Parole e immagini: un connubio nuovo di comunicare emozioni

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Il dire ulteriore. Immagini e parole

Scatti d’autore di Mauro Minutello – testi di Elio Ria

prefazione di Pier Paolo Tarsi, a cura di Marcello Gaballo

Edizioni Fondazione Terra d’Otranto – Collana Scatti d’autore n°1

formato A/4, cartonato, 84 p., stampa colore

ISBN: 978-88-906976-4-7

 

La lettura del libro  e il godimento delle immagini rimanda ad un ulteriore dire in un panorama ampio di dettagli della terra salentina. Un libro “incompiuto” dove l’esaltazione dell’insieme è demandata al lettore. Il poeta e il fotografo hanno sottolineato ciò che hanno voluto secondo i propri interessi, in condizioni di imparziale attenzione, assumendo anche le vesti di spettatori trasognati.

Indubbiamente le immagini e i testi sono frutto delle abitudini e ossessioni degli autori: difatti in qualsiasi trattazione tematica fotografica e testuale  affrontata,  parlano in fondo di sé stessi, del proprio bisogno di trarre dalla geniale creazione di Dio un frammento concettuale per magnificare la sua opera.

La voglia di dire e di raccontare qualcosa che sfugge all’attenzione, e di cui non si avverte il valore, è palesemente suffragata dall’impegno del poeta Elio Ria e dal fotografo Mauro Minutello, i quali hanno dimostrato come la bellezza di un fiore resta tale anche se non c’è nessuno a contemplarla.

L’opera tenta di agganciare il lettore all’intorno di un mondo  come l’odierno   in cui tutto è uguale a tutto in osservanza della soddisfazione dei bisogni. Decelerare, soffermarsi a contemplare il significato della reale bellezza dei luoghi diventa un esercizio che rafforza le certezze di un’idea, sviluppatasi non solo per meravigliare gli occhi ma anche per traslare significati di architettura della natura. Il linguaggio dei luoghi è affine a quello della lingua.

Traspare nel volume edito da Fondazione di Terra d’Otranto il criterio di non deviare sia in parole che in immagini dal verisimile, rispettando ciò che gli occhi hanno visto – e comunque –  in una sorta di res ficta o argumentum,  vale a dire la res ficta è inventata sì, ma entro i limiti del verisimile, seppure in alcuni testi la poesia tende a colpire con lo splendore della forma: mirando a  immaginare fantasie ma anche cose incredibili. Il poeta giustifica in questo modo la propria licenza di trattare cose impossibili al fine di rendere sorprendente e interessante la sua opera. Di converso il fotografo ha estrapolato da un contesto più ampio un dettaglio che – a parere suo – potesse illuminare con la fissità dell’immagine qualcosa che sfugge all’abitudine degli occhi. Si può dire che  entrambi gli autori sono riusciti a dissimulare e a rendere gradevole persino l’assurdo, infrangendo le regole visive della verità, inducendo gli occhi a ragionare concetti di bellezza e di ulteriore dire, nel tentativo di conquistare gli occhi degli altri. Lo stupore dell’impossibile è un bisogno dell’uomo e i testi quando ne sono ricchi svolgono un compito preciso. Ricorrere alla finzione vuol dire allargare per un momento lo spazio del reale, muovere passi in zone normalmente vietate entro la logica della narrazione che si mantiene in un sistema coerente  di rapporti tra possibile e impossibile.

Il volume, di pregevole fattura, assume l’onere della divulgazione conoscitiva di alcuni luoghi del Salento, rendendo partecipe il lettore alla realtà, la quale è assumibile a un modello che descrive la riconducibilità della vita umana a essa. Modello che può anche fornire chiavi critiche, che può favorire un’evasione, oppure appagarsi della sua contemplazione o riportarlo alla realtà che esso produce fittiziamente.

Il palcoscenico è l’immagine tratta da uno scenario naturale, la parola è il sostegno ad essa per coniugare nuove visioni e una validazione della fantasia. Il libro è da considerarsi a tutti gli effetti un coraggioso tentativo di connubio poetico-artistico che fa da contraltare  ai canoni classici della letteratura e della fotografia, dimostrando che è possibile muovere insieme immagini e parole in un contesto regolato dalla ciclicità degli eventi naturali; inoltre la reversibilità del tempo, gli scambi reciproci fra immaginazione e vita, moltiplicano all’infinito i rapporti soggetto-oggetto. Ria e Minutello hanno teso al massimo il filo che collega il reale all’irreale: amplificando, modellando, cose quotidiane di un creato che può ancora meravigliare.

L’esiliato dei Pazzi: un libro di Antonio Errico

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di Pier Paolo Tarsi

 

Una poesia è tale quando nulla, nemmeno un silenzio, una pausa, possono essere tolte, e null’altro, non una virgola, una parola o un solo concetto possono essere aggiunti: cosa dire di ulteriore rispetto a quanto contenuto nelle pagine di questo libro senza far loro torto? Cosa, in quelle righe, potrebbe risultare superfluo o perfettibile? Per trarmi fuori da questa forma di imbarazzo che solo la letteratura autentica pone, mi limiterò a suggerire una modalità di approccio che mi auguro sia rispettosa della natura più intima di questa fatica di Antonio Errico.

Il primo elemento che suggerisco è un invito a non considerare questo libro solo un romanzo storico, come è scritto in retrocopertina, e nemmeno propriamente solo come un romanzo, come scritto invece in copertina. È certamente l’uno e l’altro, ma il libro non è affatto ricompreso in tali definizioni.

È tale, perché del romanzo storico ha tutti i tratti, la precisione del dettaglio storiografico o la verosimiglianza sia rispetto ad alcune vicende del rinascimento fiorentino sia rispetto a fatti e personaggi storici della fine del XV secolo salentino, alla vigilia cioè della presa di Otranto da parte dei turchi; del romanzo in genere ha poi una struttura narrativa, una trama che appassiona, un intreccio che crea suspense, uno svolgimento. Anzi, ne ha più d’uno: da una parte è infatti il racconto di vicende reali connesse alla celebre congiura dei Pazzi che coinvolse in prima persona il protagonista, l’io narrante, ma dall’altra è la traccia di un flusso di coscienza in divenire, la storia e la testimonianza del percorso soggettivo di sofferenza e rinascita di un uomo condannato ingiustamente all’esilio da colui che era stato suo intimo amico e signore, Lorenzo de Medici, il Nobilissimo signore a cui si rivolge l’io narrante con una formula di deferenza che apre la maggioranza dei capitoli, il destinatario per il quale il protagonista scrive.

Ma non è tutto, anzi, vorrei dire, non è nemmeno l’essenziale di questo libro ciò che quelle definizioni – romanzo, romanzo storico – colgono. Troverà infatti il lettore in queste pagine un denso breviario meditativo, un tormentato diario filosofico sul vivere, ossia la testimonianza di un dialogare interiore sull’esistenza che rievoca nello spirito le Confessioni di un Agostino o i Pensieri di un Pascal, lo svolgimento sofferto di un percorso esistenziale che l’io narrante condurrà a partire proprio dalle cose e dalle persone che incontrerà nella terra in cui si ritrova esiliato, a partire dunque dallo slancio che l’incontro con la Terra d’Otranto produrrà in questo agiato fiorentino del Quattrocento caduto in disgrazia.

E vi troverà ancora e soprattutto il lettore di questo libro uno sguardo da poeta con cui contemplare ciò che ci circonda, assaporarlo; troverà un modo non retorico per guardare a ciò che questa terra di indicibile gli mette quotidianamente sotto gli occhi assuefatti, annebbiati dalle faccende in cui siamo tutti immersi. Vi troverà gli elementi più sfuggenti e più preziosi che ancora, nonostante tutto, caratterizzano il luogo in cui viviamo, un luogo che l’Esiliato definisce efficacemente Santuario e Bordello, ossia un misterioso, paradossale e antinomico coesistere di contrari che solo qui sembra riescano a tollerarsi l’un l’altro, a convivere, inspiegabilmente: il coesistere di emozione e ragione, il coesistere di follia e senno, il coesistere dell’amarezza e della dolcezza, dell’immobilità e dello scorrere della vita, il coesistere di un corteo funebre e di un corteo carnevalesco. Vi troverà ancora tratteggiato perfettamente il silenzio impenetrabile tipico del Salento che Errico riesce a rendere con la scrittura un oggetto palpabile, sensibile, ascoltabile; vi troverà la descrizione delle sue ombre, della luce particolare che qui emana, della qualità specifica dello scorrere del tempo; vi troverà un modo di guardare con stupore al cielo, al mare, alla natura delle pietre e della terra di questo luogo. Di fronte a tutto ciò, che pure è già qui e ora sotto i suoi occhi, il lettore vi si troverà soprattutto con l’incanto della prima volta, con la meraviglia dello straniero che tutto ciò non ha mai potuto mirare prima. Ecco perché al principio di questa pagina ho scomodato la parola poesia, cioè sguardo capace di squarciare l’apparente banalità per trovarvi l’incanto, sguardo che permette di sottrarsi allo stordimento tipico del fluire della vita, quell’accecamento per cui non siamo più in grado di guardare la straordinarietà di ciò che è intorno, ciò che essendo sempre lì accanto scivola nell’invisibile. Questo libro è dunque un denso trattato poetico sull’arte del saper vivere, un manuale filosofico per imparare a cogliere il momento, ad aprirsi a questo svelamento autentico del terribile splendore delle cose che sono sempre intorno. E della poesia queste pagine non hanno solo lo sguardo, la forza più profonda, hanno anche il ritmo, la cadenza, lo spessore densissimo delle parole, ognuna scelta accuratamente e pazientemente per tessere frasi e ricamare periodi intorno a pensieri talvolta profondi come abissi, vere e proprie sentenze filosofiche a cui accostarsi necessariamente con lentezza, prendendosi cioè tutto il tempo che occorre per comprendere le cose di cui si parla, l’essenziale, come lo chiama l’Esiliato. Ecco allora l’ultimo suggerimento sul modo di accostarsi al libro: leggerlo con lentezza estrema, la struttura stessa del testo – composto di piccolissimi capitoli di due, tre, a volte persino una pagina – invita a gustare l’opera senza fretta: poche pagine al giorno, anche una soltanto, cogliendo però ognuna esattamente come dovremmo imparare a fare con gli attimi dell’esperienza che ci è dato vivere.

La perfetta spirale

Drop of Water Creating Ripples

di Pier Paolo Tarsi

Capita di incappare in certi libri (o in certi fatti, non importa) navigando intorno a una domanda. Poi, nelle varie circonvoluzioni in cui passano i mesi, e talvolta gli anni, può accadere che le correnti e tutto ciò che le determina e muove (esperienze, incontri, discorsi, il caso, o quello che si vuole insomma) ci portino di nuovo tra le stesse pagine (o gli stessi eventi, non importa), facendoci ritrovare quasi esattamente al punto di partenza, quasi, perché nulla si ripete veramente, nemmeno una volta. Ripassare da lì non è come passarci per la prima volta, e tornarci in futuro sarà ancora un po’ diverso. Nel nuovo passaggio, ci pare come se la comprensione della prima volta fosse rimasta acerba, non sbagliata, ma come stordita, immatura, parziale rispetto alla nuova. E in questa perfetta spirale, ripassando quasi sempre dalle stesse parti nel passare dei giorni, godiamo degli unici veri benefici che regala nel tempo ogni domanda inappagabile: ci vediamo acerbi in ciò che eravamo, e con ciò vediamo chiaramente che in futuro questo nostro comprendere attuale apparirà di nuovo e sempre acerbo. Tutto ciò continua solo però nella misura in cui non si ferma il nostro domandare, è solo quest’ultimo che ci permette di vedere acerbo domani quello che oggi si ritiene maturo. Navighiamo ogni giorno nello specchio delle stesse acque, finché continuiamo a guardarvi dentro, accettando il movimento, quelle rifletteranno a ogni nuovo tentativo un altro volto, quasi lo stesso di ieri, quasi. Quel quasi ci da la misura di una soddisfazione momentanea che deve invecchiare in fretta per non diventare ottusa fissazione, ignoranza del saccente: quella della peggior specie, quella che non si sa tale, quella a cui è esposto chi, giunto in cattedra, lì sta come un punto di arresta e non di nuove ripartenze.

Il delfino e la mezzaluna. Si presenta oggi il terzo numero

Il  delfino e la mezzaluna

Sarà presentato oggi, alle ore 10.30, presso la chiesa di San Domenico a Nardò, il terzo numero della rivista della Fondazione Terra d’Otranto “Il delfino e la mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto“.

Saranno gli stessi Autori a presentare il proprio saggio, coordinati dal direttore della rivista Pier Paolo Tarsi.

Particolarmente ricco questo numero, che si sviluppa in 256 pagine,  tutte dedicate alla Terra d’Otranto, dalla preistoria ai nostri giorni. In formato A/4, con copertina cartonata, offre al lettore anche alcune selezioni fotografiche di alcuni validi collaboratori: Fabrizio Arati, Maurizio Biasco, Stefano Cretì, Ivan Lazzari e Mauro Minutello.

Come per i precedenti numeri, la rivista non è in commercio, essendo riservata ai soci e simpatizzanti della Fondazione, che potranno ritirarla in questa occasione. Chi non potrà intervenire può richiederla a info@fondazioneterradotranto.it, versando un contributo volontario tramite conto corrente postale o tramite bonifico. Per i soli soci è previsto anche il dono di una delle pubblicazioni finora edite dalla Fondazione.

Iscritta con numero 17 al Registro della Stampa del Tribunale di Lecce, la rivista è inserita nel catalogo delle pubblicazioni periodiche con codice ISSN 2200-1847. E’ premura della Fondazione, come già successo per i precedenti numeri, di depositarne copia, oltre quelle legali previste per legge, presso le principali biblioteche italiane.

Questi i saggi pubblicati, oltre l’Editoriale del Direttore:

Mariangela Sammarco, Sul santuario rupestre di Santa Maria della Rutta ad Acquarica del Capo (Lecce) : epigrafi, segni e simboli devozionali

Domenico Salamino, Il capitello dell’aquila leporaria nella cattedrale di Taranto: l’itinerario contemplativo dell’anima

Francesco G. Giannachi, Classificazione delle forme verbali perifrastiche del perfetto e del piuccheperfetto usate dagli ellenofoni di Terra d’Otranto

Giovanna Falco, Mario de Raho, cavaliere leccese della Militia Christiana dell’Immacolata Concettione

Domenico L. Giacovelli, Vulnerasti cor meum in uno oculorum tuorum. Riflessioni su un devoto dipinto francescano

Stefano Tanisi, Nuove acquisizioni pittoriche per fra’ Angelo da Copertino (1609-1685 ca.). La Comunione di san Girolamo nella cattedrale di Nardò

Elio Ria, L’arciprete di Lucugnano

Marino Caringella, Un Sellitto misconosciuto tra i “Capolavori dei Girolamini a Lecce”

Ugo Di Furia, Opere inedite in terra salentina di Antonia e Teresa Palomba, sorelle pittrici

Gian Paolo Papi, Dal Salento alla Valnerina: una vicenda, un pittore, due tele

Rosario Quaranta, Francesco De Geronimo e la rapida diffusione della fama di santità e delle gesta meravigliose nei paesi del Nord Europa

Luciano Antonazzo, La cappella ed il dipinto dell’Immacolata coi santi apostoli Pietro e Paolo dell’antica parrocchiale della Trasfigurazione di Taurisano

Maurizio Nocera, Dal mito di Aracne al rito del tarantismo

Marcello Gaballo – Armando Polito, L’obelisco di Porta Napoli a Lecce

Rocco Boccadamo, A Giorgio Cretì: ciao, fratello cantastorie!

Cosimo Barbaro, La fondazione dello spazio funebre nell’Ottocento in Terra d’Otranto

Francesco Tarantino, Maglie “città di giardini”

Gianni Ferraris, A colloquio con Mario Perrotta, per parlare di teatro e di Salento

Restauri. Lavori di restauro di due dipinti su tela della chiesa matrice di Muro Leccese (Alessandra Coppola – Francesca Romana Melodia)

Epigraphica in Terra d’Otranto. L’antico orgoglio di Minervino di Lecce (Armando Polito)

Araldica in Terra d’Otranto. Uno stemma carmelitano a Lecce (Lucia Lopriore)

Segnalazioni. Eugenio Maccagnani e due statue di san Pietro e san Paolo (Valentina Pagano)

Miscellanea. Sei francobolli per ricordare il sesto centenario della Cattedrale di Nardò e della Civitas Neritonensis (Marcello Gaballo)

Edizioni della Fondazione Terra d’Otranto

 

Elio RiaE’ sempre meriggio nel Sud

 

La ricerca ossessiva del nesso salentino negli affari dell’universo

salento

di Pier Paolo Tarsi

 

Dall’Alpi alle Piramidi,

Dal Manzanarre al Reno,

Di quel securo il fulmine

Tenea dietro al baleno;

Scoppiò da Scilla al Tanai,

Dall’uno all’altro mar.

Se un tempo questi famosi versi manzoniani identificavano per tutti lo spirito a cavallo dell’epoca che fu al secolo Napoleone alle prese con la conquista del mondo, oggi sarebbero di gran lunga più adatti a qualificare un qualunque anonimo salentino. Se storicamente i nostri conterranei, come tutte le genti meridionali, si sono sempre spostati dalla propria terra d’origine per ogni dove del pianeta alla ricerca di lavoro o possibilità negate in casa propria, oggi sono presenti ovunque e in qualunque circostanza per qualunque ragione. Non trovereste infatti praticamente nessun angolo del globo, nemmeno una qualche zona interna dell’Amazzonia non ancora antropizzata o deforestata, in cui possiate esimervi dall’incontrare qualcuno che, sollazzandosi, non vi passi accanto indossando l’immancabile e pacchiana maglietta con annessa scritta dialettale che funge ormai da carta d’identità salentina esibita con orgoglio. Insomma, all’onnipresenza di noialtri, crediamo che ogni abitante del pianeta terra sia ormai lautamente assuefatto.

Dalla pizzica propinata ai cinesi, al pasticciotto speciale per il presidente degli Stati Uniti d’America, fino ai cori da ultrà del Lecce impartiti ai bambini del Sudan in Africa (http://www.youtube.com/watch?v=4lBfpFv-k4s), crediamo non sia rimasto più nessuno da salentinizzare a questo mondo. Ma qui è il punto, a questo mondo abbiamo detto! Non siamo forse nel XXI secolo avanzato? Non siamo nell’epoca della conquista della via lattea e dei suoi corpi, siano questi comete o pianeti? E volete che questo non solletichi il nostro bisogno compulsivo e ossessivo di presenzialismo ubiquitario?

Allora, come soddisfare queste impellenti e irresistibili necessità di salentinizzare il cosmo quando la terra intera è ormai colma in ogni dove di ritornelli dei Sud Sound System, di tamburelli di Torre Paduli e di ogni altra nostra specialità? Come potremo salentinizzare Marte, Saturno o Plutone date le oggettive difficoltà per ogni forma di vita di organizzare laggiù una Notte della Taranta?

Non è il caso di scoraggiarsi, fratelli e sorelle, non c’è problema la cui soluzione non si possa trovare con un po’ di ingegno, di spirito di adattamento e di creatività, virtù che ad esempio i giornalisti nostrani hanno saputo ereditare dai propri avi e di cui sanno dare prova praticamente ogni giorno, scovando e disseppellendo dalle brume della dimenticanza il nesso salentino nei fatti tutti della storia e dell’universo oggi conosciuto. Allora, come Buzz Lightyear prima di spiccare il volo nel cartone di Toy Story, non ci resta che lanciarci con entusiasmo e determinazione “verso l’infinito…e oltre”: basta trovare l’appiglio, la leva con cui sollevare l’universo, il trampolino per la conquista salentina di ogni remoto anfratto del cosmo, lo spunto per appagare il nostro affamato protagonismo.

Ed allora procediamo: l’Agenzia Spaziale Europa nella recente missione Rosetta ci dona il primo accometaggio della storia? Ebbene, sapendo cercare nelle pieghe degli eventi come solo i nostri giornalisti sanno fare, qualcosa di salentino ci sarà da evidenziare in questa impresa storica. Infatti, ci fa notare il “Quotidiano” in prima pagina, una delle ricercatrici che avranno l’onore di analizzare le polveri che saranno riportate sul nostro pianeta è nata nel Salento. Embè, sono soddisfazioni no? Ecco, ad ogni modo, servito il nesso salentino, ecco soddisfatto il nostro bisogno di presenziare: noi ci siamo sempre tra i piedi degli eventi, ed è bene che lo si evidenzi!  O ancora: per la prima volta nella storia una donna italiana parte per lo spazio? Si, è vero, è una donna milanese ahinoi, eppure, eppure…a ben guardare, una volta, nel 2007 precisamente, costei è passata proprio dal Salento per svolgere un addestramento nell’aeroporto militare di Galatina!

A svelarci il prezioso nesso ci ha pensato stavolta Leccesette (http://www.leccesette.it/dettaglio.asp?id_dett=23405&id_rub=68), giornale online che ci ricorda come il vezzo del nesso nascosto non interessi solo la vecchia carta stampata ma anche la rete e i nuovi media! Eccoci, sollevati e appagati anche stavolta dunque. Insomma, se non fosse ancora chiaro a qualcuno il Salento c’è, ovunque, in ogni circostanza, in ogni piega del cosmo, in ogni evento della storia umana, in ogni fatto rilevante o meno, eccome se c’è!

A latere di questa spasmodica ricerca di un nesso che sveli in ogni modo concepibile la traccia salentina in qualunque circostanza – anche a costo di esporsi al ridicolo – una domanda tuttavia (e forse qualcuna in più) sorge spontanea, come un invito a pensare: che senso ha questa puntuale esibizione di una qualche prestazione salentina in tutte le vicende umane? Quale è la ragione di un così puntuale e pervasivo bisogno di riconoscimento di sé tipico di noti disturbi della personalità qui elevati alla dimensione corale e collettiva?

Il Salento c’è,  ebbene, forse troppo è il caso di dire? C’è anche quando è veramente fuori luogo il nesso con la sua esistenza, c’è anche quando è francamente ridicolo il modo di esserci: abbiamo davvero bisogno di simili continue prove ontologiche della nostra esistenza da offrire agli altri e noi stessi? Un tempo tali prove ontologiche le si riservavano al Padreterno, ed erano a dirla tutta assai più profonde di quelle che emergono dal dibattito tra eminenti scienziati come Zichichi o Veronesi di questi tempi.

Ma noi, noi salentini, da queste testimonianze di presenza a tutti i costi non potremmo serenamente esimerci? A meno che non è di una teologia salentina che sentiamo veramente il bisogno- che so, di una qualche prova che Dio avesse un cugino che usava villeggiare nel Salento, o della prova che Cristo non si sia fermato veramente a Eboli ma sia giunto fino a Leuca per assaggiare un pasticciotto – non possiamo semplicemente limitarci ad essere talvolta dei meri spettatori dei fatti del mondo, come capita a tutte le genti?

 

 

Basterebbe laissez faire tante volte…

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di Pier Paolo Tarsi

 

Spesso, più di quanto si possa immaginare, abbiamo necessità di fare cose complicate solo perché non abbiamo lasciato fare semplicemente all’ordine delle cose. Dobbiamo fare in modo di liberarci delle zanzare, ma soltanto perché non abbiamo lasciato fare alle ragnatele che ci obblighiamo a eliminare dagli angoli delle case; dobbiamo fare in modo che le montagne non franino, ma soltanto perché non abbiamo lasciato fare alle radici degli alberi; dobbiamo fare in modo che i fiumi non straripino dai loro argini, ma solo perché non abbiamo lasciato fare al loro naturale percorso da noi alterato…basterebbe laissez faire tante volte, e non sto parlando di economia politica, ma di un’economia mentale, il cui principio è questo: lasciar semplicemente essere le cose nel loro ordine.

8 consigli per la primavera

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di Pier Paolo Tarsi
Dopo gli 8 consigli per non rovinare l’estate dei vostri contatti fb (che riporto nel commento per chi volesse rinfrescare la memoria), ecco a voi i nuovi 8 consigli per la primavera.
1) Il 21 marzo potresti tranquillamente ignorare Vivaldi come fai durante tutti gli altri giorni dell’anno, non sei obbligato a linkare “La primavera”. Pensaci.
2) I tuoi contatti si accorgeranno che i campi e gli alberi fioriranno anche senza il contributo dei  tuoi 22 album fotografici sul te…ma. Fidati.
3) Non cedere all’impulso improvviso di scrivere stati poetico-amorosi proprio in quei giorni di rigoglio vitale: il subbuglio ormonale si placherà in un paio di settimane al più, quel che avrai scritto segnerà invece le nostre menti e la tua reputazione per sempre.
4) Metterci a conoscenza delle varie forme di allergie ai pollini di cui potresti soffrire e dei più svariati sintomi non ti renderà una persona più felice.
5) Molto probabilmente inizierai a fare passeggiate e corsette in bici o a piedi: non occorre per questo tediare i tuoi contatti, soprattutto i più pigri, con la riscoperta della mens sana in corpore sano. Del resto lo sai bene che non durerà molto, come sai anche che noialtri del club “amici del colesterolo alto e dei trigliceridi alle stelle” ti terremo riservato il posto, certi del tuo repentino ritorno.
6) Proverai quasi sicuramente una certa attrazione per i prati verdi su cui distenderti e farai dei pic-nic all’aria aperta: non sentirti in dovere di convincere i tuoi contatti con post o foto che la cosa ti farà divertire come un bambino. Ricorda inoltre: sedersi a mangiare là dove un’ora prima è passato un gregge di pecore ghiotte di bifidus actiregularis quanto la Marcuzzi non ha mai reso un uomo migliore o più in armonia con la natura.
7) Verso Pasqua è altamente probabile che uova di cioccolato o dolciumi vari appestino ogni bacheca, non c’è bisogno di contribuire a questo flagello. Prima di postare il tuo album pasquale ricordati che non vi sei costretto.
8- Quando il primo maggio andrai a Kurumuny nessuno ti costringerà a farti fotografare con il jambè in mano circondato da tipi rasta. Se proprio ci cascherai anche quest’anno, non postare almeno le foto, disponiamo già di quelle perfettamente identiche degli ultimi 5 anni. Infine, tornato a casa, non postare stati sul fatto che Kurumuny non è più quello di una volta. Pare non sia mai stato quello di una volta.

Pierpaolate…

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di Pier Paolo Tarsi
Dalle aule di sociologia ai peggiori bar di borgata si dice che il mondo oggi cambia sempre più rapidamente, che tutto è ormai così veloce che non si riesce a star dietro.
Puttanate, solo immense puttanate.
Il mondo va sempre alla stessa velocità, se non più lento del solito; è solo il rumore o un qualche strato trascurabile della superfice del mondo ad andar veloce, a passare fulmineo, senza lasciare alcuna traccia rilevante di sé.
Questi sei mesi le notizie notevoli di tale… superficie sono che gli hipster hanno rivalutato esteticamente la barba, il selfie (termine che solo sta settimana ho sentito 5 volte, significa farsi delle foto da solo col cellulare) è la tendenza più in crescita tra i giovani – tanto che su Repubblica leggevo che a vincere non so quale importante concorso tecnologico è stato un bastoncino per prendere il cellulare e farsi le foto comodamente a un metro di distanza -. Insomma, puoi startene in coma nove anni di questi tempi, e non sarà cambiato proprio nulla, se non il modello di app e simili.
Al di sotto della superficie, più o meno la stessa roba, almeno da 40 anni. Si può dormire tranquilli, non ci si perde nulla.

Vivere, non sopravvivere

libertà

di Pier Paolo Tarsi

In 35 anni ho imparato poche cose su quel film 3d che chiamiamo vita, su tutte dubito, tranne su una, ed è questa:

per vivere bisogna conquistarsi la libertà, nei posti di lavoro, nei rapporti interpersonali, nei discorsi che facciamo, insomma in tutto il dominio che abbiamo interiorizzato nella forma della sudditanza verso qualcuno.

Dobbiamo vivere, non sopravvivere.

La schiavitù non può essere abolita con una legge, la schiavitù è una pratica che perpetuiamo con la nostra esistenza, e che spetta ad ogni singolo abbattere.

Ogni passo verso la libertà renderà non più ricchi, non più agiati, non più tranquilli, nemmeno più sereni, renderà semplicemente più liberi, e con ciò intendo dire più uomini.

È facile sorprendersi, difficile è meravigliarsi

elefante

di Pier Paolo Tarsi

 

È facile sorprendersi, difficile è meravigliarsi.
La meraviglia o lo stupore di cui hanno parlato spesso i filosofi non ha nulla in comune con la sorpresa, anzi, è quanto di più lontano possa darsi da quest’ultima. La sorpresa è legata all’extraordinario che colpisce lo sguardo nella misura in cui rimaniamo affondati nelle cose e nelle situazioni. Stai guidando l’auto nelle trafficate vie di una nostra città, arrivi ad un incrocio, fai la coda, e all’improvviso un branco di giraffe attraversa la strada. Sei sorpreso vero? Dannatamente sorpreso, spiazzato e disorientato dall’incontro inatteso con quanto in quella data situazione sta capitando: quel passaggio all’incrocio di una città è quanto di più possa stridere con le tue attese in quella circostanza precisa, ed è proprio restando nella situazione, attaccato al mondo e agli eventi extraordinari che cadono sotto il tuo sguardo che la sorpresa ti coglie così forte. Scommetto che molti di voi a quell’incrocio avranno persino cercato di prendere in mano l’iphone o qualche diavoleria simile per immortale l’evento, per condividere la sorpresa. Comprensibile. Ma andiamo oltre. La meraviglia non ha nulla a che vedere con ciò, non si possono fotografarne i momenti né si può condividerla con gli amici. La meraviglia sorge nell’ordinario, dal trascendimento delle cose nell’ordinario, non dall’extraordinario, nasce dalla distanza che in un momento si stabilisce tra la situazione ordinaria e te: la meraviglia è straordinaria, non extraordinaria. Nemmeno un passaggio di elefanti rosa all’incrocio potrà condurti in uno stato di meraviglia. No, uno stato di meraviglia non sorge da effetti speciali, emerge invece da uno slancio nella pura e semplice ordinarietà del vivere, è un moto con cui ti trasporti con immediatezza fulminea al di sopra della totalità della consueta situazione in cui fino a un attimo prima eri immerso, così che questo banale quadro quotidiano in cui da sempre esisti diviene d’improvviso inconsueto e oggetto di una contemplazione totale e vertiginosa. Allora, tornando al tuo incrocio, attendi il passaggio di qualche auto. Fai la fila insieme agli altri, non succede nulla di insolito, e nulla deve succedere come detto; poi d’un tratto t’accorgi della indicibile straordinarietà che c’è in ciò che sta ordinariamente accadendo. All’improvviso prendi distanza dall’ordinario, lo osservi come se ci fossi cascato dentro per la prima volta, e ti domandi: che senso ha tutto questo nostro andirivieni senza sosta in delle scatolette mobili? Che ci facciamo qua? È sorta allora la tua meraviglia, lo stato di stupore, una condizione propriamente mistica, laddove mistico non vuol dire lontano e irraggiungibile, ma, al contrario, e sottolineo al contrario, alla portata di tutti, talmente alla portata di tutti e talmente legato all’ordinario da abissarsi quasi sempre, da diventare ineffabile e invisibile perché troppo alla portata, troppo ovvio, perché proprio lì sotto il tuo naso da sempre. Ecco perché chi ha uno sguardo stupito vi darà sempre l’impressione di un bambino incantato dalle più enormi banalità o di uno buono solo a complicare l’ovvio: è naturale, perché è dall’ovvio che lui si lascia impressionare e trasportare nello stato a cui perviene con quella torsione dello sguardo sul vivere. L’ovvio è esattamente l’infinito e ineusaribile, unico e stupefacente mistero da comprendere, è lì sotto gli occhi di tutti, e per questo è più d’ogni altra cosa sfuggente. Il fatto stesso che qualcosa in generale sia, è questa la meraviglia massima per chi si risveglia nello stupore, o la massima ovvietà per gli altri. L’attitudine filosofica autentica non è che la capacità di sprofondare negli abissi senza fine dell’ovvia totalità in cui sempre stiamo.

Capitan Black (1869-1905). La notte de santu Martinu

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di Pier Paolo Tarsi

La notte de santu Martinu (alcuni stralci)

Linda, sientime a mmie, ssettate a cquai,
ca ogghiu cu tte cunfidu nu penzieri;
prima de tuttu nu ppenzare a uai
e ppenza cu tte bbii st’autru bicchieri.

Cu cquantu desederiu ieu studiai
cu sacciu ccenca bè la verità,
na cosa sula intantu me mparai:
ca lu mundu ete tuttu vanità!

Intru tutti li libri aggiu mparatu,
ca l’omu cchiù ssape, chiù nde sballa.
Comu lu muscaritulu s’ha ccriatu?
comu nasce de lu erme la farfalla?

Tante de stidhe ca nci suntu a ncelu,
quale la mente le sape mmesurare?
perché la verità porta nu velu,
ca l’omu nu lu pote spugghecare?

Dimme quale scenziatu l’ha capita
comu se forma a ncapu lu penzieri?
comu ccumenza a ll’uemmni la vita?…
Ma penza cu tte bii st’àutru bicchieri! [….]

E quandu la mente ole mbrazza lu celu,
de pùrvere a mmanu se troa na francata;
e quantu cchiù bàutu ole spicca lu uelu,
cchiù mutu alla terra se sente nferrata!

E giurnu pe giurnu ni etimu na cosa
cadire sbiadita de cqua intru llu core;
fugghiazza, fugghiazza se spronda la rosa
lassandu lu russu, perdendu la ndore! [….]

Capitan Black (1869-1905), il più grande e dotto poeta (contadino!) salentino (leggeva filosofi e poeti di ogni nazione europea e non solo), morto a solo 36 anni non compiuti, chiaramente ignoto ai più, mai studiato nelle scuole nostrane (si preferiscono poeti dialettali di altre regioni) e mai letto dal 99% dei tanti intellettuali di cui abbonda la provincia.

Un salentino tra gente di lidi nordici

pizzica

di Pier Paolo Tarsi

Conviene a volte essere tipi stereo. Capita infatti di trovarsi unico salentino tra gente di lidi nordici, con donzelle che ti guardano come fossi un animale esotico, convinte soprattutto che in culla la nonna ti faceva ballare la pizzica dalla mattina alla sera, prima ancora di insegnarti a camminare. Tu assecondi, per non rinunciare al loro interesse per l’esotico, non ci pensi proprio a dire la scomoda verità.

Poi, una sera di bagordi, verso la fine, dalle casse parte la pizzica. Tutte a quel punto si voltano a guardarti, aspettandosi qualcosa di meraviglioso e ipnotico a cui darai vita. Ora, tu sai benissimo che tra i tuoi pochi e scomposti schemi motori acquisiti disponi solo di un vago e sgraziato gesto che deve rispondere alle più svariate esigenze di ballo, dal tango argentino alla mazurca emiliana, dalla dance internazionale alla pizzica o ai balli tirolesi.

Ripensi in quell’attimo a tutte le cose che hai scritto contro la pizzica nel corso degli anni, a tutti gli strali scagliati in direzione della notte della taranta, ed anche allo sguardo severo che gli amici storici ti rivolgerebbero se fossero lì e se ti azzardassi a fare quel che tutte si attendono. Disperato devi tuttavia sorridere, e cercare rapidamente una soluzione.

Non possono valere scuse relative a improvvisi dolori a una gamba o a un’emicrania folgorante. Riguardi le donzelle, chiedi scusa agli amici storici in cuor tuo, e finalmente scomodi il tuo schema motorio “modalità ballo”: “signori, questa che sto per fare è la più antica pizzica che si conosca, altro che le cose moderne che vedete alla notte della taranta, su all together, suuu, venite tutti”. Cerchi di sopprimere le lacrime che vorrebbero scendere, tiri su col naso e ti lanci in un obbrobrio scombinato e insensato per qualche secondo, il tempo che le donzelle si mettano a ballare la pizzica.

Poi t’arresti, assecondi quasi le lacrime “scusate, scusatemi, la nostalgia di casa ragazzi, la lontananza…la nonna che la ballava sempre mentre nfilava tabacco…cambiate canzone per favore, cambiate”

Ma quale capitale della cultura, cari amministratori

lecce piazza duomo

di Pier Paolo Tarsi

 

Con questa vorrei segnalare lo strano e stridente accostamento leccese tra il dirsi “Capitale della Cultura” e un “Capodanno dei Popoli” boicottato, respinto alle periferie, ridotto quasi al silenzio, privato dei profumi dei piatti del mondo, delle luci dei banchetti d’artigianato, delle note delle tradizioni musicali e delle voci della gente, delle possibilità di incontri proficui che quell’evento generava. Nel caos mondano di veglioni, petardi, abbuffate, traffico e nottate nei locali o in discoteca, il capodanno (o Festival Internazionale) dei Popoli era negli anni andati una delle rare occasioni culturali leccesi sensate e costruttive, una festa condivisa, aperta a tutti, a persone di ogni età, ceto sociale, provenienza culturale. L’evento rappresentava con semplicità oltre che un momento di piacevole divertimento anche e soprattutto un invito a concreti e pacifici propositi culturali costruttivi per l’anno che sarebbe iniziato. I suoi valori erano evidenti, schietti e da tutti condivisibili, pienamente radicati nell’ideale universale dell’incontro e in quelli salentini dell’ospitalità per l’altro: ideali incarnati con semplicità e freschezza da una festa che accomunava culture e genti che da ogni dove giungono o transitano in questo porto del Mediterraneo.

Alla festa tutti erano invitati a contribuire, apportando un tassello delle proprie tradizioni culinarie, della propria musica, del proprio artigianato, insomma una porzione qualunque di sé da offrire agli altri in un processo di immediato incontro e conoscenza reciproca, al fine di delineare un mosaico di fratellanza che avrebbe arricchito tutti in modo piacevole ed autentico, senza retoriche, senza bandiere di fazioni e senza tediose teorie dell’integrazione professate da questo o quel cattedratico, da questo o quel politico di ogni colore. Non è certo sufficiente un momento del genere per rispondere a quelle ardue problematiche attuali – se non cronachistiche – che l’incontro interculturale pone. È ovvio. Tuttavia è un grave errore credere che non sia anche necessario.

Basilica_di_Santa_Croce_e_Celestini_Lecce

Proverò a mostrarlo con un semplice esempio. Il I gennaio 2014, al capodanno pur mesto e scuro dei Popoli, mia figlia, che ha solo 13 anni, ha potuto fare la conoscenza di Halima, una giovane marocchina (che di lavoro fa l’ottico); ha così potuto parlare in inglese con qualcuno che non fosse la sua insegnante di scuola, comprendendo, sulla propria pelle e per esperienza in prima persona, quanto sia veramente utile studiare altri idiomi per rapportarsi a chi non parla la sua lingua. Alla fine lei ed Halima si sono scambiate le mail, e forse con ciò la mia piccola ha sperimentato anche il fatto che internet non serve solo a chattare e condividere foto con le proprie amichette sui social networks, potendosene fare spesso pure un uso migliore.

Tutto ciò non sarà certo sufficiente perché lei possa comprendere la rilevanza dell’incontro e della conoscenza dell’altro o la ricchezza posseduta da Halima, ma è un passo necessario, fatto con naturalezza, con la piacevolezza di un momento festoso ed autentico, senza dispositivi pedagogici artificiosi, senza le mie ciance paternalistiche che avrebbero forse solo risuonato come un vociare noioso rispetto alla conoscenza diretta di una persona.

Non si sottovaluti poi l’importanza del connotarsi come momento di festa di un evento del genere, un evento che in quanto simbolico e festoso trascende l’ordinario, il quotidiano.

Gli incontri con l’altro in un mondo globalizzato sono di certo giornalieri, ed è ovviamente nella quotidianità che gli amministratori devono profondere i maggiori sforzi politici per agevolare la maturazione di un processo interculturale costruttivo; tuttavia la dimensione extra-ordinaria di una festa comune predispone ad un contatto di per sé gioioso, senza barriere, incline alla possibilità di una fratellanza di fondo, qualcosa che l’ordinario spesso non può concedere con altrettanta facilità. 

Ecco, è senza retorica e con la forza di un esempio piccolo ma, credo, importante che vorrei difendere la rilevanza di un momento come questo, praticamente ormai cancellato dall’agenda “culturale” leccese. Un’occasione di incontro, perché possa essere tale, va fortemente sostenuta dagli amministratori: costoro non possono e non devono pretendere che siano solo i volenterosi a cercarla, hanno il dovere di fare in modo che l’occasione si offra di per sé ai più, se non addirittura fare in modo che i meno disposti al dialogo ci incappino: a questo servono le azioni politiche! Non ha alcun senso pertanto smobilitare dal centro cittadino un evento culturale del genere (culturale, e non puramente festaiolo, ossia privo di contenuti civili, come tanti se ne vedono sotto la pasticciata e abusata etichetta del “culturale”).

Non ha senso relegarlo a condizioni destinate a pochi volenterosi, magari in periferia, per la semplice ragione che proprio chi non è disposto pregiudizialmente al dialogo non avrà così modo di incontrare una Halima. Del resto, non ha senso nemmeno per Halina, me lo ha detto lei stessa, fare nuovamente un lungo viaggio a proprie spese per essere avviata verso un appartamento nella provincia (ad Aradeo) in cui vengono stipati in pochi metri quadri tutti gli artisti e gli assistenti provenienti dal suo Paese, venuti qui per offrire un assaggio della loro antica arte, dei loro costumi tradizionali, dei loro strumenti e canti a sparute persone. Le ho chiesto se sarebbe mai più tornata a Lecce, mi ha risposto che lo avrebbe fatto al massimo come turista, ed un attimo dopo, ripensandoci, ha invitato mia figlia e me ad andare a trovarla con la motivazione che forse sarebbe stato più semplice rivedersi e approfondire la conoscenza reciproca in Marocco!

E come darle torto in quel contesto? Su quali altri fatti evidenti avrei potuto contraddirla in quel momento? Tutto ciò mi è pesato come un macigno, sentendomi profondamente offeso dalla circostanza proprio in quanto salentino, ossia persona orgogliosa della radicata disposizione storica all’ospitalità della mia gente, abitante di una terra che è per definizione ponte tra i tanti popoli che nei millenni vi hanno transitato disseminando tracce confluite nella ricchezza culturale di cui oggi noi possiamo godere. Mi auguro – ed è un augurio di un buon anno di lavoro rivolto a tutti gli amministratori chiamati in causa – che questi vogliano assumersi le proprie responsabilità nell’impegno di non far morire quel che di buono questa città già aveva da offrire. Fa parte del lavoro di coloro che sono al servizio dei cittadini anche questo, così come fa parte del loro lavoro costruire e far nascere ex novo quel che di buono in questa città è sempre mancato. Vivere in una Capitale della Cultura è per noi leccesi una meta al momento remotissima, più remota di quanto lo sia mai stata francamente, non certo una realtà. E il perché di questo può mostrarlo anche un semplice esempio come l’incontro tra Halima e mia figlia, un incontro che molte ragazze leccesi non hanno avuto modo di vivere.

Buon anno di lavoro, cari amministratori, vi sono cose perdute da ricostruire, prima ancora che nuove da edificare.

La vigilessa

vigilessa

di Pier Paolo Tarsi

 

Abbassa la paletta e si avvicina al mio finestrino con una sicurezza da fare invidia a Chuck Norris, lei, la vigilessa. Si abbassa un po’ per guardarmi in viso e controllare che abbia messo le cinture, poggiandosi sul gomito, lei, la vigilessa. Mi chiede i documenti, dopo una ventina di minuti li trovo. Lei nell’attesa è impassibile, la vigilessa, come Ken della scuola di Hokuto in mezzo alla battaglia. Prende i documenti e si allontana per scrutarli con due sopracciglia spietate, all’ombra delle quali ti chiedi da quanti anni non paghi il bollo, da quanti non fai una revisione e altre cose più o meno inquietanti. Con un avanzare tosto come Yosemite Sam, lei, la vigilessa, si riavvicina e mi rivolge la parola. “Dovrei farle la multa, lo sa?”. “Perchèaueue?”, biascico liquido e stremato io. “Perché ha l’assicurazione esposta sul lunetto laterale, è obbligatorio metterla sul parabrezza anteriore”. “Ah. Non lo sapevoueo, mi scusieoue, rimedieròueo”. “Per questa volta la lascio andare”! “Oh, grazieuoe, molto gentiueleo”. Il tempo di rimettere in ordine tutte le carte che avevo tirato fuori alla ricerca del libretto (ossia certificati di battesimi, scontrini, bollette di quella che fu la SIP, biglietti promozinali del circo Orfei per lo spettacolo di Natale scorso e altre cose indicibili), il tempo di rimettere la cintura, rimettere in moto…e vedo lei, la vigilessa, ripartire in auto col suo collega alla guida. Entrambi senza cinture, si immettono in strada senza segnalare con la “freccia”. Hai capitoeauo?

Il libro che mi porterò all’inferno

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ph Mauro Minutello

di Pier Paolo Tarsi

Le classifiche dei libri sono ridicole, come tutte le altre, e forse anche un po’ più delle altre. E tuttavia non ho dubbi che il libro che mi porterò all’inferno sarà l’unico scritto da un uomo quasi sconosciuto che si chiamava Fernando Manno, Secoli tra gli ulivi. Ecco, l’ho detto.

Se il Salento perderà gli ulivi non avrà più ragion d’essere

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di Pier Paolo Tarsi

 

Se il Salento perderà gli ulivi non avrà più ragion d’essere. Avrà perso semplicemente tutto.

Ci renderemo conto della visione fatua che la ribalta turistica ci restituiva, ci renderemo conto di quello che davvero contava, ci renderemo conto che non siamo mai stati votati al mare, ma sempre e soltanto alla terra.

Questo dramma potrebbe risvegliare più dei vani discorsi di ogni anno, ma forse e soltanto per una contemplazione irrimediabile di morte.

Vieni a ballare in Puglia… se ne hai il coraggio!

Torre Specchia di Marcello Moscara
Torre Specchia di Marcello Moscara
di Pier Paolo Tarsi
Vieni a ballare in Puglia, qui troverai accoglienza, mare, sole e divertimento. Già, ma non è tutto. Qui troverai anche la più alta emissione di anidride carbonica d’Italia, ossia il 21,23 %, una regione come la Lombardia ne produce solo il… 13,24% ,una come il Lazio il 6,07%. Qui troverai anche il 91,96% di tutte diossine prodotte in Italia.
Si, hai letto bene: il 91,96% della TOTALITA’ prodotta in Italia! In Lombardia solo il 4,32%. Ed ancora in Puglia troverai il 95,48% di IPA, seconda l’Umbria col suo 2,98%. Hai letto bene? Rileggi per favore! Non ti basta?
Bene, allora preparati, perché siamo solo all’inizio: emissioni di Monossido di Carbonio, 81,11% in Puglia, seconda la Lombardia con il 3,69%. Capito? Lo 3,69% la Lombardia! Emissioni di Particulate Matter: Puglia 62,23%, seconda classificata la Sardegna, con il 7,91%.
Emissioni di Benzene: prima classificata la Puglia, col 46,13%, segue la Sicilia col 26,16%, terza la Lombardia col 9,87 %. Ossidi di azoto: prima la Puglia, col 19,63%, seguita da Sicilia, con l’11,65%. Ossidi di zolfo, chi sarà prima?
Indovinato! La Puglia ovviamente, con il 23,27%. E visto che ti piace il Salento, sappi che la provincia più devastata non è Taranto, ma quella leccese: qui si supera oltre ogni limite che tu possa immaginare la media nazionale del numero di tumori che colpiscono i polmoni e le vie respiratorie.
Ti stupiscono questi dati? Beh, anche a me, eppure pare sia da vent’anni che alcuni eroici signori ignorati da tutti (leggi, ad esempio, l’oncologo Serravezza) lo denunciano, il problema è che nessuno li vuol sentire nelle grandiose regie delle Istituzioni dello Stato Italiano. Qua ci stanno ammazzando da decenni, altro che rifiuti tossici interrati e quel maledetto ethernit con cui riempiono le campagne migliaia di ignoranti figli di p.!
Ovviamente troverai dei geni che attribuiscono lo stato di salute dei salentini al fumo di tabacco. Se avrai avuto la capacità di leggere questo articoletto, avrai anche quella di giudicare tu certe espressioni di genialità!!!
Al primo link i dati ufficiali che ho usato, il secondo link per gli amanti di Lecce!

3×2

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di Pier Paolo Tarsi

 

Un fenomeno ormai diffuso e assestato è la mania delle persone di far affiggere manifesti 3×2 per ogni evento: un compleanno, la maturità, l’esame di patente, un matrimonio, l’anniversario di morte di un caro estinto, spesso fotografato in presunte pose fighe (ci manca solo la scritta Leccenight talvolta). E tra la lista dei sacramenti non ci manca nemmeno la prima comunione, come mi ha fatto scoprire ieri Patricia. Questa è pornografia autentica, altro che seni generosi e sode chiappe per le pubblicità

Ciao Nino

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Caro Nino,

sapessi quanto mi è difficile scrivere queste righe. Riuscirò a dire l’amaro che lasci andandotene così? Riuscirò a colmare con le sole parole il vuoto in cui l’animo scosso sprofonda? Macché amico mio, la penna non va oggi, non scorre nulla da queste mani. “Il peggio è passato” mi hai detto al telefono l’ultima volta, con una voce finalmente allegra che annunciava un imminente ritorno dalla capitale e dall’incubo in cui l’improvvisa malattia ti aveva condotto, un incubo da far annegare e cancellare definitivamente in quel primo caffè che avremmo dovuto goderci al tuo ritorno. Sappiamo entrambi come sarebbe dovuta andare poi, tu dopo il caffè avresti preteso una camminata, ed io avrei preteso un sigaro al sole, Marcello, invece, la sua bionda multifilter. E alla fine, come sempre, saremmo giunti al solito tacito compromesso, avremmo cioè camminato per poche decine di metri fino al muretto che circonda il castello e lì, per un’ora o fino all’imbrunire, avremmo parlato di Giulietta, dei vostri anni romani, delle ricerche etnografiche a cui avete dedicato la vostra intera esistenza, avvolta in quella condivisa e laboriosa solitudine. Mi avresti poi parlato delle tue e delle sue poesie, e di queste ultime mi avresti recitato qualche verso a memoria, fino al verso che, così ogni volta, ti avrebbe fatto piangere. Con quale fulmineo rivelarsi sarebbero sgorgate quelle lacrime, e quanto rapidamente le avresti asciugate, con pudore, come a chiedere scusa, tirando fuori un fazzoletto dalla tua borsetta scura. Poi mi avresti guardato con un sorriso tra quella tua barba lunga di cui andavi così fiero, vanitoso e buffamente dandy come sapevi essere, e che solo la malattia impietosa ti avrebbe potuto sottrarre; a quel punto avremmo iniziato a guardare come sempre al futuro e ai progetti da realizzare, ai meravigliosi inediti di Giulietta da far conoscere al pubblico, alle trascrizioni e alle ricerche da farsi su quei dannati fogli ingialliti che custodivi con l’amore di marito e con la cura di un padre. Invece no, amico mio, nulla di tutto ciò ci è stato concesso. Non tornerai mai più da noi, nemmeno per farti condurre al tuo sepolcro, accanto alla tua Giulietta come credo tu avresti preferito. Andrai nella tua città natale ci hanno fatto sapere, la Reggio Calabria dei tuoi sereni ricordi d’infanzia, a dormire per sempre cullato dal dondolio del mare che si frange sullo stretto. Forse è giusto così, o forse no, non saprei, ma quaggiù, noi, Marcello, Giovanna, Fabrizio e tutti gli altri amici che ti hanno voluto bene, dove mai potremo andare a riporre un fiore per te? Sai Nino, mi ha chiesto Marcello, per telefono, nel pomeriggio – dopo avermi annunciato quanto non avrei mai voluto sapere – di scrivere un doveroso necrologio da pubblicare sul sito. Certo, ho compreso subito quanto fosse doveroso, ma in quel momento non ho potuto immaginare quanto sarebbe stato doloroso. Me lo hai sempre rimproverato che sono troppo facilone nel prendere gli impegni, e devo darti ancora una volta ragione. Ogni lettera e ogni parola, mentre scrivo, si trasformano in uno scenario, un’immagine, un ricordo preciso collocato nel tempo trascorso con te, e questo soffermarsi consapevole e lento sui ricordi a cui mi costringe la scrittura si sta rivelando uno strazio. Sono passate sei o sette ore da quella telefonata, ed eccomi ancora qua a tentar di dire malamente, a balbettare parole che non potrai mai leggere. Un’ora fa ho dovuto prendere la macchina, così ne ho approfittato per svoltare nella piazza dove si affaccia il vicolo che porta a casa tua. Tra i rumorosi bar frequentati da ciurme di ragazzi e ragazze pieni di vita e di speranza, solo uno scorcio di veduta sul vicolo di casa tua, avvolta dal buio e dal silenzio greve, forse lambito soltanto dai sospiri di qualche coppia di giovani innamorati nascosti all’oscurità. Ci hai lasciato da quasi due giorni a quanto mi dicono, ma non un manifesto ancora, né un fiore ho intravisto per te. Mi è venuta in quell’istante in mente l’immagine che ci fece incontrare la prima volta, quell’affresco della Madonna del Buon Consiglio che io mi ero avvicinato incuriosito a guardare, affissa lì, proprio in quel vicolo, accanto all’ingresso di casa tua, la casa dei Poeti. Ripensare oggi a quel momento non è stato facile Nino, accidenti! Ricordo che d’un tratto poi  fuoriuscisti dal monumentale portale d’ingresso, con una pesante vestaglia rosso porpora, una lunga barba da eremita, la faccia tanto severa da intimorire, il volto scuro, impenetrabile e pensieroso di chi non è più abituato alle persone da anni. Don Nino, o il Professore, come ti chiamano ancora in questo paese, in tutta la sua (presunta) austerità e nel suo alone misterioso si rivelò in carne ed ossa di fronte a me, ed io ero imbarazzato come un mocciosetto scoperto a curiosare in casa altrui. Chissà quanti anni erano trascorsi dall’ingresso di qualcun altro prima di me nel tuo palazzo. Vi entrai verso le tre di pomeriggio credo. Me ne andai di sera, dopo le nove. Ci mettemmo un attimo a riconoscerci già amici, e dopo due attimi eravamo addirittura in cucina (il posto vietato da sempre a qualunque ospite), dove mi recitasti poesie e mi leggesti lunghe pagine delle vostre ricerche. Ricordo che stetti tutto quel tempo senza osar fumare, e quando mi offristi un bitter non ce la feci proprio più, azzardai la richiesta di un accendino. Con un sorriso mi dicesti “Perché non l’hai chiesto prima? Chissà come avrai sofferto tutto questo tempo, anche io fumavo sai?!…”. Quella cucina, così modesta al cospetto delle antiche sale del palazzo, non ti serviva tanto a preparare pietanze, ma a lavorare, era divenuto il tuo studio da quando Giulietta se n’era andata. Ricordo che rimasi  di stucco nel vedere che trascrivevi i manoscritti giallastri e dal forte odore di umido con quella Olivetti nera. Non vedevo una macchina da scrivere da quando ero ragazzino. Chi l’avrebbe mai detto che ti avrei convinto mesi dopo a comprare un pc? E chi l’avrebbe detto che ti saresti trasformato addirittura in un vero e proprio smanettone in grado di usare posta elettronica, social network, forum e tutto il resto? Ricordo quando andammo a comprare il mobile per il pc e, tornati a casa tua, montai e collegai monitor, stampante e tutto il resto. Finalmente eravamo pronti per iniziare il tuo battesimo nella nuova era. Accesi il pc, aprii una pagina bianca del programma di scrittura e ti chiesi di prendere il mouse. Lo stringesti in mano intimorito e quando ti chiesi di provare a muovere il cursore sollevasti al cielo entrambe le braccia  e mi guardasti con una faccia da pesce lesso: me la feci quasi addosso dal ridere, e al contempo mi disperai, pensando a quale lungo tirocinio informatico ci avrebbe atteso.

 

Porto Cesareo 1974, Nino e Giulietta
Porto Cesareo 1974, Nino e Giulietta

 

Caro amico, nella tua vita romana che tanto amavi raccontarmi, hai conosciuto grandi poeti, famosi scrittori e dottissimi professori, una folla che avrebbe saputo davvero scrivere un necrologio all’altezza dei tuoi meriti e della tua persona, una massa di maestri della parola che avrebbero saputo soffermarsi con freddezza, perizia e con dovuti dettagli sui tuoi lavori, sulla intensa attività culturale svolta negli anni vissuti con Giulietta nella capitale, sui riconoscimenti ottenuti con le poesie, sui risultati delle vostre successive ricerche etnografiche. E invece nulla, accidenti, è toccato a me questo compito, che non sono né grande né dotto ed anzi non riesco oggi nemmeno ad organizzare il pensiero per tratteggiare che so, almeno una pallida idea della persona, dello studioso e del poeta che sei stato. Mi spiace Nino, ma certe responsabilità non dovrebbero toccare agli amici intrappolati dal dolore e faciloni, questi, al più, ti sanno scrivere un’ultima lettera. Oggi vorrei solo abbandonarmi al ricordo del tuo sorriso quando si andava a spasso o per i caffè pomeridiani, quando ti liberavi per qualche momento del peso di quelle tue carte e inspiravi profondo come a fare scorta di ossigeno prima di tornare allo sfibrante lavoro in quel tuo amato e odiato antico palazzo, il santuario polveroso della memoria della tua Giulietta, custodita con quasi ossessa pignoleria. Non stare in pena per il vostro  lavoro, non preoccuparti per quel mondo di memorie faticosamente consegnate alle lacere carte, Marcello ed io non le lasceremo sprofondare in quell’oblio che tanto ti atterriva pensando a cosa sarebbe successo dopo la fine dei tuoi giorni. Te lo prometto amico mio, faremo di tutto per portare avanti il tuo progetto, custodirlo e rinnovarlo, se soltanto ce ne daranno modo. Sarà questo il fiore che noi vorremmo portare un giorno sulla sua tomba, il fiore più gradito e importante per te, come ben sa chi ti è stato accanto, il fiore che tu e Giulietta avete curato fino all’ultimo respiro e che noi tutti ci sentiamo in obbligo di tenere in vita e portare allo splendore della luce che merita. Tu, intanto, pensa a riposare in pace amico mio, quel caffè ce lo berremo quando sarà tempo, semmai vorrai affacciarti a trovarmi nel bar dei dannati, sulla terra c’è ancora molto da fare per me e per gli altri nel tuo nome e in quello di Giulietta. Spero che esista davvero quel dio di cui pure mi parlavi ogni tanto, spero che esista soprattutto quel suo paradiso, lo spero per te Nino, perché vorrei saperti finalmente stordito, invasato, posseduto e ubriaco fradicio di quella felicità che soltanto l’abbraccio della tua Giulietta potrebbe donarti. Ciao Nino.

Tuo Paolo

 

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Orgoglio salentino

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di Pier Paolo Tarsi

L’orgoglio geneticamente provincialista dei salentini, che fa incazzare o fa sorridere (ma di tristezza) è davvero ineusaribile. Da un paio di giorni sono tutti esaltati da un pezzo (che peraltro fa veramente cacare) che tratta di una visita di 36 ore a Lecce pubblicato sul New York Times. Son così i salentini. Hai voglia a fare studi e riviste serie sul territorio, hai voglia a fare denunce sulle malefatte nostrane, loro…leggono solo il New York Times, sono mica provincialotti, guardano in grande, al mondo, all’immagine che questo dona della loro terra, una dipinta con un pasticciotto qua, una facciata barocca di là, quattro note di pizzica e contorno di quattro minchiate.

Pier Paolo e il limone

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di Pier Paolo Tarsi

C’è un particolarità unica nella relazione che possiamo stabilire con le piante: a differenza di qualunque animale, anche il più piccolo e appena percepibile, loro non ti possono venire incontro, non possono richiamare la tua attenzione in alcun modo.

Per instaurare una relazione con una pianta tutto dipende dalla tua attiva disposizione, dalla tua capacità di attenzione e consapevolezza: la devi notare, osservare, devi decidere di decifrarne i segnali di rigoglio o di una qualche mancanza, e così via. Proprio nelle conseguenze della tua cura o incuria vi è l’unica possibilità di una relazione con loro, conseguenze che sta a te percepire e cogliere.

Poco fa il mio limone, che è lì piantato da anni da chissà chi senza che io nemmeno me ne avvedessi, e che qualche settimana fa era ormai in procinto di seccare, mi ha ringraziato dell’acqua datagli in questi giorni con il primo limone quasi ingiallito, un dono che mi ha fatto trovare per terra, come un uovo appena fatto. Riconoscenza, espressa a modo suo.

Prima di offrire una birra pensateci bene…

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di Pier Paolo Tarsi

Ora immagina di portarti uno dei più grandi filosofi di tutti i tempi per un’uscita serale con gli amici, anzi, osiamo, addirittura il padre stesso della filosofia occidentale, il buon vecchio Socrate. Ecco cosa accadrebbe. “Socrate prendiamo na birra, te la offro io cussì te rilassi” Ma lui “E’ giusto che sia tu a offrirla? Che cosa è giusto?” “Va bene, nu cuminciare, paga tie”. “Se la offro io, che forma d’amicizia sarà mai la nostra? Costruita sull’utile? Che cosa è mai la vera amicizia?” “Va bene Socrate, ognuno si catta la sua, ok?” “Ma se ognuno comprasse la sua birra, non sussisterebbe la gratuità del dono, di cui l’autentica amicizia si nutre”. “Vabbè Socrate, ce ammu fare?” “Vedi quel fiumiciattolo, sediamoci lì accanto, e proviamo insieme a districare la questione” “Senza nemmeno na birra?” “Certo, la prenderemo quando avremo compreso cosa sia giusto fare”. “Ok, Socrate, ane annanzi che arrivo subito, spetta eh, arrivo sicuro”. Morale: lasciate il filosofo che è in voi a casa, e pure i filosofi che non sono in voi, se volete godervi un po’ la vita.

Da Copertino a Santa Barbara fino a Collemeto, di notte

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di Pier Paolo Tarsi

In bici, con Cosimo, di notte, da Copertino a Santa Barbara fino a Collemeto. Sei o otto chilometri, non lo abbiamo ancora capito, su strade di campagna. Frazioni di Galatina ignote ai più, borghi da far west, quelli in cui mi sento a casa. Verso la festicciola. “Signora, per piacere, ci controlla le bici che non abbiamo i lucchetti?” E quando certe anziane signore ti dicono “si” ti puoi fidare. Tornati ore dopo, con le luci ormai spente della festa, lei e le sue commari sono ancora lì, sbadigliando, ad aspettare, e raccomandarsi infine di stare attenti, di accendere le luci, di badare agli ubriachi in macchina. Chissà perché gli ubriaconi in bici come noi sono tollerati da tutti, e forse persino graditi al mondo. A Collemeto ci si incontra con gli altri due amici giunti in auto, erano stati a Nardò, ma la situazione era troppo chic, non è roba per noi. Abbiamo individuato il bar più spranto in pochi secondi, col l’istinto di rabdomanti. Campeggiava la scritta “Peroni”. È decisamente il nostro posto. Prima di sederci abbiamo acquistato noccioline sbucciate, mardorle e pistacchi. “Li morti loru quantu costanu!”. Lei, naturalmente, la cummare Anna, ex-modella in pensione dedita oggi all’arte delle imprecazioni. Poi giù di birre, a pochi metri dalla piazza in cui suona un gruppo dei gloriosi anni 70, di quelli che piacevano alle nostre madri, di quelli la cui musica era la colonna sonora dei loro amori puri ed eterni coi nostri padri. Le orme. Infine il ritorno. La notte assoluta, perfetta. La mezza luna, i grilli, cicale nottambule, ed una volpe sbigottita. I cani che all’andata ci avevano inseguito ormai dormono e si sono rotti le scatole, o semplicemente non siamo più estranei per loro. Il fresco. Le costellazioni, talmente evidenti che potrei persino io provare a imparare i loro nomi una buona volta. E venere, la bella, il pianeta che si concede a occhio nudo. Non chiedo altro. Una nottata quasi perfetta, quasi, ma questa è un’altra storia.

Su una via deserta della periferia

da fondazionebellonci.it

 

La calma con cui un anziano signore riesce a stare per ore seduto sull’uscio di casa, a guardare il nulla di una via deserta della periferia, dopo una vita di brutale fatica. In un silenzio impenetrabile in cui si intrufola il cigolìo di una bicicletta, la mia, e un fracasso che non si dà a sentire.

(Pier Paolo Tarsi)

In quel guardare il nulla c’è il pieno dei ricordi, in quell’apparente immobilità c’è la corsa all’indietro verso il vigore di una giovinezza instancabile in cui tutto era nel potere della volontà tranne l’amore, tutto era riscatto tranne la paura di non meritarlo…

(Raffaella Verdesca)

Questa sera presentiamo il secondo numero de Il delfino e la mezzaluna

copertina delfino e la mezzaluna

Questa sera, alle ore 19.30, nella Sala Roma (di fronte alla Cattedrale di Nardò), presenteremo il secondo numero della rivista della Fondazione “Il delfino e la mezzaluna”.

216 pagine, ricchissimo di illustrazioni e foto (tra queste opere di Stefano Crety, Mauro Minutello e Paolo Giuri), 16 pagine a colori, vede tra gli Autori qualificati studiosi, docenti universitari, dottorandi e addottorati.

Particolarmente appetitosa la sezione dedicata al nostro artista conterraneo, Roberto Ferri, tarantino, sul quale abbiamo più volte trattato nel sito, che ha concesso in esclusiva alcune riproduzioni delle sue bellissime opere e al quale è dedicata la copertina del numero, che riproduce “Taras”.

Il volume non è in vendita, ma è riservato ai soci e simpatizzanti della Fondazione, che nel corso della serata potranno rinnovare l’iscrizione per il 2013 o aderire ome nuovi soci. Per tutti, oltre al volume, è riservato il depliant-pieghevole a colori sulla Cattedrale di Nardò. Ai vecchi soci sarà donata una monografia sulla Cattedrale di Gallipoli, ai nuovi il volume su Salvatore Napoli Leone.

I contenuti saranno illustrati dal prof. Paolo Agostino Vetrugno, dal dott. Pino de Luca (vice direttore de Leccellente) e dal direttore della rivista dott.  Pier Paolo Tarsi.

La serata sarà allietata dall’ottima musica dei Petrameridie, che si concederanno con esclusivi pezzi e accompagneranno il rinfresco offerto ai presenti.

La quota sociale per il 2013 ha sempre come minimo 30 Euro di contributo, che potrà essere versato nel corso della serata.

 

Questo è l’Indice del numero che presenteremo:

 

Roberto Spaventa, Fragmenta Corsani. Parcellizzazione feudale di Corsano (Lecce) dal XIII al XVII secolo

Maurizio Nocera, Divagazioni storico-bibliografiche sul castello di Copertino

Francesco De Paola, Un poeta alla corte dei Del Balzo: Rogeri De Paciencia de Neritò e un festoso pageant rinascimentale della nobiltà salentina

Domenico L. Giacovelli, Est autem fides sperandarum substantia rerum. Ipotesi per una possibile identificazione di un inedito soggetto iconografico

Marino Caringella, Intorno a Girolamo Imperato

Marcello Gaballo-Armando Polito, L’arco Lucchetti, il misterioso portale di Corigliano d’Otranto

Ugo Di Furia, Nuovi documenti sulla guglia dell’Immacolata di Nardò

Giorgio Cretì, Il muto

Maurizio Carlo Alberto Gorra, Tauro, non bove. Legami e influenze tra simboli arcaici e iconografia araldica

Brizio Montinaro, Tarantismo (vero, falso) e servizio militare

Angela Calia-Antonio Monte, Le maioliche di Angelantonio Paladini nel Salento. La produzione, i materiali costituenti e lo stato di conservazione

Marcello Gaballo, Intervista a Roberto Ferri: l’artista e l’uomo

Raffaella Verdesca, Roberto Ferri, pittore della magia, filosofo della seduzione

Maria Grazia Presicce, La donna salentina e la tessitura

Gino L.  Di Mitri, Tarantismo, possessione e stati modificati di coscienza nel Mediterraneo d’Antico Regime

Giulietta Livraghi Verdesca Zain,  Riti agresti nell’antico Salento: il grano in alcune formule propiziatorie dell’abbondanza

Giovanni Invitto, Intorno a Carmelo Bene

 

Restauri. La Madonna del Carmine della chiesa matrice di san Giovanni Battista in Parabita (Lecce) (Giuseppe Leopizzi), 177. Risparmio energetico negli immobili storici vincolati: l’impianto di illuminazione a gestione domotica della cattedrale di Nardò (Lecce) (Cristina Caiulo-Stefano Pallara), 179.

Archeologia in Terra d’Otranto. Le statue di due imperatori romani a Otranto (Alfredo Sanasi), 183.

Epigraphica in Terra d’Otranto. Un’epigrafe a Corsano (Armando Polito), 186.

Araldica in Terra d’Otranto. Un insolito stemma borbonico a Giuggianello (Lecce) ( Lucia Lopriore), 189.

Segnalazioni. Variazioni azzoliniane sul tema dell’Angelo Custode (Marino Caringella), 190). Un inedito dipinto ugentino attribuibile a Giovanni Andrea Coppola (Stefano Tanisi), 193. I dipinti di Paolo De Matteis (1662-1728) nella cappella del seminario di Lecce (Stefano Tanisi), 195. Aggiunta a Leonardo Antonio Olivieri e tre proposte per Domenico Antonio Carella (Nicola Fasano), 197. Il sansificio di Spongano (Lecce) (Giuseppe Corvaglia), 202. Appello per due chiese abbandonate a Taurisano (Stefano Cortese), 206. Note e vicende architettoniche della chiesa matrice di Casarano (Maura Lucia Sorrone), 208. Un logo per i 600 anni della cattedrale di Nardò (1413-2013) (Sandro Montinaro), 213).

 

 

 

 

Ecco il secondo numero de Il delfino e la mezzaluna

copertina delfino e la mezzaluna

Domenica 23 giugno, alle ore 19.30, nella Sala Roma (di fronte alla Cattedrale di Nardò), presenteremo il secondo numero della rivista della Fondazione “Il delfino e la mezzaluna”. Un importante volume di 216 pagine, con saggi pertinenti la nostra terra, con particolare riferimento alla storia dell’arte, come prevede lo statuto sociale.

Ricchissimo di illustrazioni e foto (tra queste opere di Stefano Crety, Mauro Minutello e Paolo Giuri), 16 pagine a colori, vede tra gli Autori qualificati studiosi, docenti universitari, dottorandi e addottorati.

Particolarmente appetitosa la sezione dedicata al nostro artista conterraneo, Roberto Ferri, tarantino, sul quale abbiamo più volte trattato nel sito, che ha concesso in esclusiva alcune riproduzioni delle sue bellissime opere e al quale è dedicata la copertina del numero, che riproduce “Taras”.

Il volume non è in vendita, ma è riservato ai soci e simpatizzanti della Fondazione, che nel corso della serata potranno rinnovare l’iscrizione per il 2013 o aderire ome nuovi soci. Per tutti, oltre al volume, è riservato il depliant-pieghevole a colori sulla Cattedrale di Nardò. Ai vecchi soci sarà donata una monografia sulla Cattedrale di Gallipoli, ai nuovi il volume su Salvatore Napoli Leone.

I contenuti saranno illustrati dal prof. Paolo Agostino Vetrugno, dal dott. Pino de Luca (vice direttore de Leccellente) e dal direttore della rivista dott.  Pier Paolo Tarsi.

La serata sarà allietata dall’ottima musica dei Petrameridie, che si concederanno con esclusivi pezzi e accompagneranno il rinfresco offerto ai presenti.

La quota sociale per il 2013 ha sempre come minimo 30 Euro di contributo, che potrà essere versato nel corso della serata.

 

Questo è l’Indice del numero che presenteremo:

 

Roberto Spaventa, Fragmenta Corsani. Parcellizzazione feudale di Corsano (Lecce) dal XIII al XVII secolo

Maurizio Nocera, Divagazioni storico-bibliografiche sul castello di Copertino

Francesco De Paola, Un poeta alla corte dei Del Balzo: Rogeri De Paciencia de Neritò e un festoso pageant rinascimentale della nobiltà salentina

Domenico L. Giacovelli, Est autem fides sperandarum substantia rerum. Ipotesi per una possibile identificazione di un inedito soggetto iconografico

Marino Caringella, Intorno a Girolamo Imperato

Marcello Gaballo-Armando Polito, L’arco Lucchetti, il misterioso portale di Corigliano d’Otranto

Ugo Di Furia, Nuovi documenti sulla guglia dell’Immacolata di Nardò

Giorgio Cretì, Il muto

Maurizio Carlo Alberto Gorra, Tauro, non bove. Legami e influenze tra simboli arcaici e iconografia araldica

Brizio Montinaro, Tarantismo (vero, falso) e servizio militare

Angela Calia-Antonio Monte, Le maioliche di Angelantonio Paladini nel Salento. La produzione, i materiali costituenti e lo stato di conservazione

Marcello Gaballo, Intervista a Roberto Ferri: l’artista e l’uomo

Raffaella Verdesca, Roberto Ferri, pittore della magia, filosofo della seduzione

Maria Grazia Presicce, La donna salentina e la tessitura

Gino L.  Di Mitri, Tarantismo, possessione e stati modificati di coscienza nel Mediterraneo d’Antico Regime

Giulietta Livraghi Verdesca Zain,  Riti agresti nell’antico Salento: il grano in alcune formule propiziatorie dell’abbondanza

Giovanni Invitto, Intorno a Carmelo Bene

 

Restauri. La Madonna del Carmine della chiesa matrice di san Giovanni Battista in Parabita (Lecce) (Giuseppe Leopizzi), 177. Risparmio energetico negli immobili storici vincolati: l’impianto di illuminazione a gestione domotica della cattedrale di Nardò (Lecce) (Cristina Caiulo-Stefano Pallara), 179.

Archeologia in Terra d’Otranto. Le statue di due imperatori romani a Otranto (Alfredo Sanasi), 183.

Epigraphica in Terra d’Otranto. Un’epigrafe a Corsano (Armando Polito), 186.

Araldica in Terra d’Otranto. Un insolito stemma borbonico a Giuggianello (Lecce) ( Lucia Lopriore), 189.

Segnalazioni. Variazioni azzoliniane sul tema dell’Angelo Custode (Marino Caringella), 190). Un inedito dipinto ugentino attribuibile a Giovanni Andrea Coppola (Stefano Tanisi), 193. I dipinti di Paolo De Matteis (1662-1728) nella cappella del seminario di Lecce (Stefano Tanisi), 195. Aggiunta a Leonardo Antonio Olivieri e tre proposte per Domenico Antonio Carella (Nicola Fasano), 197. Il sansificio di Spongano (Lecce) (Giuseppe Corvaglia), 202. Appello per due chiese abbandonate a Taurisano (Stefano Cortese), 206. Note e vicende architettoniche della chiesa matrice di Casarano (Maura Lucia Sorrone), 208. Un logo per i 600 anni della cattedrale di Nardò (1413-2013) (Sandro Montinaro), 213).

 

 

 

 

Kalinifta: cantare l’amore in Griko

s. valentino

Quando mi è stato chiesto di scegliere dei versi per il giorno di San Valentino ho subito pensato a questo componimento classico di Vito Domenico Palumbo, accompagnato spesso con note celebri a tutti i salentini. In esso vi è, mi pare, l’amore nella sua massima espressione, l’amore che si vive in struggente silenzio, l’amore che non parla all’amata, se non apparentemente, parlando malinconicamente a se stesso, nell’oscurità notturna, mentre si avvia, mentre si allontana per non tornare più, come fa questa splendida lingua che va ormai perdendosi, il Griko salentino.

Ti en glicèa tusi nifta, ti en orria
c’evò e’ pplonno pensèonta s’esena
c’ettumpi’ sti ffenestrassu, agapimu,
tis kardi’ammu su nifto ti ppena.

Evo’ panta s’esena penseo,
jatì sena, fsichìmmu, gapò
ce pu pao, pu sirno, pu steo
sti kkardìa panta sena vastò.

C’esù mai de’ m’agàpise, òria-mu,
‘e ssu pònise mai puss’ emèna;
mai cìtt’oria chili-su ‘en ènifse
na mu pì loja agapi vloimèna!

T’asteràcia pu panu me vlepune
ce m’o fengo krifi’zzun nomèna
ce jelù ce mu lèune: ston ànemo
ta traùdia pelìs, ì chchamèna.

Kalinìfta! Se finno ce feo,
plàja esù ti ‘vò pirta prikò,
ma pu pao, pu sirno, pu steo
sti kkardìa panta sena vastò

Le quattro stagioni del Salento: un invito a visitarci tutto l’anno

di Pier Paolo Tarsi

Le virtù della terra e della bellezza salentina si possono declinare in modo plurimo, inseguendo il naturale ciclo di stagioni sempre miti e dolci nel corso dell’anno; allo stesso modo si devono delineare possibilità, diverse e alternative, di apprezzare, come viaggiatori o semplici turisti, questo estremo lembo d’Europa. Questo vuole essere un invito a visitarci tutto l’anno, non solo in…

Estate

Verso Sud, assillati dalla calura estiva cittadina, accorrono masse di turisti alla ricerca di refrigerio su soleggiate coste bagnate da mari purissimi, sedotte e incoraggiate da una fresca accoglienza che ha il colore di rosse angurie e di gialli fichi d’india, il ritmo allegro e vitale di notti che pulsano ovunque all’eco dei tamburelli. Le selvagge vibrazioni dei suoni fuggono propagandosi nell’oscurità, al di là delle luci dei falò, presso anfratti di spiagge gialle come il grano e scogliere severe sorvegliate da malinconiche torri, confondendosi infine con i riflussi delle onde quasi placide, nella cui immensità mediterranea si esauriscono placando così l’orgiastico furore da cui sono generate.

Sul ciglio di un sentiero salentino…

 

 

Sui cigli dei sentieri nascosti stanno, semplicemente, sospesi nella loro inconsapevole ed effimera bellezza, senza che nessuno li abbia mai reclamati.

Quando, chissà da dove, chissà se ancora, giunge per caso un viandante che intende la silenziosa lingua del loro dondolio frusciante, sfiorandosi, gli bisbigliano, si dice, la verità che raccontano da secoli: “mentre vai, mentre credi di andare, contempla attorno, poiché del viaggio che stai compiendo non godrai nella presunta meta ma qui, tra un passo e l’altro”

(Pier Paolo Tarsi)

Istruzioni per non tediare un vegetariano

di Pier Paolo Tarsi

Non so se qualcuno di voi è vegetariano o frequenta assiduamente vegetariani, so in compenso che certamente anche qui essere vegetariani significa far parte di una sparuta e numericamente insignificante minoranza (ammesso sempre che il sottoscritto non sia l’unico e solo!). Ebbene per farvi capire come si vive da questa parte del cosmo, vorrei farvi un elenco ragionato delle miserie e dei fastidi cui è sottoposto costantemente un vegetariano (specialmente in Italia), sperando che questo mio sfogo possa servire anche a chi vegetariano non è, suggerendogli cosa evitare per non angustiare il prossimo vegetariano che avrà tra i piedi (devo dire subito che esiste tuttavia anche una razza di vegetariani specializzata ad angustiare gli onnivori). Tra le prime fatiche che un vegetariano affronta quotidianamente vi è proprio quella sensazione di far parte di una comunità microscopica, di essere una mosca bianca e in qualche modo un diverso. Ora, a questo senso di particolarità ognuno reagisce a modo suo, andando per generalizzazione i due atteggiamenti discordanti di fondo più riscontrabili sono da un lato quello di chi fa del proprio vegetarianesimo una bandiera da sventolare sempre e ovunque alla minima occasione (anche per abbordare, perché fa figo talvolta) come se fosse un segno di eroismo e levatura morale (atteggiamento questo che nasconde una scelta non matura e convinta di

Parabita. Si presenta Volti di carta, storie di donne del Salento che fu

Il Presidio del libro di Parabita  Cantieri culturali aperti – Emergenze Sud

è lieto di invitare la S. V.

alla presentazione del libro

VOLTI DI CARTA, STORIE DI DONNE DEL SALENTO CHE FU       (Ed. Albatros-Il Filo)

DI RAFFAELLA VERDESCA

MARTEDI’ 16 OTTOBRE ORE 18,30

PALAZZO FERRARI – PARABITA

Venti ritratti di donne salentine tra le due guerre, venti storie coinvolgenti sul piano emotivo e narrativo. Uno straordinario affresco del Salento tra le due guerre attraverso la fotografia delle sue donne.

Scrive Pier Paolo Tarsi nella prefazione:   Della sua terra di origine Raffaella Verdesca ci svela nelle pagine che seguono il passato femminile nelle sue forme più intime e pertanto inafferabili, quelle cioè del vissuto emotivo, restituendoci la profondità interiore di un mondo di donne a cui possiamo ridare nuovi confini e contorni, esplorandole attraverso ritratti da leggere, da sfogliare e da meditare, per scoprire cosa di quell’universo umano ancora sopravviva, ossia, con le parole dell’autrice,” l’insegnamento di un salento al femminile capace di dignità e dolore, speranza e riscatto, padrone del coraggio di credere ancora” .

Dialogheranno con Raffaella Verdesca Paolo Vincenti e Sonia Cataldo. Letture di Alfredo Romano.

Musica e canto di Giuliana Paciolla ed Enza Pagliara.

 

Iniziativa promossa da Regione Puglia- Assessorato al Mediterraneo – e dall’Ass. Presidi del libro col Patrocinio della Città di Parabita

 

Piccoli seminaristi crescono

Presidi del Libro di Nardò e Caffè Letterario di Via Roma
presentano

Piccoli seminaristi crescono (Negroamaro)

di Alfredo Romano

Domenica 14 ottobre 2012 ore 19.00
Sala Roma Piazza Pio XI – Nardò

Introduce – Norberto Pellegrino
Presidente Caffè Letterario di Via Roma a Nardò

Relatore
Pier Paolo Tarsi

 

Piccoli seminaristi crescono (Negroamaro) di Alfredo Romano sarà presentato domenica 14 ottobre 2012 alle ore 19.00 alla Sala Roma di Piazza Pio XI a Nardò. Introduce Norberto Pellegrino (Presidente Caffè Letterario di Via Roma a Nardò). Relatore sarà Pier Paolo Tarsi. L’appuntamento è organizzato dai Presidi del Libro di Nardò e dal Caffè Letterario di Via Roma.

Così, con tonaca, zimarra e “saturno” in testa, inforcai la bicicletta per recarmi dal dentista. Che bello era pedalare tutto solo per le vie della città. Mi voltavo a destra e a manca catturando in libertà l’aria impregnata della tarda primavera, le ignare facce della gente per strada, i variopinti colori dei vestiti, le facciate delle case e dei palazzi, le insegne dei negozi, le strida delle rondini… Avevo come l’impressione che tutti si voltassero a guardarmi e dicessero:”Nah, cce beddhu papiceddhu sta be ppassa! (Toh, che bel piccolo prete sta passando!)”. Pedalavo con disarmante incantamento e, come capita quando si è innamorati, avevo voglia di abbracciare tutto il mondo, di far partecipe ogni passante della mia manifesta e sconfinata felicità.

 

Info
http://www.negroamaroeditrice.it/

 

Le vetrine di Carlo Deison

una delle vetrine di Carlo Deison a tema marinaresco

Le vetrine di Carlo Deison. Visioni in un teatro stabile

di Pier Paolo Tarsi

Vi può essere artista salentino inteso come l’artista che in questa terra che chiamiamo Salento ha avuto i propri natali, oppure artista che nel Salento ha trovato i propri maestri, ossia coloro che all’arte lo hanno introdotto, iniziato. Niente di tutto ciò può servire a inquadrare Carlo Deison come un “artista salentino”: ciò che nel suo caso autorizza a classificarlo come tale è un richiamo misterioso e saldo che lo ha condotto in questa terra tre decenni fa. Salentino d’elezione dunque, o salentino per ispirazione, in quanto sedotto dalle bellezze di una terra che non ha più voluto lasciare, una terra incontrata per caso come uno zingaro viandante e ai cui colori e alle cui meraviglie di pietra delle sontuose masserie egli ha dedicato anni della sua opera successiva. Terra da dipingere, da ritrarre, da abitare, terra in cui mettere radici robuste come quelli di un ulivo, in cui comprare una dimora, in cui rifarsi un’esistenza dopo un errare senza meta da Capo Nord al Marocco.

Carlo e sua moglie

Qualcuno scrisse che la vera opera d’arte di un artista deve essere la propria vita. Non sta a noi dire se il Deison, oggi sessantenne, sia riuscito o meno ad adempiere allo spirito di questo celebre aforisma, tuttavia sul varco di ingresso che quelle parole aprono si svela chiaramente il compito che qui ci assumiamo: ricercare riflessi che, come in un ologramma in cui il tutto si riflette in ogni sua parte, riempiono uno spazio che dalla sfera biografica oscilla continuamente sui prodotti artistici che hanno riempito ed accompagnato l’esistenza di questo

Il cercatore di scarpe

di Pier Paolo Tarsi

ph Sandro Montinaro

Iniziò così, come ogni cosa che viene alla vita, proprio come piaceva al vecchio Talete: iniziò tutto dall’acqua.

Passeggiava un giorno su una spiaggia dell’est salentino, avanzava placido sulla sabbia, senza meta, mirando i lontani profili delle vette d’Albania, cenni tra la foschia all’orizzonte. Era solo.

Radente all’acqua, in quel punto in cui non è più possibile fare un passo senza bagnarsi, abbassò gli occhi e lì, finalmente, vi trovò quanto il mare pareva gli volesse ad ogni costo consegnare: trascinata da chissà dove, una scarpa, misera, lacera, pietosa, solitaria e sfinita naufraga appartenuta a chissà chi. Egli la raccolse e la portò con sé, nella sua casa, quasi fosse un dono prezioso venuto da una fonte imperscrutabile.

Dapprima se ne prese cura, la pulì, la lucidò, la lustrò con tenerezza, la fece pazientemente tornare alla vita dignitosa delle cose. Non pago, la volle poi bella. Non soddisfatto, la volle infine meravigliosa ed unica. La rivestì di colore, la tinse amorevolmente, la adornò, l’arricchì di ciò che a lui pareva fosse degna, ora dopo ora, per giorni, fino a fare della naufraga una regina, un sacrario della bellezza, stupore per tutti coloro che l’avrebbero lasciata su quella riva, fino a farla diventare, in breve, un’opera d’arte.

Fu da quando il mare gli consegnò quella prima naufraga che Antonio Catanzariti, detto Tonino, divenne un cercatore di scarpe. Se ne va da quel giorno a cercarle, seguendo con pazienza i passi degli uomini e delle donne che

Animal ridens

di Pier Paolo Tarsi

 

Cenni primi

Quanto segue intende essere uno scritto molto serio a proposito di ciò che per antonomasia non pare essere argomento da prendersi seriamente: la magia del ridere. Il mio intento è dimostrare la portata esistenziale del buon umore e dello spirito umoristico, il che è molto distante da un qualsiasi tentativo, che cediamo volentieri al lavoro degli psicologi e dei medici, il quale voglia soffermarsi, ad esempio, sulla portata terapeutica presunta o dimostrata di una “sana” risata. Il lavoro intende essere molto serio caro lettore, per cui sorridi pure!

 

Cenni secondi

La riflessione di chi scrive intorno al ridere e la scoperta della sua fondamentale importanza venne ispirata nei primissimi giorni da studente universitario. Un tempo le matricole assistevano nel loro ingresso presso le Università ad ufficiali prolusioni accademiche, alcune delle quali, come è noto, sono rimaste celeberrime e patrimonio della cultura universale; una usanza questa oramai del tutto estinta ed alla cui mancanza ogni buon studente tenta di riparare come meglio può: da brava matricola il primo giorno in facoltà ascoltai anche io allora il primo discorso tenuto da un docente. Ancora

Fondazione Terra d’Otranto e Il delfino e la mezzaluna. Mauro Marino* intervista Pier Paolo Tarsi

  • Il 29 luglio è una data importante

Si, per la Fondazione Terra d’Otranto è un giorno memorabile, il giorno della pubblica presentazione, dell’apertura a tutti coloro che vorranno fare parte di questa avventura, della condivisione dei primi frutti di due anni di lavoro silente ma costante e quotidiano. L’appuntamento è alle ore 20.30 nei giardini della villa comunale di Nardò.

  • Di cosa si occupa la Fondazione Terra d’Otranto?

È  una fondazione culturale, senza fini di lucro, nata per volontà di Marcello Gaballo, medico neretino e studioso che oggi la presiede. È una delle poche realtà culturali che vanta il riconoscimento ufficiale della Regione Puglia: voglio sottolineare, non parliamo di una procedura formale completata ma di un sigillo di serietà di intenti ed attività concesso a chi garantisce, attraverso lo statuto,  uno scrupoloso rigore ed impegno nell’investimento in cultura, nell’organizzazione e nei modi di intervento sul territorio.

 

Quali scopi ha?

Gli scopi sono molteplici, ben espressi nello statuto che sarà presto consultabile online sul sito www.fondazioneterradotranto.it . Brevemente, convergono sulla promozione e valorizzazione del patrimonio artistico, archeologico, architettonico, archivistico, demoetnoantropologico, storico ed ambientale della Terra d’Otranto. Ma queste sono belle formule sulle quali non mi soffermerei troppo. Gli scopi della Fondazione sono l’insieme di quelle attività che si stanno traducendo o si tradurranno in fatti a beneficio del territorio e di chi lo abita, a vantaggio della conoscenza approfondita di Terra d’Otranto e della sua rinascita sociale.

Nella serata del 29 presenterete una rivista, ce ne parla?

La rivista si chiama “Il delfino e la mezzaluna”, nome che si ispira chiaramente allo stemma di Terra d’Otranto ed esprime efficacemente la cornice di riferimento e gli scopi conoscitivi per cui nasce.

È concepita per essere la voce ufficiale della Fondazione e, in particolare, il veicolo principale delle ricerche degli studiosi di ogni disciplina che si occupano in forme diverse di Terra d’Otranto: arte in primis, ma anche storia, lingua, letteratura, studi etno-antropologici, sociali,  storico-filosofici, ricerche sulla storia della scienza, su ambiente, territorio, economia, relazioni interculturali ecc. Vogliamo che ogni serio studioso ed ogni paziente ricercatore a qualsiasi titolo (accademico e non, indipendente o istituzionalmente strutturato, giovane e sconosciuto o affermato e di fama ecc) possa contare sulla possibilità di una destinazione di alta qualità dei propri sforzi, e vi possa contare solo sulla base del merito e del valore scientifico delle proprie ricerche che potrà inviare direttamente in redazione con la posta elettronica! Per tale ragione ci siamo dotati di un comitato scientifico ampio e di competenze multidisciplinari, composto per lo più da alcune decine di docenti dell’ateneo salentino (ma non solo) e da studiosi di grande esperienza. Inoltre, a garanzia della qualità scientifica dei saggi che saranno pubblicati e

Nella magia del Salento: il viaggio di ricerca di Brizio Montinaro nelle tradizioni arcaiche di Terra d’Otranto

Brizio Montinaro e Massimo Ranieri

Una breve e insufficiente premessa

Sono tante, troppe e spesso immotivate le presentazioni che iniziano con una formula retorica e stereotipa del tipo: «è difficile raccontare, per gli svariati interessi e i tanti meriti, una personalità come…». Non avremmo mai voluto, pertanto, ricorrere a questo logoro topos della scrittura, eppure stavolta vi siamo davvero costretti. È infatti impossibile qui evitare un simile incipit, come francamente impossibile è tratteggiare adeguatamente la personalità di Brizio Montinaro in poche righe che siano, anche minimamente, sufficienti a cogliere la ricchezza che si riflette nei suoi contributi in campi e contesti così diversi, così fortemente eterogenei, al punto che – come si legge nel suo sito web – non sono stati pochi quelli che, prendendo un comprensibile abbaglio, hanno spesso creduto all’esistenza di più omonimi a cui attribuire le tante attività del medesimo individuo. Attore impegnato di cinema e televisione a livello internazionale, artista, uomo di teatro e di spettacolo in tutte le sue forme oltre che scrittore, etnografo ed antropologo raffinatissimo, tutto ciò è contemporaneamente e brillantemente questo salentino. Rinunciando allora, in coerenza, ad aggiungere altro a quanto ogni Spigolatore interessato non possa scoprire direttamente e liberamente dal suo ricco ed esaustivo sito personale  – www.briziomontinaro.it -, in questa sede ci limiteremo soltanto ad indicare, d’ulteriore, un unico tratto umano che abbiamo personalmente riscontrato in Montinaro e che teniamo dunque a testimoniare: la sua completa e generosa disponibilità, qualità alla quale dobbiamo la condivisione senza indugi dei suoi sforzi e delle sue affascinanti – quanto metodologicamente impeccabili – ricerche antropologiche in Terra d’Otranto a beneficio di tutti gli Spigolatori.
Proprio per invitare e approcciare questi ultimi a tali studi – di sicuro interesse per loro-, proponiamo di seguito un pezzo introduttivo al lavoro di ricerca più che quarantennale di Montinaro, un brano originariamente pubblicato su “Quotidiano” dallo studioso Ennio Bonea e qui riportato su gentile concessione del nostro nuovo, prezioso, compagno di spigolature, al quale offriamo così – a modo nostro – il più cordiale e sincero benvenuto.

Pier Paolo Tarsi


Dal tarantismo ai lamenti funebri della Grecìa (morolòja) fino al libro “San Paolo dei Serpenti

di Ennio Bonea

Il “viaggio di ricerca” di Brizio Montinaro, sulla realtà arcaica del Salento immutato per secoli e che oggi sta scomparendo, quello contadino, è iniziato negli anni Sessanta-Settanta da Calimera, suo paese natale, per toccare l’area della cosiddetta “Grecìa Salentina”, comprendente i paesi dove si parlava il dialetto indigeno, detto “grico”, una volta undici poi ridottisi a nove quindi a sette ed attualmente, con rari dialettofoni sopravvissuti alla cancellazione per

FLY SALENTO: salentini con le ali

di Pier Paolo Tarsi

Non è per nulla vero – come vanno i più pessimisti ripetendo – che qualche goccia di meraviglia e, per dir così, di sempre atteso seppur non preteso incanto, non possano senza sforzo alcuno pioverci addosso, dall’alto, senza nulla aver fatto per meritarle. Credetemi, persino i più pigri, arroccati nelle indolenti attese di eventi lieti non rincorsi, accomodati nell’immobilità più o meno quieta dell’accidia, hanno spesso le loro occasioni per rallegrarsi e smuoversi dall’apatico torpore.

Insomma, piccole gioie ci cascano talvolta in testa senza nemmeno cercarle,

Emigranti ieri e oggi

di Pier Paolo Tarsi

 

Un sottile e ininterrotto filo rosso lega in Italia le dinamiche sociali migratorie interne dal dopoguerra ad oggi, emergendo come una durevole tendenza che si fonda, ieri come oggi e nonostante le pur importanti differenze storico-contestuali, sull’incolmato divario economico tra Nord e Sud del Paese.

Tra i dati del recente “Rapporto SVIMEZ sull’Economia del Mezzogiorno”, pubblicato il 16 luglio ‘09, balza agli occhi l’impressionante cifra di 700 mila individui che, tra il 1998 e il 2008, hanno dovuto abbandonare il Mezzogiorno per collocarsi nel mercato del lavoro centro-settentrionale.

Si tratta per lo più di giovani (l’80% ha meno di 45 anni), provenienti nell’87% dei casi – in ordine di consistenza numerica – da Campania, Puglia e Sicilia e diretti principalmente in Lombardia, Emilia-Romagna e Lazio, con un livello di studio medio-alto: il 24% è laureato, il 50% svolge professioni di livello elevato. «Nel mezzogiorno – si legge nella sintesi del rapporto – le debolezze della rete formativa italiana si associano ad un contesto produttivo debole e ad un sistema sociale sostanzialmente bloccato, impedendo così ai progressi quantitativi realizzati nei tassi di istruzione di tradursi in sviluppo economico e civile» (Sintesi Rapporto SVIMEZ).

Dal 1992 al 2004, prosegue il Rapporto, i laureati meridionali che hanno studiato al Nord e lì sono rimasti sono arrivati a toccare il 67% del totale; in vistosa crescita inoltre le partenze dei laureati eccellenti del Sud: se nel 2004 «partiva dal meridione il 25% dei laureati col massimo dei voti, tre anni più tardi la percentuale è balzata a quasi il 38%» (Ibidem).

Sulla scia di questi dati, possono emergere al contempo tanto la continuità quanto la radicale diversità dell’attuale tendenza migratoria rispetto a quella storica che vide il boom tra gli anni Cinquanta-Sessanta: per un verso infatti le impressionanti cifre della grande emorragia di giovani e manodopera di alto livello che dal Sud confluiscono e vengono assorbiti nel Centro-Nord riportano alla memoria i grandi esodi dei primi decenni del dopo-guerra; dall’altro, se, come si legge nel citato rapporto, «è la carenza di domanda di figure professionali di livello medio-alto a costituire la principale spinta all’emigrazione», possiamo immaginare quanto diversamente si connotino dal punto di vista della fisionomia sociologica e antropologica i due fenomeni migratori.

Lo sfondo della grande migrazione interna che interessò il Paese nel Dopoguerra è quello di un’Italia che marciava verso un rapido boom economico fondato sulle attività impiantate nel triangolo industriale secondo una concentrazione che assecondava e rimarcava, ampliandole, più antiche differenziazioni e disparità socio-economiche.

I capoluoghi industriali del Nord-Ovest, come Torino e Milano, erano infatti tra le mete primarie di quelle masse di meridionali che abbandonavano a milioni un meridione contadino in cui vana e illusoria si era rivelata la riforma agraria, attuata dal governo centrista negli anni ‘50: questa, ai primi segni di ripresa industriale, non era riuscita a contenere il fenomeno di migrazione dalle campagne che avrebbe piuttosto assunto proporzioni imponenti proprio alla fine di quel decennio.

Appartiene a tale massa di individui l’emigrante meridionale, il contadino per lo più illetterato e un po’ spaesato, la cui immagine, fedelmente restituitaci dall’immaginario fotografico, documentaristico e cinematografico (implacabilmente neorealista), si completa di una valigia di cartone in stazione, ben legata a contenere forse pochi stracci e tante speranze, già nutrite e coltivate dall’ancella più fedele dell’incipiente civiltà del benessere, la cassa di risonanza fantastica privilegiata della società di massa, ossia la televisione: «Soprattutto tra i più giovani il desiderio delle attrattive offerte da una città divenne dilagante quando dalla televisione del bar di paese apparirono le nuove immagini di un mondo consumistico fatto di vita mondana, di campioni sportivi, di attrici famose, case piene di elettrodomestici, gite domenicali nella Fiat di famiglia» (Fofi G., L’immigrazione meridionale a Torino, Feltrinelli, Milano 1975).

Per molti versi quei sogni e quelle speranze divennero realtà attraverso la realizzazione di un benessere economico dovuto proprio al sudore di quelle braccia volitive.

Quasi tutto da allora è mutato nella forma, quasi niente, si è costretti a concludere, nella sostanza: se infatti, come indica il rapporto SVIMEZ, masse sterminate di giovani sono ancora costrette a spostarsi da un capo all’altro dell’Italia inseguendo i propri sogni di personale realizzazione, quel sottile filo rosso di cui si diceva non si è allora affatto spezzato nei decenni e, ancora oggi, dopo mezzo secolo, segnala come l’ago in una bussola la stessa medesima direzione di allora: da Sud a Nord!

Sono mutati profondamente i particolari e le manifestazioni di uno sfondo divenuto nel frattempo post-industriale: le valigie di cartone colme di stracci e vivande nelle stazioni hanno lasciato il posto ad agevoli trolley riempiti di notebook di ultima generazione o lettori iPod con cui intrattenersi e ingannare l’attesa di un viaggio, il quale potrebbe risultare discretamente lungo e noioso anche nel XXI secolo qualora non si abbia avuto modo di prenotare un volo low-cost su Internet.

Tutto è mutato, tranne forse l’essenziale: quel particolare mondo industriale post-bellico nel cui ambito gli storici hanno rilevato una importante matrice del divario economico nel Paese è definitivamente tramontato nei suoi costituenti, non altrettanto può dirsi tuttavia per il divario stesso che lo caratterizzava.

Individuare le ragioni di ciò è compito di critica e auto-critica che richiede un’analisi complessa dell’intera realtà economico-sociale in cui viviamo, compito che non si tenta nemmeno di accennare qui ma che basti indicare al lettore come impresa conoscitiva cui lo si vorrebbe spronare per il bene del Mezzogiorno stesso.

Qualcosa alla rovescia

di Pier Paolo Tarsi

Mi alzo, è molto tardi, è pure domenica mattina, il più infame dei giorni. È quasi ora di pranzo, ma non posso comunque rinunciare a un caffè. Mi vesto con le prime cose che trovo, oggi i prescelti sono un jeans e un maglioncino nero con una lampo difettosa che si chiude con enormi sforzi sul petto. Sono molto previdente in certe cose e prima di andare al bar penso bene di fermarmi un attimo da un tabaccaio aperto anche nei festivi. Non mi è affatto simpatico il tipo, un burbero che a mala pena ti guarda in faccia dandoti il resto. L’uomo tuttavia, con mia grande sorpresa, questa volta mi scruta con attenzione non appena entro nel suo negozio, mi segue con lo sguardo finché, fissandomi intensamente per qualche secondo, addirittura accenna a un sorriso. Mi porge con gentilezza il resto, si risofferma sul mio viso mentre quel suo mezzo sorriso si allarga sempre più, tanto che contagiandomi gli rispondo muovendo qualche muscolo facciale.

Lo so, non sono stato molto espansivo, ma è il massimo che riesco a fare di domenica mattina. Non posso più aspettare per un caffè e per evitare di riprendere l’auto parcheggiata in terza o quarta fila decido di entrare nel bar più vicino. Detesto anche questo posto, a servire al bancone c’è una signora dall’aria sempre grigia, con un’eterna espressione spenta e tetra, una donna musona e triste insomma. Guardandola mentre ti prepara qualcosa hai quasi l’impressione che sbuffi, il timore che da un momento all’altro ti sbotti contro un  “Senti bello, vedi di fartelo a casa il caffè la prossima volta eh!”. Di fronte a

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