OMAGGIO AL POTERE DELLA PAROLA E ALLA SUA CAPACITÀ DI IN-CANTARE
di Maria Antonietta Epifani
Il linguaggio con il quale noi parliamo con gli altri, quello di tutti i giorni, si è modificato man mano in un linguaggio nel quale è difficile trovare la parola giusta, un linguaggio che porta a poco a poco a superficializzare i rapporti umani, appiattendoli nel dire consueto.
Essendo originariamente incantesimi, le parole conservavano ancora intatta la vis primordiale del suono che crea e dà contenuto alla realtà immaginata. L’energia segreta della parola è stata custodita nella parola stessa, che può essere parlata, cantata e dunque ascoltata. Il soffio, l’alito della parola “incantata”, diviene strumento di attivazione di quel principio terapeutico interno alla realtà che ci consente di “leggere” la stessa realtà, condividerla e comunicarla.
Paolo Vincenti, ricercatore, scrittore e saggista, questo lo ha compreso, consegnandoci un saggio avido di conoscenza che non rimane chiusa nel suo forziere, ma che consegna alla comunità di lettori perché ne possano fare tesoro. Infatti, “i diletti e le divagazioni erudite, interessi, ansie e ilarità aggallano in questo libello che, pur con i suoi pregi e difetti, fra articoli, saggi e note, costituisce, negli elzeviri qui raccolti, un significativo squarcio del più recente periodo della mia vita”, dirà l’autore. Il suo è un parlare autentico che ha attinto alla ricchezza espressiva della nostra lingua e ha recuperato anche i perimetri destinati al silenzio. Le parole, in un continuo inseguirsi, formano una trama appetitosa: il risultato è una raccolta stuzzicante che permette al lettore di entrare in spazi insoliti. E così, l’autore alterna parole “domenicali” a parole “feriali”, parole cariche di senso a parole svuotate, esperimenti verbali a consuetudini consolidate, pescando nella curiosità e creatività linguistica tipica del bambino, spazio elettivo dove il prestare attenzione è, ai suoi occhi, estremamente importante.
Questo è un libro per persone affette dal morbo della curiosità che penetra, come fosse un’idea guida, nelle pagine avvolgendo razionalmente ed emotivamente chi legge. In fondo cos’è la curiosità? È quella motivazione cognitiva che “spinge i creativi a comporre le proprie opere, si manifesta come ispirazione, fervore, uzzolo, ghiribizzo, sfizio, […] muove i ricercatori e gli esploratori, spinge i naviganti a mettersi in viaggio”. E riprendendo l’immagine di Ulisse, «l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto» (Inferno, XXVI, 98), si affaccia quella curiosità che rende l’uomo diverso dalle bestie: «considerate la vostra semenza/: fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e canoscenza»(Inferno, XXVI,118-120). In Simulacri scrissi che la curiosità, è un demone che «eccita la sperimentazione intellettuale e allontana dall’inquinamento culturale del consueto per fuggire dalla serialità del quotidiano e dalla norma»[1].
Il libro leggero (florealia, stromata o livre de chevet, come lo definisce il suo autore), composto da una serie di piccoli saggi altalenanti fra il sapere antropologico e sociologico, storico e sociale, letterario e musicale, gastronomico e massmediale, è appunto un “Gran Varietà”, così come recita il titolo. È un viaggio intellettuale che rende manifeste tutte le facce del proteiforme Paolo Vincenti, il quale ha fornicato con le diverse aree del sapere, divertendosi e facendoci divertire. È ancora una citazione di un programma televisivo “Il Cappello sulle Ventitrè”, trasmesso da Rai 2 dal gennaio 1983 a settembre 1986 nel palinsesto delle trasmissioni di seconda serata del sabato a fare da titolo all’introduzione.
I piccolo saggi, “quasi tutti figli di momenti alati di brio e ilarità”, sono occhiate sul tempo altro e sul nostro tempo, ritratti di tendenze, gusti, e interessi, frutto di una memoria erudita di chiara matrice libresca e di letture attinte alla contemporaneità. Il libro, che riprende ambiti di ricerca di cui l’Autore si è negli anni occupato, può essere letto preferendo ciò che desta l’interesse personale, senza che questo faccia perdere il filo della narrazione, che facilmente si ritrova. Le peregrinazioni fra passato e presente sono la spia che il protagonista indiscusso di questi piccoli saggi è la necessità di comunicare. Così, nel tempo riservato alla lettura di vecchie e nuove narrazioni, si apre un varco verso una dimensione altra: lo spazio dell’anima. Un tempo senza tempo che si dilata o si ferma, procede in avanti o guarda indietro; un tempo che può somigliare a un istante o incontrarsi con l’eternità. In questo momento storico iper-connesso, l’orecchio è sordo ai richiami dell’anima e sappiamo quanto le storie siano terapeutiche, cosa ben nota agli antichi cantastorie.
Kafka nella lettera a Oskar Pollak affermava che si dovrebbero leggere solo quei libri che “mordono e pungono” e che abbiano sul lettore l’effetto di una disgrazia che fa male, come per esempio la morte di qualcuno al quale eravamo legati; i libri dovrebbero essere capaci di rompere quel blocco di ghiaccio che ognuno di noi ha e chissà che questo non sia stato il pungolo che ha mosso la stesura di Gran Varietà.
[1] Catalogo della mostra di Uccio Biondi del 2003, a cura di Massimo Guastella, presso Cantieri Teatrali Koreja di Lecce