Voltagabbana

“Per il galletto sulla torre ogni vento è buono”. Proprio come i galletti segnavento che ancora vediamo sulle terrazze di alcune abitazioni, i voltagabbana seguono il vento che tira e si comportano di conseguenza. Essi cambiano la casacca all’occorrenza e riescono sempre a riciclarsi con ogni governo, proprio come il protagonista del poemetto satirico Il Brindisi di Girella di Giuseppe Giusti (dedicato a Talleyrand) il quale riesce a seguire sempre il vento giusto e sa cogliere l’opportunità con sfacciata ipocrisia, “Franza o Spagna purchè se magna”, insomma. Il popolo è bue, si sa, ed allora oggi tutti dietro alla destra, come domani saranno dietro alla sinistra e domani l’altro magari al centro: “come intona l’abate, i frati rispondono”, tutti dietro a chi comanda, similmente al gregge che segue il cane pastore.

Certo, è difficile diventare “egregio” non solo sulle intestazioni delle lettere ma nella vita; bisogna sforzarsi almeno di tracciare un solco e non seguire semplicemente quello degli altri.

Anch’io provo onestamente quanto risolutamente ad allontanarmi dal luogo comune, come diceva Callimaco. Nella sua opera più importante, gli Aitia, nel Prologo, il poeta si scaglia contro i suoi avversari, gli invidiosi Telchini, dicendo: “…i luoghi per cui non passano i pesanti carreggi, quelli tu devi calcare; sull’orme comuni degli altri mai spingere il cocchio, né per il cammino di tutti, anzi le vie più strane, anche se di angusto passaggio, quelle tu prenderai. Giacché per coloro cantiamo che ambiscono l’armonico suono delle cicale, e non già amano il frastuono degli asini”[1].

Forse peggiori dei voltagabbana ci sono solo gli adulatori. “Vanità di vanità”, per citare la Bibbia: ad un plotone di adulatori corrisponde un esercito di adulati, cioè se il mondo è pieno di leccaculo evidentemente ci sono anche tanti vanesi che amano sentirsi blanditi, corteggiati. Ma se uno vuole essere incensato è probabilmente perché la sua anima puzza ed il fetore è talmente ributtante che ha bisogno di essere coperto, come le bagasce si truccano vistosamente per nascondere rughe e imperfezioni fisiche.

Sì sì, evitiamo gli adulatori. È facile finire da loro blanditi e cadere nella trappola. Essi direbbero qualsiasi cosa per compiacere. E a forza di leccare, questi servi fanno carriera e riescono ad arrivare nei posti di comando. Dice un adagio popolare: “Alla scuola dei ciuchini ogni astuto somarone, con moine ed inchini, si conquista il suo barone. Passa un giorno, passa l’altro, li ritrovi poi al liceo, e qualcuno, un po’ più scaltro, a ragliare all’ateneo”[2].

Le moine alla lunga stancano. Quelle svenevoli finte delicatezze molciono un animo predisposto all’adulazione ma non possono averla vinta su chi, come me, detesta l’affettazione. Io mi accorgo subito se un importuno è semplicemente scemo o è un lecchino. Anche perché i lecchini tanto si piegano che scoprono le terga e infatti hanno la faccia come il culo.

Poi ci sono quelli che non hanno un minimo di personalità e scimmiottano i gesti altrui. C’è chi trascorre tutta la vita all’ombra di qualcun altro. Si tratta di meschini replicanti che emulano il fare degli altri perché non gli riesce di avere una certa originalità o almeno una cifra personale e distintiva, e torniamo a Callimaco.

Il lecchino può essere petulante: “pussa via, lontano da me!”, mi vien fatto di dire. Ed anche il voltagabbana deve asolare da me lungi. Sloggiate, brutta gente, la mia non è casa vostra.

 

[1]Callimaco, Gli Aitia, in Guido Carotenuto, Letteratura greca. Storia testi traduzioni, Treviso, Canova, 1989, p. 157.

[2] Dal Calendario di Frate Indovino.

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