Note su alcuni sigilli di Ugo, conte di Brienne e di Lecce

di Marcello Semeraro (Società di Storia Patria per la Puglia – sez. di Brindisi)

 

Curiosando, per delle ricerche in corso, negli archivi francesi, mi sono imbattuto in un magnifico sigillo appartenuto a Ugo (+1296), conte di Brienne (dal 1261) e di Lecce (dal 1271), figlio cadetto di Gualtieri IV, conte di Brienne e di Giaffa, e di Maria di Lusignano[1], sigillo che ha dato il la a questa ricerca (fig. 1).

Fig. 1 – Sigillo e controsigillo di Ugo di Brienne, pendenti da un atto del 1269/70. Troyes, Archives départementales de l’Aube, Inventaire sigillographique du chartrier de l’abbaye de Larrivour, 4 H 34-13

 

Fra i più importanti vassalli dei conti di Champagne, i Brienne, in linea con gli usi riscontrabili presso l’alta aristocrazia europea, si servirono di sigilli già a partire dalla metà del XII secolo, imitando in ciò le abitudini dei loro sovrani[2]. Quello di Ugo, conservato presso l’Archivio Dipartimentale dell’Aube[3], è un sigillo rotondo di cera verde brunita, di 70 mm di diametro, appeso mediante cordicelle di seta rossa a un atto del 1269/70. Di tipo equestre da guerra, esso mostra un cavaliere in alta tenuta araldica che monta un cavallo galoppante a destra, le zampe del quale, al pari della spada del guerriero, oltrepassano l’esergo. Il nostro Ugo indossa un usbergo e una cotta d’armi, ha la testa nascosta da un elmo chiuso a cielo piatto, e porta nella mano destra una spada e nella sinistra uno scudo recante l’arma dei conti di Brienne (che è d’azzurro, seminato di plinti d’oro, al leone attraversante dello stesso; fig. 2), replicata anche sulla gualdrappa del cavallo.

Fig. 2 – Lecce, chiesa dei SS. Niccolò e Cataldo, stemma dei conti di Brienne nella variante con leone rivolto

 

Sotto il ventre del destriero si intravede un giglio, figura probabilmente allusiva alla parentela del conte con gli Angioini e, dunque, con la dinastia capetingia[4]. La legenda dice: + SIGILLVM HVGONIS COMITIS DE BRENA. Il controsigillo, di 28 mm di diametro, è di tipo araldico e mostra la stessa insegna entro uno scudo gotico. La legenda recita: + SECRETVM COMITIS BRENE. Di Ugo conosciamo anche un altro sigillo, non datato in quanto staccato dal documento originario, appartenente allo stesso tipo equestre, ma di dimensioni maggiori (75 mm di diametro)[5]. In esso il cavaliere innalza un dragone come cimiero; la stesso figura, secondo una pratica documentata a partire dalla fine del XIII secolo[6], è posta sulla testa del cavallo.

Lo scudo e la gualdrappa sono armeggiati con i plinti e il leone di Brienne. La legenda, purtroppo, è andata distrutta, ma quella presente sul controsigillo di tipo araldico, nel cui campo figura uno scudo di Brienne entro una cornice esalobata, è ancora leggibile, seppur parzialmente: …BRENNE(NSIS) LICIE(NSIS) COMITIS. Da ciò risulta evidente che si tratta di impronte ottenute da matrici incise dopo l’infeudazione della contea leccese (1271).

Ad ogni modo, è la prima volta, come ha giustamente osservato Marie-Adélaïde Nielen, che un conte di Brienne fa uso nel suo sigillo dei suoi differenti titoli. Ai Brienne, è bene ricordarlo, la contea leccese era giunta a seguito del matrimonio (celebrato, per alcuni, nel 1200) fra Gualtieri III e Albiria, figlia di Tancredi d’Altavilla[7]. I sigilli esaminati in questa sede mostrano dunque un personaggio fiero del suo lignaggio, dei suoi titoli e della sua identità cavalleresca. Nella speranza di ulteriori sorprese, magari ritracciabili in qualche archivio italiano, mi è sembrato utile proporli all’attenzione degli studiosi e dei curiosi.

[1] Nel 1277 Ugo di Brienne sposò Isabella de La Roche, sorella del duca di Atene Giovanni I de La Roche e vedova di Goffredo di Bruyères, barone di Caritena, che apportò al marito la metà di questa baronia in Morea. Da Isabella ebbe due figli: Gualtieri V, l’erede, e Agnese. In seconde nozze, nel 1291, impalmò Elena Angelo Comneno, figlia di Giovanni I di Tessaglia e vedova del duca di Atene Guglielmo de La Roche (cognato dello stesso Ugo), dalla quale ebbe Jeannette. Fu anche reggente del ducato di Atene nel periodo della minore età del nipote Guido II de la Roche. Inoltre, nel 1296 fu nominato capitano generale della Terra di Otranto, con in compito specifico di difendere Brindisi e il suo porto. Cfr. W. Ingeborg, Brienne, Ugo, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 14, Roma 1972, ad v.; A. Cassiano, B. Vetere (a cura di), Dal giglio all’orso: i principi d’Angiò e Orsini del Balzo nel Salento, Galatina 2006, p. XI; V.M. Talò, La Santa Casa di Nazareth da Taranto-Brindisi a Loreto, Montalto Uffugo Scalo 2019, p. 27.

[2] Per approfondimenti sulla sfragistica e l’araldica dei conti di Brienne, rimando a M.-A Nielen, Du comté de Champagne aux royaumes d’Orient: sceaux et armoiries des comtes de Brienne, in Chemins d’outre-mer. Études d’histoire sur la Méditerranée médiévale offertes à Michel Balard, éd. par D. Coulon, C. Otten-Froux et al., Paris 2004, pp. 589-606.

[3] Troyes, Archives départementales de l’Aube, Inventaire sigillographique du chartrier de l’abbaye de Larrivour, 4 H 34-13.

[4] Come di ricava dal fatto che Carlo I d’Angiò soleva qualificarlo come «consanguineus» (cfr. Ingeborg, Brienne, Ugo cit.). Questa caratteristica di inserire un elemento figurativo sotto il ventre del cavallo era già stata adottata da Erardo di Brienne, signore di Ramerupt (+1246). Si imitava, con ciò, una moda introdotta dal conte Tebaldo IV di Champagne (si veda Nielen, Du comté de Champagne cit., p. 596).

[5] Ivi, p. 601.

[6] Cfr., in merito, L. Hablot, Manuel d’héraldique emblématique médiévale, Tours 2019, p. 195.

[7] B. Vetere, Dal giglio all’orso attraverso il leone dei Brienne e la stella dei del Balzo, in Dal giglio all’orso cit., p. IX.

 

Brindisi. Santa Maria del Casale e l’affresco di Goffredo I di Charny, il Cavaliere della Sindone

di Marcello Gaballo

Il Salento è una terra ricca di tesori nascosti che attendono ancora di essere svelati e valorizzati. È quindi con grande piacere che riferiamo di una importante scoperta, fatta di recente dal nostro collaboratore Marcello Semeraro, studioso di araldica e sigillografia medievali, nella chiesa di Santa Maria del Casale in Brindisi.

In un corposo articolo che sarà pubblicato sul prossimo numero, di imminente uscita, della qualificata Rivista di storia della Chiesa in Italia, lo studioso oritano analizza e attribuisce una parata di stemmi cavallereschi affrescata sulla parete meridionale del santuario brindisino, rimasta fino ad ora anonima (fig. 1).

Santa Maria del Casale, Charny
fig. 1

 

L’ipotesi avanzata da Marcello Semeraro, supportata da una serie di riscontri storici e araldici, è quella di un affresco votivo commissionato dal cavaliere francese Goffredo I di Charny – considerato il primo possessore dell’attuale Sindone di Torino – e dai suoi compagni d’armi in occasione della tappa brindisina del viaggio di andata o di ritorno dalla crociata di Smirne (figg. seguenti).

 Santa Maria del Casale e l’affresco di Goffredo I di Charny

 Santa Maria del Casale e l’affresco di Goffredo I di Charny

L’esame incrociato dei dati ricavati dalle testimonianze araldiche (stemmari e sigilli medievali) e dalle fonti storiche relative alla crociata smirniota consente, inoltre, all’autore non solo di ricostruire il contesto politico e devozionale della committenza, ma anche di circoscriverne cronologicamente l’esecuzione agli anni 1344-1346, a ulteriore dimostrazione dell’importanza dell’araldica quale scienza documentaria della storia.

Nella sua accurata indagine, alla quale ovviamente si rimanda per maggiori dettagli, lo studioso si dimostra abile nel tenersi alla larga da ogni scivolone nel quale sarebbe stato facile incorrere quando si tratta di Geoffroy de Charny, la cui storia personale è molto spesso mal raccontata in pubblicazioni dedicate principalmente alla Sindone di Torino, che qui rimane opportunamente sullo sfondo, sebbene non manchi chi, fra i sostenitori di una provenienza orientale della reliquia, ipotizza che il cavaliere francese l’abbia trovata proprio a Smirne, attraverso percorsi su cui esiste poca concordia e nessun elemento di certezza.

 Santa Maria del Casale e l’affresco di Goffredo I di Charny

Il contributo di Semeraro – che si avvale, fra l’altro, della collaborazione di Andrea Nicolotti (fra i massimi studiosi della Sindone) e di alcuni fra i maggiori araldisti europei – mette insomma in luce un singolare aspetto della natura storica del Sud Italia in quanto snodo fondamentale della circolazione europea di uomini e idee, e cerniera tra Mediterraneo occidentale e orientale.

Sullo sfondo campeggiano la città di Brindisi, il suo porto e il santuario mariano costiero di Santa Maria del Casale, uno straordinario monumento tutt’altro che provinciale, la cui fortuna si giocò soprattutto nel più ampio contesto della politica euro-mediterranea del Trecento e delle ambizioni, mai realizzate fino in fondo, di conquista dell’Oriente da parte dei sovrani della dinastia angioino-napoletana e dei principi del ramo tarantino.

 Santa Maria del Casale e l’affresco di Goffredo I di Charny

L’auspicio, pertanto, è che questa importante scoperta possa offrire alla ricerca storica sul «cavaliere della Sindone» e sulla chiesa di Santa Maria del Casale un solido terreno per futuri e auspicabili approfondimenti.

La freccia e il delfino: alla scoperta di un antico (e dimenticato) palazzo di Manduria

Fig. 1 – Manduria, palazzo Ciracì, angolo fra vico Commestibili e vico Carceri Vecchie, particolare dello stemma

 

di Marcello Semeraro

Lo stemma oggetto del presente studio si trova a Manduria, posto sull’angolo dell’edificio dove si incontrano vico Commestibili e vico Carceri Vecchie (fig. 1). Si tratta di una porzione dello storico palazzo Ciracì (oggi De Laurentiis), il cui prospetto principale domina il tratto iniziale di via del Fossato. Il palazzo attuale si presenta pesantemente rimaneggiato, fra abbellimenti del XVIII secolo e trasformazioni successive, ma conserva ancora tracce di architetture cinquecentesche, a testimonianza di una storia piuttosto movimentata[1].

L’esemplare araldico, rimasto fino ad ora anonimo, è costituito da uno scudo sagomato e accartocciato, il cui campo appare suddiviso in due metà da una linea di partizione chiamata partito: a destra[2] si vede una freccia cadente (vale a dire con la punta verso il basso), mentre a sinistra compare un delfino uscente da un mare ondato e accompagnato in capo da tre gigli male ordinati (cioè posti 1, 2). Dall’osservazione del contenuto blasonico si evince chiaramente che la composizione in oggetto, databile al XVI secolo[3], presenta tutte le caratteristiche di un’arma di alleanza matrimoniale, una combinazione araldica che si ottiene associando due stemmi diversi in uno stesso scudo per mezzo di una partizione (generalmente un partito o un inquartato).

In questo tipo di rappresentazione araldica l’arma del marito precede quasi sempre quella della moglie ed è così anche nel nostro caso. Lo stemma visibile nel primo quarto è attribuibile ai Saetta, famiglia di «nobili viventi» originaria di Lecce, che nella prima metà del XVI secolo si trasferì a Manduria-Casalnuovo, dove si distinse nel commercio di grano e nell’esercizio di importanti cariche amministrative (alcuni dei suoi membri furono sindaci, auditori, erari e luogotenenti)[4].

Tale attribuzione trova un importante riscontro nell’arma assegnata ai Saetta che figura nello stemmario Montefuscoli – un manoscritto araldico risalente al XVIII secolo, conservato presso la Biblioteca Universitaria di Napoli –, la quale differisce dall’esemplare manduriano per la presenza di due stelle ai lati della freccia (fig. 2).

Fig. 2 – Arma Saetta, Imprese ovvero stemme delle famiglie italiane raccolte da Gaetano Montefuscoli da diversi libri genealogici, blasonisti ed altri, Napoli, Biblioteca Universitaria, MSS. 121, vol. III, p. 131

 

Quest’ultima figura è evidentemente allusiva al cognome (freccia-saetta) e riconduce l’insegna innalzata da questa famiglia alla categoria delle armi parlanti, un tipo di composizione molto frequente nel blasone europeo[5].

Proseguendo nella lettura dello stemma litico in esame, si nota che la figura principale che carica il secondo quarto del partito è un delfino, il «re dei pesci», un animale non molto frequente in araldica, impiegato spesso come figura parlante[6] (fig. 3).

Fig. 3 – Stemma della famiglia veneziana Dolfin, Insignia …VII. Insignia Venetorum nobilium II (A-IP), Monaco di Baviera, Bayerische StaatsBibliothek, Cod. icon. 272, fol. 136r

 

Grazie all’ausilio dei dati genealogici contenuti nel Librone Magno – il celebre manoscritto iniziato dall’arciprete Lupo Donato Bruno nel 1572 e continuato da altri dopo la sua morte, che contiene le genealogie di tutte le famiglie casalnovetane dalla metà del Quattrocento alla fine del Settecento – è stato possibile risalire con certezza all’unione matrimoniale che rese possibile la rappresentazione contenuta nel nostro scudo (fig. 4)[7]. Mi riferisco alle nozze fra Bonifacio Saetta, un mercante di origini leccesi, capostipite del ramo casalnovetano, e Giulia Maria Delfino, appartenente ad un’influente famiglia di notai locali[8], alla quale, ovviamente, si riferisce lo stemma raffigurato nel secondo quarto[9].

Fig. 4 – Genealogia della famiglia Saetta, Librone Magno, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, MS. Rr/1-3, fol. 641r

 

Il nostro Saetta fu un personaggio di primo piano nella vita politica ed economica casalnovetana della seconda metà del XVI secolo. Fu auditore (assessore) nel 1564-1565 e nel 1567-1568, luogotenente-castellano nel 1558-1559 e infine sindaco nel 1575-1576[10]. Lo storico Gérard Delille lo descrive come uno dei principali alleati e partner commerciali di Pirro Varrone, l’ebreo convertito al cristianesimo che per circa un trentennio fu il vero detentore del potere politico ed economico del paese[11].

Una volta assodata con certezza l’attribuzione dello stemma al nostro Bonifacio e alla moglie Giulia Maria, ho provveduto ad interpellare altre fonti storiche alla ricerca di riscontri sul nome dei Saetta quali antichi proprietari del palazzo. La prova decisiva, in tal senso, è arrivata dagli Stati delle Anime, vero e proprio censimento della popolazione locale, che veniva compilato dai parroci solitamente in occasione della benedizione pasquale.

Dagli Status Animarum del 1693, in particolare, si evince che i discendenti di Bonifacio abitavano in una casa di loro proprietà sita «in via vulgariter dicta delle Stalle» (fig. 5)[12]. Nell’antica toponomastica di Casalnuovo, con questa denominazione, attestata sin dal 1508, si indicava proprio quella poi sarebbe diventata l’attuale vico Carceri Vecchie, esattamente dove si affaccia uno dei due prospetti sul cui angolo campeggia il nostro stemma[13].

Fig. 5 – Status Animarum (1693-1726), Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti , Manoscritti, MS. Rr/9, fol. 270r

 

Malgrado le trasformazioni subite dall’attuale palazzo nel corso del tempo, non vi sono ragioni per credere che l’insegna in esame si trovi al di fuori del suo contesto originario. È da ritenere, pertanto, che l’edificio di cui essa marca la proprietà sia effettivamente quello dove vissero i Saetta.

Gli studi più recenti dello storico svizzero Manfred Welti – che saranno pubblicati prossimamente e ai quali ho avuto modo di contribuire – dimostrano che lo stipite del ramo casalnovetano ebbe ottimi rapporti con Giovanni Bernardino Bonifacio (1517-1597), marchese d’Oria e signore di Casalnuovo e Francavilla, noto agli studiosi per il suo duplice aspetto di fine umanista e di precoce aderente alla riforma protestante, fuggito in modo rocambolesco nel 1557 con la conseguente confisca dei feudi[14].

Sul lato opposto di vico Carceri Vecchie si vedono ancora oggi i resti di un portale in stile catalano-durazzesco che secondo i più recenti studi sarebbe stato l’ingresso del cinquecentesco palazzo dei Bonifacio, feudatari di Casalnuovo[15]. Va da sé che se tale ipotesi fosse dimostrata, significherebbe le due famiglie abitavano proprio nelle immediate vicinanze.

Giunti a Casalnuovo in un periodo di eccezionale sviluppo, dovuto sia alla ricchezza derivata dall’agricoltura, sia al notevole flusso immigratorio [16], e approfittando della relativa apertura della nobiltà locale, i Saetta divennero in poco tempo una delle casate più potenti e cospicue del paese, arrivando a ricoprire più volte la carica più importante, quella di sindaco, alla quale, all’epoca, potevano avere accesso solo i maggiorenti del posto. Tuttavia, del loro stemma e del loro antico palazzo, situato in prossimità della cinta muraria, non è rimasta alcuna traccia nella storiografia locale. Ma il colpo più duro alla loro memoria è sicuramente quello inferto dall’incuria dell’uomo, che ha avuto come conseguenza il degrado dell’area compresa fra vico Commestibili e vico Carceri Vecchie. Se è vero che il compito della ricerca storica è anche quello di far conoscere il passato al fine di preservarne la memoria, l’auspicio è che i risultati di questa breve indagine possano contribuire alla conoscenza, alla valorizzazione e al recupero di un pezzo importante della storia e dell’architettura dell’antico centro abitato di Casalnuovo.

 

 

[1] Sul palazzo si veda C. Caiulo, Schede sull’architettura storica a Manduria, in «Quaderni Archeo», 8 (2007), p. 51.

[2] Va ricordato che in araldica la destra corrisponde alla sinistra dell’osservatore (e viceversa), perché lo scudo va considerato dal punto di vista del portatore.

[3] Al di sotto dello scudo, nello spazio di muro ricavato per collocare lo stemma sull’angolo, si legge il numero 62, probabilmente ciò che resta della data relativa all’anno in cui fu collocata l’insegna (1562?).

[4] Cfr. G. Delille, Le Maire et le Prieur. Pouvoir central et pouvoir local en Méditerranée occidentale (XVe-XVIIIe siècle), Roma 2003, pp. 181, 190 e cap. 7 (tab. 1); B. Fontana, Le famiglie di Manduria dal XV secolo al 1930, Manduria 2015, p. 173. Per le informazioni sulle cariche ricoperte dai Saetta, si vedano le schede (ad vocem) compilate dallo storico francese Gérard Delille, conservate in un apposito fondo presso della Biblioteca comunale Marco Gatti di Manduria; per la lettura dell’albero genealogico, invece, cfr. Librone Magno, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, MS. Rr/1-3, fol. 641r.

[5] Si chiamano armi parlanti quelle che contengono figure che richiamano, direttamente o indirettamente, il nome della famiglia del possessore dello stemma. Si tratta di una tipologia di armi che esiste sin dalla nascita del sistema araldico nel XII secolo e che costituisce circa il 20% degli stemmi medievali, con un aumento significativo in epoca moderna, grazie soprattutto alla diffusione che esse ebbero fra i non nobili e le comunità (cfr. M. Pastoureau, Une écriture en images: les armoiries parlantes, in «Extrême-Orient, Extrême-Occident», 30 [2008], pp. 187-198). L’indice di frequenza di questa categoria di armi è particolarmente elevato anche in Terra d’Otranto, Manduria compresa, come dimostrano i seguenti casi: un basilisco per i Basile, una candela per i Candeloro, un calice per i Coppola, un cuore per i Corrado, un leone per i De Leonardis, un fagiano per i Fasano, una fontana per i Fontana, un Gatto per i Gatti, un lupo per i Lupo, un colombo per i Palumbo, ecc. (cfr. N. Palumbo, Araldica civica e cenni storici dei comuni di Terra Jonica, Manduria 1989, pp. 355-362).

[6] Occorre ricordare che araldica il delfino è considerato un pesce e non un cetaceo, nozione, quest’ultima, che si affermerà solo a cavallo fra XVIII e il XIX secolo. È il re della fauna marina del blasone, l’equivalente acquatico del leone e dell’aquila. La sua rappresentazione araldica ha ben poco di naturalistico e risente, invece, di un tipico processo di «demonizzazione» dell’antico. Si raffigura normalmente in palo, con il corpo ricurvo a semicerchio, la testa e la coda rivolte verso il fianco destro dello scudo. Il muso ha un aspetto ferino, mentre la testa (che talvolta è coronata) è munita di bargigli e di cresta. Sul delfino araldico si vedano soprattutto M. Pastoureau, Traité dhéraldique, Paris 20085, pp. 152, 153, e M. C. A. Gorra, Il delfino nel mito, nell’estetica, nell’araldica, in «Il delfino e la mezzaluna», 1 (2012), n. 1, pp. 7-12.

[7] Cfr. Librone Magno cit., fol. 641r; sul manoscritto, invece, si veda G. Delille, Famiglia e proprietà nel Regno di Napoli (XV-XIX secolo), Torino 1988, p. 207.

[8] Sulla famiglia Delfino si vedano Fontana, Le famiglie di Manduria cit., p. 74, e P. Brunetti, Manduria tra storia e leggenda, dalle origini ai giorni nostri, Manduria 2007, p. 253.

[9] Benché non sia stato possibile trovare ulteriori riscontri sull’uso di tale stemma da parte di questa antica famiglia casalnovetana, faccio comunque notare che molte delle casate italiane il cui nome evoca un delfino presero proprio il cetaceo come figura parlante del proprio scudo (fig. 3). Qualche esempio di trova in G. B. di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Pisa 1886-1890 (rist. anast. Bologna 1965), vol. 1, pp. 355, 363.

[10] Fra i suoi discendenti si segnalano: il figlio Giovanni Bernardino, che fu erario negli anni Ottanta del Cinquecento; Giacinto, figlio di un altro Bonifacio Saetta e di Argentina Bruna, priore del Monte di Pietà (1655-1656, 1656-1657), erario (1657-1658, 1669-1670) e sindaco (1659-1660, 1676-1677, 1683-1684); e, infine, il figlio di quest’ultimo, Bonifacio, sposato con Anna Rosa Papatodero, sindaco nel 1697-1698. Anche queste informazioni sono state desunte dalle già citate schede di Gérard Delille (v. supra, nota 4). Da un atto notarile del 1588, inoltre, si ricava il succitato Giovanni Bernardino fu anche barone di Giurdignano (cfr. M. Alfonzetti, M. Fistetto, I protocolli dei notai di Casalnovo nel Cinquecento: regestazione degli atti notarili dei notai casalnovesi conservati nell’Archivio di Stato di Taranto, Manduria 2003, p. 342, n. 399).

[11] Cfr. Delille, Le Maire cit., pp. 190, 212.

[12] Cfr. Status Animarum (1693-1726), Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti , Manoscritti, MS. Rr/9, fol. 270r.

[13] Cfr. P. Brunetti, Manduria-Casalnuovo: le strade, le piazze, Oria 1999, p. 24; Id., Manduria tra storia cit., p. 268.

[14] Su Giovanni Bernardino Bonifacio si veda M. E. Welti, Dall’umanesimo alla riforma. Giovanni Bernardino Bonifacio marchese di Oria (1517-1557), Brindisi 1986.

[15] Cfr. Caiulo, Schede sull’architettura cit., p. 53; N. Morrone, Architettura del Rinascimento a Manduria, disponibile al seguente indirizzo: <https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/09/architettura-del-rinascimento-a-manduria/>.

[16] Brunetti, Manduria tra storia cit., pp. 258-263.

Le vicende del palazzo dei baroni Sambiasi a Nardò

UN VOLUME RICOSTRUISCE LE VICENDE DEL PALAZZO DEI BARONI SAMBIASI

La presentazione domenica 24 giugno (ore 20:30) in quello che oggi è Palazzo Sambiasi

 

di Danilo Siciliano

È in programma domenica 24 giugno alle ore 20:30 presso le sale di Palazzo Sambiasi (ex Monastero di Santa Teresa), in corso Garibaldi, la presentazione di Un palazzo un monastero – I Baroni Sambiasi e le Teresiane a Nardò, volume edito da Mario Congedo Editore, inserito nella collana della Diocesi di Nardò-Gallipoli e realizzato con Fondazione Terra d’Otranto e associazione Dimore Storiche Neretine. L’autore è Marcello Gaballo con la collaborazione di Domenico Ble, Daniele Librato, Armando Polito, Marcello Semeraro e Fabrizio Suppressa. L’introduzione è a cura di Annalisa Presicce. Il volume ricostruisce e chiarisce finalmente le vicende storiche e architettoniche di quello che fu il palazzo dei Baroni Sambiasi del ramo di Puzzovivo, che fu accorpato al monastero delle Carmelitane Scalze, soppresso nel periodo cosiddetto “murattiano”, agli inizi dell’Ottocento. Il palazzo assunse l’attuale conformazione grazie all’intervento di Giovanbattista Mandoj, il cui stemma è rappresentato nella facciata del palazzo. Si tratta di un volume ricchissimo di immagini in bianco e nero e a colori e di rilievi grafici del palazzo e del monastero.

All’incontro di presentazione interverranno Annalisa Presicce, il direttore dell’Ufficio Beni Culturali della Diocesi don Giuliano Santantonio, il magistrato Francesco Mandoj (discendente di Giovanbattista Mandoj) e dell’autore Marcello Gaballo. Interverranno per un saluto anche Sua Eccellenza mons. Fernando Filograna, il sindaco Pippi Mellone, l’assessore allo Sviluppo Economico e al Turismo Giulia Puglia, l’assessore alla Cultura Ettore Tollemeto, l’editore Mario Congedo, il presidente dell’associazione Dimore Storiche Neretine Antonello Rizzello.

I baroni Sambiasi e le monache di Santa Teresa a Nardò

Sarà presentato Domenica 24 giugno un nuovo libro sulla città di Nardò, presso le sale del Relais Santa Teresa, su Corso Garibaldi (vicino le Poste), alle ore 20.30.

Inserito nella Collana della Diocesi di Nardò-Gallipoli, edito da Mario Congedo di Galatina, è stato scritto da Marcello Gaballo con la collaborazione di Domenico Ble, Daniele Librato, Armando Polito, Marcello Semeraro e Fabrizio Suppressa, con prefazione di Annalisa Presicce.

Il volume sarà presentato da Annalisa Presicce, da Francesco Mandoj, da don Giuliano Santantonio e dall’autore.

In formato A/4, 228 pagine, ricco di illustrazioni in b/n e colore, con numerosi rilievi e planimetrie.

Ricostruzione del palazzo Sambiasi, del monastero e della chiesa di Santa Teresa

 

INDICE

Prefazione di Annalisa Presicce

 

Capitolo primo

Genealogie e architetture a palazzo Sambiasi. Gli archivi e la ricostruzione, di Marcello Gaballo

Premessa

  1. Sulla storia della famiglia Sambiasi e le vicende legate al palazzo

1.1. La prima traccia dei Sancto Blasio a Nardò

1.2. I Sambiasi baroni di Puzzovivo, Flangiano e Puggiano

1.3. Vicende patrimoniali di palazzo Sambiasi

1.4. Il palazzo di Alfonso Sambiasi

1.5. Il palazzo di Francesco Sambiasi

1.6. I Della Ratta e le vicende patrimoniali di palazzo Sambiasi

1.7. Ultime vicende patrimoniali di palazzo Sambiasi. Da Giambattista Mandoj ai nostri giorni

  1. Palazzo Delli Falconi
  2. Il salone di palazzo Sambiasi
  3. L’epigrafe MATURE CONSULAS NE TE PENITEAT (Provvedi tempestivamente per non pentirti), di Armando Polito

 

Capitolo secondo

Sulla chiesa di Santa Croce annessa al palazzo Sambiasi, di Marcello Gaballo e Armando Polito

  1. La chiesa attraverso le fonti pastorali. Brevi cenni storici
  2. La chiesa di Santa Croce nella visita pastorale del vicario Granafei

 

Capitolo terzo

Le Teresiane a Nardò. Origine ed epilogo di un monastero, di Marcello Gaballo

  1. Un secondo monastero femminile per la città di Nardò
  2. Suor Teresa e il progetto realizzato

2.1. Lidia Gaetana Adami fondatrice del monastero teresiano di Nardò

2.2. Sulla famiglia Basta di Monteparano. Le origini e il sostegno a suor Teresa

2.3. Le fonti su Masseria Sciogli. Dai Giulio ai Basta al monastero di Santa Teresa

  1. Dalla ricostruzione post-sismica alla soppressione. Gli ultimi settant’anni del monastero

3.1. Una nuova chiesa per il monastero di Santa Teresa. Il terremoto del 1743

3.2. Il monastero di San Gregorio Armeno di Napoli. Gli amministratori e la gestione dei beni delle Teresiane di Nardò

  1. Appendice documentaria

4.1. Cessione scambievole di Oratorij (1837)

4.2. Cessione scambievole di Oratorij (1838)

4.3. Cronotassi delle priore del monastero di Santa Teresa

 

Capitolo quarto

La chiesa di Santa Teresa. Gli artisti, le opere, il culto, di Marcello Gaballo

  1. Il profilo architettonico
  2. Due tele di Vincenzo Fato nella chiesa delle Teresiane a Nardò
  3. La statuaria nella chiesa di Santa Teresa

3.1. Il Redentore, Santa Lucia, Sant’Agata

3.2. La statua di S. Espedito e la Fondazione del nobile Enrico Personè

3.3. Il culto di San Biagio a Nardò. Due testimonianze iconografiche

3.4. Sulla ragione della statua della Madonna del Buon Consiglio nella chiesa di S. Teresa

3.5. La tela di San Carlo Borromeo orante, di Domenico Ble

 

Capitolo quinto

Araldica a Nardò. Lo stemma lapideo settecentesco del vescovo Carafa sulla facciata della chiesa di Santa Teresa, di Marcello Semeraro

 

Capitolo sesto

La mirabile e singolare volta della chiesa di Santa Teresa, di Fabrizio Suppressa

 

Capitolo settimo

Araldica carmelitana a Nardò. Lo stemma carmelitano: origine e sviluppi, di Marcello Semeraro

7.1. Gli esemplari neritini

 

Capitolo ottavo

Lavori di ristrutturazione e ammodernamento della chiesa di Santa Teresa dal 1800 ai nostri giorni, di Fabrizio Suppressa

  1. Appendice
  2. Appendice
  3. Appendice

 

Capitolo nono

La confraternita del SS.mo Sacramento a Nardò, dalla cattedrale alla chiesa di Santa Teresa, di Marcello Gaballo

  1. La cappella del SS.mo Sacramento in cattedrale
  2. Altri atti notarili e documenti d’archivio. I dati raccolti sulla confraternita del SS.mo Sacramento

2.1. Disposizioni per attuare il lascito del duca di Nardò Belisario Acquaviva d’Aragona in favore della cappella del SS.mo Sacramento nella cattedrale di Nardò, di Armando Polito

2.2. Legati da soddisfare da parte della confraternita

2.3. PLATEA della confraternita

2.4. Un rarissimo libro nell’archivio confraternale

  1. Appendice

3.1. Cronotassi delle cariche della confraternita del SS.mo Sacramento

3.2. Prefetti, cappellani e padri spirituali della confraternita

3.3. La visita pastorale del vescovo Antonio Sanfelice nel 1719 alle confraternite e congregazioni esistenti in cattedrale: Santa Maria della Misericordia, del Santissimo Corpo di Cristo e della Santissima Eucaristia, di Armando Polito

 

Capitolo decimo

Spoglio degli assensi conservati nell’archivio storico diocesano di Nardò riguardanti la confraternita del Santissimo Sacramento e del monastero di Santa Teresa, di Daniele Librato

Bibliografia generale

 

L’edera di Filippo e Tamara: storia di uno sfortunato matrimonio attraverso l’araldica

di Marcello Semeraro

Nel corso delle nostre ricerche sull’araldica e la sfragistica dei principi angioini di Taranto ci siamo più volte imbattuti in un reperto di eccezionale bellezza e di notevole valore storico. Si tratta del celebre pendente a forma di foglia d’edera, decorato con smalti opachi champlevé su fondo d’oro, conservato presso il Museo Archeologico Nazionale di Cividale del Friuli (figg. 1 e 2).

Fig. 1 – Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale, particolare del pendente a forma di foglia d’edera

 

Fig. 2 – Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale, particolare della decorazione araldica

 

Il manufatto, noto agli studiosi, misura cm 7,5 x 8,5 x 1,5 e proviene dal tesoro del monastero benedettino di Santa Maria in Valle, al quale, secondo una consolidata tradizione, sarebbe stato donato nel 1365 dall’imperatore Carlo IV di Lussemburgo come stauroteca destinata a contenere una reliquia della Vera Croce.

In origine, tuttavia, il pregioso oggetto in esame fu concepito per un uso molto più profano, ossia come pendente da collo, come si deduce chiaramente dagli anelli da catena visibili ai lati del lobo superiore della foglia e da altri particolari che via via diremo. Sul lato del coperchio campeggia un tronco di quercia, munito di rami, foglie e ghiande, su cui si posano vari volatili. Lungo il bordo corre un motivo a racemi con foglie e fiori, mentre sull’altro lato della foglia spicca una decorazione araldica che vede l’alternarsi, su tutta la superficie disponibile, di scudi a losanga (fig. 2), una forma di scudo di origine sigillare, riscontrabile sin dal XIII secolo e impiegata fino al secolo successivo soprattutto dagli uomini (più raramente dalle donne).

Le armi raffigurate sono quelle del principe di Taranto Filippo I d’Angiò (il seminato di gigli d’oro dei sovrani capetingi di Francia, brisato[1] da un lambello di rosso, per Angiò-Napoli, e sovrabrisato da una banda d’argento, per Angiò-Taranto[2]) alternate a quelle della sua prima moglie Tamara Angela Comnena Ducas, figlia del despota d’Epiro Niceforo I (di rosso, all’aquila bicipite d’oro).

Le nozze fra questi due personaggi si celebrarono nel dicembre del 1294 e conclusero la prima fase dell’ambizioso progetto del re angioino di Napoli Carlo II di fondare per il figlio Filippo – che nel dicembre dell’anno precedente era stato investito del principato di Taranto – un grande dominio feudale esteso fra le due sponde dello Ionio[3].

Qualche mese prima, nel luglio del 1294, fu sottoscritto il contratto matrimoniale. La dote apportata da Tamara comprendeva i castelli di Lepanto, Vonitza, Euloco, Angelocastro e Giannina. L’accordo prevedeva, inoltre, che alla morte di Niceforo I metà dell’Epiro sarebbe toccata a Filippo, mentre l’altra metà gli sarebbe giunta solo dopo la morte della despina Anna Cantacuzena, moglie del sovrano epirota e madre della sposa. L’ambiziosa politica orientale del sovrano di Napoli fu completata con la concessione al figlio delle isole di Corfù e di Butrinto e la cessione tutti i diritti e le rivendicazioni angioine in Acaia, Atene, Albania e Tessaglia, mantenendo per sé solo la superioritas feudale.

I piani angioini furono però rallentati dalla fase finale della Guerra del Vespro e dalla prigionia di Filippo nel 1299, che terminò solo nel 1302 con il celebre trattato di Caltabellotta. Una volta libero, il principe poté dare seguito alle sue rivendicazioni sull’Epiro, dove nel frattempo, tra il 1296 e il 1298, era morto il despota Niceforo I. Ma le speranze di Filippo andarono ben presto deluse.

Nel 1304 i legati del principe di Taranto chiesero ad Anna Cantacuzena la consegna di metà dell’Epiro, come previsto dall’accordo matrimoniale, ma la despina si rifiutò categoricamente, preferendo assicurare la successione al figlio Tommaso. Tale scelta fu anche dovuta alla politica discriminatoria adottata dai funzionari di Filippo nei confronti della popolazione di fede ortodossa, che violava quanto stabilito dagli accordi fra le parti in tema di libertà religiosa.

Fu l’inizio di una guerra per la conquista dell’Epiro che, fra alterne vicende, si concluse con un nulla di fatto. La vera vittima di questa situazione fu, tuttavia, la stessa Tamara, che fu dapprima costretta a cambiare nome in Caterina, poi (nel 1309) fu ripudiata dal marito – che la accusò di adulterio per via di una presunta relazione con Bartolomeo Siginulfo – e infine messa in un monastero, dove morì nel 1311.

Torniamo ora ad occuparci del prezioso pendente conservato nel museo di Cividale del Friuli. La presenza degli scudi di Filippo e di Tamara (più precisamente del padre della sposa) e la forma del supporto impiegato per contenere queste armi (una foglia d’edera, pianta sempreverde, simbolo di fedeltà) autorizzano a ipotizzare che il manufatto sia stato confezionato per essere un gioiello nuziale proprio in occasione delle nozze del 1294 o comunque entro il 1309, annus horribilis per la nostra Tamara che, come abbiamo visto, fu accusata di tradimento e ripudiata.

L’autore di questo meraviglioso gioiello profano fu con ogni probabilità uno degli orafi francesi che i documenti attestano al servizio di Carlo II già negli anni 1297-98. Com’è possibile, allora, che esso sia finito nelle mani di Carlo IV di Lussemburgo, che nel 1365 lo donò al monastero benedettino di Santa Maria in Valle? L’ipotesi più probabile è che il gioiello sia giunto all’imperatore per via ereditaria, in virtù del matrimonio, celebrato nel 1318, fra Beatrice di Boemia, zia di quest’ultimo, e il re d’Ungheria Carlo Roberto d’Angiò, nipote di Filippo di Taranto, ma su questo punto non vi sono certezze.

Come abbiamo già avuto modo di osservare su queste stesse pagine (v. supra, nota 2), Filippo fu il primo dei principi angioini di Taranto a sovrabrisare l’arma paterna (d’azzurro, seminato di gigli d’oro, brisato da un lambello di rosso) con una banda d’argento, riprendendo in tal modo una sovrabrisura già impiegata dal padre Carlo II quand’era ancora principe di Salerno.

Lo studio dei sigilli e di altre testimonianze araldiche permette di affermare che l’uso di questa insegna, da sola e senza ulteriori ampliamenti, perdurò per tutta la durata del suo principato, mantenendosi tale anche dopo il matrimonio con la sua seconda moglie, l’imperatrice titolare di Costantinopoli Caterina II di Valois-Courtenay. Essendo quello dei principi angioini di Taranto un ramo ultrogenito di una branca cadetta uscita dalla Casa reale di Francia, la banda tarantina avrebbe dovuto essere raffigurata come brisura di secondo grado al di sopra di quella principale (il lambello di rosso dei sovrani di Napoli), nella posizione tecnicamente detta attraversante sul tutto. Tuttavia, nell’araldica dei principi di Taranto l’inversione della posizione della brisura e della sovrabrisura è una costante impiegata in modo sistematico (fig. 3), probabilmente per rendere più discreta la loro posizione genealogica di cadetti di un ramo cadetto della Casa di Francia. Ricordando il ruolo centrale che ebbe all’epoca l’araldica come vettore principale della propaganda politica per immagini adottata dall’aristocrazia europea, siamo propensi a vedere in questa apparente anomalia un riflesso di quella semi-autonomia di cui godettero i principi angioini di Taranto nella rappresentazione e nella concezione della loro «sovranità», un aspetto, quest’ultimo, già evidenziato in passato da studiosi come Gennaro Maria Monti e, più recentemente, da Andreas Kiesewetter nel suo saggio sull’intitulatio e la datatio dei diplomi principeschi.

Fig. 3 – Stemma dei principi angioini di Taranto. Armorial Le Breton (secc. XIII-XV), Parigi, Archives Nationales, AE I 25, n° 6 (MM 684), fol. 4r

 

Quanto alla stemma innalzato dalla sfortunata Tamara, esso riprende quello impiegato dal padre Niceforo I come despota d’Epiro. La presenza dell’arma dell’impero romano d’Oriente (di rosso, all’aquila bicipite d’oro) quale insegna del sovrano epirota non deve stupire, giacché dopo la caduta di Costantinopoli a seguito della quarta crociata (1204) il suo uso perdurò negli stemmi e nei vessilli delle dinastie che governarono gli Stati successori dell’impero bizantino. Per molti aspetti si potrebbe considerare conclusa a quella data la storia bizantina, allorché i Greci, sopraffatti in quella stessa capitale con cui da sempre si erano identificate le sorti di Bisanzio, si trovarono privati anche di quell’unica autorità imperiale che per secoli ne era stata la guida politica e spirituale. Dopo la crisi del 1204 l’istituto della basileía appariva ormai irrimediabilmente desacralizzato, né fu sufficiente a restituirgli il prestigio di un tempo la riconquista della capitale nel 1261. Dalla corte di Bisanzio l’aquila bicipite continuò a svettare negli stemmi di altre corti o famiglie vicine e lontane che, per ragioni di parentela, eredità, sudditanza o semplice spirito di imitazione, adottarono quell’immagine antichissima, che proprio in Oriente fece la sua prima comparsa – come dimostrano i magnifici bassorilievi del santuario ittita di Yazilikaya (Turchia), databili al XIII secolo a.C. (fig. 4) – ma evidentemente non fu più la stessa cosa. Quanti fili rossi, come si vede, tira fuori l’araldica…

Fig. 4 – Turchia, santuario ittita di Yazilikaya (XIII sec. a.C.), particolare del bassorilievo con l’aquila bicipite

 

BIBLIOGRAFIA

A. Cassiano, B. Vetere (a cura di), Dal giglio all’orso. I principi d’Angiò e Orsini del Balzo nel Salento, Galatina 2006.

G. Curzi, Santa Maria del Casale a Brindisi. Arte, politica e culto nel Salento angioino, Roma 2013.

P. L. de Castris, Ori, argenti, gemme e smalti della Napoli Angioina 1266-1381, catalogo della mostra, Napoli, Cappella del Tesoro di San Gennaro, 11 ottobre-31 dicembre 2014, Napoli 2014.

C. de Mérindol, L’héraldique des princes angevins, in «Les Princes angevins du XIIIe au XVe siècle; un destin européen», Actes des journées d’étude des 15 et 16 juin 2001 organisées par l’Université d’Angers et les Archives Départementales de Maine-et-Loire, Rennes 2003, pp 277-310.

G. Gerola, L’aquila bizantina e l’aquila imperiale a due teste, in «Felix Ravenna», a. IV, 1 (1934).

A. Kiesewetter, I principi di Taranto e la Grecia (1294–1383), in «Archivio storico pugliese», LIV (2001), pp. 53–100.

A. Kiesewetter, «Princeps est imperator in principatu suo». Intitulatio e datatio nei diplomi dei principi angioini di Taranto, in G. Colesanti (a cura di), «Il re cominciò a conoscere che il principe era un altro re». Il principato di Taranto e il contesto mediterraneo (secc. XII-XV). Atti del Convegno internazionale di studi (Napoli, 2-3 dicembre 2011), Roma 2015, p. 65-102.

M. Pastoureau, Traité d’héraldique, Picard, Paris 20085.

G. Schlumberger, Sceaux et bulles des empereurs latins de Constantinople, Caen 1890.

 

[1] Si dicono brisure (dal francese briser, “rompere, spezzare”) quelle varianti introdotte in uno stemma rispetto all’originale per distinguere i diversi rami di una stessa famiglia. Particolarmente diffuse nell’araldica del Regno di Napoli, ne esistono di vari tipi. In linea di massima si possono distinguere tre principali modi per brisare un’arma: la modificazione degli smalti (che si ottiene, ad esempio, invertendo gli smalti del campo e delle figure), la modificazione delle figure (aumento o diminuzione del numero delle figure uguali, cambiamento della forma o della posizione oppure sostituzione di una figura con un’altra) oppure l’aggiunta di altre figure specifiche chiamate pezzi di brisura (lambello, banda e sue diminuzioni, bordura, quarto franco, stelle, merlotti, anelletti, conchiglie, ecc.). Si chiamano invece sovrabrisure le brisure di secondo grado, ovvero quelle che modificano uno stemma già brisato. Le soluzioni impiegate per sovrabrisare un’arma sono le stesse che abbiamo ricordato per quelle di primo grado.

[2]Sull’araldica dei principi di Taranto v. il mio recente contributo sulle pagine di questo sito: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/09/20/lo-stemma-dei-principi-angioni-taranto-filippo-roberto-filippo-ii/.

[3] Tralascio in questa sede di parlare diffusamente della politica orientale degli angioini di Napoli, che, com’è noto, affonda le sue radici nei Trattati di Viterbo, stipulati nel 1267 da Carlo I d’Angiò da una parte e Guglielmo II di Villehardouin e Baldovino II di Courtenay, rispettivamente principe di Acaia e imperatore latino di Costantinopoli, dall’altra.

Lo stemma della principessa di Francavilla Irene Delfina di Simiana

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Marcello Semeraro, Note di araldica: lo stemma della principessa di Francavilla Irene Delfina di Simiana

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 441-443

 

 

ITALIANO

L’analisi di uno stemma partito per alleanza matrimoniale presente all’interno della chiesa francavillese di San Sebastiano fornisce preziose informazioni sull’identità del titolare, la cronologia d’esecuzione e i gusti della committenza.

 

ENGLISH

The analysis of a party coat of arms for the marriage alliance that is in the interior of the Francavillese church of St. Sebastian gives valuable information about the titular, the execution chronology and the patron’s tastes.

 

Keyword

 Marcello Semeraro, Araldica, Francavilla Fontana, Irene Delfina di Simiana

L’iconografia araldica del portale della Collegiata di Manduria: ipotesi e indirizzi di ricerca

di Marcello Semeraro

 

In due articoli apparsi recentemente sulle pagine web di ManduriaOggi, lo studioso Giuseppe Pio Capogrosso ha avanzato alcune ipotesi di lettura sulla decorazione araldica presente sul magnifico portale rinascimentale della chiesa Matrice di Manduria, realizzato, com’è noto, da Raimondo da Francavilla nel 1532 (fig. 1).

Fig. 1 – Manduria, Chiesa Matrice della SS. Trinità, facciata, particolare del portale d’ingresso
Fig. 1 – Manduria, Chiesa Matrice della SS. Trinità, facciata, particolare del portale d’ingresso

 

Si tratta, lo ricordiamo, di un insieme formato da quattro stemmi litici disposti a coppie ai lati del portale, due sopra e due sotto. La coppia superiore, collocata alla base delle colonnine della sovrapporta, è costituita da due scudi sagomati con forme diverse; quella inferiore, visibile sotto i capitelli delle paraste, è invece composta da due scudi gemelli appesi a chiodi mediante guiggie. Ques’ultima coppia non pone particolari problemi interpretativi: si tratta della più antica raffigurazione a noi nota dell’arma dell’Universitas di Casalnuovo (oggi Manduria), recante il solo albero di mandorlo sradicato[1] (figg. 2 e 3).

Fig. 2 – Manduria, Chiesa Matrice, particolare del primo dei due stemmi dell’Universitas di Casalnuovo (foto di Giuseppe D’Angeli)
Fig. 2 – Manduria, Chiesa Matrice, particolare del primo dei due stemmi dell’Universitas di Casalnuovo (foto di Giuseppe D’Angeli)

 

Fig. 3 - Manduria, Chiesa Matrice, particolare del secondo dei due stemmi dell’Universitas di Casalnuovo (foto di Giuseppe D’Angeli)
Fig. 3 – Manduria, Chiesa Matrice, particolare del secondo dei due stemmi dell’Universitas di Casalnuovo (foto di Giuseppe D’Angeli)

 

Più problematica risulta, invece, la lettura della coppia di stemmi sovrastanti, caratterizzata, come si vede nelle illustrazioni (figg. 4 e 5), da abrasioni di notevole entità che ne rendono difficile l’immediata decifrazione.

Fig. 4 - Manduria, Chiesa Matrice, particolare del primo stemma della coppia superiore, recante il partito Bonifacio/Cicara (foto di Giuseppe D’Angeli)
Fig. 4 – Manduria, Chiesa Matrice, particolare del primo stemma della coppia superiore, recante il partito Bonifacio/Cicara (foto di Giuseppe D’Angeli)

 

Figg. 5 e 5a - Manduria, Chiesa Matrice, particolare del secondo stemma Bonifacio/Cicara (foto di Giuseppe D’Angeli)
Figg. 5 – Manduria, Chiesa Matrice, particolare del secondo stemma Bonifacio/Cicara (foto di Giuseppe D’Angeli)

 

Figg. 5 e 5a - Manduria, Chiesa Matrice, particolare del secondo stemma Bonifacio/Cicara (foto di Giuseppe D’Angeli)
Figg. 5a – Manduria, Chiesa Matrice, particolare del secondo stemma Bonifacio/Cicara (foto di Giuseppe D’Angeli)

 

Capogrosso ha identificato correttamente la prima di queste due armi (quella di sinistra, fig. 4), riconoscendo in essa uno stemma d’alleanza matrimoniale che riunisce, per mezzo di uno scudo partito, le insegne araldiche di Roberto Bonifacio (signore di Casalnuovo, fra alterne vicende, dal 1522 al 1536) e della moglie Lucrezia Cicara[2] (figg. 6 e 7).

Fig. 6 – Bayerische Staatsbibliothek (Biblioteca Nazionale Bavarese), BSB Cod.icon. 279 (1550-55), fol. 35r. Arma della famiglia Bonifacio: «d’oro, alla banda scaccata di due file d’argento e di rosso, accostata da due leoni illeoparditi dello stesso»
Fig. 6 – Bayerische Staatsbibliothek (Biblioteca Nazionale Bavarese), BSB Cod.icon. 279 (1550-55), fol. 35r. Arma della famiglia Bonifacio: «d’oro, alla banda scaccata di due file d’argento e di rosso, accostata da due leoni illeoparditi dello stesso»
Fig. 7 - Bayerische Staatsbibliothek (Biblioteca Nazionale Bavarese), BSB Cod.icon. 279 (1550-55), fol. 40r. Arma della famiglia Cicara: «d’oro, a due scaglioni d’azzurro, quello superiore troncato; al capo cucito del primo, caricato di un uccello di nero, posato sulla partizione»
Fig. 7 – Bayerische Staatsbibliothek (Biblioteca Nazionale Bavarese), BSB Cod.icon. 279 (1550-55), fol. 40r. Arma della famiglia Cicara: «d’oro, a due scaglioni d’azzurro, quello superiore troncato; al capo cucito del primo, caricato di un uccello di nero, posato sulla partizione»

 

Per il secondo stemma lo studioso manduriano propone, invece, un’ipotesi di lettura che a nostro avviso risulta priva di fondamento. A detta del Capogrosso, l’insegna riprodurrebbe «il simbolo araldico della chiesa parrocchiale SS. Trinità (all’epoca eretta in Arcipretura, ma non ancora in Collegiata, sebbene fosse già servita, per il culto, collegialmente) rappresentato così come più tardi comparirà miniato nel Librone Magno delle famiglie mandurine».

Tuttavia, un’osservazione attenta del contenuto blasonico dello scudo, condotta anche mediante l’ausilio di foto ad alta risoluzione, smentisce l’ipotesi di attribuzione proposta dall’autore manduriano. Malgrado le vistose abrasioni, nella parte sinistra (destra per chi guarda) dello scudo si intravedono chiaramente gli scaglioni e il volatile, vale a dire le figure araldiche dell’arma Cicara (figg. 5 e 5a).

Ciò significa che il partito d’alleanza coniugale Bonifacio/Cicara è rappresentato anche nel secondo scudo della coppia superiore[3]. In effetti, la disposizione delle armi sul portale suggerisce un ordine funzionale alla rappresentazione di una gerarchia di poteri: sopra gli stemmi dei feudatari (arma di dominio), sotto quelli della locale Universitas (arma di comunità).

Ricordando che in contesti simili la ripetizione delle stesse armi all’interno dello stesso scudo è una costante legata essenzialmente a ragioni di simmetria, osserviamo, tuttavia, che il secondo scudo della coppia superiore presenta una foggia diversa rispetto al primo e appare scolpito su una lastra rettangolare che risulta decisamente fuori contesto. Entrambi gli scudi, inoltre, sono applicati alla base delle colonnine mediante staffe metalliche, particolare che li distingue nettamente dagli stemmi sottostanti, che invece appaiono scolpiti direttamente sulle paraste e costituiscono parte integrante della ricca iconografia presente sul portale del 1532.

Come spiegare, dunque, tutte queste anomalie? L’ipotesi più probabile, allo stato attuale delle ricerche, è quella di una collocazione successiva dei due stemmi superiori rispetto a quelli inferiori. È possibile, in particolare, che l’applicazione degli attuali scudi sulle colonnine della sovrapporta sia avvenuta utilizzando manufatti originariamente collocati altrove, reimpiegati, forse, per sostituire una precedente coppia di scudi gemelli Bonifacio/Cicara gravemente danneggiati o magari rimossi sotto i colpi della damnatio memoriae che colpì la figura di Giovanni Bernardino Bonifacio (*1517 †1597), figlio e successore di Roberto, sospettato di eresia e fuggito in modo rocambolesco nel 1557, con la conseguente confisca dei feudi di Oria, Casalnuovo e Francavilla.

Non è nemmeno da escludere che gli stemmi Bonifacio/Cicara appartengano allo stesso Giovanni Bernardino e che la damnatio memoriae abbia colpito proprio le sue insegne[4]. Nel testamento firmato il 16 gennaio 1534, Roberto Bonifacio dichiara il figlio erede universale, disponendo altresì che «se habbia finche vivera a cognominare del cognome nostro de Bonifatio, et Cicaro, cognome de la signora marchesa mia consorte». Quest’ultima circostanza può aver fornito a Giovanni Bernardino l’occasione per combinare all’interno di uno scudo partito le armi paterne con quelle materne, traducendo in tal modo araldicamente la volontà espressa dal padre di mantenere sempre vivi i cognomi Bonifacio e Cicara: ne avrebbe avuto, del resto, tutto il diritto.

Il fatto è che dell’arma usata dall’illustre umanista napoletano non resta oggi più alcuna traccia visibile. Mancano, infatti, altre attestazioni su monumenti, stemmari o altri manufatti con cui poter fare un raffronto, per cui la nostra resta solo una mera ipotesi, da prendere con le dovute cautele[5].

Come abbiamo già ricordato poc’anzi, quella con l’albero di mandorlo rappresentato a radici nude costituisce la più antica raffigurazione dell’arma civica di Manduria-Casalnuovo giunta fino a noi.

Si tratta di una testimonianza di notevole importanza perché documenta come agli inizi del Cinquecento l’Università di Casalnuovo – i cui primi statuti risalgono agli anni 1463-64, durante il periodo aragonese – fosse già dotata di una personalità giuridica e di un assetto politico-amministrativo tali da giustificare l’uso di un stemma. Quest’ultimo, infatti, trovava posto su tutta una serie di supporti (sigilli, monumenti, altri manufatti) atti a rendere visibili certi diritti e certe prerogative dell’amministrazione locale, separati, e a volte anzi contrapposti, a quelli dello Stato rappresentato dalla Corona e dal feudatario.

La presenza degli emblemi della municipalità sul portale rinascimentale voluto da Raimondo da Francavilla potrebbe allora essere messa in relazione con la funzione pubblica che la chiesa Matrice ebbe già nel Cinquecento come sede del Consiglio municipale[6], il che spiegherebbe anche l’eventuale presenza, ab origine o comunque entro il 1557, di un apparato araldico istituzionale composto da quattro armi, due del feudatario (sopra) e due dell’Università casalnovetana (sotto).

Un’altra ipotesi tira in ballo il giuspatronato detenuto dall’Universitas sulla stessa vhiesa Madre[7] e in tal caso gli stemmi ne rappresenterebbero il signum.

È innegabile, comunque sia, il fascino esercitato da questi documenti figurati che rappresentano visivamente i primi passi dell’autonomia amministrativa di Manduria-Casalnuovo nel senso moderno del termine.

L’iconografia complessiva del portale della chiesa Matrice attende ancora di essere debitamente studiata: l’auspicio è che la nostra ricerca, passibile di ulteriori sviluppi, rappresenti un primo passo in questa direzione.

 

BIBLIOGRAFIA

T. Albanese, Historia Dell’antichità d’Oria Città della Provincia di Terra d’Otranto. Raccolta da molti antichi e moderni Geografi, ed Historici Dal Filosofo e Medico Domenico Tomaso Albanese della stessa Città, nella quale anco si descrive l’origine di molti luoghi spettanti alla sua Diocesi, Brindisi, Biblioteca pubblica arcivescovile A. De Leo, Manoscritti, ms. D/15.

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N. Morrone, Nuovi documenti sul rapporto tra Giovanni Bernardino Bonifacio e l’Università di Casalnuovo, disponibile al seguente indirizzo: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/17/nuovi-documenti-sul-rapporto-tra-giovanni-bernardino-bonifacio-e-luniversita-di-casalnuovo/.

O. Neubecker, Araldica: origini, simboli e significato, Milano 1980.

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A. Savorelli, Araldica e araldica comunale. Una sintesi storica, in «Estudos de Heráldica Medieval», coordenação de M. de Lurdes Rosa e M. Metelo de Seixas, Lisboa, IEM-CLEGH-Caminhos Romanos, 2012, pp. 254-273.

L. Tarentini, Manduria sacra, ovvero Storia di tutte le chiese e cappelle distrutte ed esistenti dei monasteri e congregazioni laicali dalla loro fondazione fino al presente, Manduria 1899, rist. anast. Manduria 1999.

M. E. Welti, Dall’umanesimo alla riforma. Giovanni Bernardino Bonifacio marchese di Oria (1517-1557), Brindisi 1986.

 

[1] Riteniamo che Casalnuovo, come molti altri centri minori, si sia dotata di uno stemma civico fra la fine del XV secolo e la prima metà del XVI. Il Cinquecento, in particolare, è il periodo della definizione dell’emblema civico casalnovetano, che si stabilizzerà solo a partire dal secolo successivo. Ci riproponiamo di parlarne più diffusamente in un apposito articolo di prossima pubblicazione.

[2] Altri due esemplari recanti il partito Bonifacio/Cicara si trovano scolpiti al lati del basamento del monumento sepolcrale dedicato ad Andrea Bonifacio (figlio di Roberto e Lucrezia, morto nel 1515, all’età di sette anni), situato nella chiesa dei Santi Severino e Sossio di Napoli. Il sito Nobili napoletani ne fornisce una riproduzione fotografica al seguente indirizzo: http://www.nobili-napoletani.it/Bonifacio.htm.

[3] Dall’analisi degli ornamenti esterni emerge, inoltre, che gli scudi della coppia superiore avevano in origine il medesimo timbro, ovvero una corona composta da un semplice cerchio, probabilmente decorato con gemme, che appare ancora integro nel primo scudo e frammentario nel secondo: un altro particolare che accomuna i due manufatti.

[4] E in tal caso bisognerebbe spostare il terminus post quem per la datazione della collocazione degli stemmi superiori al 1536, data della morte del padre Roberto.

[5] Sebbene non se ne conoscano esempi, Giovanni Berardino fece sicuramente uso di uno stemma, come dimostra la testimonianza de visu fornita dallo storico oritano Domenico Tommaso Albanese (*1638 †1685), contenuta in una pagina del manoscritto Historia Dell’antichità d’Oria. L’Albanese ricorda come ancora ai suoi tempi le armi del marchese di Oria decorassero gli stalli del coro della chiesa di San Francesco d’Assisi, stalli che lo stesso Bonifacio commissionò e dei quali, ahimè, si è persa oggi ogni traccia. Cfr. D. T. ALBANESE, Historia Dell’antichità d’Oria Città della Provincia di Terra d’Otranto. Raccolta da molti antichi e moderni Geografi, ed Historici Dal Filosofo e Medico Domenico Tomaso Albanese della stessa Città, nella quale anco si descrive l’origine di molti luoghi spettanti alla sua Diocesi, Brindisi, Biblioteca pubblica arcivescovile A. De Leo, Manoscritti, ms. D/15, c. 311v.

[6] Dall’inizio del XVI secolo fino alla fine del XVIII tutti i Consigli municipali di Casalnuovo erano composti da un sindaco e da quattro auditori (assessori), scelti fra i nobili viventi, e da otto eletti, scelti fra i popolari. I membri del Consiglio erano responsabili, sui loro beni patrimoniali, dell’amministrazione della loro carica.

[7] L’Università aveva l’obbligo di provvedere alla manutenzione della chiesa e ad altre spese necessarie al suo funzionamento.

Uno stemma coniugale nella biblioteca di Manduria

DUE SPOSI, UNO SCUDO: ANALISI E ATTRIBUZIONE DELLO STEMMA CONSERVATO NELLA BIBLIOTECA COMUNALE MARCO GATTI DI MANDURIA

di Marcello Semeraro

Manduria

L’araldica intrattiene stretti rapporti con l’antroponimia. Gli studi di Michel Pastoureau sulle armi parlantisono così chiamate quelle armi che contengono figure che richiamano direttamente o indirettamente il nome della famiglia del possessore dello stemma[1] – dimostrano come in questo particolare ambito gli interessi delle due discipline convergano[2].

Si tratta di una tipologia di armi che esiste sin dalla nascita del sistema araldico nel XII secolo e che costituisce circa il 20% degli stemmi medievali, con un aumento significativo in epoca moderna grazie soprattutto alla diffusione che queste armi ebbero fra i non nobili e le comunità[3].

L’individuazione della natura parlante di uno stemma può talvolta costituire l’unico mezzo che l’araldista ha per riconoscere armi che altrimenti, a causa della lacuna nelle fonti araldiche di un determinato territorio, resterebbero anonime. Istruttivo è il caso dell’esemplare araldico oggetto di questa disamina.

Si tratta di uno stemma litico di grandi dimensioni, privo del suo contesto originario, che giace come pezzo erratico all’ingresso della biblioteca comunale “Marco Gatti” di Manduria (fig. 1).

Non esistono, che io sappia, studi specifici su questa insegna, ma solo descrizioni occasionali e attribuzioni parziali che certamente non aiutano a individuarne committenza, cronologia e provenienza[4]. La presente indagine si propone dunque di colmare questa lacuna, cercando altresì di situare il manufatto nello spazio e nel tempo. Osservando la composizione dello stemma, l’araldista riconosce facilmente all’interno dello scudo ovale e accartocciato[5] un’arma d’alleanza matrimoniale che riunisce, per mezzo di uno scudo partito[6], due insegne araldiche differenti, appartenenti di due persone sposate. Associazione del blasone del marito (posto a destra, sinistra per chi guarda) con quello del padre della sposa (a sinistra, destra per chi guarda) lo scudo partito rappresenta, sin dal XIII secolo, il procedimento più impiegato per indicare due famiglie unite in matrimonio e mostra, in particolare, come una donna sia stata donata da un uomo a un altro uomo.

Dal punto di vista cronologico, la forma dello scudo[7] e lo stile generale della composizione invitano a datare il manufatto in esame a un periodo compreso fra la seconda metà del XVI secolo e gli inizi del XVII.

Nel secondo quarto[8] del partito si riconosce chiaramente l’arma della famiglia Pasanisi[9], dalla quale proviene la sposa: d’azzurro, inquartato da un filetto in croce d’argento: nel 1° e nel 4° un leone d’oro; nel 2° e nel 3° tre anelletti intrecciati del secondo[10].

Se dunque l’identificazione della famiglia di provenienza della moglie non pone problemi, non altrettanto si può dire per quella del marito, rappresentata nella prima parte dello scudo. Il blasone che si vede (troncato: nel 1° tre stelle male ordinate[11]; nel 2° un quadrupede[12] dormiente) costituisce, infatti, un vero e proprio apax che non trova altre attestazioni su stemmari, monumenti o altre testimonianze materiali o narrative.

In casi di questo genere può rivelarsi fruttuoso il ricorso alla genealogia familiare, restringendo ovviamente il campo di ricerca al periodo documentato dalla cronologia dello stemma. Per Manduria, la fonte per eccellenza per questo genere di ricerche è il Libro Magno delle famiglie di Casalnuovo, il celebre manoscritto iniziato dall’arciprete Lupo Donato Bruno nel 1572 e continuato da altri dopo la sua morte, che contiene le genealogie di tutte le famiglie casalnovetane dalla metà del Quattrocento alla fine del Settecento[13].

Ebbene, fra tutte le famiglie i cui membri, fra seconda metà del XVI secolo e gli inizi del XVII, presero in moglie una Pasanisi, solo una può aver portato uno scudo recante un quadrupede rappresentato nell’atto di dormire, posizione, quest’ultima, piuttosto rara nelle armi, tanto da costituire nel caso specifico la chiave di lettura per la decifrazione dell’intero manufatto araldico. Mi riferisco alla famiglia Dormio, di origine mesagnese, definita “nobile” dal Foscarini, diramata a Lecce nel XVII secolo, estinta nel 1883 e titolare di vari feudi in Terra d’Otranto[14].

Sebbene di questa schiatta non sia noto il blasone, l’estrema caratterizzazione della posizione del quadrupede che si vede nel quarto in esame, la sua natura parlante allusiva al cognome (Dormio/animale dormiente) e l’impossibile sovrapposizione con lo stemma di altre casate imparentate con i Pasanisi nel periodo di riferimento contribuiscono a rendere inequivocabile tale l’attribuzione. Dall’esame comparato dei dati provenienti dal Libro Magno e dagli atti notarili emerge che negli anni ottanta del XVI secolo i fratelli Donato Antonio e Alessandro, figli di Francesco Dormio di Mesagne, impalmarono le sorelle Minerva e Pollonia Pasanisi, figlie del notaio Carlo e di Isabella Barbera[15].

Lo stemma partito per alleanza matrimoniale è attribuibile, dunque, a una di queste due coppie. Ci chiediamo, a questo punto, se sia possibile risalire all’edificio sul quale lo stemma era originariamente collocato. Purtroppo la decontestualizzazione del manufatto e l’assenza di informazioni sulle circostanze che ne determinarono il trasferimento in biblioteca non permettono di dare risposte adeguate a questo quesito. Occorre dunque indirizzare la ricerca altrove, segnatamente agli atti notarili.

Una prima verifica effettuata sui regesti dei rogiti del XVI secolo ha offerto, da questo punto di vista, un quadro interessante ma parziale che va necessariamente approfondito attraverso ulteriori e più complete indagini. Le ricerche, in particolare, vanno condotte sia su eventuali beni immobili facenti parte del patrimonio dotale assegnato ai due fratelli mesagnesi, sia su quelli da loro acquisiti per compravendita[16]. Come si vede, il materiale documentario per future e auspicabili investigazioni non manca.

L’attribuzione dello stemma conservato nella biblioteca Marco Gatti pone comunque l’accento sull’importanza dell’araldica come scienza documentaria della storia, in particolare sulla sua utilità nella risoluzione di problemi legati alla committenza e alla cronologia di un determinato manufatto. L’auspicio è che gli storici e gli storici dell’arte ne facciano tesoro!

 

Note

[1] Qualche esempio: una scala per gli Scaligeri, una colonna per i Colonna, tre pignatte per i Pignatelli, un castello per Castiglia, un leone per León, ecc. La relazione parlante che si stabilisce fra le figure dello scudo e il cognome può articolarsi in modo diretto, allusivo o attraverso un gioco di parole.

[2] Cfr. M. Pastoureau, Une écriture en images: les armoiries parlantes, in “Extrême-Orient Extrême-Occident”, 30 (2008), pp. 187-198.

[3] Anche in Terra d’Otranto l’indice di frequenza delle armi parlanti fu particolarmente elevato, Manduria compresa, come dimostrano i seguenti casi: un basilisco per i Basile, una candela per i Candeloro, un calice per i Coppola, un cuore per i Corrado, un leone per i De Leonardis, un fagiano per i Fasano, una fontana per i Fontana, un Gatto per i Gatti, un lupo per i Lupo, un colombo per i Palumbo, ecc. Cfr. N. Palumbo, Araldica civica e cenni storici dei comuni di Terra Jonica, Manduria 1989, pp. 355-362.

[4] Vedi, ad esempio, P. Brunetti, Manduria: tra storia e leggenda, dalle origini ai giorni nostri, Manduria 2007, p. 253. L’autore assegna genericamente lo stemma alla famiglia Pasanisi, ma, come vedremo più avanti, questa attribuzione è vera solo per la seconda parte dell’arma.

[5] Dietro lo scudo si vedono inoltre dei nastri svolazzanti, aventi una semplice funzione decorativa.

[6] Si dice partito lo scudo diviso in due parti uguali da una linea verticale.

[7] Sull’evoluzione della forma dello scudo v. O. Neubecker, Araldica: origini, simboli e significato, Milano 1980, pp. 76-77.

[8] Il quarto (detto anche punto dell’arma) indica ciascuna delle singole armi che, nella loro interezza, compongono stemmi più complessi, purché ognuno di essi rappresenti un’arma separata.

[9] Una delle più importanti e antiche famiglie di Manduria, proveniente da Pasano, antico villaggio costiero in agro di Sava e forse originaria dell’area greco-bizantina. Documentata sin dal XIV secolo con Pietro Pasanisio, la casata (tuttora fiorente) annoverò fra i suoi membri notai, giureconsulti, chierici e sindaci e si imparentò con importanti famiglie feudali come i Montefuscolo, i Luzzi e i dell’Antoglietta. Cfr. B. Fontana, Le famiglie di Manduria dal XV secolo al 1930: capostipiti, provenienza, uomini illustri, Manduria 2005, pp. 153-154.

[10] Lo stemma inquartato dei Pasanisi, del quale esistono varianti soprattutto nella rappresentazione degli smalti, è stato impropriamente blasonato dallo studioso Nino Palumbo come Pasanisi-Dragonetti (cfr. Araldica civica cit., p. 361), dal nome della diramazione omonima generata agli inizi del Settecento dal matrimonio fra Francesco Antonio Pasanisi e Laudonia Dragonetti. L’esame comparato delle testimonianze araldiche superstiti e della genealogia familiare permette invece di affermare che l’uso dell’inquarto è comune a tutti i rami della famiglia, perlomeno sin dal XVI secolo. Istruttivo è, sotto questo profilo, il caso dell’esemplare Pasanisi che appare nel secondo quarto dello scudo partito oggetto di questo studio. Allo stato attuale delle ricerche non è possibile fornire una spiegazione certa circa l’origine dell’arma inquartata innalzata dalla storica famiglia manduriana.

[11] Si dice di più figure uguali fra loro e poste a triangolo, ma con la maggior parte di esse verso la punta dello scudo anziché, come invece avviene di norma, verso il capo.

[12] Utilizzo volutamente il termine quadrupede perché non è stato possibile individuarne l’esatta natura. Potrebbe essere un felino o un cane, ma comunque si tratta di un animale non inquadrabile in una specifica tipologia araldica.

[13] Cfr. Libro Magno delle famiglie di Casalnuovo, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, MS. Rr/1-3; G. Delille, Famiglia e proprietà nel Regno di Napoli (XV-XIX secolo), Torino 1988, p. 207.

[14] A. Foscarini, Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, Lecce 1903, rist. anast. Bologna 1978, p. 88.

[15] L’atto di costituzione della dote apportata da Minerva a Donato Antonio fu rogato a Casalnuovo dal notaio Felice Pasanisi l’11 novembre 1581. Il dotante fu Isabella Barbera, madre della futura sposa, in quanto vedova del notaio Carlo Pasanisi. Un altro istrumento, rogato dallo stesso notaio il 22 ottobre 1588, riporta invece i capitoli matrimoniali firmati da Francesco Dormio e Isabella Barbera in occasione delle nozze dei rispettivi figli Alessandro e Pollonia, celebrate nella chiesa matrice di Casalnuovo il giorno dopo. Cfr. M. Alfonzetti, M. Fistetto, I protocolli dei notai di Casalnovo nel Cinquecento: regestazione degli atti notarili dei notai casalnovesi conservati nell’Archivio di Stato di Taranto, Manduria 2003, pp. 212 (n. 14) e 239 (nn. 31, 32). Grazie al Libro Magno (cfr. cc. 487r e 811r) sappiamo inoltre che Donato Antonio e Minerva ebbero tre figli (Teodoro, Giovanni Giacomo e Artemisia) e che altrettanti ne ebbero Alessandro e Pollonia (Francesco Antonio, Anna e Caterina).

[16] L’1 marzo del 1592 Geronimo delli Fiori, di Casalnuovo, vende a Alessandro e Donato Antonio Dormio una casa dotata di un giardino retrostante e di un luogo aperto davanti, sita nel Borgo della Porta Grande, nel luogo detto avante la Porta Grande, per 110 ducati. Il 3 agosto 1592 Antonio Schiavone, di Casalnuovo, vende a Donato Antonio Dormio 10 pezze di vigna, site in Casalnuovo, in località Piterta, ed un clausorio parietato, con dentro una casa, corte, giardino e 30 tomoli di zafferano, sito nello stesso feudo, alla via della Vetrana, per 190 ducati. Il 20 febbraio 1587 Donato De Ugento vende a Donato Antonio Dormio una casa palacciata, sita intus terram Casalis novi, in Plateam pubblicam dicte terre, per 70 ducati. Cfr. Alfonzetti, Fistetto, I protocolli cit., pp. 264 (n. 55), 271 (n. 109) e 320 (n. 253).

Un basilisco cinquecentesco a pochi passi dalla chiesa Matrice di Manduria*

di Marcello Semeraro

La corretta attribuzione di uno stemma anonimo costituisce spesso, in mancanza di altri dati, un elemento decisivo in grado di illuminare il “contesto” su cui esso in origine era collocato. È il caso dell’esemplare murato sulla parete esterna dell’edificio ubicato fra vico Campanile e via Marco Gatti n° 5, a due passi dalla chiesa matrice di Manduria, attualmente adibito a casa canonica (fig. 1).

Fig. 1 - Manduria, edificio di via Marco Gatti n° 5, stemma (foto di Giuseppe D’Angeli)
Fig. 1 – Manduria, edificio di via Marco Gatti n° 5, stemma (foto di Giuseppe D’Angeli)

 

Benché il manufatto in questione si presenti in uno stato di conservazione precario, con vistose abrasioni che ne compromettono la chiara leggibilità, è stato possibile, attraverso l’analisi araldica, risalire perlomeno alla famiglia titolare dello stemma, che è già un bel risultato per chi si occupa di ricerche storiche locali, tanto più che sulle origini dell’edificio su cui è apposta l’insegna le fonti storiografiche sembrano tacere. L’arma in argomento è contenuta in uno scudo col capo sagomato a tre punte; dalla punta centrale spuntano una decorazione fogliacea e un anello sostenuto da un gancio reggi-scudo (fig. 2).

Fig. 2 - Manduria, via Marco Gatti n° 5, particolare dello stemma murato (foto di Giuseppe D’Angeli)
Fig. 2 – Manduria, via Marco Gatti n° 5, particolare dello stemma murato (foto di Giuseppe D’Angeli)

 

Due cartocci ornano il lato sinistro (destro per chi guarda) e la punta dello scudo, mentre dietro di esso appaiono nastri svolazzanti e accollanti. L’intera composizione è racchiusa da una cornice modanata, la cui decorazione originaria risulta tuttavia abrasa. All’interno dello scudo campeggia un basilisco, il mostruoso gallo serpentiforme con il corpo intriso di veleno, capace di uccidere con il solo sguardo[1] (fig. 3).

Fig. 3 - Il basilisco, creatura mostruosa che si voleva generata da un uovo deposto da un gallo anziano, ma covato da una bestia velenosa come il rospo, l’aspide o il drago. Figura ibrida, ha la testa, le ali e le zampe di un gallo, ma il corpo termina a forma di serpente. È sormontato da una cresta carnosa simile ad una corona (da cui il nome che significa “piccolo re”). È il “re dei serpenti” e tutti lo temono, tranne la donnola, come si vede in questa splendida miniatura. Londra, British Library, Royal MS 12 C XIX, fol. 63r.
Fig. 3 – Il basilisco, creatura mostruosa che si voleva generata da un uovo deposto da un gallo anziano, ma covato da una bestia velenosa come il rospo, l’aspide o il drago. Figura ibrida, ha la testa, le ali e le zampe di un gallo, ma il corpo termina a forma di serpente. È sormontato da una cresta carnosa simile ad una corona (da cui il nome che significa “piccolo re”). È il “re dei serpenti” e tutti lo temono, tranne la donnola, come si vede in questa splendida miniatura. Londra, British Library, Royal MS 12 C XIX, fol. 63r.

 

Considerato dai bestiari medievali il “re dei serpenti”, il basilisco è tuttavia una figura piuttosto rara nelle armi, che per via della sua natura ibrida viene non di rado confusa con il gallo o il drago. Cronologicamente parlando, il manufatto sembra avere fattezze stilistiche riconducibili al XVI secolo, datazione deducibile sia dalla forma primitiva del cartoccio, sia dallo stile generale dell’intero decoro araldico[2].

Fra le famiglie nobili e notabili di Manduria solo una può aver innalzato uno stemma come questo: i Basile[3], il cui scudo raffigura proprio un basilisco e non un gallo, come erroneamente ha sostenuto lo studioso Bruno Perretti[4]. La presenza di questa creatura mitologica nell’arma in esame si spiega facilmente se si considera la relazione parlante che la figura intrattiene con il cognome: basilisco/Basile[5].

La famiglia è documentata a Casalnuovo sin dalla seconda metà del XV secolo e viene indicata anche come Basili, Di/De Basili o De Basiliis/De Basilijs negli atti notarili, nel Libro dei Battezzati del XVI secolo e nel Librone Magno[6]. Diramatasi anche in Oria, annoverò fra i suoi membri notai, giureconsulti e chierici, come Don Pietro De Basiliis, secondo arciprete di Manduria (1556-1575).

Individuata la committenza dello stemma nella famiglia Basile, resta da spiegare la natura dell’edificio che lo ospita nel periodo in cui fu murato il manufatto araldico. Le poche notizie riportate dalla storiografia locale non aiutano in tal senso, giacché documentano solo i passaggi di proprietà a cui fu sottoposto l’immobile a partire dal XVIII secolo[7].

Occorre dunque interrogare le fonti storiche dirette. Un primo esame condotto sulla regestazione degli atti notarili dei notai casalnovesi del XVI secolo[8], sul Librone Magno[9] e su altri documenti d’archivio (visite pastorali e relazioni delle proprietà capitolari), sebbene non abbia sciolto l’enigma, ha comunque fornito dei dati interessanti che andrebbero approfonditi attraverso successive ricerche. Queste fonti documentano le vicende di una famiglia agiata, imparentata con alcune fra le maggiori famiglie manduriane (come i Pasanisi e i Rosea), titolare di beni immobili e fondiari (alcuni dei quali lasciati al Capitolo della chiesa matrice[10]), nonché di giuspatronati su varie cappelle[11].

L’apposizione dello stemma familiare – segno di riconoscimento, marchio di proprietà e motivo decorativo – si rivela dunque compatibile con lo status sociale e patrimoniale acquisito dalla famiglia nel corso del Cinquecento. Lascio volentieri agli studiosi di storia manduriana la possibilità di sviluppare una pista di ricerca che potrebbe rivelarsi di sicuro interesse per la conoscenza di un tassello dimenticato della storia e dell’architettura locali.

 

*Un ringraziamento particolare va all’artista manduriana Paola Lagamba, che ha sottoposto alla mia attenzione l’esemplare oggetto di questa breve disamina, e a Giuseppe D’Angeli, per le foto che gentilmente mi ha fornito.

[1] Cfr. M. Pastoureau, Bestiari del Medioevo, Torino 2012, pp. 47, 152, 158, 192-193, 195, 241, 249-250.

[2] Sull’evoluzione della forma dello scudo nel XVI secolo v. O. Neubecker, Araldica: origini, simboli e significato, Milano 1980, pp. 76-77; S. TIBERINI, Araldica e storia sociale: possibili esempi perugini tra medioevo ed età moderna, in “Bollettino della Deputazione di storia patria per l’Umbria”, CXI (2014), pp. 293-303.

[3] Con questo nome si conoscono varie famiglie, non è chiaro se semplicemente omonime o discendenti da un medesimo ceppo. Per i Basile di Napoli cfr. V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, suppl. 1°, Milano 1935, pp. 302-305; cfr. anche la voce presente nel sito Nobili Napoletani, al seguente indirizzo: http://www.nobili-napoletani.it/Basile.htm. Recentemente, proprio su queste pagine, mi sono occupato della famiglia Basile di Francavilla e del suo stemma scolpito sulla facciata dell’omonimo palazzo: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/04/lo-stemma-del-palazzo-basile-francavilla-fontana-un-curioso-caso arma-parlante/.

[4] Cfr. B. Perretti, Manduria: architettura, arte, società, Manduria 2005, p. 118.

[5] Si chiamano armi parlanti quelle che contengono una o più raffigurazioni che alludono (direttamente o indirettamente) al nome della famiglia: una scala per gli Scaligeri, una Colonna per i Colonna, tre pignatte per i Pignatelli ecc. La relazione parlante può annodarsi anche soltando con una parte del nome, come avviene nello stemma Basile oggetto di questo studio o in quello della città svizzera di Basilea, nel quale il basilisco che allude al nome (basilisk/Basel) viene impiegato come ornamento esterno dello scudo. Si calcola che circa un 20/25% degli stemmi europei sia classificabile come parlante. Cfr. M. Pastoureau, Figures de l’héraldique, Paris 1996, p. 82.

[6] Cfr. B. Fontana, Le famiglie di Manduria dal XV secolo al 1930: capostipiti, provenienza, uomini illustri, Manduria 2005, p. 44.

[7] Cfr. Perretti, Manduria: architettura cit., p. 118.

[8] Cfr. M. Alfonzetti, M. Fistetto, I protocolli dei notai di Casalnovo nel Cinquecento: regestazione degli atti notarili dei notai casalnovesi conservati nell’Archivio di Stato di Taranto, Manduria 2003, alle voci De Basiliis/De Basilijs.

[9] Cfr. Librone Magno, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, MS. Rr/1-3, cc. 27r e 28v.

[10] Cfr. L. Tarentini, Manduria sacra, ovvero Storia di tutte le chiese e cappelle distrutte ed esistenti dei monasteri e congregazioni laicali dalla loro fondazione fino al presente, Manduria 1899, rist. anast. Manduria 1999, p. 17.

[11] ADO, Visita pastorale Mons. Lucio Fornari, 1603-1604, b. 2, consultata in copia fotostatica presso la Biblioteca diocesana di Oria.

Oria. Un caso di araldica pontificia immaginaria

In anteprima pubblichiamo in versione ridotta l’articolo sullo stemma papale della chiesa di S. Giovanni Battista che apparirà prossimamente sulle pagine della rivista Nobiltà

Fig. 1 - Oria, chiesa di S. Giovanni Battista, facciata
Fig. 1 – Oria, chiesa di S. Giovanni Battista, facciata

 

UN LEONE RAMPANTE CON UNA FASCIA A TRAVERSO: LO STEMMA PAPALE DELLA CHIESA DI S. GIOVANNI BATTISTA DI ORIA, UN CASO DI ARALDICA PONTIFICIA IMMAGINARIA

di Marcello Semeraro

Sulla facciata della chiesa di S. Giovanni Battista di Oria si trova scolpito l’esemplare araldico a cui è consacrata la seguente indagine (figg. 1, 2). La presenza delle chiavi e della tiara, poste come insegne di dignità all’esterno dello scudo, indica chiaramente all’araldista che si tratta di un’arma papale, ma per l’attribuzione del manufatto è necessario conoscere la storia dell’edificio su cui esso è apposto. Scopriremo che non si tratta di uno stemma vero e proprio, o forse sì…

Fig. 2 – Oria, chiesa di S. Giovanni Battista, particolare dello stemma papale
Fig. 2 – Oria, chiesa di S. Giovanni Battista, particolare dello stemma papale

IL LUOGO

Il monastero e la chiesa di S. Giovanni Battista furono eretti nel 1344 per volere della baronessa oritana Filippa di Cosenza (†1348), vedova di Guglielmo dell’Antoglietta, barone di Fragagnano, la quale fece costruire sul suo palazzo paterno una sontuosa dimora per i monaci della Congregazione Celestina[1], come si ricava da una lapide commemorativa datata 1613, murata sulla parete destra della chiesa, e dallo spoglio di altre fonti storiche[2]. Si tratta di una delle primissime fondazioni celestine attestate in Puglia, seconda solo a quella di S. Eligio in Barletta[3].

L’arrivo dei Celestini in Oria coincise con il periodo d’oro della nuova Congregazione monastica, che proprio nel Trecento, sotto l’impulso della diffusione del culto di Celestino V seguita alla sua canonizzazione (5 maggio 1313), registrò il massimo sviluppo e la più ampia estensione, propagandosi anche nel Regno di Napoli, dove godette della protezione e del sostegno dei sovrani angioini[4].

Nella prima metà del XVIII secolo i monaci oritani utilizzarono parte delle loro cospicue risorse per avviare una radicale ristrutturazione che trasformò l’antica costruzione trecentesca in un grande complesso in stile barocco[5]. L’opera fu intrapresa dall’abate Oronzo Bovio e poi continuata dal suo successore Tommaso Marrese e prese la forma di un complesso di vaste e solenni proporzioni che divenne il più cospicuo della città[6]. Agli inizi dell’Ottocento la Congregazione fondata nel XIII secolo da Pietro del Morrone fu vittima delle leggi eversive napoleoniche[7]. La legge del 13 febbraio 1807, promulgata da Giuseppe Bonaparte, soppresse in tutto il Regno di Napoli gli ordini religiosi delle regole di S. Bernardo e di S. Benedetto.

A Oria il provvedimento colpì i Benedettini Cassinesi di Aversa – a cui apparteneva il santuario di S. Pietro in Bevagna – e ovviamente i Benedettini Celestini[8]. Il colpo decisivo alla loro memoria fu però inferto dal sindaco Gennaro Carissimo, che nel 1912 fece abbattere il grandioso palazzo settecentesco, trasformando quella che era una perla del barocco pugliese nell’attuale edificio scolastico[9].

Dell’antico palazzo, ammirabile in tutta la sua grandiosità in alcune preziose foto d’epoca, non restano che pochi reperti: un balcone monumentale e qualche rudere erratico conservato nella Biblioteca comunale De Pace-Lombardi[10].

Dell’imponente complesso celestino, invece, rimangono la chiesa, che dopo la soppressione napoleonica svolse funzioni diverse e che oggi non è più adibita al culto[11], e l’attuale Parco Montalbano, un suggestivo giardino pensile risalente alla prima metà del Settecento.

LO STEMMA PAPALE

Lo stemma in questione, di grandi dimensioni, venne collocato al termine dei lavori costruzione della facciata settecentesca voluta dall’abate Tommaso Marrese nel 1718[12]. Timbrato da una tiara priva di infule e accollato alle chiavi petrine decussate, di cui restano solo le impugnature[13], lo scudo presenta una foggia ovale accartocciata e raffigura al suo interno un leone rampante attraversato da una fascia diminuita (fig. 2). L’analisi del manufatto e del contesto di committenza non lascia dubbi sulla sua attribuzione. Si tratta dello stemma di Celestino V, al secolo Pietro di Angelerio (1209/10-1296), il celebre papa eremita, fondatore dell’omonima Congregazione monastica, che rinunciò al soglio petrino dopo appena cinque mesi dalla sua elezione e che finì i suoi giorni prigioniero di Bonifacio VIII nel castello di Fumone[14]. Tuttavia, quello scolpito sulla facciata della chiesa oritana non è lo stemma pontificio realmente innalzato da Pietro del Morrone, semplicemente perché egli non ne ebbe mai uno vero. Si tratta, invece, di un’insegna fittizia, di un’arma di fantasia che qualcuno gli attribuì a posteriori, di un vero e proprio falso, insomma, di cui restano, come vedremo, numerose testimonianze. Com’è noto, il primo pontefice di cui si possa attestare con certezza l’uso di uno stemma nell’esercizio della sua carica fu Bonifacio VIII (1294-1303), ma è con Clemente VI (1342-1352) che la conformazione dell’arma papale si canonizza nella forma che diventerà classica (scudo ornato da tiara e chiavi decussate, legate da un cordone)[15], mantenendosi tale fino al pontificato di Benedetto XVI[16]. Quanto a Celestino V, le prime attestazioni della sua arma leonina non rimontano oltre il XVI secolo. Sull’origine di questa insegna sono state avanzate alcune ipotesi suggestive ma prive di qualsiasi riscontro storico e documentario[17]. Secondo alcuni studiosi, si tratterebbe dell’arma parlante dei Leone (o de Leone), nobili di Alife e Venafro, dai quali discenderebbe Maria, madre del pontefice[18]. Secondo altri, invece, l’insegna sarebbe stata ricalcata su quella del cardinale Guglielmo Longhi (†1319), che fu fra i porporati creati da Celestino V nel corso del suo breve pontificato. Quest’ultima ipotesi è quella che ha goduto di una maggiore fortuna[19]. Lo stemma del cardinale Longhi, apparentemente simile a quello attribuito ex post a papa Celestino, si trova scolpito in coppia ai lati del sarcofago del suo pregevole monumento funebre ammirabile nella basilica di S. Maria Maggiore di Bergamo[20]. All’interno di una cornice modanata compare un leone attraversato da una banda diminuita e trinciata, ma il manufatto non contiene alcuna indicazione cromatica utile alla ricostruzione degli smalti originari[21] (fig. 3).

Fig. 3 – Bergamo, basilica di S. Maria Maggiore, monumento funebre del cardinale Guglielmo Longhi, particolare dello stemma (foto di Alessandro Savorelli)
Fig. 3 – Bergamo, basilica di S. Maria Maggiore, monumento funebre del cardinale Guglielmo Longhi, particolare dello stemma (foto di Alessandro Savorelli)

 

Il Longhi apparteneva a una nobile famiglia bergamasca e fu anche intimo della corte angioina, abile diplomatico nonché amico di Bonifacio VIII, per incarico del quale gestì la delicata fase di abdicazione del papa eremita. Dopo la morte di quest’ultimo nel castello di Fumone, inoltre, ne prese in custodia il corpo e presenziò alla sua sepoltura nella tomba terragna posta al centro della chiesa di S. Antonio Abate a Ferentino. Secondo lo studioso Fabio Valerio Maiorano, è possibile che «in ricordo dell’evento, il cardinale de Longhi abbia fatto incidere sulla lastra sepolcrale la propria insegna araldica, in epoche successive “interpretata” e scambiata erroneamente per lo stemma papale di Celestino V»[22]. Tale supposizione appare verosimile anche perché all’epoca in cui visse il cardinale Longhi il galero rosso non si era ancora diffuso come timbro della dignità cardinalizia e, quindi, è possibile che qualcuno abbia confuso erroneamente lo scudo del porporato, privo di ornamenti esterni, con quello del papa del Gran Rifiuto[23]. Quello che è successo veramente non lo sapremo probabilmente mai perché la lastra tombale originaria è andata purtroppo persa[24]. Occorre tuttavia sottolineare che le ipotesi finora avanzate sull’origine di questo pseudostemma si limitano ad indagini isolate che non tengono conto del contesto storico-culturale che ne favorì l’apparizione nel corso del XVI secolo e la rapida diffusione nel periodo successivo. Intorno alla metà del Cinquecento prese piede un fenomeno nuovo, figlio dell’erudizione rinascimentale, che divenne poi dilagante in epoca barocca. Mi riferisco alla moda dell’araldica papale immaginaria e alla fantasia che si scatenò nell’attribuire stemmi d’invenzione ai pontefici vissuti prima di Bonifacio VIII[25]. L’araldista francese Édouard Bouyé ne ha individuato l’origine all’epoca del Concilio di Trento (1545-1563), quando nacquero, con intenti eruditi e apologetici, le prime raccolte di stemmi contenenti anche le armi dei pontefici vissuti in epoche pre-araldiche e proto-araldiche. L’Epitome pontificum romanorum a S. Petro usque ad Paulum IIII, scritta da Onofrio Panvinio e pubblicata a Venezia nel 1557[26], può essere annoverata fra le prime testimonianze del fenomeno, ma furono soprattutto le varie edizioni sulle vite dei papi scritte dal Platina e dal Ciacconio a dare un impulso decisivo alla diffusione di questa pratica[27]. Col tempo tale usanza travalicò anche l’ambito strettamente librario, trovando la sua massima espressione nella celebre serie araldica presente nella galleria dei papi di palazzo Altieri a Oriolo Romano. Iniziata intorno al 1671, la pinacoteca della località viterbese costituisce una delle fonti araldiche più importanti e mature per lo studio della materia, giacché contiene la prima e unica raccolta completa di tutti gli stemmi pontifici da San Pietro in poi[28]. Quanto a Celestino V, la sua personalità e la brevità del suo pontificato gli impedirono di innalzare un’arma papale vera e propria, ma ciò non ostacolò l’operazione di «risarcimento» araldico finalizzata a dotarlo retrospettivamente di un’insegna che mai si sarebbe sognato di avere, un’insegna della quale non sono note con certezza le origini, ma la cui circolazione fu sicuramente favorita dalla nascente e poi dilagante voga dell’araldica pontificia immaginaria. Le testimonianze relative all’uso di tale stemma abbondano e si trovano disseminate su opere a stampa, monumenti e altri manufatti. Fra gli esemplari su stampa, segnalo quello che accompagna il ritratto di Celestino V presente nel Pontificum romanorum effigies di Giovanni Battista Cavalieri (Roma 1580) e quello inciso sul frontespizio dell’edizione del 1627 delle Costituzioni celestine, approvate l’8 luglio dell’anno prima da Urbano VIII[29] (figg. 4, 5).

Fig. 4 – Ritratto di Celestino V accompagnato dallo stemma. G.B. Cavalieri, Pontificum romanorum effigies, Roma 1580, ad vocem
Fig. 4 – Ritratto di Celestino V accompagnato dallo stemma. G.B. Cavalieri, Pontificum romanorum effigies, Roma 1580, ad vocem

 

L’incisione presente sul frontespizio, in particolare, mostra in chiave allegorica San Pietro Celestino e San Benedetto da Norcia ai lati di un altare, sulla cui base, al centro, campeggia lo scudo di Maurizio di Savoia, cardinale protettore dei Celestini, affiancato da due scudi più piccoli (quello di papa Celestino e quello della Congregazione da lui fondata[30]) sottostanti ai due santi, mentre sulla trabeazione spicca l’arma di papa Barberini, sormontata da uno scudo con la Vergine e il Bambino posto sul fastigio. Si tratta di una testimonianza significativa perché mostra come agli inizi del Seicento questo stemma, nato senza il presupposto storico di un possessore che lo abbia effettivamente portato, si sia ormai «istituzionalizzato».

Fig. 5 – Frontespizio delle Costituzioni celestine, Roma 1627
Fig. 5 – Frontespizio delle Costituzioni celestine, Roma 1627

 

L’insegna leonina era del resto ben nota a uno dei più accreditati biografi seicenteschi di Celestino V, Lelio Marini, abate generale della Congregazione Celestina dal 1630 al 1633, che in un passo della sua opera Vita et miracoli di San Pietro del Morrone già Celestino papa V descrisse l’arma del santo eremita in questi termini: «L’insigne nondimeno, che si chiama Arma, al nostro Pietro si trova in tutte le sue imagini antiche attribuito un Leone rampante con una fascia a traverso dalla coscia al piede destro, essendo come appoggiato sù il lato sinistro, si come è descritto da tutti gli autori, e in tutte le imagini, e anco da Alfonso Ciaccone nell’opra, che hà fatto della vita de i Sommi Pontefici con le armi e nomi ancora de i Cardinali di Santa Chiesa»[31]. L’opera del Ciacconio a cui si riferisce Marini è una raccolta sulle vite dei papi e dei cardinali, uscita in varie edizioni a partire dal 1601, nella quale si illustra la narrazione delle biografie dei pontefici con il rispettivo ritratto accompagnato dalla riproduzione dello stemma[32]. Il Ciacconio assegna a Celestino V uno scudo d’oro, al leone d’azzurro, attraversato da una banda abbassata e diminuita di rosso (fig. 6).

Fig. 6 – Stemma di Celestino V, tratto da A. Chacòn, Vitae et res gestae pontificum romanorum et S.R.E. cardinalium ab initio nascents ecclesiae usque ad Urbanum VIII Pont. Max., I, Roma 1630, p. 794
Fig. 6 – Stemma di Celestino V, tratto da A. Chacòn, Vitae et res gestae pontificum romanorum et S.R.E. cardinalium ab initio nascents ecclesiae usque ad Urbanum VIII Pont. Max., I, Roma 1630, p. 794

 

Un blasone simile si osserva sulla tela di Celestino V conservata nella galleria dei papi di Palazzo Altieri a Oriolo Romano[33]. La rappresentazione dell’arma, tuttavia, non fu stabile nel corso del tempo. La bicromia oro/azzurro del campo e della figura principale, ad esempio, risulta talvolta invertita, come si vede nell’esemplare ad intarsio marmoreo ammirabile sulla parete della cappella di Celestino V, in fondo alla navata destra della basilica di S. Maria di Collemaggio all’Aquila: d’azzurro, al leone d’oro, lampassato di rosso e attraversato da una banda abbassata e diminuita dello stesso[34] (fig. 7).

Fig. 7 – L’Aquila, basilica di S. Maria di Collemaggio, navata destra, cappella di Celestino V, particolare dello stemma papale (foto di Fabio Valerio Maiorano)
Fig. 7 – L’Aquila, basilica di S. Maria di Collemaggio, navata destra, cappella di Celestino V, particolare dello stemma papale (foto di Fabio Valerio Maiorano)

 

Gli studi condotti sul corpus araldico relativo a Pietro del Morrone mostrano, in effetti, un’arma caratterizzata da un’estrema variabilità blasonica, comprensibile per un’insegna come questa nata senza il vincolo di un uso storico effettivo e di un titolare che l’abbia davvero voluta. Le varianti, insomma, abbondano e se ne trovano versioni col campo d’argento[35], con la banda modificata rispetto alla sua posizione e alla sua forma ordinarie, tanto da assumere talora la forma di una fascia tout court (figg. 2, 5, 8), col capo caricato dalle insegne papali[36], col leone rivolto (figg. 4, 9) oppure rampante su un monte alla tedesca[37], e così via.

Fig. 8 – Mesagne (Brindisi), chiesa di S. Maria di Bethlehem, cantoria, stemma di Celestino V
Fig. 8 – Mesagne (Brindisi), chiesa di S. Maria di Bethlehem, cantoria, stemma di Celestino V

 

Fra tutti gli stemmi di fantasia della cronotassi papale anteriore a Bonifacio VIII, l’insegna araldica attribuita al papa eremita vanta il primato di essere quella che presenta la configurazione più instabile e variabile nel corso del tempo.

Fig. 9 – L’Aquila, basilica di S. Maria di Collemaggio, stemma di Celestino V sulla balaustra del presbiterio (foto di Fabio Valerio Maiorano)
Fig. 9 – L’Aquila, basilica di S. Maria di Collemaggio, stemma di Celestino V sulla balaustra del presbiterio (foto di Fabio Valerio Maiorano)

 

CONCLUSIONI

Nel XVIII secolo la Congregazione Celestina si attesta sulle posizioni consolidate nel periodo precedente, recependo alcune caratteristiche proprie del monachesimo settecentesco, come la prevalenza degli aspetti istituzionali e giuridici, la celebrazione dei fasti e delle glorie del passato, la corsa ad accaparrarsi titoli e dignità per il decoro dell’istituzione, lo sforzo per incrementare le rendite con cui provvedere alla manutenzione e al restauro degli edifici[38]. I monaci oritani non furono da meno ed è in questo contesto che vanno collocati l’ampliamento settecentesco del complesso monastico e l’apposizione delle insegne del loro fondatore, dell’Ordine[39] (figg. 10, 11) e dell’abate generale Ludovico Grassi[40] (figg. 12, 13, 14) in vari punti del monastero, della chiesa e del giardino.

Fig. 10 – Oria, Parco Montalbano (ex giardino dei Celestini), stemma della Congregazione Celestina scolpito sui due lati del papapetto negli anni 1726-1730
Fig. 10 – Oria, Parco Montalbano (ex giardino dei Celestini), stemma della Congregazione Celestina scolpito sui due lati del parapetto negli anni 1726-1730
Fig. 11 – Oria, chiesa di S. Giovanni Battista, interno, all’altezza della cupola, stemma della Congregazione Celestina
Fig. 11 – Oria, chiesa di S. Giovanni Battista, interno, all’altezza della cupola, stemma della Congregazione Celestina

 

In questa araldizzazione degli spazi sacri, lo stemma del papa del Gran Rifiuto, benché non autentico, era ormai diventato parte integrante dell’iconografia araldica dell’Ordine e, come tale, funzionale alla strategia comunicativa messa in atto dai Celestini oritani nella prima metà del Settecento. Sopravvissuto alle ingiurie del tempo e ai cambi di destinazione a cui è stato sottoposto l’edificio nel corso del tempo, il leone di Celestino campeggia ancora oggi, beffardamente, sulla superba facciata, perpetuando il mito e la memoria del fondatore della Congregazione Celestina:   un bel risultato, se ci pensiamo, per uno stemma immaginario attribuito a un papa che giammai ne fece uso.

Fig. 12 – Oria, cortile della scuola elementare E. De Amicis, balcone monumentale, stemma dell’abate generale dei Celestini Ludovico Grassi
Fig. 12 – Oria, cortile della scuola elementare E. De Amicis, balcone monumentale, stemma dell’abate generale dei Celestini Ludovico Grassi

 

Fig. 13 – Sulmona, abbazia di S. Spirito al Morrone, altare sinistro della chiesa interna, stemma dell’abate generale dei Celestini Ludovico Grassi, privo del quarto di religione (foto di Fabio Valerio Maiorano)
Fig. 13 – Sulmona, abbazia di S. Spirito al Morrone, altare sinistro della chiesa interna, stemma dell’abate generale dei Celestini Ludovico Grassi, privo del quarto di religione (foto di Fabio Valerio Maiorano)

 

Fig. 14 – L’Aquila, basilica di S. Maria di Collemaggio, altare principale, stemma dell’abate generale Ludovico Grassi con il quarto della Religione Celestina
Fig. 14 – L’Aquila, basilica di S. Maria di Collemaggio, altare principale, stemma dell’abate generale Ludovico Grassi con il quarto della Religione Celestina

 

[1] Sulla storia della Congregazione Celestina segnalo soprattutto il fondamentale studio di U. Paoli, Fonti per la storia della Congregazione Celestina nell’Archivio Segreto Vaticano, Cesena 2004.

[2] Cfr. S. Ammirato, Della famiglia dell’Antoglietta di Taranto, Firenze 1597, p. 26; M. Matarrelli-Pagano, Raccolta di notizie patrie dell’antica città di Oria nella Messapia, a cura di E. Travaglini, Oria 1976, p. 84; D. T. Albanese, Historia Dell’antichità d’Oria Città della Provincia di Terra d’Otranto. Raccolta da molti antichi e moderni Geografi, ed Historici Dal Filosofo e Medico Domenico Tomaso Albanese della stessa Città, nella quale anco si descrive l’origine di molti luoghi spettanti alla sua Diocesi, Brindisi, Biblioteca pubblica arcivescovile A. De Leo, Manoscritti, ms. D/15, cc. 314r e v; G. Papatodero, Della Fortuna di Oria Città in Provincia di Otranto nel Regno di Napoli, con giunte dell’arcidiacono Giuseppe Lombardi, Napoli 1858, pp. 319-320. Per una sintesi, mi sia consentito il rinvio al mio saggio M. Semeraro, Insignia. Saggi su Oria araldica, Oria 2015, pp. 14, 18-20 e relative note.

[3] Cfr. Paoli, Fonti per la storia cit., p. 28.

[4] Ivi, pp. 25-26.

[5] Sull’argomento v. P. Malva, M. Mattei, Oria, l’organo dei Celestini, Oria 2007, pp. 11-14; P. Spina, Oria, strade vecchie, nomi nuovi. Strade nuove, nomi vecchi, Oria 2003, pp. 59-63.

[6] Spina, Oria, strade vecchie cit., p. 62-63.

[7] Tra il 1807 e il 1810 tutti i monasteri celestini caddero sotto i colpi delle leggi napoleoniche (Paoli, Fonti per la storia cit., p. 83).

[8] Cfr. C. Turrisi, La diocesi di Oria nell’Ottocento, Roma 1978, p. 285.

[9] Spina, Oria, strade vecchie cit., p. 59.

[10] Il balcone era originariamente collocato sulla facciata del monastero settecentesco. Fu poi smontato e ricostruito da Floriano Stranieri nel cortile dell’attuale scuola elementare Edmondo De Amicis (v. Malva, Mattei, Oria, l’organo cit., p. 21, nota 16). Sul fastigio della trabeazione del portale che dà sul balcone, fa bella mostra di sé lo stemma di Ludovico Grassi, abate generale della Congregazione Celestina per tre mandati: 1704-1707, 1707-1710, 1719-1722 (cfr. Paoli, Fonti per la storia cit., pp. 528-530). Il Malva ha erroneamente attribuito tale stemma all’abate oritano Oronzo Bovio (v. Malva, Mattei, Oria, l’organo cit., p 11). Per il blasone, v. infra, nota 40.

[11] Malva, Mattei, Oria, l’organo cit., pp. 14-15.

[12] Come si evince dall’epigrafe incisa sul drappo litico che sormonta lo stemma papale (cfr. ivi, p. 21, nota 17).

[13] Sull’uso e sulla simbologia della tiara e delle chiavi v. B.B. HEIM, L’araldica nella Chiesa Cattolica. Origini, usi, legislazione, Città del Vaticano 2000, pp. 50-55; A. Cordero Lanza di Montezemolo, A. Pompili, Manuale di araldica ecclesiastica nella chiesa cattolica, Città del Vaticano 2014, pp. 38-40.

[14] Pietro di Angelerio (chiamato anche del Morrone) nasce tra il 1209 e il 1210, penultimo di dodici fratelli, da una famiglia modesta, probabilmente a Sant’Angelo Limosano, anche se Isernia, Sulmona e altre città se ne contendono i natali. Negli anni 1233-1234 si reca a Roma, dove probabilmente riceve l’ordinazione sacerdotale. Intorno al 1235 si ritira in località Sigezzano, presso Sulmona, ai piedi del monte Morrone, dove accoglie i primi discepoli. Da sempre attratto dall’austerità della vita monastica, fonda una comunità di religiosi di cui si hanno le prime notizie certe a partire dal 1259. Con la bolla Cum sicut del 1263 di Urbano IV si registra la prima regolarizzazione della famiglia eremitica, incorporata nella regola benedettina, e confermata in seguito da Gregorio X nel 1275. Il 5 luglio 1294 viene eletto papa nel conclave di Perugia; il 28 luglio entra all’Aquila a dorso di un asino; il 29 agosto viene incoronato col nome di Celestino V sul piazzale antistante a S. Maria di Collemaggio. Con la bolla Et si cunctos del 1294, papa Celestino stabilisce la struttura giuridica e istituzionale della comunità religiosa da lui fondata, che ormai ha assunto ufficialmente la denominazione di Orso Murronensis o Ordo S. Spiritus de Murrone. Il suo pontificato, tuttavia, si rivelerà difficoltoso e lontano dalle sue aspirazioni eremitiche. Il 13 dicembre del 1294, dopo appena cinque mesi dalla sua elezione, il papa annuncia la sua decisione di rinunciare al sacro soglio davanti ai cardinali riuniti in concistoro. Il nuovo pontefice, Bonifacio VIII, dapprima lo fa sorvegliare, poi, dopo un tentativo di fuga, lo relega nella rocca di Fumone, dove muore il 19 maggio del 1296. La Congregazione Celestina ha assunto nel corso del tempo varie denominazioni: Ordo S. Spiritus de Maiella, Ordine di fra’ Pietro del Morrone, Ordo Murronensis, Ordo S. Spiritus de Murrone, Ordo Caelestinorum, mentre dalla seconda metà del XV secolo diventerà prevalente quella di Congregatio Caelestinorum. Cfr. Paoli, Fonti per la storia cit., pp. 3-21.

[15] Sulle origini e l’evoluzione dell’araldica papale v. Heim, L’araldica cit., pp. 98-102; E. Bouyé, Les armoiries pontificales à la fin du XIII siècle: construction d’une campagne de communication, in «Médiévales», 44 (2003), pp. 173-198; D. L. Galbreath, Papal heraldry, 2nd ed. revis. by G. Briggs, London 1972.

[16] Com’è noto, Benedetto XVI abolì l’uso della tiara come timbro dello stemma papale, sostituendola con una mitria d’argento ornata da tre fasce d’oro, unite da un palo dello stesso colore. Il suo successore, Francesco, ha mantenuto tale uso.

[17] La questione relativa alle ipotesi sulle origini dello stemma di Celestino V è stata affrontata da F.V. Maiorano, S. Mari, Gli stemmi superstiti dell’abbazia di S. Spirito del Morrone e l’enigma di un’insegna trecentesca, in «Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria», 103 (2012), pp. 93-95.

[18] In realtà i cognomi de Angeleriis e de Leone sono sconosciuti ai primi biografi di Celestino V e sono stati tirati fuori per accreditarne l’origine isernina, basandosi su due documenti la cui autenticità è stata giudicata dubbia da studiosi del calibro di Peter Herde. Cfr. P. Herde, Celestino V, santo, in «Encicplopedia dei Papi», disponibile al seguente indirizzo: http://www.treccani.it/enciclopedia/santo-celestino-v_%28Enciclopedia-dei-Papi%29/.

[19] V. anche A. Savorelli, Il papa e il leone, in «Medioevo», XI, n° 7 (126), Novara 2007, p. 92.

[20] In origine il monumento, opera di Ugo da Campione, era collocato nella chiesa di S. Francesco, nella cappella di San Nicolò che lo stesso cardinale Longhi fece edificare. Nel 1843 fu trasferito in S. Maria Maggiore. Cfr. G. Cariboni, Longhi, Guglielmo, in «Dizionario Biografico degli Italiani», vol. 65 (2005), disponibile al seguente indirizzo: http://www.treccani.it/enciclopedia/guglielmo-longhi_(Dizionario-Biografico)/.

[21] Sugli smalti dello stemma gentilizio del cardinale Longhi le fonti, tutte successive all’epoca in cui egli visse, non concordano. Secondo il Ciacconio, il cardinale portava uno scudo d’argento, al leone d’azzuro, attraversato da una banda abbassata, diminuita e trinciata del primo e di verde, mentre nel blasone fornito dal Crollalanza la banda è di rosso e di verde. Lo stemmario Camozzi-Vertova, alla voce Longhi degli Alessandri di Adrara, riporta invece uno scudo d’argento, al leone d’azzurro, lampassato di rosso, attraversato da una banda abbassata e trinciata d’oro e del terzo. Il Maiorano, infine, riporta un’arma d’argento, al leone di nero, lampassato di rosso e attraversato da una banda abbassata e trinciata d’oro e di verde. Cfr. A. Chacón, Vitae et gesta summorum pontificum ab Innocentio IV usque ad Clementem VIII necnon S. R. E. cardinalium cum eorumdem insignibus, II, Roma 1601, p. 638; G.B. Di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane, estinte e fiorenti, Pisa 1886-1890, rist. anast. Bologna 1965, II, p. 31; Stemmario Camozzi-Vertova, Bergamo, Biblioteca civica Angelo Mai, Manoscritti, ms. AB016, n. 2323; Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., p. 94.

[22] Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., p. 95.

[23] Il cappello di rosso, concesso nel 1245 dal papa Innocenzo IV ai cardinali in occasione del Concilio di Lione, fece la sua comparsa in araldica nella prima metà del Trecento, ma fino alla fine del secolo il suo uso non si era ancora generalizzato. Fu solo a partire dal XV secolo che il suo impiego divenne abituale. Su tale questione v. M. Prinet, Les insignes des dignités ecclésiastiques dans le blason français du XV siècle, in «Revue de l’Art Chretien», Paris 1911, p. 23; Cordero Lanza di Montezemolo, Pompili, Manuale di araldica cit., p. 19.

[24] Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., p. 95, nota 78.

[25] Quello degli stemmi d’invenzione, in realtà, è un fenomeno più vasto, non circoscritto ai soli papi, osservabile sin dai primordi dell’araldica. La rapida diffusione sociale delle armi vere, apparse nei tornei e nei campi di battaglia nella prima metà del XII secolo, fece sì che ben presto, sin dalla seconda metà dello stesso secolo, se ne attribuirono altre a personaggi immaginari o vissuti in epoche precedenti alla comparsa dell’araldica (cfr. M. Pastoureau, Figures de l’héraldique, Paris 1996, p. 25). Fu però nel periodo a cavallo fra il Rinascimento e il Barocco che il fenomeno coinvolse massicciamente la chiesa, investendo non solo i papi ma anche i cardinali pre-araldici (cfr. M. C. A. Gorra, L’arma di Pietro: ipotesi per un blasonario dei pontefici anteriori a Bonifacio VIII, in «Nobiltà», a. VIII, n. 39, novembre-dicembre 2000, pp. 557-576; Bouyé, Les armoiries pontificales cit.).

[26] Cfr. O. Panvinio, Epitome pontificum romanorum a S. Petro usque ad Paulum IIII, Venezia 1557.

[27] A. Chacòn (Ciacconius), Vitae, et res gestae pontificum romanorum et S.R.E. cardinalium, edizioni diverse fra 1601 e 1751; B. Platina, De vitis pontificum romanorum (Le vite de’ pontefici), edizioni diverse fra 1540 e 1703.

[28] Gorra, L’arma cit., p. 560.

[29] Cfr. Constitutiones monachorum Ordinis S Benedicti Congregationis Coelestinorum, sanctissimi domini nostri Urbani papae VIII iussu recognitae et eiusdem auctoritate approbatae et confirmatae, Roma 1627; Paoli, Fonti per la storia cit., p. 57.

[30] Lo stemma innalzato dai monaci della Congregazione Celestina non ebbe nel corso del tempo una configurazione stabile. Manca lo spazio per approfondire la questione. In questa sede mi limito pertanto a dire che in origine i monaci portarono uno scudo d’argento, alla croce latina accollata alla lettera S, il tutto di nero: la bicromia bianco/nero rappresenta l’araldizzazione dell’abito monastico, mentre la lettera S sta probabilmente per Santo Spirito (ma altre spiegazioni sono state addotte), al quale Pietro del Morrone era particolarmente devoto, come provano anche i numerosi monasteri eretti sotto questo titolo e alcune fra le denominazioni primitive della Congregazione (v. supra, nota 14). Successivamente lo stemma fu incrementato con l’aggiunta di altre figure di carattere allusivo: un monte all’italiana di tre cime, probabile allusione ai monti Morrone e Maiella, cari al papa eremita, e due gigli, in ricordo della speciale protezione e del sostegno accordati ai Celestini dai sovrani angioini di Napoli e da quelli di Francia. Lo stemma divenne così d’azzurro, alla croce latina di nero (alias d’oro), accollata alla lettera S d’oro, accostata da due gigli dello stesso e fondata su un monte all’italiana di tre cime di verde, movente dalla punta. Ma vi furono varianti sia negli smalti, sia nella foggia della croce. Talora la lettera S assunse una forma serpentina. Cfr. Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., pp. 80-88; G. Zamagni, Il valore del simbolo: stemmi, simboli, insegne e imprese degli Ordini religiosi, delle Congregazioni e degli altri Istituti di perfezione, Cesena 2003, pp. 53-54.

[31] L. Marini, Vita et miracoli di San Pietro del Morrone già Celestino papa V, Milano 1630, p. 4.

[32] V. supra, nota 27.

[33] Gorra, L’arma cit., p. 576.

[34] Ibid.; Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., p. 93.

[35] V. il blasone riportato da X. Barbier de Montault, Armorial des Papes, Arras 1877, p. 15.

[36] Gorra, L’arma cit., p. 576.

[37] Come si vede nell’esemplare raffigurato sull’altare di S. Antonio di Padova nella chiesa di S. Maria di Bethlehem di Mesagne. La chiesa e l’ex convento ad essa attiguo (antica dimora dei Celestini, oggi palazzo di Città) custodiscono vari esemplari dello stemma attribuito a Celestino V. Dato il loro interesse, sarebbe interessante farne oggetto di un’indagine specifica.

[38] Cfr. Paoli, Fonti per la storia cit., p. 76.

[39] V. supra, nota 30. Dall’osservazione di alcune foto d’epoca scattate prima dell’abbattimento del 1912, si evince che un altro stemma della Congregazione Celestina era collocato sul portale d’ingresso del palazzo. Altri esemplari, che sicuramente erano presenti all’interno dell’edificio, sono andati purtroppo persi. Lo stemma dei Celestini scolpito, negli anni 1726-1730, sui due lati del parapetto del giardino di Parco Montalbano (fig. 10) è stato da taluni erroneamente confuso con il bastone di Asclepio, noto simbolo della medicina, deducendo da ciò l’ipotesi che il giardino sia stato adoperato dai monaci come luogo per la coltivazione di erbe medicinali. A questa tesi strampalata sembra credere anche l’autore delle note storiche su Parco Montalbano presenti nel sito del comune di Oria: cfr. http://www.comune.oria.br.it/territorio/da-visitare/item/parco-montalbano.

[40] Lo stemma in questione mostra l’arma gentilizia propria dell’abate Grassi (troncato: nel 1° un’aquila coronata, rivolta e posata sulla partizione; nel 2° scaccato di quattro file) abbassata, per mezzo di uno scudo troncato, sotto il quarto della Religione Celestina. Il timbro è costituito da un cappello prelatizio (di nero) da cui pendono due cordoni terminanti con dodici nappe, sei per lato (1.2.3), delle quelli si vedono solo quelle terminali. L’arma si presenta acroma, ma per la ricostruzione degli smalti può essere utile il raffronto con stemma dello stesso abate, privo tuttavia del quarto celestino, visibile nell’abbazia di S. Spirito al Morrone, nell’altare sinistro della chiesa interna, così blasonabile: d’argento, all’aquila al volo abbassato di nero, coronata e rostrata d’oro, posata su una campagna scaccata di cinque file dell’ultimo e del secondo. Lo scudo è timbrato da un cappello prelatizio a sei nappe per lato (1.2.3), il tutto di nero (fig. 13). Altri esemplari del suo stemma si trovano in Maiorano, Mari, Gli stemmi superstiti cit., pp. 73-75.

 

Araldica carmelitana a Nardò (Lecce)

di Marcello Semeraro

Ripropongo in questa sede la versione integrale del mio saggio sull’iconografia araldica dei Carmelitani Calzati di Nardò, apparso sul volume Decor Carmeli. Il convento, la chiesa e la confraternita del Carmine di Nardò, a cura di Marcello Gaballo (Mario Congedo editore, Galatina 2017, pp. 259-264).

 

ARALDICA CARMELITANA A NARDÒ

LO STEMMA CARMELITANO: ORIGINE E SVILUPPI

L’uso degli stemmi da parte dei membri della Chiesa risale alla prima metà del Duecento, un secolo dopo la comparsa delle prime armi in ambito militare e cavalleresco. Questo ritardo si spiega facilmente se si considera che il sistema araldico primitivo si elaborò interamente al di fuori dell’influenza di Roma, la quale in un primo momento si dimostrò refrattaria all’utilizzo di emblemi profani legati a guerre e tornei. Fu solo col prevalere di un più generico significato di distinzione sociale che l’uso degli stemmi troverà piena giustificazione negli ambienti ecclesiastici, soprattutto per via della sua utilità nei sigilli[1]. L’iniziale avversione della Chiesa nei confronti delle armi cadde quindi nel momento in cui esse persero il loro carattere esclusivamente militare, diffondendosi, tra il XIII e il XIV secolo, a tutte le classi e le categorie sociali. I vescovi furono i primi a fare uso di stemmi (ca. 1220-1230), seguiti dai canonici e dai chierici secolari (ca. 1260), dagli abati e, verso la fine del Duecento, dai cardinali[2]. Quanto ai papi, il primo a utilizzare uno stemma fu Niccolò III (1277-1280), ma è con Bonifacio VIII (1294-1303) che tale uso divenne sistematico[3]. Le comunità ecclesiastiche fecero lo stesso a partire dal XIV secolo: ordini religiosi, abbazie, priorati, conventi e case religiose faranno via via un uso sempre maggiore di emblemi araldici, con le dovute differenze, a seconda del particolare ordine e delle regioni di appartenenza[4]. Anche i Carmelitani si dotarono di proprie insegne araldiche, tuttora innalzate dagli appartenenti a due distinti ordini religiosi: i Carmelitani dell’antica osservanza (o Calzati) e i Carmelitani Scalzi (o Teresiani) (figg. 1 e 2).

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Fig.1
Fig. 2
Fig. 2

 

Sulle origini dell’arma carmelitana non si hanno riferimenti cronologici certi. Quel che sappiamo è che l’insegna vanta una lunga storia, attestata sin dalla prima metà del XV secolo[5]. In origine i frati portarono uno scudo “di tanè, cappato di bianco (d’argento)”[6], composizione che rappresenta l’araldizzazione dell’abito carmelitano, formato dalla cappa bianca aperta sull’abito di colore tanè (marrone rossiccio)[7]. Questo fenomeno di araldizzazione dell’abito si ritrova, del resto, anche nello stemma innalzato dall’Ordine dei Frati Predicatori (Domenicani), nel quale però il cappato rappresenta la cappa nera aperta sull’abito bianco[8]. Il più antico esemplare a noi noto di stemma carmelitano si trova su un sigillo ogivale usato intorno al 1430 dal Capitolo Generale dell’Ordine (fig. 3).

Fig.3
Fig.3

 

Il campo mostra la Vergine in trono – un tipo assai ricorrente nella sfragistica carmelitana, che perdurerà fino al XVIII secolo – dentro un edicola tardo-gotica e in basso un frate genuflesso, affiancato da due scudi: quello dell’Ordine, accollato a un pastorale posto in palo, e quello di famiglia[9]; attorno la legenda SIGILLUM COMMUNE CAPITULI GENERALIS CARMELITARUM. Un altro sigillo ogivale, datato 1478 e pubblicato dal Bascapè, ha il campo suddiviso in tre piani: in alto un sole raggiante, al centro l’Annunciazione, in basso un frate affiancato da due scudetti cappati dell’Ordine[10]. Nel corso dei tempo, tuttavia, questa forma grafica primitiva conobbe numerosi sviluppi e varianti, in linea con una tendenza riscontrabile anche in altri stemmi di ordini religiosi. Lo studio delle testimonianze araldiche dimostra che l’evoluzione dell’insegna carmelitana può essere fatta risalre al XVI secolo. Sul frontespizio del Jardín espiritual di Pedro de Padilla, pubblicato a Madrid nel 1585, si trova inciso uno scudo cappato che reca per la prima volta, nelle due metà del campo, tre stelle dell’uno nell’altro[11], figure allusive alla Vergine Maria e ai profeti Elia ed Eliseo (fig. 4).

Fig. 4
Fig. 4

 

Lo scudo è timbrato da una corona, formata da un cerchio rialzato da tre fioroni e da sei perle poste a trifoglio e diademato da un arco di dodici stelle: chiaro riferimento alla corona della “donna vestita di sole” di biblica memoria (cfr. Ap 12, 1). L’uso di questo tipo di corona quale timbro dello scudo è documentato già alcuni anni prima, come si vede nell’incisione presente sul frontespizio delle Costituzioni del 1573[12].

Nel 1595 furono pubblicati i decreti per i Carmelitani di Spagna e Portogallo, dove si trova inciso uno scudo ovale[13], timbrato da una corona con cinque fioroni alternati a quattro perle, dalla quale esce come cimiero un braccio sinistro impugnante una spada fiammeggiante; sopra, un cartiglio svolazzante reca il motto Zelo zelatus sum pro Domino Deo exercituum (“Ardo di zelo per il Signore Dio degli eserciti”) (fig. 5).

Fig. 5
Fig. 5

 

La spada e il motto alludono, chiaramente, al profeta Elia (cfr. 1Re 19, 10). Nei secoli seguenti, questa rappresentazione completa dell’arma carmelitana, costituita dallo scudo e dalle sue ornamentazioni esterne, godette, pur tra varianti, di una certa fortuna. La riforma dell’Ordine, avvenuta nella seconda metà del Cinquecento per opera di Santa Teresa d’Ávila e di San Giovanni della Croce, ebbe conseguenze anche dal punto di vista araldico.

I Carmelitani Scalzi, infatti, si differenziarono dai Calzati aggiungendo una crocetta[14] sulla sommità del triangolo, probabilmente per “denotare la vita più penitente che essi menano osservando la primitiva regola[15]. Ne troviamo un esempio antico sul frontespizio dei Privilegia Sacrae Congregationis Fratrum Regulam primitivam Ordinis B. Mariae de Monte Carmeli profitentium, qui Discalceati nuncupantur, opera edita a Madrid nel 1591 (fig. 6).

Fig. 6
Fig. 6

 

Come si vede nell’illustrazione, la modifica operata dagli Scalzi, una sorta di brisura[16] araldica nel senso lato del termine, riguardò solo il contenuto dello scudo, lasciando inalterate le ornamentazioni esterne, vale a dire la corona nimbata, il cimiero e il motto eliani. A poco a poco il triangolo della partizione prese la forma di un monte stilizzato, probabilmente per effetto di una diversa interpretazione attribuita al cappato, considerato come rappresentazione simbolica del biblico Monte Carmelo – al quale le origini dell’Ordine sono ricondotte – piuttosto che come araldizzazione dell’abito religioso.

Una forma particolare di stemma fu poi quella adottata in epoca moderna dalla Congregazione Mantovana, dal Camine Maggiore di Napoli e, più in generale, dai Calzati delle Province del Sud Italia, che si caratterizza per l’aggiunta, nella metà inferiore del campo, di un ramo di palma e di giglio – attributi iconografici di S. Angelo di Sicilia e S. Alberto di Trapani, i primi due canonizzati dell’Ordine – spesso infilati in una corona e talora uscenti da un monte di tre cime all’italiana[17] (figg. 7, 8)[18].

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Fig. 7
Fig. 8
Fig. 8

 

Le varianti a cui andò incontro l’insegna nel corso del tempo furono molteplici e riguardarono sia il contenuto dello scudo che le sue ornamentazioni esterne[19]. La corona, ad esempio, non compare in tutti gli stemmi e non sempre da essa esce il braccio d’Elia impugnante la spada. Anche il motto Zelo zelatus sum pro Domino Deo exercituum non è di uso costante. Gli smalti della metà inferiore del campo sono il tanè o il nero, ma vi sono casi eccezionali in cui esso è d’azzurro. Nel Settecento, al posto del cimiero col braccio di Elia, apparve sporadicamente un monogramma mariano dentro un sole raggiante. In linea generale si può sostenere che lo sviluppo grafico dello stemma è stato vario, condizionato, da una parte, dall’aggiunta di figure allusive alle origini e ai santi patroni dell’Ordine, e, dall’altra, da altri fattori propri della creazione artistica, quali il capriccio degli esecutori o il gusto del tempo.

L’arma carmelitana può anche comparire come quarto di religione all’interno dello scudo, dov’è associata, mediante una partizione (soprattutto il partito), all’arma (personale o familiare) dell’ecclesiastico proveniente da tale Ordine (fig. 9).

Fig. 9
Fig. 9

L’uso del partito, in particolare, è documentato sin dal XVII secolo negli stemmi dei priori generali e dei Carmelitani divenuti cardinali o vescovi. Talora, l’insegna dell’Ordine è posta su uno scudetto, come si vede nello stemma del cardinale Joaquín Lluch y Garriga (†1882, O.C.D.) e in altri esempi[20]. Le suore del Secondo Ordine carmelitano, infine, portano le medesime insegne dei rispettivi ordini maschili[21].

 

GLI STEMMI DEI CARMELITANI CALZATI DI NARDÒ

L’arrivo dei Carmelitani dell’antica osservanza a Nardò risale al 1568, come già trattato da diversi autori in questo lavoro. Dai documenti d’archivio risulta, infatti, che in quell’anno ai frati, rappresentati da Crisostomo Romano di Mesagne, con il beneplacito del vescovo Giovan Battista Acquaviva d’Aragona e del duca Giovan Bernardino II Acquaviva, fu assegnata provvisoriamente la chiesa dell’Annunziata, dimorando in un primitivo e ridotto insediamento che avrebbero ampliato negli anni seguenti. Alla fine del XVI secolo è databile l’esemplare araldico più antico giunto fino a noi, scolpito sulla facciata dell’ex convento (fig. 10).

Fig. 10 (foto Lino Rosponi)
Fig. 10 (foto Lino Rosponi)

 

All’interno di uno scudo appuntato, col lato superiore sagomato a due punte, è rappresentato un monte[22] stilizzato e acuminato, accompagnato, nel cantone destro del capo, da una cometa di sette raggi (più la coda), ondeggiante in banda. Lo scudo è timbrato da una corona costituita da un cerchio gemmato di stelle, sostenente fioroni oggi quasi del tutto abrasi. La composizione araldica è posta su un medaglione circolare, attorno al quale corre la scritta INSIGNE CARMELI VEXILLUM. L’uso del termine “vexillum” con riferimento allo stemma carmelitano non è certo una novità (fig. 5) e si riferisce probabilmente all’origine vessillare dell’insegna dell’Ordine[23].

Come ho già ricordato sopra, fu solo alla fine del Cinquecento che lo stemma carmelitano assunse la forma col cappato (variamente interpretato) e le tre stelle, che sarebbe poi diventata classica (figg. 4 e 5). L’esemplare litico neretino si rivela, da questo punto di vista, una testimonianza di notevole interesse perché mostra una variante insolita nell’evoluzione dell’iconografia araldica dell’Ordine, ascrivibile a una fase transizione dello stemma dalla versione primitiva a quello classica. Probabilmente seicentesca è, invece, l’arma affrescata sulla volta dell’ingresso dell’ex convento (fig. 11), riconducibile alla variante con i rami di palma e di giglio, decussati e uscenti da una corona, usata in epoca moderna nel Meridione d’Italia (figg. 7, 8)[24].

Fig. 11 (foto Lino Rosponi)
Fig. 11 (foto Lino Rosponi)

 

Lo scudo, di foggia semirotonda e con contorno a cartoccio, timbrato da una corona con cinque fioroni e quattro perle, appare ingentilito, ai lati, da un cordone di tanè terminante con due nappe e, al di sotto della punta, da un cherubino; il tutto è circondato da un serto di alloro. Alla stessa tipologia appartengono due altri esemplari presenti nell’ex convento. Uno di questi è dipinto sul trono su cui è assisa la Vergine nell’affresco della Madonna del Carmelo e reca uno scudo sagomato e accartocciato, timbrato da una corona all’antica[25] (fig. 12).

Fig. 12 (foto Lino Rosponi)
Fig. 12 (foto Lino Rosponi)

 

L’altro si trova scolpito sulla volta del salone al pianterreno, racchiuso da uno scudo semirotondo e accartocciato, timbrato da una corona con perle sostenute da punte (fig. 13).

Fig. 13 (foto Paolo Giuri)
Fig. 13 (foto Paolo Giuri)

 

Nella chiesa della Beata Vergine Maria del Carmelo (in origine chiesa dell’Annunziata) si conservano altri tre esemplari che invece rispecchiano, seppur con varianti, l’iconografia classica dello stemma dei Carmelitani Calzati. Il primo è raffigurato su una lastra marmorea che in origine copriva l’accesso della sepoltura dei frati e che attualmente si trova come pezzo erratico in un deposito della chiesa (fig. 14).

Fig. 14 (foto Lino Rosponi)
Fig. 14 (foto Lino Rosponi)

 

Tale lastra mostra al centro l’emblema dei Calzati, racchiuso da uno scudo ovale e accartocciato, timbrato da una corona rialzata da cinque fioroni, alternati a quattro perle, sostenute da altrettante punte. Il secondo esemplare è uno stemma ligneo che fa bella mostra di sé sul fastigio dell’edicola centrale del coro (fig. 15).

Fig. 15 (foto Lino Rosponi)
Fig. 15 (foto Lino Rosponi)

 

Uno scudo sagomato e accartocciato, dalla foggia tipicamente settecentesca, timbrato da una corona di cui resta solo il cerchio, contiene un’irregolare rappresentazione dell’arma dei Calzati, così blasonabile: “troncato in scaglione di tanè e di…?, a tre stelle di otto raggi d’oro”[26].

Chiude questa carrellata di stemmi l’esemplare che decora un drappo rosso conservato fra gli arredi sacri della chiesa[27]. L’insegna è contenuta in uno scudo sannitico accartocciato, munito di una punta nel lato superiore e timbrato da una corona all’antica (fig. 16).

Fig. 16 (foto Lino Rosponi)
Fig. 16 (foto Lino Rosponi)

 

In conclusione, in base alle testimonianze superstiti si può affermare che la rappresentazione dello stemma innalzato dai Calzati di Nardò seguì, pur tra varianti, l’evoluzione dell’iconografia araldica dell’Ordine, caratterizzata dalla progressiva aggiunta sul cappato originario di figure e simboli allusivi agli ispiratori e ai santi patroni dell’Ordine. Se letti correttamente e in senso diacronico, gli esemplari neretini mostrano tre diverse fasi evolutive nella conformazione dell’insegna, che vanno dallo sviluppo della forma primitiva (fig. 10) alla forma classica (figg. 14, 15 e 16), passando attraverso la variante seicentesca adoperata nel Sud Italia (figg. 11, 12 e 13).

Riprodotti su supporti di vario tipo, questi stemmi furono impiegati dai frati con la duplice funzione di segni di appartenenza all’Ordine e motivi decorativi. Malgrado il notevole numero di varianti, i Calzati si riconobbero tutti nella propria insegna, professando orgogliosamente per mezzo di essa la propria fede e la propria appartenenza all’Ordine, con l’intento di trasmettere questo patrimonio ideale alle future generazioni. Sta a noi, dunque, decifrane il contenuto e diffonderne il messaggio: è questo, in fondo, l’obiettivo che il presente contributo, scevro da qualunque pretesta di esaustività, si propone di raggiungere.

 

[1] B. B. Heim, L’araldica nella Chiesa Cattolica. Origini, usi, legislazione, Città del Vaticano 2000, pp. 23-24; M. Pastoureau, Le nom et l’armoirie. Histoire et géographie des armes parlantes dans l’Occident médiéval, in “L’identità genealogica e araldica. Fonti, metodologie, interdisciplinarità, prospettive”, Atti del XXIII Congresso internazionale di scienze genealogica e araldica (Torino, 1998), Roma 2000, pp. 78-79.

[2] M. Pastoureau, Medioevo simbolico, Bari 2014, pp. 201-202; E. Bouyé, Les armoiries pontificales à la fin du XIII siècle: construction d’une campagne de communication, in “Médiévales”, 44 (2003), pp. 173-198.

[3] Sulle origini dell’araldica papale, v. Bouyé, Les armoiries pontificales cit., pp. 173-198; Heim, L’araldica cit., p. 100.

[4] A. Cordero Lanza di Montezemolo, A. Pompili, Manuale di araldica ecclesiastica nella Chiesa Cattolica, Città del Vaticano 2014, pp. 17-18.

[5] Le fonti per lo studio dell’arma carmelitana antica sono costituite essenzialmente dai sigilli. Sulla sfragistica e sull’araldica carmelitane, v. G.C. Bascapè, Sigillografia: il sigillo nella diplomatica, nel diritto, nella storia, nell’arte, II, Milano 1969, pp. 180-186.

[6] Nel blasone il termine cappato designa una partizione formata da due linee curve o rette che partono dal centro del capo e terminano ognuna al centro dei fianchi dello scudo. Come vedremo, nel corso del tempo il cappato carmelitano venne reso in maniera diversa, fino ad assumere la forma di un troncato in scaglione o di un monte stilizzato.

[7] Tuttavia, negli stemmi disegnati e stampati il colore tanè, che non fa parte dei sette smalti convenzionali del blasone (oro, argento, rosso, azzurro, verde, nero e porpora), diventa spesso nero. Il Ménestrier, il più autorevole araldista dell’Ancien Régime, a proposito dello stemma carmelitano così scrive: “L’Ordre des Carmes porte un escu tanè ou noir, chappé ou mantelé d’argent, pour representer les couleurs de leur habit”. C.F. Ménestrier, Les recherches du blason. Seconde partie de l’usage des armoiries, Paris 1673, p. 182. L’uso di una formula bicroma negli abiti religiosi fu introdotto intorno al 1220 dai Domenicani (saio bianco e mantello nero, presentati come i colori della purezza e dell’austerità) e fu ripreso dagli stessi Carmelitani e da alcuni ordini monastici (Celestini, Bernardini, ecc.). Su tale questione, v. Pastoureau, Medioevo simbolico cit., p. 140.

[8] Sull’insegna domenicana e sulle sue varianti, v. Bascapè, Sigillografia cit., pp. 203-205.

[9] Nei sigilli ecclesiastici, l’uso di associare, ai lati della figura del religioso, due scudi (quello del vescovado, dell’abbazia o dell’ordine, da un lato, e quello familiare, dall’altro) è riscontrabile a partire dal XIV secolo. A. Coulon, Éléments de sigillographie ecclésiastique française, in “Revue d’histoire de l’Église de France”, 18 (1932), pp. 178-179.

[10] Bascapè, Sigillografia cit., tav. XXXI, n. 3.

[11] Si dice di più figure che, poste in campi contigui di smalti diversi, assumono lo smalto del campo opposto. Le stelle sono invece due nell’esemplare inciso sul frontespizio delle Costituzioni del 1573, pubblicato dal Bascapè. Cfr. ivi, tav. XXXII, n. 7.

[12] V. supra, nota 11.

[13] Si noti la presenza, attorno allo scudo, di una bordura composta, formata da triangoli alternati di nero e di bianco (d’argento), ripetizione degli smalti del cappato. Questo tipo di bordura è simile a quella che compare nello stemma domenicano, del tipo con la croce gigliata.

[14] La provincia di Sicilia poneva, invece, un altro tipo di croce, quella gerosolimitana, potenziata e accantonata da quattro crocette, il cui uso è attestato anche per i Carmelitani di Malta. G. Zamagni, Il valore del simbolo: stemmi, simboli, insegne e imprese degli Ordini religiosi, delle Congregazioni e degli altri Istituti di perfezione, Cesena 2003, p. 9.

[15] Bascapè, Sigillografia cit., p. 185; G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, X, Venezia 1841, p. 59.

[16] La brisura, stricto sensu, è una variante introdotta in uno stemma rispetto all’originale, per distinguere i diversi rami di una stessa famiglia. I procedimenti più impiegati per brisare un’arma sono tre: la modificazione degli smalti, la modificazione delle figure e l’aggiunta di altre figure.

[17] Figura stilizzata, costituita da un insieme di cilindri coperti da calotte sferiche, detti colli o cime, disposti, generalmente, a piramide.

[18] Zamagni, Il valore del simbolo cit., p. 10.

[19] Ibid.; Bascapè, Sigillografia cit., p. 186.

[20] Lo stemma del cardinale Joaquín Lluch y Garriga è riprodotto sul sito Araldica vaticana, al seguente indirizzo: <http://www.araldicavaticana.com/luch_y_garriga_fra_gioacchino_1.htm>. Altri esempi di stemmi prelatizi con lo scudetto dell’Ordine si trovano in G.C. Bascapè, M. Del Piazzo, con la cooperazione di L. Borgia, Insegne e simboli. Araldica pubblica e privata, medievale e moderna, Roma 1999, pp. 404, 409.

[21] Ivi, p. 363.

[22] Utilizzo volutamente il termine monte e non montagna (che sarebbe araldicamente più corretto) perché più allusivo alle origini dell’Ordine.

[23] Il termine vexillum si trova documentato per la prima volta sulla xilografia raffigurata sul frontespizio della Vita di Sant’Alberto, pubblicata nel 1499, dove compare una mandorla ogivale, raggiante e sostenuta da due angeli, che contiene nel campo superiore la Vergine assisa in trono, incoronata e nimbata, sul cui grembo sta il Bambino, mentre i piedi poggiano su una mezzaluna su cui è inciso il motto “luna sub pedibus eius”; nel campo inferiore, invece, si trova il cappato carmelitano. Secondo il Bascapè, si tratta della riproduzione del gonfalone dell’Ordine, della fine del Trecento o degli inizi del secolo successivo. Bascapè, Sigillografia cit., pp. 181-182.

[24] Di questa variante dello stemma carmelitano sono documentate versioni con una o con tre stelle. Cfr. <http://ocarm.org/pre09/alberto/images/alberto034.jpg>; <http://ocarm.org/pre09/alberto/images/alberto033.jpg>.

[25] Si dice della corona composta da un cerchio rialzato da punte aguzze. In araldica è detta anche corona radiata.

[26] V. supra, nota 6. Si noti anche la differenza rispetto agli smalti convenzionalmente usati nel blasone dei Carmelitani.

[27] Marcello Gaballo, che ringrazio, mi ha riferito che il drappo era applicato dietro la croce processionale della Confraternita dell’Annunziata e del Carmine.

Oria e la damnatio memoriae del Fascismo: l’insegna civica di Palazzo Martini

di Marcello Semeraro

 

Durante il ventennio fascista il regime individuò nell’araldica pubblica un valido strumento di consenso e di propaganda politica. A partire dal 1933 negli stemmi dei comuni, delle province e degli enti morali fece la sua comparsa il famigerato fascio littorio, emblema dello Stato fascista (fig. 1).

Fig. 1 - Moneta d’oro da 100 lire del 1923, sul rovescio l’emblema del fascio littorio
Fig. 1 – Moneta d’oro da 100 lire del 1923, sul rovescio l’emblema del fascio littorio

 

Non è questa la sede per disquisire della storia di questo antichissimo simbolo, del suo utilizzo nel corso del tempo e dello stravolgimento che ne fece il fascismo. Qui mi limito pertanto ad osservare che si tratta di una figura di origine etrusca, passata poi alla civiltà romana, dove divenne insegna e simbolo dei magistrati dotati di imperium. I fasci romani erano costituiti da verghe di olmo e di betulla, tenute insieme di strisce di cuoio rosse, con una scure inserita lateralmente. Erano portati sulla spalla sinistra dai lictores – una sorta di scorta che precedeva i magistrati in numero diverso a seconda della loro importanza – e simboleggiavano la dimensione coercitiva dell’imperium: le verghe richiamavano infatti la pena della fustigazione, mentre la scure quella della decapitazione.

Come è noto, il fascismo si considerò il naturale continuatore dell’antica Roma e ne mutuò non solo la terminologia (soprattutto in ambito militare e politico) ma anche i simboli. È proprio dall’antica Roma fu attinto quello che sarebbe diventato il principale simbolo del regime: il fascio littorio. Fu il Regio Decreto n. 2061 del 12 dicembre 1926 ad elevare il fascio ad emblema di Stato, disponendone la diffusione su ogni genere di distintivo pubblico. Sette anni dopo fu la volta del Regio Decreto n. 1440 del 12 ottobre 1933, che ne disciplinava l’uso da parte dei comuni, delle province e degli enti morali, stabilendone l’inserimento all’interno dello scudo, nella forma della figura araldica del capo (pezza che occupa la parte più alta del campo, larga 1/3 dello scudo, delimitata da una linea orizzontale).

Nacque così il cosiddetto capo del littorio: di rosso (porpora), al fascio littorio d’oro, circondato da due rami di quercia e di alloro, annodati da un nastro dai colori nazionali (fig. 2).

Fig. 2 – Riproduzione del capo del littorio
Fig. 2 – Riproduzione del capo del littorio

 

Il capo è la pezza più importante dell’araldica italiana. Una delle sue funzioni principali è di indicare l’appartenenza a una determinata fazione politica (sono noti, ad esempio, i capi d’Angiò e dell’Impero, rispettivamente distintivi della fazione guelfa e di quella ghibellina). Riprendendo l’uso medievale tipicamente italiano di esprimere l’appartenenza a una fazione politica attraverso il capo araldico, il regime volle così arricchire l’iconografia di Stato introducendo nelle insegne civiche un elemento visivo che rappresentasse l’indissolubile legame tra gli enti territoriali italiani e il fascismo.

La presenza di questa raffigurazione nell’araldica italiana durò tuttavia solo pochi anni. Il 25 luglio del 1943 il Gran Consiglio del Fascismo approvò un ordine del giorno che sfiduciò Mussolini, provocandone la caduta. Già a partire dal giorno successivo, centinaia di persone si riversarono nelle vie delle città italiane e, armati di picconi e scalpelli, iniziarono a cancellare i simboli fascisti (fig. 3).

Fig. 3. Milano, 26 luglio 1943, distruzione dei fasci littori, immagine tratta da http://anpi-lissone.over-blog.com/article-25-luglio-1943-53789826.html
Fig. 3. Milano, 26 luglio 1943, distruzione dei fasci littori, immagine tratta da http://anpi-lissone.over-blog.com/article-25-luglio-1943-53789826.html

 

Il Decreto Luogotenenziale n. 313 del 26 Ottobre 1944 soppresse poi il fascio littorio da ogni documento ufficiale, compresi gli stemmi. Molti comuni italiani seguirono alla lettera le disposizioni del decreto e, pur eliminando il fascio (talora sostituendolo con figure diverse), mantennero tutto il resto (i rami decussati e il nastro). Oria non fu immune da questa furia iconoclasta, i cui effetti sono ancora oggi visibili sullo stemma civico scolpito sulla facciata di palazzo Martini. Dopo essere stato a lungo dimora dell’omonima e illustre famiglia oritana, nel 1933 il palazzo fu ceduto, in cambio del castello svevo, al comune di Oria, di cui fu sede municipale fino alla metà degli anni ’80 (fig. 4). La funzione pubblica svolta dall’edificio in quel lasso di tempo spiega quindi la presenza dello stemma cittadino, in uso almeno dal XVI secolo (fig. 5).

Fig. 4. Oria, palazzo Martini, facciata, particolare dello stemma civico
Fig. 4. Oria, palazzo Martini, facciata, particolare dello stemma civico

 

L’insegna è contenuta in uno scudo sannitico racchiuso da una cornice cuoriforme ornata da cartocci e foglie di acanto. Al di sopra dello scudo compare una corona muraria merlata alla ghibellina, timbro che allude al titolo di comune di cui si fregiò Oria fino al 1951, allorché assunse quello di città, acquisendone la corrispettiva insegna, ovvero la corona turrita. Osservando bene la parte superiore del manufatto, si nota con molta chiarezza, in mezzo ai due rami, il particolare del fascio “raschiato”, vittima di quella iconoclastia che si scatenò anche ad Oria dopo la caduta di Mussolini. Dell’emblema di Stato, simbolo del potere fascista, non restarono che il capo e le figure più neutrali (i rami di alloro e di quercia), svuotati di ogni connotazione coercitiva. Come quasi sempre accade dopo rivoluzioni e conquiste, al cambio di regime corrisponde anche una cancellazione dei simboli e degli emblemi del potere precedente.

Fig. 5. Oria, facciata del Sedile, stemma civico (XVIII sec.).
Fig. 5. Oria, facciata del Sedile, stemma civico (XVIII sec.).

 

Nel caso del fascismo, questa damnatio memoriae fu ancora più dissacrante se pensiamo che esso fu un sistema politico che assegnò ai riti e ai simboli una centralità assoluta. Se adeguatamente interpretato, lo stemma civico di palazzo Martini costituisce quindi un manifesto visivo dalla valenza polisemica, rappresentativo dell’evoluzione dello status del comune di Oria nel periodo che va dal 1933 alla fine del regime fascista.

Come tale, non va analizzato come un esemplare a sé stante, ma piuttosto come parte di un contesto più vasto, frutto di una precisa realtà storica e sociale. Solo attraverso la ricostruzione del sistema di appartenenza e del vincolo che lo ha creato e poi dissolto, si può comprendere il messaggio che lo stemma ci trasmette: un messaggio di libertà e di democrazia, valori faticosamente conquistati dai nostri avi dopo anni di feroce dittatura.

 

BIBLIOGRAFIA

M.C. A. GORRA, Il valore simbolico del fascio, dagli Etrusci ad oggi, in “Cronaca Numismatica”, n° 234, novembre 2010, pp. 63-67.

  1. Neubecker, Araldica. Origini, simboli, significati, Milano 1980.
  2. POPOFF, Le “capo dello scudo” dans l’héraldique florentine XIII-XVI siècles , in “Brisures, augmentations et changements d’armoiries”, Actes du 5e colloque international d’héraldique, Spolète 12-16 oct. 1987, Bruxelles, Académie Internationale d’Héraldique, 1988.
  3. S. Salvatori, Romanità e fascismo: il fascio littorio, in “Forma Urbis”, XVIII, n° 6, giugno 2013, pp. 6-13.

Araldica del Regno d’Italia a Oria: il caso dello stemma Martini-Carissimo

Fig. 1 - Oria, contrada S. Cosimo, ingresso della tenuta Martini-Carissimo
Fig. 1 – Oria, contrada S. Cosimo, ingresso della tenuta Martini-Carissimo

 

di Marcello Semeraro

Il decoro araldico oggetto di questa investigazione si trova scolpito sul fastigio del portale d’ingresso della tenuta Martini-Carissimo, sita a Oria in prossimità del Santuario di San Cosimo alla Macchia (fig. 1). Si tratta della stessa proprietà che nel 1908 fu oggetto di una visita guidata da parte di Cosimo De Giorgi e dei suoi alunni, che ne ammirarono il pionieristico sistema d’irrigazione realizzato dall’allora sindaco di Oria Gennaro Carissimo (*1846 †1927).

Le insegne araldiche sono quelle delle antiche famiglie Martini e Carissimo, rappresentate sotto forma di due scudi appuntati e accollati in consorteria, felice locuzione blasonica, quest’ultima, che indica lo stato di alleanza matrimoniale fra due casate, espresso accostandone le rispettive insegne (fig. 2).

Fig. 2 – Oria, contrada S. Cosimo, ingresso della tenuta Martini-Carissimo, particolare dello stemma di Giuseppe
Fig. 2 – Oria, contrada S. Cosimo, ingresso della tenuta Martini-Carissimo, particolare dello stemma di Giuseppe

 

Gli scudi sono timbrati da un unico elmo aperto, rabescato, fregiato di gorgieretta e posto in terza, ornato di lunghi svolazzi che si protraggono fino ai lati dei due scudi e di cercine. Su quest’ultimo è posta una corona nobiliare, composta da un cerchio gemmato e rialzato da otto perle (cinque visibili). Sebbene il manufatto non rechi indicazioni cromatiche, siamo in grado di ricostruire in parte il blasone dei Martini e in tutto quello dei Carissimo: d’azzurro, partito: nel 1° tre monti, moventi dalla punta, sormontati da tre gigli, ordinati in fascia; col capo caricato di una stella d’argento; nel 2° un leone d’oro, accompagnato in capo da tre stelle d’argento, ordinate in fascia [Martini] (fig. 3); troncato: nel 1° d’azzurro, al cuore d’argento, sormontato da tre stelle male ordinate dello stesso; nel 2° d’argento, a tre sbarre d’azzurro [Carissimo] (figg. 4 e 5 ).

Fig. 3 - Stemma della famiglia Martini di Oria, un tempo visibile all’ingresso della loro residenza estiva, attualmente di proprietà delle famiglie Desiato-Spina (foto di Ubaldo Spina).
Fig. 3 – Stemma della famiglia Martini di Oria, un tempo visibile all’ingresso della loro residenza estiva, attualmente di proprietà delle famiglie Desiato-Spina (foto di Ubaldo Spina).
Fig. 4 – Francavilla Fontana, Villa Carissimo, particolare dello stemma. Cfr. R. POSO, F. CLAVICA (a cura di), Francavilla Fontana: architettura e immagine, Galatina 1990.
Fig. 4 – Francavilla Fontana, Villa Carissimo, particolare dello stemma. Cfr. R. POSO, F. CLAVICA (a cura di), Francavilla Fontana: architettura e immagine, Galatina 1990.

 

Fig. 5. Stemma Carissimo (Martini-Carissimo), riprodotto nell’Elenco storico della nobiltà italiana: compilato in conformità dei decreti e delle lettere patenti originali e sugli atti ufficiali di Archivio della Consulta Araldica dello Stato Italiano, Roma 1960.
Fig. 5. Stemma Carissimo (Martini-Carissimo), riprodotto nell’Elenco storico della nobiltà italiana: compilato in conformità dei decreti e delle lettere patenti originali e sugli atti ufficiali di Archivio della Consulta Araldica dello Stato Italiano, Roma 1960.

 

Non è nota la valenza semantica dell’insegna Martini, mentre qualcosa in più si può dire per quella dei Carissimo, che appartiene alla variegata tipologia delle armi parlanti (così chiamate perché contengono figure che alludono al nome del portatore), presenti all’incirca nel 20/25% degli stemmi europei. Si noti, in particolare, come le raffigurazioni contenute nel primo quarto dello stemma evocano il nome di famiglia attraverso un ideogramma: Carissimo=cuore+stelle. Gli araldisti classificano questo tipo di armi come parlanti allusive, perché la relazione che si stabilisce fra le figure e il cognome non è di tipo diretto, cioè non si basa sulla mera traduzione grafica del nome (una scala per i Della Scala o una colonna per i Colonna, ad esempio), ma piuttosto sull’idea che esso evoca (come si vede, per esempio, nell’arma della famiglia napoletana Nunziante, recante una colomba con un ramoscello d’ulivo).

Quanto alla disposizione delle insegne, va osservato che l’impiego di due scudi contigui per rappresentare un’alleanza matrimoniale è un procedimento che cominciò ad affermarsi a partire dal XVIII secolo. Solitamente a destra (sinistra per chi guarda) veniva posto lo stemma del marito, mentre a sinistra (destra per chi guarda) quello della consorte. Tuttavia, l’esemplare oritano mostra una disposizione diversa, legata a ben precisi motivi ereditari.

Il 10 maggio del 1891 il senatore Tommaso Martini (†1893), appartenente a una delle più antiche e cospicue famiglie di Oria, con testamento olografo lasciava in eredità al primogenito dei suoi nipoti tutti i suoi averi, a patto che quest’ultimo anteponesse il cognome Martini a quello proprio. L’eredità spettò a Giuseppe Carissimo (*1889 †1955), patrizio di Benevento (1910), proveniente da un’antica famiglia che si vuole di origini bolognesi, con ramificazioni nel beneventano, in Sicilia e in Terra d’Otranto. Figlio del già ricordato Gennaro (*1846 †1927), patrizio di Benevento, e di Maria Annina Martini, nel settembre 1911 Giuseppe ottenne per decreto reale l’autorizzazione a fare uso del doppio cognome, divenendo così il capostipite dei Martini-Carissimo di Oria. Conformemente alle disposizioni testamentarie dell’avo Tommaso, Giuseppe fece precedere le proprie insegne agnatizie da quelle dei Martini, che così sopravvissero non solo a livello onomastico ma anche araldico.

Va ricordato che in epoca sabauda l’araldica italiana fu soggetta a una regolamentazione normativa molto precisa. Con l’Unità d’Italia, infatti, l’ordinamento araldico e nobiliare sabaudo fu esteso a tutto il paese dalla classe dirigente piemontese, senza tenere conto delle specificità storiche dei vari Stati preunitari. Questa codificazione, avviata con la costituzione della Consulta Araldica del Regno d’Italia nel 1869, prevedeva una serie di norme precise riguardanti le insegne di dignità (elmi, corone, manti) corrispondenti al grado del titolare.

Tuttavia, il sistema di differenziazione degli elmi e delle corone in base al titolo del possessore non sempre trovò piena applicazione nella pratica araldica. Istruttivo è, sotto questo punto di vista, il caso dell’esemplare in esame, che presenta una corona da nobile – titolo che il nostro Giuseppe portò fino al 1940, allorché fu insignito del titolo comitale – a cui avrebbe dovuto corrispondere un elmo posto di profilo anziché in terza verso destra.

Quello presente all’ingresso della tenuta di famiglia non è comunque l’unico stemma Martini-Carissimo superstite. Un altro esemplare, del tutto simile al primo, si trova scolpito su una lastra rettangolare visibile nella piazza d’armi del castello di Oria, del quale Giuseppe entrò in possesso nel 1933, per effetto di una permuta con la quale cedette al Comune il settecentesco palazzo Martini, che divenne sede municipale fino alla metà degli anni ’80 (fig. 6).

Fig. 6 – Oria, piazza d’armi del castello, particolare dello stemma di Giuseppe Martini-Carissimo
Fig. 6 – Oria, piazza d’armi del castello, particolare dello stemma di Giuseppe Martini-Carissimo

 

La famiglia Martini-Carissimo è presente nell’Elenco storico della nobiltà italiana, edito nel 1960 dal Sovrano Militare Ordine di Malta e compilato in conformità ai decreti, alle lettere patenti originali e agli atti ufficiali di Archivio della Consulta Araldica. Come si vede nell’illustrazione (fig. 5), lo stemma ivi riprodotto presenta la sola insegna agnatizia dei Carissimo.

Per quanto lontani dalla semplicità dell’araldica delle origini, gli esemplari monumentali che abbiamo esaminato costituiscono comunque dei reperti interessanti che vanno letti come campioni rappresentativi dello stato dell’araldica durante il Regno d’Italia e come l’espressione visiva degli ultimi vagiti di una nobiltà ormai ridotta a mero titolo, priva di ogni prerogativa giurisdizionale, ma comunque bisognosa di strumenti di rappresentazione del proprio status sociale. Giuseppe Martini-Carissimo morì nel 1955, ma già sette anni prima del suo decesso il quadro giuridico della nobiltà italiana era cambiato drasticamente.

La XIV disposizione transitoria della Costituzione, entrata in vigore l’1 gennaio 1948, stabilì infatti il non riconoscimento dei titoli nobiliari, limitandosi a prevedere la sola cognomizzazione dei predicati esistenti prima del 28 ottobre 1922. Fu così che le ambizioni nobiliari dei Martini-Carissimo si infransero con l’affermazione dei principi liberali e democratici che regolarono e regolano tuttora la legge fondamentale dello Stato italiano.

 

BIBLIOGRAFIA

Elenco storico della nobiltà italiana: compilato in conformità dei decreti e delle lettere patenti originali e sugli atti ufficiali di Archivio della Consulta Araldica dello Stato Italiano, Roma 1960.

Notize storiche della famiglia Catissimo, Lecce 1911.

P. Spina, Oria, strade vecchie, nomi nuovi, strade nuove, nomi vecchi, Oria 2003

CASTILIONUM INSIGNIA: alla riscoperta di Donato Castiglione e della sua antica famiglia

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Donato Castiglione, detto l’Argentario.

 

di Marcello Semeraro

Donato Castiglione, detto l’Argentario, medico, filosofo e umanista vissuto fra il XVI e il XVII secolo, è uno dei tanti personaggi illustri della storia di Oria. Qui nacque, probabilmente fra il 1530 e il 1540. Conosciamo il nome del padre (Mariano) e quello del fratello (Giulio Cesare). Non ancora ventenne, si recò a Napoli per studiare medicina, disciplina nella quale egli divenne espertissimo e che si prodigò ad insegnare al suo rientro ad Oria.

Uomo dottissimo e versatile, la sua preparazione e sua fama erano tali che gli valsero la nomina a precettore “in tutte le dottrine” di Alessandro Mattei, conte di Pamariggi, e di altri signori del reame napoletano. Dopo la morte di Quinto Mario Corrado (1575) – il grande umanista oritano del quale l’Argentario fu allievo e parente – fu chiamato a sostituirlo alla guida del Seminario di Oria, ma, stando a quanto scrive il Matarrelli Pagano, “per essere di differente professione non vi fece profitto che si ne sperava. Ci è ignota la data del suo decesso, ma sappiamo che morì ad Oria, ottuagenario.

Fra i suoi scritti più noti va annoverato il De coelo uritano, un’opera in tre libri che purtroppo è andata perduta, nella quale il Castiglione disquisì di storia, topografia, clima e salubrità del territorio oritano. Scrisse inoltre gli argumenta del De Lingua Latina e del De Copia Latini Sermonis di Quinto Mario Corrado, con cui ebbe altresì un’intensa corrispondenza epistolare, ben testimoniata dalle lettere presenti nell’Epistolarum libri VIII.

Della sua famiglia e delle sue origini si sa pochissimo. Le uniche informazioni sono quelle riportate dallo storico Domenico Tommaso Albanese (*1638 †1685) in una pagina del suo celebre manoscritto intitolato Historia Dell’antichità d’Oria Città della Provincia di Terra d’Otranto. La famiglia de’ Castiglioni assai antica e nobile in Oria, originaria della Francia sin dal tempo di Carlo primo d’Angiò che da Argentona, città della Francia donde si partì, lasciato il primitivo cognome de’ Castiglioni hoggi si dice degli Argentoni si come appare da un’iscrizione posta sotto le armi et imprese nel loro palaggio in Oria”. Ai  tempi in cui lo storico oritano scrisse la sua opera, questa famiglia era quasi estinta, “non vi essendo rimasti che alcun pochi, li quali fanno la loro Stanza nel villaggio, over Castello di Erchie, ove possedono molti loro poderi”.

Grazie agli studi di Pasquale Spina sulla toponomastica oritana, siamo riusciti a localizzare il luogo dove anticamente sorgeva il palazzo di famiglia del quale parla l’Albanese. Si tratta dell’edificio ubicato fra via Milizia (l’antica via Santa Lucia) e vico Barletta,  attualmente di proprietà di Mario Sartorio. Fortunatamente il palazzo, nonostante i rimaneggiamenti e i cambi di proprietà a cui è stato soggetto nel corso dei secoli, conserva ancora intatte le “armi et imprese” e l’epigrafe descritte dall’Albanese, che appaiono murate sulla parete della terrazza del primo piano.

Lo scudo presenta una foggia ovale accartocciata ed è racchiuso in una lastra rettangolare delimitata da una cornice modanata, al di sotto della quale compare un’iscrizione in lettere capitali che recita così:  CASTILIONUM INSIGNIA / QUIBUS  AB ARGENTONA/  GALLIARUM URBE UT MI / GRARUNT ARGENTONI / BUS COGNOMEN  FUIT.

Fig. 2. Oria, particolare dello stemma Castiglione/Argentone murato sulla parete della terrazza del primo piano dell’abitazione ubicata fra via Milizia e Vico Barletta.
Fig. 2. Oria, particolare dello stemma Castiglione/Argentone murato sulla parete della terrazza del primo piano dell’abitazione ubicata fra via Milizia e Vico Barletta.

 

Lo stemma reca un’aquila monocipite, al volo abbassato e coronata (fig. 2). Un esemplare simile, ma di dimensioni minori e in uno stato di conservazione non ottimale, è invece scolpito sulla parete del piccolo giardino del primo piano, sempre all’interno di uno scudo ovale munito di cartocci (fig. 3).

Fig. 3 - Oria, particolare dello stemma murato sulla parete del giardino del primo piano dell’abitazione posta fra via Milizia e vico Barletta.
Fig. 3 – Oria, particolare dello stemma murato sulla parete del giardino del primo piano dell’abitazione posta fra via Milizia e vico Barletta.

 

Diversamente da quanto dovette essere in origine, questi manufatti si presentano oggi privi di indicazioni cromatiche e costituiscono le uniche attestazioni a noi note dell’arma alzata da questa famiglia, il cui nome, è bene precisarlo, non va confuso con quello di altre famiglie omonime, ma dotate di stemmi diversi. Circa la cronologia d’esecuzione dei manufatti in esame, l’analisi storico-araldica ha evidenziato fattezze stilistiche riconducibili a un periodo compreso fra seconda metà del XVI  e la prima metà del XVII secolo. Alcuni atti notarili riportati da Pasquale Spina mostrano che in quel lasso di tempo il palazzo appartenne effettivamente a Donato Castiglione e ai suoi discendenti, perlomeno fino al 1656 (terminus ante quem per la datazione degli stemmi e dell’epigrafe), quando Tomasina e Isabella Argentone vendettero l’edificio, che all’epoca era costituto da “una casa a volta con tre terrazze e scala in pietra”.

Come abbiamo visto, l’epigrafe e il passo tratto dall’Albanese accennano al passaggio del cognome di famiglia da quello primitivo (Castiglione) a quello derivato dal toponimo francese (Argentone). L’analisi delle fonti scritte coeve mostra che, finché visse, Donato Castiglione venne individuato ora con la forma cognonimale primitiva, ora con quella toponimica, mentre quest’ultima caratterizzò i suoi discendenti ed è rimasta ancora oggi in un toponimo rurale di Oria. Pasquale Spina ha individuato in Argenton-sur-Creuse, un comune francese situato nel dipartimento dell’Indre, nella regione Centre-Val de Loire, la località di origine della famiglia, ma questa ipotesi è tutta da dimostrare, anche alla luce dell’abbondanza di toponimi simili riscontrabili in Francia (Argenton-Château, Argenton-l’Église, Argenton-Notre-Dame ecc.).

Nel 1899 una delibera del consiglio comunale dedicò a Donato Castiglione due strade (una via e un vico), la cui denominazione si conserva ancora oggi. Da allora, tante cose sono cambiate e oggi presso le nuove generazioni la memoria dell’Argentario, della sua famiglia e della sua dimora sembra essersi persa.

Anche la storigrafia locale, se si eccettua il lodevole contributo di Pasquale Spina, non è da meno. L’auspicio è che questa indagine stimoli la curiosità di qualcuno e, magari, dia avvio a nuove e più approfondite ricerche.

BIBLIOGRAFIA

  1. T. Albanese, Historia Dell’antichità d’Oria Città della Provincia di Terra d’Otranto. Raccolta da molti antichi e moderni Geografi, ed Historici Dal Filosofo e Medico Domenico Tomaso Albanese della stessa Città, nella quale anco si descrive l’origine di molti luoghi spettanti alla sua Diocesi, Brindisi, Biblioteca pubblica arcivescovile A. De Leo, Manoscritti, ms_D/15, 1750.
  2. Amorosi, A. Casale, F. Marciano, Famiglie nobili del Regno di Napoli in uno stemmario seicentesco inedito, Roma 2011.
  3. M. Corrado, De lingua Latina ad Marcellum fratrem libri XIII, Bologna 1575.
  4. M. Corrado, De copia Latini sermonis libri quinque, Venezia 1582.
  5. M. Corrado , Epistolarum libri VIII, Venezia 1565.

G.B. di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Pisa 1886-1890, rist. anast. Bologna 1965.

  1. Foscarini, Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, Lecce 1903, rist. anast. Bologna 1978.

D.R. Greco, Memorie biografiche sui letterati oritani, Napoli 1838.

  1. Matarrelli Pagano, Raccolta di notizie patrie dell’antica città di Oria nella Messapia, Oria 1976.
  2. Spina, Oria, strade vecchie, nomi nuovi, strade nuove, nomi vecchi, Oria 2003.

Decor Carmeli. Il convento, la chiesa e la confraternita del Carmine di Nardò

decor

Venerdì 14 luglio, alle ore 20, nella chiesa del Carmine di Nardò verrà presentato il volume edito da Mario Congedo di Galatina, Decor Carmeli. Il convento, la chiesa e la confraternita del Carmine di Nardò.

Un progetto ambizioso che il sacro tempio meritava, per essere una delle chiese più note e frequentate dalla popolazione ed oggi meta preferita dei tanti turisti che stanno riscoprendo la città di Nardò.

L’edizione, di circa 400 pagine, in formato A/4, con tavole e rilievi del complesso, centinaia di illustrazioni bianco/nero e colore, in buona parte eseguite da Lino Rosponi, è l’ottavo dei Supplementi dei Quaderni degli Archivi della Diocesi di Nardò-Gallipoli, diretti da Giuliano Santantonio. Oltre la Confraternita del Carmine hanno promosso l’edizione la Diocesi di Nardò Gallipoli e la Fondazione Terra d’Otranto.

Curato da Marcello Gaballo, contiene numerosi saggi scritti da studiosi ed esperti, che hanno voluto omaggiare la nota chiesa di Nardò con ricerche e nuove fonti di archivio raccolte negli ultimi anni. Tra questi Marino Caringella, Marco Carratta, Daniela De Lorenzis, Anna Maria Falconieri, Paolo Giuri, Alessandra Greco, Maria Domenica Manieri Elia, Elsa Martinelii, Alessio Palumbo, Armando Polito, Maria Grazia Presicce, Cosimo Rizzo, Giuliano Santantonio,  Marcello Semeraro, Maura Sorrone, Fabrizio Suppressa.

Si parte dalle origini della Congregazione dell’Annunziata e insediamento dei Carmelitani Calzati, fino alla loro definitiva soppressione e l’istituzione della parrocchia, soffermandosi sulle vicende del funesto terremoto del 1743, che arrecò danni considerevoli alle strutture, in buona parte ricostruite nel decennio successivo.

Notevoli gli approfondimenti artistici, specie all’interno della chiesa e del convento, senza tralasciare le sorprese dell’insolita facciata cinquecentesca e dei suoi celebri “leoni” posti all’ingresso, che sembrano rimandare al celebre architetto Giovan Maria Tarantino, probabile autore anche dell’altare della Trinità, nella stessa chiesa. Nuove fonti anche per l’altro artista neritino, Donato Antonio d’Orlando, al quale sembra debbano attribuirsi altre opere dipinte, oltre quella firmata del S. Eligio.

Altre sorprese emergono dagli studi sull’altare della Madonna del Carmine, sulla tela dell’Annunciazione, sulla statua lignea dell’Annunziata e su un inedito corpus di manoscritti musicali, conservati nell’archivio della confraternita.

Il ricco corredo fotografico, che rende il volume ancor più interessante, documenta arredi, stemmi, reliquie e suppellettili di cui si è arricchita la chiesa nel corso dei secoli e raramente esposti.

Da ciò l’entusiasmo del priore della Confraternita, Giovanni Maglio, che ha fortemente voluto ed incoraggiato l’iniziativa, con il sostegno dei confratelli e consorelle, inserendola “di diritto nell’attività di valorizzazione del patrimonio culturale civile e religioso, che si sta particolarmente curando in questo ultimo decennio” nella città di Nardò.

Oltre gli Autori, che hanno voluto offrire pagine importanti, mettendo a disposizione di tutti vicende e fonti spesso sconosciute o inesplorate, aiutandoci a leggere nella maniera più corretta ed esaustiva, altrettanto importanti coloro che hanno offerto immagini e foto altrimenti difficili da reperire, tra cui Giovanni Cuppone e don Giuseppe Venneri, Gian Paolo Papi, Clemente Leo e Don Enzo Vergine, il parroco della chiesa matrice di Galatone don Angelo Corvo, Don Domenico Giacovelli e Rosario Quaranta, Emilio Nicolì e Raffaele Puce, Stefano Tanisi, Bruno Capuzzello. Una particolare menzione a Stefania Colafranceschi per aver messo a disposizione parte della sua collezione di santini e immagini antiche, e a Stelvio Falconieri, per due importanti e rarissimi documenti fotografici della chiesa nei primi decenni del ‘900.

All’elenco si aggiungono Pierpaolo Ingusci, Antonio Dell’Anna, Luca Fedele, Emanuele Micheli e Matteo Romano, valido aiuto nell’ordinamento dell’archivio e trascrizione di alcuni documenti. C’è stato anche un silenzioso e paziente lavoro, assolutamente importante, nell’allestimento degli arredi liturgici e nella ripulitura di molte suppellettili in parte desuete ma necessarie per una completa catalogazione. Ed ecco che devono aggiungersi, includendo nel lungo elenco anche Cosima Casciaro, Dorotea Martignano, Teresa Talciano e Anna Violino.

Infine, ma non per minore importanza bensì per sottolinearne il ruolo, la riconoscenza ad Annalisa Presicce, che ha professionalmente rivisto le bozze ed omologato le centinaia di annotazioni per un testo agile, coerente e scientificamente valido, come si spera possa essere.

Il volume sarà presentato dalla Prof.ssa Regina Poso, già docente preso la Facoltà di Beni Culturali dell’Università del Salento.

 

L’antica casa Carcioffa di Manduria e il suo stemma

di Marcello Semeraro

Fra gli stemmi più curiosi che si possono osservare nel centro storico di Manduria, un posto di primo piano spetta sicuramente a quello della famiglia Carcioffa, antica casata di origine albanese, oggi estinta.

L’arma si trova scolpita sulla facciata dell’edificio sito al civico n° 15 di Piazza Plinio ed è racchiusa da uno scudo ovale, con contorno a cartoccio (nella parte superiore) e a foglie di acanto (in quella inferiore), ornato da nastri accollanti e svolazzanti (fig. 1).

 

Fig. 1 - Manduria, casa Carcioffa, particolare dello stemma murato sulla facciata
Fig. 1 – Manduria, casa Carcioffa, particolare dello stemma murato sulla facciata

 

Il manufatto, diversamente da quanto dovette essere in origine, si presenta oggi acromo e costituisce l’unica attestazione a noi nota del blasone di questa antica famiglia. All’interno dello scudo è rappresentata una pianta di carciofo, gambuta e fiorita di sette pezzi, sostenuta da due leoncini controrampanti; il tutto è posto su un terreno e accompagnato, nei cantoni destro e sinistro del capo, da due stelle di otto raggi. L’araldista riconosce subito che si tratta di un caso di stemma parlante, una particolare tipologia di arma, cioè, che contiene raffigurazioni che alludono (direttamente o indirettamente) al nome di famiglia.

Nel caso specifico, la relazione che si stabilisce fra la figura principale dello scudo e il cognome (ovvero fra il significante e il significato) è talmente diretta da risultare chiara e comprensibile anche a chi sia digiuno di cose araldiche. Cronologicamente parlando, l’esemplare litico è databile alla prima metà del Seicento e presenta, nella tipologia di scudo e nei suoi ornamenti esterni, delle affinità stilistiche con altri manufatti coevi, come ad esempio l’arma della baronessa Filippa di Cosenza, visibile all’interno della chiesa di San Giovanni Battista di Oria e realizzata, come recita la sottostante epigrafe, nel 1613, ovvero quasi tre secoli dopo la sua morte (1348).

Seicentesca è, del resto, la stessa casa Carcioffa, un edificio che ricalca una tipologia costruttiva che proprio in quel secolo si sviluppò a Casalnuovo (l’antico nome di Manduria) durante la signoria degli Imperiali. Come abbiamo già accennato, la famiglia Carcioffa è di origine albanese e come tale viene annoverata nel Librone Magno delle famiglie manduriane, il celebre manoscritto iniziato nel 1572 dall’arciprete della Collegiata Lupo Donato Bruno, sulla cui attendibilità non sussistono dubbi (figg. 2 e 3).

Fig. 2 - Note genealogiche sulla famiglia Carcioffa. Librone Magno, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, ms. Rr/1-3 (1572-1810), c. 806v.
Fig. 2 – Note genealogiche sulla famiglia Carcioffa. Librone Magno, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, ms. Rr/1-3 (1572-1810), c. 806v.

 

Fig. 3 – Frontespizio stemmato del Librone Magno, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, ms. Rr/1-3 (1572-1810), c. 3r. La pluralità di insegne disegnate e acquerellate mette in scena la gerarchia dei poteri (religiosi e laici) esistenti all’epoca della compilazione del manoscritto (1572): il papa Gregorio XIII (in alto a sinistra), il re di Napoli Filippo II di Spagna (in alto a destra), l’arcivescovo di Oria Bernardino Figueroa (in basso a sinistra), il feudatario Davide Imperiali (in basso a destra). Al centro, lo stemma dell’Universitas, in alto quello del Capitolo della Collegiata di Manduria e in basso, quello dell’arciprete Lupo Donato Bruno.
Fig. 3 – Frontespizio stemmato del Librone Magno, Manduria, Biblioteca comunale Marco Gatti, Manoscritti, ms. Rr/1-3 (1572-1810), c. 3r. La pluralità di insegne disegnate e acquerellate mette in scena la gerarchia dei poteri (religiosi e laici) esistenti all’epoca della compilazione del manoscritto (1572): il papa Gregorio XIII (in alto a sinistra), il re di Napoli Filippo II di Spagna (in alto a destra), l’arcivescovo di Oria Bernardino Figueroa (in basso a sinistra), il feudatario Davide Imperiali (in basso a destra). Al centro, lo stemma dell’Universitas, in alto quello del Capitolo della Collegiata di Manduria e in basso, quello dell’arciprete Lupo Donato Bruno.

È noto che il fenomeno dell’immigrazione albanese, iniziato nella seconda metà del ‘400 a seguito della caduta dell’Impero bizantino (1453), interessò una vasta area del tarantino ed ebbe una presenza significativa anche nella stessa Manduria.

 

Fra le famiglie manduriane di sicura origine albanese ricordiamo i Bianca, i Biasca, i Greca, i Magiatica, i Masculorum, i Piccinni, i Pellegrina, gli Sbavaglia e gli stessi Carcioffa.

Grazie agli studi condotti da Benedetto Fontana su documenti d’archivio, sappiamo quest’ultima famiglia ebbe una forma cognominale molto variabile fra i secoli XVI e XVII. Nel Libro dei Battezzati e negli Status Animarum, infatti, i Carcioffa sono indicati anche come “Fercata” (LB 1579), “Forcata alias Carcioffo” (LB 1584), “Scarcioppola” (SA 1665) e “Schiaccioppola” (SA 1693).

Se le origini di questa famiglia sono note, non altrettanto si può dire invece della sua supposta “nobiltà”. Secondo Pietro Brunetti, essa sarebbe provata proprio dall’uso dello stemma, “segno che tra gli immigrati vi furono anche famiglie nobili o, col tempo, divenute tali”. Si tratta, tuttavia, di un’affermazione priva di fondamento, che si basa su una percezione errata, ma purtroppo molto diffusa, del fenomeno araldico: la limitazione alla sola classe nobile del diritto allo stemma.

La realtà è invece un’altra: in nessuna parte dell’Europa occidentale, in nessun momento storico, l’uso dello stemma è stato appannaggio di una sola classe sociale. Ogni individuo, ogni famiglia, ogni gruppo è sempre stato libero di adottare un proprio stemma e di farne un uso privato, a condizione di non usurpare quelli altrui.

Le rare restrizioni documentate – che tuttavia restarono spesso lettera morta – hanno riguardato semmai l’uso pubblico delle armi, ma queste limitazioni non hanno mai interessato il Regno di Napoli, dove non è possibile rinvenire alcuna specifica regolamentazione in tal senso. In Terra d’Otranto, in particolare, sono numerosi gli esempi di armi appartenenti a famiglie borghesi o notabili che dir si voglia.

Del resto, il principio della libera assunzione degli stemmi fu enunciato già nel XIV dall’insigne giurista Bartolo da Sassoferrato, il quale nel suo trattato De insigniis et armis, assegnando all’arma una funzione simile a quella del nome, a tal proposito così scrisse: “[…] sicut enim nomina inventa sunt ad cognoscendum homines [… ] ita etiam ista insignia ad hoc inventa sunt […]”. Quanto ai Carcioffa, essi non raggiunsero mai nessuno status nobiliare, ma furono sicuramente una famiglia borghese e agiata. Tutto ciò non gli impedì affatto di dotarsi di un’insegna araldica e di impiegare, al momento della scelta, il procedimento più facile per crearsene una: l’arma parlante. Così facendo, aderirono a una pratica emblematica molto diffusa nell’araldica europea, il cui indice di frequenza, pari a circa il 20% degli stemmi medievali, crebbe ancora di più in epoca moderna, quando numerose famiglie non nobili e comunità fecero uso di insegne.

Quello delle armi parlanti, del resto, fu un fenomeno ben noto a Manduria. Ne cito qualche esempio, tratto dal saggio di Nino Palumbo Araldica civica e cenni storici dei comuni di Terra Jonica: una candela (Candeloro), un calice (Coppola), un leone (De Leonardis e Leo), un fagiano (Fasano), un ferro di cavallo (Ferri), una fontana (Fontana), quattro X (Quaranta), ecc.

La figura principale che campeggia nello scudo in esame – la pianta di carciofo, figura rarissima nelle armi – conferma, inoltre, una tendenza specifica che caratterizza l’araldica non nobile rispetto a quella nobile, vale a dire una maggiore diversificazione nel repertorio delle figure utilizzate. Gli studi di Michel Pastoureau hanno dimostrato come tale repertorio comprenda un maggior numero di oggetti della vita quotidiana, strumenti vari e figure vegetali, come quella che appare nell’arme Carcioffa.

Ora, agli occhi dell’osservatore moderno un emblema come può apparire burlesco e peggiorativo, ma occorre sottolineare che così facendo si incorre nell’anacronismo, il cancro della ricerca storica. Allo storico dei segni, invece, tale stemma appare per quello che è, ovvero un autentico documento di storia culturale e sociale, che, come tale, va compreso e contestualizzato. All’epoca, la famiglia era fiera di esibire il proprio emblema araldico, tanto che, nel pieno dello sviluppo urbanistico di Casalnuovo nel XVII secolo, decise di collocarlo non su un posto qualsiasi, ma sulla facciata della propria abitazione, con la triplice funzione di segno di riconoscimento, marchio di proprietà e motivo ornamentale.

Ancora oggi, dopo quattro secoli, lo stemma campeggia su questo antico edificio e si accompagna al motto di famiglia, CONSTANTIA ET LABORE, inciso sull’architrave della sottostante finestra, che risuona come una dichiarazione programmatica di intenti, un’ideale di vita che si beffa del trascorrere del tempo e delle mode. “Le blason est la clef de l’histoire“, disse Gérard de Nerval: mi piace concludere così queste brevi note.

 

Bibliografia

  1. Brunetti, Manduria, tra storia e leggenda. Dalle origini ai giorni nostri, Manduria 2007.
  2. Fontana, Le famiglie di Manduria dal XV secolo al 1930. Capostipiti, provenienza, uomini illustri, Manduria 2015.
  3. Foscarini, Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, Lecce 1903, rist. anast. Bologna 1978.
  4. Greco, Immigrazione di albanesi e levantini in Manduria desunta dal Librone Magno, in “Rinascenza Salentina”, 8 (1940), pp. 208-220.
  5. Palumbo, Araldica civica e cenni storici dei comuni di terra jonica: genealogie ed armi di feudatari e di casate estinte e viventi, Manduria-Bari-Roma 1989.
  6. Pastoureau, Medioevo simbolico, Bari 2014.
  7. Pastoureau, Une écriture en images: les armoiries parlantes, in “Extrême-Orient Extrême-Occident”, 30 (2008), pp. 187-198.

Lo stemma asburgico della chiesa del SS. Crocifisso di Latiano

Le pietre raccontano: lo stemma asburgico della chiesa del SS. Crocifisso

di Latiano, una traccia dell’architettura latianese del XVI secolo

di Marcello Semeraro

 

Premessa

L’identificazione di stemmi anonimi raffigurati su dipinti, monumenti, edifici, chiese e altri manufatti è un’operazione molto utile nel lavoro di ricerca dello storico e dello storico dell’arte. Molto spesso, infatti, è proprio la corretta lettura di un’insegna araldica lo strumento che consente di restituire uno “stato civile” (una datazione, una provenienza, una committenza) al manufatto su cui essa è riprodotta. Eppure, nonostante queste premesse, le potenzialità dell’araldica come scienza documentaria della storia restano ancora oggi inesplorate o, peggio ancora, mal espresse, soprattutto nel Sud Italia. Il caso della stemma della chiesa del Santissimo Crocifisso di Latiano è esemplificativo di quello che può essere l’enorme contributo offerto dall’araldica alla ricerca storica. L’analisi di questo manufatto sarà oggetto di un mio più corposo contributo che vedrà la luce prossimamente sulle pagine della Rivista del Collegio Araldico. In questa sede mi limito pertanto a presentarne una breve sintesi.

Fig. 1. Latiano, chiesa del SS. Crocifisso, muro perimetrale, particolare dello stemma lapideo
Fig. 1. Latiano, chiesa del SS. Crocifisso, muro perimetrale, particolare dello stemma lapideo

 

Lo stemma asburgico

Lo stemma è murato sul lato del muro perimetrale della chiesa del SS. Crocifisso prospiciente Via Colonnello Montanaro. Il manufatto, di chiare fattezze cinquecentesche, è delimitato da una cornice rettangolare scavata nella pietra e nobilita l’architettura anonima del lato dell’edificio su cui è collocato. Dai documenti di archivio si ricava che l’attuale chiesa, edificata negli anni 1603-1624, fu costruita sulla preesistente chiesa di San Sebastiano, sede dell’omonima confraternita, della quale tuttavia non sono note le vicende costruttive. La composizione araldica è particolarmente complessa e si caratterizza per la presenza di ben trentaquattro quarti, distribuiti sulla superficie di uno scudo semirotondo dalla foggia tipicamente spagnola (fig. 1). L’esemplare appare in un stato di conservazione non buono e si presenta con vistose carenze osservabili nella parte relativa alle ornamentazioni esterne dello scudo. Circa la sua attribuzione, l’opinione dominante fra gli studiosi locali vuole che l’insegna sia da assegnare all’imperatore Carlo V d’Asburgo (*1500 †1558). Di questo parere è, ad esempio, Salvatore Settembrini, uno dei più noti cultori di storia latianese, che considera la presunta arma carolina una prova importante della continuità storica fra la chiesa di San Sebastiano e quella del SS. Crocifisso. Tuttavia, l’analisi attenta dell’esemplare in questione dimostra tutta l’infondatezza di tale consolidata attribuzione. L’araldista esperto riconosce facilmente che sulla superficie dello scudo inquartato è rappresentata una combinazione di due differenti armi: quelle della Casa d’Asburgo-Spagna uscita da Carlo V (1° e 4° gran quarto) e quelle del Regno di Inghilterra (inquartato di Francia moderna e di Inghilterra), queste ultime rappresentate secondo la modifica apportata da Enrico IV nel 1405 (2° e 3° gran quarto) (fig. 2).

Fig. 2. Stemma del re d’Inghilterra Enrico IV. Armes, noms et qualités de touts les chevaliers du tres noble ordre de la Jartiere, qui ont esté depuis l'institution dudit ordre, faicte, l'an 1350, par Eduard 3, roy d'Engleterre, jusqu'à present 1647; par Charles Soyer, genealogiste et enlumineur du roy” (1601-1700), BNF, ms. fr. 2775, fol. 24r.
Fig. 2. Stemma del re d’Inghilterra Enrico IV. “Armes, noms et qualités de touts les chevaliers du tres noble ordre de la Jartiere, qui ont esté depuis l’institution dudit ordre, faicte, l’an 1350, par Eduard 3, roy d’Engleterre, jusqu’à present 1647; par Charles Soyer, genealogiste et enlumineur du roy” (1601-1700), BNF, ms. fr. 2775, fol. 24r.

 

Al centro dell’inquartato, nella posizione detta sul tutto, è collocato lo scudetto d’Austria, arma d’origine che sottolinea l’appartenenza del titolare dello stemma alla Casa d’Asburgo, mentre nella punta dello scudo è innestata l’insegna di Granada. Non è questa la sede per descrivere dettagliatamente i singoli quarti e le loro modalità aggregative nel corso del tempo, aspetti che verranno trattati in maniera approfondita nel mio saggio di prossima pubblicazione. Qui mi limito ad osservare che nel primo e nell’ultimo gran quarto, la disposizione dei quarti di Castiglia, León, Aragona, Aragona-Sicilia, Ungheria antica, Borgogna antica e moderna presenta vistose irregolarità sia nell’organizzazione delle singole insegne, sia nel rispetto delle proporzioni delle partizioni che le dividono. Mancano, inoltre, alcuni quarti che solitamente trovano posto negli stemmi degli Asburgo di Spagna: Fiandra, Brabante e Tirolo, per la parte asburgico-borgognona, e Gerusalemme, associata a Ungheria antica, per la parte relativa al Regno di Napoli. I restanti gran quarti mostrano invece i gigli di Francia correttamente inquartati con i leoni passanti  inglesi, sebbene questi ultimi non siano rappresentati nella loro abituale posizione, cioè con la testa di fronte, ma di profilo. Lo stemma è completato da una serie di ornamentazioni esterne impiegate come insegne di dignità che alludono, come vedremo, a determinati status del titolare: una corona, mutila della parte relativa al rialzo, un’aquila accollante lo scudo, che si presenta acefala, e, attorno allo stesso scudo, il collare dell’Ordine del Toson d’Oro. Malgrado le irregolarità osservabili nella composizione dello stemma, dovute probabilmente a un errata copia del blasone da parte dello scalpellino, non ci sono dubbi sulla sua attribuzione.

Fra i sovrani asburgici che si succedettero sul trono di Spagna fino a Carlo II (†1700), infatti, solo uno può aver innalzato un’arma come questa: Filippo II (*1527 †1598), figlio e successore di Carlo V, re di Napoli dal 1554, re di Spagna e delle Due Sicilie dal 1556 e sovrano consorte d’Inghilterra dal 1554 al 1558 a seguito del suo matrimonio con la regina Maria I Tudor (†1558), dalla quale non ebbe figli.

Fig. 3. Oxford, cappella del Trinity College, vetrata con stemma Filippo II (periodo 1556-1558).
Fig. 3. Oxford, cappella del Trinity College, vetrata con stemma Filippo II (periodo 1556-1558).

 

Dall’osservazione dei numerosi esemplari araldici realizzati nel quadriennio 1554-1558 e riprodotti su supporti di vario tipo (monete, sigilli, monumenti, opere a stampa, vetrate e altri manufatti), emerge chiaramente che entrambi i sovrani solevano abitualmente rappresentare le rispettive armi sulla superficie di uno scudo partito (figg. 3, 4, 5 e 6).

Fig. 4. Arma reale di Filippo II e Maria Tudor scolpita sulla Mary Tudor Tower del Castello di Windsor
Fig. 4. Arma reale di Filippo II e Maria Tudor scolpita sulla Mary Tudor Tower del Castello di Windsor
Fig. 5. Mezzo ducato d’argento di Filippo II, Napoli, 1554-1556.
Fig. 5. Mezzo ducato d’argento di Filippo II, Napoli, 1554-1556.

 

Fig. 6. Fig. Altro mezzo ducato d’argento di Filippo II, Napoli, 1554-1556
Fig. 6. Fig. Altro mezzo ducato d’argento di Filippo II, Napoli, 1554-1556

 

La forma inquartata, attestata sull’esemplare latianese, costituisce da questo punto di vista una variante insolita che, tuttavia, nulla toglie alla riconoscibilità del titolare dell’arma. Un’ulteriore prova dell’attribuzione certa del manufatto latianese ci viene offerta dall’analisi delle insegne di dignità che completano la composizione dello stemma. Come si vede nell’illustrazione, l’aquila che accolla lo scudo appare acefala, ma il resto del corpo non lascia dubbi sulla sua natura. Si tratta della cosiddetta aquila di San Giovanni, di colore di nero, nimbata d’oro e munita della caratteristica coda a ventaglio.

Fig. 7. Toledo, Escuela de Artes y Oficios Artísticos, facciata, particolare dello stemma dei Re Cattolici con l’aquila giovannita
Fig. 7. Toledo, Escuela de Artes y Oficios Artísticos, facciata, particolare dello stemma dei Re Cattolici con l’aquila giovannita

 

Fu questo un emblema caro a Ferdinando II d’Aragona e a Isabella di Castiglia (fig. 7), che in seguito fu adottato anche dalla figlia Caterina (regina consorte d’Inghilterra come moglie di Enrico VIII e madre di Maria Tudor) e dallo stesso Filippo II, pronipote per via paterna dei due Re Cattolici (figg. 8 e 9). Quanto alla corona che timbra lo scudo, si osserva che essa è abrasa nella parte superiore, limitandosi ad solo cerchio e a qualche frammento di fiorone: troppo poco, apparentemente, per descriverne l’esatta foggia. Tuttavia, l’osservazione attenta di quel che resta del rialzo permette di affermare che questa corona, simbolo del potere reale, dovette essere simile a quella impiegata da Filippo II nella monetazione napoletana coniata durante il matrimonio con Maria Tudor: una corona aperta o chiusa, formata da un cerchio rialzato da cinque fioroni (tre visibili), alternati a quattro perle (due visibili), sostenute da altrattente punte (figg. 5 e 6).

Fig. 8. Stemma di Filippo II con l’aquila di San Giovanni scolpito sulla facciata della Casa consistorial de Baeza
Fig. 8. Stemma di Filippo II con l’aquila di San Giovanni scolpito sulla facciata della Casa consistorial de Baeza

 

Fig. 9. Scudo di Filippo II sostenuto da due aquile di San Giovanni. “Les Armories et enseignes du souverene et compagnions du tresnoble ordre de la Jarretiere, en nombre de XXV, come ilz sont par ordre au chasteau de Wyndsor, l'an 1572”, BNF, ms. fr. 14653, fol. 3r.
Fig. 9. Scudo di Filippo II sostenuto da due aquile di San Giovanni. “Les Armories et enseignes du souverene et compagnions du tresnoble ordre de la Jarretiere, en nombre de XXV, come ilz sont par ordre au chasteau de Wyndsor, l’an 1572”, BNF, ms. fr. 14653, fol. 3r.

 

Infine, la presenza attorno allo scudo del collare del Toson d’Oro indica chiaramente l’appartenenza del sovrano asburgico al celebre e omonimo Ordine cavalleresco istituito nel 1430 da Filippo il Buono, duca di Borgogna, ed ereditato dalla casa d’Asburgo in conseguenza del matrimonio fra l’imperatore Massimiliano I e Maria di Borgogna, bisavoli paterni del nostro Filippo, al quale in data 22 ottobre 1555 il padre Carlo V trasferì il Gran Magistero dell’Ordine. L’identificazione certa del titolare dell’esemplare litico latianese consente dunque di datarne la collocazione entro una forchetta temporale di soli quattro anni, limitata alla durata del matrimonio fra Filippo II e Maria Tudor (1554-1558). In questo lasso di tempo il feudo di Latiano apparteneva da più di un decennio a Francesco Antonio Francone (1542-1585). Settembrini, attribuendo erroneamente lo stemma a Carlo V, sostiene che tale manufatto era collocato originariamente nella cinquecentesca chiesa di San Sebastiano, ma questa tesi appare poco convincente se si considerano la tipologia di arma rappresentata e la natura dell’edificio che la ospita. Nel Regno di Napoli e nella stessa Terra d’Otranto, infatti, questo tipo di rappresentazione araldica del potere regale trovava quasi sempre posto su edifici o monumenti civili o militari di particolare rilevanza pubblica: porte urbiche, torri, bastioni, castelli, titoli confinari, sedili, luoghi deputati all’amministrazione della giustizia ecc., supporti privilegiati per la mise en scène di un signum attestante l’autorità regia. Numerosi sono gli esempi in tal senso, sui quali non vale pena soffermarsi. Ciò che è insolito, invece, è trovare una composizione come quella in esame su un piccolo edificio religioso, tanto più che nel corso di questa indagine non è emerso nessun tipo di legame diretto fra Filippo II e l’antica chiesa di San Sebastiano tale da giustificare la presenza del suo stemma. Pertanto, benché la tesi del Settembrini non sia da scartare a priori (e in tal caso lo stemma sarebbe un forte elemento datante), è più verosimile ipotizzare per l’esemplare litico in questione una sua originaria collocazione su una costruzione civile o militare, una costruzione evidentemente ancora in piedi negli anni 1554-1558. Se così fosse, la chiesa di San Sebastiano andrebbe fatta risalire alla fine del XVI secolo, come attestano del resto i più recenti studi sulla topografia cinquecentesca di Latiano. È evidente, comunque, che l’attribuzione dell’arma e la cronologia ristretta che essa sottende offrono agli studiosi di storia locale nuove piste di ricerca sulle quali sarebbe utile investigare in futuro. Com’è noto, dopo la morte di Maria Tudor, El Rey Prudente eliminò le armi inglesi dal suo stemma e a partire dal 1580 aggiunse lo scudetto del reame portoghese, collocandolo sul punto d’onore dello scudo (fig. 10). Nel corso del tempo il suo stemma fu soggetto a numerose varianti, la cui descrizione, tuttavia, esula dall’argomento oggetto di questo studio.

Fig. 10. Stemma di Filippo II, dal Theatrum Orbis Terrarum di Abraham Ortelius (1603).
Fig. 10. Stemma di Filippo II, dal Theatrum Orbis Terrarum di Abraham Ortelius (1603).

 

Conclusioni

Arma di dominio attestante l’autorià regia nonché vero e proprio “ritratto sociale” del titolare, l’esemplare araldico oggetto di questa disamina rappresenta una delle più antiche testimonianze dell’architettura latianese del XVI secolo e, come tale, merita di essere apprezzato e valorizzato. È evidente che le condizioni in cui versa oggi il manufatto ne impongono con urgenza un recupero mediante restauro che lo sottragga agli effetti nefasti prodotti dalle ingiurie del tempo e dall’incuria dell’uomo. In una lettera del 24 febbraio 2005 indirizzata alla Soprintendenza per i Beni architettonici e paesaggistici, al Comune di Latiano e al parroco della chiesa di S. Maria delle Neve, Ilario Mosca (all’epoca giovane studente liceale), attribuendo erroneamente l’esemplare a Carlo V, auspicava “il recupero, il restauro, la valorizzazione e la preservazione di un pezzo di storia latianese che al momento passa inosservato ai più”. L’appello del Mosca restò lettera morta. L’auspicio è che questa mia ricerca possa spingere le istituzioni e le associazioni locali (fra cui la Pro Loco, che nel suo sito persevera nell’errata attribuzione dello stemma) a intervenire concretamente in tal senso.

 

BIBLIOGRAFIA

Corpus Nummorum Italicorum, vol. XX, Italia meridionale e continentale: Napoli II, da Filippo II alla chiusura della zecca, ed. Colombo, Roma 1943.

Beni culturali di Latiano: le chiese e il patrimonio sacro (a cura della Biblioteca comunale), Manduria 1993, vol. 3, t. 2.

  1. Borgia, Lo stemma del Regno delle Due Sicilie, Firenze 2002.
  2. Fraser, The Lives of the Kings & Queens of England, Book Club Associates, Londra 1975.
  3. Menéndez Pidal de Navascués, El Escudo de España, Real Academia Matritense de Heráldica y Genealogía, Madrid, 2004.
  4. Parker, Un solo re, un solo impero. Filippo II di Spagna, Bologna 2005.
  5. Semeraro, Propaganda politica per immagini. Il caso dello stemma carolino di Porta Napoli a Lecce, in “Il delfino e la mezzaluna”, agosto 2006, anno IV, nn. 4-5.
  6. Settembrini, Il culto del SS.Crocifisso a Latiano: storia e tradizioni, Oria 1996.
  7. Settembrini, La piazza, il centro storico, l’espansione urbanistica di latiano nei secoli XVI-XX, Latiano 2012.
  8. Settembrini, Sindaci, notai e famiglie feudatarie di Latiano, Latiano 2002.
  9. Willement, Regal heraldry. The armorial insignia of the Kings and Queens of England, from coeval authorities, Londra 1821.

Il drago araldico: dai bestiari medievali alle armi delle casate Trane e Protonobilissimo

di Marcello Semeraro

Il drago è, insieme all‘aquila, il solo “animale” che appartiene all’emblematica di tutti i paesi e di tutti i tempi. La seguente ricerca, scevra da qualunque pretesa di esaustività, si propone di individuare il ruolo che questo mostro leggendario ebbe nello specifico ambito araldico, con una particolare attenzione alla Terra d’Otranto.

IL DRAGO IN ARALDICA

Nell’araldica europea il drago è la creatura più instabile e polimorfa del blasone. Bipede o quadrupede, alato o attero, monocefalo o bicipite, il drago araldico è una figura chimerica ibrida che prende in prestito le sue parti da vari animali: dai rettili (il corpo e la coda), dall’aquila (le zampe e gli artigli), dal pipistrello (le ali), dal leone (talvolte le zampe), dall’uomo o dalla capra (la barba e talora anche la testa), dal pesce (talvolta la coda), dal grifo (le orecchie) e dal coccodrillo. Questa sua natura instabile e composita si ritrova, del resto, anche nei bestiari medievali, quella particolare categoria di manoscritti che descrivono le proprietà delle bestie per ricavarne significati morali e religiosi e che, com’è noto, esercitarono un’influenza notevole sull’arte, sull’iconografia e sulla stessa araldica (figg. 1 e 2).

Fig. 1. Il drago, animale reale per gli uomini del medioevo, è la creatura più instabile e composita della zoologia del bestiari. Esso è il risultato della fusione in una sola creatura di tradizioni più antiche, bibliche, orientali, grego-romane e germaniche. Nasce in Etiopia, in India e in “Barbaria” ed è il più grande dei serpenti, da cui si differenzia per avere le zampe, almeno due. E’ terribile, rumoroso, viscoso, ha un odore mefitico, un alito pestilenziale e la sua carne è disgustosa. Dalle orecchie e dalla bocca escono fiamme distruttive. Ma la sua grande forza risiede nella coda, che soffoca e distrugge tutto ciò che stritola. Ha paura di una sola cosa, il fulmine. E’ una creatura diabolica, il simbolo del Male. Londra, British Library, Harley MS 3244 (ca. 1255-65), fol. 59r.
Fig. 1. Il drago, animale reale per gli uomini del medioevo, è la creatura più instabile e composita della zoologia del bestiari. Esso è il risultato della fusione in una sola creatura di tradizioni più antiche, bibliche, orientali, grego-romane e germaniche. Nasce in Etiopia, in India e in “Barbaria” ed è il più grande dei serpenti, da cui si differenzia per avere le zampe, almeno due. E’ terribile, rumoroso, viscoso, ha un odore mefitico, un alito pestilenziale e la sua carne è disgustosa. Dalle orecchie e dalla bocca escono fiamme distruttive. Ma la sua grande forza risiede nella coda, che soffoca e distrugge tutto ciò che stritola. Ha paura di una sola cosa, il fulmine. E’ una creatura diabolica, il simbolo del Male. Londra, British Library, Harley MS 3244 (ca. 1255-65), fol. 59r.

 

Fig. 2. Drago che combatte con un elefante, suo nemico mortale. La miniatura è tratta dal Bestiario di Aberdeen. Aberdeen, The Aberdeen University Library, ms. 24 (ca. 1195-1200), fol. 65v.
Fig. 2. Drago che combatte con un elefante, suo nemico mortale. La miniatura è tratta dal Bestiario di Aberdeen. Aberdeen, The Aberdeen University Library, ms. 24 (ca. 1195-1200), fol. 65v.

 

Per gli autori dei bestiari e, più in generale, per la cultura medievale europea – memore delle tradizioni bibliche – nessun drago è positivo. È una creatura diabolica, il simbolo del Male e sconfiggerla è un’impresa che possono compiere solo certi santi, come Giorgio (fig. 3), Michele, Marta e Margherita, o certi eroi leggendari (Tristano, Artù, Sigfrido). In araldica il drago si rappresenta generalmente rampante, con il corpo munito di scaglie, testa allungata, fauci spalancate, lingua sporgente a forma di dardo, ali di pipistrello, due o quattro zampe, con la coda aguzza, spesso acciambellata e terminante a dardo (fig. 4).

Fig. 3. William Bruges, Re d’armi della Giarrettiera, vestito con un tabarro alle le armi reali inglesi, inginocchiato di fronte a San Giorgio che trafigge il drago. Bruges Garter Book, Londra, British Library, Stowe MS 594 (ca. 1430- 1440), fol. 5v.
Fig. 3. William Bruges, Re d’armi della Giarrettiera, vestito con un tabarro alle le armi reali inglesi, inginocchiato di fronte a San Giorgio che trafigge il drago. Bruges Garter Book, Londra, British Library, Stowe MS 594 (ca. 1430- 1440), fol. 5v.

 

Fig. 4. Arma della famiglia Borghese, col capo dell’Impero. Raccolta Ceramelli Papiani, Firenze, Archivio di Stato, fasc. 894.
Fig. 4. Arma della famiglia Borghese, col capo dell’Impero. Raccolta Ceramelli Papiani, Firenze, Archivio di Stato, fasc. 894.

 

Raramente è rappresentato in atto di vomitare fiamme. Cronologicamente, i più antichi esemplari di scudi recanti draghi sono quelli ricamati su alcune scene dell’arazzo di Bayeux, il celebre manufatto tessile realizzato intorno al 1080, probabilmente nel sud dell’Inghilterra, su richiesta di Oddone, vescovo di Bayeux e fratellastro del re Guglielmo, per celebrare la conquista normanna dell’Inghilterra (fig. 5). Ma è soprattutto nell’araldica immaginaria – una moda che a partire dalla fine del XII secolo si diffuse parallelamente alla diffusione delle armi vere e proprie – che questo animale leggendario godette di una certa popolarità. La fantasia degli artisti galoppò e furono attribuiti stemmi recanti draghi a certi personaggi del ciclo arturiano (Uther Pendragon, Ariohan di Sassonia, Brehus, Calinan, Seguran, ecc.) e, addirittura, a figure bibliche come Giosuè e Giuda Maccabeo (fig. 6). Nel stemmi d’invenzione, tuttavia, la fortuna di questa figura è legata soprattutto alla sua funzione peggiorativa.

Fig. 5. Scudo normanno pre-araldico con drago. Arazzo di Bayeux (ca. 1080)
Fig. 5. Scudo normanno pre-araldico con drago. Arazzo di Bayeux (ca. 1080)

 

Fig. 6. Scudo di Giuda Maccabeo pendente da un alberello. I nove Prodi (ca. 1416-1420), Manta (Cuneo), castello.
Fig. 6. Scudo di Giuda Maccabeo pendente da un alberello. I nove Prodi (ca. 1416-1420), Manta (Cuneo), castello.

 

Nel bestiario del Diavolo e dei nemici della cristianità il drago occupa infatti il primo posto, tanto che neI secoli XIII e XIV divenne l’emblema degli eretici e dei capi musulmani. Ciò nonostante, nel blasone vero e proprio il suo indice di frequenza è piuttosto basso, mentre in epoca moderna prevale il suo uso come figura parlante. Non di rado il drago compare anche quale ornamento esterno dello scudo, sia come supporto, sia, soprattutto, come cimiero. Celebri sono i cimieri innalzati, a partire dal XIV secolo, dai sovrani aragonesi e portoghesi, cimieri che, per motivi ereditari, ricomparvero qualche secolo dopo sulle armi di Filippo II di Spagna e dei suoi successori: in Terra d’Otranto se ne conserva ancora qualche traccia (fig. 7).

Fig. 7. Mesagne, Porta Nuova, stemma di Filippo III di Spagna con triplice cimiero: i due laterali raffigurano i draghi aragonese e portoghese, mentre quello centrale il cimiero parlante di Castiglia.
Fig. 7. Mesagne, Porta Nuova, stemma di Filippo III di Spagna con triplice cimiero: i due laterali raffigurano i draghi aragonese e portoghese, mentre quello centrale il cimiero parlante di Castiglia.

 

IL DRAGO NEL BLASONE DI TERRA D’OTRANTO

Valutare l’indice di frequenza del drago nel blasone delle famiglie nobili e notabili di Terra d’Otranto non è un’operazione facile. Malgrado la grande quantità di manufatti araldici di cui è ricco il territorio, mancano infatti repertori completi e aggiornati in grado di offrire un quadro d’insieme del fenomeno e i pochissimi stemmari a disposizione dello studioso presentano non poche lacune. La migliore raccolta pubblicata finora, sebbene imperfetta e parziale, resta ancora l’Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, opera pubblicata agli inizi del Novecento da Amilcare Foscarini. Nell’Armerista il drago ha un indice di frequenza bassissimo. Statisticamente, tra i quattrocentoquaranta blasoni censiti dal Foscarini, solo due hanno un drago, ossia lo 0,45% del totale. Gli stemmi appartengono alle famiglie Trane (o Trani) e Protonobilissimo.

I primi, originari di Trani e conosciuti dapprima come Gaza, presero in seguito il cognome dal toponimo d’origine. In Terra d’Otranto ebbero i feudi di Guardigliano, Tutino, Lucugnano, Montesano, Tiggiano, Torrepaduli, Specchiapreti, Scorrano, Martano, Calimera e Corigliano. Foscarini attribuisce loro un blasone acromo avente “un drago alato e rivoltato, mirante una stella di sei raggi e sostenente con la branca sinistra una testa di toro” (fig. 8).

Fig. 8. Ugento, Museo diocesano, stemma della famiglia Trane
Fig. 8. Ugento, Museo diocesano, stemma della famiglia Trane

 

Quanto ai Protonobilissimo, furono un’antica schiatta attestata sin da XIII secolo. La famiglia, di origini amalfitane, passò dapprima a Sorrento e da lì a Napoli, dove fu aggregata al seggio di Capuana. Conosciuti anche come Faccipecora (fig. 9), si suddivisero in vari rami. In Terra d’Otranto possedettero i feudi di Brongo, Palagiano, Leporano, Roca, Mottola, Specchiapreti e Muro Leccese, concesso nel 1438 dal principe di Taranto Giovanni Antonio del Balzo Orsini a Florimonte Protonobilissimo ed in seguito (1723) elevato a principato. Il Mazzella, il Foscarini, il Crollalanza e il Rietstap assegnano ai Protonobilissimo uno scudo “di rosso, al drago alato d’oro” (fig. 10).

Fig. 9. Arma dei Faccipecora, incisione tratta da C. Borrelli, Difesa della nobilta napoletana scritta in latino dal P. Carlo Borrelli C. R. M. contro il libro di Francesco Elio Marchesi, volgarizata dal P. Abbate Ferdinando Ughelli, Roma 1655, p. 121
Fig. 9. Arma dei Faccipecora, incisione tratta da C. Borrelli, Difesa della nobilta napoletana scritta in latino dal P. Carlo Borrelli C. R. M. contro il libro di Francesco Elio Marchesi, volgarizata dal P. Abbate Ferdinando Ughelli, Roma 1655, p. 121

 

Fig. 10 .Stemma Protonobilissimo, incisione tratta da S. Mazzella, Descrittione del Regno di Napoli, Napoli 1601, p. 639
Fig. 10 .Stemma Protonobilissimo, incisione tratta da S. Mazzella, Descrittione del Regno di Napoli, Napoli 1601, p. 639

 

Tuttavia, l’analisi di un frammento di piatto stemmato, conservato presso il Museo del Palazzo del Principe di Muro Leccese, dimostra che il ramo murese dei Protonobilissimo caricò il drago d’oro non su un campo di rosso, ma d’azzurro (fig. 11).

Fig. 11. Muro Leccese, Museo del Palazzo del Principe, frammento di piatto con arma dei Protonobilissimo.
Fig. 11. Muro Leccese, Museo del Palazzo del Principe, frammento di piatto con arma dei Protonobilissimo.

 

Recuperato durante gli scavi nel Palazzo del Principe e databile alla fine del XVI secolo, questo frammento ceramico è una fonte araldica di primaria importanza perché contiene dati che furono controllati direttamente dalla committenza. Tale considerazione ci permette di affermare che la diversità del colore del campo che si osserva nei due blasoni dei Protonobilissimo poc’anzi descritti è legata a esigenze di brisura di linea. Con questo termine si intende un’alterazione dello stemma originale, operata per distinguere i vari rami di una stessa famiglia. L’uso delle brisure, particolarmente diffuso nell’araldica del regno di Napoli, si espresse attraverso varie modalità, fra cui la modificazione degli smalti dello scudo, ottenuta invertendo gli smalti del campo e della figura principale, oppure cambiandone solo uno, come si vede nello stemma del Protonobilissimo di Muro. Per differenziarsi, infatti, essi modificarono l’arma tradizionale “di rosso, al drago d’oro”, mutando in azzurro il colore della superficie dello scudo. In ogni caso, quale che sia la brisura impiegata dai Protonobilissimo, il drago, animale “totemico” della casata, rimase sempre d’oro.

 

BIBLIOGRAFIA

– G.B. Di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Pisa 1886-1890.

– A. Foscarini, Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, Lecce 1903 (rist. anast. Sala Bolognese, Arnaldo Forni, 1978).

– E. Noya di Bitetto, Blasonario generale di Terra di Bari, Mola di Bari 1912 (rist. anast. Sala Bolognese, Arnaldo Forni, 1981).

– M. Pastoureau, Bestiari del Medioevo, Torino 2012.

– M. Pastoureau, Medioevo simbolico, Bari 2014.

– J. B. Rietstap, Armorial général précédé d’un dictionnaire des termes du blazon, 2 voll., Gouda 1884-1887.

LO STEMMA DEL PALAZZO BASILE DI FRANCAVILLA FONTANA: UN CURIOSO CASO DI ARMA PARLANTE

di Marcello Semeraro

PREMESSA

Uno degli aspetti più interessanti ricavabili dallo studio del blasone delle famiglie storiche francavillesi – notabili o nobili che siano, il confine spesso è molto labile – è lo stretto rapporto che intercorre fra araldica e antroponimia. Ci riferiamo, in particolare, a quella tipologia di armi che recano una o più figure che richiamano il nome del titolare e che gli araldisti chiamano, non a caso, parlanti. Classificarle non è facile. Grossomodo si può dire che la relazione che si stabilisce tra le figure dello scudo e il cognome può essere di tipo diretto (armi parlanti dirette), allusivo (armi parlanti allusive), oppure può articolarsi su un gioco di parole (armi parlanti per gioco di parole). Considerate dagli araldisti dell’Ancien Régime meno nobili e meno antiche, queste armi esistono in realtà sin dalla nascita dell’araldica e furono adoperate da dinastie di grande importanza.

Basti pensare ai sovrani di Castiglia e León, che a partire dalla seconda metà del XII portarono uno scudo raffigurante un castello e un leone, ai conti di Bar, che innalzarono due branzini (bar) addossanti, oppure, per restare in ambito italiano, ai Colonna (una colonna), ai Della Rovere (una rovere), ai Della Scala (una scala), ecc. L’indice di frequenza di questa categoria di armi è molto elevato, sia nell’araldica gentilizia che in quella civica. Si calcola che circa un 20% di armi medievali siano qualificabili come parlanti. Ma questa percentuale è destinata a crescere alla fine del Medioevo e in epoca moderna, grazie soprattutto alla diffusione che esse ebbero fra i non nobili e fra le comunità. D’altra parte, se ci pensiamo bene, l’impiego di figure parlanti è il procedimento più semplice per crearsi uno stemma.

Ma veniamo all’araldica francavillese – i cui usi, è bene ricordalo, si iscrivono nel più ampio quadro dell’araldica del Regno di Napoli – e al suo rapporto con l’antroponimia familiare. Dallo studio degli esemplari araldici di cui è disseminato il centro storico francavillese emerge chiaramente che le famiglie nobili e notabili che fecero uso di armi parlanti adoperarono varie formule per rappresentare la relazione fra le figure dello scudo e il nomen gentilizio. Manca lo spazio per approfondire la questione. In questa sede ci limitiamo a dire che il rapporto fra il significante (la figura) e il significato (il cognome) può costruirsi su una o più figure associate fra loro e svilupparsi in modo diretto (un cane per i Caniglia, ad esempio), allusivo (come nello stemma dei Carissimo, raffigurante un cuore sormontato da tre stelle) o attraverso un gioco di parole, come nel caso dello stemma oggetto di questo studio. Si tratta, comunque, di un corpus molto interessante di stemmi che ci auguriamo divenga oggetto di uno studio organico che sia in grado di offrire una visione d’insieme del fenomeno, così da valutarne meglio la portata.

 

LO STEMMA DELLA FAMIGLIA BASILE

Fra gli esempi più curiosi di armi parlanti riscontrabili nel blasone francavillese, un posto di primo piano spetta sicuramente allo scudo innalzato dalla famiglia Basile. L’insegna è scolpita al di sopra dell’elegante portale con fornice ad arco a tutto sesto che nobilità la facciata dell’omonimo palazzo (oggi di Castri) ubicato in via Roma, l’antica via Carmine (fig. 1).

Fig. 1. Francavilla Fontana, via Roma, portale d’ingresso del palazzo Basile (ora di Castri).
Fig. 1. Francavilla Fontana, via Roma, portale d’ingresso del palazzo Basile (ora di Castri).

 

La costruzione del palazzo risale alla fine del XVIII secolo, datazione che viene confermata anche dall’analisi stilistica del manufatto araldico. La composizione, di fattezze tipicamente settecentesche, reca uno scudo perale con contorno a cartoccio, timbrato da un elmo aperto, graticolato e posto in terza, ornato di svolazzi e cimato da una corona nobiliare.

Per quanto riguarda il contenuto blasonico, la composizione presenta varie figure, delle quali hanno una natura parlante che si evince solo da un’attenta analisi dell’iconografia araldica. Lo scudo raffigura, infatti, un basilisco (il mostruoso gallo serpentiforme con il corpo intriso di veleno, capace di uccidere con il solo sguardo), ardito su una pianura erbosa, tenente con la zampa destra un vaso nodrente una pianta di basilico, accompagnato nel cantone sinistro del capo da una cometa ondeggiante in sbarra e attraversato da una banda diminuita e abbassata rispetto alla sua posizione ordinaria (figg. 2, 3 e 4).

Fig. 2. Francavilla Fontana, via Roma, palazzo Basile (ora di Castri), particolare dello stemma.
Fig. 1. Francavilla Fontana, via Roma, portale d’ingresso del palazzo Basile (ora di Castri).

 

Fig. 3. Il basilisco, creatura mostruosa che si voleva generata da un uovo deposto da un gallo anziano, ma covato da una bestia velenosa come il rospo, l’aspide o il drago. Figura ibrida, ha la testa, le ali e le zampe di un gallo, ma il corpo termina a forma di serpente. E’ sormontato da una cresta carnosa simile ad una corona (da cui il nome che significa “piccolo re”). E’ il “re dei serpenti” e tutti lo temono, tranne la donnola, come si vede in questa splendida miniatura. Londra, British Library, Royal MS 12 C XIX, fol. 63v.
Fig. 3. Il basilisco, creatura mostruosa che si voleva generata da un uovo deposto da un gallo anziano, ma covato da una bestia velenosa come il rospo, l’aspide o il drago. Figura ibrida, ha la testa, le ali e le zampe di un gallo, ma il corpo termina a forma di serpente. E’ sormontato da una cresta carnosa simile ad una corona (da cui il nome che significa “piccolo re”). E’ il “re dei serpenti” e tutti lo temono, tranne la donnola, come si vede in questa splendida miniatura. Londra, British Library, Royal MS 12 C XIX, fol. 63v.

 

Fig. 4. Stemma parlante della famiglia Basilicò (da V. Palazzolo Gravina, Il Blasone in Sicilia, Palermo 1871-75, tav. XVIII, n° 11).
Fig. 4. Stemma parlante della famiglia Basilicò (da V. Palazzolo Gravina, Il Blasone in Sicilia, Palermo 1871-75, tav. XVIII, n° 11).

 

Come si vede dal blasone, la relazione fra le figure parlanti e il nome di famiglia è di tipo indiretto e si ottiene associando nello scudo due figure diverse che richiamano il cognome attraverso un gioco di parole (Basile/basilisco/basilico). Ma questa relazione nasconde anche una comune radice etimologica, giacché sia la forma cognominale Basile (come vedremo più avanti), sia i lemmi basilisco (gr. βασιλίσκος, lat. basiliscus, “piccolo re”) e basilico (gr. βασιλικόν, lat. basilicum, “pianta regale”) derivano da βασιλεύς (lat. basileus), nome che nell’antica Grecia designava il re. Tuttavia, questa connotazione parlante dello stemma Basile non è stata colta né dagli studiosi di storia locale che se ne sono occupati, né dagli araldisti che ne hanno fornito il blasone.

Lo storico francavillase Pietro Palumbo, ad esempio, in una pagina della sua celebre Storia di Francavilla nella quale descrive l’arma Basile, scambia erroneamente il basilisco per un “gallo coronato” e la pianta di basilico per dei “fiori”. Lo stesso dicasi per un araldista attento come Edgardo Noya di Bitetto, che nel suo Blasonario generale di Terra di Bari assegna ai Basile, nobili di Molfetta e originari di Bisceglie, uno scudo d’azzurro, al gallo d’oro, crestato e barbato di rosso, ardito su una pianura erbosa al naturale, mostruoso con la coda attorcigliata di serpe, tenente con la zampa destra un vaso d’oro, ansato con mazzo di fiori, al naturale, nudrito nel vaso; alla banda di rosso attraversante. Il blasone riportato dal Noya di Bitetto, che differisce da quello francavillese per l’assenza della cometa, ha tuttavia il merito di restituire allo stemma Basile la sua cromia originaria. Cosa non di poco conto se si pensa che, contrariamente a quanto doveva essere in origine, il manufatto scolpito sul portale d’ingresso del palazzo di via Roma si presenta oggi acromo. Assodata l’origine parlante dello stemma in esame, resta da sciogliere una questione: è stato il nome a generare l’arma o viceversa?

Benché manchi un repertorio cronologico-figurativo attraverso cui poter studiare l’origine e l’evoluzione della suddetta insegna, ci sentiamo di poter rispondere a questa domanda mettendo in campo considerazioni di natura etimologica e antroponimica.

Il gentilizio Basile è la cognominizzazione del nome Basilio, continuazione del latino Basilius – che a sua volta è l’adattamento del personale greco Βασίλειος, che propriamente significa regale – affermatosi in Italia già in epoca altomedievale soprattutto per il prestigio e il culto di San Basilio il Grande di Cesarea, vissuto nel IV secolo d.C. Essendo il nome di famiglia derivato da un nome proprio, è lecito quindi pensare che sia stato il cognome a precedere lo stemma parlante, non il contrario. Del resto l’impiego di figure parlanti era il modo più semplice che ebbe questa famiglia per dotarsi di uno stemma gentilizio.

Un analogo procedimento di trasformazione grafica del nome, d’altronde, si riscontra anche altrove, sia dentro che fuori lo scudo: la famiglia siciliana Basilicò, ad esempio, porta un vaso nodrente una pianta di basilico (fig. 4.); i napoletani Basile, un basilisco su un monte di tre cime all’italiana (fig. 6); la città di Basilea, sempre un basilisco, ma impiegato come supporto parlante all’esterno dello scudo (fig. 5).

Fig. 5. Basilisco che fa da supporto all’arma civica di Basilea. Stampa del XVI secolo, archivio personale dell’araldista Ottfried Neubecker.
Fig. 5. Basilisco che fa da supporto all’arma civica di Basilea. Stampa del XVI secolo, archivio personale dell’araldista Ottfried Neubecker.

 

Fig. 6. Arma dei Basile di Napoli (da V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, Milano 1935, suppl. 1°, p. 302).
Fig. 6. Arma dei Basile di Napoli (da V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, Milano 1935, suppl. 1°, p. 302).

 

Sulle origini della famiglia Basile di Francavilla poco si sa. Le informazioni tramandate dagli storici locali sono parziali e lacunose e i non pochi casi di omonimia rendono la ricerca più difficoltosa. Tuttavia, lo stemma in esame è uno dei quei casi in cui l’araldica diventa un prezioso ausilio della genealogia, permettendo, in base al blasone, di distinguere o accomunare le famiglie omonime. Il Palumbo vuole i Basile originari di Martina Franca, ma sulla base del comune blasone dobbiamo ritenere che appartenessero allo stesso ceppo dei Basile “originari di Bisceglie” di cui parla il Noya di Bitetto. Ulteriori ricerche, miranti all’individuazione di un solido aggancio genealogico, fornirebbero alla nostra tesi i necessari riscontri. Come gli altri palazzi presenti in via Roma, l’edificio sulla cui facciata è collocato lo stemma fa parte del sistema dei palazzi signorili costruiti a seguito della sistemazione urbanistica voluta dai principi Imperiali nel XVIII secolo. Vera e propria firma della committenza, l’arma in questione è una testimonianza importante che si iscrive nel più vasto ambito dei sistemi di rappresentazione dei segni d’identità di cui si servirono le maggiori famiglie francavillesi parallelamente all’affermazione e al consolidamento del proprio status, in un lasso di tempo che va dal XVI al XVIII secolo. Si tratta di un linguaggio importante, poco investigato ma ricco di contenuti e di implicazioni su più fronti (storia della mentalità, gusti e tendende artistiche dell’epoca, modi di presentarsi al pubblico, ecc.) che ci auguriamo sia fatto presto oggetto di uno studio specifico. Nonostante il cambio di proprietà e i rimaneggiamenti cui è stato sottoposto il palazzo in questione nel corso del tempo, l’arma innalzata dai proprietari originari (non sappiamo esattamente da chi all’interno della famiglia) è ancora lì a perpetuarne la memoria e a tirare fuori molti fili rossi di una storia a lungo trascurata dai cultori di memorie patrie.

 

Bibliografia

– E. De Felice, Dizionario dei cognomi italiani, Milano 1978.

– G.B. Di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Pisa 1886-1890.

– E. Noya di Bitetto, Blasonario generale di Terra di Bari, Bologna : A. Forni, 1981.

– P. Palumbo, Storia di Francavilla Fontana, Bologna : A. Forni, 1974.

– M. Pastoureau, Bestiari del Medioevo, Torino 2012.

– M. Pastoureau, Medioevo simbolico, Bari 2014.

– V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana. Famiglie nobili e titolate viventi riconosciute dal R° Governo d’Italia. Compresi: città, comunità, mense vescovili, abazie, parrocchie ed enti nobili e titolati riconosciuti, Milano 1928-1935.

Lo stemma dei principi di Taranto Filippo I, Roberto e Filippo II

I gigli, il lambello e la banda: breve studio sulla genesi e l’evoluzione

dello stemma dei principi della Casa d’Angiò-Taranto

 

di Marcello Semeraro

Sull’araldica dei principi angioni di Taranto del Trecento (Filippo I, Roberto e Filippo II) non esistono studi specifici. Il presente contributo, pur nella sua brevità, si propone di colmare in parte questa lacuna, richiamando l’attenzione degli studiosi su un campo di ricerca particolarmente interessante, anche per via delle sue notevoli implicazioni interdisciplinari. Per comodità di trattazione, abbiamo suddiviso la nostra indagine in due parti: nella prima ci occuperemo dello stemma innalzato da Filippo I d’Angiò, nella seconda di quello dei suoi successori.

 

Lo stemma Filippo I d’Angiò

Si dicono brisure (dal francese briser, “rompere, spezzare”) quelle varianti introdotte in uno stemma rispetto all’originale per distinguere i diversi rami di una stessa famiglia. Comparse verso la fine del XII secolo – ovvero in un’epoca in cui le armi cominciarono a diventare ereditarie – e diffuse soprattutto nei paesi di araldica classica (Francia, Inghilterra, Scozia, Paesi Bassi, Germania renana, Svizzera), le brisure furono istituite probabilmente dagli araldi per ragioni essenzialmente militari: riconoscere gli individui apparentati che innalzavano armi simili nel campo di battaglia o nel torneo, ovvero nei luoghi dove materialmente comparvero le prime armi nella prima metà del XII secolo.

Il sistema si basava su un principio molto semplice: all’interno di una stessa famiglia, solo il più anziano del ramo primogenito aveva il diritto di portare le armi familiari piene, ovvero il blasone primitivo senza alterazioni di sorta. Gli altri (il primogenito, vivente il padre, e i cadetti, con l’esclusione delle donne) dovevano apportare una leggera modifica all’interno dello scudo originario che li differenziasse dal capo d’armi.

L’uso delle brisure, che ebbe il suo apice fra il XIII e il XIV secolo e che diminuì man mano che l’araldica perse la sua centralità nel campo di battaglia, non fu mai sottoposto ad un sistema di regole uniformi e valide per tutte le epoche e tutti i luoghi, ma fu piuttosto un fenomeno legato ad abitudini familiari, mode geografiche o cronologiche. In linea di massima si possono distinguere tre principali modi di brisare un’arma: la modificazione degli smalti (che si ottiene, ad esempio, invertendo gli smalti del campo e delle figure), la modificazione delle figure (aumento o diminuzione del numero delle figure uguali, cambiamento della forma o della posizione oppure sostituzione di una figura con un’altra) e l’aggiunta di altre figure specifiche chiamate pezzi di brisura (lambello, banda e sue diminuzioni, bordura, quarto franco, stelle, merlotti, anelletti, conchiglie, ecc.).

Dal XIII secolo quest’ultima modalità rappresenta il procedimento più diffuso per brisare uno stemma. Manca lo spazio per approfondire la questione. Qui ci limitiamo ad osservare che in Italia le brisure non ebbero mai una speciale importanza, tranne a Venezia e nel reame napoletano, dove se ne fece un uso abbastanza ampio. Ma è soprattutto con le dinastie capetingia e plantageneta che si assiste ad un impiego massiccio di brisure e di sovrabrisure (ulteriori modifiche di uno stemma già brisato), utilizzate per distinguere i cadetti e le linee da essi derivate (fig. 1).

L’arma d’Angiò antico viene anche detta d’Angiò-Sicilia e d’Angiò-Napoli.
Fig. 1. Alcune brisure e sovrabrisure portate dalla Casa di Francia. Grand Armorial équestre de la Toison d’or (Lille, ca. 1435), Parigi, Bibl. de l’Arsenal, ms. 4790, fol. 54r.

 

Lo stemma gentilizio innalzato dal principe di Taranto Filippo I d’Angiò (†1331) ce ne offre un fulgido esempio (fig. 2).

Fig. 2. Riproduzione grafica dello stemma d’Angiò-Taranto
Fig. 2. Riproduzione grafica dello stemma d’Angiò-Taranto

 

La linea d’Angiò-Taranto nacque come ramo cadetto uscito dalla Casa d’Angiò-Napoli del ceppo capetingio, generato dal predetto Filippo, quarto figlio del re di Napoli Carlo II (†1309) e di Maria d’Ungheria, principe di Taranto dal 1294 al 1331 e dal 1313 imperatore titolare di Costantinopoli a seguito delle nozze con Caterina II di Valois-Courtenay. Essendo un ultrogenito, egli dovette giocoforza adottare un’arma che lo differenziasse da quella adoperata dal padre.

Fig. 3. Saluto d’oro di Carlo II d’Angiò. Sul recto, stemma partito di Gerusalemme e d’Angiò antico senza il lambello.
Fig. 3. Saluto d’oro di Carlo II d’Angiò. Sul recto, stemma partito di Gerusalemme e d’Angiò antico senza il lambello.

 

Come re di Napoli, Carlo II portava lo scudo del padre Carlo I d’Angiò (†1285), suo predecessore sul trono partenopeo sin dal 1282, ovvero un partito di Gerusalemme (d’argento, alla croce potenziata d’oro, accantonata da quattro crocette dello stesso) e d’Angiò antico (d’azzurro, seminato di gigli d’oro, al lambello di rosso)1 (fig. 3). L’uso di questa associazione d’armi risale tuttavia al 1277, quando Carlo I, re di Sicilia dal 1266, si intitolò, senza esserlo mai stato di fatto, re di Gerusalemme e sanzionò araldicamente questa pretensione inaugurando uno scudo partito dove pose a destra (sinistra per chi guarda) l’insegna gerosolimitana e a sinistra (destra per chi guarda) quella gentilizia. In precedenza, a partire dagli anni 1246/1247, dopo essere stato appannaggiato delle contee d’Angiò e del Maine, Carlo portò l’arma di Francia antica (d’azzurro, seminato di gigli d’oro), insegna propria dei sovrani capetingi di Francia (figg. 6 e 7), brisata da un lambello di rosso (figg. 4 e 5).

Fig.4. Scudo d’Angiò antico del re di Sicilia. Livro do Armeiro-Mor (1509), Campo Grande (Lisbona), Arquivo Nacional da Torre do Tombo, fol. 11r.
Fig.4. Scudo d’Angiò antico del re di Sicilia. Livro do Armeiro-Mor (1509), Campo Grande (Lisbona), Arquivo Nacional da Torre do Tombo, fol. 11r.
Fig. 5. Reale di Carlo I d’Angiò per Messina (1266-1277). Al rovescio, lo scudo d’Angiò antico
Fig. 5. Reale di Carlo I d’Angiò per Messina (1266-1277). Al rovescio, lo scudo d’Angiò antico

 

Fig. 6. Chartres, cattedrale Notre-Dame, rosone (ca. 1215-1216). Il principe Luigi (il futuro Luigi VIII) in grande tenuta araldica, porta uno scudo di Francia antica. Si tratta del più antico esemplare smaltato dell’arma dei capetingi.
Fig. 6. Chartres, cattedrale Notre-Dame, rosone (ca. 1215-1216). Il principe Luigi (il futuro Luigi VIII) in grande tenuta araldica, porta uno scudo di Francia antica. Si tratta del più antico esemplare smaltato dell’arma dei capetingi.

 

Fig. 7. Wappenrolle von Zürich (Zurigo, ca. 1330-1335), Zurigo, Schweizerisches Nationalmuseum, AG 2760, fol. 2r. Al centro l’arma piena del re di Francia.
Fig. 7. Wappenrolle von Zürich (Zurigo, ca. 1330-1335), Zurigo, Schweizerisches Nationalmuseum, AG 2760, fol. 2r. Al centro l’arma piena del re di Francia.

 

Quando la ribellione dei Vespri siciliani (1282) scacciò re Carlo dalla Sicilia, riducendolo al possesso dei territori meridionali al di qua del Faro, lo scudo partito di Gerusalemme e d’Angiò antico divenne proprio della corona di Napoli e della pretensione, ad essa collegata, al trono gerosolimitano. Carlo I morì nel 1285 e il suo regno, unitamente alla pretensione gerosolimitana, fu ereditato dal figlio Carlo II, al quale il padre trasmise anche lo stemma. Nel 1273 re Carlo II sposò Maria, figlia del re d’Ungheria Stefano V. Da questo matrimonio nacquero quattro diramazioni principali, corrispondenti ai figli e alle terre che essi ereditarono: il primogenito Carlo Martello fu lo stipite della linea d’Angiò-Ungheria, Roberto continuò quella reale d’Angiò-Napoli, mentre Filippo e Giovanni diedero vita rispettivamente alle linee d’Angiò-Taranto e d’Angiò-Durazzo.

Non potendo portare in quarto di pretensione gerosolimitana, in quanto legato esclusivamente alla corona di Napoli, Filippo I si limitò a sovrabrisare la sola arma d’Angiò antico, facendola attraversare da una banda d’argento. Lo stemma che ne risultò può essere così blasonato: d’azzurro, seminato di gigli d’oro, al lambello di rosso; con la banda d’argento, attraversante sul tutto (Angiò-Taranto).

L’arma del principe di Taranto è dunque il risultato di una sovrapposizione di tre piani diversi, ottenuta dapprima brisando e poi sovrabrisando lo stemma originario capetingio.

Il piano di fondo (il seminato di gigli d’oro in campo azzurro dei re di Francia) è quello più antico, seguito da quello intermedio (il lambello di rosso, proprio dei re angioni di Napoli) e da quello più recente (la banda d’argento, tipica dei principi angioini di Taranto). E’ così, del resto, che devono essere letti tutti gli stemmi, ovvero partendo dal piano di fondo fino ad arrivare a quello più vicino all’osservatore, secondo un ordine di lettura contrario alle nostre abitudini moderne.

Per comprendere meglio come sia avvenuto storicamente questo processo di alterazione della primitiva insegna capetingia riteniamo sia utile soffermarsi sulla genesi e lo sviluppo delle figure che compongono lo scudo di Filippo I.

A partire dal regno di Filippo Augusto (1180-1223), i sovrani capetingi di Francia portarono come insegna araldica un seminato di gigli d’oro in campo azzurro. Questa scelta non fu casuale. Il giglio fa parte del repertorio delle insegne e degli attributi della monarchia francese sin dai tempi di Luigi VI (1108-1137) e Luigi VII (1137-1180). Esso è allo stesso tempo un attributo mariano (simbolo di purezza e verginità) e un simbolo di sovranità. Questa sua duplice dimensione simbolica (religiosa e regale) è rafforzata dalla particolare disposizione in seminato con cui i gigli sono distribuiti sulla superficie dello scudo.

Nell’iconografia medievale la struttura in seminato è quasi sempre legata a un’idea di sacro. L’arme di Francia antica ha dunque un’essenza divina e sottolinea al tempo stesso la speciale protezione accordata dalla Vergine ai re di Francia e la dimensione religiosa della funzione regale. Per modificarla i cadetti adoperarono varie figure, fra cui il lambello che costituisce la più antica brisura portata dai principi capetingi. Il primo ad impiegarla fu Filippo Hurepel (†1234), figlio cadetto del re di Francia Filippo Augusto e di Agnese di Merania, come testimonia un esemplare raffigurato su una vetrata della cattedrale Notre-Dame di Chartres.

Circa un ventennio dopo – intorno agli anni 1246/1247 (vedi supra) – Carlo d’Angiò, ultimogenito di Luigi VIII e di Bianca di Castiglia, modificò l’arma piena dei re di Francia, scegliendo come brisura una figura che poteva liberamente adottare dopo la morte di Filippo Hurepel, fratellastro di Luigi VIII. Ricordiamo che fra tutte le figure aggiunte per alterare lo stemma originario, il lambello è quella che si riscontra con maggiore frequenza nelle armi, nonché quella più tipicamente indicativa di un intervento di brisura. Nel Medioevo la sua forma è variabile. La versione primitiva (chiamata più propriamente rastrello) è costituita da un listello orizzontale munito di pendenti lunghi e rettangolari che diventeranno trapezoidali (cioè un lambello tout court) solo verso la fine del XV secolo. Il listello tocca quasi sempre i bordi dello scudo fino alla fine del XIV secolo, mentre in quello successivo si trova sia intero che scorciato. Per quanto riguarda il numero dei suoi pendenti, il lambello a cinque è quello più impiegato fino agli anni 1270-1275, mentre successivamente prevale quello a tre. Anche la banda è una brisura molto usata, ma raramente è impiegata come sovrabrisura.

Fig. 8. Sigillo equestre di Carlo d’Angio, principe di Salerno, appeso a un atto del 1280 (cfr. M. Pastoureau , Traité d'héraldique, Paris 2008, p. 185).
Fig. 8. Sigillo equestre di Carlo d’Angio, principe di Salerno, appeso a un atto del 1280 (cfr. M. Pastoureau , Traité d’héraldique, Paris 2008, p. 185).

 

Prima di Filippo I, conosciamo un solo caso di scudo d’Angiò antico sovrabrisato da una banda d’argento. Si tratta dell’arma del padre Carlo II d’Angiò quand’era ancora principe di Salerno, come dimostrano due esemplari raffigurati rispettivamente su un sigillo equestre appeso ad un atto del 1280 (fig. 8) e sull’Armorial Wijnbergen (ca. 1265-1270). Divenuto re di Napoli nel 1285, Carlo II eliminò la banda dal suo scudo e adottò un partito di Gerusalemme e d’Angiò antico, stemma, come abbiamo già osservato, ereditato dal padre Carlo I d’Angiò, suo predecessore sul trono napoletano. Dopo questa data, quindi, Filippo d’Angiò fu libero di poter aggiungere allo scudo gentilizio d’Angiò antico la banda d’argento. Lo studio delle testimonianze sfragistiche e numismatiche relative a Filippo I permette di affermare che per tutta la durata della suo principato (1294-1331) egli portò il solo scudo d’Angiò-Taranto, senza ulteriori ampliamenti. A riprova di ciò consideriamo come estremi cronologici due controsigilli appesi a due documenti datati rispettivamente 1303 e 1321, ovvero prima e dopo l’acquisizione del titolo di imperatore latino di Costantinopoli (1313).

Fig. 9. Controsigillo di Filippo I d’Angiò, appeso ad un documento del 13 marzo 1303 (da Il segno del potere. I sigilli della Curia Arcivescovile di Taranto dal principato all'età contemporanea, a cura di Francesco Magistrale et al., Taranto 1992, pp. 80-81).
Fig. 9. Controsigillo di Filippo I d’Angiò, appeso ad un documento del 13 marzo 1303 (da Il segno del potere. I sigilli della Curia Arcivescovile di Taranto dal principato all’età contemporanea, a cura di Francesco Magistrale et al., Taranto 1992, pp. 80-81).
Fig. 10 Sigillo e controsigillo di Filippo I di Taranto, appeso ad un atto datato settembre 1321 (da G. Schlumberger, Sceaux et bulles des empereurs latins de Constantinople, Caen 1890, p. 26 e pl. VII).
Fig. 10 Sigillo e controsigillo di Filippo I di Taranto, appesi ad un atto datato settembre 1321 (da G. Schlumberger, Sceaux et bulles des empereurs latins de Constantinople, Caen 1890, p. 26 e pl. VII).

In entrambi i casi compare uno scudo gotico con la sola arma d’Angiò-Taranto, racchiusa da una cornice esalobata (figg. 9 e 10). Lo stemma gentilizio appare anche sul recto di un gettone anepigrafo, che reca sul verso un altro scudo a sé stante, quello dell’impero latino di Costantinopoli (di rosso, alla croce accantonata da quattro anelletti crociati, ciascuno accompagnato da altrettante crocette, il tutto d’oro). Coniato per Filippo d’Angiò dopo la sua nomina imperiale, questo gettone non mostra, quindi, una combinazione d’armi, ma due scudi diversi, rappresentati separatamente (fig. 11).

Fig. 11. Gettone anepifrafo e stemmato di Filippo I d’Angiò, principe di Taranto e imperatore titolare di Costantinopoli (da H. de La Tour, Catalogue de la collection Rouyer, Parigi 1899, n° 307 e pl. VIII, fig. 8.).
Fig. 11. Gettone anepifrafo e stemmato di Filippo I d’Angiò, principe di Taranto e imperatore titolare di Costantinopoli (da H. de La Tour, Catalogue de la collection Rouyer, Parigi 1899, n° 307 e pl. VIII, fig. 8.).

 

Sarà invece il figlio Roberto (†1364), principe di Taranto dal 1331 e imperatore titolare di Costantinopoli dal 1346, il primo ad associare in un unico scudo partito le insegne araldiche paterne e quelle costantinopolitane ereditate dalla madre. Ce ne occuperemo nella seconda parte di questa indagine.

 

  1. L’arma d’Angiò antico viene anche detta d’Angiò-Sicilia e d’Angiò-Napoli.

Bibliografia

G.B. di Crollalanza, Enciclopedia araldico-cavalleresca. Prontuario nobiliare, Pisa 1876-1877.

H. de La Tour, Catalogue de la collection Rouyer, Parigi 1899.

C. de Mérindol, L’héraldique des princes angevins, in Les Princes angevins du XIIIe au XVe siècle, a cura di Noël-Yves Tonnerre e Élisabeth Verry, Rennes 2003.

F. Magistrale et al., Il segno del potere. I sigilli della Curia Arcivescovile di Taranto dal principato all’età contemporanea, Taranto 1992.

O. Neubecker, Araldica, Milano 1980.Pastoureau, Medioevo simbolico, Bari 2014.

M. Pastoureau , Traité d’héraldique, Paris 2008.

M. Pastoureau, Héraldique et numismatique: quatre jetons aux armes d’Anjou, in Revue numismatique, anno 1977, vol. 6, n. 19.

G. Schlumberger, Sceaux et bulles des empereurs latins de Constantinople, Caen 1890.

Il delfino e la mezzaluna. Numero doppio per i suoi estimatori

delfino e la mezzaluna

E’ pronto il doppio numero de “Il delfino e la mezzaluna”, ovvero gli studi della Fondazione Terra d’Otranto, diretto da Pier Paolo Tarsi.

Giunto al quarto anno, questa edizione si sviluppa in 314 pagine, per recuperare l’anno di ritardo, sempre in formato A/4, copertina a colori, fotocomposto e impaginato dalla Tipografia Biesse – Nardò, stampa: Press UP, con tematiche di vario genere inerenti le provincie di Lecce, Brindisi e Taranto.

Tanti gli Autori che ancora una volta hanno voluto offrire propri contributi inediti, e meritano tutti di essere elencati secondo l’ordine con cui appaiono nel volume, con il relativo saggio proposto:

Pier Paolo Tarsi, Editoriale

Angelo Diofano, Il fantastico mondo degli ipogei nel centro storico di Taranto

Sabrina Landriscina, La chiesa di Santa Maria d’Aurìo nel territorio di Lecce

Domenico Salamino, Prima della Cattedrale normanna, la chiesa ritrovata la città di Taranto altomedievale

Vanni Greco, Il “debito” di Dante Alighieri verso il dialetto salentino

Francesco G. Giannachi, Un relitto semantico del verbo greco-salentino Ivò jènome (γίνομαι)

Antonietta Orrico, Il Canticum Beatae Mariae Virginis di Antonio De Ferrariis Galateo, una possibile traduzione

Giovanni Boraccesi, Il Christus passus della patena di Laterza e la sua derivazione

Marcello Semeraro, Propaganda politica per immagini. Il caso dello stemma carolino di Porta Napoli a Lecce

Marino Caringella – Stefano Tanisi, Una santa Teresa di Ippolito Borghese nella chiesa delle Carmelitane Scalze di Lecce

Ugo Di Furia, Francesco Giordano pittore fra Campania, Puglia e Basilicata

Domenico L. Giacovelli, Nel dì della sua festa sempre mundo durante et in perpetuum. Il patronato della Regina del Rosario in un lembo di Terra d’Otranto

Stefano Tanisi, Il dipinto della Madonna del Rosario e santi di Santolo Cirillo (1689-1755) nella chiesa matrice di Montesardo. Storia di una nobile committenza

Armando Polito, Ovidio, Piramo e Tisbe e i gelsi dell’Incoronata a Nardò

Alessio Palumbo, Aradeo, moti risorgimentali e lotte comunali: dal Quarantotto al Plebiscito

Marcello Gaballo – Armando Polito, Dizionarietto etimologico salentino sulle malattie e stati parafisiologici della pelle, con alcune indicazioni terapeutiche presso il popolo di Nardò

Marco Carratta, Il mutualismo classico in Terra d’Otranto attraverso gli statuti delle Società Operaie (1861-1904)

Gianni Ferraris, Il Salento e la Lotta di liberazione

Gianfranco Mele, Il Papaver somniferum e la Papagna: usi magici/medicamentosi e rituali correlati dall’antichità al 1900. Dal mito di Demetra alle guaritrici del mondo contadino pugliese

Bruno Vaglio, Alle rupi di San Mauro una nuova stazione “lazzaro” di spina pollice. Considerazioni di ecologia vegetale dal punto di vista di un giardiniere del paesaggio

Riccardo Carrozzini, Il mio Eco

Pier Paolo Tarsi, L’antropologia linguistica della memoria narrata: uno sguardo filosofico all’opera di Giulietta Livraghi Verdesca Zain e Nino Pensabene

Arianna Greco, Arianna Greco e la sua arte enoica. Quando è il vino a parlare

Gianluca Fedele, Gli ulivi, la musica e i volti: intervista a Paola Rizzo

Epigraphica in Terra d’Otranto. L’epigrafe agostiniana nella chiesa dell’Incoronata di Nardò (Massimo Cala). L’epigrafe di Morciano di Leuca in via Ippolitis al civico n.6 (Armando Polito)

Segnalazioni. Il fonte di Raimondo del Balzo ad Ugento (Luciano Antonazzo). La Madonna col Bambino e sant’Anna di Gian Domenico Catalano (1560 ca. – 1627 ca.) in Ugento (Stefano Tanisi). Il pittore Aniello Letizia e le sue prime opere di committenza confraternale nella Gallipoli del ‘700 (Luciano Antonazzo – Antonio Faita). Le origini dell’oratorio confraternale di santa Maria degli Angeli, già sotto il titolo di santa Maria di Carpignano (Antonio Faita).

La foto di copertina è di Ivan Lazzari, ma numerose anche le immagini proposte all’interno, gentilmente  offerte da Stefano Crety, Khalil Forssane,  Vincenzo Gaballo, Walter Macorano, Raffaele Puce.

 

Gli interessati potranno chiederlo previo contributo di Euro 20,00 da versarsi a Fondazione Terra d’Otranto tramite bollettino di Conto corrente postale n° 1003008339 o bonifico tramite Poste Italiane IBAN: IT30G0760116000001003008339 (indicare il recapito presso cui ricevere  la copia).

Per ulteriori informazioni scrivere a: fondazionetdo@gmail.com

Gli stemmi dell’antico palazzo Rondachi di Otranto

 Presentazione

di Marcello Semeraro e Antonella Candido

 

L’identificazione di stemmi anonimi presenti su edifici, affreschi e manufatti è un esercizio molto importante non solo per l’araldista, ma anche per lo storico dell’arte. Le insegne araldiche, infatti, sono tra pochi elementi in grado di fornire uno “stato civile” (una datazione, una provenienza, una committenza) e un “contesto” all’opera su cui sono riprodotte. Questo più ampio e proficuo approccio nell’interpretazione dei segni araldici manifesta tutta la sua validità scientifica nel caso degli stemmi scolpiti sui resti dei parapetti di due balconi monumentali conservati all’interno del castello aragonese di Otranto.

Come vedremo, l’analisi storico-araldica delle insegne ha consentito di gettare una nuova luce sulle origini e le vicissitudini edilizie dello storico palazzo idruntino di via Rondachi sul quale un tempo erano collocati i balconi.

Per comodità di esposizione, preferiamo iniziare la disamina partendo dal parapetto quasi integro che fa bella mostra di sé nella sala rettangolare del castello (fig. 1).

Fig. 1. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, particolare del parapetto monumentale
Fig. 1. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, particolare del parapetto monumentale

 

Il manufatto è formato da nove lastre rettangolari in pietra locale, scomposte e allineate su una pedana. Sulle sette lastre centrali si ammirano decorazioni in bassorilievo recanti sette busti maschili e femminili in maestà, ognuno dei quali è racchiuso da un serto di alloro, tipico corollario dell’iconografia celebrativa. Sulle due lastre laterali, decorate a traforo, campeggiano due scudi sagomati con contorni mistilinei, di foggia diversa, databili al XVI secolo. Purtroppo, come spesso avviene, e contrariamente a quanto doveva essere in origine, questi manufatti si presentano oggi privi di smalti. Il primo esemplare mostra una colonna con base e capitello, sostenente un putto che impugna con la mano destra una croce latina (fig. 2); il secondo reca nel primo quarto lo stesso stemma, benché stilisticamente diverso, partito con un altro raffigurante un albero nodrito1 su un ristretto di terreno2, movente dalla punta dello scudo (fig. 3).

Fig. 2
Fig. 2. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, particolare dello stemma
Fig. 3
Fig. 3. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, particolare dello stemma di alleanza matrimoniale

 

Quest’ultimo esemplare partecipa evidentemente delle caratteristiche dell’arme di alleanza matrimoniale: a destra (sinistra per chi guarda) le insegne del marito, a sinistra (destra per chi guarda) quelle della moglie. Il balcone appare nella sua interezza in una riproduzione fotografica realizzata nel primo decennio del Novecento (1910 ca.) dai fratelli Alinari, dalla quale si evince che esso dominava il prospetto di casa Carrozzini e che gli stemmi erano posizionati ai lati del parapetto (fig. 4).

Fig. 4
Fig. 4 – Balcone di casa Carrozzini, Otranto ca. 1910, stabilimento tipografico dei fratelli Alinari (Archivi Alinari, Firenze)

 

Altre foto d’epoca con altri particolari del suddetto edificio sono contenute fra le illustrazioni del secondo volume del Tallone d’Italia di Giuseppe Gigli3, pubblicato nel 1912 (fig. 5).

Fig. 5
Fig. 5. Balcone di casa Carrozzini (dal Tallone d’Italia di Giuseppe Gigli, foto Perazzo).

 

Tuttavia, nessuno dei due stemmi poc’anzi descritti corrisponde all’arme portata dalla famiglia Carrozzini, la quale sia nella versione blasonata dal Montefusco (“un cervo che tira un carro su cui è inginocchiato un uomo nudo con le mani giunte; il tutto sulla pianura erbosa”4), sia in altre varianti lapidee attestate a Soleto, differisce per la presenza di un emblema parlante5 costituito da una carrozza o da una sua parte (la ruota). Ciò significa che la committenza del balcone deve essere ricercata necessariamente altrove. Va premesso che l’identificazione dei titolari si è rivelata un’operazione particolarmente difficile, sia per la scarsità di fonti storiche su questo edificio, sia perché il contenuto blasonico degli stemmi non è facilmente ascrivibile a famiglie note. In casi di questo genere, le ricerche mediante collazione sulle fonti più specificamente araldiche (gli stemmari) possono rivelarsi fruttuose. E così è stato per il primo stemma e per il primo quarto del secondo, mentre si possono formulare solo delle ipotesi a proposito del secondo quarto del partito. Nel celebre Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, lo storico e araldista Amilcare Foscarini descrive un’arme identica, attribuendola ai Rondachi: “una colonna con base e capitello su cui sta un puttino ignudo che impugna colla destra una croce”6. Lo stesso blasone viene riportato nello Stemmario di Terra d’Otranto di Luigiantonio Montefusco7. In entrambi i casi non si hanno indicazioni sulla cromia delle figure e del campo.

I Rondachi furono una nobile famiglia idruntina di origini greche, annoverata fra le più illustri della città dallo storico Luigi Maggiulli8 ed estinta nella seconda metà del Seicento9. Fra il XVI e il XVII secolo la casata possedette vari feudi in Terra d’Otranto, tra i quali vanno ricordati Casamassella, Castiglione d’Otranto, Giurdignano, una quota dei laghi Alimini, Serrano e Tafagnano10. Un Domenico, vissuto nel XVII secolo, fu canonico della cattedrale di Otranto oltre che dotto nelle scienze e nelle lettere11.

Fra le famiglie nobili di Otranto, i Rondachi non furono comunque i soli a vantare un’origine ellenica giacché essa è attestata anche per altre schiatte come i Leondari, i Morisco e i Calofati12. Resta da capire, dopo aver identificato la famiglia di provenienza dello stemma in esame, a quale singolo personaggio detta arma apparteneva. Sfortunatamente non è stato possibile raggiungere questo obiettivo a causa soprattutto della difficoltà di stabilire, sulla base delle fonti a nostra disposizione, dei precisi riferimenti storico-genealogici sui vari membri di Casa Rondachi.

Ancora più problematica risulta essere l’identificazione dello stemma muliebre rappresentato nel secondo quarto dell’arma di alleanza matrimoniale, allusivo, come abbiamo visto, alla consorte di un Rondachi. Ciò dipende da una serie di limiti oggettivi a cui lo studioso va incontro nella lettura dell’arme, legati sia alla composizione araldica in sé, che si presenta acroma e generica nella sua figura principale – il termine “albero” è stato non a caso usato perché non se ne conosce la specie – sia alla lacunosità delle fonti con cui poter fare un raffronto. Va osservato, a tal proposito, che fra tutte le famiglie nobili e notabili idruntine riportate dal Maggiulli e dal Foscarini, solo di alcune di esse si conosce il blasone13.

Fra queste ultime, soltanto i Cerasoli (“d’argento, al ciliegio di verde”14), i Pipini (“d’azzurro, alla quercia al naturale, sostenuta da due leoni controrampanti d’oro”15) e i Dattili (“d’azzurro, alla palma di dattero d’oro, accostata da due stelle dello stesso”16 ) innalzavano un albero come figura principale, ma nessuno dei tre blasoni, nel suo complesso, sembra corrispondere a quello in argomento. Il quadro risulta ulteriormente complicato dal fatto che, come abbiamo poc’anzi ricordato, non disponiamo di solide fonti storico-genealogiche sui vari esponenti di Casa Rondachi, dalle quali avremmo potuto ricavare dati utili per la conoscenza delle insegne araldiche delle rispettive consorti.

Nel corso delle nostre indagini, tuttavia, siamo riusciti a rintracciare una fonte che si è rivelata di notevole importanza. Si tratta di una lettera del 15 ottobre 1893, scritta dal barone Filippo Bacile di Castiglione e pubblicata nel 1935 dalla rivista Rinascenza Salentina17. Storico nonché studioso di araldica, il Bacile apparteneva ad una nobile famiglia di origini marchigiane che possedette in Terra d’Otranto i feudi di San Nicola in Pettorano e di Castiglione d’Otranto, lo stesso, quest’ultimo, che qualche secolo prima era appartenuto ai Rondachi18.

La lettera, indirizzata a Luigi Maggiulli, descrive un viaggio ad Otranto durante il quale il Bacile poté visionare di persona uno storico palazzo di cui all’epoca era proprietario tale Don Peppino Bienna. In quell’occasione egli vide sulla facciata non uno, ma due parapetti che costituivano “la parte più notevole19 dell’edificio. “Quei parapetti hanno in tre lati corti e su fondi a trafori geometrici che indicano il passaggio dal XV al XVI secolo […] tre armi: una sola con una figura; le altre con due, perchè partite, ripetendo però a destra sempre questa figura; e a sinistra un’altra. La prima, dunque, è una colonna, su piedistallo, sormontata da un puttino tenente nella destra una croce. Nelle armi partite vi è 1°: la descritta; 2°: un albero su breve terrazza direi quasi accorciata20.

Il secondo parapetto, posto “in linea quanto divergente dal primo ma, tripartito e con bassorilievi21, conteneva dunque un terzo scudo che replicava la stessa combinazione d’armi per alleanza coniugale che abbiamo osservato nell’esemplare riprodotto nella figura 3. Ammirato dalle fattezze dell’edificio, il Bacile volle cercarne i proprietari originari e seppe era appartenuto alla famiglia Rondachi “che si era imparentata con la Scupoli, a cui dovrebbe appartenere la 2° partizione delle due armi22.

Si tratta di un documento importante perché oltre a confermare la committenza Rondachi, offre anche un indizio per l’identificazione dello stemma muliebre. Di origini ignote e non annoverata dal Maggiulli fra le più illustri di Otranto, la famiglia Scupoli divenne celebre per aver dato i natali a Lorenzo (*1530 †1610), chierico teatino nonché autore del celebre Combattimento spirituale23, e probabilmente anche a Giovanni Maria Scupola, pittore otrantino contemporaneo dei fratelli Bizamano24. Purtroppo non si conoscono altre attestazioni dell’arma portata da questa famiglia.

Allo stato attuale delle nostre ricerche non possiamo pertanto né confermare né confutare l’ipotesi di attribuzione del quarto muliebre suggerita al Bacile che, tuttavia, va tenuta in considerazione in vista di ulteriori, auspicabili approfondimenti. Nella lettera summenzionata si parla anche di un secondo parapetto presente sulla facciata, che dovette essere di dimensioni minori rispetto al primo. Fino a qualche settimana fa i resti di questo manufatto giacevano isolati e decontestualizzati nella sala triangolare del castello.

Tuttavia, grazie al nostro interessamento, si è provveduto a spostarli nell’adiacente sala rettangolare, dove sono attualmente ammirabili. Essi corrispondono perfettamente a quanto descritto dal barone di Castiglione. Si riconoscono tre lastre rettangolari decorate con pregevoli bassorilievi che riproducono diverse figure, comprese tre colonne che sembrano avere una relazione allusiva con l’arma Rondachi (fig. 6).

Fig. 6
Fig. 6. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, particolare delle lastre del parapetto del secondo balcone di palazzo Rondachi

Una quarta lastra, che si presenta in uno stato frammentario, reca scolpito su un fondo a traforo uno blasone partito Rondachi – (Scupoli?) del tutto simile a quello raffigurato sul parapetto maggiore, sebbene la composizione risulti stilisticamente differente (fig. 7).

7
Fig. 7. Otranto, castello aragonese, sala rettangolare, frammenti della lastra del parapetto del secondo balcone di palazzo Rondachi, con stemma partito Rondachi – (Scupoli?).

 

L’analisi dell’araldista salentino presenta, invece, alcuni aspetti problematici per quanto riguarda il numero originario delle lastre del parapetto più grande. Egli, infatti, descrive “cinque scompartimenti racchiusi in elettissimi pilastrini” recanti “cinque medaglioni con teste che sporgono da serti circolari25, mentre se ne contano due in più nelle foto novecentesche di casa Carrozzini e nel manufatto visibile nella sala rettangolare del castello. Riteniamo che questa divergenza si possa spiegare ipotizzando un errore di conteggio da parte dello studioso. Tale supposizione si basa sul fatto che la sequenza dei sette busti raffigurata su ogni pannello difficilmente troverebbe una spiegazione se non venisse considerata come parte integrante dell’intero corredo decorativo della parte frontale del parapetto maggiore, lo stesso manufatto, peraltro, che qualche anno dopo apparirà nella sua interezza nelle riproduzioni novecentesche del balcone di casa Carrozzini.

E’ probabile che ogni busto racchiuso dalla corona d’alloro sia da intendersi come allusivo ad un personaggio di Casa Rondachi e che, di conseguenza, l’insieme costituito dai bassorilievi figurati e dalle insegne araldiche agnatizie e matrimoniali (che all’epoca erano sicuramente radicate nell’esperienza visiva degli osservanti) sia stato ideato per celebrare la famiglia proprietaria del palazzo nonché per ostentarne il rango. E’ bene precisare, però, che allo stato attuale delle nostre indagini queste considerazioni sono e restano delle mere ipotesi, da prendere con le dovute cautele.

Da un punto vista cronologico e stilistico, entrambi i parapetti presentano fattezze ascrivili al XVI secolo, probabilmente opera raffinatissima di Gabriele Riccardi26. Nel primo decennio del Novecento lo storico palazzo sito in via Rondachi dovette subire dei rimaneggiamenti che andarono a modificare in parte la struttura della facciata, tanto è vero che il prospetto dell’edificio, nel frattempo divenuto casa Carrozzini, era costituito da un solo balcone.

Le vicende che interessarono questa dimora nel lasso di tempo successivo a quello documentato dalle foto presentano, invece, non pochi lati oscuri. Stando a quanto si ricava dall’introduzione alla lettera del Bacile – pubblicata, come abbiamo visto, dalla rivista Rinascenza salentina agli inizi del 1935 – a quella data l’edificio non esisteva più perché fu abbattuto a causa delle sue precarie condizioni27. Si apprende che grazie all’interessamento del Maggiulli e della Soprintendenza ai Monumenti della Puglia e alla munificenza della famiglia Bienna, i pezzi del balcone furono smontati, affidati all’amministrazione comunale e conservati “in apposito luogo28.

Di parere diverso è lo studioso Paolo Ricciardi, secondo il quale casa Carrozzini fu acquistata dall’arcivescovo Cornelio Sebastiano Cuccarollo (1930-1952) e abbattuta dal suo successore Mons. Raffaele Calabria (1952-1960) per far posto ad una palazzina attualmente utilizzata come archivio diocesano (piano terra) e uffici pastorali (primo piano)29.

Comunque sia, delle lastre lapidee dei due parapetti si perse ogni traccia fino agli inizi degli anni ’90, quanto esse furono rinvenute all’interno del materiale di riempimento del fossato del castello aragonese e collocate nelle sale interne della fortezza idruntina. Ulteriori e più puntuali indagini, basate soprattutto su fonti archivistiche, potranno chiarire meglio le fasi e le vicissitudini edilizie a cui andò incontro quella che un tempo era l’antica dimora di una nobile famiglia otrantina della quale oggi non restano che i frammenti degli antichi balconi e un’intitolazione toponomastica a perpetuarne la memoria.

 

* Desidero esprimere il mio più profondo ringraziamento alla dottoressa Patricia Caprino (Laboratorio di Archeologia Classica dell’Università del Salento), alla quale va il merito di avermi segnalato il caso, suscitando il mio interesse e la mia curiosità. Un ringraziamaneto particolare va anche a Mons. Paolo Ricciardi, noto cultore di storia otrantina, per la sua generosa disponibilità. (Marcello Semeraro)

  1. Si dice di vegetali che nascono o escono da una figura o partizione.
  2. Terreno che è molto ridotto o isolato da entrambi i lati.
  3. Cfr. G. Gigli, Il tallone d’Italia: II (Gallipoli, Otranto e dintorni), Bergamo 1912, pp. 86-87.
  4. Cfr. L. Montefusco, Stemmario di Terra d’Otranto, Lecce 1997, p. 35.
  5. Le armi o le figura parlanti sono quelle che recano raffigurazioni allusive al nome del titolare.
  6. A. Foscarini, Armerista e notiziario delle famiglie nobili, notabili e feudatarie di Terra d’Otranto, Lecce 1903, rist. anast. Bologna 1978, vol. 1, p. 181.
  7. Cfr. L. Montefusco, op. cit., p. 106.
  8. Cfr. L. Maggiulli, Otranto: ricordi, Lecce 1893, p. 97.
  9. Cfr. A. Foscarini, op. cit., p. 181.
  10. Cfr. ibidem; cfr. inoltre L. Montefusco, Le successioni feudali in Terra d’Otranto: la provincia di Lecce, Lecce 1994, ad voces.
  11. A. Corchia, Otranto toponomastica, in Note di storia e cultura salentina (a cura di F. Cezzi), Galatina 1991, p. 133.
  12. Cfr. A. Foscarini, op. cit., pp. 32, 118, 146. Quello delle famiglie nobili di origine ellenica giunte in Terra d’Otranto e, più in generale, nel Sud Italia per sfuggire alla dominazione ottomana, resta un fenomeno tutto sommato poco esplorato dagli studiosi. L’araldica, da questo punto di vista, potrebbe fornire un interessante terreno di ricerca.
  13. Cfr. L. Maggiulli, op. cit., pp. 93-104; A. Foscarini, op. cit., ad voces.
  14. Cfr. A. Foscarini, op. cit., pp. 46-47.
  15. Cfr. ivi, pp. 169-170.
  16. Cfr. ivi, p. 59.
  17. Cfr. F. Bacile, Il palazzo dei Rondachi in Otranto, in Rinascenza salentina, 1 (gen-feb 1935), pp. 42-45.
  18. Cfr. A. Foscarini, op. cit. p. 16.
  19. Cfr. F. Bacile, op. cit., p. 43.
  20. Cfr. ivi, p. 44.
  21. Cfr. ibidem.
  22. Cfr. ivi, p. 45.
  23. Cfr. P. Ricciardi, Lorenzo Scupoli e il presbitero Pantaleone. Due maestri idruntini intramontabili e universali, Galatina 2010, pp. 9-10.
  24. Cfr. ivi, p. 307.
  25. Cfr. F. Bacile, op. cit., p. 44.
  26. Cfr. M. Cazzato, V. Cazzato (a cura di), Lecce e il Salento. Vol. 1: i centri urbani, le architetture e il cantiere barocco, Roma 2015, pp. 320-321.
  27. Cfr. F. Bacile, op. cit, p. 42.
  28. Cfr. ibidem.
  29. Cfr. P. Ricciardi, Otranto devota, Galatina 2015, p. 255.

 

I segni del potere borbonico: lo stemma del Sedile di Oria

0 oria

di Marcello Semeraro

Il Sedile è il palazzo simbolo di Piazza Manfredi. L’attuale edificio, di forma quadrata e stile barocco, risale alla seconda metà del XVIII secolo ed è il risultato del rifacimento di una precedente costruzione adibita a carcere criminale e civile1. Poiché non era più decoroso per l’immagine della città esibire una struttura carceraria nella piazza principale di Oria, si ritenne opportuno cambiarne la destinazione d’uso, trasformandola, con le opportune modifiche, nella sede del Decurionato. “Quindi, non è proprio esatto dire che in questo periodo fu costruito il Sedile, ma piuttosto che ci fu un rifacimento del vecchio edificio preesistente, magari con la costruzione della sola facciata”2. In seguito il palazzo ospitò il Comando della Polizia municipale e attualmente è utilizzato come punto di riferimento turistico e, talvolta, come location per l’allestimento di mostre di pittura. Oltre che per motivi storici e architettonici, il Sedile riveste una certa rilevanza anche dal punto di vista araldico.

1 oria
Fig. 1 . Oria, Sedile, facciata, stemma dell’Universitas
Fig. 3
Fig. 2. Oria, Sedile, atrio, stemma dell’Universitas

Sulla facciata e nell’atrio, infatti, fanno bella mostra di sé tre importanti esemplari, due dei quali raffigurano l’arma dell’Universitas oritana3 (figg. 1  e 2), mentre il terzo mostra uno stemma borbonico (fig. 3) che, vuoi per la sua complessità, vuoi per una prosaica questione di noncuranza, non ha ancora attirato l’interesse degli studiosi locali. La nostra indagine si propone, dunque, di (ri)scrivere una pagina di storia alla luce del fatto che questo stemma, col suo messaggio cromatico-figurativo, costituisce l’espressione visiva dell’appartenenza a una realtà storica ben precisa, caratterizzata dal dominio borbonico in Oria e, più in generale, in Terra d’Otranto e nel Regno di Napoli.

Fig. 3
Fig. 3. Oria, Sedile, atrio, stemma di Ferdinando IV.

 

Lo stemma borbonico

Con la sua gradevolezza estetica, la sua complessa iconografia e il suo enorme impatto visivo, lo stemma in argomento domina e nobilita l’atrio del palazzo, palesandosi come chiaro segno del potere regale. Uno scudo sagomato con contorni tipicamenti settecenteschi, accompagnato da una serie di ornamentazioni esterne (su cui torneremo), racchiude un blasone smaltato e in buono stato di conservazione, attribuibile a Ferdinando di Borbone (*1751 †1825), IV di Napoli e III Sicilia, e databile al periodo precedente l’unificazione politica delle due corone avvenuta nel 18164. Figlio terzogenito di Carlo di Borbone (*1716 †1788) e di Maria Amalia di Sassonia, Ferdinando salì al trono nel 1759, succedendo al padre che col nome di Carlo III andò a regnare in Spagna. Oltre al titolo di Rex utriusque Siciliae, egli ereditò dal padre anche lo stemma (fig. 6), secondo l’ampliamanto che quest’ultimo a sua volta operò sull’arma paterna5 (fig. 7).

Fig. 6
Fig. 6. Stemma di Carlo di Borbone (da AA.VV., Divisas y antiguedades: l’esercito napoletano di Carlo VII, Rivista militare europea, 1988).
Fig. 7
Fig. 7. Stemma di Filippo V (da Collezione Borgia, Napoli, Carte araldiche e genealogiche, II, 24, in L. Borgia, op. cit., p. 58).

Lo stemma di Ferdinando (fig. 5) non ebbe nel corso del tempo una configurazione stabile, ma fu sottoposto a un notevole numero di varianti che, tuttavia, ne lasciarono inalterata la riconoscibilità6.

Fig. 5
Fig. 5. Stemma di Ferdinando IV (da S. Vitale, op. cit., p. 35).
Fig. 4
Fig. 4. Oria, Sedile, atrio, particolare dello stemma di Ferdinando IV

Una di queste varianti è rappresentata proprio dall’esemplare oritano oggetto si questo studio (fig. 4). Tale blasone contiene complessivamente ventuno quarti7 che, a seconda del significato che assumono nello scudo, sottolineano domini, pretensioni, eredità, insegne gentilizie. Si tratta di uno stemma molto complesso, la cui lettura, tuttavia, può essere semplificata se si considera che esso, in realtà, nasce dall’unione di cinque insegne autonomamente preesistenti che si sono venute aggregando insieme in conseguenza di una serie di eventi storici e sulla base di precise motivazioni giuridiche. La conoscenza delle singole armi e delle modalità storico-araldiche con cui esse furono incluse nello stemma borbonico si rivela decisiva ai fini di una correta lettura del manufatto araldico. Va premesso che nella descrizione dei singoli quarti ci siamo attenuti alla loro blasonatura standard, indicandone di volta in volta, nelle apposite note di chiusura, le differenze riscontrate con quelli contenuti nell’esemplare oritano. La maggior parte della sezione centrale dello scudo è occupata dai quarti della linea asburgica spagnola che Filippo V ereditò da Carlo II (*1661 †1700), ultimo sovrano spagnolo della Casa d’Asburgo8 nonché discendente dell’imperatore Carlo V9 (*1500 †1558), suo trisavolo paterno (fig. 8).

Fig. 8
Fig. 8. Madrid, Plaza Mayor, Casa de la Panadería, stemma di Carlo II

Dall’alto in basso troviamo, infatti, le insegne di origine spagnola10, vale a dire i punti Castiglia e León (Castiglia: “di rosso, al castello d’oro, torricellato di tre pezzi, aperto e finestrato d’azzurro”; León:  “d’argento, al leone di rosso (originariamente di porpora), coronato, lampassato11 e armato d’oro”12), di Granada (“d’argento, alla melagranata di rosso, stelata e fogliata di verde”13), d’Aragona (“d’oro, a quattro pali di rosso”14) e d’Aragona-Sicilia (“inquartato in decusse: nel 1° e nel 4° d’oro, a quattro pali di rosso; nel 2° e nel 3° d’argento, all’aquila spiegata15 e coronata di nero”16), nonché quelle di origine asburgico-borgognona17, ovvero i punti di Borgogna antica (“bandato18 d’oro e d’azzurro; alla bordura di rosso”19), di Fiandra (“d’oro, al leone di nero, lampassato e armato di rosso”20), di Brabante (“di nero, al leone d’oro, lampassato e armato di rosso”21), del Tirolo (“d’argento, all’aquila spiegata di rosso, le ali legate a trifoglio d’oro, coronata, rostrata22 e membrata dello stesso”23), d’Austria (“di rosso, alla fascia d’argento”24) e di Borgogna moderna (“d’azzurro, seminato di gigli d’oro; alla bordura compostad’argento e di rosso”25). Al centro, al di sopra dei punti asburgico-borgognoni, compare l’arma propria del reame partenopeo, aggiunta da Carlo III quando nel 1734 salì sul trono di Napoli. E’ formata dal quarto d’Angiò-Napoli (“d’azzurro, seminato di gigli d’oro, al lambello26 di rosso di cinque pendenti”) partito con quello di Gerusalemme (“d’argento, alla croce potenziata27 d’oro, accantonata da quattro crocette dello stesso”), secondo una modalità rappresentativa risalente ai tempi della regina Giovanna I d’Angiò28 (*1326 †1382). Sul fianco destro e nella parte destra del capo dello scudo appaiono, invece, le armi del ducato di Parma e Piacenza, incluse nello scudo di Carlo III in quanto successore del prozio Antonio (*1679 † 1731), ultimo duca della dinastia farnesiana29 (fig. 9).

Fig. 9
Fig. 9. Stemma di Francesco Farnese, duca di Parma e Piacenza (da La Croce oroscopo di vittorie…[dedicata a] Francesco Farnese, Parma 1717).
La sovranità carolina su questo Stato fu però di breve durata (dal 1731 al 1736), perché al termine della guerra di successione polacca, per effetto del Trattato di Vienna (1738), egli dovette cedere il ducato, già occupato nel 1736 dalle truppe imperiali guidate da Giorgio Cristiano, principe di Lobkowitz, all’imperatore Carlo VI d’Asburgo30. Le insegne ducali presenti nello stemma di Ferdinando IV assumono, quindi, la funzione di armi di pretensione: tali sono i quarti di Farnese (“d’oro, a sei gigli d’azzurro, posti 3, 2, 1”31), di Portogallo (“d’argento, a cinque scudetti d’azzurro, disposti in croce, caricati ciascuno di cinque bisanti32 d’argento, posti in croce di Sant’Andrea; con la bordura di rosso, caricata di sette castelli d’oro, torricellati di tre pezzi, aperti e finestrati d’azzurro”33), d’Austria e di Borgogna antica34 (vedi supra). Proseguendo nella lettura delle singole insegne, osserviamo la presenza, nel fianco sinistro dello scudo, dell’arma medicea del granducato di Toscana, entrata nello stemma di Carlo III in quanto discendente di Margherita di Cosimo II de’ Medici (moglie del duca Odoardo Farnese, suo trisavolo materno) ed erede, col titolo di Gran Principe di Toscana, di Gian Gastone (*1671 †1737), ultimo dei Medici35 (fig 10).

Fig. 10
Fig. 10. Verso stemmato di una moneta di Gian Gastone, granduca di Toscana.

Tuttavia, in seguito ai già ricordati mutamenti provocati dalla guerra di successione polacca, Carlo dovette rinunciare alla successione toscana in favore di Francesco Stefano di Lorena36, ma conservò la pretesa su quei territori, rappresentandola araldicamente con la celebre arma medicea “d’oro, a cinque palle37 di rosso, poste in cinta38, accompagnate in capo da un’altra palla più grande d’azzurro, caricata di tre gigli d’oro, 2, 1”39. Tale pretensione rimase inclusa nello stemma di Ferdinando e dei suoi successori. Infine, nella posizione tecnicamente detta sul tutto, appare l’arma gentilizia dei Borbone-Napoli: “d’azzurro, a tre gigli d’oro, 2,1; con la bordura di rosso”. Vale la pena spendere qualche parola in più sull’origine e l’evoluzione di quest’arma40. La linea di Borbone del ceppo capetingio si originò con Roberto (*1256 †1317), conte di Clermont, figlio cadetto del re di Francia Luigi IX (*1215 †1270) e padre di Luigi (*1279 †1341), il quale, per eredità materna, nel 1327 divenne primo duca di Borbone. Dovendo differenziare la propria arma da quella reale di Francia (“d’azzurro, seminato di gigli d’oro”41), i Borbone brisarono lo stemma capetingio con una banda di rosso attraversante sul tutto. A partire dal regno di Carlo V di Valois (1364-1380), i gigli dell’ arma reale di Francia furono ridotti a tre42: lo stesso fecero i Borbone, continuando tuttavia, per esigenza di brisura, a far attraversare il campo e i gigli da una banda di rosso. Quanto, a seguito dell’assassinio di Enrico III di Valois (1584), Enrico IV divenne il primo sovrano borbonico di Francia, la brisura formata dalla banda dovette ovviamente essere rimossa da scudo reale. Naturalmente i cadetti della nuova casa reale di Francia continuarono a differenziarsi araldicamente attraverso il sistema delle brisure. In particolare, i titolari dell’Angiò, seguendo una tradizione risalente al 1290, anno in cui Carlo (*1270 1325), conte di Valois, ottenne la contea angioina, utilizzarono una brisura costituita da una bordura di rosso: tale la portò, come abbiamo visto, Filippo V, duca d’Angiò, re di Spagna e figlio cadetto di Luigi il Gran Delfino, e tale la mantennero i suoi successori.

Torniamo ora ad occuparci dell’esemplare oritano. Dall’analisi dettagliata dei quarti che abbiamo poc’anzi descritto emerge una netta corrispondenza fra il contenuto blasonico dello scudo e la titolatura che assunse il nostro Ferdinando: FERDINANDUS IV. DEI GRATIA REX UTRIUSQUE SICILIAE, HIERUSALEM, HISPANIORUM INFANS, DUX PARMAE, PLACENTIAE, CASTRI, AC MAGNUS PRINCEPS HEREDITARIUS HETRURIAE ETC. ETC. Ciò dimostra quanto sia stretto il nesso fra rappresentazione araldica e status giuridico del titolare. Altre preziose informazioni si ricavano altresì dall’osservazione della disposizione dei quarti propriamente napoletani (Angiò-Napoli e Gerusalemme) i quali, contrariamente a quanto si vede nello stemma riprodotto nella fig. 5, non risultano relegati nella punta dello scudo, bensì posti al di sopra dei punti asburgico-borgognoni. Riteniamo che questa posizione più onorevole non sia un dettaglio secondario, ma assuma il significato un messaggio politico e iconografico ben preciso finalizzato a conferire maggiore visibilità e importanza alle insegne proprie del reame partenopeo.

Volendo sinteticamente blasonare lo stemma del Sedile, esso può essere descritto nella maniera seguente: “Partito di tre43: Il primo gran partito, di Portogallo, al capo44 di Farnese. Il 2° gran partito, troncato di tre45: a) interzato in palo46 d’Austria, di Borgogna antica e troncato di Castiglia e León; b) di Angiò-Napoli; c) tagliato ritondato47 di Borgogna antica e di Fiandra; d) d’Austria. Il terzo gran partito, troncato di tre: nel 1° interzato in palo: a) troncato di León e Castiglia; b) d’Aragona; c) d’Aragona-Sicilia; al di sotto dell’inquartato di Castiglia e León, innestato in punta di Granada; nel 2° di Gerusalemme; nel 3° trinciato ritondato48 di Brabante e del Tirolo; nel 4° di Borgogna moderna. Il quarto gran partito, dei Medici. Sul tutto di Borbone-Napoli”.

Fig. 11
Fig. 11. Oria, Sedile, particolare della croce patente e biforcata

Molto interessante si rivela anche lo studio delle ornamentazioni esterne49. Lo scudo è timbrato50 da una corona chiusa (indice di sovranità), formata da un cerchio gemmato e diademato da quattro archi che si congiungono ad un globo privo della consueta croce. L’accollatura51 visibile dietro lo scudo è formata da un insieme eterogeneo di elementi a richiamo militare (vessilli, cannoni, trombe e tamburi), noto come trofeo d’armi. Infine, al di sotto della punta dello scudo, notiamo una crocetta patente52, biforcata e forata al centro (fig. 11) che probabilmente è ciò che resta del pendente del collare dell’Insigne Real Ordine di San Gennaro. Tale Ordine fu istituito da Carlo III il 3 luglio del 1738, giorno del suo matrimonio con Maria Amalia di Sassonia, dalla cui unione nacque Ferdinando. La decorazione consisteva in una croce biforcata, accantonata da quattro gigli, recante al centro, al di sopra del motto IN SANGUINE FOEDUS, l’effigie di San Gennaro, protettore di Napoli, con la mano destra benedicente e tenente, con la sinistra, il vangelo, le ampolle del suo sangue e il pastorale (fig. 12). La croce pendeva da un collare formato da maglie con gigli, leoni, castelli turriti, lettere C (iniziali del fondatore), simboli della fede e del Santo, alternati fra loro53.

Fig. 12
Fig. 12. Croce dell’Insigne Real Ordine di San Gennaro

Conclusione

Sopravvissuto alla damnatio memoriae del periodo napoleonico e ai mutamenti provocati dalle epoche successive, lo stemma che abbiamo analizzato è uno più importanti e mirabili esempi di araldica borbonica riscontrabili nell’ex provincia di Terra d’Otranto. Attraverso la corretta interpretazione del linguaggio figurato in esso contenuto, è possibile intraprendere un affascinante viaggio storico attraverso il susseguirsi delle dominazioni cui è stato soggetto il Sud Italia e i rapporti fra queste ultime e alcune fra le più importanti casate europee. Oltre a testimoniare il ruolo decisivo che assunse l’araldica nella comunicazione politica per immagini, quest’arma rappresenta, dunque, un prezioso documento visivo di una storia che è allo stesso tempo locale, provinciale, mediterranea ed europea. Ma c’è dell’altro. L’attribuzione e la datazione dello stemma ci consentono di collocare la realizzazione e la sistemazione di quest’ultimo e di quello civico visibile sulla facciata nella seconda metà del XVIII secolo, dopo i lavori di completamento del Sedile cui abbiamo accennato in precedenza. Sarebbe interessante incrociare questi dati, frutto di evidenze araldiche, con quelli derivanti da uno studio specifico sull’esatta cronologia della costruzione dello storico palazzo oritano. Spesso, infatti, la corretta interpretazione di uno stemma riprodotto su un edificio o su altri supporti diventa un’arma segreta in grado di fornire allo storico e allo storico dell’architettura informazioni decisive per la conoscenza del contesto di cui esso è l’espressione visiva.

L’evoluzione dell’araldica dei Borbone di Napoli e Sicilia fu completata nel 1816 con la creazione del celebre stemma del Regno delle Due Sicilie (vedi infra, nota 4), il più complesso fra tutte le insegne araldiche degli Stati italiani preunitari (fig. 13).

 

Fig. 13
Fig. 13. Decreto di approvazione dello stemma reale delle Due Sicilie (Archivio di Stato di Napoli, Decreti originali, 114, 4049).

 

1. Il vecchio carcere fu costruito sul suolo dove prima sorgeva la chiesa di San Pietro Rotondo. Per una parziale ma accurata disamina della storia e dell’evoluzione dell’edificio, si rimanda all’ottimo saggio sulla toponomastica oritana di P. Spina, Oria, strade vecchie, nomi nuovi, strade nuove, nomi vecchi, Oria 2003,  pp. 176-178.

2. Cfr. ivi, p. 178.

3. Si tratta di due testimonianze significative e imprescindibili per la conoscenza del significato e dell’evoluzione dello stemma civico oritano, sul quale ci riserviamo di ritornare in futuro con un’apposita ricerca.

4. Ricordiamo che l’8 dicembre 1816 Ferdinando di Borbone  emanò un decreto con il quale divenne I delle Due Sicilie, diventanto così lo stipite del ramo Borbone-Due Sicilie. Una norma del 22 dicembre, inoltre, decretò l’unificazione politica dei due reami di Napoli e Sicilia, distinti sin dal 1282, anche se spesso riuniti nella persona di un comune sovrano. Con un decreto del 21 dicembre dello stesso anno Ferdinando I definì lo stemma, la corona e le insegne cavalleresche esterne allo scudo: era nato lo stemma del Regno delle Due Sicilie. Per un’esaustiva trattazione sull’origine e l’evoluzione dell’arma duosiciliana, si rimanda a L. Borgia, Lo stemma del Regno delle Due Sicilie, Firenze 2000,  e a S. Vitale, Lo stemma del Regno delle Due Sicilie. Origini e storia, Morcone 2005.

5. Carlo era figlio primogenito di Filippo V (*1683  †1746), primo sovrano borbonico di Spagna, e della sua seconda moglie Elisabetta Farnese (*1692 †1766).

6. Alcune di queste varianti e modificazioni sono documentate dal Borgia (op. cit., pp. 75-77).

7. Il quarto (detto anche punto dell’arma) indica ciascuna delle singole armi che, nella loro interezza, compongono stemmi più complessi, purché  ognuno di essi rappresenti un’arma separata.

8. Va ricordato che una volta estintisi gli Asburgo di Spagna con la morte di Carlo II, le armi di quest’ultimo rimasero ad indicare la corona spagnola e, come tali, furono ereditate da Filippo V,  che provvide a modificare la collocazione sia di alcuni quarti di origine asburgico-borgognona, sia del punto di Granada. Inoltre, essendo un Borbone, pose in uno scudetto sul tutto il proprio stemma gentilizio. Da Filippo V, tramite Carlo III, tutte le armi iberiche furono ereditate da Ferdinando e dai suoi successori. Cfr. L. Borgia, op. cit., p. 17.

9. Carlo V riunì nel suo scudo le insegne propriamente spagnole, ereditate dalla madre Giovanna d’Aragona (*1479 †1555), figlia dei sovrani Cattolici Ferdinando II (*1452 †1516) e Isabella di Castiglia (*1451 †1504), e quelle asburgico-borgognone, che gli giunsero tramite il padre Filippo il Bello (*1478 †1506), figlio dell’imperatore Massimiliano I e di Maria di Borgogna, ultima dei Valois borgognoni. Il suo successore, Filippo II di Spagna (*1527 †1598), provvide a ridurre lo stemma ereditato dal padre, con l’aggiunta nel punto d’onore di uno scudetto recante l’arma del reame portoghese, ereditato dalla madre Isabella d’Aviz. Tale stemma passò, poi,  ai suoi successori fino a Carlo II, il quale, dopo il Trattato di Lisbona (1668), rimosse dal proprio scudo l’insegna reale portoghese. Cfr. S. Vitale, op. cit., pp. 24-26.

10. Questa rappresentazione delle armi spagnole risale a Ferdinando II d’Aragona e Isabella di Castiglia, le cui nozze, contratte nel 1469, furono alla base dell’unificazione dei vecchi Stati spagnoli. Lo stemma dei sovrani Cattolici, infatti, era formato da uno scudo inquartato, recante nel primo e nel quarto gran quarto un controinquartato di Castiglia e León, nel secondo e nel terzo un partito d’Aragona e d’Aragona-Sicilia, mentre l’insegna di Granada era incuneata nella punta dello scudo (innestato in punta).

11. Dicesi lampassatoil quadrupede  con la lingua di smalto diverso.

12. Le armi parlanti di Castiglia e di León comparvero per la prima volta  verso gli inizi del XII secolo, periodo in cui i due regni erano separati. Ferdinando III (*1200 †1252), re di Castiglia e di León, fu il primo a inquartare il proprio scudo con gli stemmi dei due reami. Cfr. L. Borgia, op. cit., p. 12. Va segnalato che nell’esemplare oritano, probabilmente per ragioni di spazio,  i castelli di Castiglia sono rappresentati come torri merlate.

13. Tale arma fu introdotta dai sovrani Cattolici Ferdinando II d’Aragona e Isabella di Castiglia nel 1492, anno della presa di Granada e della fine della dominazione islamica in Spagna. Cfr. ivi, p. 13.

14. Probabilmente di origine provenzale, tali insegne giunsero in Aragona in seguito alle nozze celebrate nel 1151 fra Raimondo Berengario IV, conte di Barcellona, e la sovrana aragonese Petronilla. Nei sigilli del predetto conte e in quelli di suo figlio Alfonso II (1162-1196) si trovano i più antichi esemplari recanti i pali aragonesi. Cfr. ivi, p. 12.

15. Uccello con le ali distese e volte verso l’alto.

16. Tale disposizione risale a Federico II (*1271 †1337), re di Sicilia, figlio di Pietro III d’Aragona e di Costanza di Svevia. Il suddetto sovrano, infatti, utilizzò uno scudo inquartato con le insegne paterne e materne, creando così un’arma che per secoli indicherà la terra siciliana. Cfr. L. Borgia, op. cit., pp. 12-13. Si noti come nello stemma oritano l’aquila sia raffigurata col volo abbassato.

17. L’aggregazione delle insegne asburgico-borgognone risale a Filippo il Bello, figlio di Massimiliano I e di Maria di Borgona. Egli, infatti,  utilizzò uno scudo inquartato recante i punti d’Austria, di Borgogna moderna, di Borgogna antica e di Brabante, ponendo sul tutto uno scudetto di Fiandra, spesso partito con l’arma del Tirolo. Cfr. ivi, p. 16.

18.  Scudo coperto interamente da bande alternate di metallo e colore, ordinariamente in numero di sei.

19. Il punto di Borgogna antica risale agli inizi del XIII secolo. Indica la prima linea borgognona del ceppo capetingio, originata da Roberto I (*1011 †1076), duca di Borgogna, figlio di Roberto II il Pio. Cfr. L. Borgia, op. cit., p. 15. Si noti come nell’esemplare oritano, per un errore da parte dell’esecutore,  il punto di Borgogna antica sia rappresentato con quattro bande azzurre su campo d’oro, anziché come un bandato di sei pezzi alternati d’oro e d’azzurro.

20. I punti di Fiandra e Brabante entrarono negli stemmi dei duchi di Borgogna in seguito al matrimonio fra Filippo II l’Ardito (*1342 †1404), stipite della seconda linea borgongona del ceppo capetingio, e Margherita (*1350 †1405), contessa di Fiandra, duchessa di Brabante e del Limburgo. Cfr. ibidem.

21. Vedi nota 20.

22. L’aquila col becco di smalto diverso.

23. La contea del Tirolo giunse agli Asburgo per via ereditaria tramite Rodolfo IV d’Austria (*1339 †1365), nipote abiatico di Alberto I, duca d’Austria e re dei Romani, e di Elisabetta del Tirolo (†1312). Cfr. L. Borgia, op. cit., p. 16. Si noti come nell’esemplare oritano l’aquila sia rappresentata col volo abbassato.

24. Una delle più note armi del blasone europeo, alludente,  secondo una leggenda, alla tunica del duca Leopoldo di Babenberg intrisa del sangue degli “infedeli” nel corso della battaglia di Tolemaide (1191) e rimasta bianca intorno alla vita perché protetta da un cinturone. A seguito dell’estinzione della casa margraviale di Babenberg, divenuta poi ducale,  e con la cessione del ducato d’Austria ad Alberto I d’Asburgo (*1248 †1308), si posero le basi per l’ascesa della casata, la quale abbandonò l’arma primitiva (“d’oro, al leone di rosso, coronato, lampassato e armato d’azzurro”) sostituendola con la celebre fascia d’argento in campo rosso dei Babenberg. Cfr. ivi, p. 14.

25. Punto relativo alla seconda linea borgognona del ceppo capetingio, il cui stipite fu Filippo II l’Ardito, figlio terzogenito di Giovanni II di Valois, re di Francia. L’arma di questo cadetto dei Valois era quella paterna (“d’azzurro, seminato di gigli d’oro”, antica insegna dei capetingi) brisata, cioè differenziata, da una bordura composta d’argento e di rosso. Dopo aver ottenuto il ducato di Borgogna, Filippo II inquartò la sua arma con quella di Borgogna antica. Cfr. L. Borgia, ivi, p. 15. Per gli ampliamenti successivi,  vedi supra, note 20, 17 e 9.

26. Pezza costituita da un listello orizzontale scorciato (cioè che non tocca i lati dello scudo) e munito inferiormente di sporgenze chiamate pendenti. Spesso è indice di brisura, cioè di un’alterazione dell’arma originaria al fine di distinguere i vari rami della famiglia, come si vede nel noto stemma di Carlo I d’Angiò (*1226 †1285), figlio ultrogenito  del re di Francia Luigi VIII (*1187 †1226).

27. A forma di T.

28. In realtà l’associazione del punto angioino con quello gerosolimitano risale a Carlo I d’Angiò. Pur non avendo mai cinto effettivamente la corona di Gerusalemme, nel 1278 Carlo inaugurò uno scudo partito, ponendo a destra (sinistra per chi guarda) l’insegna di Gerusalemme e a sinistra (destra per chi guarda) quella gentilizia, creando un’arma che per secoli indicherà il Regno di Napoli e la pretensione, ad esso collegata, al trono di Gerusalemme. A partire dal regno di Giovanna I, invece, si assiste ad un inversione dei due punti summenzionati. Cfr. L. Borgia, op. cit., pp. 19-21.

29.  Cfr. ivi, p. 31.

30. Cfr. ivi, pp. 39-40.

31. In origine l’arma Farnese era formata da un numero variabile di gigli d’azzurro in campo d’oro (da un minimo di uno fino ad arrivare alla disposizione in seminato). Più tardi essi diventeranno stabilmente sei, disposti  3, 2 e 1. Cfr. ivi, p. 32.

32. Tondino di metallo.

33. I cinque scudetti con i bisanti vengono chiamati quinas. L’origine dell’arma portoghese risale al XII secolo, durante i regni di Alfonso I (1139-1185) e di Sancio I (1185-1211). Inizialmente priva della bordura con i castelli, quest’ultima venne aggiunta da Alfonso III (1248-1279) con riferimento alle armi di Castiglia, la dinastia a cui appartenevano la  madre e la moglie Beatrice, figlia del re Alfonso X di Castiglia. Fu proprio a partire dal regno di Alfonso III che lo stemma reale portoghese cominciò a fissarsi progressivamente nella forma che poi diventerà classica. Cfr. S. Signoracci, L’arma reale del Portogallo nel corso dei secoli, in Nobiltà, rivista di araldica, genealogia, ordini cavallereschi, anno I, n. 4, Milano luglio-settembre 1994, pp. 395-399. L’arma portoghese entrò nello scudo dei duchi di Parma a seguito del matrimonio fra Alessandro (*1543 †1592) e Maria del Portogallo (*1538 †1577). Ranuccio, nato dal predetto matrimonio, inserì nello stemma ducale il quarto portoghese per manifestare la sua pretensione a quel trono.  Cfr. L. Borgia, op. cit., p. 34. Nello stemma oritano, per motivi di spazio (vedi anche supra, nota 12), la bordura è caricata non da castelli, bensì da torri, il cui numero, però, risulta superiore a sette. Inoltre, i bisanti che caricano gli scudetti sono disposti 3, 2 anziché in croce di Sant’Andrea.

34. L’inserimento dei quarti d’Austria e di Borgogna antica nello stemma ducale risale al matrimonio fra Ottavio Farnese (*1525 †1586) e Margherita d’Austria (*1522 †1586), figlia naturale dell’imperatore Carlo V. Cfr. ivi, p. 33. Si noti come nello stemma in esame il punto di Borgogna antica sia privo della bordura di rosso: ciò succedeva quando esso era associato al punto d’Austria.

35. Cfr. ivi, p. 29.

36. Cfr. ivi, p. 39.

37. Figura tonda ombreggiata per mostrarne il rilievo.

38. Più figure poste in giro nello scudo, ad eguale distanza dal bordo, nel senso della cinta.

39. In origine l’arma medicea ebbe un numero variabile di palle, compreso fra un minimo di tre ed un massimo di undici. Nel 1465 Luigi XI di Francia concesse al “carissimo amico” Piero di Cosimo de’ Medici il cosiddetto ampliamento di Francia, cioè uno scudetto con tre gigli d’oro su campo d’azzurro, che venne poi trasformato in una palla,  figura abituale nell’araldica toscana che conferiva allo stemma mediceo una maggiore euritmia. Nel periodo a cavallo fra i secoli XV e XVI lo stemma mediceo assumerà la conformazione definitiva “d’oro, a cinque palle di rosso, poste in cinta, accompagnate in capo da un’altra palla più grande d’azzurro, caricata  di tre gigli d’oro, 2, 1”. Cfr. L. Borgia, op. cit., pp. 36-39.

40.  Cfr. ivi, p. 46.

41. La più antica testimonianza araldica di uno scudo capetingio cosparso di gigli è del 1211. Si tratta di un sigillo del principe Luigi (*1187 †1226), figlio del re di Francia Filippo Augusto. Cfr. M. Pastoureau, Medioevo simbolico, Bari 2014,  p. 92.

42. Il passaggio, avvenuto tra il 1372 e il 1378, dall’antico seminato, che alludeva alla protezione mariana accordata al re e al regno, ai tre gigli intendeva sottolineare “la particolare affezione della benedetta Trinità per il regno di Francia”. Cfr. ivi,  pp. 94-95.

43. Scudo diviso in quattro parti da tre  linee verticali e parallele.

44. Pezza onorevole occupante la parte più alta del campo, larga 1/3 dello scudo. Per un errore da parte dell’esecutore, l’arma farnesiana è contenuta in un capo, mentre avrebbe dovuto essere raffigurata nel primo quarto di un troncato.

45. Scudo diviso in quattro parti da tre linee orizzontali  e parallele.

46. Scudo diviso in tre parti da due verticali e parallele.

47. Scudo diviso in due da una linea obliqua e ricurva che parte dall’angolo di sinistra in alto a quello di destra in basso.

48. Scudo diviso in due da una linea obliqua e ricurva che parte dall’angolo di destra in alto a quello di sinistra in basso.

49. Tutti quei componenti che, posti  esternamente allo scudo, contribuiscono alla formazione dello stemma.

50. Il timbro è l’ornamento esterno posto sopra lo scudo, indicante la qualità del possessore dell’arma.

51. Tutto ciò che è posto dietro lo scudo (aquile, croci, trofei d’arme, pastorali, chiavi, spade ecc.)

52.  Croce con le braccia che vanno allargandosi verso le estremità.

53. Cfr. L. Borgia, op. cit., pp. 65-66.

Lo stemma francescano

Foto di presentazione

di Marcello Semeraro

 

Uno dei motivi iconografici più ricorrenti riscontrabili negli edifici francescani è indubbiamente lo stemma araldico dell’Ordine. Le seguenti note si propongono di approfondire la questione relativa all’origine e al significato di questo antico emblema che vanta una significativa presenza anche nell’iconografia francescana della ex provincia di Terra d’Otranto.

Stemma francescano: la genesi e lo sviluppo di un emblema antico

Gli emblemi araldici cominciarono ad essere utilizzati dalla Chiesa almeno un secolo dopo la comparsa delle prime armi, avvenuta in ambito militare e cavalleresco nella prima metà del XII secolo. Il sistema araldico primitivo, infatti, fu totalmente estraneo all’influenza di Roma – lo dimostra anche l’iniziale uso del volgare nella descrizione delle armi – e gli ecclesiastici furono in un primo momento refrattari all’utilizzo di emblemi profani legati a guerre e tornei. Solo col prevare di un più generico significato di distinzione sociale l’uso degli stemmi troverà giustificazione negli ambienti ecclesiastici, soprattutto per via della sua utilità in ambito sfragistico: tale processo si svolse nel XIII secolo, durante il periodo di diffusione sociale delle armi1. Le comunità ecclesiastiche, invece, cominciarono ad utilizzare stemmi solo a partire dal XIV secolo: ordini religiosi, abbazie, priorati, conventi e case religiose faranno via via un uso sempre maggiore di emblemi araldici, con le dovute differenze, a seconda del particolare ordine e delle regioni di pertinenza. Anche i Francescani ebbero un proprio stemma, comune a tutte le varie anime dell’Ordine2: “d’azzurro (o d’argento), al destrocherio3 nudo di carnagione, posto in banda4, attraversante un sinistrocherio5 vestito alla francescana, posto in sbarra6, entrambi appalmati, stigmatizzati e attraversanti una croce latina al naturale”.

1Fig. 1. Colonia, Wallraf-Richartz Museum, Santi francescani, tavola del Meister der Verherrlichung Mariä
Fig. 1. Colonia, Wallraf-Richartz Museum, Santi francescani, tavola del Meister der Verherrlichung Mariä

Secondo Servus Gieben7, in origine l’arma era rappresentata in maniera diversa, ovvero con le sole mani di Cristo e di San Francesco fissate insieme da un unico chiodo, su campo azzurro. Questa forma primitiva è riconducibile all’iconografia araldica di San Bonaventura di Bagnoregio (*1217 †1274, ministro generale dal 1257 al 1274, canonizzato nel 1482) ed è testimoniata da alcuni dipinti e incisioni risalenti alla fine del Quattrocento (figg. 1 e 2).

Fig. 2
Fig. 2. Roma, Museo Francescano, tavola di anonimo fiammingo

Testi antichi, rintracciati dallo studioso olandese, fanno risalire l’origine e il significato di questo emblema a un episodio particolare della vita di San Bonaventura, quello della sua elevazione alla porpora cardinalizia (1273)8. In tale circostanza il Dottore Serafico avrebbe creato lo stemma con le due mani inchiodate insieme per simboleggiare l’indissolubile patto concluso con il Salvatore. Non sappiamo se il Nostro, durante il suo cardinalato, si sia effettivamente dotato di un blasone o se, invece, si tratti di una creazione postuma, dal momento che non disponiamo di esemplari coevi in grado di comprovarne l’effettivo utilizzo9. Né si può considerare come fonte attendibile l’edizione del 1677 delle Vite dei papi e dei cardinali del Ciacconio (nella quale sono riprodottI due stemmi di San Bonaventura, uno “ante Cardinalatum”, l’altro “in Cardinalatu”10), perché l’autore spagnolo era solito attribuire armi immaginarie ad ecclesiastici vissuti in epoche pre o protoaraldiche11.

Comunque sia, durante il generalato di Francesco Sansone (1475-1499), e più precisamente nei suoi interventi per la basilica di San Francesco ad Assisi, lo stemma cominciò ad essere modificato: al posto delle due mani inchiodate comparvero due braccia (quella di Cristo e di San Francesco) incrociate e stigmatizzate12 (fig. 3).

Fig. 3
Fig. 3. Assisi, portale d’ingresso della Basilica inferiore, stemma francescano (scultura anonima, 1487).

In questa nuova versione, che servirà da base per gli sviluppi successivi, venne sacrificato il significato simbolico originario per privilegiare quello della singolare conformità di Francesco con Cristo.

Nel XVI secolo l’emblema cominciò a svilupparsi progressivamente nella forma che diventerà classica, sotto l’impulso dell’edizione del 1513 del famoso trattato De conformitate vitae Beati Francisci ad vitam Domini Jesu Christi di Bartolomeo da Pisa, nella quale è visibile una xilografia dove per la prima volta compare la croce (fig. 4)13.

Fig. 4
Fig. 4. Stemma francescano, xilografia anonima, Milano, 1513.

Nelle Constitutiones Urbanae, approvate da papa Urbano VIII (1623-1644)nel 1628, l’insegna è ormai descritta ufficialmente come “stemma Religionis”(fig. 5)14.

Fig. 5
Fig. 5. Frontespizio delle Constitutiones Urbanae, Roma, 1628

Nel corso dei secoli detta arma ha conosciuto un significativo numero di varianti e di rappresentazioni più complesse, condizionate dal gusto del tempo o dall’arbitrio dell’esecuore, oppure motivate dall’introduzione di simboli che volevano riassumere le varie anime del francescanesimo15.

Si possono, tuttavia, distinguere due grandi tipologie entro le quali poter racchiudere la forma grafica dello stemma francescano: la versione semplice (comune a tutte le famiglie) e quella complessa, che si ha quando lo stemma semplice viene inserito in uno campo suddiviso in due o più parti mediante partizioni araldiche.

La forma più diffusa, soprattutto nel periodo fra il XVII e il XIX secolo, è indubbiamente quella semplice con le due braccia incrociate e stigmatizzate, poste davanti ad una croce latina, su campo azzurro. Solitamente sono raffigurati il destrocherio di Cristo e il sinistrocherio di San Francesco.

Tuttavia, sono numerosi i casi in cui si verifica un’inversione nella disposizione degli arti. La forma complessa, invece, è costituita da un campo che può presentarsi partito16, troncato17, interzato18 o inquartato19. Fra gli esempi più noti di stemma troncato, citiamo quello del Terzo Ordine Regolare di San Francesco, che al tradizionale emblema aggiunge una corona di spine, i tre chiodi della Passione e la sigla O.P.C. (fig. 6), e quello della Custodia di Terra Santa (fig. 7), recante nel primo quarto l’insegna francescana semplice e nel secondo una croce potenziata (cioè a forma di T) di rosso, accantonata da quattro crocette dello stesso smalto su un campo d’argento (quest’ultima è anche l’arma dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme).

Fig. 6
Fig. 6. Stemma del Terzo Ordine Regolare di S. Francesco (T.O.R.).
Fig. 7
Fig. 7. Stemma della Custodia di Terra Santa

Un esempio di scudo inquartato è quello utilizzato dal ministro generale dei Minori detti dell’Unione Leonina, così chiamati dal nome del pontefice (Leone XIII) che nel 1897 riunì in un unico Ordine le famiglie francescane degli Osservanti, Riformati, Alcantarini o Scalzi e Recolletti.

Nel primo quarto troviamo l’emblema francescano semplice, nel secondo un serafino in campo rosso, nel terzo cinque piaghe di Cristo sanguinanti al naturale in un campo d’oro, nell’ultimo una croce potenziata d’oro, accantonata da quattro crocette dello stesso smalto su un campo d’argento (quest’ultima è anche l’insegna dell’antico Regno di Gerusalemme).

L’uso dell’emblema francescano come stemma proprio dell’Ordine – in tutte le sue varianti – non esaurisce certo le sue possibilità di rappresentazione sulla superficie dello scudo. Anche gli ecclesiastici infatti, se provenienti da questa famiglia religiosa, potevano (e possono tuttora) inserirlo all’interno del proprio scudo. In questo caso lo stemma francescano semplice prende il nome di quarto di religione20 e può essere posto su uno scudetto, sul quarto più importante di un partito o di un inquartato, oppure nel capo dello scudo.

Quest’ultima soluzione è quella che ha avuto maggiore fortuna, tanto da essere “consacrata” nello stemma di Clemente XIV (1769-1774), uno dei pochissimi casi di arma papale recante un quarto di religione (fig. 8).

Fig. 8
Fig. 8. Verso di uno zecchino del 1769 con stemma di Clemente XIV

Nel corso dei secoli lo stemma, sia nella versione semplice che in quella complessa, è stato ampliato da un notevole numero di ornamentazioni esterne, alcune delle quali dotate di un forte significato simbolico. Fra le principali vanno annoverate la corda francescana, i vari tipi di corona, il rosario, gli strumenti della passione di Cristo, i tenenti (cioè le figure umane che sostengono lo scudo), i motti e i rami decussati (di palma, di ulivo o di alloro)21.

 

Note

  1. Cfr. B. B. Heim, L’araldica nella Chiesa Cattolica. Origini, usi, legislazione, Città del Vaticano 2000, pp. 23-24.

2. Cfr. J. Woodward, A treatise on ecclesiastical heraldry, Edimburgo e Londra 1894, pp. 418-419; A. Cordero Lanza di Montezemolo, A. Pompili, Manuale di araldica ecclesiastica nella Chiesa Cattolica, Città del Vaticano 2014,  p.49.

3. Braccio umano destro intero, normalmente uscente dal fianco sinistro dello scudo. E’ utile ricordare che in araldica la destra dello scudo è la sinistra di chi guarda e viceversa, poiché lo scudo va considerato dal punto di vista del portatore.

4. Cioè posto nella direzione della banda, pezza onorevole che scende diagonalmente dall’angolo destro a quello sinistro

5. Braccio umano sinistro intero, normalmente uscente dal fianco destro dello scudo.

6. Cioè posto nella direzione della sbarra, pezza onorevole che scende diagonalmente dall’angolo sinistro a quello destro.

7. Cfr. S. Gieben, Lo stemma francescano. Origine e sviluppo, Roma 2009. Si tratta di un ottimo studio corredato da tavole, imprescindibile per conoscere l’origine e la cronologia dell’arma in questione.

8. Si tratta del Den Wijngaert van Sinte Franciscus, scritto da un anonimo fiammingo ed edito ad Anversa nel 1518, del Pomerium sermonum de sanctis di Pelbarto de Temesvàr, pubblicato in varie edizioni a partire dal 1499, e dell’Historia Seraphica vitae Beatissimi P. Francisci Assisiatis di Enrico Sedulius nell’edizione del 1613. Nel Den Wijngaert van Sinte Franciscus, in particolare, si legge: “San Bonaventura dunque, fatto cardinale, avendo rinunciato al mondo con le sue vanità, non voleva di nuovo riprendere ciò che aveva calcato sotto i piedi. E benché fosse nato da persone e parenti nobili, non voleva imitare la nobiltà secolare. E per rimanere più estraneo al mondo e perché a nessuno potesse far piacere di vedere il suo stemma gentilizio tra quelli dei cardinali, ordinò uno stemma speciale, corrispondente al suo stato. Si fece dipingere uno scudo azzurro con la mano di Nostro Signore e con la mano di San Francesco in fede chiodata l’una sull’altra. È questo è lo stemma dei Frati Minori, che si trova in un campo azzurro perché tutti i loro pensieri, opere ed esercizi li devono dirigere verso il cielo. Dovendo pensare alla fedeltà che nella loro professione hanno promesso a Dio e a tutti i suoi santi, queste mani sono chiodate insieme, perché da questo legame mai devono essere sciolti e liberi etc. Il papa gli confermò questo stemma beato ed egli lo fece imprimere nel suo sigillo e dovunque era necessario”. Cfr. ivi, pp. 9-14. Lo stemma descritto corrisponde esattamente a quelli visibili  nelle  figure 1 e 2.

9. Va, inoltre, ricordato nella seconda metà del Duecento l’araldica cardinalizia era ancora in una fase primitiva.  Cfr. A. Cordero Lanza di Montezemolo, A. Pompili, op. cit., pp. 18-19. Fra gli stemmi cardinalizi più antichi citiamo quello di Guglielmo de Braye (†1282), raffigurato sul cenotafio presente nella chiesa di San Domenico di Orvieto,  e quello di Riccardo Annibaldeschi della Molara (†1276), visibile sul suo sepolcro, del quale restano frammenti nel chiostro dell’Arcibasilica Lateranense.

10. Erudito spagnolo morto a Roma tra il 1599 e il 1602. Cfr. A. Chacòn, Vitae et Res gestae Pontificum Romanorum et S.R.E. Cardinalium ab initio nascentis Ecclesiae usque Clementem IX P.Q.M., ed. Roma 1677, tomo II, p. 194.

11. A tal proposito, Heim ha osservato che ai tempi del Ciacconio “era usanza diffusa quella di attribuire stemmi ad eroi e Santi del passato. Si inventarono stemmi di molti personaggi famosi, persino di Nostro Signore”. Cfr.  B.B. Heim, op. cit., p. 100.

12. Cfr. S. Gieben , op. cit, 16-17.

13. Ivi, p. 17.

14. Cfr. Constitutiones Urbanae fratrum Ord. Min. Conv. S. Francisci, Roma 1628, pp. 13-14. Sul frontespizio sono riprodotti  lo stemma di Papa Barberini e quello francescano semplice.

15. Le varianti dello stemma francescano semplice riguardano la disposizione della croce (tra o davanti alle braccia anziché dietro di esse), l’inversione degli arti incrociati (il destrocherio di Francesco e il sinistrocherio di Cristo), la posizione delle mani che possono mostrare il dorso anziché la palma, la foggia della croce, la presenza all’interno dello scudo di varie figure quali monti, nubi da cui escono le braccia, colombe, cuori, corde, piaghe di Cristo, ecc. Cfr. S. Gieben, op. cit., tavv.

16. Scudo diviso da una linea verticale in due parti uguali.

  1. Scudo diviso da una linea orizzontale in due parti uguali.

18. Scudo diviso in tre parti uguali mediante due linee che possono essere parallele o seguire altri andamenti.

19. Scudo diviso in quattro parti uguali da due linee che si incrociano nel cuore.

20. Si dicono quarti di religione le singole armi degli  Ordini religiosi rappresentate nello scudo.

21. Cfr. S. Gieben, op. cit., pp. 26-34.

 

Note storiche, araldiche e genealogiche su Mons. Alfonso Sozi Carafa

Fig. 1

di Marcello Semeraro

 

Gli stemmi rappresentano una sorta di stato civile dell’opera d’arte. Se adeguatamente letti e interpretati, infatti, essi forniscono preziose informazioni sia sulla datazione dell’opera, sia sull’identità, lo status giuridico, le intenzioni e l’ideologia della committenza artistica. Questa premessa è utile per introdurre l’argomento oggetto di questo breve studio: lo stemma episcopale utilizzato da Mons. Alfonso Sozi Carafa, vescovo di Lecce dal 1751 al 1783. La presente indagine, in particolare, prende in esame gli esemplari a lui attribuibili, visibili negli edifici monumentali raccolti attorno a Piazza Duomo.

 

Il personaggio e la sua famiglia

La famiglia Sozi, originaria di Perugia, si vuole discenda dai Paolucci, il cui capostipite sarebbe stato Paoluccio d’Agato o d’Agatone, nobile perugino citato in documenti del 7601. La discendenza dai Paolucci trova comunque riscontro nel blasone, comune alle due famiglie, raffigurante un orso levato (cioè rampante) al naturale in campo d’oro, come si evince dallo stemma Sozi/Paolucci riportato nel Blasone Perugino di Vincenzo Tranquilli, un manoscritto araldico risalente al XVI secolo2.

Nel 1389, ai tempi della rivoluzione popolare a Perugia, molti patrizi furono cacciati dalla città e messi al bando. Tra questi troviamo un Giovan Francesco Sozi che nel 1414 si trasferì nel Regno di Napoli al seguito del capitano di ventura Muzio Attendolo detto Sforza, capostipite della celebre famiglia ducale3. Risale, invece, al 1575 l’acquisto di quello che sarà il feudo di famiglia, San Nicola Manfredi (Benevento), fatto da Maddalena Gentile, vedova di Marcangelo Sozi, che due anni dopo lo cedette al figlio Leonardo Aniello4.

In seguito poi al matrimonio (1656) fra Alessandro Sozi, nato da Ascanio di Leonardo Aniello e da Vittoria Giordano, e Artemisia Carafa della Stadera, figlia di Marcantonio e di Elena Daniele, la famiglia aggiunse al proprio cognome quello dei Carafa5.

Nipote abiatico di Alessandro e Artemisia fu proprio il nostro Alfonso. Egli nacque a San Nicola Manfredi il 7 marzo 1704, quartogenito di Nicola Sozi Carafa, barone del predetto feudo e patrizio di Benevento, e di Anna Maria Merenda, figlia di Giovan Battista, patrizio di Aversa e Cosenza, e di Francesca di Donato6. Dopo essere stato ordinato sacerdote nel 1727, fu creato vescovo di Vico Equense nel 1743, donde nel 1751 fu traslato alla sede diocesana di Lecce. Fu inoltre Lettore di filosofia, teologia e matematica al Collegio Clementino di Roma, diretto dai Padri Somaschi, che per più anni governò come Rettore. Morì il 19 febbraio 1783 e fu sepolto nel Duomo7.

“Uomo rigido e spendido”, “per le magnificenze de’ suoi atti e delle trasformazioni che apportò negli edifici, si poté dire l’Alessandro VII dei suoi tempi e della sua diocesi8.

Fig. 2

 

Lo stemma episcopale

Nei secoli passati lo stemma utilizzato da cardinali, vescovi ed altri prelati riproduceva per lo più la loro arma gentilizia. Ciò dipendeva dal fatto che, per lo più fino alla fine del XVIII secolo, venivano elevati ai vari gradi della gerarchia ecclesiastica soprattutto chierici provenienti da famiglie nobili le quali erano già dotate di uno stemma. Questo uso consolidato è riscontrabile anche nello stemma di Mons. Sozi Carafa, che mutuò il proprio scudo da quello gentilizio, personalizzandolo mediante l’utilizzo di un timbro corrispondente alla sua dignità episcopale, ovvero un cappello prelatizio di verde munito di sei nappe per lato, ordinate in file 1.2.3.

Rammentiamo che a partire dal XV secolo, negli stemmi vescovili ed arcivescovili, il cappello prelatizio cominciò a sostituire progressivamente la mitriache era il timbro caratteristico di coloro che, insigniti dell’ordine espiscopale, non facevano parte del Collegio Cardinalizio9.

Fig. 3

Lo stemma gentilizio dei Sozi Carafa è costituito da uno scudo inquartato, recante nel primo e nel quarto punto il blasone dei Sozi (d’oro, all’orso levato al naturale), mentre nel secondo e nel terzo compare quello dei Carafa (di rosso, a tre fasce d’argento10). Si tratta di una tipica arma di alleanza matrimoniale, dove l’inquartatura corrisponde araldicamente al doppio cognome assunto dalla famiglia in seguito al già ricordato matrimonio fra gli avi paterni del prelato. Il blasone summenzionato è riportato anche dallo Spreti nella sua monumentale opera intitolata Enciclopedia storico-nobiliare italiana (fig. 1).

Fig. 4

Con l’utilizzo della necessaria terminologia tecnico-blasonica, lo stemma episcopale oggetto di questo studio può essere descritto nella maniera seguente: inquartato: nel 1° e nel 4° d’oro, all’orso levato al naturale (Sozi); nel 2° e nel 3° di rosso, a tre fasce d’argento (Carafa). Lo scudo timbrato da un cappello prelatizio a sei nappe per lato, il tutto di verde.

Le testimonianze araldiche di Mons. Sozi Carafa presenti in Piazza Duomo costituiscono una chiara ed efficace rappresentazione visiva di alcuni momenti del suo episcopato e della sua committenza artistica. Segnaliamo in questa sede quelli che ci sembrano gli esemplari più rappresentativi.

All’ingresso di Piazza Duomo, al di sotto delle balaustre dei propilei, fanno bella mostra di sé due scudi sagomati e accartocciati, recanti l’arma del prelato. I due propilei furono costruiti nel 1761 a spese del presule che decise di affidarne la realizzazione all’architetto Emanuele Manieri11. Al termine dei lavori il vescovo fece scolpire le sue insegne, vera e propria firma della sua committenza. Un altro esemplare è visibile sulla facciata del Palazzo Episcopale, racchiuso in uno scudo sagomato e accartocciato di fattezze tipicamente settecentesche (fig. 2).

Nel 1761 Mons. Sozi Carafa fece costruire la fabbrica sull’Episcopio per sistemarvi il nuovo orologio, opera del leccese Domenico Panico12. Secondo il De Simone, il prelato fece abbattere la vecchia gradinata esterna del Vescovado e sulla nuova fece trasportare il nuovo orologio in sostituzione di quello vecchio che era sul portone13. Si può ipotizzare che sia stata questa la circostanza che determinò la collocazione dello stemma, ma non è da escludersi che le ragioni vadano cercate altrove.

Le armi finora analizzate risultano essere acrome, ma se ne possono trovare anche degli esempi smaltati. E’ il caso dei due gradevoli esemplari, stilisticamente molto simili, osservabili all’interno del Duomo, rispettivamente sul fastigio del monumento sepolcrale del vescovo, posto nella navata laterale di destra (fig. 3), e sul fastigio del battistero della navata laterale di sinistra, realizzato per volere del presule da Giovanni Pinto e sistemato nel 1760 (fig. 4)14.

Un altro esempio di composizione cromatica è l’arma dipinta sulla tela dedicata all’Assunta, visibile dietro l’altare maggiore. Il quadro, realizzato dal pittore leccese Oronzo Tiso e collocato nel 175715, reca in basso a sinistra uno scudo ovale accartocciato contenente il blasone episcopale di Mons. Sozi Carafa, committente dell’opera, che proprio in quell’anno riconsacrò il Duomo dopo anni di lavori voluti da Mons. Luigi Pappacoda (1639-1670)16.

Degno di menzione, infine, è l’esemplare che orna il retro di una pianeta di seta rossa, ricamata con motivi floreali e galloni d’oro, conservata nel Museo Diocesano di Arte Sacra (fig. 5). Non si tratta, però, di un caso isolato, perché da un inventario dei beni del presule, redatto nel 1752, risulta che egli utilizzò anche altri paramenti sacri stemmati (piviali, mitrie, altre pianete)17.

 Fig. 5

Note

1. Cfr. V. Spreti, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, Milano 1928-36, suppl. 2, p. 598; cfr. anche E. Ricca, La nobiltà delle Due Sicilie, Napoli 1869, vol. IV, pp. 248-273, dove è presente anche un albero genealogico della famiglia Sozi Carafa.

2. Il manoscritto è consultabile on line al seguente indirizzo: http://bibliotecaestense.beniculturali.it/info/img/mss/i-mo-beu-gamma.y.5.4.pdf

3. Cfr. E. Ricca, op. cit., pp. 251-252.

4. Cfr. ivi, p. 272.

5. Cfr. ivi, p. 273. Per la nobile e antica famiglia Carafa, che si suddivise in due rami detti rispettivamente della Spina e della Stadera e che diede alla cattolicità un Sommo Romano Pontefice nella persona di Paolo IV, rimando a G.B. di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane, estinte e viventi, Pisa1886, vol. 1, p. 231.

6. Cfr. E. Ricca, op. cit, p. 273.

7. Cfr. ivi, p. 267.

8. Cfr. P. Palumbo, Storia di Lecce, Lecce 1910, rist. Galatina 1981, p. 285.

  1. Cfr. A. Cordero Lanza di Montezemolo, A. Pompili, Manuale di araldica ecclesiastica nella Chiesa Cattolica, Città del Vaticano 2014, p. 19.

10. Nello stemma dei Carafa della Stadera compare a volte anche una stadera all’esterno dello scudo.

11. Cfr. T. Pellegrino, Piazza Duomo a Lecce, Bari 1972, p. 11.

12. Cfr. ibidem.

13. L. De Simone, Lecce e i suoi monumenti descritti e illustrati, vol. I, Lecce 1874, pp. 93-94.

14. Cfr. T. Pellegrino, op. cit., p. 103.

15. Cfr. ivi, p. 65.

16. Cfr. ivi, p. 41.

17. Cfr. M. Pastore, Arredi, vesti e gioie della società salentina dal manierismo al rococò, in “Archivio storico pugliese”, XXXV  (1982),  pp. 133.134.

 

 

Oria. Le stanze del vescovo e i loro affreschi

La ricorrenza del primo quinquennio dell’ episcopato di mons. Marcello Semeraro, vescovo di Oria, è stata l’ occasione per la pubblicazione dell’ interessante volumetto, estratto dalla tesi di laurea in Storia dell’ Arte Moderna: “Il vescovo Giovanni Carlo Bovio e la decorazione pittorica del palazzo vescovile di Oria“.

Un episodio della cultura manierista romana nella seconda metà del Cinquecento in Puglia, ad Oria per la precisione, nell’ episcopio fatto ricostruire dall’ arcivescovo Giovan Carlo Bovio (Brindisi, 1522-Ostuni, 1570).
Si tratta in sostanza degli affreschi che decorano i tre sopravvissuti ambienti dell’ edificio: la stanza delle allegorie, quella dei paesaggi e l’ altra degli stemmi boviani. E’ questa la più elegante ed articolata per le diverse decorazioni a grottesche, che tanto richiamano le maestranze raffaellesche delle logge vaticane, con originali fregi affrescati sulle pareti laterali.
Molte ipotesi del programma iconografico dall’ Autrice sono correlate con le travagliate vicende pastorali del Bovio, più volte contrariato dagli amministratori brindisini, che lo portarono a scegliere la sua dimora in Oria.
Attraverso il confronto stilistico, la tecnica e le note biografiche, Floriana Riga scarta l’ attribuzione degli affreschi a Pellegrino Tibaldi e Matteo Perez da Lecce, come da altri sostenuto, preferendo, persuasivamente, concentrarsi sulle cerchia romane di Domenico Rietti detto lo Zaga e di Prospero Fontana, che lavorarono entrambi in Castel Sant’ Angelo di Roma.

Oria. Le stanze del vescovo e i loro affreschi“, di Floriana Riga, Oria (Brindisi), 2003, con 99 fotografie b/n e colore.
Presentazione del vescovo di Oria mons. Marcello Semeraro.

(Marcello Gaballo)

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