di Armando Polito

L’antonomasia, cioè quella figura retorica mediante la quale si indica una persona o una cosa non col sui nome proprio ma con uno generico e con riferimento ad una sua nota qualità e/o al luogo d’origine, in fondo, rientra nella più vasta famiglia dei traslati o metafore e non è, come si potrebbe essere indotti a credere con una punta di supponente pregiudizio e stupido razzismo, appannaggi esclusivo della lingua aulica, anche perché la fantasia, che è alla base di qualsiasi metafora, non alberga solo nell’animo dei dotti. E così l’antonomasia, che questi ultimi applicano prevalentemente alle persone (il poverello d’Assisi per san Francesco; il segretario fiorentino per Machiavelli e, per non trascurare il nostro territorio, l’uomo di Maglie per Aldo Moro e, meno conosciuto, nonostante la saga di Fernando Sammarco, il leone di Messapia per Artas), la cultura contadina, forse più rispettosa non solo degli uomini ma anche delle piante, si è inventato lamàscinu.
Nel rispetto della pronuncia, in cui la s si sente raddoppiata, a cominciare dal titolo avrei dovuto scrivere più correttamente lamàšcinu, ma questo avrebbe finito per rendere infausto pure il destino di lamàsscinu, data l’assenza di š sulla tastiera, dove ormai un po’ per ignoranza, un po’ per pigrizia si batte è invece di é.
Parto, come di consueto, dal Rohlfs, nel cui vocabolario la voce è trattata nel modo che segue.

Al maestro tedesco si rifanno nel loro vocabolario del dialetto neritino Enrico Carmine Ciarfera e Mario Mennonna, con la differenza in un dettaglio.

Al δαμάσκηνον (leggi damàskenon) del Rohlfs è subentrato damaskènon, che vorrebbe essere trascrizione di un greco δαμασκῆνον. Non ho nulla da eccepire sulla sostanza dell’etimo ma ho da fare alcune osservazioni di natura formale nel tentativo di sottrarre la voce al cono d’ombra che sembra avvolgerla per via di due dettagli che non saranno sfuggiti al lettore più attento. l primo riguarda l’accento, il secondo il passaggio d->l-, fenomeno fonetico anomalo e per il quale non può essere messa in campo nemmeno l’ultima spiaggia, cioè l’analogia, che pure richiederebbe l’esibizione di almeno un altro esempio.
ACCENTO
Preliminarmente va detto che entrambe le forme prima riportate sono errate, perché quella corretta è δαμασκηνόν (leggi damaskenòn). Il δαμάσκηνον (leggi damàskenon) del Rohlfs, in particolare, appare come una strumentale forzatura per giustificare la retrazione dell’accento (tecnicamente detta sistole) di lamàscinu. Dal greco (quello corretto) δαμασκηνόν deriva il latino damascēnum. A beneficio di chi non conosce il latino occorre precisare che il segno – posto sulla e sta ad indicare che quella vocale è lunga, ragione per la quale la parola, in base alle regole della pronuncia del latino, va letta con l’accento su questa vocale, cioè damascènum. Sulla suggestione di quest’ultimo Ciarfera e Mennonna si saranno inventato a loro volta il greco damaskènon, come il Rohlf da lamàscinu era risalito ad un altrettanto inesistente δαμάσκηνον.
E proprio col latino damascènum prenderemo le mosse da due fonti particolarmente significative pure per il contesto prodigiosamente utile al taglio dell’indagine. Ecco l’attestazione che si legge in Plinio (I secolo d. C.), Naturalis historia, XV, 12: In peregrinis arboribus dicta sunt Damascena, a Syriae Damasco cognominata, iam pridem in Italia nascentia, grandiore quamquam ligno et exiliore carne nec unquam in rugas siccant, quoniam soles sui desunt. (Tra gli alberi forestieri sono annoverati i Damasceni, così sopranominati da Damasco di Siria, che già da tempo nascono in Italia, sebbene col nocciolo più grande e la polpa più sottile e [i frutti] non diventano mai rugosi seccando, perché manca il sole della loro terra)
Una sorta di trascrizione poetica del testo pliniano (che oggi, se fosse di moda il latino, potrebbe essere prosaicamente sfruttata, magari detta da una sensuale voce femminile, per pubblicizzare un lassativo …) è in Marziale (I-II secolo), Epigrammata, XIII, 29: Pruna peregrinae carie rugosa senectae/sume: solent suri solvere ventris onus (Prendi prugne rugose per il disfacimento della forestiera vecchiaia: son solite sciogliere il peso del ventre indurito).
Il Damascèna di Plinio è il neutro plurale sostantivato dell’aggettivo Damascènus/ Damascèna/ Damascènum, per cui alla lettera si traduce cose di Damasco, indicazione generica alla quale, pero, gli altri dettagli, confermati da Marziale, conferiscono la fondata possibilità di identificazione più ristretta, cioè con gli appartenenti al genere Prunus.
Essi sono tanti che è praticamente impossibile dire quando e da chi il Prunus domesticus (nome scientifico del lamàšcinu) sia stato importato dalla Siria. Sono state formulate al riguardo ipotesi diverse, dai Crociati ai monaci benedettini, ma non ho, anzitutto, la competenza per vagliarle e poi questo esula dal taglio di questa ricerca. Essa, invece, prosegue facendo notare come nel Rohlfs e in Ciarfera-Mennonna nella voce dialettale è segnato l’accento, cosa che in testi di linguistica, siano essi saggi o vocabolari (questi ultimi soprattutto se dialettali), dovrebbe avvenire sempre, anche se per convenzione una parola sulla quale non è segnato l’accento si intende piana. In passato non sempre ciò avveniva e quanto segue ne è la dimostrazione.
A) Pietro Corsellini (detto Canterino), poeta senese nato nel 1347, autore, fra l’altro, di Ternario sulla natura della frutta, un poemetto pubblicato per la prima volta da Antonio Lanza in Lirici toscani del Quattrocento, Bulzoni, Roma, 1975; cito i versi 66-69 da p. 763 del v. II: Susine d’ogni fatta, a non dir fole;/dico le melaruole ed agustine/ed avorie e ballocce ancor vi porto,/e bufale, acetose e amassine.
Amassine non mostra accento e c’è da presumere che anche così appare nel manoscritto da cui il testo è stato trascritto. Questo plurale di amasina (sia da leggere amàsina o, come convenzione vorrebbe, amasìna) torneremo alla fine; per ora basta notare il genere femminile che, con poche eccezioni, è quello del frutto (ma non per lamàscinu; e pensare, capricci della lingua, che l’italiano fico in salentìno è fica.
B) Giovanni Battista Tedaldi (1495-1526), Discorso dell’agricoltira, Allegrini, Firenze, 1776, p. 70

Per la prima volta appare segnato l’accento, a meno che non sia stato aggiunto con la trascrizione. I testi successivi, non essendo postumi (e, dunque, controllati dagli autori prima di essere stampati) dovrebbero essere immuni, almeno teoricamente, da rischi di questo tipo.
C) Bernardo Davanzati, Coltivazione toscana delle viti e d’alcuni arbori, Giunti, Firenze, 1600, p. 31

D) Vocabolario degli Accademici della Crusca, IV edizione (1729), p. 166

E) Niccolò Tommaseo-Bernardo Bellini, Dizionario della lingua italiana, Fratelli Masi & , Bologna, 1819, p. 203

L’accento è segnato solo sulla voce femminile, ma la croce che precede entrambe ce le fa intendere come obsolete.
F) Vocabolario della lingua italiana già compilato dagli accademici della Crusca ed ora novamente corretto ed accresciuto dall’abate Giuseppe Manuzzi, David Passigli e soci, Firenze, 1833, tomo I, parte I, p. 173

Qui l’albero, dichiarato morto nel nome nella precedente attestazione, appare resuscitato.
G) Pietro Fanfani, Vocabolario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze, 1855,tono I, p. 91

Per la prima volta si vede l’accento su entrambe le voci (su quella maschile era apparso prima in B).
H) Vocabolario degli Accademici della Cruaca, V edizione (1863), v. I, p. 470

I) Giovanni Pasquali, Nuovo dizionario piemontese-italiano, Libreria Editrice Moreno, Torino, 1869 p. 117

Qui amascino (che a distanza di cinque secoli riprende il vocalismo del fiorentino amascina di A) e amoscino sono considerati sinonimi del piemontese darmassin.
L) Giuseppe Gavuzzi, Vocabolario italiano-piemontese, Tipografia Fratelli Canonica, Totino, 1896, 63

La grafia in corsivo accomuna amoscina a susina, come se ne fosse a tuttgli effetti un sinonimo italiano. La variante Damassìin, poi, col suo provvidenziale accento autorizza a pensare più ad un amoscìno che ad un amòscino.
M) Pietro Ottorino Pianigiani, Vocabolario etimogico della lingua italiana, Editrice Dante Alighieri, Roma-Milano, 1907, tomo I, p. 52

Ritorna l’accento già visto in B e in G.
A degna conclusione del libertino percorso fin qui seguito da questa voce, preciso che tutti i successivi dizionari recano amoscìno, cioè la forma foneticamente più corretta rispetto al padre latino damascènum. L’amòscino registrato alle lettere C, F è in linea con il neritino lamàscinu e su questa persecutoria sistole tornerò a breve, dopo aver detto che mi è incomprensibile come mai un filologo del calibro del Fanfani abbia optato per amòscino e non per amoscìno già quasi trent’anni prima adottato da Tommaseo-Bellini.
Da quanto fin qui riportato si rileva che lamàscinu si mostra più vicino all’amascina di A per quanto riguarda il vocalismo e all’amòscino di B, G e M per l’accento. Per quanto riguarda quest’ultimo, sulla sistole che esse presentano rispetto all’amoscìna di E (le altre varianti, non recando accento, potrebbero essere piane o sdrucciole), l’unica fedele al latini damascèna, la conclusione verrà dopo aver trattato il secondo problema (quello del passaggio d->l-), col quale questo primo appare connesso.
PASSAGGI d->l–
Qui tutto sembra nasce da una paretimologia, cioè un’etimologia popolare. Quello dell’etimologia è un campo in cui la saggezza popolare raramente ci azzecca, perché è richiesta una preparazione specifica e l’umile consapevolezza che il rischio di incappare nell’errore è già in atto prima di svoltare l’angolo. Lamàscinu è, sotto questo punto di vista, un caso da manuale, uno di quelli alla cui base c’è un equivoco grammaticale efficacemente puntellato anche dall’ignoranza della geografia. Cosa, d’altra parte, si può pretendere che sapesse o avesse voglia di sapere di Damasco un contadino del XV secolo (amascina di A), costretto per sopravvivere a spezzarsi ogni giorno la schiena e non solo quella? Eppure il destino spesso riserva sorprese, anche se il protagonista non assaporerà il gusto di questa sorta di inconsapevole vendetta compensativa, che prende le forme di una voce già vista in E (amoscìna) entrata nei comuni vocabolari della lingua nazionale.
Di seguito il lemma relativo tratto dal De Mauro.

Amoscino (da leggere amoscìno per la convenzione di cui s’è detto all’inizio) qui risulta nato nel XVI secolo ma abbiamo visto in A come amascina l’abbia preceduto di ben due secoli e come, grazie alla forza vivificatrice ed eternante dell’arte, questa parola, frutto sicuramente di deformazione popolare, risalente pure a molti anni prima dello stesso Corsellini, è giunta fino a noi. Se chi per primo l’inventò avesse saputo leggere e scrivere, molto probabilmente, sentendo dire damascìno, non avrebbe inteso d’amascìno. Se questo equivoco (in linguisica disagglutinazione o discrezione) per cui d iniziale è stata scambiata come frutto dell’elisione della preposizione da) non ci fosse stato, non sarebbe nato prima amascìno e poi (probabilmente per incrocio con altra parola di non facile identificazione) amoscìno, entrato, come ho detto, a gonfie vele nei vocabolari contemporanei, sia pure con la dicitura voce regionale toscana. Le voci che ho documentato si nostrano tutte prodotte da questo equivoco, che in lamàscinu appare ancor più complicato. Se, infatti per amascina vale la trafila damascèna(m)> d’amascìna> amascìna> l’amascìna, per lamàscinu sono ipotizzabili due diversi processi.
Il primo, autoctono e più complesso, prevede la trafila damascènu(m)>d’amascènu> amàscenu (con la sistole come nelle voci in B, G e M, dovuta all’accorciamento del nesso dopo l’isolamento di amascènu)>l’amàscinu>lamàscinu (agglutinazione dell’articolo)>lu lamàscinu. Il secondo suppone che lamàcinu sia voce importata, secondo la trafila amascìna>l’amascìna>lamàscina>lamàascinu>lu lamàscinu, dunque di ascendenza più fiorentina che piemontese (varianti simili non sono registrate altrove), non fosse altro che per il vocalismo di A e per l’accento di B.
Meno male che la gemella eterozigote susina (da Susa, antica città persiana; dunque un’altra antonomasia) ha avuto una vita meno avventurosa, non prestandosi ad equivoci paretimologici, perché, se è vero che sus’(da suso=sopra) esisteva, l’Istituto Nazionale Assicurazioni sarebbe nato molti secoli dopo …
