Taurisano e gli stemmi dei Montano

di Luciano Antonazzo

Nel 2016 in un articolo su Presenza Taurisanese[1] attribuii lo stemma scolpito sulla finestra del palazzo di via Isonzo in Taurisano, ai Montano (o Montani) di Terni, in base alla sua somiglianza con quello di detta famiglia riportato in disegno dallo Spreti nella sua Enciclopedia Storico-Nobiliare e blasonato “d’azzurro alla pianta di rosa al naturale fiorita di tre pezzi di rosso, nodrita sulla vetta di un monte all’italiana di tre cime, di argento, movente dalla punta”.

Stemma su finestra del palazzo di via Isonzo a Taurisano (ph. R. Rocca)

 

Stemma dei Montano di Terni in Enciclopedia Storico Nobiliare Italiana di V. Spreti (vol. 8)

 

Mi fu ribattuto che, stante la data 1578 riportata su detta finestra, lo stemma non poteva appartenere ai Montano, che sono attestati a Taurisano solo dalla seconda o terza decade del 1600[2] e ciò nonostante che, come si è già avuto modo di rilevare, da un atto del notaio di L. De Magistris di Casarano del 12 settembre 1594, risultino come taurisanesi i chierici Annibale e Francesco Antonio Montano.

Che non si trattasse di un refuso del notaio lo confermano due distinti atti del 1599 di un altro notaio, Antonio Romano di Montesardo, nei quali come testimone è menzionato il “cl. Anibal Montanus  terrae Taurisanii[3].

È senz’altro vero che essi sono attestati in Taurisano solo nell’ultimo decennio del ‘500, ma è molto probabile che se ci fossero pervenuti documenti anteriori qualche loro traccia si sarebbe comunque trovata, se non altro tra le carte attinenti al clero di Taurisano. Mi è stato ribattuto anche che “lo stemma dei Montano di Terni non risulta creato” e che rimane “complessa la questione” sulla loro origine nobiliare, “tutta da dimostrare”[4].

Torno sull’argomento per cercare di approfondire il discorso e dimostrare che quanto meno alcuni dei Montano presenti nel Salento, erano originari del ternano.

I Montano (o Montani) sono attestati sin dal Medioevo in diverse regioni d’Italia e le varie famiglie si fregiarono tutte di uno stemma proprio, come i Montano di Genova, Milano, Bologna, Pesaro, Terni, Spoleto, ecc.

Per rimanere ai Montano di Terni (e dell’Umbria in genere), alcune vicende delle loro fortune sono ampiamente esposte in un saggio di Filippo Orsini e Nadia Bagnarini[5], mentre dei loro stemmi si tratta in “Araldica di Terni” di Luigi Lanzi[6].  In questo manoscritto del 1902 (ca), l’autore ripropone, disegnandole con propria mano, le diverse armi civiche, vescovili e gentilizie di Terni, desunte da raccolte custodite presso il Municipio di Terni (Raccolta I e II), l’Archivio di Stato di Roma e presso privati, nonché da affreschi e monumenti presenti in diverse chiese [7].

A corredo degli stemmi egli riporta dei cenni genealogici tratti da un quadernetto compilato nel 1640 dal cap. Francesco Simonetta, al quale viene ascritta anche la Raccolta Municipale I.

Nel documento del Lanzi ritroviamo che lo stemma (partito o meno), raffigurante tre monti con fiori, viene alzato da diverse famiglie, mentre quello raffigurante tre monti (o un monte a tre cime) con tre steli con altrettante rose rosse partenti dalla cima centrale lo troviamo attribuito sia ai Montano che ai Nicoletti, altra antica famiglia che, diramatasi in diverse regioni d’Italia, è attestata in Terni dal XIII secolo. E proprio per la loro assoluta somiglianza, in diverse occasioni l’autore mostra delle titubanze per l’attribuzione dell’arma all’una o all’altra delle due famiglie, preferendo nel dubbio attribuirla ai Nicoletti (che quest’arma però adottarono solo verso il 1600[8]), come evidenziato dai due stemmi che si riportano.

 

 

Gli stemmi delle famiglie Montano e Nicoletti, che dal Lanzi sono dati per certi e che sono riportati assieme a pagina 69 del suo opuscolo[9] (v. sotto), sono entrambi stati tratti dalla Raccolta Cittadini che, compilata nel 1851, a dire dello stesso Lanzi, non era molto affidabile in quanto le armi non sempre erano disegnate con  sufficiente chiarezza e i motti che le accompagnavano erano spesso incompleti o errati.

Le figure dei due stemmi   sono del tutto simili. L’unica differenza riscontrabile è costituita dallo   smalto dello scudo: d’azzurro il primo, d’oro il secondo.

 

Lo stemma dei Montano è riprodotto partito con quello dei Leoni, come specificato dalla didascalia Montanus-Leo[10] che accompagnava l’originale e nella cui blasonatura i tre monti risultano “di verde”, mentre lo Spreti li dice “d’argento”.

Ma, come per quello identico adottato dai Nicoletti[11],  quello su riportato dei Montano doveva appartenere ad un ramo secondario della famiglia dato che nella stessa raccolta del Lanzi si trova un altro loro stemma recante al posto dei tre steli con rose rosse, tre stelle in capo, sempre su fondo azzurro (st. n. 266). Peculiarità di questo stemma è che nel documento originale, dal quale è tratto, è corredato dell’iscrizione “Montanus – Tantum”, quasi a significare che lo stemma era proprio dei Montano, senza commistione con quello di altre famiglie.

 

Questo stemma ha certamente attinenza con quello che, alquanto stilizzato e schematizzato (st. n. 308), il Lanzi attribuisce dubitativamente ai Nicoletti, ma che è da attribuirsi anch’esso ai Montano. In quest’ultimo, troncato, al posto dei tre monti sembrano potersi individuare tre foglie di un quadrifoglio, mentre al posto delle tre stelle presenta le corolle di tre fiori rossi. Questi due ultimi stemmi sono presenti nella chiesa madre di Tricase intitolata alla Natività della Vergine.

Quello con tre monti e tre stelle in capo, si rinviene sulla tela dell’altare della Madonna del Carmine nella chiesa madre di Tricase[13] intitolata alla Natività della Vergine, ed in modo identico è replicato sulla tela di Santa Domenica posta sul fastigio e sulle due tele ovali raffiguranti Santa Apollonia e Santa Lucia. Quello più stilizzato, si trova scolpito sui fusti delle due colonne anteriori che sorreggono l’altare[12].

Tricase – chiesa della Natività della Vergine

 

Altare della Madonna del Carmine – Stemmi della famiglia Montano

 

Questo altare fu eretto nella seconda metà del ‘700 dai Montano e precisamente da Raffaele e dalla figlia Maria Domenica, in sostituzione di quello sotto lo stesso titolo che, come compatroni con i Papini, possedevano nell’antica parrocchiale.

Dalla disamina e dal confronto degli stemmi su esposti si può ragionevolmente sostenere che i Montano di Tricase[14] erano originari di Terni (o comunque dell’Umbria) e che un ramo della stessa famiglia si fregiava di uno stemma con gli stessi tre monti ma con tre rose rosse, il tutto sempre su campo azzurro.

Agli esponenti di quest’ultima, ribadisco, doveva appartenere lo stemma scolpito come un fregio sulla finestra del palazzo di via Isonzo a Taurisano, che si è ipotizzato potesse essere stata la dimora della famiglia del filosofo Giulio Cesare Vanini.

Certamente il manufatto esula dai canoni classici della rappresentazione di un’arma (a cominciare dalla sua sagoma), ma che si tratta di uno stemma lo confermano i dodici fori presenti ai lati degli steli delle rose esterne (6 per parte). Si tratta di bisanti[15] la cui rappresentazione simboleggia la ricchezza e la generosità della famiglia titolare dello stemma.

Questi elementi, che non compaiono nell’arma riprodotta dal Lanzi, con molta probabilità furono aggiunti dai titolari per sottolineare il grado di agiatezza a cui erano pervenuti nel Salento.

 

Si è sostenuto anche che detto stemma non corrisponde alla presunta arma dei Montano poiché alla base dello stesso non vi sarebbero raffigurati tre monti (o un monte a tre cime), ma una quarta rosa[16], scambiando per questa la parte inferiore del manufatto che, come è evidente, risulta fratturato all’altezza delle due cime laterali. Ad indurre in errore è stato verosimilmente il fregio alla base del monte centrale. Potrebbe effettivamente richiamare le rose sovrastanti, ma in realtà si tratta della parte finale superstite delle due spirali che fungevano da cornice esterna.

La conferma si ha dal confronto di  detto stemma con quello della   famiglia Montana di San Gemini (Tr) che riproduco in disegno da quello esistente in detta cittadina, scolpito su pietra con sottostante l’iscrizione MONTANA[17].

Purtroppo, non si è in grado di appurare quale grado di parentela  eventualmente intercorresse tra i Montano di Tricase e i Montano di Taurisano e né, allo stato dei fatti, si può stabilire se sia gli uni e gli altri avessero avuto qualche legame con i Montano documentati a Montesardo fin dalla fine del XV secolo[18], o con  i Montano di Salve, dei quali ci è pervenuto il complesso residenziale sovrastato da una torre di difesa circolare[19].

Si ritiene, a proposito di questi ultimi, che in un primo tempo eressero la torre recante la data 1562, apponendo al di sotto di una caditoia uno stemma in altorilievo; stranamente però sullo scudo non compare alcun simbolo: forse non vi fu raffigurato alcunché per cause che non conosciamo o forse le figure appostevi furono rimosse.

Si ritiene ancora che alla stessa torre venne addossata la loro abitazione nel 1617, data che si trova scolpita sulla trabeazione di una finestra al primo piano; ma forse il loro primo nucleo abitativo venne realizzato un secolo prima. Lo fa ipotizzare una possibile lettura dell’iscrizione presente al di sopra del portone di   accesso all’antica abitazione che recita:

OMNEȜ CREDE DIEȜ TIBI DILUXISSE

SUPREMUM              S • M • I D • I 7 •[20]

Per tentare di interpretare l’ultima parte dell’iscrizione azzardo l’ipotesi che (sottintendendo “A”), la “S” e la “M” stessero per “SALUTIS MUNDI”[21] e che “I” e “D” stessero rispettivamente per i numeri romani “1” e “500”, sicché l’insieme potrebbe leggersi “(nell’anno) della salvezza del mondo 1517”. La stessa interpretazione sarebbe da darsi alle lettere “S” ed “M” che si trovano incise nello scudetto sull’orlo della torre in corrispondenza del millesimo “1562”[22].

da Salentoacolori.it

 

 

Note

[1] L. ANTONAZZO, L’antica finestra con stemma ed iscrizione in via Isonzo a Taurisano, Presenza Taurisanese, anno XXXIV, n. 4, Aprile 2016.

[2] F. DE PAOLA, Noterella sulla vexata quaestiodella casa di Vanini, in “Presenza taurisanese”, anno XXIV, n. 6/7, giugno-luglio 2016, p.6; F. P. RAIMONDI (a cura), Taurisano e il monumento a Giulio Cesare Vanini, Taurisano – Edizioni Odigitria MMLXVII, p. 174.

[3] ARCHIVIO DI STATO di LECCE (ASLe), Sez. Not., not. A. Romano, 63/1, protocolli del 21 aprile 1599, cc. 27v – 28v.

[4]F. P. RAIMONDI (a cura), Taurisano e il monumento a Giulio Cesare Vanini, … cit. p. 174.

[5] F. ORSINO – N. BAGNARINI, I Montani, Storia Genealogico-Documentaria di una Nobile famiglia Umbra XVI e XX Secolo, in https://www.academia.edu

[6] Reperibile in: http://www.bctdigitale.comune.terni.it  Per gli stemmi di detta raccolta qui riprodotti, si ringrazia la Biblioteca Comunale di Terni per l’autorizzazione alla loro pubblicazione.

[7] Il Lanzi precisa che nel 1564, con la repressione cruenta della rivolta popolare da parte delle truppe di Pio IV, Terni fu sottomessa al papato e venne soppresso il Consiglio di Credenza costituito da 24 nobili e 24 popolani, o banderari. Andarono così perse tutte le tracce del passato comprese le bandiere del popolo e il novero dei nobili che avevano fino ad allora avuto il diritto a governare la città. Riferisce ancora che dette due classi avevano lentamente nel tempo ripreso il loro posto, ma che nel 1798 un Proclama al Popolo Ternano della Repubblica Romana imponeva ai cittadini di abolire ogni tipo di stemma e livrea di Ordini Cavallereschi di cui si era fregiata fino ad allora l’Aristocrazia. Lamenta quindi l’autore che l’ordine fu eseguito pedissequamente sicché vennero distrutti tutti gli stemmi e dato alle fiamme il Libro d’oro della città.

[8] Quella dei Nicoletti era un’altra antica e nobile famiglia diramatasi in diverse regioni d’Italia. A Terni è attestata dal XIII secolo e riguardo la sua origine risulta dalle note genealogiche del capitano Simonetta che capostipite ne era stato tale Leonardo di Mazzarone, vissuto nel XIV secolo.  Da Leonardo, dice il Simmonetta, “nacque Nicoletto auttore del cognome moderno padre di Leonardo juniore che cresciuto di condittione e di ricchezza generò, perché augmentar la dovesse Xforo (Cristoforo) che dalla milizia che haveva in gioventù professata, ridottossi in patria ad avantaggiar la sua famiglia, la costituì di ricchezze superiore ad ogni altra. Ma li suoi figli e nipoti, divenuti fatiosi et adescati da Camporeali, furno di sommo giovamento ai Ghibellini. Portorno in perpetuo nome gentilizio il paterno nome di Ser Xforo che fu in uso per 150 anni, riassumendo prima del 1600 i loro pronipoti quello di Nicoletto che pur oggi continuano”.

[9] Sono riportati anche tra le “Armi Gentilizie dei Benefattori” della Congregazione di Carità di Terni. (V.: L. LANZI, Congregazione di Carità – Araldica, 1890, in http://www.bctdigitale.comune.terni.it)

[10] Alla famiglia Montano – Leoni apparteneva il palazzo eretto nel 1584 dalla famiglia Fazioli ed oggi sede della Fondazione della Cassa di Risparmio di Terni e Narni. Alla stessa famiglia apparteneva dal 1600 il palazzo Mazzancolli, eretto poco dopo la metà del XV secolo da Ettore, Uditore della Camera Apostolica.

[11]Il Lanzi, a proposito dell’arma dei Nicoletti, riferì che accanto alla sua riproduzione nella Raccolta Cittadini leggeva: “Vi è piccola differenza tra li due stemmi di detta famiglia, proveniente dal medesimo stipite; il ms. accenna il campo dai monti in giù bianco, nei fiori d’oro e sopra azzurro”. Precisò quindi a sua volta che nella R.A.S (Raccolta Archivio di Stato) si trovava invece l’indicazione: “rose bianche, monti verdi, campo turchino- ed è accompagnato dal seguente distico: Turba minutato divi decorata Barensis – De patronali nomine lecta sinit ”. Anteriormente sembra che l’esametro dicesse così: Turba sub hoc signo minutato Barensis”. Uno stemma dei Nicoletti con rose bianche su campo turchino, in decusse su quello dei Camporeali, è riportato dal Lanzi che lo copiò da un dipinto sul soffitto della sala maggiore di un loro antico palazzo, mentre si rifà in parte alla seconda blasonatura quello stilizzato sopra descritto con le tre corolle di fiori che egli desunse dalla Raccolta Municipale I e dubitativamente attribuì ai Nicoletti. Riferisce il Lanzi che ad accompagnare questo scudo vi era un motto corroso di cui si leggevano soltanto le parole “…. ET PARVA ……(BA)RENSIS”. Dai succitati motti che accompagnavano gli stemmi, si ha la conferma che i Nicoletti di Terni discendevano dai de Cristofaro di Corato o Giovinazzo (Ba), dove sono attestati tra il XII ed il XV secolo. (V.: G. RECCIA, STORIA DELLA FAMIGLIA de CRISTOFARO alias de RECCIAprofili di ricerca genealogica e di storia locale – Istituto di Storia Atellana, 2010, 99 e ss.).

[12] Le due colonne posteriori recano lo stemma dei Pisanelli ai quali nel 1786 passò l’altare dopo il matrimonio di Maria Domenica     Montano con Vincenzo Pisanelli.

[13] Stemma tratto da Guida di Tricase, di M. PELUSO-V. PELUSO, Congedo Editore, Galatina 2008, p. 168.

[14] A Tricase i Montano sono attestati già nel 1455 (V.: E. MORCIANO, Famiglie, devozioni e carità a Tricase in età moderna, Congedo Editore, Galatina 2006, p. 51) e nel corso del XVII secolo risultano possessori di diversi terreni in diverse località.

[15] Il bisante era una moneta d’oro dell’Impero bizantino che verosimilmente comparve nelle armi con la presa di Costantinopoli da parte dei Crociati. Negli stemmi i bisanti vengono rappresentati con figure tonde e piatte senza impronta, mentre se sono colorati prendono il nome di torte. I bisanti erano di forma concava-convessa (ed erano detti scifati) e perciò negli stemmi scolpiti, quando non sono in bassorilievo, vengono raffigurati con dei fori circolari. Il loro significato simbolico varia a seconda degli autori, ma per la maggior parte di essi i bisanti denotano ricchezza, generosità e liberalità.

[16] F. P. RAIMONDI (a cura), Taurisano e il monumento a Giulio Cesare Vanini, … cit., p. 174.

[17] Tratto da: F. ORSINO – N. BAGNARINI, I Montani, Storia Genealogico-Documentaria …, cit., p. 128. Nel testo è precisato che questo stemma, che si trova anche nella chiesa di S. Nicolò in Sangemini, è identico a quello che si trova nell’angolo inferiore sinistro della tela del 1632 raffigurante l’Annunciazione esistente presso l’Oratorio della Santissima Annunziata di Portaria, frazione di Acquasparta (Tn). Identico stemma si trova inoltre sulla porta della cappella privata (dedicata alla Madonna del Carmine) del castello di Arrone, da dove i Montano si diramarono a Piediluco e Terni. Ed ancora detto stemma, che viene blasonato dallo Spreti: “d’azzurro alla fascia d’oro accompagnata in capo da una stella a sei raggi d’argento, e da un monte a tre cime dello stesso, movente dalla punta”, è identico anche a quello dei Montano di Spoleto che, assieme a tutti i Montano dell’Umbria, potrebbero essere stati originari dell’antica Carsulae. (V. F. ORSINO – N. BAGNARINI, I Montano …, cit.).

[18] Tra i Montano che si distinsero in Montesardo nella seconda metà del XVI secolo sono da annoverare l’ U.I.D Pompeo Montano e Vespasiano Montano.

[19] Tra i Montano che si distinsero in Salve a cavallo tra il XVI e il XVII secolo è da menzionare il notaio Francesco Montano

[20] L’intera struttura è stata restaurata ma al di sopra della “E” di “DIE” non è stato evidenziato quel segno a forma di “3” (richiamante una “M” come per “OMNEȜ ”) che il lapicida aveva apposto, riportando esattamente il motto di Orazio Flacco Quinto che tradotto recita: “Pensa che ogni giorno che sorge per te sia l’ultimo”.

[21] Salus mundi (Salvatore del mondo) era definito il Cristo e l’espressione “salutis mundi” equivaleva a “A N. C.” (A nativitate Christi = dalla nascita di Cristo),“A.D” (Anno Domini= nell’anno del Signore) e a “A.R.S.” (Anno Reiparatae Salutis = nell’anno della riconquistata salvezza).

[22]Le immagini relative all’abitazione dei Montano in Salve, sono disponibili sul sito https://www.salentoacolory.it

Per la storia feudale di Alliste e Felline

di Luciano Antonazzo

 

Le vicende feudali di Alliste e Felline sono andate quasi sempre di pari passo, essendo stati i loro territori assoggettati molto spesso ad uno stesso Signore fino all’eversione del feudalesimo.

La cronologia della successione dei loro feudatari risulta chiara e lineare fino a quando entrambi i feudi pervennero in testa di Don Francesco Pignatelli[1]. A questi succedette, nella seconda metà del XVII secolo, Bartolomeo de Capua, Principe della Riccia e Gran Conte di Altavilla, ma non era chiaro come ciò fosse avvenuto. I successivi passaggi attraverso i quali le stesse terre passarono poi in possesso degli Scategni che le detennero fino all’eversione del feudalesimo, sono a loro volta abbastanza confusi e non chiaramente delineati nei tempi e nei modi.

A fare chiarezza su come il passaggio del loro possesso pervenne a Don Bartolomeo de Capua e da questi al marchese di Ugento Don Nicola d’Amore, avvenuto nel 1691, contribuisce un atto del notaio Biagio Domenico de Conciliis di Napoli concernente una convenzione stipulata il 30 ottobre 1702 tra Donna Dorotea Acquaviva d’Aragona, contessa di Conversano[2], e Don Paolo Serafini, procuratore del marchese di Ugento Don Nicola d’Amore. Per i passaggi successivi si riporta quanto esposto ne La saga dei d’Amore, marchesi di Ugento, principi di Ruffano, marchesi di S. Mango[3].

Nel suddetto documento del notaio de Conciliis, Donna Dorotea Acquaviva d’Aragona, vedova del conte Don Giulio Antonio Acquaviva d’Aragona sr. († 2 gennaio 1691)[4] e balia e tutrice del figlio Giulio Antonio jr. nato postumo al padre, riferisce che nei capitoli matrimoniali per il matrimonio da contrarsi con Don Cosimo Acquaviva d’Aragona, alla suocera Donna Maria Caterina de Capua[5], contessa di Noci, da Don Bartolomeo de Capua erano stati assegnati in dote 40.000 ducati e per essi la tenuta del feudo di Nicotera[6].

Proseguì Donna Dorotea dicendo che “qualmente gli anni passati essendono dedotte nel S. R. C. le Terre d’Alliste, e Fellino, una con li feudi di Tariano, Verito, e Sinisgalli esecute ad instanza de creditori contro D. Francesco Pignatello Cugnetti Duca d’Alliste, e le medesime Terre, e feudi apprezzate dal Tavolario eletto, et esposte come venali[7], prima che si trovasse un compratore, tra Donna Maria de Capua e don Bartolomeo, mediante albarano (del 1668) si era convenuto che questi dovesse in nome e per conto di lei, comprare i due feudi per 36.000 ducati e che tale somma (quantunque il principe avesse sborsato di più o di meno) sarebbe stata scomputata dai 40.000 dovutile per dote. Conseguentemente, promise Donna Maria che gli avrebbe rilasciato il possesso di Nicotera.

In osservanza dell’albarano, il principe Bartolomeo, mediante il duca di Mignano (Ce), suo parente[8], comprò i due feudi e ne fu immesso nel possesso in attesa del Regio Assenso. Donna Maria però ritornò sulla sua decisione e rifiutò di prendersi i due feudi e restituire la tenuta di Nicotera, sicché Don Bartolomeo fu costretto qualche anno dopo ad adire le vie legali. I giudici sentenziarono che Donna Maria era obbligata al rispetto di quanto contenuto nell’albarano, ma ella fece ricorso opponendo diverse “proposte di nullità”. Pendente la discussione sulle pretese cause di nullità dell’albarano, Donna Maria decedette nominando suo erede universale il figlio Giulio Antonio Acquaviva sr., anche in virtù della rinuncia fatta in favore di quest’ultimo dal fratello Don Domenico.

Fra Don Bartolomeo e Don Giulio Antonio, per dirimere la questione inerente ai due feudi, fu stipulato un atto di concordia col quale si demandò il tutto alla valutazione e decisione degli avvocati Don Serafino Biscardi e Don Nicolò Caravita, da entrambi scelti come “amichevoli compositori”. Fu deciso che Don Giulio dovesse riprendersi i feudi di Alliste e Felline e restituire Nicotera a Don Bartolomeo.

Don Giulio Antonio restituì Nicotera e prese possesso di Alliste e Felline insieme ai suffeudi, ma si trovò ad essere molestato dai creditori della sua famiglia, a cominciare dal cognato Don Giovanni Geronimo Acquaviva d’Aragona duca d’Atri e dagli eredi di Geronimo e Vincenzo Barra. Questi erano ricorsi al S. R. C. ed avevano ottenuto che in danno di Don Giulio Antonio si vendesse il ducato di Nardò e che nel frattempo lo stesso venisse affittato. Il conte di Conversano allora ricorse all’“espediente” di mettere a disposizione dei creditori i feudi di Alliste e Felline coi suoi suffeudi, ed al loro acquisto rese disponibile il marchese di Ugento Don Nicola d’Amore.

Stemma ducale della Casata Acquaviva

 

Intervenne però la morte dello stesso conte Don Giulio Antonio e fu dichiarato suo erede il figlio postumo Don Giulio Antonio jr.  al quale furono assegnati come tutori e balii la madre Donna Dorotea e suo fratello Don Giovanni Geronimo (1663-1709). Questi, per evitarsi nuove liti, spese e dispendi di denaro, in specie per evitarsi un nuovo apprezzo che si sarebbe dovuto fare per i due feudi, con l’intervento “del Sig. Commissario, Avvocati, Procuratori, Tabulario, Mastro d’Atti, Scrivano, Soldati et altre subastazioni e deritti stimorno con la loro matura prudenza essere utile, et espediente all’interesse del minore vendere dette terre, e feudi volontariamente, precedente decreto di expedit”, al  marchese di Ugento Don Nicola d’Amore, “una con tutti loro Corpi, Intrate, giurisdizioni, gagii, emolumenti et Intiero Stato, e dell’istesso modo, e forma, e con quelli medesimi corpi che sub verbo Signater se descriveano, contenevano et erano stati apprezzati primo loco, e venduti dal detto S. C. al detto quondam Ill. Principe Don Bartolomeo per l’intermezza persona del detto Duca di Migniano, e che dal detto quondam Ill. Principe Don Bartolomeo dell’istesso modo, e forma, et sub verbo Signater erano stati ceduti al detto quondam Illustre Conte Don Giulio seniore”.

E questo per il prezzo di 33.000 ducati dei quali subito se ne dovessero dare 3.000 a Don Felice Basurto, duca di Alliste (come somma dovutagli a complimento del credito vantato sull’eredità e sui beni dei precedenti conti di Conversano)[9] ed altri 25.000 da pagarsi ai tutori per far fronte ai creditori dopo aver ottenuto dal S. R. C. il decreto d’ expedit alla loro vendita. Dalla sua immissione nel possesso dei due feudi e fino all’ottenimento di detto decreto, Don Nicola era tenuto a pagare sui 25.000 ducati l’interesse del 4,5 %. I restanti ducati 5.000 a complemento del prezzo si convenne che sarebbero stati pagati all’ottenimento del Regio Assenso e che nel frattempo Don Nicola era tenuto a corrispondere lo stesso interesse del 4,5 %.

Fu stabilito ancora che “la spesa del Reale Assenso impetrando la dovesse pagare, e sborsare tutta intiera, e di suo proprio denaro esso Ill. odierno Sig. Conte, et à riguardo all’altra spesa, e deritti occorrendi qui in Napoli per l’esecutoria al detto Reale Assenso accapato[10] se dovesse fare à spese comuni”. Fu inoltre precisato che se nel frattempo fosse stato costretto Don Nicola a pagare qualche relevio, o qualsiasi altra nuova tassa pretesa dalla Regia Camera, tale somma l’avrebbe scomputata dai 5.000 ducati.

Dallo stesso atto notarile risulta che Don Nicola prese possesso dei feudi nel 1693[11] e che adempì ai suoi obblighi versando per intero i 28.000 ducati e nel 1694 ducati 606.3 a complimento dei ducati 900 maturati complessivamente fino a quella data per interessi. Don Nicola per potersi intestare i due feudi rimase in attesa che i curatori di Don Giulio Antonio Acquaviva jr. chiedessero per quest’ultimo il regio Assenso alla successione al padre nei due feudi e conseguentemente quello per la loro vendita in suo favore, ma sorsero degli ostacoli imprevisti. Dato che si trattava di feudi nuovi acquistati e pervenuti al piccolo conte nato postumo al padre, sorse il dubbio se nei beni feudali poteva aversi successione in favore di questi e non piuttosto dello zio Don Domenico come più prossimo in grado di Don Giulio Antonio sr. defunto senza successori legittimi.

Accanto a questi dubbi si valutò anche il caso di un eventuale diniego dell’Assenso Regio, evento per cui “sarebbero rimaste dette Terre, e feudi sottoposte all’articolo di caducità, e devolutione à prò del Regio Fisco”, con la conseguenza che il piccolo conte sarebbe stato costretto a risarcire col suo patrimonio Don Nicola per il prezzo dei feudi già quasi interamente pagato, per tutte le spese e i per tutti i danni patiti, assieme agli interessi.

Per scongiurare questi rischi, gli avvocati e i procuratori delle parti escogitarono l’escamotage per cui si sarebbe dovuto far figurare l’acquisto all’asta dei due feudi non in testa del Principe Don Bartolomeo, ma del di lui primogenito ed erede Don Giovan Battista de Capua, “con stipularne le dovute cautele con il Regio Incantatore, e sopra di quelle ottenersi il Regio Assenso, e che poi dal medesimo Principe Don Giovanni Battista si dovessero vendere le dette terre al detto Ill. marchese, e delegarsi il prezzo a beneficio di detto odierno Sig. Contino in soddisfattione di parte delli ducati 40.000 dotali della detta quondam Ill. Duchessa Donna Maria”. Così avvenne con l’avallo del Regio Commissario Don Pietro Fusco ed il Regio Incantatore del S. C. potette ratificare il tutto e procedere ad una nuova vendita di dette terre in favore del marchese di Ugento per atto dello stesso notaio de Conciliis[12].

Ma necessitava ancora il Regio Assenso in favore del principe Giovanni Battista che però non potette ottenerlo in quanto, per sopravvenuta condanna in qualche altro giudizio, fu “dichiarato foriudicato, e come tale reputato morto civile”. Ragion per cui venne dichiarato suo erede universale e nei beni feudali suo figlio primogenito Don Bartolomeo. La vendita dei due feudi fu quindi fatta figurare in testa di Don Brtolomeo jr.  ed il 3 aprile 1702 fu finalmente concesso il Regio Assenso che dalla Regia Camera fu notificato a Don Nicola assieme all’elenco di alcune pendenze fiscali poste a carico del compratore e specificatamente:

 

  • Che per il jus delle piazze e della bagliva dei due feudi non vi era concessione, “ma come usurpati si doveva à prò del Regio Fisco il prezzo, una con la tassa de preterito[13] decorsa e tassarsi per l’avvenire
  • Che si doveva costringere il possessore a restituire gli annui ducati dieci percepiti per ciascun feudo come strenna, o offerta, e che se ne dovesse astenere per il futuro.
  • Che per le decime dovute al barone nemmeno vi era concessione, e che come usurpate se ne dovesse pagare il prezzo al Regio Fisco assieme a quanto percepito dai precedenti possessori.
  • Che il relevio presentato da Giovanni Luigi Coppola per le entrate feudali “iuxta la significatoria spedita nell’anno 1608” non era stato soddisfatto per intero e che il nuovo barone era tenuto a sanare assieme agli interessi.
  • Che per la morte di Don Francesco Pignatelli, nel possesso dei due feudi era succeduta la sorella Donna Anna Maria, contessa di Mesagne, ma che questa non aveva pagato il relevio, “che si doveva duplicato, ò sempio[14] con l’interesse ad elettione del Regio Fisco”.
  • Che si dovevano “anco doppi, ò sempji con l’interesse ad elettione del Regio Fisco” tutti gli altri relevii per morte dei successori alla contessa Donna Anna Maria, come dal mandato dell’Attuario della Regia Camera Don Giuseppe Nicolò Fiore.

 

Don Nicola con i suoi avvocati e procuratori, dopo aver prodotto “alcuni discarichi adverso detti corpi di resulda fiscale” per transigere tutte dette pretese somme offrì al Regio Fisco 1.000 ducati e per il diritto di piazza e bagliva si disse disposto a pagare per il futuro 4 ducati annui, offerta che fu complessivamente accettata dai funzionari del Regio Fisco.

Dallo stesso atto notarile risulta che a conclusione di detta transazione sorsero nuovi contrasti con gli eredi Barra che pretendevano il pagamento dei restanti 5.000 ducati a loro assegnati dal tribunale; Don Nicola produsse allora documentazione di tutte le spese da lui sopportate, anche di quelle per ottenere il Regio Assenso che sarebbero dovute ricadere in testa del conte di Conversano e che erano da defalcarsi dai 5.000 ducati residuo del prezzo dei due feudi. Alla fine tutti i contrasti furono sopiti con ulteriori accordi tra le parti, compreso quello per cui Don Nicola si impegnò a consegnare altri 1000 ducati a Don Felice Basurto per il suo credito verso i precedenti conti di Conversano, per cui il prezzo effettivamente pagato per i due feudi fu di 34.000 ducati[15].

L’atto di convenzione e transazione in questione necessitava ovviamente della ratifica di Don Nicola, ratifica che era da farsi con altro atto di pubblico notaio entro due mesi.  Don Nicola però non fece in tempo a ratificarlo perché improvvisamente decedette il 24 novembre del 1702.  A ratificarlo fu allora la sua vedova, Donna Camilla d’Amore, con atto del notaio Francesco Carida del 5 febbraio successivo.

Donna Camilla d’Amore era figlia del secondo marchese di Ugento, Don Giuseppe, e di Donna Anna Maria Basurto (nata in Felline nel 1659 da Don Francesco Basurto, duca di Alliste, e Donna Antonia Beltrano dei conti di Mesagne). Aveva sposato nel 1697 Don Nicola in seguito ad accordi di famiglia tesi alla ricomposizione degli aspri contrasti sorti dal fatto che Don Giuseppe, per ottemperare al fedecommesso disposto dal capostipite Don Pietro Giacomo, aveva nominato suo erede lo stesso Don Nicola, suo cugino[16].

Donna Camilla, che quando il marito decedette fu nominata curatrice e balia del figlio Domenico nato il 28 marzo del 1702[17], ebbe per sorella Donna Antonia e ad entrambe, allora in età pupillare, Don Giuseppe nel suo testamento del dicembre del 1690 aveva assegnato 22.000 ducati, ignaro che la moglie fosse nuovamente gravida. La piccola Antonia però decedette qualche mese dopo il padre e nel luglio del 1691 Donna Anna Basurto diede alla luce la sua terzogenita alla quale fu posto il nome della sfortunata sorella defunta. I 22.000 ducati destinati a questa vennero quindi assegnati all’ultima nata che a sua volta sposò il congiunto marchese di S. Mango, Don Giacomo d’Amore, discendente da Don Giovanni Battista d’Amore, fratello del primo marchese di Ugento Don Carlo. Donna Camilla s’apprestò quindi ad amministrare i beni del figlio dichiarato dalla Gran Corte della Vicaria erede ab intestato del padre.  Lo fece in piena autonomia, senza curarsi dei vincoli e dei gravami che insistevano sull’eredità del marito in virtù del fedecommesso e del moltiplico.

La sua gestione però procurò al figlio notevoli danni finanziari che portarono ad uno strepitoso processo che vide la sua conclusione solo con un laudo, o arbitrato, nel 1729.

Per quanto concerne specificamente i feudi di Alliste e Felline, Donna Camilla nel 1715, di propria iniziativa, alla sorella Donna Antonia, come sua quota sull’eredità paterna assegnò ben 50.000 ducati al posto dei 22.000 spettantile e per essi 2.250 ducati l’anno. Non disponendo di denaro le assegnò per 1.700 ducati annui la tenuta dei due feudi; ed altrettanti ducati assegnò nel 1716 a sé stessa in occasione del suo secondo matrimonio col principe di Pado, Andrea Serra[18]. Don Domenico per mantenere fede all’impegno della madre confermò alla zia la tenuta di detti feudi anche se non facevano parte dell’eredità di Don Giuseppe essendo stati comprati dal padre Don Nicola.

Don Domenico premorì alla madre nel 1754 e la zia Antonia due anni dopo chiese che le venissero intestati i feudi di Alliste e Felline, ma non essendosi rinvenuto nei Regi Quinternioni l’assenso all’accordo tra lei e il defunto marchese, la sua richiesta trovò l’opposizione del Regio Fisco.

Don Domenico alla sua morte nominò per testamento sua erede la madre, ma la stessa, per le conseguenze dell’esito del laudo del 1729[19] e in ottemperanza del fedecommesso primogeniale, fu costretta a cedere il feudo di Ugento assieme al titolo al congiunto Don Domenico d’Amore, solo nominalmente principe di Ruffano. Il nuovo marchese di Ugento, avanzò legittime pretese anche sui due feudi di Alliste e Felline in quanto il loro valore doveva reintegrare i beni vincolati al fedecommesso ma che erano stati venduti da Donna Camilla. Ma poiché il marchese di S. Mango aveva a sua volta avanzato aspettative sullo stesso fedecommesso, la questione fu concordemente accantonata ed i due feudi rimasero in godimento di Donna Antonia. Poco tempo dopo ella, con atto del notaio napoletano Don Giovanni Pisacane, donò al figlio Francesco il suo credito sull’eredità paterna, e per quello la tenuta dei due feudi, con la facoltà di chiudere le pendenze esistenti col Regio Fisco.

Questa cessione-donazione ottenne il Regio Assenso il 28 aprile del 1763, previo pagamento di 2.500 ducati di relevio ed in conseguenza di ciò, il 10 luglio del 1772, i due feudi dal Regio Fisco vennero intestati a Don Francesco d’Amore, marchese di S. Mango[20]. Questi poi, il 2 gennaio 1777, con atto del notaio Andrea Cavaliere, per 59.000 ducati si disfece dei due feudi cedendoli ai fratelli Nicola e Domenico Oliva di Monasterace (RC) che non ebbero un buon rapporto con gli abitanti di Alliste e Felline, soprattutto per via della loro pretesa “di decimare su tutto[21], ragion per cui decisero di rivendere i due feudi ed acquistarne altri in Calabria.

Li vendettero a Don Francesco Maria d’Amore, fratello di Don Domenico per conto del quale amministrava il feudo di Ugento. Acquistò i due feudi con atto del notaio Pasquale Cerrito di Torre Paduli del 2 dicembre 1778[22], subentrando ai fratelli Oliva alle stesse condizioni per cui questi avevano comprato i due feudi il cui prezzo non era stato ancora interamente pagato.  Don Francesco Maria però non fu in grado di far fronte agli impegni presi ed i fratelli Oliva, col consenso del marchese di S. Mango, gli fecero subentrare Lorenzo e Onofrio Scategni che acquistarono i due feudi il 13 dicembre del 1779 e ne mantennero il possesso fino all’eversione del feudalesimo.

 

Note

[1] Francesco Pignatelli era figlio di Camillo e di una non meglio precisata dama della famiglia Cognetti. Sposò Giulia Beltrano, figlia di Ferdinando conte di Mesagne e di Donna Camilla Acquaviva dei duchi di Nardò. Nel 1648 ottenne il titolo di duca di Alliste, titolo che alla propria morte (1660) senza figli passò alla sorella Anna Maria e ai suoi discendenti. Anna Maria Pignatelli nel 1613 aveva sposato Alfonso Basurto († 1624) e in seconde nozze sposò Don Ferdinando Beltrane, conte di Mesagne e vedovo di Camilla Acquaviva.

[2] Dorotea Acquaviva d’Aragona (7/1/1666? – † 3/12/1714) era figlia di Giosia (1631-1679) e Francesca Caracciolo (1646-1715) unitisi in matrimonio nel 1662. Nel 1686 sposò Giulio Antonio Acquaviva d’Aragona.

[3] L. ANTONAZZO, La saga dei d’Amore – Marchesi di Ugento, Principi di Ruffano, Marchesi di S. Mango, Congedo Editore, Galatina 2011.

[4] Giulio Antonio era figlio di Cosimo († a Ostuni il 6/7/1665 in un duello contro Petraccone Caracciolo, duca di Martina) e Maria Caterina de Capua (29/5/1626 – † 2/2/1691). Nel 1690, essendo scoppiata la peste a Conversano, cercò riparo a Napoli. Venne posto in quarantena nell’isola di Nisida dove morì.

[5] Donna Maria Caterina de Capua era figlia di Giovanni Fabrizio (1604-1645) principe della Riccia e di Margherita Ruffo (26/6/1607- ?) dei conti di Sinopoli.

[6]Don Bartolomeo era fratello minore di Donna Maria Caterina e fu lui a dotarla quando si sposò nel 1646, un anno dopo la morte del padre. Nei capitoli matrimoniali egli assegnò alla sorella 50.000 ducati, 10.000 dei quali “dovevano provenire dal Monte dei Giunti”, fondato nel 1585 da venticinque famiglie nobile napoletane (De Capua, Pignatelli, Caetani d’Aragona, ecc.) al fine di fornire di dote le figlie degli stessi fondatori e dei loro discendenti maschi. Per i restanti 40.000 ducati si impegnò a versarle fino alla loro liquidazione 2.300 ducati l’anno e per quelli la tenuta del feudo di Nicotera. [V.: G. SODANO, Da baroni del Regno a Grandi di Spagna – Gli Acquaviva d’Atri: vita aristocratica e ambizioni politiche (secoli XV-XVIII)], Alfredo Guida Editore, Napoli 2012, pp. 157-158.

[7] I feudi di Alliste e Felline, coi suffeudi di Tariano, Verito e Sinisgallo furono apprezzati nel 1665 dal Regio Tavolario Pietro Apuzzo (o d’Apuzzo). Nella sentenza n. 90 del 18 luglio 1810 emanata dalla Commissione Feudale si trova che lo stesso Tavolario per Alliste e Felline aveva redatto altri due apprezzi, rispettivamente il 24 agosto 1661 e l’11 luglio 1663 (v.: Commissione feudale, Napoli 1810, p. 682).

[8] Si trattava di Giovan Battista di Capua, figlio di Francesco Antonio (1619-1676) e Anna di Capua (1620-1686) e marito di Beatrice Muscettola.

[9] Don Felice Basurto (1653-ca. 1727) era nipote di Alfonso e figlio di Francesco e di Antonia Beltrano dei duchi di Mesagne. Sposò Candida Brancaccio figlia di Carlo, principe di Ruffano, e Teresa d’Amore (zia di Don Nicola d’Amore) e risulta che nel 1691, dopo un lungo processo, gli venne riconosciuta la titolarità su una quota del feudo di Alliste. Non si conoscono i termini di questo processo, ma in questo documento del notaio Biagio Domenico de Conciliis è precisato che il suo credito era stato riconosciuto dai balii e tutori di Don Giulio Cesare jr. con atto del notaio Aversana di Napoli. Per quanto concerne il pagamento da farsi in favore di Don Felice Basurto, verosimilmente vi fu una compensazione col credito che Don Nicola vantava verso lo stesso duca, come risulta da un atto del notaio Francesco Carida di Ugento del 30 aprile 1704. In questo atto Donna Candida Brancaccio afferma che quando nel 1694 (leggi 1695) il marito Don Felice acquistò sub asta il feudo di Racale per ducati 53.390,9 utilizzò i 20.000 ducati che gli erano stati dati a mutuo al 4% nel 1692 da Don Nicola nel d’Amore con atto del notaio Biagio Domenico de Conciliis.

[10] Da accapare = condurre a termine, conseguire.

[11] L’atto di acquisto fu stipulato con Don Bartolomeo sr. il 6 novembre 1693 presso il notaio Biagio de Conciliis di Napoli.

[12] L’atto di vendita (fittizio) tra Don Giovanni Battista e Don Nicola fu stipulato il 9 maggio 1699 (v.: L. ANTONAZZO, La saga dei d’Amore …, cit. p. 46).

[13] Per l’addietro.

[14] Semplice. Quando nella successione nel feudo non si provvedeva a pagare il dovuto relevio, dal Regio Fisco veniva spedita lettera di significatoria con la quale si imponeva al nuovo titolare del feudo di pagare a breve quanto dovuto sotto pena di essere costretto a pagare il doppio.

[15] Agli eredi Barra fu riconosciuto un credito verso Don Nicola di ducati 1.350, somma che Donna Camilla pagò mediante un censo acceso con tale Don Luciano Silverio (v.: ARCHIVIO di STATO DI LECCE, Scritture delle Università e feudi (poi Comuni) di Terra d’Otranto – Alliste, fascc. 4/1 [1735]), 4/2 [1736]).

[16] Don Pietro Giacomo aveva fondato un fedecommesso primogeniale stabilendo che le sue sostanze (ascendenti a ca. 150.000 ducati) dovessero essere investite per 20 anni in acquisto di altre entrate e che dopo tale periodo al moltiplico così prodotto dovessero subentrare i suoi discendenti maschi, di primogenito in primogenito. In caso di mancanza di discendenza per linea maschile della linea del suo erede primogenito Don Carlo (1o marchese di Ugento) dovessero subentrare i primogeniti maschi della linea collaterale. Solo in caso di assoluta mancanza di discendenti maschi dispose che subentrassero le femmine. L’interruzione della linea maschile dell’erede si ebbe proprio con Don Giuseppe che procreò e gli sopravvissero due figlie.

[17] Fu nominata anche curatrice e balia della figlia Elena nata postuma al padre e che divenne monaca col nome di suor Vittoria nel convento dei Santi Pietro e Sebastiano di Napoli.

[18] ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI, Processi antichi, Pandetta corrente n. 5217, vol. XVI, fasc.926, Post compromissum patrimonij Ill. Marchionis Uxenti, cc. 28v-29r.

[19] Nel laudo Donna Camilla era stata riconosciuta erede del padre, ma per entrare in possesso del feudo di Ugento avrebbe dovuto risarcire il figlio pagandogli oltre 57.000 ducati, cosa che non fu in grado di fare per cui Ugento rimase in testa a Don Domenico.

[20] E. RICCA, La nobiltà delle due Sicilie, Napoli 1869, vol. IV, parte prima, pp. 354-355.

[21] ASLe, Sez. Not., not. G. V. Arnò, 105/8, Taviano 30 dicembre 1783.

[22] ASLe, Sez. Not., not. P. Cerrito, 107/3, Torrepaduli 2 gennaio 1777.

Libri| Vicende dei Vanini di Taurisano tra XVI e XVIII secolo

 

di Luciano Antonazzo

 

dalla presentazione del libro

In queste pagine si espone quanto attraverso i documenti si è riusciti a conoscere delle vicende esistenziali ed economiche dei Vanini di Taurisano. Del capostipite Giovanni Battista si riportano sommariamente gli atti notarili finora rinvenuti e pubblicati, mentre del figlio Giulio Cesare[1], accanto a quelle note riferite dagli studiosi, si riportano alcune notizie desunte da documenti inediti che gettano un raggio di luce sulla sua nebulosa biografia, come l’anno effettivo del conseguimento del dottorato o quello del suo ingresso in convento. Ancora attraverso documenti inediti viene delineato un profilo biografico dello zio don Gabriele e del padre carmelitano Bartolomeo Argotti, personaggi che ebbero un ruolo determinante nella vicenda esistenziale di Giulio Cesare.

Più estesamente si parlerà delle vicissitudini di Alessandro Vanini, fratello minore del filosofo, e della sua discendenza. Viene per questi qui organicamente riproposto ed approfondito, con l’aggiunta di altri documenti, quanto ho scritto in diverse occasioni su «Presenza Taurisanese» tra il 2016 e il 2017[2], con l’intento di contribuire a meglio inquadrare e contestualizzare le vicende della famiglia Vanini nella vita economica e sociale di Taurisano tra la fine del XVI e il XVIII secolo.

Un ringraziamento va a Salvatore Antonio Rocca che mi ha messo a disposizione dei testi e consultato, per mio conto, i registri parrocchiali di Torre Paduli, permettendomi di completare la genealogia dei Vanini.

 

 

[1]Sulla cui figura e dell’importanza che in campo filosofico rappresenta hanno scritto valenti studiosi di livello internazionale tra i quali, per limitarsi ai conterranei, sono da annoverare Luigi Corvaglia, Giovanni Papuli, Antonio Corsano, F. P. Raimondi, F. De Paola e M. Carparelli.

[2] In questa circostanza mi sono avvalso anche dei documenti riportati (non integralmente) dal prof. Giovanni Cosi nel suo saggio Nuova serie di documenti vaninani in «Bollettino di Storia della Filosofia dell’Università di Lecce», vol. VII, anno 1979 (ed. Milella, Lecce 1983), e di quelli dallo stesso citati in due articoli su “Presenza Taurisanese” del marzo 1985 e dell’aprile 1999, scritti a compendio e parziale rettifica del suddetto saggio.  

Bottino di una razzia di pirati turchi sulla costa di Felline nel Salento

di Luciano Antonazzo

È tristemente nota la ferocia e la crudeltà manifestate dai turchi durante le loro scorribande lungo le coste e nell’entroterra salentino per saccheggiare e depredare, senza alcuna remora nell’uccidere chi contrastava le loro mire.

La loro efferatezza è crudamente documentata finanche nel primo libro dei morti della parrocchia di S. Francesco di Assisi di Gemini, dove si legge che il 4 agosto del 1674 fu celebrato il funerale del soldato “mastro scarparo di Alessano” ammazzato nella marina dai turchi e trasportato dai compagni nella chiesa di Gemini “con la testa separata dal busto”.

Obiettivo privilegiato delle loro scorribande erano le masserie prive di strutture di difesa ed è del saccheggio e razzia di due di queste che riporto quanto riferito in una declaratio fatta al notaio Francesco Carida, di Morciano e residente in Ugento.

Declaratio fatta per Angelum Venneri et Franciscum Venneri di Alliste

In Dei nomine amen

Die octava mensis februaris 15ae  Inditionis, Anno Domini millesimo, sexcentesimo, septuagesimo septimo

In Terra felline, et proprie in Castro dictae Terrae, Regnante …, In nostri presentia constituiti Angelus Venneri dè Alliste dicens esser massaro della massaria nominata la gisternella seù del monte, et Franciscus Venneri similiter dè Alliste dicens esser massaro nella massaria del Ninfeo feudo di felline, qui sponte, non vi, dolo, sed omni meliori modo , sponte ut supra coram Nobis asseruerunt, declararunt, et attestati sunt, pro ut predicto die declarant et attestant  in vulgari sermone pro faciliori facti intelligentia, √ʖ

Qualmente l’anno passato e propriamente nel mese di luglio et à di 17 di detto mese nel luscere il 18 di detto mese  la notte calò alla marina di felline alla cala nominata li fiumicelli seù la guardiola un fuste di Turchi, e sbarcorno una quantità di quelli e calorno per il feudo di felline e scorsero alla detta massaria nominata la Cisternella seù il Monte, e fecero preda in quella di un caccavo di Rame grande che valeva ducati diciotto, e più et anche se ne portorno tre vombri, quattro zappe et una cetta, che potevano valere da otto ducati incirca, e più se ne portorno un sacco grande di grano de trè tomoli, che col sacco valeva carlini venti, e più quattro pese de formaggio tardivo, che poteva valere ducati cinque incirca, e più uno vestito di lana del massaro e scarpe, che potevano valere ducati quatro né toccorno in detta massaria bestie minute, che stavano in quella e questo è quanto s n portorno da detta massaria; et essendono poi scorsi alla massaria nominata lo Ninfeo in quella fecero presa similmente di un caccavo, che valeva ducati venti, due vombri, trè zappe strette, et un larga, che potevano valere ducati sei, e più se ne portorno pese cinque incirca di formaggio similmente tardivo, che poteva valere ducati sei, e mezzo, e più se ne portotno un fariolo novo, e scarpe del massaro di valuta di ducati quatro, e più se ne portorno un paro di Bovi di carretta di valuta di ducati sessanta, et arrivati alla massaria, e poco distante di quella ammazzorno detti Bovi, e se li portorno ammazzati dentro il loro fuste  à vista di tutti, seù di molte genti, che dopo fatto giorno all’avviso e nova ricevuta de Turchi calorno alla marina et essi costituenti stevano nascosti dentro le fratte per non essere fatti schiavi et sic declaraverunt …..

Della morte nel 1799 del “giacobino” ugentino Oronzo Santacroce

 

di Luciano Antonazzo

 

Pietro Palumbo nel suo Risorgimento Salentino[1] descrisse i molteplici scontri, sfociati in omicidi, tra i fautori della Repubblica Napoletana ed i filo-Borbonici nel Salento.

Per quanto concerneva Ugento, testualmente scrisse a pagina 47:

“Ugento era lacerata dai partiti Santacroce e d’Alessio, il primo democratico, l’altro borboniano. Alle notizie di Lecce e di Campi gli odî si riaccesero e parve giunto il momento di sbarazzarsi dei giacobini. Il popolo fu spinto a tumultuare da Francesco d’Alessio, da Ippazio Viva e da Pasquale de Paolis, i quali decisero di ammazzare Oronzo Santacroce.

Suonando il vespero degli 11 febbraio [1799] un esercito di sfaccendati, di preti, di disertori, allagò le vie armato di schioppi e con le coccarde rosse ai cappelli. A quel rumore il Santacroce, indovinando le sinistre intenzioni della folla, segretamente uscì alla campagna. Scoperta la fuga, i più audaci gli corsero alle spalle, e il Santacroce sparò ed uccise Salvatore Pongo [Ponzo] il quale stava per ghermirlo. Ma raggiunto da altri fu finalmente colpito da punte di baionetta ed ucciso con pietre”.

In realtà però questo avvenimento ebbe luogo la notte del 15 marzo del 1799, presso la Porta San Nicola, ad ovest delle mura bizantine, e non in campagna, come ci attesta don “Hippatius Canonicus Theologus Colajanni Aeconomus Curatus” che registrò la morte del Santacroce nel libro dei defunti della cattedrale di Ugento. Questa registrazione ricalca l’esposizione di fatti riportata dal Palumbo, ma è più cruda nella sua realtà. Egli, quasi come cronista dell’epoca, testualmente riportò:

Uxenti die decima quinta Mensis martii anni R. S. millesimi septingentesimi noni, hora vigesima tertia cum dimidio, Orontius Santacroce, vir Barbarae Paschali coniugis de Uxento, aetatis sua annorum circa quadraginta, obiit extra muros hiuiusce Civitatis prope Portam vulgo dicta Santi Nicolai, ex violenti populari impetu lapidibus fractus, insimulatus tamquam Religiosissimo Regi nostro Ferdinandi IV rebellis, Gallisque hostibus amicus, vulgo Jacobinus; quam paullo ante ipse tormenti bellici laxata rota ignito globulo Salvatori Ponzo se se proprius inseguenti mortem intulisset in ipso dicto Portae Santi Nicolai fornice audituque. Ipse autem Orontius S. Croce in mortis articulo dato poenitentiae signo, ab adomudum Reverendo P. Magistro F. Alberto Arditi Carmelita de Praesitio Sacramentaliter absoluto decessit. Cuius corpus in proximum S. Oratorium Beatae Mariae Virginis sub titulo Assumptionis jam sequente nocte illatum, sequenti mane in Cathedralem Ecclesiam apportatutum, ibidem peractis ex R.R. Sacris cerimonis in sepultura heredum quondam canonici D. Antonii Sava inumatum fuit[2].

A questa segue la registrazione della morte di Salvatore Ponzo di circa trenta anni, deceduto “ex ictu sclopeti, qui sibi vulnus inflictum fuit ab Orontio S. Croce[3]. Il Ponzo ebbe il tempo di confessarsi allo stesso Colajanni e di ricevere il viatico, prima di rendere l’anima a Dio. La mattina seguente fu officiato il rito funebre ed il suo corpo fu deposto nella sepoltura dell’Università.

I tragici avvenimenti sopra descritti ebbero uno strascico ancora più crudele il giorno dopo.

Nello stesso registro dei defunti, dopo l’annotazione della morte del Ponzo, si legge infatti:

Uxenti die decima septima mensis martii millesimi septingentesimi noni, hora septima noctis praecedentis anima innocentis puellae Aemiliae S. Croce filia quondam Orontii Santacroce, aetatis suae annorum quatuor, et mensis unius cum dimidio in Coelum advolavit; convulsionibus enim repente abrepta fuit puella, quia imprudenter ducta fuissete in Sacrum Oratorium sub titulo Sanctae Mariae in Coelo Assuntae ad videndum Orontium S. Croce patrem suum vulneribus saucium domique miserrime jacentem. Cuius puellae corpus in Ecclesiam Cathedralem seguente mane illatum, expletis ex R.R. Sacris cerimoniis in sepultura heredem quondam canonici D. Antonii Sava simul cum patrem depositum manet[4].  

Oronzo Santacroce era nato il 24 ottobre 1658 dal notaio Vito e da Maddalena Nicolazzo, ed era fratello del notaio Francesco. Quest’ultimo venne implicato nella vicenda dei due omicidi ma, da quel che è dato sapere, ne uscì indenne. Di lui Nicola Vacca scrisse:

“Viene notato di perduto genio repubblicano. Mostrò tutta la premura di democratizzare quel luogo. Si insignì di coccarda tricolorata. Sparlò in pubblico dei sovrani.  Fu carcerato ed indi abilitato. Vi seguirono due omicidi, per i quali se n’è persa la memoria dal sig. udit.re D. Antonio Greco, ed esso Santacroce fu abilitato”[5]. 

 

[1] P. PALUMBO, Risorgimento Salentino (1799-1860), Gaetano Martelli Editore, lecce 1911.

[2] Trad.: “Ugento giorno quindici dell’anno della Riconquistata Salvezza 1799, all’ora ventitreesima e mezza, Oronzo Santacroce, marito di Barbara Pascale, coniugi di Ugento, all’età sua di circa quarant’anni, morì fuori le mura di questa città, vicino la porta dal volgo detta di S. Nicola in seguito a violento impeto popolare, fracassato con pietre, accusato sia come ribelle al nostro religiosissimo re Ferdinando IV, che come amico ai nemici francesi, per il volgo giacobino; il quale poco prima, esso stesso, con un’ infuocata palla di scioppo (tormenti bellici laxata rota),  a Salvatore Ponzo che proprio lui inseguiva, aveva arrecato la morte nello stesso detto arco ed adito della Porta di S. Nicola.  Lo stesso Oronzo S. Croce, dato in articulo mortis il segno della Penitenza dal molto Reverendo Padre Maestro frate Alberto Arditi carmelitano di Presicce, assolto sacramentariamente, decedette. Il cui corpo già deposto la notte seguente nel vicino S. Oratorio della Beata Vergine Maria sotto il titolo dell’Assunzione, la mattina successiva fu portato nella chiesa cattedrale, nello stesso luogo, avendo adempiuto secondo i Riti alle sacre cerimonie, fu inumato nella sepoltura degli eredi del defunto canonico don Antonio Sava”.

[3] Trad.: “per una ferita che gli fu inflitta da Oronzo Santacroce mediante un colpo di schioppetto”.

[4] Ugento -Archivio parrocchia della Maddonna Assunta, registro dei defunti 1798-1808, cc. 70r-70v.

Trad.: “Ugento, giorno diciassette del mese di marzo 1799, all’ora settima della notte precedente, l’anima dell’innocente fanciulla Emilia Santacroce, figlia del fu Oronzo Santacroce, all’età di anni quattro e mesi uno e mezzo volò in cielo; infatti la fanciulla fu repentinamente portata via dalle convulsioni perché imprudentemente era stata condotta nel Sacro Oratorio sotto il titolo di S. Maria Assunta in Cielo per vedere il padre suo straziato dalle ferite e nel tempio miseramente giacente. Il di cui corpo, della fanciulla,   portato il corpo la mattina seguente nella chiesa cattedrale, dopo aver adempiuto secondo i riti alle sacre cerimonie, rimane deposto insieme con il padre nella sepoltura degli eredi del fu canonico don Antonio Sava”.

[5] N. VACCA, I rei di Stato del 1799, Vecchi & C. Editori, Trani 1944, p. 98.

Considerazioni sulla “veduta” di Ugento del Pacichelli del 1703

di Luciano Antonazzo

 

Delle mura messapiche e di quelle bizantine della città di Ugento, negli ultimi decenni, si sono occupati diversi istituti di ricerca e diversi studiosi, sia italiani che stranieri.

Per quanto riguarda le più recenti ed esaustive pubblicazioni dei nostri connazionali, il prof. Antonio Pizzurro ha parlato diffusamente delle mura messapiche nel suo Ugento- Dalla preistoria all’Età Romana[1]. A lui ha fatto seguito il prof. Giuseppe Scardozzi con La cinta muraria di Ugento[2] e da ultimo la prof. Giovanna Occhilupo ha realizzato un importante lavoro dal titolo Ugento – La città medievale e moderna[3] nel quale ha dedicato un capitolo alle Mura medievali, ossia alla cinta muraria bizantina, lunga circa un chilometro, realizzata verso il X secolo per proteggere la parte alta della città.

Per i loro lavori i succitati autori si sono avvalsi della cartografia storica pervenutaci su Ugento: la “veduta” della città del Pacichelli del 1703, la Pianta iconografica dell’antica e moderna città di Ugento, realizzata dall’arch. Palazzi nel 1810 e la Pianta generale dei beni della casa Colosso in Ugento, realizzata dall’ing. Giuseppe Epstein nel 1897.

La dott.ssa Occhilupo nel suo testo rimarca come attorno alle mura della città, sia messapiche che bizantine, vi sia notevole confusione e discordanza tra gli studiosi riportandone le diverse opinioni.

La sua analisi parte dalla veduta della città che il Pacichelli (1634 – 1695) inserì nel secondo volume de Il Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodici province, edito postumo nel 1703.

Veduta della città di Ugento – Pacichelli 1703

 

Si tratta di una pianta pseudo prospettica nella quale la città è vista da Est. In basso è evidenziato il borgo dal quale si diparte una strada che conduce alla fortificazione bizantina. L’accesso alla città per chi proveniva dal borgo era quello di Porta Paradiso, ma accanto a questo il Pacichelli ne riporta un secondo denominato Porta Piccola[4]. Sono quindi riportati gli edifici più importanti della città, indicati numericamente ed elencati in legenda. Alle spalle del centro urbano è raffigurata la cinta muraria messapica con tre porte denominate Porta S. Giorgio, Porta Santa Croce e Porta S. Nicola. Oltre le mura è raffigurato il mare su cui si affacciano altri centri urbani sovrastati da rilievi montani.

Questa pseudo-pianta però non è realistica in quanto vi sono delle incongruenze sia con lo stato dei luoghi che con quanto riportato da diversi documenti, sia anteriori che posteriori al 1703. Che detta riproduzione, assieme ad altre, non fosse del tutto affidabile lo si evince dal giudizio che ne diedero i posteri. Infatti, se il Regno di Napoli in prospettiva agli inizi raccolse molti elogi, successivamente fu oggetto di critiche severe.  Pietro Antonio Antonio Corsignani dichiarò che il Pacichelli incorreva in “vari abbagli”, come era “solito fare in quella sua opera,[Il Regno di Napoli..] affastellata senza discernimento” (1738. I, p.27)[5], mentre Lorenzo Giustiniani giunse a dire che si trattava di opera “con rami rozzi daddovero[6] e mal fatti” e “scritta da uomo acciabattante qual egli era[7]. Altri sollevarono dubbi sulla veridicità delle informazioni da lui riportate nelle sue opere, nelle quali si sarebbe dovuto “distinguere ciò che egli stesso ha veduto, da ciò che ha udito narrare per tradizione[8]. Anche studi recenti hanno accertato che la fama del Pacichelli è da ritenersi in larga misura usurpata. Risulta infatti che egli si limitò a riportare notizie raccolte qua e là, e che i suoi viaggi si svolsero solo dopo che aveva consegnato il manoscritto agli editori[9].

La prima osservazione da farsi è che egli, nel descrivere la città, dice che era “un miglio distaccata dal mare”, mentre in tutti i documenti, più o meno antichi, si dice (come in effetti era ed è) che la città distava dal mare “quattro miglia”; inoltre, nei due scudi ai vertici superiori della pianta non è raffigurato lo stemma di Ugento, benché lo stesso, come documentato, fosse stato adottato dalla città almeno dalla prima metà del ‘500[10].

In terzo luogo, nella cerchia delle mura messapiche indica a N/E della città, col n. 4, Porta S. Nicola, in corrispondenza dell’ex monastero dei Celestini, a Nord del borgo. In realtà questa porta era situata a S/O della cinta muraria bizantina e la conferma si ha, oltre che da innumerevoli documenti, dal fatto che detta porta prese la denominazione dell’esistenza nei suoi pressi di una chiesetta intitolata a S. Nicasio[11], appena fuori le mura.  Ed ancora, nel circuito delle mura messapiche col n. 3 è indicata a N/O porta S. Giorgio, mentre la stessa si trovava esattamente a N/E, nella contrada che da sempre è stata identifica col toponimo Santi Giorgi[12]. A N/E egli colloca invece Porta Santa Croce che certamente prese il nome dalla contrada S. Croce, poi Acquarelli[13], che si trovava a N/O dell’antico centro abitato.

E veniamo alla cosidetta Porta piccola che il Pacichelli colloca a S/E della muraglia bizantina, a poca distanza da Porta Paradiso sita a N/E, dalla quale secondo Salvatore Zecca irruppero in città i turchi nella loro incursione del 1537[14].

Dell’esistenza di questa porta non si è mai avuta cognizione ed il solo a parlarne fu il Pacichelli che ebbe come primo emulo l’arch. Palazzi il quale nella sua Pianta Iconografica di Ugento, la collocò, identificandola col n. 17, alle spalle della cattedrale, al vertice posteriore del suo lato destro (vista di fronte).

Tutti i successivi studiosi e scrittori locali, con dei distinguo, hanno preso per veritiera la “veduta” del Pacichelli, ma nei documenti pervenutici è rimarcato che due erano gli accessi alla città: Porta Paradiso[15] e Porta S. Nicola. Il primo di questi documenti è del 1634; si tratta dell’apprezzo che fece il tavolario Giulio Cesare Giordano in occasione della messa all’asta del feudo di Ugento. Vi si legge: “La città di Ugento […] è posta su una cima di Montetto murata attorno con bastioni, torri et altre fortificazioni, tiene li suoi ingressi per due parti, una dimandata la Porta di Paradiso, nella regione di levante, e l’altra dimandata Porta di Santo Nicola nelle regione di Ponenente […][16].  

Il feudo fu aggiudicato a Don Emanuele Vaaz de Andrada e nel documento della presa di possesso è precisato che la comitiva entrò in città da “Portam dictam del Paradiso” e che attraversando la piazza giunse a Porta S. Nicola[17]. Non vi è menzione di nessuna altra porta.

Oltre un secolo dopo, nell’apprezzo del tavolario Luca Vecchione del 1761, si legge che la città di Ugento si trovava: “quasi nel mezzo del feudo, sopra un dolce colle, da ogni intorno murato: si entra in essa mediante due porte: una detta del Paradiso, che riguarda Oriente, l’altra nominata di Santo Nicola coll’aspetto ad Occidente[18]. Anche qui non si accenna ad altre porte.

È verosimile che qualche decennio dopo vennero aperti altri varchi nella muraglia bizantina, ma fino ai primi dell’Ottocento, quando cominciarono ad essere usurpate le antiche mura bizantine[19], non si è rinvenuta alcuna testimonianza documentale in proposito.

Ma tornando alla famigerata “Porta piccola”, da dove salta fuori?

La spiegazione si trova nei protocolli del notaio Francesco Carida, di proprietà privata. In diversi suoi atti rogati tra il 1679 ed il 1696 troviamo che l’abitazione dei Papadia (corrispondente all’attuale sede degli uffici per il turismo che dà su Piazza A. Colosso e fa angolo von via Barbosa) era sita “in strada ubi dicitur la porta piccola di S. Vincenzo[20], o “ in strada ubi dicitur la porticella di S. Vincenzo[21], “in strada ubi dicitur la Porticella[22], “in strada ubi dicitur la porta piccola della chiesa di S. Vincenzo[23], “in strada ubi dicitur la porticella di S. Vincenzo[24], “ in strada ubi dicitur la porticella[25], “in strada ubi dicitur la porticella della Cattedrale di Ugento[26], “ in strada ubi vulgo dicitur la porticella della chiesa di S. Vincenzo[27], “in strada ubi dicitura la porticella[28], in strada ubi dicitura la porta piccola di Santo Vincenzo[29].

La denominazione ufficiale della strada era via Sferracavalli e come dice il notaio “dal volgo” era detta della

“porticella della chiesa di S. Vincenzo” perché conduceva alla porta secondaria e laterale di accesso alla cattedrale; non si trattava pertanto di un piccolo accesso aperto nella antica muraglia per comodità dei cittadini. Lo conferma anche il fatto che allora, fra il costone roccioso su cui sorge la cattedrale ed il piano sottostante, vi era un dislivello a strapiombo di oltre una decina di metri. Ai piedi di questo costone roccioso, prima che fosse realizzata l’attuale Via dei Cesari, correva un viottolo che permetteva ai contadini di raggiungere i propri poderi che si sviluppavano fino all’incrocio con Via Sallentina, nella contrada Barco. Tale dislivello venne superato solo alla fine dell’Ottocento con una ripida e lunga scalinata, oggi denominata salita Brancia, che si sviluppa in quattro rampe per un totale di una sessantina di gradini.

Tralasciando la disamina della rappresentazione e dell’ubicazione imprecisa di alcuni edifici della città raffigurati nella pianta del Pacichelli, è da attribuirsi dunque agli errori in essa contenuti la gran confusione che si è creata successivamente. Il Pacichelli (o chi per lui) probabilmente prese per buono, o equivocò, quanto riferitogli senza appurarne la veridicità e raffigurò una porta inesistente. A lui seguì il Palazzi il quale nella intestazione della pianta scrisse che la stessa era stata realizzata anche “per supplire alla deficienza delle memorie del primiero lustro di essa Città”. Probabilmente fu per perpetuare una fallace memoria che egli riportò l’esistenza di quella porta nelle mura bizantine mai esistita.

In effetti la città, data la sua esiguità all’interno delle mura, non necessitava di nessuna altra porta oltre le due documentate. Per recarsi nei fondi fuori le mura erano sufficienti le stradine che correvano attorno alla muraglia e per recarsi nei paesi limitrofi o alla marina erano sufficienti le strade che originavano dalle due porte poste ad Est ed a Sud/Ovest dell’abitato e distanti tra loro in linea d’aria circa 250 metri.

 

Delle mura messapiche

Il primo accenno alle mura messapiche è verosimilmente individuabile nel breve passaggio della Stima dei beni della Contea di Ugento, redatta da Troano Carafa nel 1530, in cui si dice: “La città a quattro miglia dal mare è cinta di forti mura con fossato[30].  Esplicitamente delle mura messapiche parla invece padre Secondo Lancellotti nel suo Il Mercurio Olivetano. Testualmente egli scrisse:

“Con l’occasione, che io l’anno 1616. girando per notare l’antichità, e raccorre le cose più degne dè nostri luoghi, mi trovai in queste parti, e mi trattenni l’inverno, fui chiamato a predicare la Quaresima ad Ogento. Hora è questa una città di sì pochi abitatori, che io credo, che non passino il numero di 500. […]. Dicevano gli Ogentini, che già la loro era una gran Città, ma non mi mostravano scrittore antico, che ne parlasse. […]. Ne meno apparivano vestigia di edifitij antichi a Città pretesa sì nobile convenevoli. È posta sopra un colle assai ben pietroso. Quindi, questo è ben vero, vedesi giù alla pianura un terzo di miglio lungi, gran giro di sassi coperti da gli sterpi, e dalle spine, e questo affermavano essere dell’antico Ogento. Io per curiosità fui quivi appresso, e volsi scavare un poco e vidi realmente essere una muraglia di pietre grandi, e quadrate secondo l’usanza di quei tempi, e tanto più stupij della rovina di tanta città, & e ancora quasi d’ogni memoria d’essa”[31].

Dopo quella pseudo prospettica del Pacichelli del 1703, la più datata pianta della città di Ugento si deve all’architetto Angelo Palazzi del 1810. La sua intestazione recita: Pianta iconografica dell’antica e moderna città di Ugento rilevata nel mese di febbraio dell’anno 1810 per supplire alla deficienza delle memorie del primiero lustro di essa Città. Nella planimetria, espressa in canne napoletane e piedi francesi, il sud è rappresentato in alto ed assieme al nucleo cittadino con le mura bizantine e i suoi torrioni, vi sono rappresentati il borgo e le diverse vie di comunicazione. Il tutto è circoscritto dalle mura messapiche il cui perimetro non presenta interruzioni. In alto, a destra, è raffigurato lo stemma antico di Ugento, e alla sinistra e ai piedi della pianta si sviluppa la legenda esplicativa dei diversi elementi raffiguratevi indicati con dei numeri. Il circuito messapico è contrassegnato col n. 1 e nella Annotazione si legge: “Antiche mura rilevate dai ruderi esistenti, e dalle traccie che tuttavia sovrastano, le quali il tempo non ha finora cancellato, della larghezza di circa palmi 18 per quanto si è potuto raccogliere. Il perimetro effettivo di detta città è di miglia italiane due e mezzo, e quarantanove canne lineari. L’estensione di suolo che occupavasi dall’antica città è ỻe [tumulate] 185, e passi quadri 1101, considerato il tomolo di passi quadri 1600 e ciascun passo di palmi 8[32].

Alla base della pianta vi è una dedica appena percettibile non riportata da alcuno degli studiosi che l’hanno visionata e tantomeno è presente nelle riproduzioni che ne sono state fatte a stampa. In essa si legge: “Dedicata al Sig. d.(?) Gius.pe  Colosso”. Si trattava dell’Arcidiacono e Cantore don Giuseppe Colosso sr. (1745-1833), personaggio di profonda cultura ed erudizione che scrisse diverse importanti opere rimaste inedite. Fra queste quella riguardante la storia di Ugento ispiratagli probabilmente proprio dalla pianta del Palazzi dato che egli la intitolò: “Antichità di Ugento esposte da Adelfo Filalete, O sia Rischiaramento su la Pianta iconografica dell’antica e moderna città di Ugento, rilevata dall’Architetto Angelo Palazzi l’anno 1810, e dell’Annotazione su la stessa dal medesimo fatta[33].

A questa pianta fece seguito nel 1897 la Pianta generale dei beni della Casa Colosso in Ugento, realizzata dall’Ingegnere Giuseppe Epstein con scala in metri 1: 10.000. In questa pianta sono raffigurati la città ed i territori circostanti con relativi toponimi, mentre con linee tratteggiate sono rappresentate le parti della muraglia messapica ancora visibile al suo tempo.

Riferisce il prof. Domenico Novembre in una sua pubblicazione che lo stesso Epstein aveva in precedenza ispezionato la cinta muraria e ne aveva stabilito il perimetro in 7 km.[34] A tal proposito Pizzurro, rifacendosi al citato autore, scrive:

“Nel 1889 Apstein (Epstein) misurò le mura e le trovò lunghe m. 7.000, in quanto sosteneva di aver trovato tracce di mura sia nella parte settentrionale (al di là della masseria Crocifisso) sia in quella orientale (al di là della cisterna del Serpe). Purtroppo non ci è giunto alcun rilievo di Apstein né la descrizione del perimetro della cinta muraria da lui rilevata”[35].

Ho il piacere, in questa occasione, di sottoporre all’attenzione degli studiosi proprio quella che ritengo sia una copia dell’originale (e malridotta) pianta realizzata dall’Epstein nel 1889, andata evidentemente perduta. La pianta in oggetto reca l’intestazione “UGENTO dentro le sue antiche muraglie”, mentre allo spigolo inferiore destro si legge. “Rilevò e disegnò Gius. Epstein – ing. l’anno (?) 1889”.

Pianta di “Ugento dentro le sue antiche muraglie” – Ing. G. Epstein 1889

Imm. 2

 

Di detta copia, assolutamente inedita, sono venuto casualmente in possesso e dal suo confronto con le altre due citate è possibile verificare il progressivo disfacimento delle mura messapiche.

È racchiusa in una cornice che misura cm. 39,5 x 30 ed è espressa anch’essa in metri con scala 1: 5.000, ciò che permette, a differenza del variabile valore della canna napoletana, di risalire all’effettiva lunghezza delle mura rilevata dall’Epstein. Misurando i vari tratti del perimetro (comprensivi dei tratti mancanti all’altezza della Cripta del Crocifisso e di quelli verosimilmente corrispondenti alla presenza di porte ubicate sulle strade di accesso alla città), complessivamente il tracciato misura circa 95 cm, corrispondenti sul terreno a circa 4.750 m., misura molto vicina a quella definitivamente accertata di m. 4.900 circa. Risulta pertanto errata e priva di fondamento la lunghezza delle mura messapiche di 7.000 metri attribuitagli.

Vi è rappresentata la città e il territorio compreso entro la cerchia messapica con alcuni toponimi ed il nome dei proprietari dei deversi appezzamenti di terreno.  Non vi è legenda ma per ognuna delle strade è indicato il nome del luogo o abitato verso cui conduce.  Vi sono raffigurate le nuove strade per Taurisano, per Gemini, per la marina di Torre S. Giovanni e per Gallipoli. Vi è delineato il percorso della futura Ugento – Casarano (1893) e la variante D’elia per via Monteforte. Vi è anche indicata l’ubicazione di una “antica tomba” lungo la strada che attraversava la contrada Colonne, poco prima che la stessa ripiegasse a S/O verso masserie Mandorle. Il circuito murario messapico è rappresentato con linee continue, tratteggiate o interrotte, a seconda dello stato delle mura, se intatte, con tracce visibili o inesistenti. Non vi sono indicate torri o porte specifiche. Un lieve differenza nel circuito con quella del Palazzi è riscontrabile nel tratto a sud/est, all’altezza dell’estremità sinistra della Terra dell’Aia. Per il Palazzi le mura formavano una specie rientranza a forma di cuneo fra la strada delle Pastane e la via vecchia per Acquarica. Secondo l’Epstein questa deviazione non c’era ed il percorso da lui tratteggiato proseguiva quasi per linea retta.

Si evidenzia anche come la strada delle Pastane (come appurato dagli studiosi succitati) si sviluppava a ridosso, o al di sopra, delle mura. Si differenzia ancora questa pianta con quella del Palazzi per quel che concerne il tracciato della vecchia via per Taurisano. Questa stradina partiva dalla via della Madonna della Luce (ex Sallentina), dal lato sinistro della chiesetta di S. Lorenzo, ed attraverso i campi giungeva ad incrociare la via per Taurisano che proseguiva, costeggiando le mura, fino all’incrocio tra la via per Melissano e quella per Casarano. Nella pianta dell’Epstein si vede invece chiaramente come questa strada sia stata interrotta dalla creazione di nuovi fondi agricoli. Il tratto occultato di questo sentiero conduceva direttamente a quello che il Palazzi riportò sotto la denominazione di “Torrione di S. Giorgio”, verosimilmente già demolito ai tempi dell’Epstein dato che egli nella sua pianta rappresenta il breve tratto di mura verso la nuova strada per Taurisano con una linea punteggiata. Come ritengono gli studiosi, il torrione prese la denominazione di S. Giorgio dalla porta omonima e nei suoi pressi una ventina di anni fa fotografai una grande lastra in pietra quasi integra che, se non è stata rimossa o distrutta, dovrebbe essere ancora sul posto. Molto probabilmente fungeva da copertura ad una tomba. Se ne riporta l’immagine:

Manufatto in pietra rinvenuto in prossimità del torrione S. Giorgio delle mura messapiche

 

Note

[1] A. PIZZURRO, OZAN UGENTO. Dalla Preistoria all’Età Moderna, Edizioni Del Grifo, Lecce 2002.

[2] G. SCARDOZZI, La cinta muraria di Ugento, Edizioni Leucasia, Presicce 2007. Accanto a questo testo è da menzionarsi l’ultima sua opera dal titolo Topografia antica e popolamento dalla Preistoria alla tarda Antichità – La Carta archeologica di Ugento, Edizioni Quatrini, Viterbo 2021.

[3]G. OCCHILUPO, Ugento – La città medievale e moderna – Metodologie integrate per la conoscenza degli abitati, Claudio Grenzi Editore, Foggia 2018.

[4] Le due porte sono contrassegnate rispettivamente con i numeri 11 e 12.

[5] P. A. CORSIGNANI, Reggia Marsicana ovvero memorie topografiche-storiche di varie Colonie, e città antiche e moderne della Provincia de i Marsi e di Valeria, Presso il Parrino, Napoli 1738, parte I, p. 277.

[6] Daddovero – arc. letterario = davvero

[7] L. GIUSTINIANI, La Biblioteca storica, e topografia del Regno di Napoli, Stamperia Vincenzo Orsini, Napoli 1793, p. 110.

[8] G. TIRABOSCHI, Storia della letteratura italiana del cavaliere abate Girolamo Tiraboschi, presso la Società Tipografica, Modena 1793, l. I, p. 98.

[9] V.: G. DE ROSA – A. CESTARO (a cura) Storia della Basilicata. 3. L’Età moderna, Editori Laterza, Bari (Ed. Digitale: dicembre 2021), p. 137. Le “vedute” utilizzate da Pacichelli sono opera del cartografo Francesco Cassiano da Silva  

[10] V.: L. ANTONAZZO, Gli stemmi della città di Ugento, Tip. Marra, Ugento 2016.

[11] Questa chiesetta bizantina era sita a pochi passi a nord della chiesetta della Madonna del Corallo, fuori le mura.

[12] Not. F. Carida, protocollo del 22/11/1683, c. 139v. Questo atto conferma che la località S. Giorgio era adiacente ad ovest all’Armino, suffeudo che si trovava ad Est del feudo di Ugento; vi si legge infatti “in loco ubi dicitur Santo Giorgio, iusta bona feudi nuncupati l’Armino ex occidente”.

[13] Not. F. Carida, protocollo del 10/1/1684, c. 12r.

[14] S. ZECCA, Portus Uxentinus vel Salentinus, Editore Mariano, Galatina 1963, p. 44.

[15] Se, come detto, Porta San Nicola derivava la sua intitolazione dalla vicina chiesetta di S. Nicasio, Porta Paradiso aveva assunto questa denominazione per la presenza nei suoi pressi di un giardino murato. Infatti il termine “paradiso” deriva dal persiano pairidaeza  (= giardino recintato) reso in greco con  paràdeisos. Il giardino in questione non corrispondeva però a quello realizzato dai conti Pandone sui lati nord ed ovest del castello, ma a quello degli Urso, esistente in parte ancora di fronte all’attuale ingresso al castello stesso.

[16] Archivio di Stato di Napoli, atto del notaio Leonardo Aulisio del 31 gennaio 1643 attinente all’acquisto del feudo di Ugento da parte di Pietro Giacomo d’Amore (Emptio Civitatis Ugenti pro Petro Jacobo de Amore).

[17] ASLe, Sez. Not., 46/39, not. G. F. Gustapane, protocollo del 15 marzo 1636, cc. 197r-216r.

[18]V.: G. OCCHILUPO, Ugento – La città medievale e moderna, cit. Appendice documentaria, p. 155.

[19]V.: L. ANTONAZZO, Trasformazioni urbane a Ugento tra Ottocento e Novecento, Edizioni Leucasia, Presicce 2005.

[20] Not. F. Carida, prot. del 6 gennaio 1679, c. 2v.

[21] Idem. Prot. del 30 ottobre 1683, c. 114r.

[22] Idem, prot. del 4 gennaio 1684, c. 3v, prot. del 11 gennaio 1684, c. 39r.; prot. del 18 settembre 1685.

[23] Idem, prot. del 21 febbraio 1685, c. 3r.

[24] Idem, prot. del primo agosto 1685, c. 60v.

[25] Idem, prot. del 18 settembre 1685, c. 111v.

[26] Idem, prot. del 5 dicembre 1685, c. 142r.

[27] Idem, prot. del 6 gennaio 1693, c. 1r.

[28] Idem, prot. del 3 settembre 1696,

[29] Idem, prot. del 8 luglio 1697, c. 108r.

[30] V.: F. CORVAGLIA, Ugento e il suo territorio, Editrice Salentina, Galatina 176, p. 77. Questo inciso potrebbe far riferimento anche alla cinta muraria bizantina, ma è improbabile data la morfologia del terreno che solo a nord e ad ovest delle mura, per essere pianeggiante, consentì la realizzazione di un fossato prospiciente il castello. Per quanto concerne il fossato antistante le mura messapiche, la sua esistenza per il momento è stata accertata limitatamente ad una porzione del lato est, in contrada Armino.

[31] S. LANCELLOTTI, Il Mercurio Olivetano, overo la Guida per le strade d’Italia, per le quali sogliono passare i Monaci Olivetani, Perugia 1628, pp. 55-56.

[32] La canna napoletana variava a seconda dei luoghi da un minimo di m. 2,14 ad un massimo di m. 2,37. Il Pizzurro, dando alla canna napoletana il secondo valore stabilì il perimetro delle mura messapiche in m. 5.237 (A. PIZZURRO, Ozan …, cit.p. 246). Rifacendosi invece al primo valore la lunghezza delle mura sarebbe stata di m. 4.729, misura più vicina ai circa m. 4.900 stabiliti negli anni Novanta del secolo scorso dagli studiosi.

[33]Ricalca pedissequamente questa operetta, anche nella ripartizione dei capitoli, l’opuscolo Memorie sulle antichità di Ugento 1857, di autore anonimo custodito presso la Biblioteca Provinciale Nicola Bernardini di Lecce ed edito a cura dello scrivente nel 2003 per Edizioni Leucasia.

[34] D. Novembre, Ricerche sul popolamento antico del Salento con particolare riguardo a quello messapico, in Annuario del Liceo Ginnasio “G. Palmieri”, Lecce 1965-66, pp. 78-79.

[35] A. PIZZURRO, Ozan …, cit., p. 247.

Libri| Ugento Sacra

Luciano Antonazzo, Ugento Sacra. Ovvero antiche chiese – ex conventi e monasteri – edifici ecclesiastici e monumenti sacri della città di Ugento e della sua frazione Gemini, cm 16,5×23,5, pagine 608, di cui 61 a colori, 159 in bianco e nero, ISBN: 978-88-8431-790-2. Grenzi editore 2020
… frutto di un generoso e minuzioso impegno di ricerca, portato avanti con competenza e passione dal carissimo ed esimio concittadino, Luciano Antonazzo il quale, tra i tanti studi condotti negli anni, ha inteso mettere a disposizione dei lettori un’imponente raccolta di informazioni storiche sulle numerosissime testimonianze storico – artistiche – architettoniche rappresentate dalle chiese insistenti sul territorio, unitamente ai soppressi monasteri e conventi, nonché degli edifici e monumenti ecclesiastici…
… Come confermato anche dall’autore, in questi ultimi anni, significativi interventi di restauro hanno contribuito non solo ad acquisire ulteriori ed importanti elementi conoscitivi, ma a riscoprire antiche tradizioni popolari utilizzate, altresì, per rafforzare la competitività della nostra destinazione turistica nella sua componente esperienziale… (dall’introduzione del Sindaco di Ugento Massimo Lecci)
dalla prefazione:

La fondazione di Ugento, l’antica Ozan dei Messapi, risale secondo gli studiosi, attorno al VII secolo a.C. La città fu un fiorente centro di commercio grazie al suo porto ed in epoca romana ebbe il privilegio di coniare moneta propria. Purtroppo, la città, dopo gli splendori dell’epoca più antica, andò decadendo e fin dal primo Medioevo, oltre a gravi calamità, come le invasioni barbariche e le epidemie di peste che ne decimavano la popolazione, fu soggetta a continue incursioni e razzie da parte di pirati ottomani tanto che, nei primi anni dell’XI secolo, Bisanzio, sotto il cui dominio si trovava allora la città, decise di realizzare una cinta muraria a difesa e a protezione della popolazione.

La sua lunghezza superava di poco il chilometro[1], e racchiudeva la parte alta dell’agglomerato urbano. All’interno della nuova cinta muraria furono costruiti il castello e la cattedrale e furono eretti, tra il XV ed il XVI secolo, il convento dei frati Minori Osservanti ed il Monastero delle Benedettine.

 

Nonostante tutte le misure adottate però, la città fu devastata e, si dice, quasi distrutta dai turchi, la notte del 4 agosto del 1537. Quel tragico giorno, col saccheggio di tutte le chiese e soprattutto con l’incendio dell’episcopio, andò persa anche ogni memoria storica dei tempi più antichi.

La città perse la sua identità e quando lentamente cominciò a ripopolarsi con la confluenza di genti delle terre e dei casali vicini, ebbe inizio una nuova storia. Ma, anche di questa, almeno fino al XIX secolo, abbiamo poche testimonianze e la responsabilità in questo caso è da addebitarsi all’incuria dei nostri antenati che non hanno saputo custodire i documenti delle nostre vicende storiche.

Per quel che riguarda specificamente i documenti ecclesiastici, se quelli anteriori al 1537 erano andati distrutti nel saccheggio operato dai turchi, gran parte dei documenti posteriori è andata invece persa sotto l’episcopato di mons. Lazzaro Terrer (1705-09). In quel periodo infatti l’archivio era stato trasportato

“in una camera di basso nel cortile d’esso vescovato, la quale essendosi ritrovata umida, per detta umidità ritornò offesa la maggior parte delle scritture e processi; e di poi portate in una camera sopra al palazzo, per esser che si ritrovava senza finestre, lo vento ne trasportò in molta quantità”[2].

Questa testimonianza, assieme ad altre[3], offre la spiegazione della povertà documentaria dell’Archivio Storico Diocesano di Ugento, fatto di cui ebbero a dolersi diversi vescovi, e oggi se ne dolgono studiosi e ricercatori.

Non si è così stati in grado finora di conoscere compiutamente, e realmente, la storia non solo delle nostre chiese più antiche, ma neanche dell’attuale cattedrale eretta nella prima metà del XVIII secolo. Per colmare tale lacuna abbiamo cercato, tra tutti i documenti di diversa natura pervenutici, quei riferimenti agli edifici di culto che, confrontati e messi assieme, potevano darci un quadro, se non completo, almeno abbastanza chiaramente delineato delle loro vicende.

Punto di partenza per la nostra ricerca sono state le relazioni per le visite ad limina dei nostri vescovi, disponibili a partire dal 1600[4].  In quelle però sono contenute solo scarne notizie.

Qualche notizia in più era certamente contenuta nelle relazioni delle Visite Pastorali, ma disponiamo integralmente solo di quelle effettuate dal XIX secolo in poi; per il periodo precedente ci è pervenuto solo un ponderoso resoconto sullo stato della diocesi nel 1711 (nel quale però mancano del tutto cenni alla nostra città e alle sue chiese),  uno stralcio della vista effettuata alla chiesa di S. Rocco (e dell’Assunta) da mons. Minturno nel 1559, e alcune carte  riguardanti quella effettuata nel 1628 da don Antonio de Notaris, vicario di mons. Ludovico Ximenez, da noi rinvenute ed in parte edite.

In dette carte, accorpate ad un fascicoletto con sulla copertina l’intestazione “Inventario dei beni del R.mo Capitolo ut intus- de anno 1628[5], sono descritte alcune delle chiese extramoenia e suburbane della città incontrate in successione lungo il percorso della visita, nonché quella di Pompignano e della futura parrocchiale di Gemini. Nonostante l’incompletezza il documento è preziosissimo in quanto è il più antico a fornirci notizie di alcune delle nostre chiese, soprattutto di quelle non più esistenti e delle quali non si conosceva assolutamente nulla. Ne faremo pertanto ampio riferimento, riportandone pressocchè integralmente il testo.

Di grande utilità sono stati i protocolli notarili conservati nell’Archivio di Stato di Lecce (ASLe): i documenti ivi rinvenuti sono stati infatti fondamentali per un’effettiva ricostruzione delle vicende dei luoghi sacri della nostra città e di quelli appena fuori l’abitato. Preziosa è stata infine la cronaca sui generis di don Stefano Palese nei registri parrocchiali[6]

Nella prima parte di questo volume, dopo un accenno all’origine della diocesi e ai diritti feudali del vescovo, si tratterà delle vicende delle chiese e degli edifici ecclesiastici ubicati nell’antico centro storico, a cominciare dal palazzo vescovile e a seguire di quelle della cattedrale e dell’erezione del seminario. Si esporranno quindi le vicende attinenti all’ex convento dei Francescani Minori e all’ex monastero delle Benedettine; di entrambi (e delle rispettive chiese) sono esposte estesamente anche le traversie che li hanno riguardati nel periodo successivo alla loro soppressione nel XIX secolo. Da ultimo si tratterà della chiesa della Madonna Assunta (e di S. Biagio) e della sua confraternita.

Nella seconda parte si parlerà delle antiche chiese e cappelle erette lungo il percorso della via Sallentina[7] (o nei suoi pressi). Tale strada attraversava (e attraversa) il borgo di Ugento per innestarsi alla vecchia via per Gemini e proseguire, attraverso il feudo di Pompignano passando per la chiesa di S. Maria della Natività, fino a Vereto, per giungere infine al Capo di Leuca, meta per secoli di una moltitudine di pellegrini diretti al Santuario della Madonna de finibus terrae. Nel solo tratto dell’antica via attraversante il territorio della nostra città, lungo circa due chilometri, si contavano almeno dodici luoghi di culto; sette di quelle antiche chiese esistono tuttora, ma della loro storia e soprattutto di quelle non più esistenti, avevamo fin qui solo qualche sporadica notizia. Gli atti della visita acclusi al citato documento del 1628 ci permettono ora di fissare dei punti fermi che sgombrano il campo da ipotesi e congetture fin qui avanzate.

Infine, nella terza parte diremo dell’antica chiesa di Pompignano, nel feudo omonimo, e degli antichi luoghi di culto e monumenti ecclesiastici esistenti nel feudo di Gemini…

 

[1] Quella delle antiche mura messapiche era di circa 4.900 metri

[2] ARCHIVIO STORICO DIOCESANO di UGENTO (ASDU), Benefici- Ugento/ 18 – (Beneficio dell’Assunzione della B.M.V. e di S. Margherita – 1672, cc.30v, 32r., 34r).

[3] C. DE GIORGI, La Provincia di Lecce – bozzetti di viaggio, vol. I, p. 202. L’A.  riferisce che il vescovo mons. Angelico de Mestria (1828-1836) permise la vendita di “tutte le carte inservibili, fra le quali vi erano parecchi documenti assai preziosi, accumulati nei secoli precedenti; e chi eseguì gli ordini ne abusò in modo indegnissimo”. Le carte sarebbero state vendute ad un artigiano di Matino che le utilizzò per confezionare fuochi pirotecnici.

Mons. Spinelli (1713-18) lamentò invece che molti documenti erano stati distrutti dolosamente dagli stessi ecclesiatici (cfr. S. PALESE, Le relazioni per le visite ad limina dei vescovi ugentini del Seicento e Settecento, in “La Zagaglia”, 1974, nn. 64-66, pp. 37-48). 

[4]Fino a poco fa erano disponibili a partire da quella del 1620, mentre ora si dispone anche di quelle che vanno dal 1600 al 1617, grazie all’interessamento di padre Alfredo di Landa del Pontificio Istituto delle Missioni Estere, che me ne ha procurato copia dall’Archivio Apostolico Vaticano (ex Archivio Segreto Vaticano).

[5] ASDU, Capitolo –documenti (Cap. docc.) 7/41. Sul verso dell’ultima carta è annotato: “Inventario fatto nel 1628 dè stabili del R.mo Capitolo, ed atti della visita delle cappelle della città, e Gemine. Nel qual inventario sono annotati li stabili della Calandria e delle cinque parti”.  La prima è contrassegnata col numero 2 e l’ultima col numero 30. La prima delle carte accorpate successivamente (come si desume dalla diversa grafia e numerazione) e attinenti la visita è la 11v.

[6] Don Stefano Palese, come arciprete della cattedrale, compilò i registri parrocchiali dal 31 agosto 1729 al 12 maggio 1754. Non si limitò alla semplice registrazione delle nascite, dei matrimoni e delle morti, ma, oltre a riportare diversi “testamenta animae”, appose delle annotazioni dalle quali abbiamo tratto notizie importanti.

[7]L’antica via Sallentina era una strada paralitoranea che congiungeva Taranto ad Otranto, attraverso il capo di Leuca. Il suo percorso, che per ampi tratti coincideva con antiche vie di comunicazione messapiche, è tracciato nella Tavola Peutingeriana, copia del XIII secolo di una carta della viabilità romana in epoca imperiale.

Libri| La famiglia Letizia in età barocca

 

Antonio Faita – Luciano Antonazzo, La famiglia Letizia in età barocca. Ricostruzione storica e biografica. Opus pennicilli xcellentis pictoris Agnelli Letitia Alexanensis
Schena Editore, Collana: Biblioteca della ricerca. Puglia storica, Fasano 2019, pp. 180

 

Dalla Prefazione di Mimma Pasculli

Il volume illustra la biografia del pittore Aniello Letizia (napoletano di nascita ma per parte paterna di origine alessanese), nonché del cugino Oronzo Letizia.

Di entrambi, che con la loro arte diedero lustro al Salento dalla fine del XVII secolo fin oltre la metà del successivo, si tracciano anche le vicende familiari, aspetto fin qui mai affrontato dagli esperti. Con l’ausilio di documenti inediti, rinvenuti sia in Napoli, presso gli archivi di Stato, Fondazione Banco di Napoli e Curia Arcivescovile; in quello di Stato di Lecce, in quelli parrocchiali (Alessano, Patù, Presicce, Lecce, Gallipoli e Galatone) e diocesani (Gallipoli, Lecce e Ugento), si fa piena luce sull’anno di nascita e sul primo nome di battesimo di Aniello, come anche sulle vicende sue e della famiglia Letizia. Si sapeva che era figlio d’arte in quanto il padre Domenico era iscritto alla Corporazione dei pittori di Napoli mentre non si era a conoscenza che la sua specializzazione fosse quella di pittore su cristallo. Rientrato in Alessano sul finire del 1600 in un primo tempo collaborò verosimilmente col cugino Oronzo che con la sua famiglia si era trapiantato a Lecce.

Nonostante la sua arte fosse considerata dagli esperti inferiore a quella del cugino la sua produzione pittorica fu di gran lunga maggiore. Ciò è dovuto certamente ad un suo presunto apprendistato presso Luca Giordano, ma forse in misura maggiore al clamore suscitato nel 1714 da un presunto evento miracoloso riconducibile ad una immagine di san Bernardino Realino da lui dipinta. Delle prime opere di Aniello si è rinvenuta solo qualche sporadica notizia mentre la sua attività è ben documentata per i lavori eseguiti, a partire dal primo decennio del 1700, per la chiesa del SS. Crocifisso della Pietà di Galatone e per gli oratori confraternali della Purità e del SS. Crocifisso di Gallipoli. Inoltre, un excursus delle sue opere ‘certe’, documentate o datate, senza sconfinare in fantomatiche analisi comparative, con ipotetiche attribuzioni sulle varie opere disseminate in ‘Terra d’Otranto’.

Aniello dalla consorte Agnese Fanuli non ebbe discendenza, ciò che gli consentì di vivere una vita agiata a differenza di Oronzo che vide dilapidata la sua fortuna ad opera dei suoi due figli maggiori già durante la propria vita. Negli ultimi anni della sua esistenza infatti fu costretto a far entrare in Conservatorio le due figlie più piccole mentre Aniello accoglieva presso la sua casa la nipote Chiara, figlia del fratello Gennaro che ebbe buona fama di scultore. E fu proprio Chiara ad essere nominata propria erede da Aniello. Ma alla morte di questi sorsero gravi controversie su detta eredità con una netta contrapposizione tra Gennaro e la figlia che si vide costretta anche, per l’opposizione del padre, a contrarre un matrimonio segreto.

La questione dell’eredità di Aniello rimase aperta e sembra che solo dopo la morte di Chiara e di Gennaro la vicenda trovò una soluzione. Questo lavoro è rivolto a tutti gli studiosi di arte, di storia-patria, alle guide turistiche per approfondire il loro operato e a tutti coloro che con la loro sensibilità vogliono preservare e recuperare il nostro patrimonio storico-artistico.

Il santuario di Santa Marina a Ruggiano

Riportiamo gli abstract dei saggi pubblicati sul nuovo numero de Il delfino e la Mezzaluna

 

Luciano Antonazzo, Per la storia del santuario di Santa Marina a Ruggiano

in Il delfino e la Mezzaluna, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto, anno V, nn° 6-7, 2018, pp. 345-367

 

 

ITALIANO

Sorto presumibilmente in età medievale nella piccola frazione di Salve denominata Ruggiano, il santuario di Santa Marina divenne in età moderna meta di consistenti pellegrinaggi, soprattutto grazie alle virtù miracolose per la cura del cosiddetto «male d’arcu» attribuite alla santa. In questo saggio, lo studio dei diversi interventi di restauro, ampliamento e ristrutturazione susseguitisi nei secoli, diventa l’occasione per un dettagliato excursus su un’interessante vicenda processuale che vide coinvolti, tra il 1738 ed il 1747, l’allora vescovo della diocesi di Ugento, mons. Arcangelo Maria Ciccarelli e l’arciprete Teodoro Fenizzi, da più parti accusato di lucrare sulle ricche elemosine destinate dai fedeli al santuario.

 

ENGLISH

Risen presumably in the medieval age in the little hamlet of Salve, named Ruggiano, the sanctuary of Santa Marina, became in the modern age, the goal of considerable pilgrimages, chiefly thanks to the miraculous virtues ascribed to the saint, for the cure of the so-called «male d’arcu». In this essay, the study of the many restoration repairs, extension and reorganization that ensued in the centuries, becomes the occasion for a detailed excursus about an important trial event that saw involved between 1738 and 1747, at that time the diocesan bishop of Ugento, mons. Arcangelo Maria Ciccarelli and the archpriest Teodoro Fersini, accused from all sides of gain on the rich alms assigned to the sanctuary by the believers.

 

Keyword

Luciano Antonazzo, Salve, Ruggiano, Santa Marina, male d’arcu

Integrazioni a proposito di Ugento e dintorni in una carta del XVI secolo

di Luciano Antonazzo

A proposito di quanto riportato in questo sito dal prof. Polito circa il suo post su “Ugento e dintorni in una carta del XVI secolo”, riporto alcune mie considerazioni ed osservazioni, che vanno a completare

Ugento e dintorni in una carta del XVI secolo

Innanzitutto tengo a precisare che, contrariamente a quanto fin qui sostenuto da tutti gli studiosi locali, l’antica cattedrale gotica di Ugento non fu distrutta dai turchi nel 1537, ma che la stessa, benché danneggiata, sopravisse fino al 1735, anno in cui fu demolita per portare a compimento l’erezione dell’attuale.

Venendo ai toponimi indubbiamente quello di “Casato di Amore” si riferisce ai Marchesi di Ugento, mentre quello che sembra “lo Vicale” è da leggersi “lo Vitale”, chiaro riferimento alla facoltosa famiglia Vitale che, originaria di Otranto, verso il 1670 troviamo diramata in Ugento con l’UID Carlo Vitale.

Il toponimo che sembra “Abinienio” ritengo sia da leggersi “Abiniente”, nome di una nobile famiglia salernitana (denominata anche Abignente) alla quale apparteneva quel Marino che nel 1503 prese parte alla disfida di Barletta. Anche gli Abignente, come i Vitale, sono attestati in Ugento nella seconda metà del XVII secolo e sono menzionati da Giovan Battista Pacichelli (Il Regno di Napoli in prospettiva) tra le famiglie più in vista di Ugento.

Conseguentemente credo che anche il toponimo “il Grossa” faccia riferimento ad una qualche famiglia, ma comunque non di Ugento.

Per quanto riguarda la “Torre di Sansone” credo che corrisponda all’odierna Torre Sinfonò (in epoche precedenti detta anche Sanfono o Sonfono). L’attuale denominazione è a mio avviso dovuta ad una errata lettura della “s” minuscola che nella scrittura e nella stampa dei secoli passati veniva resa come una “f”.

Vengo ai toponimi “Scopulo detto del Barro”, “scopulo detto lo Fiorlito” e “Punta della volta”. I due scogli (dal lat. scopulus-i) di fronte a Torre Mozza[1] fanno parte del complesso di isolotti e bassi fondali che sono conosciuti come Secche di Ugento, denominate localmente “Scoglio di Pirro” in quanto, secondo la tradizione (o la leggenda), vi si incagliarono alcune navi di Pirro col loro carico di uomini, cavalli ed elefanti. E poiché “scopulo detto lo Barro” significa “scoglio detto l’elefante” (dal lat. Barrus-i = elefante) ne consegue che il toponimo potrebbe rimandare a detta tradizione. Non è da escludere però che lo stesso fosse così denominato perché la sua conformazione potrebbe vagamente richiamare la proboscide di un elefante[2].

Per quanto riguarda la “Punta della Volta”, tale toponimo si riferisce alla punta del promontorio di fronte all’isola Fiorlita e non alla stessa, come vorrebbe G. Battista Rampoldi. Così come probabilmente si sbaglia nel sostenere che il promontorio è “ugualmente chiamato della Volta”. A parte il suo testo da nessuna altra parte infatti si rinviene tale nome. Verosimilmente tale denominazione deriva dal fatto che i cavallari che controllavano la costa per prevenire incursioni dei Turchi, giunti all’altezza di questo sperone di scogliera “voltavano”, ossia invertivano il loro percorso. E’ quanto sembra potersi dedurre da alcuni atti notarili del maggio 1678 dai quali risulta che dall’Isola di “Pazze” e fino “alle Tre Fontane” (od. Fontanelle) il controllo della costa era demandato a cavallari di Ugento e che dalle “Tre Fontane” a “Pietra Lagna” il controllo era di spettanza dei cavallari di Presicce. E’ altresì precisato che i “posti” guardati dai cavallari di Ugento erano denominati Nervio e Pazze, mentre quelli di Torre Mozza, guardati dai cavallari di Presicce, erano denominati “della punta della vota[3], fiume grande, Petralagna”.

Tornando all’isola Fiorlita, essa indubbiamente corrisponde all’odierna Giurlita detta anche “Isola della Fanciulla[4] per via di una leggenda che Salvatore Zecca riporta nel suo Portus uxentinus vel salentinus.

Secondo questa leggenda “in tempi remoti” alcuni pescatori doppiando l’isolotto videro “arenato un corpo esanime di fanciulla, avvolta in una tunica bianca” indumento che, assieme ad altri indizi, indusse a ritenerla greca. Dai crostacei annidati nella sua veste si dedusse che il corpo era da molto tempo in mare, ma ciononostante “il suo volto era fresco e sorridente”. I pescatori la portarono a terra e poiché non dava segni di decomposizione, “la esposero all’altrui sguardo, adorandola come una Deità: poi la riportarono nei pressi dell’isola e ve la ancorarono su quei fondali”. In seguito diversi pescatori giurarono che “in qualche notte buia e tempestosa, nel doppiare il pericoloso isolotto, più di una volta avevano notato una tunica bianca garrire al vento, a monito del pericolo cui si andava incontro[5].

La stessa leggenda, con qualche lieve variante, viene riportata anche da Sofia Nicolazzo. Ella riferisce che in una notte del 1800 (!?) i pescatori della marina di Ugento, nel ritirare le loro reti videro galleggiare sull’acqua, illuminato dalla fioca luce delle loro lampade, il corpo di una fanciulla. Addosso “aveva un abito greco, conchiglie attaccate alla sua gonna ed ai suoi calzari dorati: erano documenti inconfondibili del lungo sostare nel fondo marino. Nella spalla sinistra uno squarcio nell’abito con un alone di sangue…”. Credettero che fosse una santa e portatala a terra la adagiarono in un’urna di cristallo e quando uscivano al largo per il loro lavoro si raccomandavano a lei. Nelle notti tempestose vedevano la fanciulla che indicava loro il cammino e ne udivano la voce che, accompagnata dal sibilo del vento, reclamava la restituzione del suo corpo. Fu così che “in un giorno calmo e sereno, i pescatori raccolsero tutti i fiori delle contrade, e adagiata sulla barca la cassa, la coprirono con questa coltre profumata”. I pescatori della barca con la salma a bordo, accompagnati da altre barche a loro volta piene di fiori, giunti sul posto dove il corpo della fanciulla era stato rinvenuto, calarono in mare la cassa di cristallo: “In un primo momento l’urna galleggiò in quell’onda fiorita: poi lentamente sprofondò[6].

Probabilmente deriva da questo particolare rito funebre che deriva la denominazione di Isola Fiorlita: il suo significato è infatti “ isola cosparsa di fiori” (dal lat. flos –is = fiore, e litum da lino, livi, litum, ere = stendere, cospargere).

 

 

[1] In una carta topografica realizzata presso la stamperia di Michele Luigi Mutio (Torino 1665 ca – 1722) sono invece rispettivamente denominati “Scoglio di Bare” e “Fiorlita”, sottinentendosi isola,

[2] Tale scoglio non è oggi più visibile per essere stato sommerso dall’acqua. Di contro sono numerosi i locali e ed i complessi turistici della zona denominati “Scoglio di Pirro”.

[3] Nel dialetto ugentino la stessa era definita “Punta della Ota”, da “utare” o “otare” = girare. (Cfr. S. ZECCA, Portus Uxentinus vel salentinus, Editrice Mariano, Galatina 1963, p. 39.

[4]Proprio come l’isoletta che sta di fronte alla marina di Torre Pali e la cui denominazione a sua volta deriva da una leggenda risalente al 1547.

[5] S. ZECCA, Portus uxentinus vel salentinus, cit. pp. 62-63.

[6] S. NICOLAZZO, Ausentum nell’Ausonia . Favolette-Leggende-Bibliografie, Tip. Marra, Ugento 1978, pp. 102-103.

Libri| Gli stemmi civici di Ugento

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di Mario Cazzato*

Nell’analizzare storicamente la vicenda dello stemma di Ugento, dall’origine ai nostri giorni, Luciano Antonazzo, credo per la prima volta nell’ambito di questo tipo di studi che riguardano, in fondo, l’identità civica di una comunità, affronta l’irrisolto problema dell’origine storica, e non favolosa, degli stemmi civici. Prima di procedere oltre facciamo nostra l’osservazione, fondatissima, dello stesso Antonazzo, per il quale l’adozione di uno stemma per Ugento risale al periodo rinascimentale, anche se é solo dal primo decennio del ‘700 che possiamo verificarne le prime attestazioni.

Ulteriore merito di questo studio è l’aver individuato in un letterato rinascimentale del luogo, il poeta Antonino Lenio, il possibile autore dello stemma civico ugentino che, come documenta Antonazzo, era costituito da una figura (corpo) esprimente due basilischi affrontati e da un motto (anima), che recitava “Hoc signum dedit Hermes”.

L’humus culturale di siffatta costruzione che prende il nome di Impresa si inserisce pienamente nella riscoperta rinascimentale, come sottolinea l’Autore, dell’antico Egitto, che dal punto di vista simbolico ebbe vasta diffusione grazie agli agli “Hieroglyphica” di Valeriano che nella prima metà del ‘500 inaugurarono una vera e propria moda, costituendo un vero e proprio mito.

Che l’eco di queste raffinate ricostruzioni umanistiche abbia avuto un riflesso anche nell’estremo Salento è un fatto estremamente significativo. Ma non ci deve meravigliare tutto questo perché una delle opere più importanti, e tra le prime pubblicate, è “Il Rota overo dell’Imprese”, composta a Lecce dal leccese Scipione Ammirato e pubblicata a Napoli nel 1562.

Quella dello stemma ugentino non è una storia lineare perché l’antico stemma di Ugento non è rimasto immutato nel corso del tempo. Come potrete leggere, fu integrato nel XIX secolo con un fonte tra i due basilischi, così come rappresentato in uno stemma in pietra, facente parte della collezione Colosso, e ritenuto l’autentico stemma della città. Quest’arma venne a sua volta sostituita ai primi del ‘900 con quella raffigurante Ercole come era raffigurato sulle monete della zecca ugentina e lo stesso mitologico eroe è infine stato schematicamente raffigurato nell’attuale stemma cittadino.

Il lettore potrà seguire questo iter attreverso i secoli con le dotte osservazioni dell’Autore che, facendo finalmente chiarezza sul tema, travalicano il mero interesse localistico. Per questo dobbiamo esser grati ancora una volta a Luciano Antonazzo che da oltre un decennio ricostruisce alcuni tra gli aspetti più interessanti della civiltà ugentina.

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* Segretario della Società Storica di Terra d’Otranto

Il delfino e la mezzaluna. Numero doppio per i suoi estimatori

delfino e la mezzaluna

E’ pronto il doppio numero de “Il delfino e la mezzaluna”, ovvero gli studi della Fondazione Terra d’Otranto, diretto da Pier Paolo Tarsi.

Giunto al quarto anno, questa edizione si sviluppa in 314 pagine, per recuperare l’anno di ritardo, sempre in formato A/4, copertina a colori, fotocomposto e impaginato dalla Tipografia Biesse – Nardò, stampa: Press UP, con tematiche di vario genere inerenti le provincie di Lecce, Brindisi e Taranto.

Tanti gli Autori che ancora una volta hanno voluto offrire propri contributi inediti, e meritano tutti di essere elencati secondo l’ordine con cui appaiono nel volume, con il relativo saggio proposto:

Pier Paolo Tarsi, Editoriale

Angelo Diofano, Il fantastico mondo degli ipogei nel centro storico di Taranto

Sabrina Landriscina, La chiesa di Santa Maria d’Aurìo nel territorio di Lecce

Domenico Salamino, Prima della Cattedrale normanna, la chiesa ritrovata la città di Taranto altomedievale

Vanni Greco, Il “debito” di Dante Alighieri verso il dialetto salentino

Francesco G. Giannachi, Un relitto semantico del verbo greco-salentino Ivò jènome (γίνομαι)

Antonietta Orrico, Il Canticum Beatae Mariae Virginis di Antonio De Ferrariis Galateo, una possibile traduzione

Giovanni Boraccesi, Il Christus passus della patena di Laterza e la sua derivazione

Marcello Semeraro, Propaganda politica per immagini. Il caso dello stemma carolino di Porta Napoli a Lecce

Marino Caringella – Stefano Tanisi, Una santa Teresa di Ippolito Borghese nella chiesa delle Carmelitane Scalze di Lecce

Ugo Di Furia, Francesco Giordano pittore fra Campania, Puglia e Basilicata

Domenico L. Giacovelli, Nel dì della sua festa sempre mundo durante et in perpetuum. Il patronato della Regina del Rosario in un lembo di Terra d’Otranto

Stefano Tanisi, Il dipinto della Madonna del Rosario e santi di Santolo Cirillo (1689-1755) nella chiesa matrice di Montesardo. Storia di una nobile committenza

Armando Polito, Ovidio, Piramo e Tisbe e i gelsi dell’Incoronata a Nardò

Alessio Palumbo, Aradeo, moti risorgimentali e lotte comunali: dal Quarantotto al Plebiscito

Marcello Gaballo – Armando Polito, Dizionarietto etimologico salentino sulle malattie e stati parafisiologici della pelle, con alcune indicazioni terapeutiche presso il popolo di Nardò

Marco Carratta, Il mutualismo classico in Terra d’Otranto attraverso gli statuti delle Società Operaie (1861-1904)

Gianni Ferraris, Il Salento e la Lotta di liberazione

Gianfranco Mele, Il Papaver somniferum e la Papagna: usi magici/medicamentosi e rituali correlati dall’antichità al 1900. Dal mito di Demetra alle guaritrici del mondo contadino pugliese

Bruno Vaglio, Alle rupi di San Mauro una nuova stazione “lazzaro” di spina pollice. Considerazioni di ecologia vegetale dal punto di vista di un giardiniere del paesaggio

Riccardo Carrozzini, Il mio Eco

Pier Paolo Tarsi, L’antropologia linguistica della memoria narrata: uno sguardo filosofico all’opera di Giulietta Livraghi Verdesca Zain e Nino Pensabene

Arianna Greco, Arianna Greco e la sua arte enoica. Quando è il vino a parlare

Gianluca Fedele, Gli ulivi, la musica e i volti: intervista a Paola Rizzo

Epigraphica in Terra d’Otranto. L’epigrafe agostiniana nella chiesa dell’Incoronata di Nardò (Massimo Cala). L’epigrafe di Morciano di Leuca in via Ippolitis al civico n.6 (Armando Polito)

Segnalazioni. Il fonte di Raimondo del Balzo ad Ugento (Luciano Antonazzo). La Madonna col Bambino e sant’Anna di Gian Domenico Catalano (1560 ca. – 1627 ca.) in Ugento (Stefano Tanisi). Il pittore Aniello Letizia e le sue prime opere di committenza confraternale nella Gallipoli del ‘700 (Luciano Antonazzo – Antonio Faita). Le origini dell’oratorio confraternale di santa Maria degli Angeli, già sotto il titolo di santa Maria di Carpignano (Antonio Faita).

La foto di copertina è di Ivan Lazzari, ma numerose anche le immagini proposte all’interno, gentilmente  offerte da Stefano Crety, Khalil Forssane,  Vincenzo Gaballo, Walter Macorano, Raffaele Puce.

 

Gli interessati potranno chiederlo previo contributo di Euro 20,00 da versarsi a Fondazione Terra d’Otranto tramite bollettino di Conto corrente postale n° 1003008339 o bonifico tramite Poste Italiane IBAN: IT30G0760116000001003008339 (indicare il recapito presso cui ricevere  la copia).

Per ulteriori informazioni scrivere a: fondazionetdo@gmail.com

A proposito dei libri del conte di Ugento Angilberto del Balzo

di Luciano Antonazzo

Alcune considerazioni su un sonetto del quale il prof. Polito ha scritto in due suoi articoli, postati su questo sito nel gennaio 2014, col titolo “Su alcuni libri del primo duca di Nardò e una misteriosa poesia ”:

Su alcuni libri del primo duca di Nardò e una misteriosa poesia (1/2)

Su alcuni libri del primo duca di Nardò e una misteriosa poesia (2/2)

Tale poesia, come egli ci riferisce, si trova scritta su una pagina bianca dei Trionfi del Petrarca, libro posseduto da Angilberto del Balzo, conte di Ugento e primo duca di Nardò, e custodito assieme ad altri appartenuti allo stesso del Balzo, nella Bibiloteca Nazionale di Parigi. Tali volumi, assieme ad altre carte, compreso un inventario, riferiscono gli studiosi che furono confiscati dagli Aragonesi al conte dopo la sua condanna per la partecipazione alla congiura dei baroni del 1484 -6.

Il suo testo originale, con a fianco la trascrizione del professore (mutuati dal suo post) è il seguente:

duca

Egli ne fa una colta disamina concludendo che è pressoché impossibile risalire al suo autore ed al contesto in cui venne scritta. Alla nota 12 della seconda parte avanza anche l’ipotesi che la poesia, qualora per alcuni versi facesse rimando al Tasso (1544 – 95) potrebbe essere stata scritta qualche decennio dopo la morte del duca, ed è questo passaggio che mi ha portato a riflettere ed a cercare di risalire a chi potrebbe esserne stato l’autore ed al motivo che lo portò a scriverla.

Per quanto sia obiettivamente ardua l’impresa provo senza preunzione a sciogliere il dilemma, comiciando col dire che a mio avviso la sesta parola del primo verso della terza strofa, anziché firmi, come ritiene il professore, debba leggersi fiumi, così come imineo del penultimo verso non stia ad indicare il canto nuziale, ma corrisponda al nome proprio del dio delle nozze, Imeneo.

Per venire al possibile autore ho congetturato che il manoscritto potesse esser passato per le mani del poeta Antonino Lenio che visse alla corte del conte di Ugento Francesco del Balzo e del quale ho parlato in un articolo postato in questa sede nel settembre del 2015 dal titolo “Un’intrigante ipotesi sul poeta Antonino Lenio alla corte del conte di Ugento

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/09/29/unintrigante-ipotesi-sul-poeta-antonino-lenio-alla-corte-del-duca-di-ugento/.

Mi rendo conto che l’ipotesi avanzata è anacronistica in quanto la biblioteca di Angilberto del Balzo (almeno in parte), stando a quanto asseriscono gli studiosi, risulta essere stata portata in Francia verso il 1495, mentre il Lenio risulta essere giunto alla corte di Ugento attorno ai primi anni del ‘500; tuttavia ritengo valga la pena prospettarla.

Come ho già detto nella precedente occasione, il poeta per allietare le giornate della sua padrona, Antonia del Balzo, figlia del conte e della sua prima moglie, Brigida Carafa, scrisse un poema epico-cavalleresco, di ben 1.900 ottave, pubblicato a venezia nel 1531 col titolo “ORONTE GIGANTE[1], pubblicato quasi integralmente a cura del compianto Mario Marti con una dottissima esegesi e un chiarissimo commento[2].

Ed è proprio in quest’opera che ho provato a cercare eventuali corrispondenze coi versi della poesia.

Non ho trovato granché ma solo alcuni rimandi, che comunque potrebbero forse avere una valenza probatoria significativa.

Il “primo motore” del primo verso della poesia trova una corrispondenza nel “Gran Motore” che ritroviamo in Oronte III, I, 391 e III, II, 688 (Gran Motor).

La qualifica di “lucido” attribuita ad Apollo nel secondo verso la si rinviene nel lib. I, canto XVI, v. 354 (Apollo lucido e nitente).

Il pronome “Collei”, incipit della terza strofa, lo si ritrova all’inizio del verso 418 del sesto canto del primo libro (“collei per chi mai simil passione”), mentre l’intera strofa ha un’eco nella descrizione di Virginia Carafa, seconda moglie del conte (I,VI, 500-512) e di Antonia del Balzo (vv. 580 -84).

A Nettuno che gli chiede conto del ritardo il fiume Sebeto risponde:

Inclito Sire,

io son tardato, e contra el mio pensiero,

né per mia colpa, anzi de dui bei lumi,

ch’hanno in sé la forza de fermar i fiumi.

 

Sebetide virginea, andando a spasso

Per le mie rive, a canto la marina,

per saper ch’era, fermai alquant’el passo;

ma lei, che gl’occhi verso me declina,

al primo sguardo me conver’in sasso;

ma udendo la parola sua divina,

mirando el fronte e quel eburneo dente,

me versò un’altra volta in rio corrente.

E proseguendo Sebeto aggiunge che si era attardato anche perché sulla riva del mare, “nel lito ogentino” (v. 536) aveva visto passeggiare Antonia che così descrive:

Questè quel bel lume

qual io, signor, per sort’ebbi a vedere

in mezzo de sue ninfe, quale Teti,

ch’al mirar sol,  fa i venti mansüeti”.

Per quanto concerne lo spagnolismo “y” dello stesso nell’intero poema non se ne trova traccia, mentre in tutta l’opera al posto dell’articolo “il” si trova immancabilmente lo spagnolo “el”.

Per quanto attiene invece la parola “ponti” del primo verso della quarta strofa, la stessa potrebbe giustificarsi in quanto fa rima col “monti” del secondo verso della strofa precedente; seppur col significato di “punte” in Oronte (II, II, 167 -178) troviamo “ e fur sì mutue l’amorose ponte / che generaro me su questo monte”.

Infine “imineo” nel poema si rinviene quattro volte: III, IV, 132 – III, V, 250 (Imeneo);

I, II, 236 – I, VI, 373 (Imeno).

Prima di passare all’analisi della poesia occorre precisare che dedicataria del poema Oronte fu la stessa Antonia, che ne fu anche l’ispiratrice. Il poeta in verità come sua musa invoca una metafisica Gesia ma questa non è altro che l’ipostasi di Antonia della quale decanta innumerevoli volte la bellezza e la progenie. Ma quello che qui più interessa è che il poeta in numerosi passi dell’opera, ed in almeno sei dei quarantacinque epigrammi in latino che chiudono il volume, dichiara il suo amore (non corrisposto) per la sua padrona[3].Valga ad esempio l’incipit del quarto epigramma:

O Gesia, perché, sottraendoti, fai disperare il tuo infelice innamorato?”.

Per venire al contesto della poesia, l’astro splendente più di Apollo mandato da Dio sulla terra potrebbe essere identificato in Antonia della quale nel poema (I, III, 25-28) il Lenio dice:

ma che novel sol è quel ch’appare

che gli occhi abbaglia per soperchia luce?

certo Gesia serà, che non ha pare;

altro lume del ciel tanto non luce”.

La seconda parte della prima strofa, in particolare l’espressione “gran disastro di lume”, potrebbe invece alludere alla condizione di Roma e della Chiesa dopo il saccheggio da parte dei Lanzichenecchi (1527)? Quel tragico evento il poeta nell’Oronte (I, VI, 125-28) così descrive:

Portò [Roma] corona et or porta la benda,

come propria cagion del proprio male;

giace ferita de le sue sagette,

talch’a sacco le dier Lanzechenette”.

Aggiungendo (II, IV, 1-8):

De Giov’è il tempio, e non tocco da foco,

quando dà Greci Troia fu brusata,

ché se rispetta ogni sacro loco;

Né fu sì mal, com’ora Roma, trattata,

che violar li tempi è stato un gioco

e li clerici andar per fil de spata,

commetter tutti esorbitanti mali,

tener prigioni e papa e cardinali”.

E concludendo (III, IV, 15-16):

burdell’e beccaria fatto han de Roma,

talché squarciato n’ha el petto e la chioma”.

Passando alla parte finale della poesia ritengo che questa debba intedersi: Ma giusto è che s’adonti [Antonia] –perché quell’ingrato e rigido Imeneo – per sposa a un fauno (la dia) prego Deo.

Mi rendo conto che questa lettura appare un controsenso, ma tale non è perché il fauno è da identificarsi con lo stesso Lenio. Che egli non fosse un Adone ma alquanto sgraziato nella figura lo testimonia un “amabile e sorridente epigramma per lui composto ed a lui dedicato dall’amico Giano Anisio, una sapida puntasecca: «Si quis te aspiciat, Leni, nil torvius, at si / inspiciat nil te lenius putet»”[4].

E deve essere stata questa sua figura sgraziata che, costituendo per lui un ostacolo per convolare a nozze, lo porta a definire Imeneo “ingiusto e rigido”.

E la sua preghiera non è rivolta a Dio, ma a Deo, vale a dire Cerere[5], la cui bellissima figlia Proserpina fu rapita da Plutone per farne la sua sposa; e Plutone, come dio degli inferi, sappiamo che non era certo un modello di bellezza.

Le preghiere del Lenio non furono ascoltate e la bella Antonia, per interessamento di Ferrante Gonzaga, duca di Mantova, andò in sposa ad Ambrogio Branciforte, marchese di Licodia e (dal 1563) Principe di Butera, nel messinese. E forse a questo matrimoni, con conseguente partenza di Antonia per la Sicilia, fa riferimento il XIII epigramma:

Tu te ne parti, e io muoio; né è strano: di questo petto – tu sola sei l’anima, o Gesia, senza la quale il corpo è un cadavere”.

Concludento: se l’ipotizzata identificazione tra l’autore della poesia ed Antonino Lenio trovasse conferma, ne conseguirebbe che la confisca della biblioteca di Angilberto del Balzo ( o di una sua residuale parte) potrebbe essere avvenuta in seguito al “tradimento” del conte Francesco del Balzo che nel 1527 si schierò col Lautrec.

 

[1] Col sottotitolo:“ DE LEXIMIO POETA ANTONINO LENIO SALENTINO continente le Battaglie del Re de Persia et del Re de Scythia fatte per Amor de la figliola del Re di Troia. Capitani de Perse Rinaldo, et de Scythe Orlando cose belle et nove. Con additione de le battaglie per Amor de la Figlia del Re Pancreto in Nabatea. Et certe epigramme Amorose”.

[2] M. Marti, “ Oronte gigante (e Bradamante gelosa di S. Tarentino)”, Ed. Milella, Lecce 1985.

[3] Il poeta, stando alla ricostruzioe del prof. Marti (Oronte …, cit., p. 15) dovrebbe esser nato tra il 1470 ed il 1475, mentre Antonia dovrebbe esser nata poco dopo il matrimonio dei genitori avvenuto verso il 1501.

[4] M. Marti, Oronte …, cit. P. 35. (Trad: Se qualcuno ti guardas esteriormente, o Lenio, niente di più torvo (di terribile aspetto), ma se ti guarda introspettivamente, niente stima più mite (gentile) di te”.

[5] Detta in greco Demetra ma anche “Deo“ dal verbo Dèo (io trovo) in riferimento ai viaggi da lei fatti in cerca della figlia Proserpina.

Un’intrigante ipotesi sul poeta Antonino Lenio, alla corte del conte di Ugento

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di Luciano Antonazzo

 

Francesco del Balzo fu l’ultimo della  celebre famiglia di origine francese a possedere la contea di Ugento.  Condusse  una vita tranquilla, mantenendo però sempre vivo nel suo animo il proposito di vendetta per la tragica fine del padre Angilberto,  giustiziato nel 1491 dagli spagnoli come fautore della cosidetta “Congiura dei Baroni”. L’occasione gli si presentò nel 1527 quando scese in Italia il Lautrec, luogotenente del re di Francia Francesco I. Non esitò a schierarsi al suo fianco, ma dopo i successi iniziali l’esito della guerra arrise agli spagnoli e a Francesco non rimase che l’esilio. Riparò a Ragusa in Dalmazia dove si fermò per due anni. Esaurite le sue finanze rientrò in Italia , a Roma, dove si mise sotto la protezione del cardinale Trivulzio  ricevendo per proprio sostentamento, e quello di due servi, appena due baiuli al giorno.

Ad accompagnare Francesco del Balzo nel suo esilio a Ragusa e a Roma c’era il poeta Antonino Lenio che viveva alla corte ugentina  dove, per compiacere ed allietare le giornate della figlia del conte, Antonia, diede inizio alla composizione di un poema epico-cavalleresco di ben 1900 ottave, vale a dire 15.200 versi, che fu stampato in Venezia nel 1531 col titolo “ORONTE GIGANTEe col sottotiolo “ DE LEXIMIO POETA ANTONINO LENIO SALENTINO continente le Battaglie del Re de Persia et del Re de Scythia fatte per Amor de la figliola del Re di Troia. Capitani de Perse Rinaldo, et de Scythe Orlando cose belle et nove. Con additione de le battaglie per Amor de la Figlia del Re Pancreto in Nabatea. Et certe epigramme Amorose”.

Il poema sarebbe rimasto sconosciuto se non vi si fosse imbattuto Benedetto Croce nelle sue esplorazioni della cultura napoletana. Sotto l’aspetto letterario ne diede un giudizio drasticamente negativo, ma lo definì “il più importante contributo dell’Italia meridionale alla letteratura cavalleresca del tempo”. E’ indubbio comunque che sotto l’aspetto storico-culturale il poema ha una significativa valenza, come ha evidenziato il prof. Mario Marti che meritoriamente lo ha pubblicato quasi integralmente nel 1985[1], offrendo ai lettori, con una anlisi approfondita, la possibilità di apprezzarne anche “l’ibridismo linguistico” rappresentato dall’uso di grecismi,  latinismi e lemmi dialettali.

L’incipit dell’opera è costituito dalla dedica “DIVAE ANTONIAE BAUTIAE”,  “donna angelica e divina-che passeggiava nel lito ogentino – de chi lo padre tiene la signorìa” (libro I, canto VI, vv. 356-58),  versi che attestano inconfutabilmente che quantomeno il primo libro del poema fu composto in Ugento. Rimane invece  dubbia la patria dell’autore. Egli si dice “salentino” senza precisare il suo luogo d’origine, ma per Giovanni Bernardino Tafuri sarebbe nato a Parabita, altro feudo appartenente a Francesco del Balzo.

Qualche notizia sulla sua attività poetica, e sulla sua solida formazione letteraria il Lenio la dà incidentalmente nel poema stesso, dove non manca di elogiare i grandi letterati e filosofi del tempo (suoi docenti o suoi amici) dedicatari di alcuni dei suoi 45 distici in latino formanti gli “Epigrammata” che chiudono l’opera .

Altro di lui non ci è dato sapere ma forse é sopravvissuta una testimonianza della sua presenza in Ugento.

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Al piano superiore dell’ex convento dei Minori Osservantisi, oggi sede del Museo Civico, si trova una cella che si affaccia sul cortile, sulle cui pareti laterali vi sono dei disegni elementari. Vi sono raffigurate delle scene intervallate da uccelli su una sfera poggiata su una base pseudo – trapezoidale. Tali scene con figure maschili e femminili, più o meno vestite, rappresentano dei duelli e degli amplessi; sulla parete laterale destra dell’ingresso vi sono raffigurate anche alcune strutture architettoniche mentre sulla parete di fronte vi è la raffigurazione del peccato originale e un inusuale fonte della vita. Come si desume dagli abiti dei personaggi e soprattutto dalla forma triangolare del pettorale delle dame i dipinti delle pareti laterali soo databili al XVI secolo e nel complesso sembrano rimandare ad un qualche poema epico – cavalleresco.

La loro realizzazione, soprattutto per la presenza di scene di sesso, certamente non è ascrivibile al frate che vi dimorava; di contro è più verosimile la loro attribuzione a qualcuno che avesse dimestichezza con la letteratura dell’epoca.

E se si trattasse proprio di Antonino Lenio? L’intrigante ipotesi abbisognerebbe della dimostrazione che egli dimorasse nel convento e questa circostanza sembra avvalorata  da una ottava nella quale ironizza sul comportamento dei frati.

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Nel libro I, canto XVI, ai versi 225- 232, il poeta parla di un sacrificio di “mille bovi” alla dea Minerva Iliade, e sottolinea come  la carne andava a finire ai “sacerdoti” in modo di farli “in gaudemus stare”, cioè “viver da gaudenti”; chiude quindi l’ottava dicendo con malizia “come ancor oggi i frati soglion fare”. Che questa chiusa fosse rivolta ai frati del nostro convento lo esplicita l’ottava seguente (versi 233-40) nella quale dice:

 

Quando la mia Signora del buon vino

e pan bianco gli manda e bei cappon

cantan devoti l’ufficio divino

con tanti pater nostri et orazioni

cogl’occhi bassi e co’ lo capo chino

reputando noi altri da babioni,

ridono in ciambra che ben chiaman cela

che li secreti loro asconde e cela.

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Il tratteggiare in questo modo il comportamento che i frati tenevano in privato a nostro avviso discende da una conoscenza diretta, e dall’interno del convento, che l’autore doveva  avere.

Ad avvalorare ulteriormente questa ipotesi potrebbero essere anche alcuni elementi disegnati sulle pareti laterali.

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Come detto vi sono dipinti diversi uccelli e questi potrebbero avere attinenza col fatto che il poeta narra di aver sognato di essere diventato uno storno (v. libro I, canto X, vv.296 – 7) e di aver stretto amicizia con una rondinella, l’unica tra gli altri volatili incontrati (tra cui uno smerlo) a parlare l’idioma umano (v. libro I, canto X , vv. 320 -21; 345-48).

Anche le strutture architettoniche potrebbero rinviare ad alcuni degli edifici degli dei che egli particolareggiatamente descrive (v. libro I, canto III, vv. 32-36; libro I, canto XI, vv. 1-8) .

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Resta da capire se i superiori del convento tollerarono o non si avvidero affatto delle rappresentazioni osées sulle pareti. Riteniamo plausibile la seconda ipotesi, perché altrimenti le avrebbero di certo cancellate. In effetti al padre guardiano del convento era precluso entrare nella cella di un ospite e quand’anche, in sua assenza,  avesse voluto controllare se in quella  fosse tutto in ordine poteva farlo solo sbirciando attraverso una finestrella della porta chiusa; ma dallo spioncino poteva avere solo una visuale ridotta che  gli impediva di vedere i dipinti delle pareti laterali; di contro sulla parete di fronte vedeva chiaramente la raffigurazione del peccato originale e del fonte della vita, rappresentazioni che verosimilmente lo inducevano a credere che il resto dei dipinti fosse dello stesso tenore. Solo quando il poeta seguì il conte nel suo esilio i frati ebbero contezza di quello che i dipinti rappresentavano e , per nostra fortuna, si limitarono a ricoprirli con uno strato di calce che li ha preservati fino alla loro riscoperta.

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[1] M. MARTI (a cura), Oronte gigante (e Bradamante gelosa di S. Tarentino), Milella Ed. Lecce 1985.

 

 

La tela delle Anime Sante nella chiesa madre di Tricase

Tricase

di Luciano Antonazzo

Il dipinto delle Anime Sante che nella chiesa matrice di Tricase adorna l’omonima cappella, di ex patronato della Confraternita dei morti, apparteneva alle monache Benedettine di Ugento. Fu da queste venduto nel 1796 a don Pasquale Piri (procuratore  della stessa confraternita) in seguito alla ricostruzione della loro chiesa (ultimata nel 1793)  intitolata, come il monastero, alla Visitazione della Vergine.

Dai documenti  pervenutici risulta che nell’antica chiesa, tra gli altri, oltre l’altare intitolato alla Visitazione e quello dedicato al fondatore dell’Ordine, vi erano le cappelle  della Madonna di Costantinopoli e quella di s. Anna,  erette entrambe (coi relativi benefici) a cavallo dei secoli XVI e XVII, da Donna Anna Fernandez Pandone, nipote del conte di Ugento, Vincenzo[1], e quella della Madonna del Carmine, fondata nella prima metà del ‘600 da Donna Maria Vaaz de Andrada[2].

Nella rinnovata chiesa di fine ‘700 furono riedificati gli altari della Visitazione, di s. Benedetto e della Madonna del Carmine ed eretto quello della Madonna delle  Vittorie. Per decorarli furono commissionate nuove tele, alcune delle quali furono realizzate dal pittore Onofrio Messina[3]. Quella del Carmine, firmata e datata 1793[4] andò a sostituire  quella originaria che adornava l’antico altare eretto da Donna Maria Vaaz de Andrada.

Quest’ultimo dipinto si era portati a credere che  fosse quello che le Benedettine vendettero alla   Confraternita dei morti di Tricase, mentre, dato che non se ne trovava traccia, si riteneva fosse andato perso il dipinto dell’altare della Madonna di Costatinopoli dell’antica cappella eretta da Donna Anna Fernandez Pandone.

Sembre invece che il dipinto delle Anime Sante di Tricase fosse proprio quello della Madonna di Costantinopoli e che solo successivamente lo stesso fosse stato sottoposto a un rifacimento della parte inferiore, con l’aggiunta delle anime purganti, che lo ha commutato nella raffigurazione della Madonna del Carmine.

Nella tela, recentemente restaurata senza che venisse alla luce alcuna data o firma, è raffigurata la Vergine assisa su un trono di  nubi che con la mano destra stringe la mammella corrispondente dalla quale sprizzano gocce di latte. Sul suo ginocchio sinistro è in piedi il Bambino nudo, con una folta chioma di capelli ricci e biondi, come quelle delle teste alate dei putti che contornano la Madre. La sua mano destra è in atto benedicente, mentre la sinistra regge il globo imperiale.

Nella parte superiore sono effigiati due angeli in atto di posare sul capo della Madonna una corona  con  incastonate delle pietre preziose, mentre in basso sono raffigurati altri due angeli che tendono la mano alle anime purganti sottostanti, rappresentate in primo piano da quattro figure femminili ed un ragazzino, nonché da un quinto volto, sempre femminile, in secondo piano. Al cantone inferiore sinistro del quadro (visto di fronte) si osserva la figura del presunto committente, che si accompagna ad una bastone, con lo sguardo rivolto verso la Madonna e l’indice destro proteso ad indicarla.

Manca nel quadro un elemento classico della rappresentazione della Madonna del Carmine, vale a dire lo scapolare (o abitino) che di norma la Vergine ed il Figlio porgono alle anime sottostanti; al suo posto il Bambino sorregge invece, come detto, il globo imperiale, di solito presente nell’iconografia della Madonna di Costantinopoli.

L’analisi della parte inferiore del dipinto denota una  tecnica ed una cromia diverse rispetto a quelle della parte superiore, come ha evidenziato anche Giuseppe Maria Costantini che ha ne curato il recente restauro.  Egli data la tela al XVII secolo, pur non escludendo la sua risalenza al XVI secolo, e nella relazione finale scrive che la parte superiore è di “buona fattura”, mentre “la fascia inferiore con anime purganti, appare meno accurata e felice rispetto al testo seicentesco, nonché di mano e tempi realizzativi eterogenei”[5].

La pulitura della tela ha evidenziato  che il presunto committente indossa l’abito della Confraternita dei morti, come si evince dal simbolo sodale sulla manica destra raffigurante  il teschio e le due tibie incrociate.  Verosimilmente si tratta del priore, come si evince dal bastone[6], mentre le teste maschili che lo attorniano (nonchè quelle all’altezza della cornice inferiore) sproporzionate e sgraziate, probabilmente raffigurano dei suoi confratelli. Se così è ne deriva che tali figure  non possono che essere state dipinte dopo l’acquisto della tela nel 1796.

Anteriore alla raffigurazione del priore e dei confratelli, ma posteriore alla rappresentazione della Vergine col Bambino e degli angeli, è invece la raffigurazione delle donne e del bambino che fungono da anime purganti. Lo si desume da  quanto riportato nel fascicolo di un processetto del 1670 istruito per l’attribuzione dello ius patronatus del beneficio della Madonna di Costantinopoli, fondato da donna Anna Pandone in contemporanea con l’erezione dell’altare sotto lo stesso titolo[7].

Donna Anna, figlia di Carlo, rivestì ininterrottamente per un decennio la carica di badessa prima che mons. Guerrerio nel 1602 le facesse subentrare una consorella,[8] ed è documentato che assieme a lei, almeno dal 1598, dimoravano nel monastero le sorelle Massimilla, Geronima, Costanza e Beatrice[9]. Nel 1603 il fratello Pietro Antonio, UID in Napoli ed erede universale del padre Carlo, mediante procura a Ferdinando Pandone jr., figlio del conte di Ugento, assegnò loro il censo di dieci ducati annui dovuto al suo defunto padre da Marcello de Letteris e Francesco Antonio Rovito, di Ugento, per il capitale di 100 ducati. Stabilì in detta donazione anche che alla morte di una di loro dovessero subentrare le sorelle superstiti e che alla morte di tutte e cinque i dieci ducati dovessero andare a chi si fosse preso cura della cappella della Madonna di Costantinopoli ed impiegarli in “ annuo introito in favore di detta cappella construtta in detto monasterio”[10].

Nel 1608 troviamo ancora come badessa Donna Anna ma tra i nomi delle consorelle elencati nel documento non ritroviamo più quello di sua sorella Beatrice[11]. Questa era evidentemente deceduta, come ci conferma un altro documento del 1615 (contenuto in detto processetto) e  dal quale risulta che  Donna Anna, il 3 marzo del 1610, aveva chiesto ed ottenuto da mons. Guerrerio che alla propria morte il ius patronatus passasse alle sole sorelle Massimilla, Geronima e Costanza e che alla morte di costoro lo stesso ricadesse al monastero[12].

Donna Anna morì probabilmente nel 1629, anno in cui la troviamo menzionata nei documenti per l’ultima volta, ancora nella veste di badessa[13], mentre l’ultima delle sue sorelle rese l’anima a Dio poco prima del 1649, anno in cui furono la badessa, donna Petronilla D’Urso, e le consorelle a  nominare, come cappellano del beneficio di S. Maria di Costantinopoli, l’arciprete di Salve don Tommaso Carluccio, vicario generale[14].

Da allora in poi, nella vacanza della cappellania, si ebbero diversi contenziosi circa la titolarità del ius patronatus del beneficio, tra cui quello che oppose le monache al marchese di Ugento Don Carlo Pandone e conclusosi nel 1653 in favore delle prime.

Ma fondamentale per il nostro assunto riguardo la ridipintura della tela con l’aggiunta delle figure muliebri è quanto riportato in una vertenza che si tenne nel 1711 e che vide contrapposte le monache al procuratore fiscale della Curia, che sosteneva non spettare al monastero alcun diritto in quanto da tempo, a suo dire, il beneficio e le rendite della sua dote erano state devolute alla Mensa vescovile. Il procuratore delle monache, don Mario Gigli, produsse documenti inoppugnabili  e chiamò a testimoniare su diversi articoli, alcuni anziani, laici ed ecclesiastici.

Nel quarto articolo, oltre a dimostrare che la cappella ed il beneficio erano stati fondati da Donna Anna e che il diritto di patronato era successivamente passato alle sue sorelle e quindi al monastero, il procuratore chiedeva conferma di quanto correva per pubblica voce, cioè che “nel quadro dell’altare di S. Maria di Costantinopoli, vi sino pittate tutte dette Signore Pandone”[15].

La conferma la forniva il  settantenne dottore fisico Michele Memmi il quale nella sua testimonianza dell’11 luglio affermava: “nel quadro di S. Maria di Costantinopoli, vi sono pittate alcune figure, che dicono essere le sorelle Bandone”.

Se dunque le sorelle Pandone furono immortalate nel dipinto della Madonna di Costantinopoli è impensabile che i loro volti potessero essere stati ritratti tra i fuggitivi della canonica casa (o città)  in fiamme di norma dipinta ai piedi della Vergine. Da qui l’idea di ridipingere la parte inferiore della tela e raffigurare le sorelle tra lingue di fuoco richiamanti l’originale edificio in fiamme. Fu in seguito a questo intervento che  venne snaturalizzata la rappresentazione originaria del dipinto e, data  l’impressione che si trattasse di una raffigurazione delle anime purganti, ciò che indusse la Confraternita di Tricase ad acquistare la tela per la propria cappella.

E’ impossibile stabilire l’epoca del ritocco del dipinto, ma il fatto che una delle sorelle fosse stata raffigurata in posizione più defilata potrebbe stare a significare che la stessa fosse già defunta. Si tratterebbe allora della rappresentazione di Beatrice[16] deceduta tra il 1603 ed il 1608, mentre i volti in primo piano riprodurrebbero i lineamenti reali del viso delle sorelle sopravvissutele[17]. Se così effettivamente fosse il ritocco del dipinto non dovrebbe essere avvenuto dopo il 1629, stante la presunta morte di Donna Anna in tale anno.

Ancora più arduo risulta risalire all’autore del ritocco del dipinto; un indizio però potrebbe essere rappresentato dal fatto che tra il 1616 ed il 1618 è documentata la realizzazione di alcuni quadri per il monastero ad opera del pittore di Nardò Donato Antonio d’Orlando, tra cui quello raffigurante s. Maria Maddalena e s. Francesca Romana, commissionatogli nel 1618 da Donna Massimilla Fernandez Pandone, sorella di Donna Anna[18].

S. Maria Maddalena e s. fracesca romana - 1618

 

[1] I conti di Ugento non discendevano direttamente dai Pandone conti di Venafro ma da tale Diego Fernandez (giovane spagnolo venuto in Italia al seguito di un non meglio precisato capitano)  che fu adottato dall’ultimo cavaliere della nobile famiglia Pandone.  Questi alla sua morte (sul finire del XV secolo) lasciò come suo erede il giovane adottato, il quale prese per proprio nome quello della sua famiglia, Fernandez, e per cognome  assunse quello dei Pandone. I suoi successori adottarono il doppio cognome Fernandez Pandone. (Cfr. B. ALDIMARI, Memorie historiche di diverse famiglie, così napoletane come forastiere , Napoli 1691, p. 114.

[2] Maria Vaaz de Andrada, verosimilmente primogenita di Michele, conte di Mola, barone di S. Donato e Signore di S. Michele Salentino, la troviamo ancora in vita nel 1657, nella veste di vicaria del monastero (v. ASLE, Sez, notai, 20/3, not. Marco Antonio Ferocino, protocollo del 17 marzo 1657, cc. 10r-12r).

Per quel che concerne l’erezione dell’altare della Madonna del Carmine in un atto di proprietà privata, del notaio Francesco Carida (di Morciano ma rogante in Ugento) del 16 agosto 1687, troviamo specificato che Donna Giovanna Bartirotti Piccolomini d’Aragona chiese ed ottenne di accrescere la dote della Cappella della Madonna del Carmine fondata nel monastero dalla defunta monaca Donna Maria Vaaz de Andrada “sua zia”.

[3] Pittore quasi del tutto sconosciuto la cui patria, Molfetta,  risulta da un suo quadro autografo raffigurante il vescovo di Ugento mons. Giuseppe  Corrado Pansini (1792 -1811). Nel dipinto  il vescovo  tiene fra le dita della mano sinistra un foglietto sul quale é scritto: Anno 1792Onofrio Messina da Molfetta». Il vescovo, anch’egli molfettese, ricorse verosimilmete al pittore per conoscenza diretta.Di questo pittore  abbiamo rinvenuto una nota biografica in cui si dice: «Egregio pittore che da maestro aveva lo studio. Molti quadri dello stesso sono in Roma onorati di plauso. E’ egli tra viventi; ma da molti anni è cieco». (Cfr. M. ROMANO, Storia di Molfetta – dall’epoca dell’antica Respa sino al 1840, parte sedonda, Napoli 1842, p. 88). [ da Google libri].

[4] Alla base del quadro  si legge: Onofrio Messina / Fece l’Anno 1793. Per lo stesso monastero il Messina realizzò anche il dipinto della presentazione di Gesù al tempio  alla cui base si legge: Onofrio Messina / copiò l’anno 1793.

[5] G.M.COSTANTINI, Tricase, Chiesa Matrice Natività B.M.V., Restauro Madonna Del Latte (olio su tela – ca. cm 240 x 160 –sec. XVII-), Consuntivo Tecnico-Documentario con Piano Manutenzione, pag.37 – 25/10/2013 (Depositato presso: MiBAC-SBSAE PUGLIA, Bari; PARROCCHIA NATIVITÀ B. M. V., Tricase; DIOCESI UGENTO – S.M. di LEUCA, Ugento).

[6] Un segno distintivo del capo della confraternita era il cosidetto “bastone del priore”

[7] Cfr. ASDU, Benefici – Ugento/18 (ben. Madonna di Costantinopoli – 1670). Nel fascicolo, con carte non numerate, la documentazione ultima è della fine del 1700.

[8] Cfr. ASDU, Visite ad limina (mons. P. Guerrerio 1603).

[9] Le cinque sorelle le troviamo menzionate precedentemente in un atto del 1598 (cfr. ASLe, Sez. notai, 96/1, notaio P.Orlando, protocollo del 14 luglio 15987, cc. 38v- 41v.

[10] ASLe, Sezione Notai, 78/1, not. N. Pici, protocollo del 3 febbraio 1603, cc. 11r-13v.

[11] ASLe, Sezione. Notai, 78/1, not. N. Pici, protocollo del 2 novembre 1608, cc. 75r-76r.

[12] ASDU, Benefici, Ugento/18, cit. In un atto del 1615 col quale le suore accettano la devoluzione del ius patronatus è detto che  Donna Anna aveva  eretto e dotate le due cappelle “di robbe proprie d’essa ab estra della monicatione e fatighe sue”. Questa espressione fa ipotizzare che la stessa Donna Anna fosse stata un tempo sposata dato che la sua disponibilità economica, indipendente dalla dote monacale, non poteva che derivarle dalla dote matrimoniale o dall’antefato.

[13] ASLe, Sez. Not., 20/1, not. L. De Magistris, protocollo del 9 febbraio 1629.

[14] ASDU, Benefici, Ugento/18, cit.

[15] Ivi.

[16] La sua raffigurazione con i capelli cortissimi fa supporre che fosse deceduta poco dopo aver preso i voti, occasione in cui si procedeva al taglio della chioma dell’ex novizia.

[17] Per quel che riguarda poi la raffigurazione del bambino, inusuale nella rappresentazione delle anime purganti, verosimilmente si tratta, se non di un figlio di Donna Anna (v. sopra nota 10) di un nipote delle stesse sorelle Pandone.

[18]S. LANCILLOTTI, “Mercurio Olivetano – ovvero la Guida perle strade d’Italia per le quali sogliono passare i Monaci Olivetani”, Perugia 1628. [Cfr. P. P. DE LEO (a cura), Viaggi di monaci e pellegrini, Ed. Rubettini, Soveria Mannelli 2001, p. 45, nota 4)].

 

 

Ancora sul “fantomatico Manfredi Letizia”

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di Stefano Tanisi

 

Da assiduo lettore del sito della Fondazione Terra d’Otranto, ho avuto modo di leggere un recente articolo di Luciano Antonazzo dal titolo “Il fantomatico pittore Manfredi Letizia” [cfr. https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/21/il-fantomatico-pittore-manfredi-letizia/].

Nella chiesa matrice di Muro Leccese vi è un dipinto dell’Assunta, inserito nell’altare dell’Annunziata, che la storiografia locale lo ritiene realizzato dal pittore Manfredi Letizia.

Lo studioso Antonazzo, nel riferito studio, afferma che il nome del pittore Manfredi Letizia sia frutto di un equivoco che «si deve ad un refuso di stampa che ha fatto saltare la virgola posta dal Maggiulli [L. Maggiulli, Monografia di Muro, 1857, p. 131] tra i cognomi Manfredi e Letizia», ipotesi questa che potrebbe essere condivisibile.

Che l’autore del dipinto dell’Assunta non fosse il “fantomatico pittore Manfredi Letizia” era già noto in un mio saggio “Nota sui dipinti di Aniello Letizia (1669 ca.-1762) nel convento e nella chiesa della Grazia di Galatone”, pubblicato nel 2009 sulla rivista “Miscellanea Franciscana Salentina”, anno 23, quando nella pagina 118 – nota 14 scrivevo: «vanno assegnati ad Aniello anche i piccoli dipinti dell’Assunta (i volti degli Apostoli trovano conferma nelle altre opere galatee) e dell’Immacolata (gli stessi angeli si possono ritrovare nella tela omonima di Montesano Salentino [cfr. https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/01/aniello-letizia-e-il-dipinto-dellimmacolata-di-montesano/]) che sono altrove segnalati come opere di Manfredi Letizia (il “Manfredi”, pittore forse inesistente, è confuso presumibilmente con il sacerdote-pittore Giuseppe Andrea Manfredi da Scorrano, poiché nella chiesa [matrice di Muro Leccese] si conservano dipinti di questo artista)».

Nel 2012, pubblicavo sulla rivista “Leucadia. Miscellanea storica salentina”  – anno IV, uno studio, dal titolo “I dipinti di Aniello Letizia (1669 ca.-1762) nella Diocesi di Ugento-Santa Maria di Leuca”, dove, a pagina 31, ribadisco «Nella Chiesa Matrice di Muro Leccese, la storiografia locale ha assegnato a Manfredi Letizia i dipinti dell’Assunta e dell’Immacolata: da un confronto stilistico i dipinti in questione vanno invece attribuiti ad Aniello Letizia. Per il momento non abbiamo rinvenuto nessun documento riguardo ad un pittore di nome Manfredi Letizia di Alessano, pertanto è lecito dubitare se tale pittore sia realmente esistito». Nella nota 19 sempre di pagina 31 evidenziavo che «I volti degli Apostoli dell’Assunta trovano confronto con gli anziani raffigurati nelle tele della Chiesa del Crocifisso di Galatone, mentre gli angeli nell’Immacolata sono simili a quelli dei dipinti del Santuario di Leuca».

Ma la presenza del pittore Aniello Letizia nella maggior chiesa murese è confermata dal fatto che gli si possono attribuire anche i dipinti della Sacra Famiglia con i santi Anna e Gioacchino e di Sant’Oronzo (cfr. i miei saggi).

Di questi miei studi, presumibilmente, Antonazzo ne era a conoscenza, poiché nel 2012 la menzionata rivista di Storia Patria “Leucadia” pubblicava sia il mio saggio che quello dello studioso ugentino (L. Antonazzo, Il castello di Ugento e i d’Amore).

Anche nell’affermare che “Oronzo e Aniello Letizia sono cugini” ha dato per scontato che questa notizia sia da sempre conosciuta, non riferendo che questa indicazione è il frutto di mie lunghe ricerche d’archivio che finalmente hanno ridisegnato con maggiore chiarezza il quadro familiare dei pittori alessanesi Letizia, visto dagli studiosi, fino al 2012,  articolato e confuso.

Un altro nodo secondo me è da sciogliere nell’articolo dell’Antonazzo è l’attribuzione del dipinto dell’Assunta: il dipinto nel momento in cui lo attribuisco ad Aniello Letizia cerco di fornire dei possibili confronti stilistici con opere certe o documentate del pittore. Lo studioso attribuisce il dipinto «forse più ad Oronzo che ad Aniello Letizia», aspettandoci il confronto del dipinto murese con opere certe del pittore Oronzo Letizia, cosa che non si evince.

Il citare fonti d’archivio e bibliografiche ci sembra spesso dovuto a una gentilezza che si fa all’amico che ha pubblicato per primo la notizia che per un senso di scientificità del lavoro.

C’è da dire inoltre che, purtroppo, negli ultimi anni si sta verificando una sorta di “svago” nell’attribuire opere di pittura e scultura senza un metodo scientifico. È come i tanti quiz televisivi che ci si avventura a “lanciare” la risposta, senza aver minima cognizione dell’argomento. È questo sta nuocendo molto per la nostra Storia dell’Arte, perché sembra che le inesattezze vadano avanti e diventino difficili da estirpare, mentre gli studi più attenti vanno nel dimenticatoio o ignorati…

 

 

 

In Allegato foto: A. Letizia (attr.), Sacra Famiglia con i santi Anna e Gioacchino. Muro Leccese, chiesa matrice (foto S. Tanisi)

Il fantomatico pittore Manfredi Letizia

manfredi1
ph Stefano Cortese

di Luciano Antonazzo

Luigi Maggiulli nella sua”Monografia di Muro” del 1857, discorrendo della chiesa matrice dedicata all’Annunziata, a pagina 131 scrisse: “Entrando nel tempio il visitatore é sorpreso dalle pitture che lo adornano, e condotte da sì castigati pennelli da non invidiare in questo genere le altre città della provincia: Liborio Ricci da Muro, Serafino Elmo da Lecce, Manfredi  Letizia ed altri ne furono gli autori”.

Cosimo de Giorgi, seguendo il Maggiulli,  riportò che in detta chiesa Liborio Riccio “vi dipinse alcune grandi composizioni su tela, e fu aiutato in questa opera, non di lieve momento, da due altri pittori leccesi, Serafino Elmo e Manfredi Letizia”.[1]

Gli studiosi dell’arte hanno inutilmente cercato di identificare il pittore Manfredi Letizia e recentemente alcuni di loro hanno avanzato perplessità circa la sua esistenza, ipotizzando che in realtà si trattasse del pittore Giuseppe Andrea Manfredi di Scorrano. Questi ultimi hanno visto giusto, ma solo in parte. Infatti dietro Manfredi Letizia si celano due pittori: Giuseppe Andrea Manfredi e Oronzo (o Aniello) Letizia.

L’origine dell’equivoco si deve ad un refuso di stampa  che ha fatto saltare la virgola posta dal Maggiulli tra i cognomi Manfredi e Letizia.

manfredi
ph Stefano Cortese

La riprova si ha nel prosieguo del testo dello stesso Maggiulli. Infatti egli a pagina 32 scrisse: “Sull’altare della passione vi è un dipinto del Manfredi, Gesù nell’orto, che lascia nel cuore alti sensi di religione e mestizia, tant’è divinamente ritratta la rassegnata tristezza del Redentore.

La perla pittorica della nostra chiesa è però un quadretto del Letizia rappresentante Maria Vergine assunta in cielo circondata dagli apostoli, che posto in alto di un altare il visitatore non puo ammirarne il pregio”.

Di tutt’altra opinione circa il valore di detti dipinti fu il de Giorgi, che continuando ad equivocare sentenziò: “Osserveremo infine in questa chiesa il Gesù all’orto ed una Assunzione di M.V. del Letizia, due tele che si elogiano dicendole mediocrissime”.

Per quel che concerne gli autori di detti due quadri, se il primo è indubbiamente ascrivibile a Giuseppe Andrea Manfredi, di Scorrano, il secondo potrebbe attribuirsi forse più ad Oronzo che ad Aniello Letizia, cugini pittori di Alessano. Lasciamo  agli studiosi il compito di sciogliere il dilemma, mentre per parte nostra avanziamo l’ipotesi che, come lo era di Aniello, Oronzo  potrebbe essere stato parente, per parte di madre, anche di Giuseppe Andrea Manfredi.

La nonna materna di Oronzo rispondeva infatti al nome di Elisabetta Manfredi che, coincidenza, contrasse  matrimonio  in Alessano con Marcantoni Biasco,  di Corsano, lo stesso giorno (19 novembre 1654) in cui si sposarono i genitori di Oronzo, Giuseppe Letizia e Giulia Biasco.

 


[1] C- De Giorgi : “La Provincia d Llecce – bozzetti”,  Ed. Spacciante Lecce,vol I, p. 255.  

Montesardo (Lecce). Il convento di S. Maria delle Grazie dei frati Conventuali

stemma dei francescani

di Luciano Antonazzo

Nella sua “Corografia fisica e descrittiva di Terra d’Otranto” l’ Arditi (rifacendosi ad un manoscritto di memorie antiche) riferisce che un convento di francescani era stato eretto in Montesardo da Donna Maria de Capua nel 1550.[1]

A sua volta Mons. Ruotolo, oltre a precisare che si trattava di un convento di francescani Conventuali, sostiene che in quello i frati vi “ebbero dimora dal 1610 al 1810”.[2]

In realtà però il convento fu voluto e fondato nel 1527, assieme ad altri cittadini, dalla madre di Maria de Capua, Antonicca del Balzo,[3] e la sua esistenza non durò più di un secolo.

E’ quanto si apprende da alcuni documenti appartenenti all’ex diocesi di Alessano e custoditi nell’Archivio Diocesano di Ugento.[4]

Fra queste carte si è avuta la fortuna di rinvenire proprio l’atto originale di fondazione del convento in oggetto; fu rogato in Alessano il 15 giugno del 1527 dal notaio Luigi Pedilongo di “Montearduo” che intervenne come agente e stipulante tanto in nome proprio che (come persona pubblica) in nome e per parte “Ecclesiae Venerabilis Monasteri Sanctae Mariae de la Gratia de novo costruendo ordinis Sancti Francisci Mendicantorum in terra Monteardui”.

Alla sua presenza si costituirono Donna Antonicca del Balzo, Principessa di Termoli, Contessa di Alessano e Baronessa di Montesardo ed i signori: il Rev. abate Giovanni Paolo, Don Giovanni Baldovino, Giovanni Vitali, Giovanni Carlo Romano, Marco Surracca, il Rev. don Selomu Bleve, il maestro Marco Bleve, Antonio Ingrosso, lo stesso notaio Pedilongo, Evangelista Romano, don Antonio Rizzo, Giovanni Piccinno, Giovanni Schiavone, Bernardino Blanco, Luigi Pezzuto, Bernardino Mastria, Antonio Conte, Nicola Charati, Mattia de Tommaselli, Luigi Caprarica ed il figlio Don Giulio (tutti di Montesardo) ed il sig. Mandil.

Tutti sostennero spontaneamente  di voler donare dei loro beni a suffragio dell’anima dei loro parenti ed antenati e “pro edificando dicta  Ecclesia et Monasterio ”.

Donna Antonicca promise quattrocento ducati da pagarsi in quattro anni e si impegnò anche a nome dei suoi successori a versare ogni anno venti ducati per l’acquisto delle tuniche per i frati; l’abate Giovanni Paolo assegnò 50 ducati, trenta dei quali da pagarsi in otto anni ed i restanti 20 in rate da un ducato l’anno; Giovanni Vitali donò a titolo di donazione irrevocabile tra vivi tutti i suoi beni mobili e stabili  riservandosene l’usufrutto assieme alla moglie vita natural durante ed intanto si impegnò a versare ogni anno 15 tarì. Alla sua morte e di quella della moglie i detti beni sarebbero passati in piena proprietà della chiesa e convento da edificarsi, a condizione che il procuratore della stessa avesse versato ogni anno, in perpetuo, un tarì alla chiesa dello Spirito Santo. Nel caso che la nuova chiesa ed il convento non fossero stati eretti il suo atto di liberalità era da eseguirsi in favore di quest’ultima.

Anche Don Giovanni Baldovino promise 50 ducati, ma da pagarsi in cinque rate annuali da 5 ducati l’una; Giovanni Carlo Romano di ducati ne assegnò 25 da pagarsi con rate annue di 3 ducati l’una ed in più una chiusura con olive e vigna nel luogo detto Vigniscemoli;  il Reverendo Selomo Bleve si impegnò a costruire a sue spese, entro sei anni, una cappella dentro l’erigenda chiesa, mentre il maestro Marco Bleve promise che avrebbe fatto gratis, finchè fosse vissuto e la salute glielo avesse consentito, tutti gli infissi in legno, comprese porte e finestre.

Una seconda cappella promise di farla costruire, anche questa entro sei anni, Antonio Ingrosso con l’impegno a dotarla con due ducati annui in perpetuo per la celebrazione di messe in suffragio dell’anima sua, dei suoi genitori e dei suoi figli.  Lo stesso notaio Pedilongo promise 10 ducati a condizione che gli fosse stato consentito di costruire per sé e per i suoi discendenti un altare con sepoltura.

Una cisterna sita nella pubblica via la donò don Antonio Riccio (Rizzo) che si riservò il diritto di attingere acqua e lo stesso fece  Giovanni Piccinno che assieme alla cisterna donò la chiusura in cui quella si trovava, nel luogo detto le Conche.

Un’altra chiusura, sempre alle Conche, con cisterna ed area fu donata da Luigi Craparica e da suo figlio Don Giulio.

Il sig. Mandil (per sé e sua moglie) assegnò 9 ducati, Luigi Pezzuto 5, Giovanni Schiavone 1 ducato d’oro come Nando Ciullo, mentre Polidoro Pedilongo promise 2 ducati d’oro[5] e Nicola Charati 4, da pagarsi per tutti in tempi diversi.

Con tale dote si diede inizio alla costruzione del convento da intitolarsi al pari della sua chiesa alla Madonna delle Grazie.

Non è dato sapere quando effettivamente ebbero inizio i lavori, mentre è certo che ancora nel 1547 gli stessi non erano stati ultimati; lo documenta un testamento di  detto anno nel quale è contenuto un legato in favore del convento stesso.[6]

Il quattordici marzo il notaio Angelo Securo di Montesardo si recò con i necessari testimoni in casa “egregi”Carlo Perreca, “sita  et positam intus predictam terram Montisardi”, il quale gli dettò le sue ultime volontà.

Egli nominò come sua erede universale di tutti i propri beni mobili, stabili e semoventi, ma nel solo usufrutto, la moglie (di Presicce) Gemma Adamo gravandola di diversi legati.

Innanzitutto destinò alla contessa Antonicca del Balzo un giardino con alberi comuni e con dentro un’abitazione ed un “colombaro”, ed un “clausorio” di terra e vigna con un “tigurio”ed un palmento nel luogo detto “Vigniscemoli”.

Vincolò la donataria assieme ai suoi eredi e successori a non alienare mai detti beni e li gravò dell’onere di far celebrare in perpetuo per la propria anima e di quella dei suoi defunti due messe la settimana nella cappella che egli intendeva far costruire nella chiesa del convento della Madonna delle Grazie e da intitolarsi a S. Nicola. Stabilì che qualora non fosse riuscito a farla erigere egli stesso, l’incombenza di far erigere detta cappella sarebbe stata a carico della moglie che era altresì vincolata a comprare una campana per la chiesa del convento.

Per far ciò autorizzò la consorte a vendere dei beni ereditari fino ad un valore di settanta ducati per ognuna delle due incombenze e ciò nel termine di dieci anni.

Finché fosse vissuta la moglie era tenuta a fargli celebrare una messa a settimana nella costruenda cappella e stabilì che tutti i suoi beni dopo la di lei morte dovessero andare in dote della suddetta cappella di S. Nicola e che i frati in quella dovessero celebrargli in perpetuo sei messe settimanali per la sua anima e dei suoi defunti.

E proseguì dicendo: “Si per caso lo ditto convento di S. Maria della Gratia non si compisse de edificare,& in quello non convenisse de abitare e commorare in ditto Monistero dè S. Maria de Gratia i frati preditti, & in quello servire in divinis secondo solono servire i Monasteri per quello tempo sarà viva la predetta Gemma sua universale erede per spazio di anni dieci,allora la detta cappella se abbia da edificare in lo Monasterio di S. Francesco de Alessano una con ditte robe, e si in ditto Monasterio de ditta Alessano non se edificasse ditta cappella, quella se abbia da edificare in S. Francesco della terra di Specchia”.

Precisò altresì che  la moglie avrebbe potuto godere dell’usufrutto della sua eredità solo nel caso non fosse convolata a seconde nozze, altrimenti i suoi beni erano da considerarsi in piena proprietà dei legatari.

Dispose ancora che la consorte gli dovesse far fare le esequie “secondo la sua condizione” e fargli “dire tre nove quaranta” nel suo anniversario, e che dopo morto avrebbe dovuto fargli fare un “tauto[7] ed in quello deporlo e farlo portare nella chiesa matrice e lì lasciarlo fino a quando non fosse stata completata la sua cappella con relativa sepoltura.

Per il soddisfacimento di questi due legati diede alla moglie la potestà di vendere un pezzo di terra in località “lo Piano”, precisando che dalla somma ricavata, dedotti gli otto ducati ed un tarì, il resto era da distribuirsi ai poveri.

Infine alla chiesa madre legò “tutte le case, & locore cum curtjs cisterna & orto preditto con tutti suoi altri membri riservati li due capienti grandi della sua solita abitazione siti e posti dentro la predetta terra di Montesardo in vicino ditto  la strata di S. Bartololmeo…” per adibirle ad ospizio per i poveri, ospizio il cui “governo”e “dominio” era demandato  in perpetuo al sindaco della città. Qualora detto ricovero non fosse stato realizzato o disattese le sue disposizioni, anche i detti immobili erano da assegnarsi alla sua costruenda cappella.

Legò alla stessa chiesa madre sei ducati “pro edificazione prefate ecclesie” (sic),[8] e due ducati ed un tarì lo lasciò alla chiesa della Madonna del Rosario.

E’ verosimile ritenere, stando a quanto riferito dall’Arditi, che il convento fosse stato completato nel 1550, un anno dopo la morte di Antonicca del Balzo (avvenuta il 23 aprile del 1549) per un impulso economico della di lei figlia Maria; sicuramente però non venne mai realizzata nella chiesa della Madonna delle Grazie (né altrove) una cappella sotto il titolo di S. Nicola e questo probabilmente perché Gemma Adamo  decedette prima di vedere la conclusione dell’erezione del convento.

Del nuovo convento non si rinviene più alcuna notizia degna di nota fino al 1628,  anno in cui la Chiesa Romana per “sorvegliare ed insieme promuovere l’applicazione dei decreti del Concilio di Trento nel Regno di Napoli”, inviò come Visitatore Apostolico della città di Alessano e della sua diocesi il vescovo di Venosa Mons. Andrea Perbenedetti. [9]

L’alto prelato effettuò la visita “Ecclesiae et conventus S. Mariae Gratiarum Montis Ardui Fratrum S. Francisci Minorum Conventualium” il 24 febbraio di detto anno e dalla sua relazione apprendiamo che la chiesa dipinta di bianco era decentemente costruita e con la copertura a volta; una campana era situata sul muro sopra la porta maggiore ed a fianco a questa vi era il fonte battesimale; la stessa porta era dotata di serratura e le finestre erano coperte con tela cerata.

L’altare maggiore era realizzato in forma comune con il tabernacolo dorato nel quale era custodita una pisside argentea; su questo altare i frati erano tenuti a celebrare quattro messe la settimana  per l’anima della defunta Donna Lucrezia delli Falconi,[10] baronessa dello stesso luogo, ed altre due per l’anima di due pii testatori, uno dei quali era verosimilmente il defunto Perreca.

La chiesa era adornata con altri due altari dei quali il primo era sotto il titolo dell’Assunzione di Maria Vergine ed il secondo intitolato a S. Antonio. Su questi non era stato costituito alcun obbligo di messe e le stesse vi si celebravano per devozione solo di quando in quando. La sacrestia si trovava in cornu evangelii dell’altare maggiore e vi si custodivano le necessarie e congrue suppellettili sacre.

Per quanto riguarda il convento Mons. Perbenedetti relazionò: Conventus ipsorum fratrum ante decreta postremo emanata fuerat extructus, in eoque duo tantum fratres eiusdem ordinisminorum conventualium sunt de famiglia assignati, qui oneribus paedictis missarum satisfaciunt. Vivunt secundum constitutiones regulae quam fuerunt professi in communi de redditibus ipsius conventus, qui ad summam sexaginta annorum ascendunt et ex elemosinis piis fidelium praestationibus elargitis”.[11]         

Veniamo così a sapere che il convento era stato eretto ben prima che venissero concesse le necessarie autorizzazioni, ma non ci è dato sapere quando effettivamente sia entrato in funzione e la sua chiesa officiata; conosciamo invece la data nella quale lo stesso convento entrò in possesso dell’eredità del Perreca.

E’ documentato infatti che il primo marzo del 1578 frate “Antonio de Andrata custode seu guardiano Conventus, seu Monasterii Sanctae Mariae de la Gratia”, si rivolse al notaio Lupo Antonio Mazzapinta di Montesardo asserendo che il notaio Angelo Securo aveva rogato il testamento del fu Perreca e che “antequam dittum testamentum in publicam formam reduceret ad istantiam ditti Conventus dittum Notarium Angelum, sicut Domino placuit suum diem clausisse extremum”; [12] e poiché era interesse del convento avere in pubblica forma tale documento chiese al notaio Mazzapinta di adoperarsi in tal senso. Questi, in virtù delle facoltà e poteri concessigli dalla legge, cercò tra i protocolli del suo defunto collega e rinvenuto il testamento in oggetto ne rilasciò copia al frate guardiano.

I frati del convento ebbero così garantiti gli introiti delle rendite provenienti dalla  eredità del fu Perreca, entrate che, come ci relaziona Mons. Perbenedetti, nel 1628 ascendevano a sessanta ducati, somma comunque appena sufficiente per il sostentamento dei soli due frati che allora vi dimoravano.

Data la esiguità di tali rendite è improbabile che nel convento si sia avuto in seguito un incremento dei frati, ma anche se ciò fosse avvenuto è certo che nel 1652 i residenti non raggiungevano le sette unità, numero che metteva al riparo dalla soppressione prevista dalla bolla “Inscrutabili” di Papa Innocenzo X.

Fu così che il convento di S. Maria delle Grazie dei Conventuali di Montesardo cessò la sua esistenza e lentamente andò i rovina fino a perdersene la memoria; le sue ultime vestigia infatti furono viste dal De Giorgi attorno al 1880.[13]

La stessa sorte toccò alla sua chiesa anche se per qualche anno continuò ad essere officiata per disposizione del vescovo di Leuca ed Alessano, Mons. Giovanni Granafei, il quale si trovò a dover dare seguito alle disposizioni del fu Carlo Perreca.

Come stabilito nel suo testamento, con la soppressione del convento di Montesardo, i suoi beni sarebbero dovuti infatti andare ai Conventuali di Alessano, ma il vescovo, assieme al capitolo, il 15 luglio del 1654 inoltrò una richiesta alla S. Sede tendente ad ottenere che, data la indigenza, la tenuità dei frutti e dei proventi della chiesa parrocchiale di Montesardo, fosse quest’ultima a subentrare nell’eredità del Perreca al posto dei Conventuali di Alessano, fermo restando  l’obbligo per il curato pro tempore di soddisfare al peso delle messe da celebrarsi nella chiesa del soppresso convento.[14]

La richiesta di Mons. Granafei venne esaudita il 27 agosto dello stesso anno ed il 16 ottobre successivo il notaio della Curia vescovile, don Giovanni Stivala, immise il vescovo nella “veram, realem, actualem, &corporalem possessionem” della chiesa, e l’arciprete ed il procuratore della parrocchiale di Montesardo nel possesso dei beni che il Perreca aveva legato al convento dei Conventuali di S. Maria delle Grazie di Montesardo.


[1] G. Arditi: la corografia fisica e descrittiva della provincia di Terra d’Otranto. Lecce, rist. anas. 1979, p. 369.

[2] G. Ruotolo: Ugento -Leuca – Alessano, cenni storici e attualità. Cantagalli Ed. Siena 1969 (III ed.). p.82.

[3] Antonicca del Balzo subentrò come titolare della Contea di Alessano al fratello Raimondo,  morto senza discendenza, nel 1509 e sposò il duca di Termoli Ferrante de Capua. Da detto matrimonio nacquero Isabella, che sposò lo zio Vincenzo de Capua e succedette alla madre morta nel 1549, e Maria che sposò il barone di Giuliano Filippo dell’Antoglietta.

[4] ADU: Docc. Alessano 1527-1770.

[5] Questi ultimi due non figurano tra i costituiti elencati dal notaio.

[6] Questo testamento ci è pervenuto attraverso una copia che il notaio Antonio Tasco di Alessano trasse da quello esistente nel convento dei Conventuali della città di Alessano e che a sua volta era una trascrizione del testamento originario rogato dal notaio Securo e reso pubblico solo nel 1578 dal notaio di Montesardo Lupo Antonio Mazzapinta (v. infra).

[7] Tauto (altrim. tavútu, tabbutu, chiaútu,) = cassa mortuaria (dalla’arabo tabût). V. Gerhard Rolfs: Vocabolario dei dialetti salentini, Congedo Ed. 1976, vol. I, p.139

[8] Qui evidentemente il testatore si riferisce alla edificazione della stessa chiesa madre.

[9] AndrèJacob: La visita apostolica della diocesi di Alessano nel 1628 in Il bassoSsalento – ricerche di storia sociale e religiosa a cura di Salvatore Palese, Congedo Ed, 1982, pp.131 e ss. (Della realzione di tale visita una fotocopia è conservata nell’Archivio Diocesano di Ugento).

[10] Ferrante delli Falconi acquistò il feudo di Montesardo il 9 novembre del 1607 da Ettore Brayda.

[11] Trad: Il convento degli stessi  frati era stato costruito prima che fossero finalmente emanati i decreti, ed in quello vi sono assegnati soltanto due frati dello stesso ordine della famiglia dei Conventuali, i quali soddisfano agli oneri di predette messe. Vivono secondo le costituzioni della regola da quando furono professi in comune col reddito dello tesso convento, che ascende alla somma di sessanta ducati annui, e con le pie elemosine dei fedeli per le prestazioni elargite.

[12] Trad: prima che detto testamento fosse ridotto in pubblica forma ad istanza di detto convento, detto notaio, come a Dio piacque, aveva chiuso il suo giorno estremo.

[13] Cosimo De Giorgi: La provincia di Lecce- bozzetti di viaggio. Rist. anast. Congedo Ed. Galatina 1975, vol. II, p.95.

[14] ADU: fondo Vescovi –Sede vacante 1651-59.

Da “Il Bardo – fogli di culture” Anno XIX, N.2, Dicembre 2009

La chiesetta della Madonna del Curato a Ugento

 

di Luciano Antonazzo

Fra le più antiche chiese di Ugento é da annoverare quella denominata “Madonna del curato”.
Sorge su una roccia scoscesa sul ciglio della stradina omonima, all’incrocio fra via Barco e la vecchia strada per Gemini, e chi ha cercato finora di tracciarne un profilo storico ha dovuto arrendersi davanti alla mancanza assoluta di notizie; oggi però grazie al rinvenimento da parte nostra di una breve relazione redatta in seguito ad una visita pastorale effettuata nei primi decenni del 1600 siamo in grado di fare un po’ di luce sulla sua origine e sulla sua reale intitolazione.

La piccola chiesa ad aula rettangolare é suddivisa in tre sezioni con copertura a spigolo e sul lato sinistro le é addossato un piccolo locale con volta a botte che era adibito ad abitazione “del curato” ciò che sarebbe secondo l’opinione corrente all’origine della sua denominazione.

Sulle sue possibili origini e per cercare di spiegarne l’intitolazione scrisse Mons.

La chiesetta della “Madonna del curato” ad Ugento

Ugento, La chiesa della Madonna del curato restaurata

di Luciano Antonazzo

Fra le più antiche chiese di Ugento é da annoverare quella denominata “Madonna del curato”.
Sorge su una roccia scoscesa sul ciglio della stradina omonima, all’incrocio fra via Barco e la vecchia strada per Gemini, e chi ha cercato finora di tracciarne un profilo storico ha dovuto arrendersi davanti alla mancanza assoluta di notizie; oggi però grazie al rinvenimento da parte nostra di una breve relazione redatta in seguito ad una visita pastorale effettuata nei primi decenni del 1600 siamo in grado di fare un po’ di luce sulla sua origine e sulla sua reale intitolazione.

La piccola chiesa ad aula rettangolare é suddivisa in tre sezioni con copertura a spigolo e sul lato sinistro le é addossato un piccolo locale con volta a botte che era adibito ad abitazione “del curato” ciò che sarebbe secondo l’opinione corrente all’origine della sua denominazione.

Sulle sue possibili origini e per cercare di spiegarne l’intitolazione scrisse Mons. Ruotolo: “Ad Ugento c’è un’antica chiesetta, chiamata la Madonna del «corato» o curato. Tale nome suggerisce l’ipotesi che un tempo fosse officiata da un parroco, distinto dal Capitolo. Dato che la chiesetta, pur essendo antica, non è anteriore al secolo XVI, si può pensare che quel titolo alluda al tempo immediatamente posteriore alla distruzione del 1537. Allora essendo rimasti pochi cittadini e pochissimi sacerdoti, si sarà costituito un curato per la vita religiosa del paese, che risorgeva dalle rovine” .

Francesco Corvaglia, oltre a convenire col vescovo sull’origine della denominazione della chiesa, ritenne anche che nella stessa fosse stato officiato “il rito greco fino ai primordi dell’Ottocento”, derivando questa sua convinzione dalla presenza di “pitture bizantine” .

Contrariamente a quest’ultima opinione, riteniamo che non c’entri nulla con la chiesa il rito ortodosso, mentre per quanto riguarda la figura del curato, é possibile che quella possa aver avuto un ruolo, ma é da escludersi che sia all’origine dell’attuale intitolazione della chiesa, poiché questa é invece da farsi risalire ad una “correzione”popolare della precedente specificazione “del corato”.
Ma chi credette, in buona fede, di aver semplicemente tradotto nel linguaggio corrente quel termine, non si avvide di aver invece occasionato lo stravolgimento definitivo della vera ed originaria intitolazione della chiesetta che non aveva nulla a che fare con “corato” o “curato”ma era denominata Ecclesia Santae Mariae dello Corallo.
Così infatti la troviamo denominata nell’intestazione del citato documento e nell’incipit, dove a confermare una già avvenuta confusione, é detta “S. Maria del corato, aliter corallo”.

Madonna del corallo ad Ugento

Di questa doppia denominazione non si trova però più traccia in seguito, a partire dallo stesso documento, nel resto del quale, come si trattasse di

L’enigma di un dipinto nel santuario della Madonna della luce ad Ugento

 

di Luciano Antonazzo

Dei trentotto affreschi che ornavano il santuario della Madonna della luce di Ugento ad oggi ne sono sopravvissuti (esclusa l’icona della Madonna sull’altare) solo diciannove, e fra questi quello della raffigurazione di un vescovo. Si trova sulla facciata di una colonna sul lato destro della navata e presenta dei particolare ai quali finora nessuno ha fatto caso.

Il personaggio dipintovi, forse per il suo abito bianco, da qualcuno è stato ritenuto rappresentasse S. Bonaventura, ma ciò non poteva essere dato che non vi è raffigurata l’aureola che è presente in tutti gli altri affreschi con l’immagine di sante e santi.

A suo tempo ci permise di risalire all’identità del vescovo effigiato lo stemma dei Mercedari che egli porta sul petto tra i cordoni con le nappe del cappello vescovile fatto scivolare dietro le spalle; si tratta di un segno distintivo di Mons. Ludovico Ximenz, il solo tra i vescovi che hanno retto nei secoli la nostra diocesi ad appartenere a quell’Ordine.[1]

Di lui ci è dato sapere dalle fonti che era di origine spagnola ma non il luogo preciso della sua provenienza.

Fu nominato vescovo di Ugento il 30 agosto del 1627 e prese possesso della diocesi il primo dicembre successivo rimanendone alla guida fino al 1636, anno della sua morte; secondo alcuni venne sepolto nella nostra cattedrale ma di ciò non abbiamo rinvenuto alcuna prova documentale.

Di lui sono disponibili (in copia) presso l’Archivio Diocesano di Ugento le relazioni delle visite ad limina del 1630 e del 1633 dalle quali è desumibile lo zelo e l’impegno che mise nel risollevare le condizioni della popolazione e della stessa cattedrale.

In quelle tra l’altro relazionò che (in ossequio ai dettami del Concilio di Trento), poco dopo esser giunto in sede visitò la diocesi e celebrò il sinodo nel giorno di S. Caterina Vergine e Martire, il 25 novembre; che si adoperò per riparare il campanile che aveva trovato semidistrutto da un fulmine e

La cappella di S. Maria Alemanna di Ugento

  

la volta decorata della cripta del Crocifisso a Ugento

di Luciano Antonazzo

“Di questa antica cappella un tempo esistente in Ugento si è molto parlato in quanto, come chiaramente indica la sua intitolazione, strettamente legata ai Cavalieri Teutonici.

L’Ordine religioso-militare sorto in Terrasanta per assistere i pellegrini tedeschi si sviluppò rapidamente nel Mediterraneo, ottenendo privilegi ed immunità sia imperiali che papali.

In Puglia, dopo il 1223, i Teutonici ottennero in concessione l’Abbazia di S.Leonardo di Siponto con tutte le sue grance ed i ricchi possedimenti sparsi dentro e fuori la regione.

Per varie vicende storiche, verso la seconda metà del 1400, il ricchissimo monastero di Siponto, detto allora delle Matine o di Torre Alemanna, venne soppresso e tutti i suoi beni con relative entrate, sottratte ai Teutonici, furono affidati in commenda al cardinale di Parma.

Anche nel nostro feudo gli agostiniani dell’Abbazia di Siponto  possedevano dei beni, come attestato fin dal 1448 da alcuni resoconti del baliaggio teutonico in Puglia e come confermato da due documenti (del 1467 e del 1485) rintracciati da Primaldo Coco nell’Archivio di Stato di Napoli e pubblicati in un suo saggio.

cavaliere teutonico

Nel documento del primo settembre del 1467 Giovanni Grande di Francoforte, luogotenente e socio percettore di S.Leonardo, espose che l’Ordine dei Teutonici aveva nella città di Brindisi la chiesa di S. Maria degli Alemanni alla quale appartenevano beni siti “tam in civitatibus Brundusii, Neritoni, Licii, Hostuni, Galatuli, Casarani, Ogenti, Callipoli, quam in aliis locis provinciae Hidrunti”, aggiungendo subito dopo che (poiché mancava) era necessario nominare un percettore affinché i beni non patissero detrimento.

Ad un ventennio di distanza la gran parte dei possedimenti del Salento di pertinenza della chiesa di S. Maria degli Alemanni di Brindisi risulta affittata o concessa in enfiteusi, e anche quelli posti nel territorio di Ugento e feudi circostanti seguirono la stessa sorte, come attestarono il trenta luglio del 1485 il giudice ai contratti Santillo de Vito, di Bari, ed il notaio Paolo Serbo della stessa città.

La loro fede giurata riveste assoluta importanza poiché è esplicitamente affermata l’esistenza in Ugento della chiesa intitolata a S. Maria Alemanna e che erano di sua pertinenza tutti i beni dati in affitto a tale Angelo Spano.

Nel documento in oggetto sono esposti in questi termini i punti essenziali del contratto:

[…] In primis li dicti procuratori locano, affittano, et arrendano tocti li introiti de li dicti terre, cità  et lochi pertinenti alla ecclesia de S. maria Alemanna de la cità de Ogento, zoé dinari, censi, cera, frumenti, pertinenti alla dicta ecclesia che se ha beano da riscoterre per lo dicto Don Angelo ad soj spesi et fatiche per anni sei ad triennium […]; item che lo detto Angelo sia tenuto ad mantenere la ecclesia cum lampi accesi, cera messa, et omni settimana dirsi una messa; item che lo dicto Angelo sia tenuto a sue spese pagere le dicte oglio, cera, et altre cose, excepto in repqaratione eccl[esiae] et decimarum et che sia tenuto pagari ultra li tarii quindici, tarii tre allo episcopo et tarii uno allo cantorato; item che lo dicto Angelo rescota tutto quello che rescoteva prima”.

Furono quindi previste per lo Spano le sanzioni in caso di inadempienza e precisamente. “ad poenam unciorum I de carlenisi si dicto Angelus predicta non  adempliverit; non facta soluzione in dicto tempore sit excomunicatus”.

Si è cercato, finora invano per l’assoluta mancanza di documenti, di identificare l’antica chiesa o quantomeno di individuarne il sito, e pertanto ci si è dovuti limitare ad avanzare solo qualche ipotesi in proposito.

Così la presenza di ben tre raffigurazioni della Madonna (patrona dell’Ordine) e di scudi nero-crociati dipinti sulla volta della cripta del Crocifisso  ha fatto ipotizzare una sua possibile identificazione con quest’ultima o quantomeno una committenza dei suoi dipinti da parte dei Cavalieri Teutonici; ma oltre la presenza preponderante di scudi rosso-crociati che farebbero propendere per una commissione dei Templari, sembra escluderlo il riferimento che si fa , nel contratto di affitto citato, ad “eventuali” riparazioni della chiesa.

Allora la cripta era infatti tale di nome e di fatto, ovverossia una grotta scavata nel tufo, per cui non si vede quali interventi riparatori fossero immaginabili.

Solo oggi, grazie al rinvenimento di un documento, frutto di nostre assidue ricerche, è finalmente possibile indicare il sito e conoscere la struttura dell’antica chiesa eretta (forse) dai Teutonici in Ugento.

Si tratta di poche righe scritte nel 1628 in seguito ad una visita pastorale, e costituiscono l’unico, e pertanto preziosissimo, documento in cui si parla di questa nostra perduta chiesa.

Ne riportiamo testualmente la parte più significativa:

Ecclesia Santae Mariae della lamanni [sic]

Deinde visitavit Eccl.am Santae Mariae della lamanni quam est annexam ut habetur in visitazione Rd.mi Sebastiani Minturni Ecclesiae Santi Leonardi della Matina, quam possedetur per [ manca il nome del possessore] et est commendatam Abb. Thomas Dherle per R.dum Joseph Rubeis Episcupum Uxentinum sub die 5 mensis martii 1599. Ecclesia sita est in suburbio dictae civitatis in via qua ducit Taurisano, et est antiqua, circumcirca depicta variis imaginibus Santorum; habet tria altaria, unum intra chorum, et duo extra hortum; et altare in quo est titulus ipsius Eccl.ae fuit inventum decenter hornatum, caret tamen altari portatili, quod tempore celebrationibus apponitur. Prope ipsum altare ex latere dextro pendent lampa ardens, et ex eodem sepoltura ruditer (?) tecta. Tectum ecclesiae est tegolis testaceis […]; Imago Virginis est in pariete, antiqua, cum vultu magno, et pendent aliqua vota”.     

La breve descrizione della cappella continua con l’elenco degli oggetti d’arredo e dei pochi immobili posseduti, comprendenti “una casa terragna” adiacente. Si conclude il documento con la precisazione che il suo introito era di venti carlini  l’anno e che su quella gravava l’onere di una messa settimanale nell’altare di S. Maria Alemanna.

La cappella dei Cavalieri Teutonici si trovava dunque a poca distanza dalla cripta del Crocefisso, sulla antica strada, o meglio, sentiero che conduceva a Taurisano ed il cui tracciato, almeno per il tratto iniziale, non coincideva con l’attuale, ma si snodava alle spalle del santuario della Madonna della Luce.

Di questa chiesa fondata dai Cavalieri Teutonici non è rimasto alcun vestigio, nonostante dovesse essere stata un a chiesa importante, se non altro per l’esistenza di un “altare portatile” o mobile, espressione che sta ad indicare una “pietra sacra” piatta, consacrata dal vescovo e contenente reliquie, sulla quale è permesso celebrare la messa, anche fuori dalla chiesa, in virtù di un indulto della Santa Sede.

Una seconda ed ultima testimonianza della esistenza della chiesa di S. Maria Alemanna risale al 1688, anno nel quale, in data 22 ottobre, fu battezzato “justus Fortunatus cuius parentes ignorantur, repertus expositus in Ecc. S. Mariae della Manni extra suburbium huius civitatis”.

L’esposizione di un neonato nella cappella denota che a quella data la stessa era certamente frequentata e forse ancora officiata, anche se era ormai sconosciuta ai più la sua originaria e corretta intitolazione, oltre che la ragione della stessa.

(pubblicato su Il BARDO, anno XVI, N. 2, Dicembre 2006)

S. Maria della Pietà dei frati Minori Osservanti di Ugento

Riproponiamo il saggio di Luciano Antonazzo sulla chiesa e convento di S. Maria della Pietà dei frati Minori Osservanti di Ugento. La scorsa notte, tra il 15 e 16 febbraio 2011, sconosciuti hanno appiccato un incendio nella sagrestia della chiesa, distruggendo molti dei sacri paramenti e una antica statua di Cristo morto in cartapesta. Sembra che le fiamme non abbiano arrecato danni al prezioso coro ligneo dei Fratelli Candido di Lecce.

Sull’entità del danno e sull’identificazione degli autori stanno indagando i Carabinieri e le Autorità competenti.

Spigolature Salentine si associa allo sgomento e al dolore della popolazione di Ugento per così grave e inqualificabile gesto.

 

 

Intorno alla fondazione del convento  e della chiesa di S. Maria della Pietà dei frati Minori Osservanti di Ugento[1]  

 

di Luciano Antonazzo

SS. Cosma e Damiano, affresco del convento di Ugento (ph Stefano Cortese)

Molto poco si conosce della storia degli edifici civili e sacri di Ugento  e quel poco è sovente frutto di affermazioni non supportate da alcuna indagine storica o critica.

Paradigma di tale modo di procedere e che ha assunto dignità di verità acquisita è la data di fondazione del convento, con annessa chiesa, dei Francescani Minori Osservanti.

La loro erezione dagli scrittori locali si fa risalire al 1400, ma questa datazione è la conseguenza di una errata lettura del De Origine Seraphicae Religionis del 1587 di Francesco Gonzaga. Questi aveva testualmente scritto che nel 1430  l’“Illustrissima, atque Franciscanae Observanti familiae addictissima Bauciorum prosapia[2] aveva fondato entro la cerchia muraria della città il convento “sub invocatione B. Mariae de Pietate”, senza indicare il nome di chi lo volle.

Padre Bonaventura da Fasano nelle sue Memorabilia[3] riferì invece, seguito in ciò dal Wadding,[4] che ad erigerlo era stato Raimondello Orsini del Balzo.[5]

Gli scrittori posteriori presero per buona l’indicazione di quel nome, ma avvedutisi dell’anacronismo per cui Raimondello non poteva essere il fondatore del convento in quanto egli era deceduto nel 1406 ritennero di superare tale discrasia anticipandone l’erezione al 1400.

Raimondello nel 1391, al ritorno di una campagna in oriente per combattere i turchi, avendo sperimentato la bontà ed assistenza caritatevole offerta dai francescani, aveva voluto loro testimoniare la sua gratitudine facendo costruire in Galatina la superba Basilica di Santa Caterina d’Alessandria,

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