo o di prosperità o di avversità, né dappresso né da lontano, né in vita, né in morte l’affetto verso l’amico.

Da notare che Francesco ha sostituito longe col sinonimo procul.

La Puglia e la “taranta” in un repertorio di simboli del 1603

di Armando Polito

Una delle espressioni più significative dell’erudizione rinascimentale fu il proliferare di repertori di simboli in forma di schede corredate o meno di immagini. Tra questi forse il più noto è, pur non essendo il più antico,  l’Iconologia di Cesare Ripa, la cui  prima edizione uscì per i tipi degli Eredi Gigliotti a Roma nel 1593 (in basso il frontespizio).

 

Le schede di questa prima edizione riguardavano solo le virtù e i vizi ed erano prive di immagini. Alle virtù ed ai vizi si aggiunsero alcune schede di carattere geografico con relative immagini a cominciare dall’edizione del 1603 (frontespizio in basso) uscita per i tipi di Lepido Facii a Roma.

 

Riporto di questo testo le pagg. 265-267 con mia trascrizione a fronte, espediente che mi è servito ad inserire qualche nota. Buona lettura!

 

 

Che fine hanno fatto a distanza di quattrocentodieci anni il grano, l’olivo e il mandorlo? E nella Taranta di oggi cos’è sopravvissuto di quella di ieri e come? E alla fine dei prossimi cinquant’anni cosa sarà diventata la Puglia, unicamente per nostra colpa? Temo che il suo nuovo stemma sarà la solitaria torre d’acciaio di una piattaforma petrolifera; ma in compenso, allora, non si dovrà scomodare tutta questa circollocuzione: basterà derrick1 e non si correrà il rischio di essere assaliti dalla nostalgia del ricordo del famoso ispettore dell’altrettanto popolare serie televisiva del tempo che fu …

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1 La voce nacque agli inizi del XVII secolo dal cognome di un impiccato, passando al significato di boia, poi di forca, nel XVIII secolo a quello di sollevamento, gru, da cui è derivato il significato moderno di torre di perforazione.

 

 

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