Galatina, Atena e il tarantismo

di Romualdo Rossetti

 

  1. “Galatina”: storia e interpretazioni di un toponimo

Molte sono state le supposizioni e gli studi effettuati nel corso degli anni riguardo alla possibile genesi del nome “Galatina” e molte sono state anche le probabili risposte scaturite da questi studi, alcune più fantasiose di altre, ma nessuna delle quali, va ribadito, ha mai tenuto in debito conto la possibilità che il nome del popoloso centro urbano salentino potesse essere nato da una sacra invocazione a carattere iatromantico, un’invocazione divenuta poi nello scorrere del tempo toponomastica, come questo studio, invece, tende a sostenere.

Le teorie più additate sull’origine del toponimo della città sono state quelle che vorrebbero il nome derivare da γάλα con esplicito riferimento al “latte”, per la sovrabbondanza di pascoli presenti anticamente nel limitrofo circondario rurale. Per altri ermeneuti, invece, il nome sarebbe da attribuire a un probabile epiteto, a γάλα αθηνά “Atena del latte” per richiamare alla mente anche l’arcaica γίδα αθηνά “Atena capra”, in riferimento all’egida della dea (il pettorale) costituita dal bellissimo vello della capra Amaltea o, secondo altre versioni del mito, dalla pelle caprina del gigante Pallante, ucciso e scuoiato dalla dea in uno scontro. Altri interpreti hanno proposto come plausibile la possibilità che il toponimo significasse invece non “Atena”, bensì “Atene del latte” in virtù di un’antica alleanza militare stipulata dai Messapi con la grande polis ellenica che avrebbe avuto come naturale conseguenza anche un antico insediamento attico in loco.

Teorie più marginali hanno attribuito, viceversa, l’origine del nome della città a Galathena[1] la polis di provenienza del popolo dei Tessali che avrebbero colonizzato la parte occidentale della Messapia, o ancora alla mitica nereide Galatea[2], o anche una non meglio identificata Galata o Galazia che nella confusione di alcuni mitografi venne ritenuta come una presunta figlia di Teseo.

La teoria più accreditata ma anche quella più dibattuta in seno alle nuove indagini semantiche, è stata l’interpretazione “scientifica” del filologo tedesco Gerhard Rohlfs che, ammaliato dalle teorie linguistiche ariane, sostenne che il termine “Galatina” fosse derivato per opera dell’antica colonizzazione del luogo su cui ora sorgono i paesi di Galatina e Galatone di genti di stirpe celtica, i Galati, coloro i quali, si diceva possedessero la pelle “color del latte”.

Ultimamente è emersa anche un’altra ipotesi[3], per certi versi affascinante anche se non del tutto persuasiva  da un punto di vista geologico, che vuole il nome della città derivare dal non dall’ “Atena del latte” bensì dal “latte di Atena” ovverosia dalla presenza nel sottosuolo galatinese di una falda freatica di origine sulfurea che renderebbe le acque lattiginose  e dalle proprietà curative ed emetiche che riporta la dea alla sovrapposizione con l’arcaica “Dea Madre” di cui pure era stata in origine sovrapposta.

NASCITA DI ATENA – PITTURA VASCOLARE A FIGURE NERE SU FONDO ROSSO

 

Questo breve saggio propende, invece, a sostenere che il nome derivi da una sacra invocazione rituale o da un frammento di un antico peana destinato alla καλή αθηνά alla “Bella Atena”[4], che nella fattispecie greca del termine sottintenderebbe anche la “Buona Atena” e per espansione semantica anche la soteriologica formula di “Benevola Atena” o la più consona “Indulgente Atena”.

Ma se così fosse di quale Atena si starebbe parlando? Di quale dea della “strategia d’intervento” e della “protezione” ben sapendo che verosimilmente nell’antichità il culto di Atena era stato un culto d’importazione medio-orientale e che successivamente non fu unicamente legato alla sfera olimpica della religione ellenica?

 

  1. L’origine e la diffusione del culto di Atena nel mondo antico

Prima di trattare dell’Atena che ha dato il nome a Galatina è bene riesaminare quale fu la genesi (o le genesi), le trasmutazioni, e in ultimo, le ipostasi che subì quest’antica divinità durante nel corso dei secoli.

Rintracciare le sue origini non è certo impresa facile perché la sua genesi si perde nella protostoria del bacino del Mediterraneo e del Medio Oriente dove si sovrapposero varie etnie e si fusero culture di diversa provenienza. Molte sono state le opinioni circa il luogo d’origine del suo culto, ma a tutt’oggi, nessuna di queste può ritenersi risolutiva. Si può solo credere che il culto di Atena sia stato un culto d’importazione perché molti sono stati gli studi filologici e linguistici che hanno supportato questa ipotesi, primo fra tutti quello di Giovanni Semerano che nella sua esemplare opera Le origini della cultura europea, esaminando la lingua degli Accadi ha scoperto un’impressionante affinità semantica e fonetica tra i lessici delle lingue europee e quelli delle antiche lingue mesopotamiche. Secondo le sue approfondite ricerche semantiche riguardanti il nome “Atena” ha scritto:

Il nome di Atena, Ἀϑήνη nella forma ionica, Ἀϑάνά in dorico, Ἀϑήνάα in attico, fu inteso da Platone (Cratilo, 406 d) come ἁ θεονόα, τὰ θεῖα νοοῦσα o anche ἡ ἐν τῴ ἤθει νόησις. Così Παλλάς, fu accostato a πάλλειν (vibrare). I moderni hanno ceduto all’accostamento con πάλλεξ (giovane donna), riferito da Eustazio (Ad Od.,1742, 30). Atena ha assunto gli attributi della dea bellicosa degli Accadi, Ištar, la figlia di Sin o Anu, come Atena è figlia di Giove: di Ištar Atena serba nel nome l’attributo E-ta-nam-an, come Minerva ripete l’altro attributo di Ištar stessa, Me-nu-ata. Ma in seguito E-ta-nam-an si incrociò con la base che ha il significato di “protettore”, accadico ֲatīnu (‘protector’, CAD,6, 148 sgg.), ḫutnu protezione (‘protection’) da accadico ḫatānu (proteggere, ‘to protect’). Ḫutnu appare in nomi personali quali Adad-ḫu-ut-ni, Marduk ḫu-ut-nu, Ḫu-ut-ni – Dingir. Ma Atena è ricalco su accad. ḫazānu (magistrato supremo di una città, protettore ‘chief magistrate of a town…mayor, burgomaster, headman; fron Ur IIIon…’). L’etimologia del nome della città di Atene deve riferirsi al sistema di protezione e di difesa dell’acropoli e dobbiamo ricondurre la voce Ἀϑῆνάι alla stessa base di ḫatānu ma, comunque, con incrocio della base corrispondente ad accadico dannu (forte, detto di luogo di fortificazione di città, ‘stark: v. Orten, Festungen, Städte’ vS 161a), interferenza che si scopre, anche per Atena, con questa base da’ ānu, attestata per gli dei (da’ ānu ‘migth, force, strength, said of gods’, CAD, 3, 81 sgg). Pallas Athena si chiarisce come la divinità con occhi benevoli fissi alla Città: Pallas deriva da base corrispondente ad accad. palāsu (guardare con occhio amico, ‘freundlich anblicken: Subj. Gott’) vS, 814; cfr. M.-J. Seux, Epithètes royales, Paris, 1967, p. 187 sg.), pullusu in ant. Accadico è nome proprio. Ma Athena deve essere stata sentita come la divinità del diritto: accad. (š)a dēni: dēnu, dinu è anche la decisione, il verdetto di un dio (‘verdict: said of gods’) e dậnu significa giudicare (‘to judge, to render judgment: referring to the favorable judgment of a deiry’, CAD, 3, 100sg.), che è sempre un attributo del potente. L’accadico da’’ānu dajānu (giudice, ‘judge’, ‘Richter’) ricorda il supremo giudizio dell’Aeropago sotto gli auspici di Atena. Tale voce accadica richiama anche il nome Diava (v.), altra divinità che è posta originariamente a tutela del diritto di tribù, di popolazioni vicine e federate. L’attributo τριτογένεια corrispone alle basi accadiche tārītu protettrice (‘Wärterin’) e kࣵēnu vero (‘wahr’): auspice del vero, cioè del giusto.[5]

Pallade Atena

 

È possibile anche che il nome “Atena” possa essere originario della Lidia e trattarsi di una parola composta, derivata in parte dalla lingua Tirrena dove ati significava “madre”, e in parte dal nome della divinità hurrita denominata Hannahannah che spesso veniva abbreviato in Ana. Il suo nome comparve in una singola iscrizione in lingua micenea nelle tavolette in scrittura Lineare B in un testo appartenente al gruppo delle “Tavolette della stanza del carro” rinvenute a Cnosso. La più remota testimonianza scritta in lineare B riguardante la dea trovava iscritto il nome A-ta-na-po-ti-ni-ja il cui significato letterale oscillò tra una “Padrona Atena” e una poco verosimile “Signora di Atene” di cui non è possibile stabilire con certezza una connessione con la polis attica. Si è rinvenuta anche un’altra forma espressa con A-ta-no-dju-wa-ja, la cui parte finale risultava essere la scomposizione in sillabe in Lineare B di quella che in greco era conosciuta come Diwia (in miceneo Di-u-ja o Di-wi-ja), che significava “la divina”.

Anticamente esisteva una versione del mito che vedeva Atena avere una sua eguale in Egitto al punto che tanto Erodoto quanto Platone affermarono che nella città di Sais, si venerava una divinità della guerra denominata Neith che gli stessi Egizi identificavano con Atena.

Trasmigrata in Grecia con l’avvento degli Ioni provenienti dalle coste dell’Asia Minore diede il nome alla città di Atene che come giustamente ha fatto notare Semerano traducendo l’accadico che il significato della polis attica doveva significare il significato di “La protetta”.

In ambito ellenico venne da sempre considerata una divinità olimpica sebbene custodisse nascosto da tempo immemorabile un suo lato ctonio che disveleremo più avanti, Atena ha lasciato un’impronta indelebile in miti e imprese di uomini. In un’arcaica versione del mito, Atena era emersa dalla forza dirompente delle onde del titanico “fiume” Oceano[6](Ὠκεανός) o da Tritone (Τρίτων) tanto da venire chiamata Tritoghèneia[7] (Τρίτωγένεια) ovvero “generata da Tritone”.

Nell’Odissea giocò un ruolo importantissimo dove Omero la descrisse con le doti di protettrice e consigliera dell’Itacese. Anche nell’Iliade, il sommo cantore ne narrò le gesta definendola la “figlia di forte padre” alla quale Zeus affidava fiducioso gli incarichi più delicati e problematici. Molto celebre nel mondo antico fu l’ode[8] omerica a lei dedicata, che recitava:

Pallade Atena, la Dea famosa comincio a cantare, che azzurro ha il ciglio, saggia la mente, inflessibile il cuore. Intatta è, veneranda, gagliarda, e le rocche protegge. A Trito nacque; e Giove medesimo a luce la diede, dal suo cerèbro, già vestita dell’armi di guerra lucide, tutte d’oro. Stupirono tutti i Celesti, quando la videro. Ed essa, dinanzi all’egíoco Giove, rapidamente balzò, dal suo capo immortale, scotendo un giavellotto acuto. L’Olimpo, un orribile crollo die’, sotto l’urto della Divina Occhiglauca: la terra tutta echeggiò d’un rimbombo terribile, il mar si sconvolse, tutto agitato nei flutti purpurei, contro la spiaggia l’onda proruppe, fermò d’Iperíone il fulgido figlio a lungo i suoi cavalli veloci, sinché la fanciulla Pallade Atena tolte non ebbe dagli òmeri santi l’armi divine: lieto fu il cuor del saggissimo Giove. E dunque, a te, figliuola di Giove l’egíoco, salute: io mi ricorderò d’esaltarti in un carme novello.

 

Atena risulta quindi, protostoricamente venerata come fosse stata una ninfa legata al culto delle acque superficiali e sotterranee tanto da essere venerata molto spesso lungo le sponde dei fiumi o dei laghi. In Beozia la si venerava con l’epiteto di Atena Alalkomenìs o Alalcomenide (Ἀλαλκομεηῖς) ovvero “protettrice” della polis di Alalcomene che vantava i natali della dea e si trovava ubicata nei pressi delle pendici sovrastanti l’antico lago acquitrinoso di Copaide dove operò il violento re Flegias padre di Coronide e nonno di Asclepio. In Arcadia, il suo culto si diffuse presso il fiume Alfeo. Nell’Elide gli indigeni erano particolarmente devoti ad Atena Larisea (Ἀϑήνά Λάρισας) così denominata perché venerata lungo le sponde del gelido fiume Larisos oggi Larisso, lo stesso fiume che aveva utilizzato Eracle per pulire le fetide stalle di re Augia nella sua quinta fatica. In Messenia il suo culto ebbe luogo in prossimità del corso d’acqua Nedonas la cui sorgente era situata sul famoso monte Taigeto. A Creta la divinità trovò particolarmente riconoscimento nelle sue qualità salvifiche e salutari presso la grande polis di Cnosso.

Ben più diffusa fu, viceversa, l’altra sua origine cosmogonica che la volle far nascere dalla testa di Zeus – o dal suo polpaccio – dopo che questi per paura di un’oscura profezia aveva ingurgitato preventivamente la sua prima moglie Metis – la dea della saggezza e della prudenza primordiale e madre naturale di Atena – per paura di pover venire detronizzato dalla tracotanza dei figli della sua compagna.

Fu per tale motivo che dopo aver giaciuto con lei, Zeus convinse Metis a trasformarsi in una goccia d’acqua, o in una mosca, o ancora in una cicala, come sostennero altri mitografi in altre versioni, per poter meglio cibarsene. Nonostante il suo piano fosse riuscito, il suo seme divino era già attecchito nell’utero della dea[9] la quale, nonostante fosse stata fagocitata a tradimento, si era messa subito in moto per costruire ciò che sarebbe stato necessario alla creatura che portava in grembo per la sua futura incolumità. Nel forgiare l’elmo a colpi di maglio provocò una dolorosissima cefalea a Zeus che non gli lasciò scampo. Il dio Efesto, allora, intervenne, in aiuto del padre degli dèi e, con un assestato colpo di labris[10] aprì la tempia di Zeus liberandolo dal dolore e facendo uscir fuori Atena in sembianze già adulte e armata di tutto punto.

La dea come primo gesto di nascita, avrebbe mimato una ordinata danza di guerra dando così il via a quella che sarebbe divenuta la sua specializzazione divina, ovverosia l’utilizzo della migliore strategia di difesa atta a combattere il nemico, qualunque esso fosse.

L’aver voluto ingerire Metis non significò per Zeus il volerla annientare, bensì piuttosto nel volerla trasformare da ancestrale intelligenza anticipatrice o prolessi (πρόληψις) in una mera capacità tecnico-strategica e in una nuova sapienza filantropica, la sophia (σοφία) da porre all’interno del logos umano affinché questo ne potesse fruire nell’esplicazione delle sue azioni pratiche e teoretiche. Quell’atto a prima vista così crudele fu un atto di benevolenza divina, teso a realizzare un cambio di registro logico. Fu così che, per volere del padre degli dèi, la prima forma d’intelligenza presa nella sua primitività e nel proprio sacrificio si trasformò in nuova sapienza – in Atena appunto – per divenire nella ritualità pratica dell’azione umana, un perenne equilibrio o di phronesis (φρόνησις) ovvero saggezza e sophrosyne (σωφροσύνη) ovvero temperanza.

Atena, quindi, come la dea atta a quella “giusta misura” da intraprendere per poter raggiungere al meglio uno scopo o anche la divinità atta alla della “giusta azione” per districarsi in una “tela” reale, immaginaria o logica per rammendarla, ripararla, “curarla” o costituirla ex novo. Atena quindi come “mente di dio” e non fu un caso se il sommo Platone nel suo Cratilo fornì l’origine del nome della dea dal lemma “A-θεο-νόα” o “H-θεο-νόα” per rievocare il mito olimpico della sua nascita, quello conosciuto dagli ateniesi. Egli, infatti, scrisse:

Questo è più difficile, amico mio. Pare che gli antichi riguardo ad Atena la pensassero allo stesso modo di come oggi fanno i bravi critici di Omero. Infatti la maggior parte di loro, studiando il poeta, sostengono che in Atena abbia voluto personificare il “nous” e la “dianoia”, ovvero la mente e il pensiero, e similmente sembra aver ragionato colui che le assegnò i nomi; addirittura, appellandola con ancor maggiore solennità “theou nesis” (mente del Dio) dice che è la “theonoa”, ovvero la “mente divina”, servendosi della lettera “alfa” al posto della lettera “eta” come fanno gli stranieri, ed eliminando “iota” e “sigma”. Era assai poco distante dal chiamarla “Ethonoe”, dato che è colei che come indole ha il pensiero “en thoi ethei noesis”. Ma alla fine o lui stesso od altri, per renderne il nome più bello, la chiamarono Atena.[11]

Atena, va ricordato, era entrata in relazione con Efesto non soltanto a causa della sua nascita, lo era stata anche a causa di una primordiale contesa mitica, una lite che aveva visto contrapporsi i due “fratelli sposi” Zeus ed Era, una lite familiare in seno alla quale il primo aveva generato Atena da una parte di sé, la seconda, Efesto, per un atto di gelosa ripicca. Era, però, ebbe la sfortuna di mettere al mondo un essere deforme, brutto e zoppo, che sarebbe stato da lei ripudiato e scaraventato giù dall’Olimpo per la vergogna di aver generato un mostro[12]. Così, se Atena nella sua fulgida glaucopide bellezza[13] era nata da Zeus che rappresentava l’infinito cielo tempestoso, tra i bagliori dei lampi e il fragore dei tuoni, Efesto, al contrario, era nato da un atto egoistico di divina empietà, ovverosia da ciò che era apertamente in contrapposizione al sacro connubio teogamico, da ciò che contravveniva e contrastava la stessa divina missione di sua madre – la partenogenesi. Tale atto nefasto avrebbe causato dunque la deformità fisica ad Efesto, quale segno indelebile della colpa di sua madre.

Fu così che Atena finì per rappresentare l’etra raggiante che disperdeva lampeggiando le nubi minacciose riconducendo il cielo al sereno, allo svelamento e al luminoso veritativo da cui l’idea veritativa filosofica detta alétheia (ἀλήθεια), Efesto rappresentò la fiamma primordiale domata, il fuoco che fondeva la materia (soprattutto il metallo) e purificandolo creava la forma ottimale al suo utilizzo. Atena ed Efesto, quindi, nei propri opposti simbolici rappresentarono un’endiade inscindibile, che contemplava da una parte l’abilità tecnica che riusciva a produrre il migliore armamentario, dall’altra, la sagacia della scelta e del suo migliore utilizzo in vista della vittoria finale.

ATHENA PARTHENOS RICOSTRUZIONE DIMENSIONI REALI

 

Atena, dunque come divinità guerriera[14] perché nata in mezzo alle dispute celesti, armata di lancia elmo e scudo atta però, a differenza di Ares, più alla difesa conservativa che all’attacco distruttivo. La sua lancia rappresentava un chiaro riferimento alla folgore paterna tramite la quale riusciva a squarciare la spessa tetra coltre delle nuvole permettendo il passaggio dei raggi vivificanti e curativi del Sole, i raggi di Apollo Iatros (Ἀπόλλων Ιατρός) o Apollo Medico. Nel mezzo del suo corpetto detto “egida” compariva la testa raccapricciante della Gorgone Medusa[15] Gorgòneion (Γοργόνειον) il cui significato originario alludeva non solo alla notte, rappresentata dal suo aspetto lunare, ma anche la malattia, la sofferenza e il decadimento ultimo umano. La sua armatura protettiva grazie a quell’orribile orpello allontanava la morte e la disfatta garantendo la vittoria. Venne per questo soprannominata Gorgὸphonos (Γοργοϕόνος) ovvero la “dea che ha ucciso la Gorgone” – o meglio ha suggerito la strategia del riflesso a Perseo affinché potesse annientarla – e Gorgὸpis o Gorgopide (Γοργῶπις) “colei che ha il potere dello sguardo truce della Gorgone”.

Le rappresentazioni della dea, i cosiddetti “Palladi” ovvero le sue rappresentazioni più frequenti, la vollero raffigurata tutta armata, con tanto di elmo, scudo e lancia, i suoi epiteti più famosi furono quelli di: Pròmachos  (Πρόμαχος ) ovvero “colei che combatte nelle prime file”, in Tessaglia e in Beozia era chiamata Alkìs ( Ἀλκίς ) “la soccorrente”, in Macedonia era venerata come Steniàs (Σϑενιάς) la “forte”, a Trezene la si invocava con l’appellativo di Laossòos (Λαοσσόος) “la dea che chiama il popolo a battaglia” o con quello di Aghelèie (Ἀγελείη) “colei che concede la vittoria e la preda” ma anche come Erusìptolis (Ἐρυσίπτολις) “colei che difende la polis” o Ergàne (᾿Εργάνη)  “la industre”. In ultimo ma non certo per ordine d’importanza la si trovava spessissimo menzionata come  Arèia (Ἀρεία) come quella che spesso era invocata nelle battaglie[16] insieme ad Ares.

 

La sua relazione con i fenomeni celesti venne accentuato dal simbolismo dei suoi epiteti, primo fra tutti quello di Glaucopide o Glaukopis (Γλαυκῶπις) allusivo al colore glauco dei suoi occhi, tanto che, in Atene la sua città per antonomasia, le venne affiancato la nottola o civetta (Athene noctua) dagli occhi fulgenti come animale totem che divenne, in seguito, il suo simbolo ufficiale.

Atena[17] rappresentò oltre alla salvezza (Σωτηρία) anche la vittoria, (Νίκη) come tale (Ἀϑηνᾶ Νίκη) venne venerata in Atene, nello speciale tempio dinnanzi ai Propilei. In Attica fu riverita come Hippìa (‛Ιππία ) in special modo a Corinto dove aveva insegnato a Bellerofonte a domar e mettere il freno al cavallo alato Pegaso e perciò venne detta anche Chalinìtis (Χαλινῖτις) ovvero “colei che imbriglia il morso”; a Lindo, presso l’isola di Rodi, era riverita come la dea che aveva insegnato a Danao a costruire la prima nave a cinquanta remi, così come il mito narrava avesse diretto la costruzione della nave “Argo” che avrebbe condotto Giasone e i suoi cinquanta compagni nella lontana Colchide a ritracciare il famoso “vello d’oro”.

Igea

 

Il suo epiteto più importante ai fini di questa indagine fu senza ombra di dubbio quello di Atena Hygièia o Igea[18] (Ἀϑηνᾶ Ὑγίεια) epiclesi che l’avrebbe introdotta nel novero della paredria asclepiea in qualità di sovrapposizione mitica della figlia prediletta dell’agatodemone greco della cura e della medicina ovvero Asclepio. Fu così che anche il suo culto sarebbe rientrato nella ritualità dell’incubatio e dell’oneirocritica tanto da lasciare famosa testimonianza nella biografia dello stesso Pericle ad opera di Plutarco che nel tratteggiare il famoso personaggio ateniese ricordò che durante dei lavori di edificazione sull’acropoli della polis, un operaio era precipitato da grande altezza ferendosi gravemente. Allora la dea Atena era apparsa in sogno a Pericle indicandogli quale dovesse essere la cura giusta che avrebbe guarito e salvato l’operaio:

Per questo, dunque, Pericle fece erigere sull’acropoli la statua di bronzo di Atena Hygièia presso l’altare che, a quanto dicono, esisteva anche prima.[19]

 

Ma non solo Plutarco avrebbe attestato la presenza ad Atene del culto di Atena Hygièia, anche Pausania ricordò di aver veduto sull’acropoli, accanto alla statua dello stratego Diitrefe trafitto dalle frecce le statue di due divinità:

Igea figlia di Asclepio e Atena anch’essa denominata Hygièia [20].

 

È probabilissimo che la sovrapposizione del culto Atena su quello di Igea ad Atene si sia verificata durante la celebre epidemia del 430 a.C. descritta da Tucidide, causata dal morbo della peste o di una febbre emorragica, che dall’Africa transitò per il Pireo per poi diffondersi in tutta la Grecia, durante la Guerra del Peloponneso.

Dalla sua origine guerriera la dea dagli occhi glauchi si tramutò col tempo nella divinità protettrice delle opere di pace tanto da venire considerata in qualità di genio tutelare dello stato, la maggiore dea della polis detta Poliàs (Πολιάς), e come tale venne venerata con gran rispetto ovunque tanto in madrepatria quanto nelle colonie. Accanto a suo padre Zeus definito Boulàios (Βουλαῖος) con l’epiteto di Boulàia (Βουλαία) o di Agoràia (Άγοραία), vegliava sul buon governo delle póleis e delle sue istituzioni, proteggeva le costituzioni e le leggi, controllava le alleanze liberamente stipulate. Come divinità poliade, venne appellata ovunque in con epiteti che designano i toponimi e le maggiori sedi locali del suo culto. In Tessaglia e in Beozia fu detta Itoniàs (Ἰτωνίας) ovvero “la dea di Itonos”, oppure Alalcomenèis (Ἀλαλκομενηῖς) “la dea di Alcomene”; in Arcadia, fu Alèa (Ἀλέα) “la dea di Alea”, nella regione della Troade fu venerata con l’epiteto di Iliaca o Iliàs (Ἰ’λιάς) la stessa divinità recentemente rinvenuta nel Tempio a lei dedicato a Castro[21]. Nelle tre città dell’isola di Rodi fu Kàmira (Κάμιρας), Ialusìa (Ἰαλυσία), Lindia (Λίνδία); a Delos venne, invece, detta Kynthia (Κύνϑία); fu chiamata Lemniàs (Λεμνίας) sull’isola di Lemno.

Ella proteggeva le città anche sotto un profilo igienico, purificandone l’aria dai miasmi mortali garantendo così facendo il mantenimento e della salute pubblica allontanando le malattie e le infermità da guadagnarsi l’epiteto di Apotropàia (Ἀποτροπαία), favorendo, come suo padre Zeus, il moltiplicarsi e il perpetuarsi delle genti e delle famiglie in quanto Fràtria (Φρατρία) e Apaturìa (Ἀπατούρια).

Atena personificò non soltanto il valore della migliore strategia d’intervento ma anche, o soprattutto, la virtù intellettuale per antonomasia perché, in quanto figlia di Zeus e di Metis, venne personificata di volta per volta con la sapienza (σοφία), con la filantropia (ϕιλανϑρωπία), con la saggezza (φρόνησις), con la protezione (προστασία) ma soprattutto con la prudenza intesa come “capacità di autocontrollo e di riflessione” (σωφροσύνη).

Atena inventò la tromba, in Beozia invece l’aulos e il diaulos (strumenti musicali aerofoni a una o due canne), l’aratro, il vaso in terracotta e il tornio per produrlo, il giogo per i buoi, il rastrello, il morso per i cavalli, il cocchio e l’arte per costruire imbarcazioni. Fu la prima a insegnare il calcolo e la scienza dei numeri. Fu lei a proteggere tutte le arti domestiche femminili come il danzare[22], tessere, il filare, il cucinare che vennero designate come “opere di Atena” (ἔργα Ἀϑηναίης). Estese in particolar modo la sua protezione sulle donne elargendo loro la fecondità nel matrimonio, la capacità di vegliare sulla salute e la capacità di crescere la prole per cui assunse il nome anche di Kurotròphos (Κουροτρόϕος) ovvero “nutrice”, protesse anche le attività più prettamente maschili come la produzione artigianale e l’agricoltura. Da lei l’Attica aveva appreso la coltura dell’olivo il cui prodotto ebbe non unicamente una valenza alimentare ma anche simbolica e soprattutto iatrica.

Riguardo alle varie festività del culto attico dedicate alla dea vanno ricordate le Oscofòrie (Ὀσχοφόρια) che si celebravano al tempo della vendemmia, sul finire dell’anno agricolo. Queste consistevano in una lunga processione che, movendo dal tempio ateniese di Dioniso, arrivava a quello di Atena Scirade (Ἀϑηνᾶ Σχίράς) al Falero, atto religioso che ricordava la mitica partenza di Teseo e dei giovani destinati a placare la fame del Minotauro. Il corteo in processione era preceduto da due fanciulli vestiti con l’antico chitone attico recanti in mano dei tralci di vite carichi di grappoli detti (ὀσχοϕόροι). All’inizio di ogni anno agricolo, invece, che corrispondeva alla fine dell’inverno, quando le piante cominciavano a germogliare le messi, si festeggiavano le Procaristèrie (Προχαριστήρια), ovverosia dei riti di ringraziamento nei quali tutti i magistrati della polis erano obbligati a offrire dei sacrifici ad Atena, a Demetra e a Core. Nel mese di Pianepsione (Πυανεψιών) corrispondente a fine ottobre, in occasione delle Efèstie (Ἡφαίστια) festività dedicate al culto di Efesto, quando aveva inizio il lavoro di tessitura del peplo destinato ad Atena, al quale compito di tessitura e ricamo attendevano le donne e le fanciulle dette ergastine (ἐργαστῖναι) poste sotto la stretta sorveglianza della sacerdotessa della dea delle due ragazze prescelte nelle festività delle  Arrefòrie (Ἀρρηφόριαι)[23].

Al principio del periodo estivo tra maggio e giugno, nel mese di Targelione (Θαργηλιών) avevano luogo le Plintèrie (Πλυντήρια) e le Callintèrie (Καλλυντήρια): in questa occasione, i Prassiergidi ovvero i membri di un apposito sodalizio religioso dopo aver compiuto alcune funzioni espiatorie, svestivano del peplo la statua della dea e serravano il tempio ai visitatori. Nel mese successivo di Sciroforione (Σκιροφοριών), seguivano le festività delle Arrefòrie (Ἀρρηφόριαι) durante le quali si sceglievano due fanciulle, di alto lignaggio e di età compresa fra i sette e gli undici anni, che venivano incaricate, per gran parte dell’anno, di porsi al servizio di Atena Poliade sull’Acropoli di Atene. Nel periodo di Ecatombeone (Ἑκατομβαιών) metà luglio metà agosto, infine, si celebravano le famose Panatenee (Παναθήναια) dedicate al sinecismo attico, voluto e protetto dalla dea. Queste solenni festività si distinguevano in Panatenee ordinarie, che avean luogo ogni anno, e in Grandi Panatenee, che ricorrevano, invece, nel terzo anno post olimpiade. Le feste consistevano principalmente in agoni ginnici, e gare musicali e poetiche. Culminavano, il ventottesimo giorno di Ecatombeone intorno alla metà di agosto, con la grande processione che portava in dono alla dea il magnifico peplo tessuto e ricamato dalle fanciulle ateniesi.

I primi documenti della presunta iconografia di Atena furono rappresentati da una categoria di rozzi idoli cui doveva apparteneva il cosiddetto Palladion (Παλλάδιον)[24], citato nell’epopea omerica, venerato come indispensabile talismano protettore e garante della libertà di Troia. È probabile che statuette simili esistessero in molti arcaici luoghi di culto della Grecia preistorica e protostortica. La loro presenza fu documentata in varie poleis prima fra tutte Atene, dove era conservata all’interno del tempio dell’Eretteo, a Sparta, dove veniva venerata sotto il nome di Chalchiòikos (Χαλκίοικος) che significava “dal bronzeo tempio” a Pergamo ma anche altrove. La divinità era rappresentata in piedi con le gambe serrate, col corpo bloccato in una compostezza poco plastica, in attitudine di difesa e/o di attacco, con lo scudo imbracciato e la lancia pronta a essere scagliata. Doveva trattarsi di primordiali idoli lignei detti xoàna (ξόανα) e derivati molto probabilmente da antichissimi trofei antropomorfi che si riteneva avessero poteri miracolosi e apotropaici.

Insieme a questa tipologia di statuette se ne aggiunse, successivamente, un’altra in cui la dea comparve assisa così come doveva apparire l’Atena Poliade descrittaci da Omero nell’Iliade. Assise[25] erano anche le statue successive descrittaci da Strabone[26] a Focea e a Chio oltre alle note Atena Alea di Tegea, la Ergane di Eritre e le famosissime statue dell’Acropoli di Atene, una posta davanti l’Eretteo opera dello scultore attico Endeo che la tradizione voleva fosse stato un discepolo del mitico Dedalo e l’altra l’Atena Parthènos (Αθηνά Παρθένος) ovvero “Atena la vergine” scolpita da Fidia nel 438 a.C di cui parleremo nel dettaglio più avanti.

La tipologia assisa non ebbe, però, grande fortuna nell’iconografia della dea, alla quale si preferì l’atteggiamento in piedi che sarebbe divenuto, via via, sempre più plastico. Mentre avveniva lo sviluppo di questa prevalente tipologia scultorea di Atena combattente in atto di scagliare la lancia, sopravvenne un altro motivo che la raffigurò si in piedi e armata ma in posa di calma vigilanza. Subentrò poi nell’immaginario collettivo un’altra postura che fu presente unicamente nel caso di Atena Hygièia. Fattole deporre lo scudo la si immortalò col gesto della richiesta dell’offerta tramite la mostra del palmo aperto della sua mano destra. Successivamente venne raffigurata “orante”[27] e soprattutto in atteggiamento pensieroso atteggiamento che la abbinò all’esercizio della filosofia.

La famosa statua crisoelefantina d’oro, avorio, legni e metalli preziosi che Fidia aveva scolpito per il Partenone nel 438 a. C., era simile alla tipologia più diffusa. Pausania nel primo libro della sua Descrizione della Grecia la descrisse ritta, vestita d’una lunga tunica talare, con l’egida e l’elmo crestato con un cavallo raffigurato sopra di esso. Sui tre cimieri si trovano anche una sfinge, che rappresentava la grande sapienza degli Egizi, e dei grifoni alati. La dea si appoggiava con la mano sinistra allo scudo posato a terra, dietro il quale svolgeva le spire il mitico serpente[28] Erictonio o Erittonio[29]. Il suo braccio destro sosteneva una statuetta della “Vittoria”, il cui peso era sorretto da una piccola colonna. La sua lancia era appoggiata alla spalla sinistra. Sull’esterno dello scudo era stata cesellata in rilievo una amazonomachia, sulla parte interna, invece, una titamomachia. Sulla bordura dei suoi sandali compariva una lotta di Centauri e Lapiti e sul prospetto del piedistallo la nascita di Pandora. Secondo Plinio[30] la statua era alta, senza il piedistallo, 26 piedi (circa 12 metri) ed erano occorsi, per costruirla, 40 talenti d’oro.

Con l’avvento della civiltà romana[31] Atena cedette il posto alla sua alter ego italica Minerva[32] di discendenza molto presumibilmente etrusca[33], anche lei considerata dea della saggezza, della guerra scoppiata per giuste cause o per motivi di difesa, ma anche protettrice delle strategie, degli artigiani e dei musici e dello Stato. Svolse funzioni di ausilio medico col nome di Minerva Medica che a Roma venne venerata in un tempio situato mei pressi dell’Esquilino che da poco tempo a questa parte è stato riscoperto dagli archeologi solo in qualità di un antico ninfeo[34].

LA NOTTOLA DI MINERVA DIVENUTO IL SIMBOLO CIVICO DI GALATINA

 

Il suo animale sacro continuò a essere la civetta ma, alcune volte, anche il gufo che nella mitologia greca era sacro, invece ad Ares. Anche per i Romani era considerata colei che aveva inventato i numeri dei quali le era sacro il numero cinque. I Romani celebravano la festività dal 19 al 23 marzo nei giorni denominati Quinquatria[35]. Una versione più contenuta, le Minusculae Quinquatria, aveva invece luogo dopo le Idi di giugno, il 13 giugno, con la presenza di flautisti, strumenti molto usati nelle sue cerimonie religiose a ricordo della loro invenzione.

A Roma come in Grecia venne particolarmente venerata con vari epinomi al punto che le costruirono numerosi templi in tutta l’urbe. In epoca tarda il suo culto assunse caratteri sincretistici, come per molte altre divinità, per cui la dea venne assimilata a Igea per la scelta della migliore terapia di cura, Vittoria-Bellona con la presenza di due poderose ali e Fortuna se nella sua iconografia la si riscontrava reggente una cornucopia. Stranamente comparve come in Etruria sugli specchi che le donne utilizzavano per imbellettarsi probabilmente per la loro azione riflettente atta a valutare la loro condizione fisica. La sua clemenza durante le votazioni propendeva sempre a titolo di garanzia[36] a favore del presunto colpevole.

A Roma il calculus Minervae era la pietra di Minerva, cioè il voto decisivo in un organo collegiale che fosse in stallo per parità di voti su una proposta, equamente approvata e avversata dal medesimo numero di componenti[37].

 

  1. Atena Hygièia: la divinità che proteggeva dalle malattie

Dopo aver lungamente trattato l’epigenesi mitica di Atena è bene soffermarsi a esaminare nel dettaglio quale fosse l’Atena venerata nell’antico comprensorio di Galatina e, al contempo, ricercare le tracce della sua presenza e del suo culto impresse indelebilmente, a livello religioso extraliturgico, nell’antico rito di guarigione del tarantismo, tramite l’ausilio di una terapia a carattere coreutico musicale, che ha reso Galatina, etnologicamente e folkloristicamente parlando, famosa e unica in tutto il mondo.

Senza ombra di dubbio, soprattutto per la sopravvivenza nel rito di catarsi e guarigione della pratica iatromantica dell’incubatio, la divinità venerata in quel di Galatina non potette non essere che Atena Hygièia, che in epoca romana sarebbe stata ricordata con gli appellativi di Salus o Valetudo.

Quali sono, però, le prove storico-scientifiche a supporto di questa teoria?

Le prove a favore di questa tesi risultano non solo essere molteplici ma anche abbastanza consistenti sotto una lente d’indagine storico-religiosa. In primis va detto che difficilmente in un luogo ben determinato come quello della penisola salentina – una terra protesa naturalmente verso l’Ellade arcaicamente particolarmente affezionata al culto della dea – vi sarebbe potuta essere una duplicazione cultuale della stessa figura religiosa senza ipotizzare una differenziazione del proprio intervento specialistico.

PICCOLA EFFIGE IN BRONZO RAFFIGURANTE L’ATENA ILIACA DI CASTRO

 

Così se Castro[38] aveva goduto di antica fama per il grande tempio dedicato alla sua Athena Iliaca e Otranto a un altro santuario dedicata a un’Athena ancora da specificare ma molto probabilmente legata al culto delle acque fluviali, come pure in quel di Santa Caterina al bagno col fiumiciattolo che ne richiama la presenza. Anche il richiamo semantico presente nel nome del paese di Minervino di Lecce rimanderebbe ad una radicata presenza cultuale sul suo territorio. Nel comprensorio galatinese molto difficilmente avrebbe officiato una dea Athena presente altri luoghi seppur limitrofi senza pretendere che la divinità in questione si offrisse ai suoi adepti con una propria peculiarità di culto, caratteristica che per il territorio in cui sarebbe sorta la città di Galatina si sarebbe avuta, con buona probabilità all’interno di un antico santuario, usualmente creduto un semplice Athenaion, ma verosimilmente legato a doppio mandato al culto di Asclepio e dei suoi paredri[39], un vero e proprio Asklepieion, dove l’Atena locale ebbe modo di trovare collocazione con ben altre  specifiche finalità d’intervento strategico.

LA NUDA VERITÀ ESCE DAL POZZO, JEAN-LÉON GÉRÔME, 1896,

 

Risultano infatti esserci elementi e corrispondenze inoppugnabili tra antico culto asclepieo e tarantismo, come la presenza del pozzo (cisterna) dalle acque curative divenute poi dopo la cristianizzazione forzata popolarmente intese come miracolose, la vicinanza del luogo di cura extraliturgico (la famosa casa di san Paolo) ad un tempio liturgico (la chiesa Matrice[40]), la presenza di alcuni atti propiziatori pre e post ricovero religioso, la mimica coreutico-catartica delle tarantate durante il rito di richiesta guarigione, la presenza e il comportamento dei parenti delle tarantate o dei tarantati in loco, l’utilizzo di determinati strumenti musicali atti a scatenare la scazzicatura soprattutto quelli a percussione, l’applicazione diagnostica della cromocritica tramite la scelta delle zacareddhe[41], la presenza nel tarantismo di alcuni animali simbolici considerati emissari della malattia proveniente dal numinoso (tarantole, serpenti costrittori e scorpioni), la corrispondenza astrologica in occasione della data della festività, l’azione iatroimantica dei richiedenti la grazia al santo con esplicazione di vera e propria ira hominum e in ultimo ma non certo per ordine d’importanza la figura iconograficamente similare e sovrapponibile di san Paolo col nume pagano Asclepio.

MONUMENTO AI CADUTI DI GALATINA DEDICATO AD ATENA

 

In particolar modo è evidente la somiglianza della la fenomenologia rituale riportata anche ne La Terra del rimorso di Ernesto De Martino delle reminescenze dell’antico rito dell’incubazione onirica, rito che nel suo saggio venne documentato dalle splendide immagini in bianco e nero scattate dal fotografo italiano neorealista Franco Pinna che immortalarono tal tarantata Filomena di Cerfignano distesa sotto l’altare della cappella sconsacrata di san Paolo mentre cercava di addormentarsi per ricevere in sogno la terapia di cura migliore da parte del santo utilizzando le stesse movenze e gli stessi atti propiziatori effettuati negli antichi santuari di Asclepio di tutto l’ecumene antico.

Riprendendo, poi, ad analizzare l’utilizzo iatrico degli classici, animali totemici del tarantismo non si può non rimanere stupefatti nell’osservare come tutti questi ebbero una notevole valenza terapeutica nell’arte medica dell’antichità mediterranea. Nello specifico i serpenti costrittori, scurzune e sacara richiamano ora alla mente il loro utilizzo all’interno delle varie tholos dei santuari di Asclepio[42] e Igea dove venivano appositamente allevati in quanto si credeva che il loro morso succhiasse via il male provocato, lo scorpione anticamente utilizzato come medicamento per le afflizioni oculari una volta ridotto in polvere, la taranta (il ragno) per gli effetti emostatici della sua ragnatela in caso di ferite da taglio procurate in battaglia. Precedentemente a questo studio la dea Atena la si era approssimata al tarantismo unicamente per la vicenda mitologica della sfida che questa ebbe con Aracne e per la metamorfosi da questa subita per aver offeso la dea che l’aveva tramutata in uno degli animali totemici del tarantismo, la taranta.

 

  1. Atena, il tarantismo e il ripudio mitologico nella ricerca di Ernesto De Martino.

 

A questo punto della presente indagine ermeneutica, qualche critico o studioso del tarantismo di salda fede demartiniana potrebbe obiettare chiedendosi per quale motivo Ernesto De Martino, non abbia, con la sua competenza in materia, avvalorato tale ipotesi optando, invece, per una origine del fenomeno in età medievale?

A tale lecita domanda si potrebbe rispondere tirando in causa in primis la famosa disputache vide De Martino contrapporsi al filosofo milanese Remo Cantoni riguardo la considerazione del cosiddetto primitivo, anche da un punto di vista religioso, quindi mitologico.

De Martino, nonostante avesse in gioventù usufruito della competenza del suocero l’archeologo Vittorio Macchioro, suo vero e proprio “nume tutelare” che lo portò all’inizio a valorizzare la bellezza e la complessa attualità del mito greco arcaico[43], nell’evoluzione del suo pensiero critico si trovò più volte costretto a barricarsi dietro stereotipi utili alla propria connotazione filosofica, come l’aver voluto abbracciare lo storicismo idealista crociano di matrice occidentalista e separatista.

Egli accusò Cantoni – che a sua volta lo rimproverò di palesare nelle sue teorie poco spessore filosofico – di irresponsabilità perché aveva preteso di poter vivere l’arcaico nel presente o addirittura di tesserne le lodi. Per De Martino che permaneva ancorato ad una visione cristiana del tempo lineare, pur avvalorando la presenza di un pensiero primitivo in epoca contemporanea, riteneva essere il primitivismo culturale la causa di tutti i mali dell’Occidente.

Fu molto probabilmente anche il suo complesso e contraddittorio percorso politico  che lo vide dapprima convintamente aderire alla scuola di Mistica Fascista per poi avvicinarsi timidamente al liberalismo crociano e poi ancora dopo al socialiberismo di Tommaso Fiore e amici, tramutatosi in piena adesione clandestina a Giustizia e Libertà d’ispirazione azionista, adesione a sua volta abbandonata per aderire al Partito del lavoro, poi ancora al PSI di Nenni per cambiare ancora collocazione e aderire in ultimo al partito comunista nel quale sopravvisse alle antipatie di Togliatti grazie al “lasciapassare Gramsci”  e all’adesione all’etnologia progressiva di matrice sovietica di Sergej Tolstov  molto apprezzata dallo stesso Stalin –  che lo costrinse a rigettare d’ufficio ogni possibile eco mitologica che lo avrebbe fatto nuovamente avvicinare all’irrazionalismo macchiorano guénoniano e eliadeiano.

Pur avvicinandosi, poco prima della pubblicazione della Terra del Rimorso al tema del dionisismo e coribantismo mitici leggendo il saggio dello storico delle religioni francese Henri Jeanmaire Les mystères de Dionysos ed des Corybantes pubblicato nel 1949 sul Journal de Psychologie normale et pathologique pur tenuamente ammettendo all’inizio alcuni aspetti sincretici del tarantismo con alcuni antichi riti catartici pagani, successivamente escluse con un breve scritto intitolato Tarantismo e Coribantismo comparso nel 1961 sulla prestigiosa rivista universitaria “Studi e materiali di storia delle religioni” qualsiasi possibile parallelismo:

 

Ovviamente il confronto tra tarantismo pugliese e coribantismo, per quanto abbia fruttato una migliore comprensione del modo di esecuzione dei riti coribantici e una più perspicua interpretazione di alcuni passi di Platone (piccolo ma sicuro frutto che da solo mostra l’opportunità del confronto), non autorizza affatto, neanche in via ipotetica, a stabilire rapporti di dipendenza storica fra l’uno e l’altro.[44]

Pur apparendo affini ad un primo superficiale sguardo, le due modalità catartiche erano storicamente del tutto differenti. Per De Martino l’origine del tarantismo risaliva al tempo delle crociate con nessun esplicito riferimento, però, alla terra di Puglia:

Quanto alla voce taranta, al diminutivo tarantula (a cui risalgono tutti i continuatori romanzi indicanti probabilmente diverse varietà di ragni) e all’altro più tardo e popolare diminutivo tarantella, tutto ciò che si può ragionevolmente dire dal punto di vista etimologico è la connessione di taranta con Taranto, almeno sin quando non si ritrovi qualche nuovo documento che consenta di rivedere la quistione. La taranta e il suo morso velenoso appaiono per la prima volta nelle cronache medievali in connessione all’urto fra Occidente e Islam, ma senza riferimento alla Puglia e all’esorcismo musicale.[45]

 

Ma quali furono le plausibili ragioni di questo suo atteggiamento, per certi versi inspiegabile e contraddittorio?

Molto presumibilmente se avesse interpretato il tarantismo e la sua genesi sotto la lente dell’ermeneutica del mito classico, con tanto di presenza di divinità specialistiche atte alla cura e alla guarigione sincreticamente e religiosamente subentrate le une alle altre (Asclepio-San Paolo, Atena IgeaVergine della luce o altra peculiarità mariana) sarebbe stato obbligato, per certi versi ad abiurare i canoni progressivi della sua etno-antropologia e i fondamenti della sua stessa etnometapsichica, unitamente a quelli propri di un’azione emancipatrice politica delle masse contadine del meridione d’Italia; masse costrette a continuare a subire sperequazioni economiche irrisolvibili e a permanere in una stagnante situazione di assoggettamento ad un numinoso dispotico capace di ammansire nella sua ciclicità fenomenica l’ira hominum riconducendola nell’alveo di una devozione rurale, seppur in via di estinzione, come avrebbe compreso tempo dopo proprio all’interno della cappella di san Paolo a Galatina osservando le tarantate, che avrebbe  generato l’ultima sua opera, uscita postuma, intitolata  La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali.[46]

Inoltre, l’analisi del mito classico collegato al tarantismo avrebbe dato in parte ragione anche a Levy-Bruhl, al suo prelogismo e alla sua “legge di partecipazione” ma al contempo avrebbe avvalorato anche le tesi anche a Remo Cantoni con la sua idea di inclusione crono-antropologica del primitivo nel contemporaneo, una permanenza da non condannare come regressione culturale ma da proteggere come “peculiarità contrastante” dell’Occidente progredito e cristiano.

Immergersi nel mito dei Mysteria[47] lo avrebbe obbligato a indagare anche l’esoterismo magico presente nei riti d’iniziazione presenti in organizzazioni frequentate dalle sfere più colte del paese come “La Massoneria” e non soffermarsi a indagare strumentalmente solo il magismo presente unicamente nelle zone più arretrate dell’Italia, soprattutto quelle meridionali.

ASCLEPIO – SAN PAOLO: CORRISPONDENZE STATUARIE

 

Fu dunque utile per lui rimanere fedele alla sua scelta politica e utilizzare il corollario folklorico del luogo per leggerlo in chiave gramsciana considerando che tutto il costrutto, a cominciare dal culto di San Paolo che a Galatina[48], a differenza di quello di san Pietro era stato introdotto e sovrapposto solo in età moderna per volontà per bonificare cristianamente, una buona volta per tutte, il “luogo magico della cura” che aveva generato il peana καλή αθηνά che avrebbe a sua volta dato origine al toponimo ovverosia un vecchio pozzo, o meglio ancora, una vecchia cisterna dalle acque medicamentose facente parte ad un arcaico santuario pagano. Il tarantismo è stato, con buona pace di De Martino e dei suoi seguaci, la riprova dell’inapplicabilità universale dell’editto di Tessalonica nelle remote terre del Salento dove mutò pelle mantenendo inalterate le sue caratteristiche di fondo, prima fra tutte la volontà di un nume pagano/santo cristiano iconograficamente molto simile che prima colpisce, poi misericordiosamente guarisce il suo prescelto.

Se è indubitabile che Veritas filia temporis, di conseguenza la presunta “inviolabilità” del contenuto storico della Terra del Rimorso meriterebbe una più degna reinterpretazione partendo in primis, proprio dal significato nascosto del toponimo Galatina che Ernesto De Martino trascurò volontariamente di esaminare.

 

 RINGRAZIAMENTI

L’autore devolve i suoi più sentiti ringraziamenti alla dott.ssa Emanuela Zitti per la supervisione critica al testo.

  

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Note

[1] Col nome Galatena o Galathena è stata denominata nel Salento una piccola sorgente d’acqua dolce defluente in località Santa Maria al Bagno frazione balneare del comune di Nardò, situata nei pressi dei resti di una roccaforte difensiva, ora denominata “Le quattro colonne” per la forma assunta dal complesso difensivo dopo i crolli che hanno rovinato l’integrità della struttura facendo restare in piedi i quattro torrioni situati agli spigoli del complesso a pianta quadrata. Non si esclude la possibilità che in loco in passato potesse esistere qualche edificio di culto dedicato alla dea il cui culto in terra di Messapia era diffusissimo come ricordano altri toponimi o luoghi. A tal proposito si ricordi il tempio di Atena Iliaca di Castro, il “Colle della Minerva” dove vennero decollati gli 800 martiri di Otranto e il nome del paese di Minervino di Lecce.

[2] Galatea dal greco “Γαλάτεια” che significa “lattea”, ma questa interpretazione sembra un’etimologia popolare data dalla somiglianza con l’aggettivo γάλακτος, γαλακτεία, derivato da γάλα “latte”, mentre probabilmente la vera origine del nome potrebbe derivare da γαλήνη “calma” e per estensione terminologica “la dea del mare calmo”. Galatea, infatti, era nella mitologia greca, una delle cinquanta ninfe del mare, dette Nereidi, la cui abituale residenza si trovava negli abissi marini dove insieme al loro padre Nereo proteggevano e assistevano i marinai nel loro peregrinare.

[3] Tesi sostenuta dallo studioso del tarantismo di salda fede demartiniana, Maurizio Nocera.

[4] A onor del vero la possibilità che il toponimo Galatina derivasse dalla frase “Bella Atena” è stato sostenuto con perizia documentale  dal prof. Rino Duma in un approfondito articolo comparso nel 2016 sulla rivista telematica “la Tela di Aracne” ma anche dallo studioso magliese Oreste Caroppo nell’articolo.http://naturalizzazioneditalia.altervista.org/i-celti-galli-galati-in-salento/. Entrambi gli studiosi, però, si sono soffermati a tradurre unicamente la corrispondenza lessicale non collocandola, come invece questo lavoro di ricerca tende a fare, in un ambito iatrico-religioso da cui sarebbe derivato il rito coreutico curativo del tarantismo.

[5] G. Semerano, Le origini della cultura europea. Rivelazioni della linguistica storica, Firenze, L.O. Olschki Editore 1984, pp. 179-180.

[6] Nella mitologia greca, Oceano era un titano, nato da Urano (il cielo) e Gea (la terra). Cresciuto aveva preso in moglie di Teti, con la quale generò i tremila Potamoi e le tremila Oceanine. Egli possedeva un’inesauribile potenza generatrice, non diversamente dai fiumi, nelle cui acque si bagnavano per un auspicio di fecondità le fanciulle greche prima delle loro nozze, e a tal motivo molti fiumi o corsi d’acqua furono considerati come i capostipiti di molte antiche famiglie. Oceano non era, però, un comune dio fluviale comune, perché non era, di fatto, un fiume comune. Quando tutto aveva già avuto inizio da lui, lui continuò a scorrere agli estremi margini della terra, rifluendo in se stesso dando vita a un circolo ininterrotto. Il mare, i fiumi, i torrenti, i rigagnoli, le sorgenti e le paludi continuavano a scaturire dal suo essere fluente. Anche quando il mondo si trovò sotto il dominio di Zeus, egli solo poté rimanere al suo posto originario, oltre al quale si credeva esistesse solo Erebo, il buio. Tuttavia anche Teti e non solo Oceano rimasero nel loro luogo primitivo tanto che teti venne appellata col titolo di “madre”. Per ira reciproca la coppia primordiale decise di non procreare più e a Oceano rimase soltanto la facoltà di fluire in modo circolare in modo da poter alimentare le sorgenti, i fiumi e il mare unitamente alla subordinazione al potere di Zeus. A differenza dei suoi fratelli, Oceano non prese parte alla titanomachia, e non fu quindi imprigionato nel Tartaro. Oceano veniva raffigurato come un anziano a torso nudo, semicoperto da un manto e con due chele di granchio tra i capelli. A volte era rappresentato accompagnato da Teti.

[7] L’enigma dell’epiteto permane irrisolto in quanto potrebbe significare tanto “nata da Tritone” quanto “nata presso il lago Tritone” nell’Africa Settentrionale come avrebbe addirittura riportato lo stesso Omero.

[8]   Cfr. Omero, Ode a Pallade Atena.

[9] Nella Teogonia di Esiodo, Metis risultò essere la prima compagna di Zeus anche se Atena sarebbe nata quando Zeus era già sposato con sua sorella Era. Con nascita di Atena, sua madre Metis scomparve dall’orizzonte umano, mantenendosi sempre, però, dentro Zeus in qualità di intelligenza e sapienza primordiale.

[10] Ascia bipenne.

[11] Platone, Cratilo 407b.

[12] Efesto sarebbe stato, poi, riaccolto nell’Olimpo dalla misericordia di colui che non gli fu padre naturale ma soltanto zio e padre putativo perché fratello e sposo di sua madre Era.

[13] Alcuni mitografi sostennero però che avesse una testa sproporzionata dal corpo proprio per accentuare la sua sagacia.

[14]Cfr.  Platone Timeo 21 e ErodotoStorie 2:170-175.

12 Medusa era una fanciulla dotata dai una splendida chioma, che, amata da Poseidone, aveva provocato la gelosia di Atena che per punizione aveva trasformato i suoi capelli in serpenti e reso così micidiale lo sguardo da impietrire chi avesse voluto sostenerlo. Inviato dalla dea, Perseo aveva ucciso il mostro il cui volto orribile, procurava terrore e rovina di ogni nemico, con l’abile stratagemma del riflesso dello sguardo tramite il suo scudo. Atena aveva poi fissato nel centro del suo scudo la testa di Medusa a mo’ di trofeo come era in uso nelle antiche popolazioni europidi che consideravano la testa la sede naturale della psychè (ψυχή), ovverosia, dell’anima/energia del nemico.

 [16] Atena in battaglia consigliò i guerrieri greci che le furono particolarmente devoti e cari come Odisseo e Diomede.

[17]La dea aveva altri epiteti, oltre a quello sovra menzionati. I più diffusi furono: Leitis (dea della bellezza), Peana (la misericordiosa), Zosteria (della cintura) quando era armata per la battaglia, Anemotis (dei venti), Promachroma (protettrice dell’ancoraggio), Pronea (attinente al pronao), Pronoia (della provvidenza), Xenia (la ospitale), Oftalmitis (dell’occhio), Cissea (dell’edera), Agoraia (delle piazze), Coronide (la cornacchia) e in quest’ultimo caso ciò lascia propendere a una confusione e sovrapposizione originaria con la madre di Asclepio.

[18] Sulla base di una statua votiva dedicata ad Atena alta m. 0,60 con base 0.09 rinvenuta a Epidauro in prossimità delle terme di Antonino (senatore Sex Iulius Maior Antoninus) ora custodita presso il Museo Nazionale di Atene, fu apposta una dedica risalente al 304 d.C. da parte di tal Marco Giunio Neoretos, sacerdote di Asclepio Soter e daduco di Eleusi, quindi di sangue ateniese ad Atena Hygieia. Cfr. IG 4², 428.

[19] Plutarco, Le vite parallele. Pericle 13, 13.

[20] Pausania, Periegesi della Grecia,1, 23, 4.

[21] La statua della dea mutila della testa del tempio della Minerva di Castro venne rinvenuta dal Prof. Archeologo Amedeo Galati nel 2015, all’epoca supervisore degli scavi dell’equipe del prof. Francesco d’Andria dell’Università degli studi del Salento, il noto archeologo nazionale famoso per le sue importanti campagne di scavi archeologici in Italia e all’estero, con l’ausilio di altri validissimi collaboratori.

[22] Fu anche la dea che impartì agli uomini la danza guerriera che infondeva coraggio prima della battaglia e precedeva gli scontri più importanti.

[23] Erano due fanciulle, di nobile famiglia (chiamate appunto ἀρρηϕόροι), fra i sette e gli undici anni, le quali restavano addette, per gran parte dell’anno, al servizio di Atena Poliade sull’Acropoli della polis.

[24] Callimaco nel suo inno: Per i lavacri di Pallade narra di una cerimonia argiva, che consisteva nel portare il Palladio ogni anno al fiume Inaco per lavarlo e riallestirlo.

[25] Numerose statuette votive di terracotta ritrovate in Attica riproducevano lo schema di tali primitive statuette in atteggiamento assiso con gli attributi del πόλος, dell’αίγίς e del γοργόνειον.

[26] Strabone, XIII, 601.

[27] In atteggiamento orante si veda per esempio l’Atena di Velletri, ora al Museo del Louvre, attribuita alla mano dello scultore cretese Cresila di poco posteriore a Fidia.

[28] Il serpente potrebbe connetterla alla dea cretese dei serpenti, divinità domestica cui è affidata la protezione della casa o molto più verosimilmente con Igea la figlia di Asclepio di cui divenne l’ipostasi.

[29] Erittonio essere mitologico successe ad Anfizione divenendo il quarto mitologico re di Atene. Secondo Pausania era nato dall’unione di Efesto e Gea. Nella Biblioteca di Apollodoro risultava essere, invece, il figlio di Efesto ed Athena (o di EfestoAttide). Sposò la naiade Prassitea con la quale generò Pandione. Il suo nome secondo etimologie popolari, deriverebbe da ἔρις èris (contesa) e χθών chthṑn, (terra), oppure per quanto riguarda la prima parte da ἔριον èrion (lana, la stessa con la quale Athena si deterse dallo sperma di Efesto che questi aveva eiaculato sulla sua coscia). Un’altra tradizione vorrebbe invece significasse il nome terra dell’ericain quanto alcune leggende lo facevano derivare dall’azione di pulizia della dea Athena che facendolo cadere il lembo di lana sporco del seme del suo assalitore sulla terra, lo fece finire sulla sommità di un monte ricoperto di piante di erica. Gli avvenimenti della sua nascita furono i seguenti: Poseidone, ancora arrabbiato per aver perso il diritto di protezione sulla polis di Atene che era andata, invece, in dote ad Athena, aveva convinto Efesto del fatto che quest’ultima sarebbe andata a trovarlo per intrattenersi eroticamente con lui usando la scusa di farsi forgiare una nuova armatura. Atena recandosi effettivamente da Efesto con l’intenzione di farsi fabbricare delle armi nuove attirò le sue morbose attenzioni. Efesto dopo aver cercato di possederla iniziò a inseguirla. Athena fuggì e quando Efesto riuscì a raggiungerla, non si lasciò possedere. Il dio riuscì solo a eiaculare sulla sua coscia. Dopo essersi ripulita dallo sperma con un panno di lana lo scagliò a terra con ribrezzo. A causa di questo gesto Gea (la Terra) divenne gravida e dovette generare Erittonio che rispecchiando l’aspetto deforme del padre nacque con due serpenti al posto delle gambe. Athena vedendolo ne ebbe, però, pietà e lo chiuse in una cesta che affidò ad AglauroPandroso ed Erse (le figlie di Cecrope), imponendo loro di non aprirla. Le ragazze però, incuriosite disobbedirono alla dea che, per punizione le spinse a gettarsi dalla rocca di Atene. L’unica ad essere risparmiata dall’amara sorte fu Pandroso, che aveva distolto all’ultimo momento lo sguardo dalla cesta. Successivamente Athena cominciò a occuparsi di Erittonio, nutrendolo e allevandolo nel recinto dell’Eretteo. Una volta cresciuto, riuscì a scacciare l’usurpatore Anfizione divenendo re di Atene.  Ordinò che venisse posta nell’Acropoli una statua lignea di Athena istituendo con quell’atto le feste Panatenee che secondo Plutarco, invece, sarebbero state create non da lui ma da Teseo. Poi prese in moglie la naiade Prassitea, dalla quale nacque Pandione. Il fatto che Erittonio fosse stato nutrito nel recinto chiamato di Eretteo, ha dato forse adito alla confusione che spesso vi è tra Erittonio e il nipote Eretteo. A Erittonio venne accreditata l’introduzione del denaro e l’invenzione della quadriga per celare le sue gambe serpentiformi.

[30] Plinio, NatHist., XXXVI, 18.

[31]Pare che Minerva non fosse conosciuta nei primi stadi della religione romana, per la mancanza di un flàmine ovvero di colui che accendeva il fuoco sull’ara dei sacrifici con funzioni sacerdotali addetto al suo culto e dall’assenza di festività a essa dedicate. Nel più antico calendario sacro dei Romani: il suo nome comparve nel canto dei Sali, anche se è noto che questo venne introdotto solo dopo che Minerva sarebbe stata accolta nella religione pubblica romana. È probabile che il suo ingresso nel culto ufficiale dei Romani sia avvenuto quando era ormai finitala serie dei cosiddetti dei indigeti del tempo dei Tarquini.

[32] Benché sia così dimostrata l’antichissima appartenenza della dea alla religione etrusca, non pare per questo che Minerva debba ritenersi etrusca anche di origine. Il suo nome infatti risalirebbe probabilmente a lontane radici italiche. Colse nel segno l’ipotesi del filologo classico Georg Wissowa che ammise che patria d’origine della dea fosse stata la polis di Falerii, dove l’antico elemento latino-falisco aveva saputo e mantenersi vivo sotto l’elemento etrusco che si sovrappose poi a questo indigeno. Nella polis di Falerii le testimonianze antiche del culto di Minerva furono molto più numerose che altrove nella penisola italica. Da Falerii la dea sarebbe transitata nella religione etrusca e solo successivamente in quella romana entrando a far parte della famosa triade capitolina.

[33] Il termine Minerva fu probabilmente importato dal pantheon etrusco dove veniva denominata Menrva. I Romani ne confusero il nome straniero col loro lemma mens (mente) proprio per il fatto che la dea governava non solo la guerra, ma anche tutte le attività intellettuali.

[34] Va ricordato che i Ninfei anticamente svolgevano un ruolo devozionale atto alla cura.

[35] I primi cinque giorni successivi alle Idi di marzo, a partire dal diciannovesimo nel Calendario degli Artigiani

[36] Si trattava della traduzione latina dell’Athenas Psephos, il coccio che il presidente deponeva nell’urna per ultimo nella Bulè dei Cinquecento, l’organo legislativo nella Costituzione di Clistene, che pare esercitasse anche una funzione giurisdizionale. Tale definizione fu ricavata dall’esempio del leggendario voto di Athena in favore di Oreste, scritto da Eschilo ne: Le Eumenidi, voto che fu decisivo per mandare esente da pena capitale l’eroe che si era macchiato di matricidio.

[37] Stando a Tito Livio il numero dell’assemblea giudicante si aggirava intorno ai cinquecento.

[38] La divinità venerata a Castro era probabilmente molto affine all’Athena Poliade per l’ubicazione del suo tempio sull’acropoli e per il richiamo troiano del vestiario (presenza di un elmo di foggia frigia) e assenza dell’egida e le antiche gesta che legavano la fondazione della polis medesima a un nobilissimo eroe omerico di stirpe minoica presente in prima fila nelle vicende della guerra di Troia (Idomeneo o meglio Idameneo essendo il nome un oronimo) se non addirittura la presenza momentanea per approvvigionamento idrico e alimentare del mitico profugo Enea.

[39] Aiutanti di Asclepio che nel suo culto comparivano assisi accanto.

[40] Con l’avvento del cristianesimo tutti i santuari di Asclepio e Igea vennero distrutti e sulle loro rovine innalzati luoghi di culto della nuova religione. Molto singolare è la vicinanza del pozzo-cisterna pagano a pochi metri dalla chiesa matrice cosa che lascia supporre la preesistenza di un santuario pagano atto alla cura, dedicato molto probabilmente ad Athena Igea.

[41] Nastri colorati che erano utilizzati per comprendere la specializzazione della tarantola che aveva punto la donna o l’uomo richiedente l’intervento liberatorio di san Paolo. Potevano essere stati punti da taranta ballerina e allora dovevano danzare per ottenere la grazia, da taranta de partu e allora dovevano soffrire le doglie del parto, da taranta muta allora persistevano in uno stato comatoso, da taranta d’amore che causava malesseri a sfondo sentimentale, taranta d’acqua presente nella zona nord del Salento e via discorrendo.

[42] Primo fra tutti quello di Epidauro in Argolide.

[43] Nello studio dei Gephyrismi Eleusini suo argomento di laurea, aveva trattato ermeneuticamente la figura di vecchia Baubò la mitica moglie di Disaule colei che aveva inventato il ciceone che era divenuta con il passare del tempo una maschera in auge nei carnevali mitteleuropei.

[44] E. De Martino, Tarantismo e Coribantismo, “Studi e Materiali di Storia delle Religioni”, XXXII, 2: p.200.

[45] E. De Martino, La terra del rimorso. Il Sud, tra religione e magia, Milano, il Saggiatore 1997, p. 229.

[46] «de Martino ha avuto modo di assistere “in presa diretta”, sul terreno, al tarantismo in statu moriendi, alla sua disgregazione in atto, dietro la quale si cela la fine di un mondo, quello della cultura contadina d’impronta magica dell’Italia del Sud, “altra” rispetto ai canoni del cattolicesimo ufficiale». Cfr. M. Massenzio, Senso della storia e domesticità del mondo in Ernesto de Martino. Un’etnopsichiatria delle crisi e del riscatto, (a cura di) Roberto Beneduce, Simona Taliani, in «Aut aut» (2015), n. 336, pp. 39-60.

[47] I riti e i culti di Asclepio e Igea rientrano a pieno titolo nei grandi Mysteria ellenici.

[48] Cfr. AA.VV., Sulle tracce di S. Paolo. Verità storiche e invenzioni tarantologiche, Regione Puglia – Settore Pubblica Istruzione CRSEC, Galatina, Torgraf 2001;

 

Libri| Storia di una stella

 

di Paolo Vincenti

 

Rino Duma, Presidente del Circolo Culturale Athena, nonché direttore della nota rivista galatinese Il filo di Aracne, ha pubblicato svariate opere, fra le quali i romanzi La falce di luna ( Edipan, 2004), La scatola dei sogni (Edipan, 2008), La donna dei lumi ( Lupo Editore, 2011). Lo avevamo lasciato con La Taranta. Il dialetto galatinese (ovvero la lingua del popolo), pubblicata dall’Editrice Salentina (2016), una raccolta di commedie, poesie, proverbi, modi di dire, soprannomi, filastrocche, indovinelli, ed altro, in dialetto galatinese.

Attivo operatore culturale, Duma è stato relatore in molte conferenze di carattere storico, soprattutto sul tema del Risorgimento italiano. Tuttavia, c’è un’altra passione che costella la sua vita, ed è quella per il calcio. Una passione tanto forte che lo ha portato a cimentarsi in una impresa editoriale che non esiteremmo a definire “titanica”, ovvero quella di condensare in un volume 100 anni di storia del calcio galatinese. Storia di una stella. U.S. Pro Italia Galatina-U.S. Galatina 1917-2017 (Editrice Salentina, 2018) è la sua ultima pubblicazione, con l’impaginazione e la cura grafica di Salvatore Chiffi. La stella del titolo e che campeggia sulla maglia dei due giocatori ritratti nella bellissima immagine di copertina è quella della Pro Italia, la squadra del cuore di Rino Duma, della quale, ora più che mai, è considerato il tifoso numero 1, come attesta nella Presentazione del libro Adriano Margiotta. E a ben vedere, il “prof.”, come tutti amano chiamarlo, si è reso benemerito del calcio cittadino, avendo voluto sostenere da solo il faticosissimo impegno di consegnare ai posteri un volume così ponderoso, per festeggiare il centenario della fondazione della Pro Italia Galatina.

Ha motivo di rivendicare con orgoglio i propri meriti, lo stesso autore, che nella Prefazione, scrive: <<ho speso un anno e mezzo nell’indagare, rovistare, scoprire, appuntare, collegare, assemblare, ritoccare, definire e, finalmente, concludere. La mia è stata una vita di clausura condotta nella biblioteca “Pietro Siciliani” di Galatina nella torrida estate del 2016. Ogni giorno e per diversi mesi, dalle 8.30 alle 13.00 e dalle 15.00 alle 18.00, puntualmente presente in quella “casa del silenzio”, a sfogliare giornali e riviste>>.

Davvero uno sforzo meritevole del nostro plauso, quello di ricomporre il puzzle che era la storia della squadra di calcio. Duma cita le preziose fonti della stampa locale alle quali ha attinto – in primis “Il Nuovo Cittadino”, “Il Corriere di Galatina”, “Il Quotidiano”, “La Gazzetta del Mezzogiorno”, “Il Galatino”, “Galatina sport”- e ringrazia i suoi informatori, per la consulenza fornita su schemi di gioco, giocatori, formazioni delle squadre, compagine sociale, allenatori, presidenti, episodi vari di una lunga storia agonistica. Notevole anche l’archivio personale dell’autore, studioso di lungo corso e aduso allo scavo erudito e alla ricerca storica. È chiaro che la ricostruzione della carriera di una squadra di calcio non possa essere sostenuta solo dal rigore scientifico dello studioso, ma debba essere in più vivificata dall’amore del tifoso, che Duma non fa nulla per nascondere ma anzi palesa ad ogni rigo del suo libro.

La narrazione si svolge come un racconto, cui fornisce attrattiva quell’alone di leggenda che da sempre circonda le imprese agonistiche dei grandi protagonisti dello sport, le cui gesta sono state immortalate dalle più prestigiose firme del giornalismo sportivo, uno su tutti il grande Gianni Brera. Nel volume di Duma, all’intrinseco valore documentale si unisce la componente del ricordo e quindi della nostalgia, aspersa fra le pagine di questo gradevole album di vita calcistica, che potremmo definire generazionale.

Angelo Gorgoni (1639-1684) di Galatina e una stroncatura forse immeritata (2/2)

di Armando Polito

Dopo aver passato in rassegna i componimenti dedicati, a parte il primo, agli animali, in cui i riferimenti al mito trovavano diffuso albergo secondo il metaforico gusto dell’epoca, passo a quelli in cui il Gorgoni  si misura con problemi esistenziali o fenomeni con cui l’umanità è destinata a confrontarsi fino, probabilmente, alla sua estinzione.

 

(pag. 81)

La Morte 

Senza  penne son vento; à scherno hò l’ali,

e ‘l tutto in brieve punto lascio ucciso.

Le Bare elette ad egria funerali.

per carri eleggo dove trionfo à riso.

Pioggie di sangue, e grandini di strali

ovunque giungo, ovunque approdo avisob;

e degli spirti altrui spoglie fatali

empio l’Inferno, e colmo il Paradiso.

Mi porge il Tempo tributaria usura;

già potendo fermar l’Orbe retondo

come estinto l’inceptoc in sepoltura.

Ogni cosa creata in Lethed affondo;

sotto i miei colpi ha da spirar Natura,

Iddio produsse, ed io rovino il mondo.

________

a tristi

b annuncio

c ciò che si è iniziato

d Fiume dell’oblio nella mitologia greca e romana; da λανθάνω (leggi lanthano)=nascondere.

 

(p. 82)

La Politica

Se’ tutto il Mondo à gli miei gesti intento,

sovra tutti i Monarchi impero a pieno.

Chi de’ Statuti miei s’avanta alienoa

voli tra Selve à pasturar l’Armento.

Scovro grandezze, che non regna argento,

con astutie à gli Regni io reggo il freno.

Fingo, che sorda sono, ò cieca almeno,

s’à punire non vaglia un tradimento.

Più nelle Reggie, che ad altrove hò loco.

Dall’apparenze mie nasce il livore;

quando è tempo di pianto, io mostro il gioco.

É delle leggi mie queste il tenore:

d’ogni perdita vasta io narro il poco,

de’ trionfi minuti, il più maggiore.

_________

a Chi si vanta di essere estraneo alle mie direttive

 

(p. 98)

Per l’uso delle perucche, frequentato dal vano secolo 

Da mentitea à Natura un lusso vano,

che l’huomo accusa effiminato, e molle.

Ebro sì secolo rio, pregiasi invano,

mentre ciocche insensate Aurab l’estollec.

Braccio, che non di spada arma la mano,

almad,che non guerreri ordigni volle:

per lascivetto crin, pensiero insano,

l’accende i fasti, e vanità già bolle.

Censurata livrea, vile ornamento,

hor i petti virili abbaglia a torto,

tesor, ch’odia fortuna, e furae il vento.

Ecco, chi non dirà con senso accorto,

che l’huomo forte, divenuto lento,

oggi per Nume adori il crin d’un morto?

__________

a cose finte

b il vento

c solleva

d anima

e ruba

 

(p. 131)

Forza dell’eloquenza

Tutto può, tutto fà, lingua loquace,

qualor con salia à lusingarti viene,

pretenda Ulisse, e benche erede è Aiace,

perche l’armi d’Achille, e Ulisse ottiene.b

Vinca Reina, in libertade, in pace

senza leggi tiranne, e senza pene:

e ‘l gran Periclec, nell’orar fugaced,

libera, indusse in servitude, Atene.

Eloquente spergiuro Acheo Sinone,

seppe sì dir, che la Troiana plebe

chiuse il greco destriero entro Ilione.e

Folef son poi, che le marmoree Glebe

con la lira tirò g, mentre Anfione

con l’eloquenza fè le mura a Tebeh.

_________

a arguzie

b Allusione alla contesa tra Aiace ed Ulisse per l’attribuzione delle armi di Achille, con il tragico epilogo celebrato da Sofocle nell’omonima tragedia.  Dopo che Ulisse viene giudicato più degno di lui di prenderle in consegna, Aiace medita la vendetta ma la dea Atena gli toglie il senno, per cui egli compie azioni indegne di un guerriero. Ritornato in sé, per la vergogna si uccide.

c Politico, oratore e militare ateniese del V secolo a. C; la sua azione politica non ha mai trovato valutazione concorde tra gli studiosi, considerandolo alcuni un liberale, altri un semplice populista. Già lo storico Tucidide (V-IV secolo a. c.), che pure era un suo ammiratore, in Storie, II, 65 così si espresse: Ἐγίγνετότε λόγῳ μὲν δημοκρατία, ἔργῳ δὲ ὑπὸ τοῦ πρώτου ανδρὸς ἀρχή (Era a parole una democrazia, nei fatti il potere era sotto il primo uomo). Il Gorgone sembra aderire a questo giudizio.

 

d veloce, abile nell’arte oratoria

e Sinone si lasciò appositamente catturare dai Troiani e riuscì a convincerli ad introdurre dentro le mura di Troia (Ilio>Ilione) il famoso cavallo di legno.

f favole, qui, però, non in senso dispregiativo ma in quello di racconti mitici.

g Orfeo con la sua cetra faceva muovere alberi e pietre (marmoree glebe), fermava i fiumi e ammansiva le belve.

h Anfione per la costruzione delle mura di Tebe utilizzò le pietre del Citerone spostandole con il suono della lira donatagli da Ermes.

 

Il prossimo sonetto che leggeremo è un’insolita, per quei tempi, dichiarazione d’indipendenza. Malizia mi suggerisce di chiedermi quale sarebbe stata la dedica, vista quella che suo fratello indirizzò, quattro anni dopo la sua morte, a Francesco Maria Spinola (1659-1727), che tra i tanti titoli, riportati nel frontespizio, deteneva anche quello di duca di S. Pietro in Galatina. Scrive, fra l’altro, Giovanni Camillo trattarsi di un attestato di antica e cordiale osservanza, il che fa pensare ad un rapporto datato, cosa confermata quasi in conclusione, dove si legge: Felicissima dunque s’appelli S. Pietro Galatina mia Patria, di cui è meritevolissimo Duca. Per esserle toccato in sorte di havere sì Nobile, Valoroso, Virtuoso, e Benigno Padrone. E d’ogni invidia degna si stimi la mia casa, con occhio cortese sempre da sì sublimi Padroni, e rimirata, e protetta. Le raccordo per fine, e protesto, che nella Schiacchiera, glorioso Stemma del suo gran Casato, ove si mira, et ammira l’apparato di tanti varii Personaggi, saranno sempre i Gorgoni le pedine, e pedoni a piedi suoi posti, e prostrati. Sicurissimi di mai assaggiare Schiacco matto di sinistra Fortuna.

Nell’immagine che segue lo stemma della famiglia Spinola1 (d’oro, alla fascia scaccata di tre file d’argento e di rosso, sostenente una spina di botte di rosso, posta in palo) sul portale principale del palazzo ducale a Galatina, a riprova che quanto ad invenzione metaforica Giovanni Camillo non era da meno di Angelo.

foto di Alessandro Romano

Tenendo conto anche di quello intitolato La Politica, che abbiamo letto prima, mi chiedo se in fase di pubblicazione Angelo li avrebbe eliminati entrambi dalla raccolta autocensurandosi o li avrebbe mantenuti, a costo di urtare la suscettibilità dell’eventuale, quasi inevitabile per il costume dell’epoca, dedicatario.

 

(p. 179)

Non hà genioa di servire in corte

Nacqui à me stesso, e così far non voglio

me stesso d’altri, e suggettar mia sorte;

qualor bersaglio mi propongo à morte,

punto da i dardi suoi, vòb che mi doglio.

Essere ad onde di capriccio un scoglioc,

troppo duro è per me, troppo m’è forte.

Ha stravaganti idolatrie la Corte,

giacche al pari del Rè s’adora il sogliod .

Ivi potenza è podagrosa all’attoe,

prima, ch’un’alma poco onore avanze,

i crini d’oro inargentati ha fattof.

Han, politici i Rè, barbare usanze;

serbano i Corteggiani in sù l’estrattog,

ond’hanno metafisiche speranze.

______

a voglia

b voglio

c Il potere è paragonato al capriccioso movimento delle onde.

d Il trono, simbolo del potere.

e lenta a muoversi, come chi è affetto da podagra

f prima che un’anima consegua un po’ di onore, ha reso i capelli color argento da biondi che erano (l’interessato è diventato vecchio)

g mantengono il favore dei cortigiani con promesse astratte

 

(p. 180)

Abbondanza di poeti

Mancano gl’Alessandri, e i Cherilia

in maggior copia in ogni parte io trova

de’ metri armoniosi al Mondo novo,

più, che frutto gl’Autunni han fior gli Aprili.b

Dell’acque Pegaseec sorsi sottili

non si bevon lassù, per quel che provo.

Nascono Cigni d’ogni specie d’ovod,

a cui, fonti fatali, or sono i Nilie.

Le lire degli Orfeif, mille Neantih

trattan con man superba; e ‘l canto foscoi

par, ch’à sdegno attizzasse anco i latrantil.

Più si canta, che parla. E sì conoscom,

che Parnaso incapace à Cigni tantin,

vanno i Poeti, come i branchi al boscoo.

______

a Mancano i grandi condottieri ed i poeti epici; per i primi viene citato Alessandro Magno (IV secolo a. C:, per i secondi Cherilo di Samo, poeta epico del V-IV secolo a. C.

b in misura più appariscente dovunque io trovi al mondo poesie armoniose: come i fiori in primavera sbocciano ma non maturano mai in frutto. Probabilmente al Lezzi è sfuggito lo stile contorto di questi versi, altrimenti il suo giudizio sarebbe stato, se possibile, ancora più severo.

c Pegaso era un cavallo alato che per ordine di Posidone arrestò la crescita del monte Elicona verso il cielo, dovuta al piacere datogli dal canto delle Pieridi in gara con le Muse, con colpo di zoccolo  che fece sgorgare la fonte Ippocrene.

d nascono poeti destinati geneticamente a non esserlo

e per le quali fonti d’ispirazione non sono quelle della poesia antica (tra cui la fonte Ippocrene appena citata) ma fiumi senza mitiche implicazioni poetiche, come il Nilo

f Vedi la nota g a p. 17.

h Neante di Cizico, storico greco del III secolo a. C., viene qui assunto come modello di chi dovrebbe dedicarsi solo a ciò per cui ha provato talento (il che, però, non esclude che uno storico possa essere, magari solo potenzialmente, un poeta e che un poeta non sia negato, quasi geneticamente, per la storia).

i oscuro

l i cani

m vedo

n essendo il Parnaso (monte della Grecia centrale nell’antichità sacro ad Apollo e Dioniso, nonché sede delle Muse e, dunque, simbiolo della poesia)atto ad ospitare tanti (sedicenti) poeti

o vagano nel bosco come gli animali in branco

___________

1 La famiglia Spinola, di origini genovesi, vantò ben undici dogi dal 1531 al 1773 e ben quindici cardinali dal XVI al XIX secolo.

 

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/27/angelo-gorgoni-1639-1684-di-galatina-e-una-stroncatura-forse-immeritata-1-2/

La Terra d’Otranto in immagini ultracentenarie (5/7): Maglie, Gallipoli, Galatina, Soleto, Copertino e Leverano

di Armando Polito

Maglie, il Municipio

 

Immagine tratta ed adattata da Google Maps
Maglie, la piazza
Immagine tratta ed adattata da Google Maps
Gallipoli. il borgo
Gallipoli, il ponte
Gallipoli, Il porto
Galatina, chiesa di S. Caterina
Immagine tratta ed adattata da Google Maps
Soleto, il campanile
Immagine tratta ed adattata da Google Maps
Copertino, Il castello
Immagine tratta ed adattata da Google Maps
Leverano, la torre di Federico
Immagine tratta ed adattata da Google Maps

 

 

Per la prima parte (Ostuni e Carovigno): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/19/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-1-7-ostuni-e-carovigno/

Per la seconda parte (Brindisi): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/29/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-2-7-brindisi/?                                                                                                                                                  fbclid=IwAR0OADPSzNE2COdAuvd_k6liuSvLMxLbU7zjSXNyYaMay5s1-D7EXH-bMF8

Per la terza parte (Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/03/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-3-7-lecce/

Per la quarta parte (S. Maria di Leuca e Otranto): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/09/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-4-7-s-maria-di-leuca-e-otranto/

Per la sesta parte (Oria e Francavilla Fontana): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/26/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-6-7-oria-e-francavilla-fontana/

Per la settima parte (Taranto e Catellaneta): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/01/03/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-7-7-taranto-e-castellaneta/

Galatina ieri e oggi: benedetta cartolina!

di Armando Polito

La cara, vecchia  cartolina, per tanti anni è stata complice del nostro esibizionismo nel corso di qualche viaggio, per cui la inviavamo ad amici e parenti per far sapere che eravamo stati in quel bel posto più che per nostalgia di loro, tanto più che noi da quel posto eravamo ritornati da un pezzo. prima che essa giungesse a destinazione, cosa puntuale quando il nostro viaggio, con cartoline spedite a raffica dai vari luoghi visitati, durava parecchi giorni. Eppure, col passare del tempo, quello che era un documento della nostra debolezza personale è  per diventato una testimonianza della nostra storia collettiva. Perciò le cartoline, quanto più sono antiche, tanto più sono preziose per i collezionisti, non per chi, magari senza alcun compenso, se ne libera considerandole pura cianfrusaglia; salvo, poi, scoprire che quell’oggetto ha un certo valore.

Credo che la loro tiratura ormai sia ridotta al lumicino, anche perché apparirebbe semplicemente ridicolo inviarne una quando la tecnologia digitale consente con grande faciità e senza spendere nulla (a parte la spesa iniziale per l’acquisto dello strumento e quello ricorrente dell’abbonamento telefonico) di spedire foto e video, anche di qualità, in tempo reale.

Ma, mi chiedo, cosa resterà, a futuro utilizzo, di ogni file di questo tipo inviato o, comunque, memorizzato?   Le multinazionali del settore sfrutteranno nostre improbabili nostalgie  (ma sanno loro come ravvivarle …) inventando e montando mostruose, ma nello stesso tempo estremamente miniaturizzate,  memorie di massa che, se l’affidabilità le accompagna, saranno in grado di soddisfare l’immagazzinamento sicuro  dei dati ben oltre la vita più lunga (ma il prossimo modello è già sulla linea di produzione …) prevedibile per l’intera macchina?

Intanto, comunque andrà, ecco un esempio, attraverso vecchie cartoline, di una comparazione1 che non so se e in che modo le nuove tecnologie potranno continuare a garantire, anche a un dilettante.

Via Garibaldi (anni ’30)

 

Via V. Emanuele II (1932)

 

Via V. Emanuele II (1945)

 

Via  Pietro Siciliani (1932)

 

Corso Re d’Italia (1936)

 

Piazza S. Pietro (anni ’40)

 

Corso Porta Luce (anni ’40)

 

Piazzetta Giuseppe Lillo (anni ’50)

 

 

Piazza Orsini (anni ’50)

anni '50d

 

Corso Principe di Piemonte (1956)

 

Piazza Fortunato Cesari (anni ’60)

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1 Le immagini più antiche sono state tratte dalle inserzioni della sezione collezionismo su eBay, quelle recenti adattate da Google Maps, le cui riprese sono datate febbraio 2009. Rimane aperta la preghiera, anche se, ormai, visto l’esito dei precedenti inviti spero poco in un suo esaudimento, perché qualche lettore locale di buona volontà offra il suo contributo inviando alla redazione foto recenti, con la prospettiva il più possibile fedele a quella più antica, che attestino lo stato attuale dei luoghi. Le foto saranno pubblicate con citazione del nome dell’autore.

Galatina. Palazzo Mory, il recupero e la scoperta

Galatina, Palazzo Mory (ph R.G. Mele)
Galatina, Palazzo Mory (ph R.G. Mele)

 

di Andrea Panico

In corso agli interventi di ristrutturazione, il complesso edilizio, di proprietà Micheli-Vergine, in via Del Balzo, sta ritrovando luce nuova sui suoi secoli di storia.

Qui, fino a tutta la metà del XIX secolo visse la famiglia Mory ed è probabile che questa sia l’originaria residenza di questa famiglia che successivamente, nel corso dell’ampliamento cinquecentesco dell’abitato, volle costruirsi un nuovo palazzo dall’altra parte della città nella via che portava e porta ancora il loro nome.[1]

Lo stemma di famiglia – un giovane armato di alabarda e sormontato da un crescente, in postura frontale fuoriuscente da un’alta torre merlata –, si vede ancora in chiave al cinquecentesco portale al quale sono state rasate le bugne in un tempo imprecisato. Un’analoga arma in pietra è presente sul portale tardo-cinquecentesco del palazzo sito in via Mory. Lo stemma, non ultimo – con la variante di un piccolo crescente rovesciato e l’impugnatura della lancia, invece dell’alabarda o della spada –, è dipinto in due scudi araldici, posti ad ornamento del complesso programma iconografico del chiostro della Basilica di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina[2].

Galatina, chiostro della basilica di S. Caterina d'Alessandria, stemma dei Mory (ph R.G. Mele)
Galatina, chiostro della basilica di S. Caterina d’Alessandria, stemma dei Mory (ph R.G. Mele)
Galatina, Palazzo Mory (ph F. Mazzotta)
Galatina, Palazzo Mory (ph F. Mazzotta)
Galatina, Palazzo Mory, facciata (ph R.G. Mele)
Galatina, Palazzo Mory, facciata (ph R.G. Mele)

 

I lavori in corso hanno riportato in luce un’edicola votiva posta in facciata. Questa occultata in un dato tempo alla vista dei passanti, si presenta dipinta in tutte le sue parti. L’opera se pur conservata parzialmente è ancora leggibile nel suo insieme.

L’immagine, sulla parete di fondo, è ricavata dai racconti della Passione nei Vangeli canonici, di cui può essere considerata un riassunto visivo, ed anzi presuppone forse un intento didattico e mnemonico.

La figura patetica di Cristo – Uomo dei dolori –, è un soggetto che si diffonde soprattutto durante il XV secolo e si tratta in prevalenza di un’interpretazione iconografica non congiunta specificamente a un testo. È legata alla Passione ma “proiettata” fuori dal tempo. Nell’arte, il soggetto presenta alcune importanti varianti, come nella pittura del palazzo Mory.

Galatina, Palazzo Mory (ph R. G. Mele)
Galatina, Palazzo Mory (ph R. G. Mele)

 

Nelle opere che raffigurano l’Uomo dei dolori, il Cristo compare da solo, con il corpo martoriato e le ferite delle mani, dei piedi e del costato.[3] In alcuni casi, specie nell’arte italiana, Cristo viene raffigurato in piedi all’interno del sepolcro, con gli occhi chiusi. Nella pittura in esame, è inserita, come in una scena di Pietà, la disperazione privata, solitaria, inconsolabile di Maria che stringe a sé il Figlio morto.

Sullo sfondo, la Croce incombe sulla “muta” adorazione di Maria. Nella parte alta, inserito in un cartiglio, vi è l’iscrizione I.N.R.I, acronimo di Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum, Gesù di Nazareth re dei Giudei. Si tratta della motivazione della sentenza di morte, ufficialmente legata alla pretesa di Gesù di essere riconosciuto come re.

Fra le Arma Christi compaiono, oltre la Croce: la corona di spine, la canna con la spugna intrisa d’aceto, la lancia di Longino e la scala a pioli.

L’immagine centinata è riquadrata da un ornamento in doratura che separa quest’ultima dalle pitture realizzate ai lati dell’edicola. Questo spazio è suddiviso in tre campi distinti. In alto, un cielo trapunto di stelle ed una decorazione a “rosetta” posta a finta chiave di volta. Ai lati, due santi, entrambi barbuti. Di quest’ultimi, l’uomo posto a destra dell’osservatore ha il capo coperto da un possibile cappuccio e nella mano destra un libro.

Galatina, Palazzo Mory, facciata (ph R.G. Mele)
Galatina, Palazzo Mory, particolare (ph R.G. Mele)

 

L’opera, non ancora oggetto di un’indagine scientifica ed in corso di restauro, può con tutta probabilità ascriversi nelle immagini devozionali eseguite nel corso del XVI secolo.

Particolare con il santo di sinistra (ph R.G. Mele)
Particolare con il santo di sinistra (ph R.G. Mele)

 

NOTE

[1] Palazzo Mory, come altri edifici analoghi sono il risultato dell’occupazione edilizia dei suoli ricaduti nell’ampliamento cinquecentesco del circuito murario. CAZZATO M., Palazzi e famiglie. Architettura civile a Galatina tra XVI e XVIII secolo, Galatina, Congedo 2002.

[2] Nel chiostro della Basilica di Santa Caterina d’Alessandria, gli scudi araldici, inseriti nel ciclo pittorico del 1696 di fra Giuseppe da Gravina, sono dipinti in posizione centrale al di sotto delle storie francescane, inseriti nella parte superiore degli allungati cartigli al cui centro trovano posto le ottave in endecasillabo. Le scene ornate dallo stemma dei Mory sono San Francesco dinanzi al Sultano e San Francesco riceve le stigmate. PAPADIA B., Memorie storiche della città di San Pietro di Galatina nella Japigia, ristampa, a cura di Vallone G., Galatina, Congedo, 1984. MONTEFUSCO L., Stemmario di Terra d’Otranto, Lecce, 1997. SPECCHIA D., Gli affreschi del chiostro. Basilica di S. Caterina d’Alessandria Galatina, Galatina, Salentina 2007.

[3] L’Uomo dei dolori, non va confuso con le versioni “solitarie” dell’Ecce Homo. Anche qui Cristo compare da solo, con il corpo martoriato e l’espressione afflitta: però mancano i segni dei chiodi della Croce, mentre sono messi in evidenza la corona di spine, il mantello rosso e lo scettro di canna.

Notizie inedite su Matteo Tafuri (1492-1584). Nuove rivelazioni da un manoscritto seicentesco

M. Toma, Matteo Tafuri. Olio su tavola. Proprietà L. Galante
M. Toma, Matteo Tafuri. Olio su tavola.
Proprietà L. Galante

 

di Luigi Galante*

In una pagina famosa della sua Galatina letterata, pubblicata nel 1709, Alessandro Tommaso Arcudi dà una notizia, e tutti la ricordiamo, su Matteo Tafuri; ed è una notizia tanto celebre, quanto, come sempre per il Tafuri, controversa. Cosa scrive Arcudi? Egli ricorda “Conservavasi nella mia casa (degli Arcudi) la sua (di Gio. Tommaso Cavazza) Calvarie; insieme con quella del tanto nominato, e famoso al mondo Matteo Tafuro di Soleto, ma nell’anno 1672 a tempo ch’io facevo l’anno del noviziato, la vedova mia madre per alcuni timori e scrupoli feminili, fecele ambedue secretamente gettare nel publico cimiterio: non sapendo di che grand’uomini erano quelle, e di che bella memoria alla nostra casa”[1].

Molti studiosi si sono interrogati sul significato di questa ambigua parola: ‘calvarie’, perché quello che sembra il significato del termine più vicino al tempo in cui Arcudi viveva è indubbiamente ‘teschio’. Però certamente è sempre sembrato in qualche modo preoccupante che in una casa privata si conservassero dei teschi anche se appartenuti ad uomini illustri del passato; senza poi voler considerare la difficile compatibilità di questa conservazione con le regole della religione cattolica della quale Arcudi, dotto domenicano, era severo custode. Sicché è del tutto comprensibile che alcuni studiosi abbiano interpretato la parola ‘calvarie’ in modo diverso, ed abbiano sostenuto, non senza argomentazioni e riscontri, che il significato reale intendesse alludere invece a studi o scritti. Questa è stata l’opinione di esperti accreditati del mondo tafuriano e, a tacere di altri, ricordo il compianto Prof. Giovanni Papuli e la sua allieva Luana Rizzo[2]. Soltanto Luigi Manni, tra gli studiosi recenti, ha sostenuto con forte determinazione che per ‘calvarie’ non poteva che intendersi il teschio.[3]

Come stanno davvero le cose? Ancora una volta il dilemma è svelato da una inedita pagina del Galatinese Pietro Cavoti (1819/1890) che ci dà,oltre a questa rivelazione, una serie di sconosciuti particolari sulla sepoltura del Tafuri e, incredibile a dirsi, anche sulle vicende successive delle sue spoglie mortali. Facciamogli allora comunicare le notizie preziose che egli nelle sue peregrinazioni per la provincia, lesse in un antico manoscritto della famiglia Carrozzini, che oggi è probabilmente perduto, ma che nel 1884 si conservava a Soleto presso il canonico Giuseppe Manca il quale lo mise cortesemente a disposizione del Cavoti.

Ricordo dei fatti storici di Soleto da un manoscritto della Fam. Carrozzini. Matteo Tafuro morì il dì 18 novembre 1584, fu seppellito nella cappella di S. Lorenzo delli Tafuri a mano destra sotto l’immagine della Madonna con Nostro Signore. Furono tolte le ossa del filosofo di Soleto per volontà della Famiglia Carrozzini e deposte nel Monastero di S. Nicola in Soleto dentro una cassetta di legno con l’arme dei Tafuro. Vollero donare il teschio di questo insigne, alla famiglia Arcudi di Galatina. Alcuni frammenti dei suoi abiti consumati dal tempo e dai vermi, conservansi come reliquie da questa onorabile famiglia Carrozzini di Soleto. Notizie avute dal canonico Manca di Soleto. Conservasi detto manoscritto in casa sua. Mi mostrò il manoscritto per una mia visita il dì 26 ottobre 1884 per l’acquisto di alcune monete antiche trovate nell’agro di Soleto[4].

L’inclinazione del Manca a collezionare ed acquistare monete antiche, è confermata da una lettera dell’anno successivo, che il canonico scrive a Cavoti:  “Mio amatissimo Pietro. Ho visto le nove monete; pare appartengono al numero delle sessantatrè trovate qui. Sono greche e buone.… Se per vostro conto volete farne l’acquisto di qualcuna, preferite quella di Velia, cioè l’unica in cui si trovansi un leone, oppure qualcuna di Napoli scegliendola tra quelle che portano il bue a faccia umana barbato, le altre scartatele tutte, ma cercate di dar la preferenza a quella di Velia, che potreste pagarla £ 1:50 non più. Qui si son trovate molte altre, e nell’istesso luogo; basta ne parleremo. Vostro affezionatissimo amico e sempre Giuseppe canonico Manca[5].

Insomma, grazie al cimelio che Pietro Cavoti ci ha consegnato, e che è una ennesima riprova di quanto prezioso sia lo studio delle sue carte superstiti nel Museo galatinese, possiamo oggi dire non solo che Luigi Manni ha avuto, a sua tempo, la giusta intuizione, ma possiamo anche conoscere con esattezza il luogo della sepoltura originaria del Tafuri ; (cioè nella chiesa S. di Lorenzo dei Tafuri, e successivamente in S Nicola, oggi scomparse) e così combinando queste notizie con quelle di Arcudi , possiamo anche definire il destino finale del teschio tafuriano. C’è poi tra le cose da notare una data di morte: quella del 18 novembre 1584, che è a me pare, perfettamente bencredibile, perché contraddice, è vero, quella tradizionale divulgata da Girolamo Marciano (al 13 giugno 1582), ma è perfettamente compatibile con i dubbi di quanti hanno notato che nelle opere di Gian Michele Marziano (1583) e di Francesco Scarpa (1584), il Tafuri sembra essere considerato vivente[6].

Non mi parrebbe completo chiudere questo articolo, se non ricordassi anche il contributo iconografico importantissimo che Cavoti ha dato alla scuola tafuriana, non solo copiando da vari luoghi, e conservando per noi le immagini che io ho edito di Matteo Tafuri, ma anche quelle, sempre edite da me, di Sergio Stiso, suo predecessore, e dei suoi allievi, Cavazza, Scarpa e forse Lorenzo Mongiò. Perciò mi pare opportuno pubblicare qui due immagini cavotiane di altri due uomini legati forse al mondo tafuriano, e cioè quella di Giovan Paolo Vernaleone junior e di Stefano Corimba.

Infine aggiungo a complemento del ritratto molto importante del Galateo che ho pubblicato mesi fa insieme a quelli del Galatino,[7] anche il disegno cavotiano di un famoso amico galatinese del Galateo, Girolamo Ingenuo, che Cavoti copiò in casa della famiglia Tanza, da un originale che tutto lascia supporre essere perduto. Ma nelle carte cavotiane c’è di più: un ritratto di G.B. del Tufo8, che è poi il destinatario del famoso pronostico tafuriano che attende ancora di essere edito.

 

[1] A. T. Arcudi, Galatina Letterata (ristampa anastatica), Aradeo, 1993, pag. 49

[2] L. Rizzo, Umanesimo e rinascimento in terra d’Otranto: il platonismo di Matteo Tafuri, Galatina, 2000, pag 121

[3] L. Manni, La guglia L’astrologo La macara, Galatina, 2004, AGP, pag 113

[4] Il documento cavotiano è conservato presso il Museo Civico di Galatina, come tutti i ritratti riportati in queste pagine, comprese quelle nel saggio del Prof. G. Vallone, eccetto l’immagine tratta dal ms. Vat. lat. 6046. Essi sono di esclusiva proprietà del Comune di Galatina-Museo Cavoti. Per la riproduzione parziale o integrale delle immagini qui riprodotte, è vietata qualunque riproduzione senza autorizzazione scritta al Comune di Galatina, nonchè la richiesta di citazione dell’autore. Ringrazio l’Assessore alla Cultura di Galatina Prof.ssa Daniela Vantaggiato, che mi ha autorizzato alla pubblicazione.

[5] Lettera scritta dal canonico Manca di Soleto al Cavoti l’8 ottobre 1885. Cfr. L. Galante, Pietro Cavoti. I tesori ritrovati, , Galatina, 2007, EdiPan, pag. 76.

[6] G. Vallone, Restauri Salentini, in BSTO, Galatina, 1-1991 nota 14, pag. 155.

[7] L. Galante, Iconografia del Galatino, in Studi Salentini, LXXXV/2009-2010, pp. 75-88.

8  “Per un approfondimento sulla famiglia del Tufo vedi, L.  Manni La guglia L’astrologo La macara, Galatina, 2004, AGP,”

 

Pubblicato su “Il Filo di Aracne”.

Non essendo in possesso di autorizzazioni alla pubblicazione non abbiamo potuto riproporre le tavole citate nel testo

Il dialetto galatinese nell’ultimo libro di Rino Duma

Antidotum Tarantulae. Dal Magnes sive de magnetica arte (1644) del P. Atanasio Kircher
Antidotum Tarantulae. Dal Magnes sive de magnetica arte (1644) del P. Atanasio Kircher

 

di Paolo Vincenti

“La Taranta. Il dialetto galatinese (ovvero la lingua del popolo)”, è l’ultima proposta editoriale di Rino Duma, scrittore e attivo operatore culturale galatinese.

L’opera, dalla mole consistente, 569 pagine con elegante copertina cartonata bianca, pubblicata dall’Editrice Salentina (2016), è una raccolta di commedie, poesie, proverbi, modi di dire, soprannomi, filastrocche, indovinelli, ed altro, in dialetto galatinese.

Un viaggio letterario, un excursus filologico nella saggezza popolare, nella lingua madre dell’autore e nelle tradizioni ormai in via d’estinzione di una micro realtà municipale, Galatina, tanto ricca di storia ed arte. Alla confluenza con l’era digitale informatica, Duma, facendosi aedo di un tempo perduto, compartecipe cantore della cultura primitiva e spontanea del popolo salentino, ha voluto regalare ai suoi lettori ed estimatori questo scrigno di perle di saggezza, divertimento e leggerezza.

La taranta riportata in copertina è un’opera del maestro Antonio Mele Melanton: una libera interpretazione di uno spaccato sociale che ha caratterizzato in maniera indelebile il passato di questa città, il tarantismo, col suo portato di sofferenza, folklore, cultura popolare. Ancora oggi il nome di Galatina è legato al culto di San Paolo e alle tarante, sebbene il fenomeno si sia ormai concluso.

Ma Rino Duma, Presidente del Circolo culturale Athena e direttore della rivista “Il filo di Aracne”, da studioso e appassionato ricercatore di memorie patrie, ha voluto riportare all’attenzione dei suoi concittadini, degli anziani ma soprattutto dei giovani, il recupero delle cose di un tempo, nel vecchio “scascione de dialettu”, cioè “trabiccolo di dialetto”, come scrive nella sua Prefazione, perché questo “è l’antica e inalienabile carta d’identità della nostra anima cittadina”.

E lo ha fatto con questo corposo volume, una miscellanea, un florilegio di brani diversi raccolti insieme e accomunati dalla lingua usata; lingua che diventa un formidabile strumento di diffusione del sapere, se solo la si considera non museificata, imbalsamata, cioè immobile, inerte nel suo stanco perpetuarsi o sopravvivere a sé stessa, come un certo atteggiamento intellettual snobistico potrebbe suggerire, ma come materia viva, cultura fermentante di un popolo, sua riappropriazione identitaria. Si tratta insomma non di stereotipi anacronistici, superati, bensì di letteratura, disimpegnata, ma di sicuro interesse.

Il presente repertorio linguistico espressivo assume così una doppia valenza: quella di recupero memoriale per i più agée e quella di riscoperta, riproposizione delle radici, per i più giovani sol che questi ditteri, modi di dire, aneddoti e tranches de vie siano guardati come strumenti in grado di attivare processi collettivi.

Nel libro sono proposte quattro commedie, ovverosia farse in dialetto galatinese in tre atti: si comincia con “Reparto Ortopedia”, poi si passa a “Befana miliardaria a Corte Vinella”, poi a “La telefunata” (in quattro atti), e quindi “Natale tra vecchie comari” (in due atti), tutte scritte interamente dall’autore. Le poesie sono: “Poveru mmie”, “L’urtima taranta” che è un vero poemetto in dialetto al centro del quale è il mitico animale, “Pizzaca, Taranta beddhra!”, “Vulia cu èggiu”.

A interpuntare i testi, numerose fotografie in bianco e nero davvero pregevoli e molto vecchie che provengono dal patrimonio comune galatinese. Nella seconda parte del libro, viene pubblicata una sezione dedicata ai Modi di dire galatinesi, una ai Proverbi, una alle Filastrocche, Ninnananne, scioglilingua e Indovinelli, e un’altra, gustosissima, ai Soprannomi galatinesi, divisi in ordine alfabetico. A questo punto del libro, Duma propone la coniugazione di alcuni verbi in dialetto galatinese e qui la trattazione si fa ancora più interessante e divertente, per sfociare poi nella goliardia e nella risata crassa con “Frizzuli dialettali”, e con l’esilarante “Ma cce cazzu!”.

Nell’ultima parte del libro, trovano posto una foto dell’indimenticato pasticcere galatinese Andrea Ascalone, scomparso l’anno passato, ed una scheda bio-bibliografica dell’autore. Questo patrimonio di fiabe e proverbi acquista un enorme significato non solo storiografico ma anche valoriale e riallaccia i fili consunti di una comunità che vi si ritrova, che si specchia in questo “come eravamo”, con il sorriso nostalgico e bonario dell’uomo della strada ma anche con la riflessione del ricercatore , dello studioso.

Così il libro è in grado di suscitare sentimenti che credevamo relegati nel passato perché riesce ad accendere “la miccia esplosiva riposta nel già stato”, per citare Walter Benjamin . E tali sentimenti sono profonde scaturigini dell’immaginario collettivo e della enorme ricchezza che è il deposito culturale di un territorio.

Galatina. “Il peso dei rimorsi”. Ernesto De Martino, 50 anni dopo

tarantismo1

Martedì 1 dicembre 2015

Palazzo della Cultura (Galatina, Le)

CONVEGNO

“IL PESO DEI RIMORSI” – ERNESTO DE MARTINO, 50 ANNI DOPO

La città di Galatina rende omaggio a Ernesto De Martino con la rassegna “Il peso dei rimorsi”, dedicata al grande antropologo italiano nel cinquantesimo anniversario della sua scomparsa. L’appuntamento ricade all’interno di una serie di incontri e dibattiti organizzati in numerose città italiane, curati dall’Istituto dell’Enciclopedia italiana Treccani, l’Associazione internazionale Ernesto De Martino, la Fondazione Premio Napoli, l’Università di Ginevra, la Scuola di specializzazione in Beni demoetnoantropologici dell’Università di Perugia, la Fondazione Istituto Gramsci e la Fondazione Angelo Celli.

Dopo Lecce, Bari, Salerno, Perugia, Napoli e Matera, le celebrazioni fanno tappa a Galatina, città in cui De Martino dedicò le sue ricerche per studiare a fondo, per la prima volta in maniera organica e multidisciplinare, il fenomeno del tarantismo. Era il 1959 e da quella spedizione scaturì il celebre saggio “La terra del rimorso”, oggi tradotto, conosciuto e studiato in tutto il mondo.

L’incontro galatinese offre l’occasione di conoscere il pensiero dello storico ed etnografo De Martino, nato a Napoli nel 1908 e scomparso nel ’65 a Roma, tracciando il suo pensiero in un quadro letterario più ampio, sempre più attuale, non ridotto al solo fenomeno del tarantismo.

L’iniziativa, promossa dall’Assessorato alla cultura del Comune di Galatina e organizzata in collaborazione con Meditfilm nell’ambito del progetto “Luoghi e Visioni – Frammenti di antropologia visuale”, nasce per restituire il giusto lustro alla figura di De Martino, allo studioso che seppe fondere saperi diversi nella ricerca etnografica sulle culture popolari del Sud d’Italia, fino a essere riconosciuto a livello mondiale come il padre della nuova antropologia italiana.

L’appuntamento di Galatina celebra un De Martino meno conosciuto al grande pubblico, aprendo a una riflessione sul percorso ideologico e politico che lo hanno reso protagonista, dagli anni ’40 agli anni ’60, del panorama intellettuale italiano, insieme ad altri personaggi che ne hanno segnato la formazione; con alcuni dei quali, come Antonio Gramsci, Cesare Pavese, Benedetto Croce, intrattenne un’intensa dialettica intellettuale.

“Il peso dei rimorsi” è inserito nelle celebrazioni nazionali che si concluderanno a Roma, nel maggio 2016, per il cinquantenario della morte di De Martino, attraverso una serie di incontri itineranti per ricordare, riflettere e valorizzare le ricerche, il pensiero e l’eredità di una delle figure centrali della cultura italiana del dopoguerra.

Il convegno vedrà la partecipazione dei professori: Pietro Clemente (Università di 2 Firenze), Riccardo Di Donato (Università di Pisa), Carlo Alberto Augeri, Eugenio Imbriani (Università del Salento). A moderare il dibattito sarà il professore Mario Lombardo (Università del Salento).

Tra gli eventi in programma, la mostra fotografica “Il Cattivo Passato”, un suggestivo percorso tra storia, religione, antropologia e società nel pensiero politico-intellettuale di De Martino, e dalla “Breve rassegna Luoghi e Visioni” a cura di Meditfilm, con la proiezione di alcuni importanti documentari etnografici (“Il male di San Donato” di Luigi Di Gianni, “La passione del grano” e “L’inceppata” di Lino Del Fra). Aprirà il convegno la professoressa Daniela Vantaggiato, assessore alla Cultura del Comune di Galatina.

Per l’occasione, sarà presentato in anteprima il corto “Equilibri nel tempo”, scritto e diretto da Fabrizio Lecce, prodotto da Meditfilm nell’ambito del percorso di antropologia visuale “Luoghi e Visioni”. Il film, interpretato da Simone Franco, esplora i megaliti del Salento, dolmen e menhir che, con la loro essenza sacra, rappresentano l’anello di congiunzione tra il terreno e l’ultraterreno, tra la natura e la cultura, facendo emergere un paesaggio rurale arcaico ormai lontano dagli immaginari contemporanei. Il racconto è affidato alle parole di De Martino, estratte dal libro “La fine del mondo, contributo all’analisi delle apocalissi culturali”.

L’intera manifestazione si svolgerà martedì 1 dicembre a Galatina, presso il Palazzo della Cultura, con il seguente programma: alle 16:00 apertura mostra fotografica “Il cattivo passato”, alle 17:00 inizio del convegno “Il peso dei rimorsi”, alle 19:00 proiezione dei film in rassegna con l’anteprima del corto “Equilibri nel tempo”.

 

Link di approfondimento: www.luoghievisioni.it; www.meditfilm.com

Info e Contatti: MEDITFILM  –  info@meditfilm.com  +39 3277305829

UFFICIO STAMPA: Gabriele Miceli

 

 

Pasquale Cafaro. Una prestigiosa carriera alla corte di Re Ferdinando delle due Sicilie

Valente musicista galatinese

Pasquale Cafaro

Una prestigiosa carriera alla corte di Re Ferdinando delle due Sicilie

pasquale-cafaro

di Rosanna Verter

Per poter acquistar nome in un più vasto spazio, che non era il suol natio molti giovani del sud dovevano recarsi in uno dei Conservatori di Napoli, capitale del Regno delle due Sicilie, per studiare musica o per completare gli studi. Perché San Pietro in Galatina varcasse i confini del Regno, ci pensò la musica di Pasquale Cafaro, il cui nome viaggia tra i personaggi più eminenti del Settecento, quali ad esempio: Giuseppe Mercadante, Giovanni Paisiello, Niccolò Piccinni e Leonardo Leo, che fu anche suo maestro. Inoltre il Cafaro si colloca a pari livello deimaggiori compositori settecenteschi napoletani di musica sacra, come Domenico Cimarosa, Giovan Battista Pergolesi e Francesco Durante.

Dai registri di battesimo conservati nell’archivio della nostra Matrice, che ho potuto consultare grazie alla collaborazione di don Antonio, è emerso che Francesco Pietro Paschale (il nostro Pasquale) nacque il 1° febbraio 1708 da Giuseppe e Isabella Bardaro e fu battezzato a dì 5 dal Reverendo parroco Don Giuseppe Tommasi. Risulta inoltre che compare fu Andrea Galluccio e comare Domenica De Pietro. Pertanto le varie supposizioni sulla reale data esatta della sua nascita credo siano definitivamente sfatate. Altra nota da chiarire è che il nostro compositore non è il Caffariello, come molti studiosi sostengono, ma è solo e soltanto Pasquale Cafaro.

Ad onor di cronaca il cosiddetto Caffariello è Gaetano Majorano, mezzo soprano evirato, nato a Bitonto nel 1710 e morto a Napoli nel 1783. Forse la contemporaneità dei due può aver ingenerato questa confusione, perché il maestro scopritore del Majorano fu tal Cafaro (Domenico e non Pasquale), cosicché Gaetano prese, per riconoscenza, il soprannome di Caffariello.

Dal Catasto onciario (1754 A.S.L.) di San Pietro in Galatina, alla carta 599, si legge che la famiglia d’origine, oltre a possedere diverse proprietà, avevaintitolata a suo nome una contrada e in più alcuni familiari erano anche ecclesiastici, come ad esempio il reverendo don Felice, Pascale maestro di cappella, cioè il nostro; Angela, sorella, che era monaca ed infine il reverendo don Giovanni Angelo Cafaro, che era uno zio. Si legge, infine: “Felice abita in casa propria. Possiede un pezzo di terra con orto uno e mezzo di vigna a santo Sebastiano; un pezzo di terra con orte 4 di vigna e orte 4 di terra seminatoria allo Inchianà; una casa affittata”. Questo spiega, forse, perché tra le opere del Cafaro domina la musica sacra.

Prima ancora di essere l’esimio compositore, Pasquale era stato indirizzato dai genitori agli studi del diritto, o, secondo alcuni studiosi, allo studio delle scienze. Dopo essersi laureato (la laurea era un ornamento prestigioso per tutta la casata), poiché egli non era predisposto per le aule forensi e sentendo in sé la passione per la musica, il 16 dicembre del 1735, davanti al notaio Giovanni Tufarelli, dichiarava di avere diciotto anni e si impegnava a pagare docati dodici per l’ammissione come figliuolo alunno al Conservatorio di S. Maria della Pietà dei Torchini e si impegnava a servire, come musico, per cinque anni tanto nella Chiesa del Conservatorio, quanto in tutte le altre missioni, e processioni che si fanno per dentro e fuori Napoli…

È da precisare che il termine Conservatorio, nel XIV e XV secolo, non era ciò che oggi si intende, cioè il luogo dove si insegna la musica nelle sue varie branche, ma era semplicemente un istituto di beneficenza, dove i trovatelli, i poveri o gli orfani venivano “conservati” negli asili, ospizi, orfanotrofi e coloro che avevano la predisposizione venivano avviati,oltre che all’istruzione primaria, alla cultura musicale.

In seguito furono ammessi altri allievi e così questi istituti benefici si trasformarono in vere e proprie scuole musicali. Celebri i quattro Istituti di Napoli: il Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo, quello di Santa Maria di Loreto, della Pietà dei Torchini e di Sant’Onofrio. Nel 1808, per ordine di Gioacchino Murat, furono tutti e quattro riuniti sotto il nome di Collegio Reale di Musica, oggi chiamato Real Conservatorio di San Pietro a Majella, punta di diamante del mondo musicale.

Ammesso, quindi, al conservatorio con o senza le pressioni del marchese Odierna, protettore del giovane galatinese, iniziò a seguire le lezioni di due pugliesi: Nicola Fago (di Taranto) e di Leonardo Leo (di San Vito degli Schiavi, oggi dei Normanni) che lo istruì nell’armonia e nel contrappunto per addestrarlo nell’arte di suonare a quattro parti, la quale da pochi fra tanti, che han nome di maestri, al dì d’oggi è posseduta.

Pasquale rimase in quel conservatorio anche dopo la scadenza del suo contratto per migliorarsi nella scienza armonica. Il 37enne compositore, dopo un decennio di studio immane, ritornò dal suo amico marchese e pubblicò l’oratorio Il figliol prodigo ravveduto, (1745) su libretto di Giovanni De Benedictis, di carattere prettamente liturgico. Successo incontrastato ebbe con il melodramma Ipermestra, esecuzione avvenuta al S. Carlo nel 1751.

Il 20 gennaio del 1756, sempre al Real Teatro, viene rappresentato il suo secondo melodramma La disfatta di Dario,su libretto di Carlo Morbilli, duca di Sant’Angelo, un nobile con aspirazioni letterarie, che riceve una lusinghiera accoglienza. Lo spettacolo richiese un allestimento sfarzoso ed accurato tanto che l’anno dopo venne rappresentato L’incendio di Troia, che fu un solenne fiasco. L’impresario, per soddisfare il pubblico desiderio, senza arrecaredanno al buon nome del Maestro, rimise in scena La disfatta di Dario, rappresentata anche al Teatro della Pergola di Firenze.

Dopo questi successi, oltre ai i nobili napoletani, tedeschi ed inglesi fecero a gara per averlo come insegnante di canto e di composizione. La sua fama cresceva di giorno in giorno tanto che nel 1759 venne chiamato per l’insegnamento di composizione nello stesso conservatorio che lo aveva avuto studente.

Lo stesso anno Girolamo Abos (compositore maltese di melodrammi), secondo maestro di cappella del conservatorio, rinunciò all’incarico, cosicché i governatori dell’istituto si riunirono in sessione plenaria l’11 luglio per scegliere il successore. Poiché nel Signor Pasquale Cafaro…concorreva somma perizia nell’arte della Musica, bontà di costumi, e carità nell’insegnarla alli figlioli del Regio Conservatorio lo nominarono, con lo stipendio di ducati cinque, successore dell’Abos. Quindi egli fu successore di Abos e non di Leo, (deceduto nel frattempo) come molti sostengono. Pasquale iniziò una brillante carriera al fianco di Lorenzo Fago, grande esperto di arte polifonica. Due anni dopo la Giunta del San Carlo, dovendo portare in scena l’Andromeda di Antonio Sacchini, chiese al Cafaro di assistere alle prove per giudicare il carente organico dell’orchestra.

Esperto uomo di teatro, nel 1763fu chiamato a dirigere negli anni Il trionfo di Clelia e Issipile di Adolfo Hasse, Armida e Didone di Traetta.  Nel luglio del 1765il Duca di York, giunse a Napoli e l’impresario del San Carlo incaricò il Cafaro di comporre una nuova opera per l’occasione. Nacque così Isacco su testo del Metastasio e due mesi dopo la giunta del teatro stipulò un contratto con il nostro per la stagione operistica e il 20 gennaio andò in scena Arianna e Teseo, ossia il Minotauro, melodramma in tre atti su libretto del poeta della corte di Vienna, Pietro Pariati. Il successo forse fu dovuto, più che alla musica, alle imponenti scenografie.

La sua fama varcò i confini del regno e il Cafaro chiese una licenza dal Conservatorio per recarsi a Torino, dove compose per il RegioTeatro il Creso,opera seria in tre atti su libretto di Giovanni Pizzi, rappresentata nel gennaio 1768. Il maestro napoletano, e non galatinese, riscosse un caloroso successo, ma gli impegni al Conservatorio lo costrinsero a rientrare nella sua Napoli. L’alto livello artistico e la fama di esperto compositore più quotato del momento gli aprirono le porte, nel 1768, del Palazzo Reale. Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, sedicenne sposa di Ferdinando IV, aveva tra le sue doti quella per le discipline musicali e, pertanto, il Re lo nominò, oltre che maestro soprannumerario della Real Cappella Borbonica (20 ducati mensili e non annui), maestro della Regina di suono (cembalo) e canto. Allieva che, per nulla appesantita dalla diciotto gravidanze, seguì sempre con impegno le lezioni del maestro galatinese. Intelligente e autoritariala figlia di Maria Teresa d’Austria apprezzava e stimava il maestro per la sua correttezza e per la bontà d’animo. Il Cafaro le dedicò lo Stabat Mater a quattro voci ed ebbe talmente successo da sostenere il confronto con il capolavoro del Pergolesi.

I tanti impegni di Pasquale (era divenuto già un affermato compositore di melodrammi) andarono a discapito degli allievi del conservatorio della Pietà dei Turchini. Egli dovette seguire la Regina nei suoi spostamenti, pertanto cominciò a rinviare le lezioni e si fece sostituire da uno dei suoi migliori allievi, quel G. Giacomo Tritto, di Altamura, successore del grande Pergolesi. I governatori del Pio Loco, avevano deciso di licenziarlo, ma l’intervento del Re fece sì che il Cafaro mantenesse l’incarico, sino alla morte, di uno dei più prestigiosi conservatori del regno.

In quegli anni, ogni 12 gennaio, in occasione del compleanno di sua Maestà, furono eseguite numerose Cantate a tre o quattro voci e per queste composizioni ricevette dei compensi notevoli, se confrontati con i suoi stipendi di Maestro. Tra gli interpreti delle Cantate troviamo quel Gaetano Majorano (Caffariello),il soprano beniamino del pubblico sancarliano, che si distingue per la sua consueta bravura.

Siamo nel gennaio del 1769 quando al San Carlo fu rappresentata l’Olimpiade, l’opera più importante di Pasquale che esprime ormai la matura personalità del nostro compositore, su libretto di Pietro Metastasio. Il successo fu tanto e tale che venne replicata per ben tre volte nella Reggia di Caserta, alla presenza dei Reali.

Qualche mese dopo l’imperatore Giuseppe II, durante una visita nella capitale, sentì cantare la sorella M. Carolina e volle conoscere il suo maestro. Con lui tenne discorso sopra vari punti della scienza armonica ed il nostro gli rispose con erudizione e dottrina. L’imperatore disse alla sorella che doveva essere ben contenta di avere a maestro un uomo così degno ed istruito.

L’anno dopo, il 13 agosto, egli curò l’allestimento di Antigono, del Metastasio, per onorare i diciotto anni della regale alunna. Nel dicembre del 1771, alla morte di G.De Majo e grazie alla stima della regina, Pasquale fu nominato, senza concorso, Primo Maestro della Real Cappella.

Nei suoi ultimi anni di vita, nonostante si disinteressasse del teatro, fu incaricato, in sostituzione di Bach, dalla giunta dei Teatri di Napoli, dal 1774 e sino alla morte, di presiedere le piazze degli strumenti addetti all’orchestra del Regio Teatro San Carlo, non avendo trovato persona più esperta ed onorata di lui, tanto che l’ultima consulta porta la sua firma un anno prima della morte.Il suo desiderio era quello di  rimanere nel ricordo dei posteri come compositore di musica sacra, la cui umiltà lo spinse a rispondere a Padre Giovan Battista Martini, (frate francescano compositore di musica sacra) che gli chiedeva un suo ritratto per collocarlo, nel conservatorio di Bologna, tra i gli insigni maestri, con una lettera datata 22 giugno 1779: “Di quel che Vostra Paternità Illustrissima e Reverendissima mi comanda riguardo al mio ritratto io per dirLe del vero mi arrossisco di stare tra questi ritratti di tanti valentuomini… ma non ho potuto fare a meno di non ubbidirla. Perlochè ho dato subito il recapito per darlo affare, e terminato che sarà si spedirà a Bologna”.

Il buon Pasquale si fece dipingere nell’atto di comporre un Gloria Patri scritto a Canone Infinito. Oggi quel quadro è nel Civico Museo Bibliografico Musicale di Bologna. Per quarantatré anni, egli diresse, fino alla morte, nella chiesa di San Pietro a Majella, le celebrazioni in onore di Sant’Oronzo, santo patrono della colonia leccese che viveva a Napoli.

Il pio Maestro si spegneva a Napoli il 23 (o 25) ottobre (settembre per altri) 1787, nella sua casa del Rione di Santa Maria di Ognibene, per una cancrena che gli si formò in pochi giorni da ostinata incuria, contro cui furono inutili i rimedi dell’arte salutare…

Altri invece lo vogliono morto di attacco apoplettico dietro un rimprovero della sua alunna Maria Carolina, per un anello di gran valore smarrito, che poi venne riportato fuori da un bacile della di lei toletta…

Il nostro umile e modesto concittadino di grandi virtù morali fu sepolto, dopo le solenni onoranze funebri, a cui parteciparono tutti i più grandi musicisti napoletani, nella Chiesa di Montesanto, nella Cappella di Santa Cecilia, presso l’altare alla cui erezione aveva contribuito economicamente, accanto alla tomba di Leo e del grande Scarlatti. Nella cappella, dedicata alla patrona dei musicisti, avevano l’onore di essere seppelliti solo i più illustri e veramente pii artisti.

Ai funerali furono eseguite opere del Maestro e brani liturgici scritti per l’occasione dagli alunni di quel Conservatorio che lo avevano avuto alunno e docente.

Tutte le sue composizioni profane e teatrali furono lasciate al suo amico Don Nicola Bosco, mentre alla Real Cappella le composizioni sacre; i suoi augustisovrani le fecero eseguire, in suo ricordo, per molti anni dopo la sua morte. Degno successore del maestro galatinese, con il compito di sovrintendere all’Orchestra del San Carlo, fu Giovanni Paisiello.

Ora mi chiedo che cosa Galatina abbia fatto in suo onore e ricordo,se non l’intitolazione di una breve strada adiacente la chiesa dei domenicani. Una rivalutazione del suo lavoro fu fatta dal maestro Luigi Adolfo Galluccio, in arte Galladol, all’indomani della seconda guerra mondiale, anch’egli studente di giurisprudenza a Napoli ed allievo del conservatorio di San Pietro a Majella.

Tanti spartiti del Cafaro sono conservati nella sua casa di Vico del Carmine, gelosamente custoditi dagli eredi. Il professore Bruno Massaro ha intitolato a lui il suo centro musicale e l’allora sindaco Beniamino de Maria, convinto del valore educativo della musica, lo volle ricordare conun concorso nazionale per giovani pianisti.

La sua grande personalità, inserita nella migliore tradizione della scuola napoletana,è in attesa, quindi, di essere rivalutata perché egli fu persona dignitosa e certamente non priva d’estro. Le sue composizioni e i suoi manoscritti sono conservati negli archivi e nelle biblioteche di tutta Europa a perenne ricordo del suo nome e della città che gli diede i natali.

 

(pubblicato su Il filo di Aracne)

Da “L’Ago” a “La Befana”. Le riviste satiriche a Galatina

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La prima venne alla luce nel lontano 1904, l’ultima nel 1984

 

di Carlo Caggia

Galatina ha una tradizione di giornali satirici che conferma il carattere di questa popolazione allegra, spiritosa e talvolta caustica.

Non per niente i galatinesi sono conosciuti in provincia con il soprannome di “carzilarghi”, [“guance gonfie” (ndr)]. L’espressione è stata motivo di dotte disquisizioni sul suo significato, ma tutte inequivocabilmente confermano il carattere un po’ chiacchierone e guascone della popolazione.

Nel nostro archivio conserviamo due numeri di pubblicazioni satiriche che risalgono al 1904, intitolati “L’Ago”, stampato il 21 febbraio e (pronta risposta!) “Lo Spillone”, uscito solo quattro giorni dopo, cioè il 25 febbraio.

La lettura dei due giornali, per noi posteri, è difficile perché i personaggi presi di mira non hanno lasciato particolari tracce. Si può solo dire che erano tutti appartenenti al ceto alto della città (Mongiò, Tanza, Mezio, Congedo, Cadura ecc.) e molto spesso le rappresentazioni teatrali, con contorno di coriste e ballerine, fanno da sfondo.

Era, quindi, una satira circoscritta alla aristocrazia anche se, in concreto, non mancava quella popolare che aveva, però, la caratteristica della oralità e non aveva, naturalmente, l’”onore” della carta stampata.

Sia chiaro che, in questa sede, non trattiamo della satira in forma poetica, che ebbe le sue massime espressioni in Fedele Salacino (Cino da Porta Luce) e Nino Campanella (Pinna de Lindaneddhra).

Perciò dobbiamo fare un salto al 1940, in pieno periodo fascista, anno in cui si pubblicò un fascicolo satirico – “Le Vesciche e gli Spilli” – a cura del G.U.F. (Giovani Universitari Fascisti). Il compilatore fu Salvatore Ferrol, che poi sarà uno dei migliori docenti del Liceo classico “Colonna”.

Nella presentazione (non firmata ma redazionale) del numero si ha la riprova, ove ce ne fosse bisogno, che la “cultura” in cui vivevano questi giovani era a senso unico, prodotto naturale e logico di un regime che non permetteva termini di paragone, fonti diversi, dibattiti aperti. Erano giovani (absit iniura verbis) allevati “in batteria”, ideologicamente e culturalmente parlando, ed erano tutti in buona fede.

Dice il fascicolo: “(…) L’allestimento dei numeri unici rientra nel programma che la Segreteria del G.U.F. stabilisce per l’attività culturale. Oggi, più che mai, esso deve avere un aspetto sociale, risanatore, antiborghese. Se quest’ultimo termine (…) non da tutti è pienamente compreso non è cosa nostra (…)”, eccetera, eccetera. “Oggi, che si opera in profondità per incidere l’animo, lo spirito per creare l’individuo fascista, ognuno sappia che il G.U.F. seguendo gli ordini indefettibili del Duce, è in linea con questa lotta (…)”.

Come si vede la confusione è grande. I conati antiborghesi dei regimi totalitari (fascisti e nazisti) sono una congerie di Nietzsche, Sorel, Futurismo, Arditismo che sul piano effettivo rimangono velleitari e, di fatto, sconfitti.

Conclude la presentazione: “Numero unico, nostra cara creatura (…) tu ora va’, vedrai che il bravo ed intelligente pubblico galatinese saprà accoglierti con tutti gli onori, perché in te vedrà tutta la giovinezza, l’ardimento, la gioia della lotta ed il gusto della polemica: le armi con cui gli universitari fascisti combattono per vincere nel nome dell’Italia, come il Duce comanda”.

Il lungo viaggio attraverso il Fascismo, secondo la felice definizione di Ruggero Zangrandi, a proposito di questa generazione, tra qualche anno si concluderà, spesso tragicamente.

Nel dopoguerra, dal 1953 al 1984, vedono la luce numerosi giornali satirici, quali la “Cuccuvàscia” (1953), che poi si chiamerà “La Civetta”, organo dei giornalisti di Galatina che si pubblicava in occasione degli annuali, magnifici, “Veglioni della Stampa”.

Nel 1970 si pubblica “La Racchietta”, in occasione del Circolo Tennis.

Altri numeri sono legati alle festività di Natale, come ad esempio “Lu Presepiu” (1983) e “La Befana” (1984) o alle feste patronali di fine giugno, come ad esempio “La Taranta” (1971 e 1984).

Dopo, il silenzio.

 

(pubblicato su “Il filo di Aracne”)

Galatina e la fabbrica dei sogni

casa di piacere

di  Pippi Onesimo

 

La postazione della Casa della Rusetta era oltremodo strategica: nascosta con discrezione nella immediata periferia del Centro Antico, offriva la massima riservatezza e poteva essere raggiunta da tutti con estrema facilità, specialmente dai forestieri.

La palazzina sonnecchia, ancora oggi, sorniona, complice e colpevolmente collusa nel vicolo buio e breve, come un sospiro, di Vico Vecchio e domina dall’alto, rilassata in un dolce abbandono, la piccola, discreta e delicata Chiesa delle Anime, situata poco distante a piè del pendio.

In questo squarcio, che si delimita fra Piazza Vecchia, vico Vecchio e il tratto finale di via Vignola, il sacro e il profano, nello spazio di pochi metri, trovavano qui, come non mai, il loro curioso e stridente punto d’incontro.

Chissà quanti clienti diurni, dopo il misfatto consumato nelle alcove della Rusetta, colti da una tumultuosa e angosciante crisi di mistico pentimento, saranno entrati con furtiva circospezione nella Chiesetta, tenendo lo sguardo basso e scurnusu!

Lì, piegati su un rigido inginocchiatoio, avranno biascicato qualche ipocrita ave Maria, senza avere il coraggio di incrociare i volti disperati delle anime imploranti nelle fiamme del peccato, che con pregnante espressione e vivida suggestione Serafino Elmo ha rappresentato nella sua tela, che  sovrasta l’Altare Maggiore.

I clienti notturni, che non potevano trovarla aperta, forse saranno stati costretti a ritornarvi la mattina successiva per un segreto lavaggio di coscienza, recitando un veloce, conciso, frettoloso, superficiale  mea culpa… di circostanza.

E chissà quanti altri, forse la maggioranza, senza attacchi di crisi spirituali e senza rigurgiti di lancinante misticismo, si saranno allontanati a passo veloce da Vico Vecchio, sgattaiolando lungo il muro di cinta del giardino de lu Spitale vecchiu, mentre sdrucciolavano goffamente fra i bàsoli consunti, disselciati e sconnessi di Vico Lucerna.

Acceleravano certamente il passo, perché preoccupati per gli sguardi irritanti dei curiosi e degli impiccioni, ruddhra (semenzaio), che a Galatina, più che altrove, allora come oggi, cresceva sempre vivida e rigogliosa.

Vico Lucerna, che si snoda attraverso una stradina buia, nervosa, angusta e silenziosa, vive squarciato dal vandalismo, umiliato dall’incuria, offeso dall’abbandono, violentato dalla sporcizia, ma, ancor di più, ferito dalla disincantata disattenzione della Pubblica Amministrazione.

Da poco, qualcuno ha intrapreso, fortunatamente, interventi di restauro su abitazioni private e  forse restituirà in parte a quel Vico il suo meritato decoro.

Esso sfiora delicatamente tutt’intorno, con complice discrezione e in leggera pendenza, le spalle della Chiesa, per sfociare infine, smussando via Mezio, su Piazzetta Lillo.

Come via di fuga era l’ideale per i forestieri, che avevano parcheggiato le proprie auto sotto l’antico acero, che cresce da molti anni, altezzosamente maestoso, ad Est della Piazzetta.

Solo da poco, un vento particolarmente furioso e devastante, facendo presa con facilità nella sua chioma folta e imponente, lo ha reciso a metà.

Il tronco superstite, con insospettata, prepotente e rigogliosa vitalità, ha ripreso di nuovo a germogliare, adornandosi con una folta, verde, imponente corona di rami e di foglie, sufficiente a restituirgli tutta la sua maestosità perduta.

Quella vecchia, antica dimora della Rusetta conserva tutti i segreti di quel mestiere, sia nello squallore del fitto silenzio polveroso delle sue stanze, sia nella memoria storica di quei pochi clienti ancora in vita che, pur avanti con gli anni, hanno nostalgia, più ché di quei luoghi, …della loro svanita giovinezza.

E attraverso la loro memoria, annebbiata ma non completamente compromessa dagli anni, sembra ancora di intravedere, di fronte alla porta d’ingresso, un bancone in legno di noce con la sua porta laterale battente, lievemente spostato verso destra, sul quale erano impilati i gettoni di rame (le marchette), che i clienti ritiravano previo pagamento del prezzo dovuto.

Il bancone era sormontato con evidente strategica esposizione da una vistosa targa di bronzo.

Si trattava del tariffario, o prezzario (come si usava dire con espressione meno raffinata, ma che evidenziava in modo nudo e crudo tutto il… prezzo dell’affare), sul quale con eloquente e chiara grafia erano impresse tutte le tariffe e le condizioni delle prestazioni offerte.

Il salottino, posizionato quasi a ridosso della scala e accanto al bancone della maitresse, era arredato con un sofà damascato e con alcune poltroncine in finta pelle.

La porta-finestra, che da destra si affacciava su Piazza Vecchia con le persiane rigorosamente socchiuse, come prescritto (donde l’espressione  “case chiuse“ ), era protetta con prudenza e discrezione da una tenda a due ante color grigio, che si muoveva rigonfiandosi con ritmi sinuosi ad ogni pur piccolo e impercettibile frusciare di vento.

E sicuramente quelle stanze e i ricordi, che in esse aleggiano come fantasmi, sono la testimonianza più accreditata e attendibile di tante battaglie, combattute con appuntamenti segreti, con tradimenti e infedeltà coniugali.

Sono state certamente battaglie sempre affrontate e vissute nella illusione di un momento d’amore, consumato in pochi attimi, comunque voluto e cercato, anche se svilito e snaturato dal gesto mercenario che lo accompagnava.

Forse in tanti hanno sperato di poter, qui, gustare l’illusione della purezza di un affetto mai corrisposto, o  compensare a pagamento la delusione di un sentimento mai sbocciato, di un rapporto mai allacciato, di un incontro mai avuto, di un sogno mai iniziato, perché  infranto sul nascere a notte fonda, o di un fallimento annunciato già all’alba della vita.

E proprio per questo la Fabbrica dei Sogni della Rusetta non è mai venuta meno al suo scopo e non ha mai tradito nessuno, specialmente gli illusi e i sognatori.

Ora, quella palazzina è interessata ad un progetto di consolidamento statico e… conservativo non solo della struttura edilizia ormai pericolante, ma anche con documentata certezza di un pezzo (pur se modestissimo ed infinitesimale!) di storia galatinese.

Essa rappresenta, ancora oggi, la tenace testimonianza di un passato sicuramente frivolo, ma dagli indiscutibili contenuti umani e sociali, radicati con forza nel folclore e nel costume del paese.

Quella “casa“ raggiunse il suo massimo fulgore a cavallo della seconda guerra mondiale e morì, “ingloriosamente“ con largo anticipo, ancor prima che la legge Merlin, condita di ipocrisia e falso pudore, eliminasse tutte le “case chiuse”, per trasformarle poi in case… aperte, anche se clandestine e fuorilegge.

Dopo la signorile professionalità, lo stile e la discrezione, quasi surreale, della Rusetta, subentrò a Galatina lo squallore… del fai da te col  pericolo del diffondersi delle malattie veneree, che un efficiente ambulatorio medico, istituito allora come servizio pubblico su via XX Settembre, cercava di contrastare, o quanto meno contenere.

Infatti predominava l’improvvisazione, la superficialità con l’esercizio solitario e incontrollato, ma scandalosamente abusivo, di quell’arte in anguste catapecchie o improvvisate alcove, o in fatiscenti ammezzati, come quello che rimase in attività per alcuni anni nel piazzale Grotti, vicino al vecchio (tutt’ora esistente) frantoio Bardoscia, anche se faceva eccezione qualche signorile Palazzo al centro del paese.

Quella Legge infatti fallì clamorosamente il suo scopo, perchè  riversò, inevitabilmente e con determinata irresponsabilità, tutto quel misero e patetico lavoro sui marciapiedi e lungo le strade semibuie.

Al di là delle sue implicazioni umane e sociali e dei suoi risvolti infarciti da puerili e falsi moralismi, quella attività aveva almeno la garanzia dell’igiene e della sicurezza per i controlli igienici e sanitari cui veniva sottoposta.

Oggi purtroppo, come nell’arco degli ultimi sessant’anni, quel lavoro, che comunque violenta il corpo e abbrutisce irreversibilmente l’anima delle addette ai lavori e dei loro clienti, si svolge, oltre che in case clandestine, anche all’aperto, alla luce del sole, lungo le strade provinciali o intercomunali, o al complice buio della notte nelle periferie delle città in modo più volgare e più atrocemente disumano.

Ormai, con l’apertura delle frontiere nella Comunità Europea e con l’invasione dei disperati extracomunitari, quella attività si è trasformata in tratta delle schiave e degli schiavi, gestita dalle mafie locali ed internazionali, dove operano feroci aguzzini e spietati profittatori.

E il degrado umano e sociale che ne deriva e che offende la coscienza civile, ha toccato il fondo ed è destinato a diventare inarrestabile, se non si interviene con una legge saggia, intelligente e opportunamente equilibrata.

Problema che non si risolve, è certo, con le grottesche e risibili misure di contrasto, che hanno i loro censurabili risvolti di discutibile legittimità, assunte da certi sprovveduti e goffi Sindaci, non solo leghisti.

Iniziative che sembrano (ma forse lo sono veramente) solo folclore, spettacolo, passerella, demagogia e propaganda elettorale!

 

(pubblicato su Il filo di Aracne)

Buccio di Ranallo e La leggenda di Santa Caterina d’Alessandria

di Angela Beccarisi

 

In questo breve articolo riprendo alcuni ipotesi già espresse nella pubblicazione Nel segno della stella a sedici punte (Editrice Salentina) per evidenziare maggiormente i contorni di una ricostruzione storico-artistica attorno alla chiesa di santa Caterina d’Alessandria a Galatina, in relazione alle maggiori famiglie committenti presenti all’interno della stessa.

Come proposto nel 2012, avanzavo una diversa lettura in merito alla fondazione del tempio cateriniano, vale a dire l’esistenza di una chiesa intitolata a Santa Caterina de Veterjis  a cui legavo il nome di Raimondo del Balzo (prozio del più famoso Raimondello) e della seconda moglie Isabella d’Eppe[1]. Trovo conferma nella lettura del saggio di Michela Becchis[2], che consiglio vivamente  per il confronto proposto tra gli affreschi quattrocenteschi galatinesi e pittori dell’area siculo-catalana. Resta a monte che nelle trame artistiche e religiose della chiesa galatinese del 1385, vi sia un rimando anche esplicito a Raimondo del Balzo, sebbene in un’ottica di lettura differente proposta nel mio piccolo saggio.

Sempre Nel segno della stella a sedici punte, evidenziavo il legame esistente tra la chiesa di Casaluce ad Aversa, fondata da Raimondo del Balzo, intorno alla fine degli anni Sessanta del XIV secolo,  e l’ordine dei Celestini, ordine che prese possesso del convento e della chiesa sotto il regno di Giovanna I. L’evento venne celebrato dalla campagna decorativa in cui è presente Celestino V assiso in trono attribuita al maestro toscano Niccolò di Tommaso che operò nel napoletano in quegli anni[3].  

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Celestino V, attribuito a Niccolò di Tommaso, anni Settanta del XIV secolo, Casaluce

 

Allo stesso ordine Maria d’Enghien-Brienne era particolarmente legata. Il Cutolo nella sua biografia, infatti, ci informa del fatto che il confessore della contessa fosse un celestino[4]. D’altronde la notizia è in linea con le dinamiche sociali ed artistiche dell’epoca nella città di Lecce, poiché Santa Croce, la chiesa fondata a metà del XIV secolo da Gualtieri di Brienne, conte di Lecce e zio di Maria (lo stemma è ancora visibile a destra del portale maggiore, nell’edificio ricostruito nel XVI secolo su progetto di Gabriele Riccardi) era anch’essa guidata dai Celestini. Necessariamente questo forte legame con i Celestini conduce le nostre ricerche ed analisi in Abruzzo e in particolare a l’Aquila, dove si conserva il corpo di Celestino V, all’interno dell’abbazia di Collemaggio.

Nel 1392[5], un anno dopo l’arrivo dei francescani della Vicarìa di Bosnia, a Galatina a Santa Caterina, si stipula un gemellaggio tra il tempio cateriniano e l’abbazia di Collemaggio. Per cui trovo molto curioso ed interessantissima quanto leggo e ‘riscopro’ in un testo che a mio avviso dovrebbe essere studiato nelle scuole superiori italiane. E mi riferisco al bellissimo Storia della letteratura meridionale del professore Aldo Vallone.[6] Per quel che concerne la poesia epico-religiosa tra XIV secolo e XV secolo, uno dei maggiori centri di  produzione di versi in volgare era Aquila negli Abruzzi ed il poeta per eccellenza era Buccio di Ranallo (Poppoleto, oggi Coppito, fine XIII sec.-1363) la cui produzione era una “fluente maestosità di celestinismo e francescanesimo, certo il più suggestivo e completo dell’area abruzzese”.

Lo stesso Buccio componeva nel 1330 la Leggenda di Santa Caterina d’Alessandria, versi in volgare che illustravano la storia della santa martire di Alessandria d’Egitto, con una spiccata descrizione della santa, donna colta,  a discapito dell’imperatore Massenzio, in cui il poeta “imposta il colloquio e lo atteggia secondo temi e moduli francescani”.

Vollio che ad celo guardi,

c’- olle soe paramenta;

lu sole co’-ll luna

che tanto lume duna;

et anche delle stelle

che [so’]lucide e belle

che mai fieta non fanno.

 

Potremmo immaginare che l’opera di Buccio di Ranallo non fosse estranea alla corte di Napoli, allo spirito culturale ed artistico inaugurato nella capitale partenopea da Roberto d’Angiò insieme alla moglie Sancia de Mallorca che in quegli anni (1328-1333) erano alle prese con la decorazione della francescana chiesa di Santa Chiara ad opera di Giotto. Corte frequentata da Raimondo del Balzo, gran Camerlengo del regno di Napoli e signore delle terre di Soleto.

Altri elementi quindi possono essere utili a rileggere la grande fabbrica galatinese in cui gli affreschi ‘parlano’ con grande eloquenza di un sostrato impercettibile di scelte figurative che rimandano alla metà del XIV secolo e alla corte di Napoli. Ritengo che Raimondo del Balzo e la moglie Isabella d’Eppe siano stati attori non protagonisti nelle scelte architettoniche di  Galatina e Soleto, a cui si aggiunsero Niccolò Orsini, Raimondello Orsini del Balzo e Maria d’Enghien-Brienne.

Riporto in questo articolo un bel confronto di  immagini che mi è stato segnalato da Valentina Primiceri, dopo aver letto Nel segno della stella a sedici punte. Le due Vergini annunciate, a Galatina e nell’abbazia di Collemaggio, a rimarcare lquesto rapporto, questo dialogo, non solo religioso, ma anche artistico tra la contea di Soleto, in particolare Galatina, e la città dell’Aquila.

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A sinistra: Vergine annunciata, abbazia di Collemaggio, XV secolo- Aquila

A destra: Vergine annunciata, chiesa Santa Caterina d’Alessandria, XV secolo–Galatina

 


Bibliografia             

A. Beccarisi, Nel segno della stella a sedici punte, Galatina, 2012 anche per la relativa bibliografia e ultimi contributi.

M. Becchis, Santa Caterina a Galatina:i suoi committenti e alcune strade per i suoi pittori, in (a cura di) P.F. Pistilli, F. Manzanari, G. Curzi, Universitates e baronie, arte e architettura in Abruzzo e nel regno al tempo dei Durazzo, 2008.

F. Bologna, I pittori alla corte angioina di Napoli: 1266-1414 e un riesame dell’arte fridericiana, Roma, 1969.

A. Cutolo, Maria d’Enghien, Galatina, 1977

 

 G. Vallone, 1992. Ancora riproposto in (a cura di),  A. Cassiano. B. Vetere, Dal giglio all’orso, i principi d’Angiò e Orsini del Balzo nel salento, Galatina, 2006.

 

 A. Vallone, Storia della letteratura meridionale, Napoli, 1996, pp. 41-54.

 

GALATINA INTERDETTA

di Armando Polito

L’immagine che segue (tratta da http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k7518560c) è la riproduzione della prima pagina del numero di martedì 30 dicembre 1913 del giornale parigino La Lanterne. La traduzione a fronte del trafiletto in dettaglio è mia.

Al gentile e paziente lettore pongo solo due domande : dal patto Gentiloni in poi l’influenza che la Chiesa ha esercitato sulla politica è stata indenne o no da colpe gravissime, se, per fare un solo fulgido, lui sì, esempio, don Lorenzo Milani fu crocefisso e sostanzialmente bollato come prete comunista o, peggio, sovversivo anche in senso laico? E oggi che i comunisti (?), e non solo loro, non mangiano più bambini ma ostriche, caviale e prosciutti, chi saranno i degni di divina, sia pure per interposta persona, raccomandazione o palese candidatura?

 

 

Fiaba di Natale in lingua galatinese per bambini da 1 a 101 anni

Fiaba di Natale in lingua galatinese per bambini da 1 a 101 anni

Lu Vagnone Sbelisciatu e li Gnomi Sonatori

di Antonio Mele ‘Melanton’

 

C’era nu Vagnone tantu sbelisciatu, ca nu se recurdava mancu quand’era natu.

E se la mamma lu mandava cu ccatta li samienti, rrivava a la chiazza e turnava senza nienti. E se la nonna lu mandava a la cummare Lucia, partìa de sabatu e turnava de sciuvidìa. E se lu zziu lu mandava de cquà, poi stare sicuru ca se ne scìa de llà.

Nu giurnu se perse.

Sbelisciatu com’era, se truvau intru a nu boscu neru neru ca parìa nu cimiteru. Poi vitte na luciceddha luntanu luntanu, e se mise a cridare: «Ehi, voi, che vivacchiate in quella vanda, mi sapite dire chi cumanda, in dentro a quisto boscu neru neru, che rassomiglia a un tristo cimiteru?».

Ciuvieddhi li rispose. In primissi, percè lu Nanni Orcu (ca dopu lu Re e la Regina era quiddhu ca cumandava cchiui de tutti), a ddhu mumentu sta durmìa. E poi percè, in quella ‘vanda’ sperduta, addhài ci nu canta gallu né luce luna, nisciunu capìa bonu l’italianu. Ca invece, lu Vagnone sbelisciatu l’ia mparatu a la Scola, palora pe palora.

A studiare l’ìanu mandatu percè foe raccomandatu. E difatti nu canuscìa né la storia né la geografia. Tantu pe dire, confundìa Giuseppe Caribaldi cu mesciu Peppinu lu scarparu, e era cunvintu ca la capitale de la Francia era Palmariggi.

Le tabelline, poi, si le recurdava tutte sbajate, e scìa a seconda de le sciurnate. Tre per sette facìa vintisette. Ma se era dumenica: vintottu.

 

A parte qualche picculu difettu, ddhu Vagnone però tenìa nu grande affettu pe lu Paese e pe tutti l’abitanti, ca nun eranu mancu tanti: sì e no nu centinaru de cristiani, più nu ciucciu, tre mùsci, e quattru cani.

A ci cchiui e a ci menu, li iutava a li lavori de campagna, li pijava l’acqua a la funtana, e na fiata la settimana li facìa scola serale, ‘mparanduli tale e quale a iddhu. Putiti immaginare cce putìa capitare…

A lu Paese c’eranu quattru casiceddhe e quattru famije povereddhe: quiddha de la Crata, de la Ndata, de la Vata, e de la cummare Lucia, spusata cu lu cumpare Ucciu, ca tenìa nu vecchiu ciucciu, ca nu li cuddhava de faticà.

La Crata era vèduva, e tenìa quattordici fij, ca cu si li recorda tutti l’ia chiamati cu li numeri: Primu, Secondu, Terzia, Quattrinu, Cinquinu, Sestina, Settiminu, eccetera eccetera… La Ndata ne tenìa addhi quattordici (sette soi, e sette de sòrusa, ca poverieddha stia sempre a la fatìa intru na crande Massarìa). La Vata, invece, de fiji ne tenìa trìdici sultantu, ma nu se lamentava tantu…

Poi c’era don Liberatu, lu prèvate mandatu de la curia de San Dunatu; nu Vigile urbanu cu la paletta a manu (ca sperava cu passa qualche machina pe cumbinazzione, cusì li facìa contraminzione); nu Medicu cundottu, ca era meju cu stai bonu e mai malatu, (ca ti dava nu decottu de limone rresciuncatu); don Peppinu lu scarparu (ca ggiustava puru còfane e cumbò, senza dire mai de no); li tre vacabondi Roccu, Lia e Manicadesicchiu ca nu tenìanu arte né parte e sciucàvanu sempre a carte; e infine, na caterva de piccini piccicchi, ca parìanu passaricchi, e ‘vulavanu’ de cquà e de llà.

 

A lu Paese, sia li piccinni ca li loru genitori, nu tenìanu propriu nienti, e menu ca menu divertimenti. Pe quistu motivu, lu Vagnone sbelisciatu s’ia ‘nfilatu a ddhu sentieru ca purtava a lu boscu neru: cu bbìscia se putìa truvare qualche cosa de speciale pe Natale…

«Allora, – cridau novamente, cu la voce cchiù potente – voi che state in questa vanda, me lo dite chi cumanda, che sia Ciucciu oppur Duttore, per richiederli un favore?».

E de novu, nisciunu li rispose. Mancu lu Sciacuddhi, ca era sempre curiositusu, ma ‘sta fiata rimase scusu.

Quandu ìa persu ogni speranza, de retu a n’alberu siccu siccu, li ssiu nu Gnomu picciccu picciccu. Lo quale disse: «…Ma se po’ sapire cce bbai truvandu, ca de continuu ni vai ddisciatandu, cu ‘ddha voce de cristarieddhu ca batte e sona quasi a martieddhu? Simu Gnomi sonatori, e non puoi fare cusì: ci disturbi tutte le note, ci confondi lu fa col mi!».

E siccomu li Gnomi sonatori nu l’ia visti mai (ma però li putìanu servire), lu Vagnone replicau: «Se siete persone generose, come dispero che siete voi, vi debbo chiètere belle cose, per far felici molti di noi: una gran festa musicale che porti gioia al nostro Natale! In tutti li libri che non ho letto, risulta ca siete ventuno in tutto: vulìte venire a lo mio Paese, che non è bello ma manco brutto?».

E lu Gnomu rispose: «Ti sarò molto sinceru: generosi noi lo siamo, ma se ci dai nu pocu de mieru, cchiù fuscendu ti accontentiamo!». «Iu lu mieru te lo do, ma bisogna fare veloce, perché sai che il tempo passa, e la fava poi se coce!». «E va bene facimu de pressa, ma lu mieru dove sta?…». «Sta là sotto a la rimessa de lu vecchiu nonnu miu. Mèna, vieni, beddhu miu, e lu mieru ti darò!».

 

E cusì foe ca se mìsera d’accordu.

Sulamente ca però, pe l’articulu numeru 3, de lu Re controfirmatu, lu Vagnone sbelisciatu, de vintunu Gnomi ca eranu, sulu cinque poteva scucchia’.

«Comu fazzu cu li mbestu, quelli che pensu che servono a me? Mi serve na tromba e nu viulinu, nu tamburieddhu sopraffinu, la chitarra e la batteria, pe rallegrare la cumpagnia! E se infine sbaglierò, che ficura poi farò?…».

Ma li vinne na bella idea, e senza tanta prosopopea, si fece dire, unu per unu, tutti li nomi, finu al ventunu.

Li nomi de li Gnomi eranu: Andirivieni: ca sunava la batteria, e de nanzi a rretu scìa e bbenìa. Ballaballa:ca de la matina versu le sette cuminciava a fare piroette. Calamita:ca de sulu s’attirava le stonature, e se rraggiava. Dopodomani:ca rimandava sempre a lu buscrai quiddhu ca ìa sunare osce o crai. Elettrico: ca cu la chitarra era na spitta de focu e nu stìa fermu mancu nu pocu. Forseschesìforsecheno: ca lu vidivi tisu tisu, ma nun era troppu decisu. Grancassa: ca tenìa l’anche storte, ma sunava bellu forte. Holapertosse: ca quando s’ia straccatu, facìa finta ca stava malatu. Imprevisto: ca se li girava storta, se ne scìa sbattendu la porta. Licantropo: ca parìa nu lupu mannaru, ma era sempre bonu e caru. Mortadella: ca a ballare era uno spassu, tuttu rosa e beddhu crassu. Nonò: ca se nu li cuddhava, nun c’era versu ca sunava. Obelisco, ca era longu longu e finu finu, gran campione de viulinu. Piricòco: ca de pesche nu stava mai senza, ma sbajava la cadenza. Quaresima: ca sunava ma mai ridìa de lu sabatu a lu venerdìa. Ricreazione, ca ogni tantu se straccava, e a nu pazùlu se ssettava. Spinterogeno: ca facìa sempre scintille e girava a mille a mille. Triccheballacche: ca sunava in modu stranu lu strumentu napulitanu. Undicienagazosa: ca de quandu ccuminciava, subitu subitu se mbriacava. Vapensiero: ca pe nienti de capu partìa, e tra le nuvole se ne scìa. Zzacca-e-pija: ca cu lu passu de nu cavaddhu, de nu strumentu passava a l’addhu.

 

Mancu spicciau la presentazione,ca lu Vagnone sbelisciatu s’ìa già scucchiatu li cinque Gnomi, che in Paese voleva portà.

Quandu rrivara a lu Paese, era già scurùtu, ma pe la crande curiosità la chiazza se ‘nchìu subitu de gente. Era propiu la sera della vigilia de Natale, e de lu cielu cuminciava chianu chianu a nnevicare. Ma nnevicava caramelle, giocculate, cunfetti, candellini, licurizie, cupèta, mendule ricce, taraddhi zuccherati, pìttule, e perfinu qualche pasticciottu cu la crema…

Intantu li cinque Gnomi ìanu già fattu conoscenza cu tutti, e salutavanu la Crata, la Ndata, la Vata, la sòru de la Ndata, la cummare Lucia, lu cumpare Ucciu cu lu ciucciu ca nu li cuddhava de faticà… E via via, tutti l’addhi, specialmente li piccinni piccicchi, ca parìanu passaricchi, cu la vucca ‘perta e l’occhi spalancati pe la meraviglia.

Poi se mìsera tutti a ballare. E fìcera menzanotte. E brindara cu lu spumante, ca ciuvieddhi l’ìa mai ssaggiatu a ‘nvita soa.

Foe allora ca lu Vagnone sbelisciatu chiamau li cinque Gnomi sonatori e li fice schierare su lu palcu. E tutti li cinque Gnomi – ca pe magia eranu diventati cinque Giganti erti erti , e se vidìanu de tre mije de via – s’ìanu vestutu tutti cu delle belle magliette russe, e a’mpiettu tenìanu l’iniziale fosforescente de lu propriu nome. Lu Vagnone sbelisciatu li sistemau in quest’ordine: Andirivieni, Mortadella, Obelisco, Ricreazione, Elettrico. Di modu ca tutti li cristiani e puru la gente de Pizzurruggiatu e de li paesi cchiù luntani, attraversu le cinque iniziali, putìanu leggìre la parola: A-M-O-R-E.

 

Allora tutti cercara lu Vagnone sbelisciatu cu si lu mbràzzanu, e cu lu bacianu, e cu lu ringrazzianu cu tuttu lu core.

Ma nu lu truvara cchiui. E qualcunu dicìa ca s’ìa persu de novu a qualche via.

Poi, all’impruvvisu, lu vìttera rrivare sottubbracciu a l’innamurata soa, ca era nientidemenu ca la fija de lu Re. E rrivara lu Re stessu e la Regina, cu lu Magu e la Fatina, lu Nanni Orcu e lu Sciacuddhi, lu barone Pizzicuddhi, e nu corteu de Cavalieri col pennacchio rosso e blu.

Allora se mìsera tutti a ballare de novu, e la festa continuau pe tre giurni e tre notti.

E alla fine, l’innamurati, li cumpari, l’amici e li parienti – comu dicìa la nonna mia (e pensu puru le nonne vosce) – vìssera tutti felici e cuntenti, cu tanti Auguri de bona salute!

Lu cuntu nu foe cchiui, diciti n’addhu vui.

 

Il quadriportico di S. Caterina d’Alessandria a Galatina

Quadriportico di S. Caterina d'Alessandria a Galatina

di Andrea Panico

 

Molti studiosi si sono interessati alla Basilica di S. Caterina d’Alessandria a Galatina ma, pochi hanno focalizzato il proprio interesse sul quadriportico annesso all’edificio. Tra questi è da annoverare padre Benigno Francesco Perrone (1914-1995) che, per anni condusse la sua ricerca sui conventi francescani disseminati sul territorio pugliese.[1] Una monografia dedicata esclusivamente al quadriportico è stata pubblicata nel 2007, opera di Domenica Specchia.[2]

Mi permetto in questa sede di tracciare un quadro d’insieme dal carattere storico-artistico a seguito dei miei studi universitari sull’argomento.

La storia dell’ordine francescano, custode del complesso cateriniano,[3] è segnata negli ultimi decenni del XVI secolo da un profondo ripensamento spirituale e dall’esigenza di una più rigida osservanza della regola, in ragione del rinnovamento interno alla chiesa avviato durante la controriforma. Il convento galatinese fu aggregato nel 1597 al novello istituto della Serafica Riforma di San Nicolò.

«Sessanta e più anni»[4] dopo che i Riformati se ne erano impossessati, fu demolito il convento orsiniano e si diede inizio alla costruzione della nuova dimora.

Il quadriportico seicentesco a pianta quadrata, a due ordini e di dimensioni maggiori rispetto all’architettura trecentesca segue a grandi linee lo schema adottato negli altri conventi della Serafica Riforma.

I frati riformati, che verso il 1657 avevano innalzato il nuovo convento, nell’ultimo decennio del XVII secolo, affidarono al confratello Giuseppe da Gravina la decorazione degli ambulacri superiori e del quadriportico. Il pittore appose sulle superfici parietali istoriate del chiostro la scritta «Frater Ioseph a Gravina Reformatus pingebat Anno Domini 1696».[5] Documento visibile, nell’angolo di sinistra, entrando nel chiostro dalla portiera della dimora minoritica.

Il ciclo pittorico si dispiega sui quattro lati del quadriportico, con scene coordinate ma indipendenti. Con il suo linguaggio felicemente narrativo e cromaticamente intenso affresca “in versi” l’epopea del francescanesimo intrecciando insieme gli eventi e le figure più rappresentative dell’ordine, la salmodia cromatica delle virtù morali, cristiane e francescane, e le insegne araldiche in ricordo della generosità dei benefattori.

Gli affreschi del quadriportico, in sintonia con la tendenza storiografica del XVII secolo che risaliva agli Annales Minorum del frate e studioso irlandese Luca Wadding e ripresa da padre Diego Tafuro da Lequile nella Hierarchia Franciscana, innanzitutto pongono in evidenza il concetto che san Francesco d’Assisi e l’ordine minoritico insieme a san Domenico di Guzmàn e all’ordine dei padri predicatori sotto lo sguardo della Vergine costituiscono i pilastri, su cui si regge la Chiesa di Dio. A tal fine, a Galatina, negli angoli interni del quadriportico, fra Giuseppe da Gravina dipinse i padri fondatori dei due ordini, riconosciuti Salvezza dell’Umanità e nel gesto di Sostenere la Chiesa Vivente. Nell’altro le Stigmate e l’Apparizione della Vergine a san Francesco d’Assisi. Quest’ultimo episodio, da me ricondotto al legittimo partecipe, è uno dei temi nuovi dell’iconografia francescana inaugurato dalla controriforma.[6]

Sulla parete, che fiancheggia il vecchio refettorio, ora adibito a museo della Basilica, sono narrati gli eventi della vita di san Francesco d’Assisi. Il padre fondatore è colto nella sua piena maturità religiosa. Come cronista attento hai particolari, fra Giuseppe da Gravina, con passo lento e cadenzato in tre pannelli mette a fuoco il Perdono d’Assisi. Segue il Miracolo del bambino resuscitato e San Francesco davanti al Sultano. L’endecasillabo che accompagna quest’ultimo evento paragona «l’e[roe] d’Assisi» al «gra[n] duce Goffredo». Il trionfo del santo, che termina con l’episodio delle Stigmate, è un tema ricorrente dell’iconografia barocca.

Sarebbe tuttavia azzardato far corrispondere alla visione estetica del barocco imperante alla fine del XVII secolo l’esecuzione del frate gravinese che si mostra per certi versi arcaica. Nella sua opera di divulgazione si coglie una linea stilistica ma soprattutto una linea iconografica. Nella raffigurazione di San Francesco riceve le Stigmate ad esempio, rimane ancorato alle pitture medievali e in aderenza con le fonti francescane dipinge un serafino alato che imprime nel corpo del santo i segni della passione. Nel medesimo pannello si avverte una spiccata sensibilità per l’elemento paesaggistico che è propria del gusto del tempo.

Dispregio del mondo
Dispregio del mondo (ph O. Ferreiro)

Elemento ricorrente in tutto il ciclo è l’introduzione di elementi estranei e decorativi. Nell’Apparizione di Gesù Bambino a sant’Antonio di Padova, eseguita nel lato prospiciente palazzo Orsini, ora sede del Comune, e narrante eventi della vita del grande taumaturgo, si nota un gatto accucciato sullo sgabello in primo piano a sinistra e dietro una porta socchiusa, è raffigurato il conte Tiso di Camposampiero, stupefatto nell’assistere al miracoloso evento.

Un’altra costante è costituita dal gusto per i costumi esotici, che compaiono spesso nelle scene dedicate ai martiri dell’ordine che coprono il lato del quadriportico parallelo alla strada. La derivazione iconografica degli eroi minoriti trae spunto dai martirii subiti da san Bartolomeo apostolo, san Sebastiano e via enumerando. Il riflesso esecutivo appare evidentissimo.

Con ricchezza inventiva i grandi pannelli sono scanditi da nicchie, nelle quali fra Giuseppe da Gravina esegue emblematiche figure, che simboleggiano le virtù cristiane e minoritiche, ispirandosi iconograficamente al testo Iconologia dell’erudito e letterato Cesare Ripa.[7] Nella parte inferiore una serie di medaglioni accolgono le effigi di sante e santi appartenenti all’ordine francescano e figure di dottori minoritici.[8]

 

Povertà (ph O. Ferreiro)
Povertà (ph O. Ferreiro)

Il risultato finale dell’opera pittorica del quadriportico della Basilica di S. Caterina d’Alessandria a Galatina è di una “galleria” delle glorie francescane, destinata quale luogo di raccoglimento, meditazione e preghiera.


[1] PERRONE B.F., o.f.m., I conventi della Serafica Riforma di San Nicolò in Puglia (1590- 1835), 3 voll., Galatina Congedo, 1981-1982; ID. Storia della serafica riforma di S. Nicolò in Puglia, 2 voll., Bari, Grafica Bigiemme, 1981-1982; ID. La regolare osservanza francescana nella Terra d’Otranto, 2 voll., Galatina, Congedo, 1992-1993.

[2] SPECCHIA D., Gli affreschi del chiostro. Basilica di S. Caterina d’Alessandria Galatina, Galatina, ed. Salentina, 2007

[3] La Basilica di S. Caterina d’Alessandria a Galatina, voluta dai del Balzo Orsini fu custodita dai frati minori fino al 1494. Da tale anno la reggenza del complesso cateriniano passò, per volere del re Alfonso II d’Aragona, ai monaci olivetani e quindi riaffidata agli stessi minori nel 1507.

[4] Padre Bonaventura Quarta da Lama, rievocando l’avvenimento, riporta tale dato. Perrone B.F., I conventi … op. cit., vol. 1, p. 249.

[5] La data è la stessa apposta nell’iscrizione «Del sig.r d.r gio: andrea mongiò sindico 1696» ai lati dello stemma dei Mongiò dell’Elefante.

[6] I primi sviluppi iconografici dell’Apparizione della Vergine a san Francesco d’Assisi sono individuabili ad esempio tra Orazio Borgianni custodito nella chiesa del Cimitero a Sezze del 1608. L’opera è formulata secondo un’accezione di trascrizione del pensiero religioso in termini di affettuosa vita familiare destinati a grandi sviluppi futuri.

[7] Il testo ha ispirato, inoltre, la decorazione delle facciate del Palazzo Ducale a San Cesario di Lecce, del Castello de’ Monti a Corigliano d’Otranto e la galleria del Castello ducale Castromediano-Limburg a Cavallino. Ne troviamo traccia, in forma miniaturizzata, in altri contesti religiosi e profani.

[8] I medaglioni ovali erano un tempo dotati tutti di didascalie in prosa. Oggi permangono solo sotto gli ovali con le immagini del Beato Giovanni Duns Scoto, Guglielmo di Occam e San Ludovico re di Francia.

Il tarantismo nel Salento di ieri

 

Antidotum Tarantulae. Dal Magnes sive de magnetica  arte (1644) del P. Atanasio Kircher
Antidotum Tarantulae. Dal Magnes sive de magnetica arte (1644) del P. Atanasio Kircher

 di Ermanno Inguscio

Sembra trascorso un secolo da quando lo studioso Ernesto De Martino, calato nel Meridione con la sua  équipe di studiosi, interessandosi con perizia scientifica al fenomeno del tarantismo, aveva finito col definire il Salento “terra del rimorso”. Egli aveva così inseguito e rintracciato gli ultimi esempi viventi, donne provenienti da ceti popolari, ma anche uomini,  che legavano i propri disagi psicofisici al mito dell’onnipotente  paterfamilias  e si rifugiavano nell’illusione della cappellina di San Paolo in Galatina (Lecce), per mezzo del ballo della pizzica pizzica,  che fosse l’unico strumento di sollievo e persino di guarigione dai propri mali. Ed era quasi impossibile avere testimonianze dirette  o riferite delle contraddizioni della vecchia civiltà contadina al cui interno, e sembra passato più di un secolo, esplodevano conflittualità di ruoli socio-familiari e di contesti economico-culturali di un tempo ormai svanito dietro la massificante opera dei mezzi della odierna comunicazione sociale.

Ma è proprio di ieri, in quel di Ruffano, dove oggi la locale biblioteca comunale “Don Tonino Bello” organizza un incontro culturale con l’Università del Salento dal titolo  Racconti di una tarantata. Ruffano e il tarantismo di Michela Margiotta, che mi è occorso di dover ascoltare una storia singolare di un mio vecchio compagno di scuola. Costui, non me ne aveva mai fatto cenno, nel ricordarmi di fare un salto in biblioteca ad ascoltare sul tema l’antropologo Eugenio Imbriani, moderatrice Monia Saponaro, mi riferisce di essere rimasto orfano di madre in tenerissima età, una tarantata con tipici disturbi ricorrenti, finita suicida in un pozzo d’acqua, dopo che le preghiere al Santo dei serpenti e della tarantola, San Paolo di Tarso, fatte ogni anno a Galatina, nella sua cappellina, accanto al “pozzo dei miracoli”, si erano tragicamente rivelate vane.

L’amico mi racconta con foga che lo scetticismo del padre lo aveva portato,  anche per dare un taglio all’appuntamento annuale con la visita al Santo,  da fare in traino col cavallo fino a Galatina, a cercare di dissuadere la povera moglie spesso in preda  alla micidiale trance: da un  muretto di pietre era sbucata una serpe nera, che si era attorcigliata attorno alle gambe della povera donna. Se n’era liberata soltanto dopo avere promesso di tornare a pregare il Santo dei tarantolati. L’allora bambino di tre anni, finito poi in collegio come conseguenza dell’orfanezza, solo da adulto aveva potuto più volte  ascoltare il racconto del triste destino della povera madre.

Sono rimasto di sasso  all’ascolto di tale tragica esperienza e ho dovuto rimarcare che il tema del convegno, il fenomeno del tarantismo nel nostro Salento, che mi ha visto impegnato in ottobre scorso  in un  Convegno Internazionale a Lisbona, non è poi una tematica tanto lontana dalla nostra vita.

In effetti spunto dell’incontro lo ha offerto un vecchio libro di Annabella De Rossi,  Lettere da una tarantata (De Donato Editore, 1970), che nel proprio nel1963, venendo a Ruffano, nel territorio dove insiste Torrepaduli , nota per la pizzica scherma del “ballo di San Rocco”, aveva conosciuto Michela Margiotta, anch’essa tarantata,  e ne aveva trascritto le lettere, appuntate dalla povera vecchia ormai quasi settantenne, tra errori grammaticali ed espressioni idiomatiche, che pure riuscivano ad aprire uno squarcio su  delicati dissidi interiori.

Typus Tarantiacorum saltantium. Dalla Phonurgia nova del   P. Kircher (1673)
Typus Tarantiacorum saltantium. Dalla Phonurgia nova del P. Kircher (1673)

Ma “la Margiotta”, Michela Margiotta, per noi ragazzini terribili dissacratori di ogni cosa, al tempo della cosiddetta infanzia felice, era l’oggetto dello  scherno e degli schiamazzi nella vecchia piazza del paese ad ogni suo passaggio per recarsi in qualche suo podere. Faceva un po’ paura, di bassa statura, vestita di nero, scura in volto e baffuta, con una sporta di vimini dove qualche adulto vociferava albergassero aracnidi di ogni tipo e talvolta piccoli rettili, tagliava in un baleno lo slargo “Carmelitani”, dopo avere indicato le campane della vicina Confraternita e minacciando i più discoli di farli sparire nel sacco di iuta sulle sue spalle. Un vero terribile spauracchio, utilizzato dalle giovani mamme di fronte ai capricci dei più piccoli. Ma per  quegli scavezzacollo di ragazzini più grandicelli, il passaggio in paese della Margiotta costituiva una implacabile palestra dello sberleffo. Quel micidiale coraggio dello scherno gratuito non allignava in me, ragazzino, che osservava dietro le finestre di casa il passaggio di quello strano personaggio, nella centrale via San Rocco.

Non ho mai saputo, da bambino, che in Michela si celassero disagi e dissidi degni almeno di umana pietà e commiserazione. Oggi il convegno, voluto nella sua patria, all’interno della rassegna culturale “Librare tra storia, cultura e società”, mette sotto la lente dell’analisi storica un personaggio della nostra società di ieri. Non vi era certo il benessere di oggi, ma era tuttavia il tempo del vero focolare domestico, tra il calore del camino e i racconti dei nonni, tra le caldarroste di San Teodoro e una fetta di pane arrostito all’olio appena  prodotto nell’oliveto di famiglia.

Ricordi di adulti, ricordi di bambino, come quello mio personale quando, e fu l’unica volta della vita, in cui accompagnai mia madre, negli anni Sessanta, alla festa di San Paolo a Galatina. Tanto caldo, tanta gente sconosciuta, odore rancido di candele bruciate nella chiesa parrocchiale, ne riferii nel mio volume “La Pizzica scherma di Torrepaduli” (2007): ho visto donne, vestite di nero, strisciare con la lingua sul pavimento a chiedere la grazia ai Santi Pietro e Paolo, come le ho poi riviste soltanto a Madrid nel 2005 e piccoli venditori di nastrini colorati da utilizzare nelle danze delle tarantate.

Nella festa del Santo delle “pizzicate”, San Paolo, non ho visto serpi far capolino dal pozzo, né donne in cerca di guarigione né in trance né danzare né con violinisti, tantomeno con guaritori e parenti. Ma ho nelle orecchie, ancora oggi, il fremito assordante dei tamburelli, forse a mimetizzare tragedie sopite e da nascondere. Come mi nascondevo io al passaggio di Michela Margiotta, che per me non era certo una tarantata. E dire che pensavo di non averne mai conosciute: nell’anno Duemila, poi,  non potevano essercene.

Ma mi sbagliavo. Le tarantate erano tra noi, vicino alle nostre dimore. Ma quell’amico, che ha perso da bambino sua madre suicida nel pozzo,  la tarantata, l’essere che gli aveva dato la vita, glielo vedo negli occhi, ce l’ha ancora nell’anima.

Galatina

ph Fernando Scozzi
ph Fernando Scozzi

 

di Martin Andrade

 

Sui campi di papaveri
strisciano le macare.

 In ostería
il settebello abbaglia.

Il frinire delle cicale
apre le palpebre della ragazza
morta ieri l’altro.

Passeri malandrini
stanno a cinguettare in piazza
e donne dai corpi levigati
-taciturne-
sognano il morso dell’amore.

Ad un angolo,
una tarantola dagli occhi azzurri
ed un tatuaggio sulla schiena
sceglie la sua preda.

Fedele Salacino, De princibbiu finca ‘ll’urtimu

domenico modugno
da “Come eravamo”

di Piero Vinsper

 

Per far quadrare il cerchio circa l’opera di Fedele Salacino, alias Cino de Portaluce, mancava  la conoscenza della sua prima pubblicazione. Ed eccola qua: trattasi di un libricino dalla copertina giallognola, contenente trenta sonetti, dal titolo De princibbiu finca ‘ll’urtimu, stampato per i tipi della tipografia Vergine di Galatina. Sono sonetti di contenuto amoroso, che tracciano giorno per giorno l’evolversi del corteggiamento dell’innamorato verso la donna amata.

Non si può stabilire l’anno della pubblicazione, perché non è riportato sul libretto. Però è certo che è avvenuta post nuptias con la tabella Giulia, come si evince dalla dedica dell’opera:

A Ciccillo, Narduccio, Paoluccio

Pietro e Antoniuccio

Totò, Donato e Beppino

Amicissimi

Questo libretto dedica

Fedele Salacino.

A Nina poi, Clorinda e Mariannina

Cetta, Concetta, Amelia e Rosalina

l’autore

Offre il libretto

Un saponetto

Una scatola di cipria

Una bottiglia di vainiglia

Un abbiglionè tanto gentile

per le civili feste

del trent’otto aprile

Chè se non fosse ammogliato

Oh che peccato

Oh che dolore

Offrirebbe

Un cento venti grammi del su’ core.

Già qui traspare un certo senso d’ironia che, continua, con malinconia, nella prefazione Tanto per intenderci:

il seguente libretto ch’è incompleto, è stato scritto soltanto con l’intenzione di pregustare e più o meno imitare la infinita canzone dilettevolissima del nostro popolo antico di Galatina. L’accoglimento che questa mia prima tiratura riceverà dal pubblico, deciderà s’io potrò rischiarmi a condurre il lettore verso la fine.

Intanto, avverto, che parecchie persone, l’opinione delle quali mi è di grande rincrescimento, m’ànno fatto osservare che per nulla i miei sonetti sembrano scritti in vernacolo. Del resto io ò la speranza che o, a ragione, o a torto delle dette persone, i lettori vorranno essermi compiacenti, giacché anche ad avere scritto corbellerie, ò lavorato, almeno undici giorni.

Chi siano stati i suoi denigratori non c’è dato di sapere; di sicuro sono state delle persone dalle idee politiche diametralmente opposte a quelle del nostro. D’altra parte il Salacino era un maestro di scuola elementare e non si può tacciarlo di non saper scrivere in dialetto. E poi il dialetto è la lingua dell’anima: ognuno può esprimersi come meglio crede, come meglio può, scevro da qualsiasi regola o canone che i buontemponi, figli di un’intellighentia nevrotica, bigotta e codina in seguito hanno stabilito.

E ancora, il Salacino frequentava i salotti dei De Marianis, delle D’Amico, delle Caputo e non lo si può considerare uno sprovveduto.

Putenza de la terra!.. C’è aggiu vistu?

E’ lu sole? la stella matutina?

È quiddha donna c’ave amatu Cristu?

è Santa Chiara? è Santa Rosulina?

 

Ma, ce mmaniera.. ma, ce modu è quistu?

Com’ede ca se trova a Galatina?

Le sante ‘n terra? Nu ssacciu ‘rrasistu

tocca ‘dumandu cinca se cumbina.

 

Nunni! nunni! iti vistu la madonna?

Iti vu’ visti santa Mmatalena?

Nun diciti ca ‘st’anima se sonna

 

Ca mi faciti probbiamente pena!

La vitti: iddh’era cuantu ‘na culonna

e rispiandia comu ‘na sirena!

E’ questo un inno alla bellezza della sua dona. E’ il sole, è la stella mattutina! E’ la donna che ha amato Cristo? Ma com’è che si trova a Galatina? E’ possibile che le sante stiano sulla terra? E’ necessario che lo chieda a chi ha più esperienza di me. Signori, signori, avete visto la Madonna? Avete visto la Maddalena? Non dite che stia sognando, perché mi fareste proprio pena! Io l’ho vista! Era alta e dritta come una colonna e risplendeva di luce come una sirena.

Il termine nunnu (gr. nunòs, nonnòs) significa padrino. Nel nostro dialetto, però, vale persona di cui non si conosce il nome; spesso accade anche che nunnu assuma un significato di riverenza, di ossequio e di rispetto verso persone anziane.

Lucisce finalmente la sciurnata

Me ddisciatu, me zzumpu de lu jettu,

me vestu ‘llampu e prestu ‘na marciata

sotta ‘la soa fanescia va’ mme mettu.

 

Ma la fanescia s’ave spalancata:

La beddha tene ‘mmanu nu sicchettu

e ‘ndacqua, queta queta, ‘nzuccarata,

li fiuri ‘ssuti tutti a ‘nu vasettu.

 

Azzu la capu, la cuardu ‘ncantatu;

me fazzu de curaggiu e, ccu ‘nna voce

ca ‘stenti ‘ssiu, li dissi frasturnatu:

 

Beddha, l’amore to’ tuttu me coce!

Menami ‘nu carrofalu nfiammatu,

nu giju biancu e nnu me lassi ‘n croce!..

Subito si fa giorno, mi sveglio e salto giù dal letto, mi vesto in un attimo e lesto lesto va ad appostarmi sotto la sua finestra. La finestra si è spalancata. La mia bella ha in mano un secchiello e innaffia calma e felice i fiori spuntati tutti in un piccolo vaso. Sollevo in alto la testa, la guardo estasiato, prendo coraggio e, con voce flebile, le dico frastornato: bella, l’amore che nutro nei tuoi confronti mi sta distruggendo. Buttami un garofano pieno del tuo amore, un giglio bianco in modo che non soffra più.

Si ppacciu tu, si stoticu o si mminchia!

cusì mi disse quiddhu lazzarone

e tu, razza de carne can u bbinchia,

a ddhu ‘a’ ‘mparatu tanta ducazzione?

 

cusì respundu tostu a ddhu pissinchia

ca crassu crassu comu caratone.

E’ de jeri ca fazzu trinchia trinchia;

cce bbai cercandu tu qua ‘stu puntone?

 

Nu spiccia de cantare sta canzone

la nervatura è già troppu stirata.

Me tiru ‘rretu e ccu nnu mustazzone

 

lu fazzu ‘sse sturtija a ‘na vutata

Azzu la capu pe’ combinazione:

ma la fanescia è tutta renzzarrata!

Sei pazzo, sei lunatico o sei stupido? Così mi rimbrottò quel lazzarone. E tu, specie di carne che non sazia, dove hai appreso sì grande educazione? Così rispondo fermamente a quel “vescica piena d’acqua”, che è grasso grasso come una grande botte. E’ da ieri che ti sto sopportando con molta pazienza; cosa stai cercando tu a quest’angolo di strada? Non finisce di dire questo e già i miei nervi sono a fior di pelle. Tiro un passo indietro e con un bel cazzotto lo faccio contorcere per terra in un baleno. Per caso sollevo lo sguardo in alto, ma la finestra (della mia bella) è chiusa.

Il Rohlfs fa derivare stòticu dall’unione delle radici di due aggettivi latini: st[ultus + idi]oticus; razza de carne ca nu bbinchia è la classica espressione galatinese che viene rivolta a persona insignificante, meschina. Pissinchia, invece, risulta formato da vissica o pissica più la terza persona del presente indicativo del verbo ‘nchire. Abbiamo in questo caso un termine latino e un termine greco: vesica o vessica + enchèo, verso nella vescica, riempio la vescica. E il riempire la vescica era un gioco da ragazzi. Si prendeva un pezzo di camera d’aria di bicicletta, si annodava un’estremità e si poneva l’altra al rubinetto di una fontanina, la famosa vedova, tenendola ben stretta in modo che non fuoriuscisse l’acqua. Man mano che si riempiva, la camera d’aria si dilatava e assumeva la forma di una grossa zucca. Bisognava, però, stare attenti a non vincere l’elasticità della gomma, altrimenti scoppiava. Il culmine del gioco era quando si lanciava in alto la vissica che, cadendo a terra, se schiattava, bagnando quei ragazzini sprovveduti che si erano avvicinati troppo al punto di caduta.

Seguono tre altri sonetti che sono un continuum del precedente, con i quali è spiegato il motivo della zuffa tra i due contendenti, il perché si erano frapposte delle persone che avevano invitato alla calma. Allora il giovane Salacino torna a casa, chiude la porta in modo che non entri nessuno, prende pinna, carta e calamaru e scrive una lettera alla sua ragazza.

Idulo del mio core, anima mia,

ti scrivo queste pocu mie palore

per farvi de sapere ca moria

se de lei nu ‘n’ia ‘vutu quello fiore

 

Tu non poi mai sapere cce llecria

provao ‘llora lo povero mio core,

ce comportu, ce gioia ca sentia

Tu siete la madonna dell’amore!

 

Io per te schiatto, crepo e moro,

per te lo mondo sta mi pare bello!

Lei è la mia vita, é tutto il mio trisoro!

 

I nanzi a te mi faccio un asinello

sino alla tomba con totto il mio coro!..

Un bagio del tuo servitore. Friello.

E qui traspare l’ironia, un’ironia tanto sottile che mi fa pensare ai suoi denigratori. Loro non sanno esprimersi in italiano, mescolano italiano e dialetto, suscitando l’ilarità di chi li ascolta, ed allora come possono giudicare se uno sappia scrivere bene o male in dialetto?

Poi l’innamorato, spossato dal suo grande amore, si distende sul letto, s’addormenta e sogna. Sogna ‘nu campu cupertu de fiuri… d’ogne specie e dde tutti li culuri…, ‘na funtanella d’acqua… e la beddha cc na vesta tutta seta ci cu llu sicchiu d’oro… venia cu ppija l’acqua, queta queta… La ragazza riempie il secchio e gli dice: vivi ‘st’acqua se ‘more ssta tte ‘sseta: bevi quest’acqua se l’amore ti arde la gola! E lui beve, beve a perdifiato, ma la sete lo attanaglia. Ogni sorso gli fa gonfiare il cuore. La sua bella lo guarda, ride ed esclama: “non bere più! È troppo il bene che mi vuoi!”, e incomincia a coprirlo di baci. Vitti ‘na cosa vianca ‘n celu ssire, ‘ntisi ‘nu sonu comu d’armunia, ‘nu presciu, ‘nu cuntentu, ‘nu ridire, la bbeddha mia ca ‘ll’aria sta ssalia.

Si sveglia di soprassalto e il sogno svanisce; con il palpito in cuore, pian piano, senza far rumore, prende la chitarra, socchiude la porta ed esce fuori all’aperto.

Mo’ ci ssta ddormi tie, tu beddha mia

mo’ ci se code bella la nuttata,

‘sta ccantu sulu mie, ‘mmienzu lla via,

de li bellizzi toi la serinata.

 

Beddha, beddha, la pace toa ccu ssia,

apri mo’ ddha fanescia ca ‘nzerrata

ca sta mmi vene la malinconia,

ca sta mmi sentu l’arma ndolurata.

 

Bella la luna de ‘stu masciu novu

a ‘n celu campaniscia ca ‘nnu ‘ncantu

Tie sula mmanchi, beddha, a ‘stu ritrovu.

 

Nu ffare cc uni vegna mo’ lu chiantu!

Ppe llu trumentu sulu ca sta pprovu,

sscarrassa la fanescia toa surtantu!

 Pubblicato da Il Filo di Aracne.

Galatina e le lampe

da okmugello.it
da okmugello.it

di Pippi Onesimo

Subito dopo la putia (l’esercizio) de la Bòmbana, si svolta a sinistra (per chi dall’Orulogiu scinde versu l’Anime) per salire dalla via de le Moniceddhre (via Scalfo), che, snodandosi in tutta la sua lunghezza, supera la strada de lu Spitale vecchiu (via Siciliani) e si ferma su via Turati, affacciandosi con candido stupore sul balcone dell’arcu de la Porta Nova.

Poco prima, la chiesa della Purità, posta proprio sulla strozzatura di Palazzo Vallone, segnala la presenza di una delle più vecchie e nobili Opere Pie operanti in Galatina: l’Istituto Immacolata.

Qui le Figlie della Carità di San Vincenzo de Paoli hanno gestito, fino a parecchi decenni fa, un apprezzato educandato, che ospitava prevalentemente le orfanelle, ma anche, a proprie spese, altre fanciulle provenienti da famiglie agiate, tanta era la rinomanza, la notorietà e la considerazione per la saggia e oculata conduzione del Convitto.

Chicco percorreva quella strada per tornare a casa, pedalando lentamente anche perché in leggera salita.

Arrivato in fondo, veniva attratto, però, dal vociare divertito di un capannello di gente, fermo nel piccolo spiazzo fra via Orfanotrofio e la Chiesa.

Nonostante avesse fretta di tornare a casa (lo aspettavano per la merenda e… per ‘nfilare tabacco), qui si fermava, reggendo la bicicletta col manubrio, dal quale penzolava, ciondolando, la borsa della spesa.

La curiosità, fortemente solleticata dagli atteggiamenti allegri, divertiti e stravaganti della combriccola ferma al centro della strada, convinse Chicco (nonostante sapesse di rischiare, al ritorno, qualche sostenuto e pericoloso rimprovero per il ritardo) ad assistere alla sceneggiata de lu Pietrùzzu Chiaròndula.

Avevano di fronte un innocuo e simpatico ometto, forse un finto tonto per studiato opportunismo o forse effettivamente nu pocu de la ‘buccàta (un po’ svanito), come sostenevano in tanti.

Chicco intuì facilmente che tutti i presenti erano pervasi da una leggera e soffusa estasi e che il loro allegro vociare era dettato, più che altro, dai ritmi avvolgenti dell’ ebbrezza… spiritosa di qualche lampa, (ma certamente più di una) che era, ed è, un robusto e spesso bicchiere di vetro a spigoli arrotondati, usato nelle osterie, e può contenere circa un quarto di vino.

Non era nemmeno difficile capire che la comitiva era partita da la putia de lu Muscia (una famosa, storica osteria galatinese, ora dismessa) posta allora sulla vicina via de lu Cazzasajette, fra llu Giuliu Tecu (una delle più antiche edicole di giornali e barberia di Galatina, ora solo edicola) e ll’angulu de la Gilli (Arco Andriani).

Le lampe si consumavano preferibilmente in questa osteria, perché lu Muscia disponeva sempre di ottimi vini paesani, certamente i migliori, prodotti dalla antica, saggia e eccellente maestria vitivinicola dei sapienti contadini salentini.

Vi trovavi un sincero, robusto e corposo “negroamaro” d’annata, che accompagnava sempre pezzetti di carne di cavallo cotti alla pignata (piccolo tegame di terracotta, prodotto, come tanti altri utensili, dalla antica e affascinante arte figulina della vicina Cutrofiano).

Oppure la faceva da padrone il malizioso e vellutato “aleatico” simpaticamente vivace, leggermente abboccato e invecchiato almeno da un anno, perché era il vino più richiesto e apprezzato, ma che diventava pericolosamente malandrino, se bevuto a digiuno.

A lui si deve il primato di lunghe sbornie e innocui, quasi amichevoli, innocenti litigi.

Quante notti insonni ha procurato a diversi incauti avventori !

Quante ne hanno passate all’addiaccio, per non aver saputo trovare, offuscati dai fumi dell’alcol, la strada di casa !

Non si poteva neanche fare a meno dell’ astringente “primitivo” rosso cardinalizio, che si gustava prevalentemente cu nnu nzurtu de casu, assaggio di formaggio pecorino, o vaccino appena nceratu (stagionato da pochi mesi), come antipasto.

Ma, fra tutti, non poteva mancare “la lacrima”, il vero nettare degli Dei, un vino diafano, trasparente, dal rosa al giallo paglierino con lievi riflessi dorati, delicatamente frizzante, secco,  imperioso, ma prepotente e traditore.

Questo accompagnava sempre il passatempo preferito da tutti gli avventori de lu Muscia: mangiare lentamente, uno ad uno, schiattuni crudi de cicora (polloni), appena, appena spolverati, dal lato reciso, col sale finemente triturato e intervallati con  fave e ciciari rrustuti cu llu brustulinu, a focu lentu cull’asche de vulia (fave e ceci arrostiti col tostacaffè, fatto girare lentamente sulla fiamma bassa, tenuta accesa nel camino e alimentata con legna ricavata da tronchi di ulivo).

Erano, e sono tutt’ora, alcuni dei vecchi, vigorosi, nobili vini salentini, che da molti anni hanno già superato orgogliosamente, e a pieni voti, anche i confini nazionali, spinti dalla competenza, dalla passione, dalla intelligenza e dalla intraprendenza di alcuni pionieri della viticultura locale.

Sotta llu Muscia, u Pietruzzu stazionava abitualmente anche di mattina, come se fosse la sua seconda casa.

Ma di sera, e fino a tardi, diventava il suo regno, dove aspettava che qualcuno gli commissionasse una delle sue speciali e singolari telefonate.

Qui trascorreva il suo tempo, fra nnu Solitario o na manu de Patrone, cercando in tutti i modi di non rimanere all’urmu (senza bere, con la bocca asciutta).

Questi sono giochi che si effettuano con le carte napoletane.

Il primo è un ingenuo passatempo che si svolge con un solo (solitario) giocatore: si adagiano sul tavolo trentasei carte coperte, disponendole per nove su quattro fila e trattenendone quattro coperte, dalle quali si pesca (si estrae la carta).

Poi si scopre una carta per volta cercando di ricomporre correttamente i quattro “pali” (bastoni, coppe, spade e denari), partendo dall’asso fino al “re”.

Il gioco del Patrone è più complesso e articolato e si svolge in compagnia… anche di bottiglie di birra o, preferibilmente, de lampe de vinu.

E’ un gioco rumoroso, simpatico e divertente, dove si cerca di far rimanere all’urmu (senza bere) un giocatore avversario predestinato (la vittima sacrificale).

Ma può diventare pericoloso se l’ebbrezza raggiunge un certo… livello e se il malcapitato lassatu sempre all’urmu perde la pazienza per l’accanimento dei giocatori avversari, pe llu scornu  (la vergogna) e sopratutto… per l’arsura.

Lu Chiaròndula non aveva di questi problemi: all’urmu non rimaneva mai.

Anzi, durante il gioco, i compagni tentavano di fargli bere quanto più vino possibile (“beva !” , gli imponevano, nel rispetto rigoroso di una delle tante regole del gioco) per renderlo alticcio al punto giusto e prepararlo così alle telefonate… spirituali dell’oltre tomba.

Non era facile mbriacare (ubriacare) lu Ntoni, perché era una spugna naturale e riusciva ad assorbire allegramente tutto: non solo i fumi dell’alcol, ma anche gli scherzi di cui inevitabilmente era oggetto.

Tutto questo, perché lui era, allora, l’inventore, in assoluto al mondo, del primo telefono senza fili, una specie di cellulare senza batteria e senza scheda, sicuramente il più economico e il più efficace mezzo di comunicazione.

Tutti lo conoscevano bene, come il re di denari.

I ragazzini, incontrandolo per strada, lo seguivano a frotte e, fra scherzi e lazzi, passavano il loro tempo, in mancanza d’altro,  a prenderlo in giro, o a tentare di scroccare (senza mai riuscirci) una telefonata a sgrascju (gratis).

Lu Ntoni non si sottraeva al gioco, non si infastidiva, non si arrabbiava; sembrava, quasi, li incoraggiasse con la sua indifferenza, o li assecondasse col suo comportamento rimesso e passivo.

Anzi, in fondo in fondo sembrava compiacersi per tanta notorietà, quasi ne andava orgoglioso, anche se non lo dava ad intendere, come una star navigata e furbescamente sorniona.

Gli adulti, invece, sapevano di poterlo rintracciare più facilmente in qualche putia de vinu (osteria), quando avevano intenzione di organizzare la sceneggiata della telefonata.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne

La vita sociale a Galatina nell’immediato dopoguerra

Articolo tratto da “Cronache Galatinesi anni ’20-‘40”

La vita sociale a Galatina

nell’immediato dopoguerra

Uno spaccato di vita che in pochi ricordano e che è giusto consegnare ai giovani lettori

centro storico di Galatina
centro storico di Galatina

 

di Carlo Caggia

 

La vita sociale dei contadini si svolgeva (oltre che in Piazza San Pietro, la sera, per trovare “la giornata”) nelle cantine, con solenni bevute di vino e giochi di carte napoletane, tra cui primeggiava il cosiddetto “padrone”.

L’aria, in quei locali, era irrespirabile a causa del fumo acre delle sigarette fatte con cartine che avvolgevano un trinciato di tabacco non lavorato. I più… ricchi fumavano le “Popolari”, le “Indigena”, le “Milit” o addirittura le “Africa”, non certamente le “Serraglio”, le “Principe di Piemonte”, le “Macedonia” o le “Eva”, queste ultime leggerissime e riservate alle poche donne fumatrici del tempo.

Cantine rinomate erano “lu Mùscia”, “l’Ossu”, “lu Rasceddhra”, tutte situate nel centro storico.

Vi era poi una accorsata casa di tolleranza, “la Rosetta”, in Piazza Vecchia, mentre in veri e propri tuguri c’erano prostitute che operavano in proprio.

Artigiani e operai – il ceto medio in genere – avevano come punto di riferimento il Bar Sammartino in Piazza San Pietro; il Bar Càfaro in Via Pietro Siciliani e il Gran Caffè di Gino Sabella, all’inizio di Via Stazione, (o meglio di Corso Re d’Italia – ndr), luogo di ritrovo tradizionale per studenti e professori, data la contiguità con il Liceo Classico “Colonna”.

Il ceto medio-alto conveniva nel Circolo “Savoia” o “Cittadino” o “dei Signori”, di fronte alla Torre dell’Orologio (attualmente è la sede del Corpo di Polizia Urbana – ndr). Essere ammessi a quel circolo, nella mentalità piccolo-borghese del tempo, aveva valenza di una investitura e di promozione del proprio status-symbol.

Nell’immediato dopoguerra, quando le lauree cominciarono a diffondersi tra i figli degli operai, la corsa all’ammissione al Circolo era vissuta dagli aspiranti con veri e propri patemi d’animo. Il vecchio notabilato guardava sempre con sufficienza e con fastidio a questi parvenus.

Il Carnevale era molto sentito sia come tradizione galatinese (le sfilate alla “Via dell’Orologio” – con lancio di “candellini” (sic) – erano state sempre affollatissime) sia come senso di liberazione dopo i tristi anni della guerra, della fame, dell’autarchia, dell’oscuramento e del coprifuoco.

Ne nacquero in gran quantità. Si ballava nel Teatro Tartaro e nella Sala Lillo[1] ma anche nella Camera del Lavoro, nella Società Operaia, in locali improvvisati (Gallo Rosso, Sirenetta, Sala Azzurra[2]…). Le feste più esclusive erano quelle che si svolgevano nel Circolo dei Signori, con il selezionato pubblico delle famiglie dei soci. Il popolino (tabacchine, cameriere, sartine, contadine…) poteva accedere solo dopo mezzanotte e si stordiva per gli stucchi dorati, i grandi specchi, gli sfavillanti lampadari di Murano.

Riprende anche la vita culturale. In questo periodo vedono la luce un periodico – “La voce di Galatina” – diretto dal prof. Giuseppe Virgilio, nonché due valide riviste culturali, “Antico e Nuovo”, diretto dal prof. Enzo Esposito, e il “Saggiatore”, diretto dal poeta Giuseppe Lucio Notaro.

Sugli schermi del cine-teatro Tartaro e della Sala Lillo si proiettano film prevalentemente americani, con attori come Paul Muni (Uragano all’alba); Lucille Ball e George Murphy (Marinai allegri); Mirna Loy e William Powell (Ti amo ancora); Glend Miller (Serenata a Vallechiara). Le attrici italiane che vanno per la maggiore sono Alida Valli e Clara Calamai.

La famigliare “Gazzetta del Mezzogiorno” fa la pubblicità al “Citrato Espresso San Pellegrino”, alla “Lotteria dei Milioni” (primo premio 25 milioni), alla C.I.T. (pullman per Roma, Napoli, Milano), al ricostituente “Ischirogeno”, alle caldaie “Breda”, all’”Idrolitina”, all’”Amarena Fabbri”, al “Rabarbaro Zucca”.

In cronaca, quotidiani rastrellamenti di “segnorine” (sic) e relativa pubblicazione dei nomi, nonché frantoi e mulini per violazione delle leggi annonarie.

 

 

pubblicato su Il Filo di Aracne

[1] Notizia storica – Ai giovani lettori si fa presente che la Sala Lillo era ubicata al piano terra di Palazzo Orsini, esattamente dove oggi si tengono i consigli comunali.

[2] Notizia storica – Si ignora l’ubicazione delle rispettive sedi.

S. Pietro, S. Paolo e il tarantismo

di Sonia Venuti

Molti studi si sono fatti su questo fenomeno che da secoli affliggeva le popolazioni pugliesi e non solo, sul morso della tarantola, e tante ipotesi sul legame che unisce il tarantismo con la devozione alle figure dei  Santi Pietro e Paolo.

Alcuni azzardano che il fenomeno del tarantismo abbia una stretta connessione  con la cultura greca che è sempre stata molto forte in puglia, e che con il culto delle divinità quali quelle di Dionisio, Cibele, Demetra ed altre ancora venivano praticati riti orgiastici di carattere spiccatamente erotico.

La gente danzava follemente al suono della musica, vestita d’indumenti sgargianti con il capo cinto da pampini di vite, agitando il tirso, pronunciando parole oscene, strappandosi gli abiti di dosso, frustandosi l’un l’altro, bevendo vino.

L’analogia tra questi riti e i sintomi del tarantismo è impressionante: qual è dunque il nesso religioso?

Il Cristianesimo giunse tardi in Puglia e s’imbattè in una popolazione primitiva e tenacemente legata ai propri costumi, presso la quale antiche credenze e consuetudini erano profondamente radicati.

In competizione col paganesimo, il cristianesimo dovette cercare in tutti i modi d’imporsi sulla popolazione: le antiche festività religiose pagane furono mantenute, ma intese a commemorare eventi cristiani.

Le chiese erano erette su precedenti luoghi di devozione tra le rovine dei templi, elementi degli antichi culti come le processioni furono accolti nelle modalità cristiane, ma vi erano tuttavia dei limiti che la chiesa non riuscì ad oltrepassare, e non essendo subito in grado di assimilare i riti orgiastici del culto di Dionisio  dovette contrastarli.

Da qui, non sappiamo esattamente in che anno, ma di sicuro nel corso del medioevo, i vecchi riti si trasformarono nei sintomi di una malattia, e di conseguenza la musica, la danza, e l’insieme di quei comportamenti orgiastici di colpo furono legittimati e tutti coloro che indulgevano in queste pratiche non erano più peccatori, ma povere vittime della tarantola.

Il culto di S. Pietro, in questo contesto, nasce innanzitutto dall’ipotesi fortemente indiziaria che il santo sia sbarcato in Puglia dalla Palestina e, dopo essere passato dalla città d’Otranto, dove a testimonianza del suo passaggio, è stata eretta la chiesa di S. Pietro, questi si spostò nel casale galatino, dove “vennero a sentirlo parlare di Dio tutti quasi di quei casali circonvicini”.

Il principale responsabile della sempre più forte idenficazione città-santo protettore la si deve all’arcivescovo Gabriele Adarzo di Santander, che nel corso del suo arcivescovato fece erigere in territorio galatino piccole colonne ed epigrafi, che oggi non esistono più, nei luoghi in cui si ipotizza sia passato o abbia riposato il Santo durante il suo cammino verso Roma.

Per concludere, S. Pietro giunse nel 44 inGalatina e secondo lo storico Da Lama “tutto quel popolo si fece battezzare dalle sue mani  nel nome di Cristo e le donne(….) conforme imprigionasti in piccola rete più pesci, così ti chiamano, aprono la bocca a mille ringraziamenti, vedendosi esenti dal tormento della tarantola, e se in Roma annientasti le magie d’un Simone, in Galatina hai posto in fuga il veleno di questo verme, mago potente, che incanta col bacio, né si scioglie l’incanto se non col ballo. E s’a Paolo in Malta ubidirono gli serpenti, a S. Pietro in Galatina ubbidiscono le tarantole”.

S. Paolo, sempre secondo la tradizione, nella città di Galatina giunse  in incognito, dopo la predicazione di S. Pietro e dopo aver navigato verso i nostri mari, giungendo  al promontorio di Leuca.

Per timore dei persecutori si fermò una sola notte in una casa ancora esistente, di proprietà di un uomo pio, che per questa ragione viene detta casa di S. Paolo.

Il medico non galatinese Antonio Caputi racconta”I Galatinesi raccontano varie storie su questa visita, ma ciò che è più importante affermano che abbia chiesto a Dio, per i meriti di Gesù Cristo, che a quell’uomo pio, per ricompensa della sua pietà, fosse concesso a suo favore o a quello dei suoi discendenti di sanare tutti quelli che fossero stati morsi da animali velenosi come scorpione, vipera, falangi e simili, facendo il segno della croce sulla ferita e facendoli bere al tempo stesso l’acqua di un pozzo lì esistente. Estinta ora la discendenza di quell’uomo pio, gli ammalati morsi dalla tarantola, da uno scorpione o dalla vipera, finchè il veleno è attivo, si conducono a quel pozzo ancora esistente per implorare la guarigione da S. Paolo”

In definitiva, nella casa dove passò prima S. Pietro e poi S. Paolo, come deduzione diretta del Caputi, gli apostoli lasciarono in perpetuo ricordo, agli abitanti di quella casa, la virtù e la grazia di guarire attraverso lo sputo chiunque fosse stato morso dalla tarantola.

Gli ultimi eredi della dinastia dei guaritori sono due sorelle che, per non far andare perduta la virtù e la grazia di guarire, prima di morire sputarono nel pozzo, e da qui, la credenza del “pozzo miracoloso” giunta a valorizzare le “case di S. Paolo”; queste erano le sorelle Farina Francesca e Polisena.

Il culto del santo crebbe molto a metà del ‘700, fino al punto che la famiglia Mory fece erigere un altare, e fu dato inizio alla contestatissima costruzione della cappella, da parte degli allora padroni delle “case di S. Paolo” i conti Vignola.

Le donne chiedevano degli specchi davanti ai quali sospiravano e urlavano con atteggiamenti inverecondi, altri preferivano essere lanciati in aria, o scavavano delle fosse e si rotolavano nella terra come i maiali, e tutti bevevavno vino e danzavano fino a liberarsi dagli effetti del morso, e si dice che se non si faceva in tempo a praticare il rito purificatore della musica, si poteva verificare  anche la morte del tarantato.

Pare solo i frati Francescani fossero immuni dal morso della tarantola, in ragione del fatto che S. Francesco avesse istituito un legame speciale anche con quegli animali, e ogni 29 Giugno in ricorrenza della festività dei Santi Apostoli  convergevano in Galatina tutti i tarantati dei paesi limitrofi, che a suon di tamburelli epuravano il loro corpo e la loro anima.

 

Maria d’Enghien, mecenate del primo Rinascimento salentino (III ed ultima parte)

maria d'enghien

di Alfredo Sanasi

 

Dopo la morte di Giovanna II Durazzo, avvenuta nel 1435, e il trionfo di Alfonso I, celebrato a Napoli nel 1443, il principe di Taranto fu il primo consigliere del Re ed il personaggio più autorevole e più vicino al sovrano. Durante questi anni Maria d’Enghien fu sempre accanto al figlio e se egli potè interessarsi totalmente degli avvenimenti bellici ciò gli fu permesso grazie alla diplomazia e al prestigio che la regina mostrò nella guida politica e amministrativa del suo “regno nel regno”. Il suo amore per l’arte, sempre presente in lei sin da quando era stata accanto a Raimondello nella costruzione della torre di Soleto e di Santa Caterina con annesso ospedale a Galatina, si manifestò ancora più decisamente in questo lungo periodo, tanto che volle dotare la Basilica di Santa Caterina di affreschi vasti e importanti che gareggiassero con quelli di Napoli voluti dalle due regine d’Angiò Durazzo. Vera mecenate, incline allo splendore e alla grandezza, ella non badò a spese e forniture di materiali preziosi:lapislazzuli per i fondi azzurri, foglie d’oro per le corone dei santi, foglie d’argento per le stelle delle volte. Era la rivincita di Maria d’Enghien sulla regina Giovanna II e su quanti l’avevano ingiustamente avversata. Maria d’Enghien considerava la basilica, dice giustamente Fernando Russo, cui si devono gli splendidi restauri, non secondo la prospettiva del fedele, ma secondo un’ottica tutta politica, quindi ella operava un’ identificazione fra sè e Santa Caterina. Aggiungiamo che con gli affreschi voluti da Maria d’Enghien il Salento cominciò ad uscire da un lungo medioevo ed ad aprirsi a correnti artistiche e culturali d’ogni parte d’Italia. A Napoli la regina era venuta a contatto ed aveva conosciuto artisti napoletani, toscani, marchigiani, emiliani che sicuramente volle far venire a Galatina e di tali scuole sono evidenti i segni e le caratteristiche in molti affreschi galatinesi. Se poi scendiamo ad osservare alcune scene dipinte nella navatella destra del tempio orsiniano (il crollo degli idoli e gli idoli spezzati) scopriamo che esse si ritrovano soltanto nelle vetrate della cattredale di Chartres e quindi non azzardiamo troppo nel credere che Maria d’Enghien aprì i suoi cantieri pittorici ad artisti venuti dalla Francia e da altre parti d’Europa. Si ha insomma l’impressione che il “cantiere galatinese” fu un luogo d’intrecci, di scambi e di confronti, una situazione in perpetuo movimento, con pittori che si mettono in viaggio per vedere cose nuove ed altri che arrivano da lontano. Maria d’Enghien fu l’anima attiva di Lecce e del principato di Taranto; anche quando il figlio Giannantonio Orsini, tra vittorie e sconfitte, rimase prigioniero delle armi genovesi ella mostrò un animo indomito e rimase la figura più rappresentativa della Puglia, pur tra i continui fatti che la addolorarono, prima la morte della diletta figlia Caterina, contessa di Copertino e poi dei due figli di costei, Raimondello e Antonia. Grande gioia provò invece quando tra un festoso corteo vide partire per Napoli l’altra sua nipote Isabella di Chiaromonte, perché, affermando sempre più la sua discendenza, la inviava sposa a Ferrante d’Aragona, figlio del re Alfonso, destinata a salire successivamente a quel trono che certo a lei personalmente non aveva portato molta fortuna.

Nata, come sostengono alcuni, a Copertino, muore a Lecce nel 1446, onorata con esequie regali: come si doveva ad una regina la sua bara fu coperta da broccato rosso carminio, seta celeste e pallio d’oro e fu sepolta nell’antico monastero di Santa Croce, in un’arca ornata di statue e marmi preziosi: intorno alla regina seduta erano collocate le statue della Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza, Fede e Carità, quasi a significare che quelle virtù si erano manifestate in sommo grado in tutti gli atti della sua vita. Questa donna eccezionale non ebbe però pace lunga neppure dopo la sua morte, perché l’imperatore Carlo V nel 1537 distrusse chiesa e monastero per costruire sul posto l’ampliamento e le fortificazioni del castello tutt’ora esistente. Il mausoleo di Maria d’Enghien venne ricostruito nel transetto sinistro della attuale chiesa di Santa Croce. Ma anche qui Maria d’Enghien non riposò in pace. Per fare posto alla cappella della Arcifraternita della Trinità tale mausoleo, ridotto forse alla sola statua della Regina, venne distrutto e la statua venne gettata in un giardinetto, poi in un fossato e ridotta in frantumi. Maria d’Enghien, valorosa guerriera, accorta amministratrice di una contea e di un principato vasto come un regno, dispensiera e ispiratrice di provvedimenti e statuti, dedita a grandi opere d’arte e di fede, nobile mecenate del primo Rinascimento, fu presto e ingiustamente per lunghissimi tempi completamente dimenticata.

 

 

Bibliografia

 

Cassiano A., Santa Croce a Lecce, Storia e Restauri, a cura di A. Cassiano e M. Cazzato, Galatina 1999.

Congedo U., Maria d’Enghien, Lecce 1899.

Coniger, Cronache, in “Raccolta di varie cronache, diarii, etc”, Napoli 1872, t. V.

Cutolo, Maria d’Enghien, Galatina 1977.

De Blasiis G., Tre scritture napoletane del XV secolo, in «Archivio storico per le province napoletane», vecchia serie, IV.

De Sassenay, Le Briennes de Lecce e d’Athenes, Parigi 1869.

Marciano C., Descrizione, origini e successi della Provincia di Otranto, Napoli 1855.

Marsicola C., S. Caterina a Galatina, Milano 1984.

Pastore M., Il Codice di Maria d’Enghien, Galatina 1979.

Presta T., S. Caterina d’Alessandria in Galatina, Galatina 1991.

Profilo A., La Messapografia, Lecce 1875, vol. II.

Russo F. , La parola si fa immagine, Venezia 2005.

Vigner N., Histoire de la maison de Luxembourg, Parigi 1617.

 

Pubblicato su Spicilegia Sallentina-

Le due parti precedenti si possono leggere cliccando sui seguenti link:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/29/maria-denghien-mecenate-del-primo-rinascimento-salentino/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/30/da-contessa-di-lecce-maria-denghien-mecenate-del-primo-rinascimento-salentino-ii-parte/

 

 

 

Infelicità della Stampa ed infedeltà dello Stampatore

Infelicità della Stampa ed infedeltà dello Stampatore

 

A PROPOSITO DELLA ANATOMIA DEGL’IPOCRITI

DI A. T. ARCUDI

 

galatina letterata

di Giovanni Vincenti

Era già stata rilevata l’esistenza di una doppia edizione dell’operetta Galatina Letterata composta dall’erudito galatino fra’ Alessandro Tomaso Arcudi (1655-1718) e pubblicata il 1709. Non si trattò tuttavia «di una prima insoddisfacente sul piano formale seguita da una seconda migliorata e corretta»1, ma di una mera ristampa del solo frontespizio che presentava un evidente errore nel nome del dedicatario: “D. Filippo / Romualdo Orsino, / Duca di Gravina, Prencipe di Solo- / fra, Conte di Muro, e Signore / di Vallato, &c.” [fig. 1], corretto in “D. Filippo / Bernualdo Orsino, / Grande di Spagna di Prima Classe / Duca di Gravina, Prencipe di So- / lofra, Conte di Muro, e Signore / di Vallato, &c.” [fig. 2]. Da una comparazione approfondita, i due testi sembrano perfettamente identici.

Ma simile malasorte pare sia toccata, come si cercherà di dimostrare, al un’altra opera dell’Arcudi, l’Anatomia degl’Ipocriti pubblicata «sotto nome anagrammatico diCandido Malasorte Ussaro». Era stato lo stesso stampatore veneziano Girolamo Albrizzi ad anticipare, il 1697, con una sua nota apparsa ne La Galleria di Minerva, la notizia della imminente pubblicazione della Anatomia opera «di novella invenzione, piena d’erudizione sacra e profana, copiosa di dottrine e di scritture» rivelando altresì che «il vero autore di quest’opera che si trova sotto il mio torchio, sia P. Alessandro Tomaso Arcudi dell’Ordine de’ Predicatori»2.

Un trattato massiccio ed interminabile che, dedicato al teologo e cardinale agostiniano fra’ Enrico de Noris (1631-1704)3, vide la luce il 1699 «non ostante l’infelicità della Stampa, ed infedeltà dello Stampatore»4, nel quale il padre Arcudi distende su un metaforico lettino anatomico l’Ipocrisia e la seziona in ogni sua minima parte. Nell’opera «si rispecchia già tutt’intera una vita, in modo compatto e coerente spesa per il proprio ideale di santità e condotta fra amarezze e delusioni, insofferenze mordaci e inghiottite rassegnazioni, reazioni a mala pena frenate ed esplosioni d’indignazione»5.

Sull’infelicità della stampa già lo stesso autore, nella pagina a chi legge, consapevolmente aveva avvertito: «La Malasorte dell’Autore è stata ereditata dal libro. E’ solito infortunio delle stampe qualche difetto di ortografia, e di sillaba: ma di questo figlio sventurato non può dire il Venusino: Egregio inspersor reprendas corpore naevos: mentre non solo di nei, ma di brutti tagli porta sfregiato il volto, e le membra: più che non ha l’Autore tirati all’Ipocrisia. Il semplice titolo che portava d’Anatomia de gl’Ipocriti, crebbe così ampolloso, e farisaico, che l’Autore à primo aspetto dubitarebbe se questo fusse il suo libro. Si mutino almeno così tre righe del frontespizio. Illustrata colle divine Scritture, Sancti Padri, e Scrittori profani. Il bellissimo fregio dell’Indice, col nome d’Anatomia del Libro, corrispondente a gli numeri, che tu vedi nelle margini in faccia de’ Capiversi, l’è stato tolto non so perché, con non ordinario del Padre suo, la cui lontananza dà Venezia fino all’estrema punta dell’Italia, è stata la cagione d’ogni dissordine. Io compassionando le sue disgrazie, ho medicato le piaghe più ampie, e risarcite le vesti più lacere in tutti quei volumi che sono capitati nelle mie mani. Gl’errori di mano conto non pregiudicano alla sua intelligenza. Prega il Cielo, che l’altre opre dell’Autore non avessero la sempre sua mala sorte»6. E più avanti ribadiva: «Non mi arrossisco confessare molti errori in quest’opra […]. Vero è che molti errori son della stampa, e non minori della mia penna, perché l’intelletto applicato alla sostanza, non ha possuto con accuratezza attendere alle parole»7.

L’espressione infedeltà dello Stampatore usata dall’Arcudi, poco chiara, sin qui, ora assume significato nuovo dopo il rinvenimento di una seconda edizione dell’Anatomia. Consideriamo i due frontespizi, il primo “Anatomia / degl’Ipocriti / di / Candido Malasorte / Ussaro / In Dieciotto Membri Divisa / Opera Nuova / Illustrata col testimonio infallibile del Pentateuco, Santi / Evangelii, Atti Apostolici, e di Moltissimi / Santi Padri Ecumenici. / Utilissima à Predicatori della Verità Evangelica, con varie / e peregrine Interpretazioni de Sacri Testi. / A’ Confusione dell’Ipocrisia de’ moderni Farisei. / Consacrata / All’Eminentiss.mo e Reverendiss.mo Principe, e Sig. / Il Signor CARD. FRA’ ENRICO / DE NORIS / In Venezia , MDCXCIX. / Per Girolamo Albrizzi / Con Licenza de’ Superiori” [fig. 3], mentre il secondo “Anatomia / degl’Ipocriti / di / Candido Malasorte / Ussaro / Opera / Utilissima à Predicatori Evangelici; Illustrata con varie, e / Peregrine Interpretazioni de Sacri Testià confusionedell’Ipocrisia d’Oggidì. / Consacrata / All’Illustriss. e Reverendiss. Sig. il Signor / LIVIO LANTHIERI / Conte del S.R.I. Libero Barone di Schenhaus, e Baum- / chirchenturn; Copiere ereditario di S. M. Cesarea / nell’Illustriss. Contado di Gorizia; Signore / di Vipaco, & Raifemberg, &c. / In Venezia , MDCXCIX. / Per Girolamo Albrizzi / Con Licenza de’ Superiori “ [fig. 4].

Ma le differenze proseguono anche all’interno del libro. Lo stampatore infedele infatti, elimina le cinque pagine dedicatorie All’Eminentiss.mo Signore il Sig. Card. Enrico de Noris firmate dall’«Umilissimo ed Obligatissimo Servo Candido Malasorte Ussaro» e datate S. Pietro in Galatina, li 8 luglio 1699, la nota critica Graziano Dissamato a chi legge e le tre pagine di errata Corrige. Queste vengono sostituite con una lettera dedicatoria al conte Livio Lanthieri con la quale «consacrare à V. S. Illustrissima questa Anatomia degl’Ipocriti, come figlia delle mie Stampe», firmata dall’«Umiliss. Osseq. Riveritisi. Servo Girolamo Albrizzi» e datata Venezia, li 14 luglio 1699, con un Sonetto [fig. 5] ed un Madrigale di un anonimo Accademico Gelato Agli Ipocriti per il viaggio dell’Inferno [fig. 6].

L’Anatomia degl’Ipocriti – scrive l’Arcudi il 1709 – fu «ricevuta con tanta grazia (gloria a Dio) da letterati di Europa: e lo confessano le lettere scrittemi da molte parti d’Italia: e tanto avidamente letta da gl’eruditi: […] comparve appena nella mia Patria, che un nasuto fermando la pupilla su la coperta, cercò censurare la Grammatica del suo titolo: asserendo con pedantesca prosopopea, benché non pedante di professione; ch’io non dovevo scrivere Anatomia, ma Notomia. Se costui fusse stato Cirusico, e non Leggista, accetterei la censura, e ad imitazione di Apelle corretto il titolo: ma nec sutor ultra crepitam. Credendo far il Dottore appresso gl’idioti, si palesò idiota appresso i dotti. Non intese questo novello Asinio quanto più spiegativo, e proprio all’invenzione di quel Volume fusse il vocabolo Anatomia, secondo l’etimologia della Grecia; la quale al Lazio prestò il nome. Non intese, quanto più maestoso era il titolo di Anatomia, che cominciando, e finendo colla più sonora, più squillante, più bella, e perciò prima lettera dell’Alfabeto; e replicandosi nella seconda sillaba: con dar bando alla O, di suono men naturale, e men dolce: empiva l’occhio a vederla, e l’orecchia a sentirla, con maggior simpatia: come primogenito parto dell’anima, (così la chiama l’eruditissimo, ed ingegnoso Tesauro) e prima lezione insegnatagli nascenti bambini dalla natura. Onde questo vocabolo appare sul frontespicio del libro come Re sedente sul Trono: non come Notomia, bastardo fantaccino, che da se stesso si scopre, e si vergogna. Perché il Critico, aveva letto Notomia in qualche moderno: senza penetrar più dentro alla forza, e proprietà della voce; per non avere salutato, che i primi vestiboli della Grammatica; credette aver detto assai, quando sapea tanto poco. Ma la censura non è degna di risposta, ma di risate. Tanto è vero, che il compiacere a tutti chi scrive, non solamente è difficile, ma eziandio impossibile. Né questa è la prima volta, che omnibus, et verbis nostris insidiatus, et sillabis: come appresso l’Angelico mio Dottore, 2.2.q.II.a.2.ad.2. scrisse il Pontefice S. Leone a Proterio Vescovo Alessandrino»8.

Qui emerge prorompente tutta la vis polemica del nostro padre fra’ Alessandro Tomaso Arcudi predicatore.

 

 

1G.L. De Mitri – G. Manna, Presentazione a A.T. Arcudi, Galatina Letterata, Genova 1709, rist. anastatica, Maglie 1993, p. XII.

2 Cfr. G. Albrizzi, Anatomia degl’Ipocriti di Candido Malasorte Ussaro, ne “La Galleria di Minerva”, Venezia 1697, II, p. 306-307.

3A.T. Arcudi, S. Atanasio Magno, Lecce 1714, p. 272.

4A.T. Arcudi, Galatina Letterata, Genova 1709, pp. 12-14.

5 M. Marti, Schizzo di un minore letterato insofferente e geniale: Alessandro Tomaso Arcudi di Galatina, in “Urbs Galatina”, II, 1993, 1 (gennaio-giugno), p. 170.

6A.T. Arcudi, Anatomia degl’Ipocriti, Venezia 1699.

7A.T. Arcudi, Anatomia degl’Ipocriti etc., cit., p. 15.

8A.T. Arcudi, Galatina Letterata etc., cit., pp. 12-14

Galatina. Una lite per la precedenza con la confraternita delle Anime del Purgatorio (1780)

LA CONFRATERNITA DEI SETTE DOLORI

Una lite per la precedenza con la confraternita delle Anime del Purgatorio (1780)

di Giovanni Vincenti

Una clamorosa controversia insorse, il 1780, tra il pio sodalizio laicale della Vergine dei Sette Dolori e quello delle Anime del Purgatorio circa la precedenza delle rispettive processioni. Avvenne infatti, che i primi tenessero la loro processione «in ogni prima domenica di mese, […] con messa solenne coll’esposizione del Santissimo», ma in quel mese di aprile di quell’anno questa cadeva proprio nella Domenica in Albis lo stesso giorno in cui, i secondi, solennizzavano la Festa della Resurrezione con «la consueta processione colla statua del Risuscitato Redentore». Ognuna delle due congregazioni si arrogava il diritto di precedenza in quella pubblica processione adducendo le proprie ragioni: la confraternita delle Anime Purgatorio sosteneva il motivo di anteriorità del suo Regio Assenso sulle Regole, risalente al 30 aprile 1767, mentre quella dei Sette Dolori avanzava lo stesso privilegio in virtù del Regio Assenso, ottenuto il 16 ottobre 1776, sia sulla Fondazione che sulle Regole.

confraternita delle anime

Quella del regio assenso era la condizione necessaria per il riconoscimento giuridico dell’istituzione confraternale secondo la legislazione concordataria del 1741 alla quale fece seguito il real dispaccio del 19 giugno 1769 emanato dal primo ministro Bernardo Tanucci: «Il regio assenso è necessario nella fondazione di qualunque corpo, senza il quale assenso è questo illecito, e dee dismettersi, e riputarsi per non esistente, non bastando l’assenso ottenuto sulle regole, le quali riguardano la qualità, e non l’esistenza del medesimo corpo a rendere legittimo quel, che di principio fu nullo, ed incapace per ogni riguardo, ed a qualunque effetto». A questo seguì un successivo Reale Rescritto del 29 giugno 1776, il quale introdusse il principio secondo cui alle confraternite munite di Regio Assenso sulle regole poteva accordarsi la sanatoria apponendovi la clausola usque ad Regis beneplacitum, senza assoggettarle a nuovo assenso in forma regiae Cancelleriae, ed a quelle sprovviste di assenso era fatto obbligo di richiedere l’assenso sulla fondazione e le regole senza rischiare la nullità e quindi la soppressione, lasciando però illese le ragioni delle parti per gli acquisti fatti precedentemente, e proprio in virtù di questo la confraternita delle Anime del Purgatorio regolarizzerà la sua posizione giuridica, il 19 giugno 1784, inserendo, tra l’altro, anche la clausola «d’ammettere le femmine alla partecipazione de’ benefici spirituali». La precedenza spettava dunque, stando alla normativa, alla confraternita del Sette Dolori tuttavia, poiché la questione, «non edificando il popolo e pugnando alla carità, ed umiltà cristiana, potrebbe divenire pericolosa, e di cattive conseguenze per lo bene spirituale, e temporale di ambidue d.e Congregazioni», si addivenne ad una salomonica soluzione, suggerita dal canonico D. Antonio Tanza, che i Prefetti dei due rispettivi sodalizi, mastro Carmine Antonaci e notaio Giuseppe Costantini, stipularono a futura memoria giungendo ad una amichevole composizione, e concordia.

Erano queste dispute non effimere ove solo si pensi che le confraternite con i loro riti devozionali e funzioni processionali scandivano la vita cittadina a ritmi vorticosi coinvolgendo l’intera società in tutte le sue articolazioni. Si pensi, ad esempio, alle feste e cerimonie solennizzate dalla confraternita dei Sette Dolori: «In ogni prima domenica di mese, e nel giovedì dopo la quinquagesima messa solenne coll’esposizione del Santissimo; Settena colla Esposizione del SS. nella festa della Vergine Addolorata, in cui si recitano ancora i corrispettivi Sermoni col panegirico, alla morte di qualche Fratello o Sorella, oltre la bara, e l’associazione, la Congrega fa celebrare in suffragio del defunto, o defunta, 9 messe basse, ed una cantata, oltre un Rosario, che da tutti si recita nella domenica susseguente la morte; nella prima domenica di novembre si celebra anniversario solenne per tutti i Fratelli, e Sorelle defunti; in tutte le domeniche di Quaresima si fa la Via Crucis». Oppure a quelle solennizzate dalla confraternita delle Anime del Purgatorio: «Messa solenne coll’Esposizione del Santissimo Sagramento in ogni seconda Domenica di Mese; Nella Domenica di sessagesima; in tutto l’Ottavario de’ Morti, nel quale si fanno anche le quarantore, ed i Sermoni; Novena, e festività della Vergine delle Grazie tutelare della Chiesa, Festa della Resurrezione nella Domenica in Albis; Alla morte di ogni Fratello, e Sorella si fornisce la bara, si fa l’associazione, e si celebrano una Messa Cantata di requiem, e dieci Messe piane, oltre la recita del Rosario in Chiesa nella Domenica susseguente alla morte; Nel 2 Novembre, e nell’ottava si celebra l’Anniversario solenne per l’anima di tutti i Fratelli, e Sorelle defunti, ed una Messa in ogni lunedì dell’anno».

Nel verbale del 31 marzo 1780 tratto dal Libro delle Conclusioni, che qui proponiamo integralmente, viene descritta quella vertenza e la sua successiva composizione:«Oggi, che sono li trentiuno Marzo 13.ma Indiz.ne del 1780. Costituiti in pubblico testimonio, e nella pre.za nostra li mag.ci Not.ro Giuseppe Costantini Prefetto della Venerabile Congregazione sotto il titolo delle Anime del Purgatorio di questa Città, aggente in d.o nome, ed interveniendo alle cose infrascribende per se, e per tutti li Prefetti suoi successori di d.a Congregazione, ed in nome ancora dell’istessa a tenore della Conclusione celebrata da’ F.lli di d.a Congregazione la quale infra.ta si inserirà da una parte. E mastro Carmine Antonaci Prefetto della Venerabile Congregazione di questa medesima Città, sotto il titolo della Madonna dei Sette Dolori, aggente in d.o nome, ed interveniendo alle cose infrascribende per se, e per tutti li Prefetti suoi successori di d.a Congregazione, ed in nome ancora dell’istessa a tenore della Conclusione celebrata da’ F.lli di d.a Congregazione la quale infra.ta si inserirà dall’altra parte. Le anzid.e parti hanno asserito, come ne’ giorni passati insorsero fra d.e Congregazioni alcune differenze a cagion, che pretendeva d.a Congregazione delle Anime del Purgatorio nelle pubbliche Processioni, e funzioni la precedenza sopra quella del titolo della Vergine Addolorata, appoggiandosi, fra gli altri motivi, all’anteriorità del Reale Assenso ottenuto su le di lei Regole. Contradicente all’incontro d.a Congregazione de’ Dolori, e pretendendo essa la precedenza fondandosi tra gli altri motivi all’anteriorità del // Reale Assenso ottenuto su la di lei fondazione, quale di fra esse Congregazioni preparata si era una simil contesa, la quale non edificando il popolo e pugnando alla carità, ed umiltà cristiana, potrebbe divenire pericolosa, e di cattive conseguenze per lo bene spirituale, e temporale di ambidue d.e Congregazioni. Hanno asserito parimenti, che mossa una tal differenza si preparò la Congregazione delle Anime del Purgatorio a festeggiare, secondo il solito nel di lei Oratorio la Domenica in Albis, e per fare la consueta processione colla statua del Risuscitato Redentore, avendone a tale oggetto ottenuto le opportune licenze, colle clausole espresse nelle med.me alle q.li. All’incontro la Congregazione de’ Dolori preparata anco era per festeggiare nel suo Oratorio la prima Domenica dell’imminente mese d’Aprile, che in quegli Anni ricade appunto nella seguente Domenica in Albis colla Esposizione del Venerabile, e colla solita processione per ragion di cui, e per gloria maggiore del SS.mo, dalla Curia Arcivescovile d’Otranto ne aveva ottenuto il permesso di fare la processione nel sud.o divisato giorno della Domenica in Albis. In tali circostanze di cose seriamente pensando d.i Sig.ri Prefetti delle anzid.e rispettive Congregaz.ni a’ sconcerti, e gare profane, che potrebbero facilmente avvenire dal proseguimento di d.a lite su la precedenza, ed a’ pericoli di dissordini, che anco avvenire potrebbero dal farsi nell’istessa mattina della prossima Domenica in Albis, le anzid.e rispettive processioni per qual motivo da d.a Curia Arcivescovile si avea disposta la previdenza contro i temuti // moti, o leve che avrebbe con ciò il divin culto dell’adoratissimo Signore a scemarsi, e dividersi; quindi per ovviare ad ogni inconveniente, e per sentirsi, come per lo passato tra d.e Venerabili Congregazioni, la vicendevole carità in edificazione del popolo, e de’ F.lli, col consiglio del Rev.do D. Antonio Tanza, sono venuti nel nome anzid.o, alla seguente amichevole composizione, e concordia. Primo che l’una e l’altra Congregazione cedendo a qualunque suo diritto, titolo, e preminenza, da qui innanzi, et in perpetuum si consederassero in tutte le funzioni pubbliche, ove accadesse, che l’una, e l’altra intervenisse di egual grado, e prerogativa, e perfettamente eguale di modo che l’una all’altra per verun titolo potesse, o dovesse precedere. E se per fatto avverrà, che l’una si ritrovasse, o prendesse luogo dell’altra più degno, con tal atto niuna delle parti pregiudichi dovesse, restando tutte e due nell’istesso suo grado, ed egual prerogativa. E per vieppiù confirmare tale eguaglianza, esse parti si sono concordate, che nelle funzioni accorrende alternativamente ad una volta per cadauna d.e Congregaz.ni dovessero precedere, e la prima volta quella Congregaz.ne precedesse, cui toccarà per sorte. Rinunciando ciò esse parti alla sopra descritta lite, ed a tutti gli altri per avventura formati, da’ quali nium conto si dovesse, né in Giudizio, né fuori. Secondo, che riguardo alle rispettive di sopra descritte funzioni la prossima Domenica in Albis, la d.a Congregazione del Purgatorio, precedente onorevole, ed amichevole invito, si contentasse, siccome promette, di associare in corpore, e con lumi suoi propri la processione, che a maggior gloria del Signore si farà in d.o dì dalla Congregazione sotto il titolo // della Vergine Addolorata nel suo Oratorio, e nella processione, tam quam invitati, avesser d’avere la precedenza i F.lli, e gli Uff.li della Congregazione delle Anime del Purgatorio, la quale nel d.o dì asterrà di far la consueta funzione, e celebrità di Gesù Cristo Resuscitato, posponendo la Processione, e la Festa per questo Anno in altro giorno; nel quale risolvendo detta Congregazione del Purgatorio di fare la sua Festa, si contentasse, siccome promette, d.o Prefetto della Congregaz.ne de’ Dolori di associare in corpore, e con lumi suoi propri la processione di Gesù Cristo Risorto, nella quale siccome ancor dentro l’Oratorio, tam quam invitati, dovessero aver la precedenza i F.lli, e gli Uff.li della Congregazione de’ Dolori, per qual oggetto saranno invitati con onore, e con amicizia ad intervenirci. Terzo, che in ogni futuro senza eccezione alcuna nel giorno della Domenica in Albis, anco se fosse la prima domenica del mese, non potesse la Congregazione sotto il titolo de’ Dolori uscire processionalmente girando porte, o tutta la Città, dovendo in d.o giorno restar libero l’esercizio di sue funzioni alla Congregaz.ne del Purgatorio, la quale trovasi già nel possesso di far la processione, come sopra descritta; e al pari questa Congregazione non mai potesse in ogni futuro tempo uscire processionalmente nella terza Domenica di Settembre, né girare porte, o tutto il paese con processione, mentre in d.o giorno dovrà, secondo il suo solito, farsi da d.a Congregaz.ne de’ Dolori, la sua Processione, e Festa in onore della sua Vergine titolare. E per la osservanza delle anzid.e cose, e a futura loro memoria, esse parti volendo stipulare in pubblico, e sollevare istrumento».

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne

 

L’arte di Luigi Latino

luigi latino

di Paolo Vincenti

 

Una pittura anarchica, una testimonianza di impegno civile, una battaglia personale contro la massificante, omologante cultura di questi anni. Può un percorso artistico rappresentare tutto ciò? Ha ancora senso, mi chiedo, osservando le installazioni di Luigi Latino, nel suo piccolo atelier-bottega nel centro storico di Galatina, nell’era della globalizzazione, in cui i codici espressivi hanno subito una compatta, stirata uniformità,  in cui si è solo quello che si appare e si è solo in quanto si appare, ha senso, dicevo, prendere posizione, in un momento in cui sembra dominare il qualunquismo più deprimente ? In questi tempi di plastica, caratterizzati da un edonismo di ritorno, dopo il crollo delle ideologie e il declassamento di ogni antico valore a stupida rivendicazione di nostalgici conservatori o reazionari, ha senso tenere alta la bandiera della propria integrità morale, issare il vessillo di alcune battaglie politiche che sono storico patrimonio delle sinistre italiane? O non rischia forse di apparire, questa,  una campagna  di retroguardia, e il fautore di certe spinte utopistiche sembrare una sorta di don Chisciotte  contro i mulini a vento del falso moralismo e dell’ingabbiamento del libero pensiero? C’è un artista, Luigi Latino appunto, che difende ancora orgogliosamente questo patrimonio di idee, coraggio,legalità, giustizia, e che alza la propria voce contro i soprusi perpetrati dai signori del potere a danno della povera gente, nell’ignoranza diffusa di certi meccanismi che guidano l’agire della classe dirigente italiana. Un flebile richiamo, certo il suo, quasi giovannea “vox clamantis in deserto”, un audace quanto disperato ammonimento che  pochi si sentono oggi in animo di condividere. “Libera arte in libero pensiero”:  questo il manifesto di intenti di Latino fra le sue tavole caratterizzate da colori viranti sui toni del blu e del nero, scuri, comunque, come scura è l’anima della rabbia covata da chi non accetta lo stato di cose attuale. E nero è anche lo sfondo delle pagine che ospitano le sue opere, in un libro catalogo dal titolo “…nel buio  dipingendo e pensierando”  che Latino ha recentemente pubblicato. Il buio che scende sulla terra è metafora della cecità degli uomini di fronte alla deriva  che sta prendendo questa società dell’usa e getta  e rappresenta anche l’addormentamento delle coscienze  di chi, a vario titolo, un tempo avrebbe potuto avere un ruolo di maitre à penser, come scrittori, artisti, filosofi, intellettuali non allineati, che oggi invece sembra siano andati in pensione come tutti. Latino non ci sta  e grida, attraverso le contaminazioni delle opere, contro il torpore che si è impossessato di noi, l’addomesticamento delle coscienze, contro il potere, contro la paura, contro il drammatico imbarbarimento dei costumi, contro la razzia del più forte a danno dei più deboli, contro ogni sfruttamento, vigliaccheria, omertà, connivenza. Se l’uomo si distingue dall’animale per la sua capacità di ragionare, si chiede Latino, perché non usa questo suo dono prezioso per guardarsi intorno e  capire  lo sfascio cui stanno andando incontro le nostre città sempre più vittima del degrado, dell’incuria, del marcio che ormai abita nei nostri stessi palazzi e condomini?  Di gran lunga superiore appare lo spessore del pittore rispetto a quello del poeta. Non me ne voglia Latino se affermo che, in questo opuscolo che ho fra le mani, l’artista sopravanza lo scrittore, le poesie sono trascurabili, ma devo accogliere il suo come condivisibile bisogno di comunicare tormenti dell’anima, in un momento in cui evidentemente il pennello non è bastato al nostro autore, che ha dovuto ricorrere alla penna.  Scrive Gianluca Virgilio nella presentazione del catalogo: “Nell’informale della visione pittorica di Latino negli ultimi tempi sono apparsi sagome e lineamenti di volti umani come relitti di una realtà naufragata, di un umanesimo tragicamente tramontato. Sono i segni di una concezione anarchica della vita, elaborata in anni che oggi appaiono lontani e tremendi”.  Dalla sua piccola bottega nel cuore di Galatina, sembra che Latino osservi il mondo e lanci i suoi strali attraverso le opere pittoriche e le sue riflessioni poetiche cercando quella “rottura” che possa far crescere l’uomo e quella maturità che possa portare al rinsavimento una società che sembra abbia smarrito del tutto la bussola nel mare magnum di questi anni di crisi, politiche, finanziarie, sociali. Nei suoi grovigli di pittura le sagome umane in lontananza e  i volti sembra che si inseguano,  e  i paesaggi da era postatomica, così grigio ferro come le sbarre di una prigione,  sembrano evocare un imminente giorno finale,  che sommergerà anche le nefandezze, come le guerre, la fame,  il latrocinio, la violenza esercitata dall’occidente moderno e civilizzatore sulle fragili democrazie orientali. Ad ogni dipinto segue una poesia, anche se sarebbe meglio chiamarla riflessione poetica, sul mondo che stiamo vivendo. Non cambieranno il mondo, siamo certi, le opere di Latino né le numerose mostre a cui ha partecipato nel Salento e in tutta Italia, ma ci danno almeno il conforto di una presenza e di una solidarietà di intenti per una sera di condivisione artistica, a Galatina, a Lecce o dovunque sia. E questo, per quel che mi riguarda, è già motivo di ricambiarne l’amicizia e serbargli gratitudine.

 

Arte. I nuovi selvaggi

 

di V. Primiceri

 

Tonino Baldari, Leila Carlyle e Grita : tre dei componenti del gruppo “I NUOVI SELVAGGI” (il cui nome si ispira al noto movimento tedesco comparso sulla scena artistica agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso, emancipandosi tuttavia dall’ideologia da esso perseguita) ha origine da un’ idea di Tonino Baldari, noto al panorama artistico salentino (ma non solo) che coinvolge Leila Carlyle, Francesca Casaluci, Andrea D’alba, Daniele De Pascalis , Isabella Di Cola,Tommaso Faggiano e Grita, in un gruppo aperto e variabile, libero da cliché e da imposizioni che si svincola da qualsiasi tipo di inquadramento sia esso di genere politico, economico o socioculturale. Cosa ne fa un gruppo unitario? La capacità di collaborare e ritrovare comunione d’intenti, pur difendendo il rifiuto per qualsiasi “laccio” di genere.

 

 

Tonino Baldari : Riappropriarsi di un’identità.

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Tonino Baldari ,eclettico artista galatinese, promotore di diverse mostre collettive ed itineranti volte alla promozione del panorama artistico locale : scultura e pittura sono entrambi i campi della sua continua sperimentazione .I NUOVI SELVAGGI_html_m57aa6c51

La sua opera in pietra leccese riecheggia un primitivismo contaminato da incursioni tecnologiche che si insinuano, a volte, nell’espressionismo della sua pittura, fino a raggiungere l’acme con l’ assemblage del “rifiuto urbano” in elaborazioni plastiche.

Il sogno di Baldari attinge a piene mani dall’ ideologia di Joseph Beuys : anela il recupero da parte dell’uomo di una natura ormai persa, dimenticata nella frenesia di quella routine che ormai si nutre di noi stessi.

Recupero materiale, riuso del rifiuto urbano e riciclo diventano così le uniche azioni possibili per riappropriarsi di quell’identità perduta, dell’indole umana sempre più lontana dal concetto di Madre Natura e sempre più vicina a quello di macchina ed efficienza. La radice locale è anche matrice di ogni opera, che ostenta la sua territorialità pur composta da prodotti di scarto della globalizzazione. Come un paradosso, la materia che genera l’opera grida tutta la sua discordanza da ciò che ci resta di una scellerata sovrapproduzione, fondata sul profitto e quasi mai sul bisogno reale; attraverso le sue opere conduce la sua incessante lotta all’inquinamento ambientale e sociale.

La sua esperienza artistica lo vede partecipe anche nella Video Art come collaboratore : nel 2009 partecipa al video “Salento” di manuel Vason ed Helen Spackman, “Un pizzico di pizzica” di Marco Giacometti e “Disastri quotidiani” di Tommaso Faggiano, nel quale è visibile la sua ultima produzione in policarbonato del 2011, nello stesso anno il suo contributo è presente in “Natural Trendy” e “Visio Pandemia” video di Gianni Colombo.

 

Grita : Trappole temporali

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Sin dalla prima infanzia, Grita opera nella sua casa-studio di Galatina .

Il suo percorso, quasi del tutto da autodidatta, parte dallo studio della pittura moderna e in particolare di quella seicentesca italiana e fiamminga, della quale apprezza l’uso del colore a olio con le sue tonalità profonde e brillanti, caratteristica che rimarrà invariata anche nelle opere più recenti. Si avvicina ad un concetto più teorico di colore, disegno e design durante il periodo di frequenza presso l’ISA di Galatina dove consegue la Maturità d’Arte Applicata.

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Con il tempo si allontana, gradualmente, dalla struttura e dalla forma tipicamente figurative e descrittive del periodo che più ha studiato ed amato, per abbracciare una graduale scomposizione che via via colpisce e smaterializza gli sfondi, sino a chiudere il cerchio sempre più intorno al soggetto principale, del quale spesso conserva solo un connotato (di norma occhi o labbra), lasciando che il superfluo si dissolva e si semplifichi in texture e supporti di totale recupero come T.N.T, latta, plastica e cellophane “catturati” dalla quotidianità seguendo quel concetto di Arte povera che Celan individuò nel “ridurreaiminimitermini,nell’impoverireisegni,perridurliailoroarchetipi”.

Ecco che la rete, appesantita da coperchi di latta, rievoca vissute prigioni sociali e “trappole” esistenziali dalle quali sempre si scorge l’idea di un sogno che riporta ad antichi amori mai obliati.

 

 

Leila Calyle : Il tempo diventa un riflesso di colore

Leila Carlyle è stata un’insegnante e un’ editrice. Scrive, pubblica e disegna libri e materiale grafico di vario genere.

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Per diversi anni costruisce opere e mobili usando e lavorando vetro colorato, legno e diversi materiali, spesso di recupero (facendone la sua passione).

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Il suo trasferimento a Galatina dalla città di Londra, dalla quale arriva un anno fa, la avvicina alla cultura e all’arte salentina (dalla quale rimane profondamente colpita) e segnerà il più sistematico e sentito avvicinamento all’arte trasformando la sua passione per vetri e assemblaggio multimaterico, in un percorso intellettuale di riflessione poetica in cui donare una nuova opportunità per guardare meglio dentro le cose e , magari, a sé stessi; questo “riscatto” che ognuno di noi dovrebbe concedersi è chiaramente individuabile nella serie de “Le sveglie”, in cui ingranaggi spesso relegati a mera funzione tecnica, diventano splendide rappresentazioni di spirali che evocano il concetto di infinito.

 

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Giustiniano Gorgoni e la vita politica a Galatina dopo l’Unità

Piccoli patrioti, di Gioacchino Toma
Piccoli patrioti, di Gioacchino Toma

 

Giancarlo Vallone

La figura del galatinese Giustiniano Gorgoni (1825-1902) torna non di rado nelle pagine di storia regionale ed anche risorgimentale, e direi che si sente ormai l’esigenza d’una messa a punto, che qui non può essere, naturalmente, tentata, ma solo indicata. Si sente cioè l’esigenza di porlo nella giusta posizione se non altro della storia politica cittadina. Il compianto Zeffirino Rizzelli ha dedicato, nel 1999, un saggio al nostro personaggio, che resta il contributo più informato su di lui; ma scritto, come Rizzelli stesso si definisce, da un non-storico, i profili d’errore sono tutt’uno con quelli d’utilità che però è larga, per dovizia di date e per ricerca di precisione.

Che Gorgoni sia stato patriota ed uomo del Risorgimento lo si ricava da vari indizi e da alcuni riscontri; intanto da una lettera sua del 1843 a Rosario Siciliani, sacerdote, e fratello anziano del filosofo Pietro, che fu edita da Aldo Vallone, e che dimostra chiari segni di passione italiana e di sacrificio per la causa. Inoltre nel museo cittadino, si conserva (ed io ho potuto leggerla per la cortesia dell’amico L. Galante) un’importante memoria del gennaio 1886 che Gorgoni scrive per difendersi dalla accuse rivoltegli in un foglio a stampa dall’ex sindaco Viva.

Egli vi narra della sua giovinezza liberale, condivisa col Cavoti, con letture proibite dal Giusti, dal Rossetti e dal Berchet; ricorda che, studente a Lecce, aveva frequentazioni liberali, ed aveva festeggiato in casa dell’ avv. Luigi Falco, con altri giovani, la costituzione del 1848; inserito, perciò, nella lista degli attendibili dalla polizia borbonica, gli è negato il visto per recarsi a Napoli, ed iscriversi alla Facoltà di Giurisprudenza.

G. Toma, O Roma o morte
G. Toma, O Roma o morte

Solo nell’ aprile 1852 gli è concesso di partire, e ottenuta dal Rettore, Gerardo Pugnetti, l’esenzione dall’obbligo di frequenza, è ammesso agli esami, dalla fine di aprile al settembre, e si laurea. Tutto questo dimostra anche altro: se Giustiniano, di antica famiglia del patriziato cittadino, è liberale, c’è anche una frattura dall’osservanza borbonica, che invece resta pertinace ad esempio nel ramo baronale della famiglia, e nel retrivo Giacomo (1780-1858), il teorico dell’ordine sociale o nei parenti baroni Calò; una frattura che spiega il suo legame con esponenti emergenti del ceto mercantile e professionale, come il Siciliani a Galatina, o i Falco, a Lecce. In altri termini, questa antropologia della libertà comincia a creare colleganze intanto ideali in ceti di diversa origine e lo fa proprio quando la diversità cetuale non condiziona più la via al potere: è questo il terreno sul quale va esaminata la continuità o la novità della guida della società in ordine alla sua antica e rigida partizione cetual-giuridica che, l’ho già detto, nell’esser tale, riponeva anche l’assetto del comando e il predominio patrizio.

C’è un altro elemento della vita giovanile di Gorgoni che va posto al centro del quadro: dal novembre del 1852 (e forse prima), già laureato in giurisprudenza, entra nel famoso studio legale, a Napoli, di Liborio Romano, che ne apprezza la capacità tecnica, la conoscenza della lingua francese, l’abilità. Resterà in quello studio pare per sette anni. La notizia era di uso comune, allora, e lo stesso Gorgoni la richiama nella sua memoria; in seguito la ricorda solo un elogio funebre di Giuseppe Panico (Fra i cipressi del camposanto) edito nel 1912. Invece la cosa è di vitale importanza, perché Liborio Romano, oltre ad essere un civilista importante, è una personalità politica di rilievo nazionale.

Nell’estate del 1860 è Ministro degli Interni nel governo costituzionale borbonico, destituisce il 23 luglio 1860 tutti i sindaci eccezion fatta per quello di Napoli, e nomina con decreto quelli nuovi. Aiuta Garibaldi nell’unione di Napoli all’Italia, sarà suo ministro e poi deputato a Torino, ed uno dei capi della Sinistra (storica) fino al 1867, quando morì. Romano nomina sindaco di Galatina, pare al 5 settembre 1860, un Antonio Dolce, suo largo parente (proprio attraverso i Gorgoni) e destinato a restare in carica, come molti dei sindaci romaniani, a lungo. Con grande confusione di idee s’è sostenuto che questa nomina (controfirmata dal Borbone) del 1860 e le successive ratifiche di età sabauda sono “segno di continuità e non di novità democratica”. Intanto questa continuità tra due regimi nella carica di sindaco, è una continuità nell’adesione liberale ed unitaria come mostra la nomina romaniana, e, se pur nasconda profili di opportunismo, si tratta comunque di una novità nel regime costituzionale e politico; certo non una novità “democratica”, chi mai potrebbe dirlo? ma una novità liberale, e, come si vedrà, sociale. Non ogni costituzione né ogni elezione significa democrazia: il suffragio censitario è sinonimo del liberalismo ottocentesco. Non può dirsi propriamente democratico neanche il voto plebiscitario a suffragio universale maschile che si tenne nell’ottobre del 1860 e decise l’annessione italiana dell’antico Regno, con un esito in Galatina schiacciante a favore dell’Unità, grazie all’intervento del medico Nicola Vallone.

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Inizia qui il corso elettorale della nuova Italia. Tra Gorgoni e Dolce, non dovevano esserci rapporti costruttivi: nelle elezioni provinciali del maggio 1861 viene eletto, da Galatina, Nicola Bardoscia, amico e affine di Dolce, proprio contro Gorgoni. Poco dopo, in previsione delle elezioni al Parlamento nazionale del 1865 si progetta la candidatura in area romaniana del filosofo Pietro Siciliani, certo sostenuta dai Vallone, suoi parenti (anche se una polemica ci sarà, nel 1867, al tempo del colera, tra lui e il canonico Carmine Vallone, da me descritta altrove), e dal Gorgoni, ma senza successo, per evidenti resistenze galatinesi, proprio del gruppo Dolce e Bardoscia ( e dei loro amici Mezio, Calofilippi, Angelini, Garrisi, Papadia, come rivela in una lettera il filosofo); ma ognuno di questi gruppi e di questi uomini, in lotta tra loro, si annoda a Liborio Romano.

Ho esposto in ordine cronologico queste vicende perché se ne possono trarre valutazioni poco discutibili: gli uomini capaci di guidare la società galatinese nell’ottobre 1860 (Gorgoni, Dolce, Vallone) sono tutti per l’Unità, qualunque siano state le loro motivazioni. Di più, sono tutti appartenenti all’area politica romaniana, cioè alla Sinistra storica. Tuttavia, come dimostrano le elezioni successive, c’è in corso tra loro una lotta per l’egemonia cittadina: da un canto un gruppo anzitutto mercantile e professionistico raccolto intorno al Gorgoni, e al nucleo parentale Siciliani e Vallone e ad altri. Dall’altra parte il nucleo parentale Dolce e Bardoscia, di cospicua ricchezza agraria, ed altri amici e parenti. E certo si tratta di una duplicità e di un antagonismo destinato a restare dominante, anche se, com’è ovvio, l’ondeggiare della vita amministrativa mostra smagliature e ricollocazioni nelle due aree. La comune adesione romaniana, destinata a dissolversi, ha alle spalle un più profondo elemento comune, perché Vallone, Siciliani, Dolce o Bardoscia, non esprimono storie sociali molto diverse, anche se son diverse le vie di formazione della loro ricchezza: tutti estranei, a differenza del Gorgoni, all’antico patriziato, lo hanno in realtà soppiantato nel corso dell’Ottocento alla guida della città. Per questo fu detto nel 1992, e non può esser detto diversamente, che nel Plebiscito dell’ottobre 1860 la spinta unitaria fu data da “uomini sostanzialmente nuovi alla direzione sociale come Antonio Dolce, Nicola Bardoscia e Nicola Vallone”: uomini nuovi rispetto al secolare dominio patrizio. E questo corrisponde al quadro dell’intero Mezzogiorno, perché la storiografia da tempo sostiene che il vero ricambio sociale della classe dirigente meridionale si concretizza appunto con l’Unità.

Il Gorgoni, reso esperto anche in questo dal magistero romaniano, dal 1862 al 1863 pubblica a Lecce, dove tiene una scuola privata di diritto, e dove per certo ravviva i contatti con Libertini, e con Brunetti, il periodico La Riforma: giornale rarissimo, del quale non si conoscono che un paio di numeri, ma che certamente era ricco di corrispondenze da Galatina. Una lacuna che aggrava la larghissima disinformazione sul periodo, e del resto, di Galatina sappiamo ancor meno per il decennio dal 1866 al 1876: si parla, per quel periodo, di sindaci di “buona fede adamitica”. Il 1876 segna l’avvento alla guida nazionale del Depretis e della Sinistra storica; nello stesso anno ci sono le elezioni amministrative in città; dopo qualche tempo, la nomina a sindaco di Giacomo Viva, genero del Bardoscia, non fa che consolidare nel paese un potere familiare che continua a riconoscersi nell’area della Sinistra e ora si avvale anche di riscontri governativi, mentre in sede provinciale il punto di riferimento è il Brunetti.

Pare sia stato questo un momento di riavvicinamento tra i gruppi: con Viva sono i Vallone e lo stesso Gorgoni, che poi il Viva asserirà, forse infondatamente, eletto in Consiglio comunale (dove sarà anche assessore, come ha ricostruito Rizzelli) per accordo con lui. Tuttavia è proprio il sindaco Viva, che resta a lungo in carica nonostante varie sospensioni ad opera dei Prefetti, a minare la coalizione. Certo è il suocero a sostenerne le sorti: Nicola Bardoscia sarà eletto al Parlamento nazionale nel 1880 contro Oronzio De Donno di Maglie; Gorgoni riesce ad essere eletto al Consiglio provinciale nel 1881.

I due gruppi comunque sono ancora uno contro l’altro nelle elezioni politiche del 1882, quando si candida Pietro Siciliani col sostegno di Gorgoni, di Pietro Cavoti (del quale conosciamo qualche dissapore proprio con Gorgoni), dei Vallone (defilati, ma partecipi): lo stesso gruppo del 1865, ma Bardoscia prevale ancora. La frattura si ripercuote in Consiglio comunale, dove è il sindacato di Viva a non tenere, ad isolare il gruppo familiare, nonostante si conosca, in questo torno di tempo, forse all’inizio dell’estate del 1884, un tentativo di fusione tra i due “partiti”. Nella drammatica sessione consiliare del 21 novembre 1884, per le malversazione del Viva, si dimettono cinque consiglieri comunali: Giovanni Gorgoni, Raffaele Papadia, Giuseppe Venturi, Luigi Vallone senior e Pietro Vallone (in seguito se ne dimetterano altri quattro); dopo pochi giorni viene edito il primo numero del periodico locale lo Sbarbarino (edito dalla fine del 1884 al 29 luglio1886) sul quale non si sa chi abbia scritto: non Giustiniano Gorgoni che apparentemente ne dissente; nemmeno un galatinese dalla penna netta ed incisiva come Antonio Romano (del quale posseggo importanti carte manoscritte); forse Pietro e forse anche Luigi Vallone (don Luigino) ed altri. Viva deve subito dimettersi dalla carica di sindaco, pur restando in giunta; in breve il prefetto Vincenzo Colmayer (poi senatore), nomina una commissione d’inchiesta, insabbiata, si sospettò, dal Brunetti. L’altro gruppo si rafforza costantemente di adesioni significative; nelle elezioni comunali suppletive per 12 consiglieri del (31 luglio ?)1885 sono eletti 12 avversari del Viva (al quale resta una risicata maggioranza) come Luigi Vallone, Giuseppe Siciliani, Antonio Romano, Celestino Galluccio, e poi Venturi, Santoro,Tanza, Mezio, Micheli, Consenti, Capani e Raffaele Papadia, che è indicato come sindaco dal prefetto Colmayer pare ad inizio del 1886. Viva non accetta la sconfitta. Il 25 agosto 1885 diffonde un foglio a stampa, che purtroppo non ho rinvenuto (ma che si legge, per un brano, nel volume del Bernardini sui giornalisti leccesi), nel quale attacca tutti, in particolare i Vallone, il Papadia, Giustiniano Gorgoni: i primi replicano a stampa (fogli del 12 e del 28 settembre, presso di me), il Gorgoni con la memoria citata, e con una querela. Perciò è inevitabile che in prossimità delle elezioni politiche del maggio 1886, si divarichino ancora di più i legami alti: sempre Brunetti (salvo un voltafaccia all’ultimo minuto) per Bardoscia e Viva; mentre non sorprende che l’altro gruppo si appoggi a Giuseppe Romano, fratello minore di Liborio e parlamentare autorevole della Sinistra. Poi nelle elezioni amministrative dell’ estate 1886 il successo di questo gruppo è pieno e definito. Per certo in un volantino del 1894, che fa parte di una mia collezione che definirei importante, Celestino Galluccio indica il 1886 come data della svolta.

L’antico fronte romaniano della Sinistra non esiste più, spaccato nettamente in due parti che si collocano su posizioni politiche del tutto distinte ed articolate, ormai, in una Destra, di nuovo modello “chiusa ed arroccata nell’ amministrazione, di fronte ad una Sinistra aperta socialmente” orientata nel futuro ad una professione socialista, con Paolo Vernaleone, e ad una repubblicana con Antonio Vallone, che è destinato a divenire il leader indiscusso della sua area, ormai, dal 1886, vincente, e del paese. Dopo un salto informativo di un altro decennio, con la tornata amministrativa del 1897, Gorgoni e Vallone sono insieme assessori; quasi a simbolo del passaggio di testimone.

Concludo notando che l’ elenco delle opere a stampa del Gorgoni è certamente incompleto, e contiene forse degli errori; sorprende che non si conoscano sue allegazioni almeno del periodo napoletano, che invece dovrebbero esserci, proprio per la sua riconosciuta capacità, che del resto si riscontra anche nell’attività di amministratore comunale, di cui l’impegno per il Ginnasio e poi Liceo Colonna è solo un aspetto. L’opera più importante è il suo notevolissimo Vocabolario Agronomico…della Provincia di Lecce edito a dispense dal 1891 al 1896, e poi unitariamente a Lecce, con data, forse anticipata, del 1891, e ristampato infine da Forni, a Bologna, nel 1973. Rizzelli si affanna a dire che non è opera di agronomo e nega questa qualifica anche al suo raro scrittarello del 1858 sull’uso dello zolfo in agricoltura, ma se l’agronomia è “scienza e studi dell’agricoltura”, come egli scrive, anche Gorgoni è un agronomo, con inclinazione magari lessicografica, ma anche di scienza applicata, com’è facile riscontrare non solo nello scrittarello, ma in tante pagine dello stesso Vocabolario. In fondo essere stato avvocato, agronomo, giornalista, politico ed amministratore non è ancora aver segnato il massimo della versatilità. Gorgoni muore in Galatina, nel suo palazzo di via Cavour, il 10 marzo del 1902; ma di lui dovremmo cercare di sapere di più.

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Il “Cavallino Bianco” di Galatina

La struttura fu progettata e costruita dall’ing. Armando Stasi

 

Il “Cavallino Bianco”

il teatro dei veglioni e degli spettacoli

 

La cerimonia d’inaugurazione avvenne il 3 febbraio 1949 alla presenza dei proprietari, del sindaco Carmine D’Amico e di un folto e qualificato pubblico

di Giorgio Lo Bue

 

Il Teatro Cavallino Bianco fu inaugurato il 3 febbraio ’49, con l’opera il Rigoletto di Giuseppe verdi, alla presenza dei proprietari e del sindaco di Galatina dott. Carmine D’Amico.

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La costruzione fu progettata dall’ingegnere Armando Stasi, ma va anche detto che il primo progettista fu il barese Giuseppe Basile.

Il nome al cinema fu dato dalla moglie del socio Attilio Distante, dopo aver assistito, a Bari, a una commedia, dove vi era un piccolo cavallo bianco.

Il progetto architettonico non fu studiato nei minimi particolari, tant’è vero che, solo dopo averlo inaugurato, ci si accorse della poca profondità del palcoscenico, per cui si decise di ampliarlo sottraendo quattro-cinque metri alla strada.

L’entrata del cinema era alle spalle di quella attuale, esattamente in via Vallone. Durante l’estate i film erano proiettati nell’attigua Arena, avente una capienza di oltre trecento posti. Attualmente c’è un enorme palazzo, che soffoca la restante struttura e ne oscura la sua maestosità.

Un’altra curiosità era rappresentata dal ristorante-albergo adiacente al cinema, dove pernottavano artisti, cantanti e rappresentanti di commercio.

Anche il Cavallino Bianco, dopo gli anni 1970, subì la crisi epocale del cinema ma, nonostante il trend negativo, la struttura galatinese continuò a vivere grazie alla sua storia e alle numerose attività di intrattenimento, come le serate danzanti, gli indimenticabili veglioni, lo spettacolo del Living e altre interessanti manifestazioni pubbliche. All’inizio del nuovo millennio le attività sono andate via via scemando, cosicché è calato, tra la delusione generale della città, il definitivo sipario.

A voler fare una breve carrellata delle attività cinematografiche, culturali e di spettacolo più importanti, non possiamo non ricordare i grandi kolossal del cinema degli anni ’50, come “Ulisse”, “I dieci comandamenti”, “La Tunica”, “Ben Hur”, il “Re dei Re” e altri, che erano proiettati per diverse serate e ai quali assisteva un pubblico proveniente dai tanti paesi limitrofi.

Il fiore all’occhiello, però, è senz’altro rappresentato dai numerosi veglioni organizzati durante il carnevale. Chi non ricorda il Veglionissimo della Stampa, del Tennis, dello Studente, Azzurro, della Caccia, della Croce Rossa e altri minori? Il primo, organizzato da alcuni esperti giornalisti galatinesi, dalla metà degli anni ’50 e fino ai primi anni ’70, esibiva ogni anno la presenza di grandi cantanti, tra quali ricordiamo Domenico Modugno, Peppino di Capri, Mina, Ornella Vanoni, Tony Renis, Fred Bongusto, Rita Pavone, Alighiero Noschese  e altri non meno importanti. Quello della Caccia era il veglione del Circolo dei Cacciatori (alla fine della serata solitamente si sorteggiava un cinghiale o un daino), mentre quelli dello Studente e dell’Azzurro erano veglioni organizzati dagli studenti del Liceo Classico “Colonna” e dell’Istituto Tecnico Commerciale “Laporta”, mentre quelli del Tennis e della Croce Rossa rispettivamente dai soci del Circolo Tennis e dagli iscritti alla Croce Rossa.

Non va sottaciuto il Veglioncino dei Bambini, in auge dagli anni ’50 agli anni ’70, al quale partecipavano un mondo di bambini e di… genitori.

Non sono mancati i concerti di musica leggera e classica, le attività teatrali, i festival di voci nuove, come quello presentato dal popolare Pippo Baudo il 7 e l’8 giugno del 1969, così come non sono mancati appuntamenti culturali importanti, dei quali il più rilevante è stato senza dubbio quello del 1985 in cui ha visto il prof. Zichichi, celebre astronomo, trattare l’argomento “Scienza e fede al servizio della pace”.

Tra le altre attività culturali menzioniamo l’indimenticabile serata del 12 febbraio 1980. Un avvenimento eccezionale, forse il più importante della seconda metà del Novecento.

A Galatina giunse il “Living Theatre” per rappresentare il musical Antigone di Sofocle di Bertolt Brecht, per la regia di Judith Malina e Julian Beck.

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Lo spettacolo fu organizzato dall’indimenticata Preside Paola Calabro, allora presidente del Circolo A.R.C.I. galatinese.

La tecnica usata dal Living era quella dello straniamento totale e assoluto e dell’interpretazione di un lavoro veramente originale e libero, che, oltre a ricevere un unanime apprezzamento dei numerosi spettatori, determinò una rivoluzione nelle loro menti, abituate a un tipo di spettacolo asfittico e stagnante e non educate alla decodificazione del linguaggio gestuale degli attori.

Gli attori del Living concepivano la vita strettamente connessa all’attività teatrale, il gruppo continuava a fare spettacoli per esplicitare la rivoluzione non violenta. D’altra parte la risposta che essi avevano dato agli studenti universitari prima di venire a Galatina era stata: «La rivoluzione passa attraverso una scelta individuale intima ma anche estetica: quella della vita, della poesia e dell’amore». Essi, quindi, intendevano per rivoluzione anche lo spettacolo nel quale l’attore e lo spettatore vivevano le stesse emozioni.

Insomma, attore, testo e pubblico si fondono insieme e realizzano, anche se per la sola durata dello spettacolo, il sogno e il modello di una società più libera e più giusta.

Un’altra presenza molto significativa a Galatina, è stata quella della Compagnia Teatrale Scenastudio, operante nella nostra città dal 1988 fino a giugno 2000. In questo periodo sono stati programmati importanti progetti teatrali, che hanno coinvolto il pubblico con spazi e linguaggi eterogenei e con spettacoli che sono andati dal teatro drammaturgico a quello comico o musicale. Questi progetti teatrali sono stati realizzati in collaborazione con il Teatro Pubblico Pugliese, l’ETI, l’AGIS-CTA, con l’Amministrazione Provinciale di Lecce e con i Comuni di Galatina, Lecce, Calimera, Galatone, Gallipoli, Maglie, Melendugno, Nardò e Taviano.

Proprio per questo motivo, l’Amministrazione galatinese, sollecitata dall’interesse sempre più crescente dei suoi cittadini, istituì, nel 1987, la “Stagione Teatrale” annuale in collaborazione con la Cooperativa Teatrale Scenastudio, il cui direttore artistico era Antonio De Carlo.

La prima stagione teatrale ebbe inizio il 14 gennaio 1988 con la rappresentazione di nove famosi spettacoli. I prezzi furono molto contenuti per incoraggiare la gente a parteciparvi.

Gli spettatori non delusero l’attesa degli organizzatori: cominciarono a rispondere all’appello in duemilacinquecento, numero che andò aumentando negli anni successivi.

La prima opera rappresentata fu “Fatto di cronaca” di R. Viviani, regia di M. Scaparro e messa in scena dalla cooperativa “Gli ipocriti”.

Fra le altre opere presentate ricordiamo:

– “Lazzaro” (31.3.’89) e “Il berretto a sonagli” (14.4.’93) di Pirandello;

– “Le troiane” (29.1.’90) di Euripide;

– “Mandragola” (6.4.’90) di Machiavelli;

– “Sogno di una notte di mezza estate” (28.1.’91) di Shakespeare;

– “L’impresario delle Smirne” (8.1.’92) di Goldoni;

– “La scuola delle mogli” (7.4.’92) di Molière;

– “L’importanza di chiamarsi Ernesto” (20.1.’93) di Wilde.

L’ultima, organizzata in ordine di tempo e datata 3 aprile 2000, è stata “Due dozzine di rose scarlatte”.

Un’ultima annotazione. Il 6 giugno 2000 i maturandi dell’ITC “M. Laporta” di Galatina si esibirono, sotto la mia direzione, in uno spettacolo di teatro e pizzica.

Da questa data in poi il Cavallino Bianco è stato abbandonato all’incuria del tempo e, nonostante qualche anno fa sia stato acquistato dall’Amministrazione Comunale, nulla è stato fatto per ristrutturarlo, ammodernarlo e adeguarlo alle norme di sicurezza.

Ancor oggi, ahinoi, il Cavallino Bianco continua a poltrire e a dormire, aspettando che qualcuno con un miracoloso “bacio” lo svegli dall’ignavia umana e lo faccia risplendere come ai bei tempi, quando la sua fama di centro di cultura e di spettacolo si diffondeva in ogni angolo del Salento.

Noi siamo qui ad aspettare, nella speranza che quanto prima accada un miracolo. Ma si sa che i miracoli son fatti dai santi e non certamente dagli uomini, a meno che…

 

Pubblicatu su Il Filo di Aracne.

Il Salento delle leggende. Tarante e tarantate

Il Salento delle leggende.

Misteri, prodigi e fantasie nell’antica Terra d’Otranto

 

 

di Antonio Mele ‘Melanton’

Quando muoiono le leggende finiscono i sogni.

Quando finiscono i sogni, finisce ogni grandezza.

 

Si può dire tutto della gens salentina, meno che non ami la propria terra.

Siamo, sostanzialmente, un popolo d’irriducibili nostalgici, forse anche perché siamo a lungo stati (e in parte lo siamo ancora) un popolo di emigranti. Anche chi scrive lo è. Pur potendo convintamente affermare che “risiedo” da molti anni a Roma, ma “vivo” nella mia Galatina.

Tra la fine dell’800 e il preludio all’orribile tragedia della Grande Guerra, un’immensa legione di disperati compatrioti, giovani e meno giovani, per lo più meridionali – da Puglia, Basilicata, Campania, Calabria, Sicilia –, ma anche piemontesi, veneti e friulani, invase il Nord e Sud America, imbarcandosi sugli accidentati piroscafi che salpavano dai porti di Napoli, Genova o Palermo, stipati fino all’inverosimile. Un movimento globale di decine di milioni di persone!

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A quella prima ondata ne seguì un’altra, negli anni ’50 del secolo scorso, questa volta sui cosiddetti “treni della speranza”, caracollanti verso i Paesi più emancipati del Nord Europa: Svizzera, Belgio, Francia, Germania. Un’autentica epopea, che investì anche le nostre province, e che molti ricordano ancora.

Di questi nostri fratelli salentini, non pochi tornavano periodicamente nei propri paesi (a volte in estate, più spesso a Natale), per partire nuovamente all’estero col cuore sospeso tra gioia e malinconia. Il nuovo addio era, se possibile, più cocente del primo, ma intanto quei pochi giorni del ritorno, rivissuti tra mani e occhi conosciuti, e affetti riacquisiti, e desideri finalmente appagati, ‘ricostruivano’ rapidamente l’amore per la propria piccola patria, evidenziato anche attraverso romantiche e ingenue esternazioni di fierezza. Come quella di sfoggiare orgogliosamente la nuova automobile (spesso affittata a caro prezzo, pur di fare bella figura), o regalando in abbondanza a parenti e amici pacchetti di sigarette e stecche di cioccolato.

Difficile, poi, che si mancasse alla festa del Santo Patrono – in luglio e agosto per lo più –, mossi da devozione sincera per il proprio Protettore: da Santu Roccu a Santa Cristina, da Sant’Antoniu a li Santi Medici, o alla Madonna dellaLizza, e Santu Ronzu, e innumerevoli altri… Per secoli, e per un preciso motivo, sconfinante tra il religioso e il pagano, la più importante di tutte è stata sicuramente la festa de Santu Paulu, a Galatina: il Santo delle tarantate.

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Il fenomeno delle tarantate – ampiamente studiato (e illuminato) da Ernesto De Martino – è rimasto per almeno mille anni avvolto nel mistero e nella leggenda.

Nell’ambito della comunità contadina, la manifestazione dell’evento, com’è noto, nasceva dalla credenza popolare che in campagna, nel mese di giugno, ed in particolare durante la mietitura del grano, un ragno velenoso (la tarantola o taranta) potesse “pizzicare” le persone – peraltro quasi esclusivamente di sesso femminile – provocando con il suo morso una serie di crisi isteriche, espresse poi in balli frenetici, e prolungati fino allo sfinimento. Queste danze convulse erano accompagnate ed esorcizzate con la musica (prodotta soprattutto da tamburelli e violini), e infine guarite bevendo l’acqua miracolosa del pozzo della cappella di San Paolo, in Galatina.

Perché San Paolo? Semplicemente perché l’Apostolo, durante i suoi viaggi, fermandosi nell’isola di Malta, fu qui morso da un serpente, ma sopravvisse al veleno, protetto dalla fede e dall’intercessione divina.

Le tracce più remote del tarantismo si perdono nei culti dionisiaci e nella mitologia greca, con varie leggende, delle quali s’interessò anche Ovidio. In una delle sue suggestive narrazioni, il poeta racconta di Arakne, una giovane e bellissima fanciulla, nota in tutta la Lidia per la sua arte della tessitura: produceva infatti tele ricamate di straordinaria bellezza, tanto che la stessa Pallade Athena, scesa dall’Olimpo, la sfidò a misurarsi con lei. Quasi inutile aggiungere che la gara fu vinta alla grande da Arakne, provocando naturalmente l’invidia e le ire della dea, che in un moto di stizza la tramutò in ragno, destinandola così a tessere in eterno i suoi fragili (ma pur sempre meravigliosi) lavori.

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Strettamente collegata alla devozione per San Paolo è anche quella per San Donato,

al quale peraltro molti paesi della Penisola sono dedicati: da San Donato Milanese a San Dona’ di Piave, San Donato Val di Comino, San Donato di Ninea, e altri ancora, fino al nostro San Donato di Lecce…

L’elemento che in qualche modo accomuna i due Santi è per l’appunto la danza convulsa ed eccitata, il ballo di natura isterica, che si manifesta sia con le tarantate –, di competenza, per così dire, di San Paolo –, sia con i soggetti fragili o malati di mente, generalmente colpiti da nevrastenia e epilessia, che sono devoti a San Donato. Non va infatti dimenticato che, essendo morto per decapitazione il 7 agosto 304, su ordine personale dell’imperatore Diocleziano (altri spostano l’evento ai tempi di Giuliano l’Apostata), San Donato vescovo e martire è il protettore dell’epilessia: malattia un tempo assai diffusa, e popolarmente conosciuta come ”male di San Donato”.

Più in generale, la protezione di San Donato (che nel nostro territorio è patrono anche di Montesano Salentino) riguarda tutti i danni e le complicazioni che interessano la testa e la mente. Tant’è che nei mercatini della festa patronale si usava, e in parte si usa anche oggi, comprare come talismano una piccola chiave benedetta, che porta riprodotta l’effigie del Santo: chiave da custodire gelosamente, in quanto capace di “aprire” la mente per liberarla dal demonio e preservarla da ogni male.

Si dice, infatti, che in tempi non lontani, i malati di epilessia fossero considerati invasati da spiriti maligni, per scacciare i quali si procedeva talvolta al seguente rituale di espiazione ed esorcismo: il malato e un suo accompagnatore (di solito la madre, un fratello o una sorella) entravano in chiesa inginocchiandosi, e sempre in ginocchio, baciando continuamente per terra e recitando le orazioni, procedevano fino alla statua del Santo, chiedendogli la grazia.

Nel Medioevo, invece, per curare l’epilessia si faceva uso di una rara erba selvatica, vagamente somigliante alla rùcola o al taràssaco (in dialetto chiamato pisciacane), che veniva disposta su un letto di foglie di fico o di piccole canne, sulla quale, a sua volta, veniva posato il Vangelo, mentre le donne, sedute in circolo, recitavano brevi preghiere e invocazioni. Dopo il rituale, si riprendeva l’erba e la si lavorava fino a formarne una collana, destinata ad essere sistemata al collo del malato, e da questi indossata dall’alba al tramonto per nove giorni, in attesa che dal decimo acquisisse i primi segni di guarigione.

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Tornando alle tarantate, resta da chiedersi per quale ragione gli abitanti di Galatina – loro, e soltanto loro! – non siano mai stati morsicati dal ragno fatale, mantenendosi così immuni dalle conseguenti crisi epilettiche.

Ebbene, tale miracoloso privilegio risale al tempo della predicazione di Gesù Cristo, allorché i discepoli Pietro e Paolo giunsero nel Salento, e si fermarono ad evangelizzare, fra le altre, anche le popolazioni del luogo dove sarebbe poi sorta Galatina. Qui, grazie alla generosità di una donna, che offrì loro del cibo e un giaciglio per dormire, i due affaticati Apostoli si poterono rifocillare, e san Paolo, come ringraziamento, benedisse la donna e i suoi familiari, esentandoli – anche per tutte le generazioni future – dalla contaminazione di qualsiasi genere di veleno, e concedendo altresì il potere di aiutare a guarire chiunque fosse stato morso da ragni, scorpioni o altri pericolosi animali.

Per rafforzare tale potere, san Paolo consacrò infine l’acqua di un pozzo adiacente alla casa della donna, proclamando che alle persone “pizzicate” sarebbe bastato bere quell’acqua, per annullare definitivamente ogni malefico effetto di tossicità. E intorno a quel pozzo, secondo una vecchia leggenda, fu poi costruita quella che è ancora oggi la Cappella de Santu Paulu de le tarante.

Tarantate, di Luigi Caiuli
Tarantate, di Luigi Caiuli

Va per ultimo aggiunto che alla fenomenologia della pizzica molti artisti si sono variamente ispirati, primo fra tutti, io credo, il maestro Luigi Caiuli, con il suo impetuoso e sanguigno ciclo pittorico sul tarantismo, donato al Museo Cavoti di Galatina; ed anche letterati come il poeta dialettale lizzanese Salvatore Fischetti, che in una sua appassionante poesia dedica alla pizzica versi di grande incanto: «…Ttacca, viulinu, tàgghia cu llu suènu / tagghiènti comu filu ti rasùlu, / la tantazziòni e la malincunia! / A sta carusa mia talli rifìna, / falla ballà cu ccàccia fuècu e raggia! / A bballa, beddha, comu mai facisti, / no ti ppuggiàri: bballa, bballa, bballa! / ddurmisci la taranta tantatrici,/ a cantu e suènu: bballa, bballa, balla!… (Attacca, violino, taglia con il suono, / tagliente come filo di rasoio, / la tentazione e la malinconia! / A questa ragazza mia ridona pace, / falla ballare, ché scacci fuoco e rabbia! / Balla, mia bella, come mai facesti, / non ti fermare: balla, balla, balla! / Addormenta la taranta tentatrice, / a canto e suono: balla, balla, balla!…».

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

 

 

La poesia in dialetto di Giuseppe Greco

la spaccata 

L’ULTIMO AEDO:

La poesia in dialetto di Giuseppe Greco

ripropone figure e cadenze foniche del passato

 

di Giuseppe Magnolo

Sfogliando il volume di poesie Traini te Maravije (Martignano Ed., 2008) di Giuseppe Greco, viene subito in mente sin dal titolo un richiamo a Giambattista Marino, che nel Seicento condensava in un famoso distico la sua concezione della poesia, affermando: “E’ del poeta il fin la meraviglia //chi non riesce a stupir vada alla striglia”. Il senso di meraviglia implicava non solo un modo nuovo di concepire la funzione poetica, ma anche l’effetto prodotto sul lettore-ascoltatore, che doveva essere affascinato dalla complessità e sottigliezza dei concetti espressi, e soprattutto dall’arditezza delle metafore. Questo intento avrebbe indotto una parte consistente dell’arte barocca verso una deriva di artificiosità immaginifica, che se da un lato esalta l’estro inventivo dall’altro diventa puro gioco verbale, avulso dalla pregnanza emotiva che nasce dalla riflessione sul proprio vissuto.

Più pertinente ai fini della nostra valutazione interpretativaci sembra quindi un richiamo agli scrittori romantici degli inizi dell’Ottocento che, volendo liberare la poesia dal didatticismo moralistico prevalente nel secolo dei lumi, le affidavano il compito di esprimere il fascino della natura primitiva osservandola con lo sguardo estatico delle persone semplici ed istintive, che specie nella fase dell’adolescenza riescono a mantenere vivo in sé un rapporto di interesse partecipativo sia con gli esseri umani che verso gli elementi naturali che li circondano. Sulla stessa linea si poneva in fondo anche Pascoli con la sua teoria del “fanciullino”, rivolta ad attribuire un approccio emozionale ed istintivo all’esperienza poetica, anche se gravandola di un fatalismo che inesorabilmente destina gli esseri umani all’infelicità.

Questi riferimenti di natura accademica permettono di stabilire in esordio un nesso di ideale continuità sul piano motivazionale, per poi cogliere l’essenza intima del modo di poetare di Giuseppe Greco, che si distingue per alcuni aspetti fondamentali che lo caratterizzano, dandogli una connotazione che lo rende originale proprio riportandolo alla tradizione. Questo dato è congruente con gli orizzonti esistenziali e culturali di una persona affabile e solerte, assai sensibile agli stimoli dell’arte, che vive a Parabita nel sud del Salento, dove opera professionalmente nel locale istituto d’arte come docente di geometria descrittiva e rilievo architettonico, ed è delegato per la Puglia Sud dell’Associazione Italiana Poeti e Scrittori Dialettali.

Il primo elemento della sua poetica che si può mettere in evidenza è di ordine prospettico, e riguarda il modo gioiosamente positivo di guardare alla vita. L’esperienza quotidiana si presenta al poeta come una cornucopia di sensazioni bellissime, suggestioni indotte da figure umane, squarci di paesaggio, colori, profumi, suoni che non solo affascinano ma creano immediatamente una colleganza con il passato e la memoria, permettendo una proiezione atemporale che tesorizza il vissuto antico e lo riattualizza con fresca ed ammaliante immediatezza.

Se la spinta vocazionale verso l’espressione poetica in forma dialettale si avverte prepotentemente nei versi di Giuseppe Greco, altrettanto rilevante appare la concezione di oralità che distingue la genesi della sua poesia, facendone un fluire inventivo che nasce prevalentemente riecheggiando il “sentito dire”, tanto nei termini quanto nelle cadenze sentenzianti tipiche di un tempo, e che ormai spesso si rifugiano in motti e proverbi dialettali, che quasi hanno il gusto di una formula magica oppure di una citazione sacra. Questo aspetto di oralità concerne anche le modalità di fruizione di questa poesia, che non è precipuamente destinata ad essere letta quanto invece ascoltata, costituendo essa di fatto non solo un diario personale ma ancor più una sorta di copione, o meglio un canovaccio, che permette al poeta di riprodurre all’impronta i suoi momenti di ispirazione di fronte ad un pubblico che lo ascolta.

Si spiega in tal modo l’annotazione in calce ad ogni componimento non soltanto della data, ma anche dell’ora esatta di composizione (talvolta in ore notturne), quasi che le circostanze dell’atto creativo siano importanti non solo per il risultato artistico in maniera assoluta, ma per un bisogno ulteriore di circostanziare il componimento nel momento di riproporlo a chi ascolta. Non stupisce che l’autore si imponga di declamare le sue poesie senza leggerle, avendo ormai assimilato a tal punto i testi da poterli riattualizzare con controllato “mestiere”, e soprattutto con piena ed appagante libertà espressiva che lo rende estremamente efficace. Ecco perché il suo modo di “porgere il componimento” avviene sempre con un timbro di voce assai calibrato, che elude ogni accento di squillante assertività, optando invece per un effetto in sordina e lievemente nasalizzato, che può prolungare una sonorità intenzionalmente ovattata. Insomma l’intento del poeta è quello di porsi come declamatore di sé stesso secondo il modo degli antichi aedi, che con i loro versi sapevano farsi interpreti di un sentire comune, fino a rappresentare quasi la memoria storica della loro comunità di appartenenza, grazie alla loro particolare capacità di intendere ed esprimere esperienze, ricordi e sentimenti condivisi.

L’evidenza e la spontaneità delle immagini rivelano pertanto un senso di fine percettività da parte dell’autore, che tende ad esaltare gli aspetti potenzialmente visivi di questa poesia, rivolta come già detto a focalizzarsi sulla bellezza dello scenario naturale, elevandolo dalla quotidianità verso una dimensione di universale armonia. La qualità visiva dei singoli componimenti è ulteriormente messa in risalto mediante il loro accostamento a figure ed immagini che li affiancano o li includono a mo’ di cornice, come se le parole poetiche avessero bisogno di confluire ed integrarsi in segni diversi tracciati con pastelli colorati. In questo felice connubio si coglie la convergenza delle risorse espressive dell’autore, che è anche scenografo, e si muove con criteri di stretta corrispondenza tra forme diverse di espressione artistica che possono interagire operando sullo stesso motivo ispiratore.

E’ possibile notare che attualmente l’accostamento tra poesia e pittura non è infrequente in alcune operazioni di vernissage artistico, per le quali è stato anche coniato il termine ibrido “poesipittura”, anche se in verità i risultati appaiono spesso alquanto velleitari e ben lontani da una vera simbiosi. In realtà pochissimi artisti sono riusciti ad integrare le due forme espressive, rendendole simultanee e complementari. L’esempio più cospicuo di tale tentativo è forse rappresentato dal preromantico inglese William Blake (1758-1821), che, essendo pittore ed incisore oltre che poeta, riusciva anche visivamente a rendere con finezza ed efficacia i motivi poetici che lo ispiravano.

Le figure tematiche di Giuseppe Greco sono sempre strettamente connesse al vissuto quotidiano, di cui riproducono dettagli importanti sia di tipo realistico che allusivo o simbolico. Troviamo infatti forme con effetto di aquilone, scie di comete, gambi di infiorescenze, specchi che sdoppiano l’immagine, velature, archi e cornici, oppure grandi macchie di colore che vanno dal giallo oro al rosso intenso oppure al verde, e ancora piccoli squarci di cielo stellato oppure uno strascico di arcobaleno. Appunto un tripudio di colori che riveste il percepito di uno sfolgorio che ne esalta la smagliante e variopinta bellezza, quasi riconsegnando alla nostra percezione uno scenario che esiste da tempi immemorabili, e di cui non sempre le nostre distratte e frettolose facoltà senso-percettive riescono ad accorgersi.

Tutto ciò si innesta su un attento e paziente lavoro di indagine e centratura linguistica, che valorizza al massimo la capacità suggestiva e connotativa dei termini dialettali impiegati. Questi molto spesso diventano per l’ascoltatore un’occasione di riscoperta di quanto ha sentito e conosciuto in circostanze più o meno remote, ma che ora gli viene riproposto con effetti sonori ed implicazioni semantiche che danno il sapore pregnante dell’immediatezza, e sono assai distanti dalla fredda e convenzionale ufficialità della lingua italiana.

Sul piano letterario si può esemplificare l’efficacia espressiva di Giuseppe Greco, partendo da alcuni tratti coloristico-descrittivi che riescono di indubbia evidenza. Ecco che il sole “ncaddara te culori tutt’e cose1; il vento “scumpija i capiddhri e lu core2; le margherite “se pìttene l’occhi3; le foglie di fico “càtene bbabbate / quandu ‘ncora sta bàllane turmendu4; le nuvole bianche appaiono “nziddhrisciate te sule5; le onde del mare “a secuteddhri / zzùmpane all’aria ‘janche te cammace6. A volte accade anche che lo scenario reale lieviti verso l’allusione simbolica: la luna [l’anima che soggiace all’amore] “bbabba a ‘nnanti ‘u sule ca la dduma7; le nuvole nello spazio celeste “a ffiate ddisègnene àngili8; gli aquiloni [che adombrano i sogni] portano in giro “pansieri te cacchiame, te sbrèje e dde lumini9 ossia desideri irraggiungibili; le parole, quando tutto passa, “rrimanene ‘ncuddhrate a ‘nna cumeta10, cioè restano sospese ad un filo di speranza. Un altro tratto interessante è costituito dall’accentuazione dell’intensità concettuale mediante l’uso della metafora: l’amore che nasce improvviso è “nu scarcagnizzu ca te ceca l’occhi / ‘na crandanata mentru sta ddalluja11; il vecchietto che si sente accarezzato dalla compagna “tira cu nu se stuta‘a pippa12; la donna trasandata tra le mura domestiche “raccoje madreperle te pansieri13, ma solo per buttarle al vento. Anche la funzione ispiratrice della poesia viene resa attraverso il riferimento ad immagini di luce con effetti di folgorazione meteorica: “Tie Musa me ‘llucisci / lu ‘jaggiu ‘ntornisciatu te cumete14.

Per quanto concerne l’aspetto metrico-ritmico l’autore si affida disinvoltamente al suo estro, che lo svincola da qualunque schema precostituito. Va comunque segnalato l’effetto icastico che egli riesce ad ottenere attraverso la vigorosa modulazione del verso endecasillabo (a volte liberamente alternato a settenari oppure a versi ancora più brevi), che associa la pregnanza di significato ad una cadenza piuttosto lenta e solenne. Lo si può constatare anche semplicemente operando delle estrapolazioni, per dimostrare come, con la loro incisività sottolineata dalle sillabe toniche (solitamente la seconda, sesta e decima), esse siano in grado di condensare in modo netto e penetrante gli esiti prodotti da una situazione di trasporto contemplativo che emerge a coronamento della fase di ispirazione. Ne riportiamo qualcuna:

La lùce ca schiattùna te ogni bànda”15(pag. 26);

Lu còre se ‘mpalétta te sciurnàte”16(pag. 32);

Cu ll’òcchi ca rrapézzene memòrie”17(pag. 13);

Cumète nturtijàte te paròle /

pittàte cu la pènna e cu llu còre”18 (pag. 8).

Il verso del poeta diventa essenzialmente un inno di fede nella vita, che gli permette di motivarsi in un rinnovato slancio di estatica contemplazione delle meraviglie che i suoi viaggi di esperienza (ossia le tappe del suo itinerario poetico) sono costantemente in grado di presentargli, in modo che egli sappia coglierne il fascino e palesarlo a chi vuole prestargli ascolto. E’ questa la sollecitazione più intensa che rimane dal contatto con questa poesia, che, seppur consapevole di quanto le durezze e le asperità della vita (“la ‘nchianata”) quotidianamente impongano in termini di sopportazione e sacrificio, riesce a preservare e trasmettere una visione provvidenziale dell’esistenza, come si può constatare anche nei versi di chiusura della lirica “Salentu”:

“’Sta terra benatitta

ca ‘mbrazza cinca vene

e ‘mpuza a lla ‘nchianata

pe’ la clòrria te Cinca l’ha ‘nventata.

1 Traduzione: “riveste di colori tutte le cose”;

2 “scompiglia i capelli e il cuore”;

3 “si dipingono gli occhi”;

4 “cadono incantate mentre ancora ballano dormendo”;

5 “intrise di goccioline di sole”;

6 “inseguendosi saltano in aria bianche come bambagia”;

7 “si incanta davanti al sole che la accende”;

8 “a volte disegnano angeli”;

9 “pensieri di paglia, di foglie di granturco e di lumini”;

10 “rimangono incollate ad una cometa”;

11 “un refolo di vento che ti acceca gli occhi, una grandinata mentre sta diluviando”;

12 “tira per non far spegnere la pipa”;

13 “raccoglie madreperle di pensieri”;

14 “Tu Musa mi illumini il viaggio contornato di comete”;

15 “la luce che germoglia da ogni parte”;

16 “il cuore si riveste di giornate”;

17 “con gli occhi che rattoppano memorie”;

18 “aquiloni intrecciati di parole / dipinte con la penna e con il cuore”;

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

 

Tommaso Cavazza (1540-1611) alchimista di Galatina

La pietra filosofale quintessenza della chiave del sapere

INEDITI SU GIOVAN TOMMASO CAVAZZA (1540-1611) ALCHIMISTA DI GALATINA

Circolazione in area meridionale di scritti alchemici del ‘500

"L’Alchimista" di David Teniers il Giovane (1610-1690)
“L’Alchimista” di David Teniers il Giovane (1610-1690)

 

di Luigi Manni

Il beneventano Nicolò Franco, finito sulla forca dell’Inquisizione l’11 marzo 1570, durante il processo accusò Girolamo Santacroce, suo avversario, di aver conosciuto il “mago di Soleto”, l’astrologo Matteo Tafuri (1492-post 1584), in quel periodo processato per eresia e incarcerato nelle galere romane della Santa Inquisizione. Il Santacroce, su chi poteva aver notizia della scarsa religiosità del Tafuri, indicò, tra gli altri, “don Gio. Thomaso Caruso de Taranto”, poi, una seconda volta, come “Capato de Taranto”, che altri non è che il galatinese Giovan Tommaso Cavazza, “scholaro” appunto del Tafuri.

La certezza della patria tarantina ci viene da due inediti rogiti nei quali Joanne Tomasio Cavazzade civitete Tarenti era ad presens (1594) comorante (abitante) dicte terre Sancti Petri (Galatina). Giovan Tommaso ha due fratelli, Donato Antonio, sinora sconosciuto, e Mario, sposato nel 1560 con Giovanna, figlia naturale del duca Castriota Scanderbeg. La madre Joannella Galiota (Giovanna Galeota), nel 1595 risulta vidua relicta quondam magnifici domini Caroli Cavazza (vedova di Carlo Cavazza, padre del nostro). Dal testamento di Mario, sappiamo che i fratelli ereditarono tutti i suoi beni mobili, stabili, oro e argento.

Ora, oltre le date 1568 e 1570, da me individuate, che testimoniano la presenza a Galatina di Giovan Tommaso, disponiamo di un profilo del Cavazza, o Cabazio, curato nel 1679 dal domenicano galatinese Alessandro Tommaso Arcudi nella sua Galatina Letterata,da recepire, in qualche caso, con le dovute cautele, se non la si libera da tare e invenzioni.

Firenze, Palazzo vecchio, Francesco I nel suo studio di alchimia (Stradano, 1570)
Firenze, Palazzo vecchio, Francesco I nel suo studio di alchimia (Stradano, 1570)

Giovan Tommaso Cavazza, dottissimo nella lingua greca, ebrea e latina, non ebbe “eguali nella teologia, filosofia, matematica, cosmografia, astrologia, alchimia, retorica, poetica, come appare dalle tante opre, che scrisse in queste materia”. L’Arcudi lamentava la dispersione delle sue opere: “La maggior parte delle fatighe di questo ingegno grande l’ho andato io raccogliendo manuscritte, eziandio i medesimi originali, benché alcune con mio rammarico le ritrovai poscia consumate da vermi e dall’acqua, che distillava sopra per negligenza ed ignoranza de’ miei domestici”. Il domenicano afferma che il Cavazza aveva “non poca cognizione della magia naturale e fece prove mirabili di chimica, investigatore acuto de’ profondi secreti della natura”. Pensava di “mandar alla luce le sue dotte e degne fatighe, ma cedendo in quella deliberazione troppo tarda alla comune nemica, nel 1611 terminò settant’uno anno di vita”. Il poeta Silvio Arcudi invitò tutti quanti a leggere “del gran Cavazza i dotti fogli”.

Tra i tanti scritti Del Cavazza, ci è rimasta, in volgare, un’opera alchemica intitolata Della pietra filosofale, overo della quinta essenza, che oggi sappiamo conservata nella Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli. Il trattato, incompleto, inserito in un codice miscellaneo già noto agli studiosi, ci riporta direttamente agli ambienti dei neoplatonici salentini, raccolti intorno al “protosavio del mondo”, il “philosopho, matematico et medico” soletano Matteo Tafuri. Ed è proprio dal Tafuri che Giovan Tommaso, suo allievo, trasse la linfa vitale per gli esperimenti alchemici di trasmutazione, condensati appunto nel suo Della pietra filosofale, nel quale è citato ripetutamente un altro allievo di messer Matteo Tafuro, il matematico galatinese Giovan Paolo Vernaleone (1527-1602), la cui specifica fama come alchimista è ricordata nella Operatie elixirisphilosophici, un manoscritto polacco attribuito all’alchimista Michele Sendivogio, in cui è citato “un gran’uomo di Napoli”, tal Wernalcon, corruzione di Vernaleone, che avrebbe compiuto a Roma un tentativo mal riuscito di trasmutazione. Ma il Vernaleone fu attivo principalmente nella Napoli tardo-rinascimentale.

Come argomenta Massimo Marra, tutto il trattatello alchemico del Cavazza appare debitore degli scritti dell’alchimista friulano Giulio Camillo (1485-1544), soprattutto il De Transmutazione e l’Interpretazione dell’Arca del Patto. Il galatinese, attingendo come fonti Omero e Virgilio, “utilizza ripetutamente l’ermeneutica alchemica di miti classici”. Tutto ciò testimonia, da una parte, la circolazione in aree meridionali degli scritti camilliani e, dall’altra, come rovescio della stessa medaglia, la produzione e la circolazione di trattati meridionali come quello del Cavazza, che risulta una miscellanea di alchimisti di area meridionale. Viene ribaltata così la convinzione che in Italia l’alchimia fosse un fenomeno essenzialmente settentrionale.

Cavazza esordisce nella sua opera dissertando su un concetto base della dottrina ermetica, cioè sull’Anima del mondo, dalla quale uno spirito vitale, “prodotto come un suo lume, un fiato, uno spirito, un vehicolo di lei”, si congiunge con il “corpo mondano”. La sua speculazione filosofica conclude che da questo “generativo spirito di tutte le cose, et che da questo celeste spirito habbia origine l’essere, la vita et la generazione di tutte quelle (parti dell’Universo)”, per cui “gli elementi, le pietre, l’herbe, le piante e gli animali per quello (spirito) sono, vivono et si generano”. L’alchimista, nella solitudine e segretezza della sperimentazione, agendo “sotto certe costellazioni”, aveva il compito di portare al di fuori della materialità delle cose mondane, “le virtù di questo mondano spirito (…) in tutte le parti del mondo diffuso et nascosto”. Gli obiettivi erano nobili e alti, forse troppo alti: la ricerca della quintessenza della vita, della pietra filosofale, della trasmutazione di un elemento in un altro, della possibilità di trasformare la materia e lo spirito.

(E’ utile consultare: L. MANNI, La guglia, l’astrologo, la macàra, Galatina 2004, pp. 114-8; G. VALLONE, Restauri salentini, in “Bollettino Storico di Terra D’Otranto, 1 (1991), p. 158; A. T. ARCUDI, Galatina Letterata (a cura di G. L. DI MITRI e G. MANNA), Aradeo (Le) 1993, pp. 47-54; M. MARRA, Il discorso sopra il lapis philosophorum del signore Giovan Thomaso Cavazza, in Alchimia (a cura di A. DE PASCALIS e M. MARRA), “Quaderni di Airesis”, Milano 2007, pp. 213-54).

 

 

Lettere inedite tra Gioacchino Toma e Pietro Cavoti

 

di Luigi Galante

Rarissimo ritratto fotografico di GToma Foto LGalante
Rarissimo ritratto fotografico di G.Toma. Foto L.Galante
Pietro Cavoti
Pietro Cavoti

 

 

Nel convegno di studi tenutosi a Galatina da valentissimi Professori dell’Università del Salento, in chiusura del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, è stata rievocata la figura del patriota garibaldino e pittore galatinese Gioacchino Toma. Ad ogni relatore è stato concesso uno spazio per delineare la figura artistica del Nostro. Molto apprezzati sono stati gli interventi dei Professori, che hanno tracciato perfettamente chi la figura umana, chi ha descritto i dipinti, chi la sua vita napoletana, chi invece ha rievocato la triste e dolorante adolescenza, generata dai suoi stessi parenti, che è stata forse il periodo più tormentoso dell’orfano, e che lo ha spinto poi alla fuga da Galatina. Ma tutto questo è assai noto, perché descritto con precisa memoria nel suo unico libretto dei Ricordi di un orfano. Rammento che il Prof. Vallone durante il suo intervento, sollevò dei punti interrogativi. Perché vi è stato tanto silenzio del pittore sulla sua Galatina? Perché parla pochissimo del suo paese dopo la sua giovinezza? Perché dopo il suo involontario e profondo distacco da Galatina, non vi è traccia di un suo ritorno e tanto meno di una sua possibile corrispondenza con alcuni personaggi galatinesi? A queste domande posso oggi dare risposta. La curiosità di poter trovare qualche possibile traccia epistolare mi ha spinto a cercare null’unico luogo possibile: il Museo Cavoti di Galatina. Mi sembrava impossibile che due personaggi quasi del tutto coevi, entrambi artisti e concittadini non fossero in relazione. E poi Cavoti, amava Galatina in modo profondo, ne ha custodito con disegni ogni possibile memoria, come quelle fondamentali della casa Arcudi, perché non sperare in un suo legame anche al Toma? Nei primi giorni di gennaio, intento a consultare uno dei tanti raccoglitori, la mia attenzione fu attirata da un foglio con la quale Cavoti aveva annotato alcune famiglie importanti di Galatina, con relativa posizione sociale. In questo curioso appunto, figura anche il nome di “Gioacchino Toma – Belle Arti…Medico (il padre) – Onore”.

Studio in gesso del volto di G Toma custodito nel Museo  Cavoti - Galatina
Studio in gesso del volto di G. Toma custodito nel Museo Cavoti – Galatina

Quel piccolo ritrovamento accese in me la speranza, di poter trovare ancora dei documenti riconducibili al pittore. E ancora, un’altra annotazione cavotiana, riconduce sempre al pittore di Galatina “Gioacchino Toma mi scrive per ricevere la mia visita in casa sua a Napoli. Gli risposi il 14 settembre 1861”i. Di questa lettera non ho potuto trovare copia.

Museo Cavoti Nannina
Museo Cavoti Nannina
Museo Cavoti Schizzo a matita del palazzo Arcudi oggi demolito
Museo Cavoti Schizzo a matita del palazzo Arcudi oggi demolito

 

La mia convinzione che tra Cavoti e Toma ci fossero legami amichevoli, e forse anche degli incontri, era però confermata. Lo seppi ancor meglio quando in un taccuino rintracciai l’indirizzo di Gioacchino Toma a Napoli, che Cavoti aveva diligentemente annotato. “Prof. Toma Gioacchino, via della Valle 43 Napoli”.ii Da quell’istante la certezza era realtà. Ed ecco venir fuori un altro scritto di enorme interesse, perché ci racconta in pochissimi righi lo stato d’animo in cui era Gioacchino Toma nell’ottobre del 1864. Scrive Cavoti: << N.B.-Incontro. Incontrai Gioacchino Toma in Napoli il dì 18 ottobre 1864. Lo vidi assai magro e pieno di ansia, ma in ottima salute. Mi salutò piangendo e promisi di rivederlo. Lo supplicai (venire) a Firenze e poi a Galatina, ma mi rispose tosto >>iii. La conferma di quell’incontro tra i due artisti galatinesi mi portò a cercare con estrema attenzione tra le carte cavotiane, traendo da un altro taccuino lo schizzo a matita del ritratto di una giovane donna. In basso al disegno Cavoti annota <<Nannina. Mi si offrì volentieri a posare nello studio dell’amico Gioacchino Toma. Napoli 15 aprile 1863.>>iv . Una nuova conferma della loro amicizia e del loro contatto nella casa napoletana di Toma. La scoperta poi del bellissimo ritratto di Nannina eseguito dal Cavoti, fornisce con esatta precisione quel volto di donna che per molti anni aveva posato per il Toma, come confermato dallo stesso, nei Ricordi di un orfano.v Le scoperte più importanti sono arrivate nei giorni successivi. Dopo un’ accurata analisi di tutto il Fondo cavotiano, sono emerse tre lettere, dai contenuti di intensa amicizia. Una era indirizzata da Cavoti all’amico, e due del Toma a Cavoti. Il ritrovamento, fino ad oggi sconosciuto a tutti gli studiosi che si sono interessati scrupolosamente del Toma, danno luce al legame con “l’unico amico vero” rimastogli a Galatina. In una delle due intense lettere, scrive: << Ed è perciò che io piango e nell’interno sanguino sfortunatamente avermi allontanato da Galatina…..Perché turbi il cuore colla nostra Galatina? >> E ancora << Tu solo conosci il mio dolore, il mio lamento, la mia triste lontananza la mia Galatina… Mai ho dimenticato il natale a cui appartengo. >> Frasi forti, fortissime, che traboccano di immenso sentimento per Galatina che Toma non vedrà mai più. Questo segreto nascosto, ed oggi riemerso, lo dobbiamo sempre e solo al nostro Pietro Cavoti. Lascio ora ai lettori di questa rivista che spesso ospita miei saggi, il piacere di gustare le splendide ed inedite lettere tra due illustri che in passato fecero grande Galatina.

Lettera autografa di G Toma
Lettera autografa di G. Toma

 

lettera autografata di G. Toma
Museo Cavoti Ritratto di un giovanissimo Toma
Museo Cavoti Ritratto di un giovanissimo Toma
Lecce Festa e Busto al Pittore Gioacchino Toma Immagine estratta dalla rivista Illustrazione Popolare-1898
Lecce Festa e Busto al Pittore Gioacchino Toma Immagine estratta dalla rivista Illustrazione Popolare-1898
Napoli Monumento a G .Toma villa Comunale Opera di Francesco Ierace- 1922
Napoli Monumento a G .Toma villa Comunale Opera di Francesco Ierace- 1922

 

 

Lettera da Toma a Cavoti

 

viNapoli da casa 12 Gennaio 1862

Pietro Cavoti

Caro fratello mio

Di quanto sollievo, di quanta consolazione sia stata la tua amabilissima a me che vivo vita da te divisa, vorrei dirtelo con parole; ma temendo che io non possa appieno manifestare tutto quel che sento, lo lascio alla tua immaginazione. Ne’ tuoi caratteri ho veduto a chiare note scolpita la tua chiara affezione verso di me, ho ritrovato io la vera immaginazione del tuo cuore sempre tendente al bene, e mi son rallegrato moltissimo d’aver finalmente rinvenuto un caro amico che mi parlasse veramente da fratello. Oh! Pietro mio, quanto è difficile cosa ritrovar a dì nostri un’anima che a fronte aperta ti sollevasse di cuore. La vil turba dei gonzi che s’incalza e preme ha fieramente profanato il santo simulacro d’amicizia; ed è perciò che io piango e nell’interno sanguino sfortunatamente avermi allontanato da Galatina, ma fortunatamente trovato in tal epoca costà. Di qui è che se vedo un cuore il quale si confaccia alla mia tempra ardo di cuore per quello, lo desidero, lo bramo fortemente, e vorrei seco menare i miei giorni. Oh! Quanto dura mi è quindi la lontananza mio caro Pietro che mi divide in te, io avea già ritrovato il mio Duce, il mio amico, il mio tutto. Ma ciò è finito. Pazienza. Mi domando Pietro mio che fò? Perché mi turbi il cuore colla nostra Galatina? Il ritornare è morire. Meno i miei giorni con la mia tavolozza. Credi forse ch’io mi sia dimenticato de’ nostri amici? No, certo di no. Su di questo particolare parleremo a lungo di presenza. Amami come io ti amo e ricordati del

Tuo Affezionatissimo Amico e fratello

Gioacchino Toma

N.B. Gli amici napoletani Michele Simonetti, Gennaro Spasiano e Antonio Migliacci ti bramano ardentemente qui. Tutti ti salutano.

 

Napoli -1874

Mio caro Pietro

Ho ricevuto la tua ultima lettera del dì 11 novembre. Scrivente di questa mia è il caro amico Giuseppe Boschetto,viii non potendolo fare di proprio pugno perché affetto da forti dolori alle povere braccia e al costato. Pietro mio caro, tu mi fai il dono a quante volte mi torni alla mente i nostri discorsi ed i nostri lamenti soavi alla mia memoria. Tu solo conosci il mio dolore, il mio lamento, la mia triste lontananza la mia Galatina. Nelle tue letterine trabocca la mia mente al passato ai giorni giocondi di giovane fanciullo con gli amici oramai perduti. Quante fiate trafiggi la mia anima, non torturarmi ancora amico mio. Piango. Piango. Piango sempre la mia Patria. Mai ho dimenticato il natale a cui appartengo. Tu fratello mio provasti le mie stesse sofferenze, ma il debole destino ti ha riportato soave alle tue belle e dure faccende della Commissione Conservatrice di belle Arti. Le ore per me più care sono qui , quelle che io consacro allo incantesimo della mia tavolozza, dei miei colori, le mie tele adorate da me sempre, e tu che hai l’anima fatta ad amarle; e forse più che la mia , non crederai esagerato quanto ti dico? Tempo addietro in un momento di dolce ricordo menai in fretta sulla tela quello che i miei piccoli occhi videro la prima volta, la mia tanto amata casa e la bella Chiesa di Santa Caterina, ma non distò due giorni che l’animo mio era in triste subbuglio, e i ricordi diventarono inferno, e in un attimo di pazzia distrussi quello che era l’unico ricordo della mia Galatina. Oh! Caro Pietro, scrivimi, scrivimi sempre, fammi toccare le tue belle lettere che giungono da colà, ma non fare verbo con nessuno, te ne prego. Tu solo sai la nostalgia che meno. Non indebolire la mia forza. Basta, Basta, Napoli è la mia pace. Perdonami Pietruccio mio, ma sono lacerato da forti dolori. Non ti soggiungo altro. Amami molto chi ti ama assaissimo.

 

Ti abbraccio mille e mille volte e siati sempre caro

Il tuo costante Amico vero

Gioacchino Toma

ixGalatina li 15 Ottobre 1874

Gioacchino mio caro

Ebbi la tua aspettata e bella lettera il di 21 scorso. Mi dici nella tua che assai ti pesa la lontananza degli amici cari, ma che l’ami, non però. Oh quanto sei lodevole per ciò. Come dice il Pellico all’oggetto <<per esercitar bene la divina scienza della carità con tutti gli uomini, bisogna farne il tirocinio in famiglia >>. Siamo figli della stessa Patria caro Gioacchino. Qual dolcezza nell’aver trovato appena venuti al mondo gli stessi oggetti da venerare con predilezione. Ma passiamo ad altro. Leggo che sei tornato sulle tue care tele dopo lunga assenza, e di questo son contento. Non cader più allo sconforto degli anni passati, cancella dal tuo cuore i nostri ricordi che oggi ancor ti affliggono. Lavora le tele, guardati dall’egoismo; proponiti ogni giorno nelle tue fraterne relazioni desser generoso. Che debbo dirti di più? Io non vorrei finirla mai. Fratello mio, non lasciarmi privo di tue nuove ad ogni tanto che potrai. Scrivi un rigo e mettilo alla posta, che io l’avrò assai assai. Ossequia per me la tua famiglia. Che Dio benedica sempre noi nel suo amore. Accetta, o fratello un bacio di cuore, e ricorda che il tuo caro Pietro ti annovera tra i più cari al cuore. Da casa L’Amico tuo vero

 Pietro Cavoti.

————————————

i* Per la consultazione dei testi, delle immagini riprodotte in digitale e dei doc. cavotiani, ringrazio il Comune di Galatina e tutto il personale della Biblioteca P.Siciliani e del Museo Cavoti di Galatina. Le foto sono di Luigi Galante.

** Per la prima volta in assoluto, viene pubblicata l’unica fotografia poco nota di G. Toma. Vedi G. Calò, Gioacchino Toma pittore, Biblioteca P. Siciliani Galatina, – Firenze : G. C. Sansoni, 1923, coll. D II Cart. Q / 22.

*** Il disegno cavotiano del giovane Toma, fu da me individuato nel luglio 2008 e pubblicato in copertina al Bollettino Storico di Terra d’Otranto n. 15. Si noti, al centro in basso del ritratto, oltre alla firma autografa di Cavoti, lo scritto del nome di “G. Toma”

 Album 3380, teca mobile sala 3, foglio 81

ii Racc. 4023/4262, teca blindata1 sala 2, inv.4150

iii Racc. 4023/4262, teca blindata1 sala 2, inv.499, sala 3, teca blindata 2

iv Racc. 3411, teca mobile sala 3, foglio 22

v Vedi G. Toma, Ricordi di un orfano, a cura di Aldo Vallone, Congedo Ed., Galatina 1973, pp. 91,93. <<…posai gli occhi su di una graziosa ragazza vestita tutta di nero. Pensai di fare un grazioso quadretto con quella bella figurina, e fattole domandar s’ella volesse prestarmi a farmi da modella, avendo accondisceso, dipinsi con essa un’orfana.>>

vi Racc. 1858/2063, sala 3, teca blindata 2, inv.1926. Da una attenta indagine , è stato possibile individuare l’attività degli amici di Toma che salutano a chiusura di lettera P. Cavoti. Si tratta di Michele Simonetti – architetto, Gennaro Spasiano – Dott. Fisico, e Antonio Migliacci – pittore.

vii Racc. 34(?)2/34(?)3, sala 2, teca blindata 1. La lettera è custodita nei “Documenti proprietà Cavoti e Torricelli” identificata con il n° 13

viii G. Boschetto, pittore. Napoli 1841/1918. Fu ammesso giovinetto nello studio di G. Mancinelli; seguì gli studi artistici sotto la guida di D. Morelli.

ix Racc. 955/1500 teca blindata, sala3. La lettera risulta mancante di numero di inventario perché collocata dopo 2 pagine bianche dal n° di inv. 1217.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne

Racconti a Galatina. La quindicina

I RACCONTI DELLA VADEA

 

LA Q U I N D I C I N A

centro storico di Galatina
centro storico di Galatina

di Pippi Onesimo

Il sig. Cheròndula aveva appena chiuso il telefono e, visibilmente soddisfatto, abbandonava la scena, mentre una risata generale e un fragoroso battimani lo accompagnavano in segno di appagato compiacimento.

Lui, però, incurante, serio e impettito, quasi indifferente, schivo come un attore esperto, reduce da tante battaglie affrontate su immaginari palcoscenici incantati, imboccava via Orfanotrofio.

Questa stradina, breve e sottile comu nu vermecòculu (come un lombrico), annaspa a doppia ansa, schiacciata dall’imponenza del palazzo signorile dei “Vallone“ e dall’arroganza del palazzo Stasi, i quali con malcelata prepotenza sembrano toglierle il respiro.

Poi, dopo pochi passi, quasi schizzando via con un balzo liberatorio, si dissolve su Piazzetta Arcudi.

Qui, lu Pietruzzu, oltrepassata la putia de lu Scjancatu, si fermava un attimo per bere un sorso d’acqua da una antica fontanina pubblica, che non sempre riusciva, come nemmeno oggi, ad assolvere il suo istituzionale compito… dissetante, per l’incivile offesa de li cuastasi (ragazzacci di strada) e per la scarsa manutenzione pubblica.

Subito dopo, in tutta fretta, si incamminava su via Vignola per scendere giù, verso Chiazza Vecchia (Piazza Vecchia).

E, mentre incedeva con passo svelto e sostenuto, sembrava avere l’aria austera e solenne di un personaggio greco, accidentalmente scivolato giù da una tragedia di Sofocle.

Forse è successo per la disattenzione di una antica Antologia di classici greci, che da sempre aveva custodito le sue opere gelosamente.

Ma non questa volta, perché era stata lasciata per un attimo negligentemente aperta sulla panchina cosparsa di foglie, in un giardino silenzioso e assolato.

E certamente quella imprudenza ha esposto involontariamente una di queste opere alla curiosità del vento.

Questo, soffiando per gioco o per dispetto, in un andirivieni divertito e illogicamente confuso e irreale di mulinelli, ha sfogliato il libro, sollevando a tratti la copertina e rigonfiandole irriverentemente la custodia di carta oleata che la proteggeva.

Poi la ribaltava e la richiudeva con ritmi imprevedibilmente capricciosi .

Così il vento si divertiva, trascorrendo il suo tempo, mentre il sole filtrava, attraverso le foglie di un antico salice, con sottili, tremuli coni di luce polverosa obliquamente infissi nel soffice prato delle aiuole sottostanti.

Di tanto in tanto, con soffi improvvisi e intermittenti, smuoveva le foglie giallo oro appena cadute e frusciava fra le pagine ingiallite del libro, mentre scorreva le sue righe con indiscreta ma delicata circospezione .

E ciò, fino a quando il sole non si adagiava, sbadigliando stanco e scapigliato, dietro un muro di cinta, dopo aver abbozzato col suo faccione largo e rubicondo un fugace sorriso, quando era ancora seminascosto dietro l’antico, imponente, irsuto campanile del paese.

Salutava anche, con cortese e gentile discrezione, le ultime rondini, che garrivano, roteando con ampie, fantasiose, veloci evoluzioni, o con placidi, piccoli cerchi asimmetrici, che sembravano sfiorare, planando, i rossicci tetti ad embrice di vecchie case, che, timorose e spaventate, si stringevano attorno, come arroccate e raccolte in un antico e assonnato presepe.

Forse questi eccellenti, infaticabili, puntuali migratori inseguivano, come sempre, i loro sogni, capricciosamente fluttuando nel cielo azzurro appena, appena cangiante nel grigio, per l’avanzare del tramonto, che lentamente cominciava a velare la campagna circostante.

Intanto, come ad un segnale convenuto, si davano appuntamento, radunandosi a ranghi compatti sui fili d’alta tensione e formando, da palo a palo, una lunga catena, a più strati, di puntini neri strettamente collegati come in una immensa collana.

centro storico di Galatina
centro storico di Galatina

Era già settembre e le rondini si preparavano a levarsi in volo per far ritorno a casa; prima, però, garrivano per qualche istante, quasi volessero scrivere nel cielo un cordiale ringraziamento per l’ospitalità ricevuta ed un rumoroso, vivace arrivederci alla prossima primavera.

Subito dopo, finalmente, avevano via libera le ombre della sera, che, sempre irriverentemente pettegole e sospettosamente curiose, invadevano in tutta fretta la scena, accasandosi senza perdere un attimo di tempo, perché visibilmente affaticate dopo tanto girovagare.

E mentre il vento si acquietava, tutt’intorno rimaneva solo il rumore impercettibile, rispettoso e solenne, ma delicatamente discreto, del silenzio della notte .

A qualcuno che gli chiedeva perché aveva tanta fretta di raggiungere Chiazza Vecchia, il sig. Cheròndula rispondeva sorpreso e meravigliato: “comu ? … ‘nu ‘lu sai, ca oscje cade lu jurnu de la quindicina de la Rusetta ? ”(Come ?… non lo sai che oggi arrivano da Rusetta le nuove signorine, per il cambio quindicinale?).

Poi, con un sorriso ammiccante e malizioso, appena abbozzato, continuò a scendere per via Vignola.

Chicco non fece caso, più di tanto, a quel discorso, anche perché non ne afferrava il senso.

Solo qualche anno più tardi, amici più anziani, più esperti e più navigati gli spiegarono il significato di quel rituale.

Gli riferivano che il cambio arrivava preciso, regolare e puntuale, come i trionfali, imbandierati e vanitosi treni del Ventennio, ogni quindici giorni e si svolgeva fra i complimenti e gli ammiccamenti a volte gentili, a volte volgari, ma… sicuramente interessati dei passanti, qualcuno dei quali potenziale, se non sicuro, cliente.

Le Signorine, alcune in gruppo, altre in fila, comunque in ordine sparso, vistosamente imbellettate e incipriate spargevano dietro di loro una ubriacante, avviluppante e sbarazzina carrara (scia) di profumo e di curiosità.

Si radunavano in Piazza San Pietro, fra il portone d’ingresso del Castello e il bar Sammartino, dove erano giunte con automobili di servizio, messe a disposizione dall’Organizzazione.

Camminavano a piedi con studiato, lento e cadenzato portamento, ancheggiando sulle chianche con impercettibili movimenti ondulatori del bacino, elegantemente accentuati con capricciosa e ricercata movenza .

Ottenevano questo effetto morbido e vellutato, quasi provocatoriamente signorile, con ricercata e ostentata vanità, ma senza scadere mai nella volgarità o nella sguaiata e grossolana sciattezza .

Le gambe erano la loro arma migliore, la loro punta di diamante, il loro manifesto pubblicitario, specie se avvolte in calze a rete sottili e quasi invisibili, …se non fosse per una cucitura nera che verticalmente attraversava il polpaccio ben modellato, esaltandone le fattezze.

Ma l’effetto scenografico diventava speciale, quando incedevano con alti e pericolosi tacchi a spillo, che solo la loro navigata e sperimentata esperienza riusciva a tenere sempre perfettamente diritti, senza mai deragliare di un millimetro.

Vestivano vistosi, policromi e attillati tailleurs parzialmente sbottonati con sbarazzina, contenuta civetteria.

Evidenziavano così candide camicette con i colletti arricciati, come se fossero festose ghirlande di fiori posate sui loro colli diafani e vellutati.

Queste erano poco trasparenti, se non quel tanto per renderle maliziosamente appariscenti.

Le scollature erano sapientemente controllate, appena, appena ammiccanti, ma mai volgari, offensive, o irriverenti.

La pubblicità era anche allora, come oggi e come sempre, l’anima del commercio.

E quella vera, che alimenta la concorrenza, se condotta con lealtà, trasparenza e rispetto delle regole, è la sola capace di esaltare il confronto e la libertà di scelta.


Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Il pane dell’abbondanza

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di Giuseppe Virgilio

Fino a quando la società galatinese ha conservato il carattere della ruralità, è stato uso corrente fare il pane casareccio nel forno rionale, una costruzione a volta con un’apertura (la bocca) verso l’esterno. Il pane casareccio ha comportato l’impiego di tutte le componenti del frumento e non della sola farina. A Galatina hanno una tradizione il forno de la Nunna Cia presso l’arco della Porta Luce, il forno de lu Cuncertu alla via Ottavio Scalfo, e quello de lu Turinu rretu lu Parma presso la stazione.

La fornaia ha fatto anche da bracina, per usare un termine toscano, cioè ha venduto per pochi soldi al vicinato la brace e la cenere per l’imbiancatura dei panni col ranno, il cosiddetto bucato, che si è fatto versando l’acqua bollente sulla cenere. Per la famiglia contadina galatinese il giorno del pane è stato un momento tolto alla monotonia e all’oppressione del quotidiano. Esso ha fatto saltare il continuum della storia in quanto tempo comunitario. Nei locali del forno, in un’economia povera di scambi, si è celebrato l’incontro di molte famiglie contadine, che si sono date reciproco aiuto nell’impastatura e nella confezione del pane. Appena il pane è sfornato, ancora odoroso e fumante, un ragazzo, per commissione del capo famiglia o della moglie di questi, ne distribuisce a prova uno o due pezzi tra i parenti e nelle famiglie del vicinato, in proporzione di quanto a suo tempo gli attuali donatori hanno ricevuto. È come il compimento di un rito, un modo di rispettare il diritto di ciascuna famiglia e le leggi stabilite dal mos maiorum, ed anche un momento in cui si afferma la solidarietà comunitaria della classe subalterna. Nella società arcaica rurale, in forza del principio della ripartizione comunitaria, questo fenomeno culturale, dall’importante funzione simbolica socializzante, acquista il significato antropologico di equa distribuzione del pane casareccio tra i parenti e le famiglie del vicinato, così come presso le società primitive si distribuiva equamente il prodotto della raccolta fra tutti i membri della comunità, come garanzia contro il rischio di carestie collettive derivanti o da scarsa raccolta di cibo o da altre circostanze avverse.

Il significato socializzante del pane si configura perciò come una difesa culturale di fronte al rischio della miseria, sicché mantenere e rafforzare i legami sociali è diventato in questo caso compito di primaria importanza. Da ciò deriva che al consumo del pane si connette una sua funzione rituale. Si ricordi il divieto di buttare via persino una briciola, l’obbligo di mangiare anche il pane col verde della muffa, quand’è stato vicino a corrompersi. Ed è ancora empietà lasciare sul desco il pane capovolto.

Ricordiamo poi l’opposizione tra il mestruo e la manipolazione del cibo, per cui nella cultura contadina la donna, durante la mestruazione, è tabuizzata, cioè è sottoposta all’interdetto magico-religioso di compiere alcune azioni, ed in particolare di manipolare il cibo, poiché, cucinando in quello stato, poteva anche avvelenare il marito. Il pane viene quindi confezionato in uno stato di assoluta “purezza”, che nobilita ancor più dal punto di vista simbolico il gesto del dono.

Per il rito della cena, durante la settimana di Pasqua, viene distribuito il pane azzimo, cioè impastato senza lievito. Il contadino di Galatina lo tiene in serbo e lo utilizza soltanto in occasione di violenti temporali, allorché ne getta un pezzo nella bufera recitando la preghiera corale:

Àzzate San Giuvanni e nun durmire

ca visciù ttre nuveie caminare:

una de acqua, una de vientu,

una de tristu maletiempu.

Nella sfera cristiana è stata traslata una forma pagana di vita religiosa, allorché gli dei sono stati sottoposti all’ordine del cosmo, ed i rituali hanno stabilito un legame di reciprocità fra la divinità e gli uomini. E così la tempesta si placa perché l’uomo ha spartito con gli dei o col santo il pane che protegge e scampa da ogni pericolo, e da questo reciproco rispetto è derivata anche l’aspettativa dell’abbondanza, più che dal lavoro e dallo sforzo individuale e collettivo.

Durante il fascismo a Galatina, essendo accentuato il contrasto tra il ceto contadino e la classe dominante, il dono del pane assume il significato profondo della coesione del ceto subalterno contro due classi sociali: quella dei signori e quella dei mercanti. I primi sono gli appartenenti al ceto agrario, ed hanno costruito la loro egemonia attraverso la scuola, la religione, la pubblica amministrazione ecc.. I signori possono anche essere di origine contadina, purché abbiano perduto la loro originaria forma di moralità e sappiano adeguarsi allo stile di vita della classe egemone. I secondi, i mercanti, noi li ricordiamo durante il fascismo, il giovedì, durante una tappa dei loro traffici. Hanno esposto la mercanzia davanti alla chiesa dell’Immacolata. Hanno avuto volta a volta i modi del signore e quelli del villico, ma ai contadini hanno dato sempre l’impressione di essere venuti a rastrellare sistematicamente le risorse locali. Si fa riferimento al commerciante di cereali e di legumi, di carni e di altri prodotti dell’allevamento. Il commerciante locale di derrate alimentari e di altre merci non prodotte in loco, il bottegaio, è già una figura diversa, benché simile, ma più domestica, più su misura locale, più controllabile e prevedibile. Certamente quella del bottegaio è stata una categoria più vicina ai signori ed ai mercanti che al contadino, il quale non ha mai compreso né ammesso che il denaro, comunque anticipato ed investito, possa riprodursi su se stesso con l’usura. La stessa compravendita è sempre apparsa al contadino un’imposizione simile a quella dei prelievi baronali, signorili, fiscali e decimali.

(tratto dal libro “Memorie di Galatina…)

Eccellentissimo pittore senese del Trecento: Andrea Vanni

Eccellentissimo pittore senese del Trecento

ANDREA VANNI

L’artista toscano ebbe continui rapporti di lavoro con il conte di Soleto Raimondo Del Balzo

 

di Angela Beccarisi

 

Galatina possiede un tesoro inestimabile di storia, cultura e pittura. Parliamo ovviamente della chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, eretta nel 1385 da Raimondo Orsini del Balzo, principe di Taranto e marito di Maria d’Enghien Brienne.

Tanto è stato scritto su questa figura di grande condottiero ed abile politico vissuto tra XIV e XV secolo, ma solo negli ultimi anni le ricerche hanno raggiunto importanti risultati, tra cui, non ultimo, quello di fare finalmente chiarezza sulla famiglia di Raimondo Orsini del Balzo ( che per facilità di comprensione in questo testo chiameremo Raimondello) e sui suoi effettivi genitori, vale a dire Niccolò Orsini, conte di Nola, e Giovanna de Sabran (e non Maria del Balzo, come ha sempre erroneamente riportato per secoli una tradizione).

Eppure Raimondello unì alla casata Orsini anche quella del Balzo, proponendo uno stemma composto dai due rami.

Per comprendere questo passaggio bisogna leggere nell’albero genealogico degli Orsini di Nola. Niccolò Orsini, infatti, era figlio di Roberto e Sveva del Balzo, sorella di Raimondo del Balzo, I conte di Soleto (1351). Raimondo del Balzo era prozio di Raimondello, come riportato nella sottostante tabella.

Ugo del Balzo – 1266 Signore di Soleto e capostipite

Raimondo del Balzo

(1351, conte di Soleto)

sposa

Isabella d’Eppe

Sveva del Balzo

sposa

Roberto Orsini

(conte di Nola)

Niccolò Orsini

(conte di Nola e 1375 Soleto)

sposa

Giovanna de Sabran

Beatrice del Balzo

sposa in seconde nozze Francesco della Ratta

(conte di Caserta)

Raimondello Orsini

(poi del Balzo)

(conte di Soleto e principe di Taranto)

sposa

Maria d’Enghien Brienne

(contessa di Lecce)

In questa sede sottolineeremo il ruolo e la figura di Raimondo del Balzo che viene ricordato nella chiesa di santa Caterina d’Alessandria nel bell’epitaffio affrescato nell’ambulacro destro. Epitaffio che era presente e ancora visibile nel XVIII secolo nella chiesa francescana di Santa Chiara a Napoli, cappella reale degli Angiò, fatta erigere da re Roberto e dalla regina Sancia de Mallorca nel 1310 e affrescata da Giotto dal 1328 al 1333. Nella chiesa napoletana sono ancora conservati i sarcofagi di Raimondo del Balzo e della moglie Isabella d’Eppe, perduti sono i dipinti giotteschi. Tutti elementi che ci fanno comprendere lo spessore di Raimondo del Balzo, gran camerlengo del Regno di Napoli, ma soprattutto conte di Soleto come viene ricordato nell’epitaffio: Soletique comes.

Raimondo non fu solo un abilissimo soldato a capo delle truppe reali, ma si fece anche promotore della costruzione di una chiesa a Casaluce, vicino Aversa, intitolata a Santa Maria ad Nives anche nota come chiesa dei SS. Filippo e Giacomo. Una chiesa sorta per conservare le idrie che furono utilizzate da Gesù nelle nozze di Cana, come riporta una leggenda del luogo.

Una chiesa che venne definita splendida per gli affreschi che Raimondo fece realizzare da diverse maestranze di altissimo livello e dove di recente lo storico dell’arte Riccardo Prencipe ha rinvenuto un’iscrizione medievale in cui è presente il manifesto ideologico di Raimondo e sua moglie Isabella, l’origine del nome del Balzo e la volontà di erigere “templi come dono ai poveri”, poiché i due coniugi erano rimasti privi di quattro figli, morti tutti in giovanissima età.

Per la chiesa di Casaluce, Raimondo del Balzo nel 1365 circa commissionò un polittico andato smembrato nel corso dei secoli, firmato da Andrea Vanni pittore ( Siena 1333-1414).

Andrea Vanni (era di Siena) fu un personaggio politico di primo piano, ma anche eccellentissimo pittore di quei tempi che, secondo i documenti, soggiornò a Napoli, presso la corte reale di Giovanna I negli anni Sessanta e, successivamente, negli anni Ottanta del Trecento. Alcune fonti ci tramandano che a Napoli realizzò diverse opere. Oggi di certa attribuzione è solo il polittico smembrato di Casaluce, voluto da Raimondo del Balzo.

Ma Andrea Vanni fu anche pittore di fiducia di Urbano VI (il pontefice che Raimondello liberò dall’assedio di Nocera), il quale emanò una bolla nel 1385 con cui autorizzava Raimondello ad avviare i lavori di costruzione della chiesa sub vocabulo Sanctae Catherinae a Galatina. Lo stesso anno in cui Urbano VI veniva liberato da Raimondello ed emanava la suddetta bolla in suo favore, Andrea Vanni era presso di lui, come si evince dal carteggio che l’artista intrattiene da Nocera con il comune di Siena, pubblicato per la prima volta nel 1839. Un carteggio che riguarda gli anni 1383 e 1385 in cui risulta evidente il rapporto di fiducia e di lavoro tra Urbano VI è Andrea Vanni e la presenza del conte di Nola Niccolò Orsini.

Per questo motivo ho avanzato una diversa lettura degli episodi galatinesi relativi al grande complesso di Santa Caterina d’Alessandria.

La presenza di una piccola chiesa intitolata a Santa Caterina, precedente all’attuale complesso, individuata nelle visite pastorali come Santa Caterina de Veterjis, molto probabilmente era stata realizzata da Raimondo del Balzo per i motivi evidenziati prima e trasformata nel grande edificio orsiniano dal pronipote Raimondello.

Al grande complesso cateriniano di Raimondello ho ipotizzato che l’opera di Andrea Vanni non fosse estranea, essendo il pittore di riferimento del prozio e del pontefice a cui la famiglia Orsini aveva garantito il proprio aiuto. Maestranze che orbitarono attorno al pittore senese potrebbero aver lavorato a Santa Caterina a Galatina e non escludo un viaggio di Andrea Vanni nella contea di Soleto.

Naturalmente sono ipotesi di lettura storico-artistica degli avvenimenti galatinesi, alla luce delle vicende nel Regno di Napoli e dei tanti protagonisti di quel periodo e mi auguro che vi siano in futuro più elementi a suffragio di questa ipotesi.

Bibliografia

Beccarisi A., Nel segno della stella a sedici punte. Vicende della famiglia dl Balzo nella terra di san Pietro in Galatina, Galatina, 2012.

Cassiano A., Vetere B., Dal Giglio all’Orso. I Principi d’Angiò e Orsini del Balzo nel Salento, Galatina, 2006.

Strinati T., Casaluce, un ciclo trecentesco in terra angioina, Milano, 2007.

Pubblicato su Il Filo di Aracne

Il pittore ruffanese Saverio Lillo (1734-1796) a Galatina

di Giovanni Vincenti

Non è stato ancora raggiunto il momento di sintesi storica relativa alla intensa attività artistica del pittore ruffanese Francesco Saverio Lillo1, fissabile tra il 1765 che è la data delle sue prime opere documentate2 ed il 1796 anno della sua morte, né altresì delineato con compiutezza il suo ruolo nell’ambito della pittura sacra salentina della seconda metà del Settecento.

Considerato «un artista sostanzialmente modesto e incapace di cogliere le novità dei modelli cui si rifece, e di adeguarsi al loro livello qualitativo, fornendone una traduzione del tutto lontana dalla loro modernità»3, il Lillo fu comunque, uno degli ultimi esponenti di quella scuola salentina, l’unica vera scuola pugliese, promotrice della diffusione delle tendenze artistiche napoletane che, proprio nel corso dell’ultimo scorcio del ‘700, con la loro ampia e progressiva capacità unificante eliminarono ogni senso al significato distintivo tra «centro» e «periferia».

Nella sua breve, ma intensa permanenza napoletana – è documentato un suo soggiorno a Napoli dal dicembre 1763 al febbraio 1764 – rimase affascinato dalla pittura di Francesco Solimena (1657-1747) alla quale sembra aver guardato in momenti diversi della sua attività, per alcune versioni di suoi dipinti sino a proporre finanche copie, mentre in loco tenne a modello i lavori di Liborio Riccio (1720-1775) da Muro e dei leccesi Serafino Elmo (1696-1777), forse suo maestro di bottega, e Oronzo Tiso (1720-1800), dai quali desunse il gusto tutto metropolitano delle «larghe composizioni»4.

 

La sua modesta produzione bene si prestava comunque, ad accontentare le esigenze di una committenza, sia laica che religiosa, la quale richiedeva opere che, a più basso costo, potessero riecheggiare in periferia i modelli dei più celebri pittori napoletani.

Fig. 1. Galatina. Chiesa S. Maria delle Grazie. S
Galatina. Chiesa S. Maria delle Grazie

 

Di Saverio Lillo, a Galatina, sono documentate due opere. La prima, una Annunciazione (fig. 1) collocata sull’omonimo altare nella chiesa dei domenicani, datata e firmata XAVERIUS LILLO P. 1793. La tela raffigura la Vergine sull’inginocchiatoio, a corpo chino e con le mani al petto in segno di devozione, nell’attimo in cui l’arcangelo Gabriele le annuncia il concepimento verginale e la futura nascita di Gesù, e lei figurativamente risponde “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1, 38). L’arcangelo, adagiato su una nuvola, porge alla Vergine un giglio, simbolo della purezza e con l’altra mano indica una colomba rappresentante lo Spirito Santo, mentre fa vivace corteo un dorato stuolo dei putti angelici che volteggia nel cielo. Lo schema compositivo, il cui tema è ripreso nell’ovale presente nella collegiata di Maglie5, rinvia, senza mai raggiungerne però il livello qualitativo, al modello solimenesco realizzato nella chiesa di Donnalbina a Napoli.

Fig 2
Fig.2

La seconda, un S. Paolo (fig. 2) nell’altare nella chiesa omonima datato e firmato: FRANC. XAV.US LILLO P. 1795, «qui il santo è rappresentato monumentalmente a tutt’altezza, avvolto da un mantello rosso che superiormente scopre la veste verde. Stringe la spada e con la destra indica un putto che innalza un volume aperto sulle cui pagine è scritto: UNICUIQUE/AUTEM NOS/TRUM DATA/EST GRATIA/SECUNDUM/MENSURAM/DONATIONIS/CHRISTI; sulla pagina di fronte: AD EPHES. /CAP. IV./VERS. 7. ROM. XII. 3./I COR. XII. 11./II COR. X. 13. Alle spalle del santo è raffigurato l’episodio di Malta; c’è la nave a vele spiegate in alto mare e poi l’arrivo sulla costa dove si verifica l’episodio miracoloso della vipera raccontato in Atti: 28, 2-6. Sul lato opposto della marina è raffigurata una città con un profilo montuoso: dovrebbe essere Malta, ma è chiaramente un paesaggio di fantasia, tipico comunque della produzione del pittore. […] Alla destra del santo un gruppo di tre persone inscena un dramma racchiuso tutto nella figura dell’uomo languente, col volto cadaverico, sostenuto da una donna che implora il santo mentre l’altra offre all’ammalato un sorso d’acqua – quella del pozzo – da un contenitore metallico per alleviargli la pena. Ai piedi del santo, messi quasi in riga ai suoi ordini ci sono le cause di quel dramma: la tarantola, lo scorpione, il serpente»6. Qui la raffigurazione assume significati ben più pregnanti di quella che lo stesso Lillo realizzò, ossia l’Avvento di S. Paolo, nella chiesa domenicana di Tricase, il 17697, poiché riassume tutta la tradizione galatina in cui, giammai la musica, ha facoltà risolutrice, la gratia di guarir, dal morso velenoso, bensì l’acqua miracolosa del pozzo sito nelle case dette di S. Paolo8.

Fig 3
Fig, 3

A queste opere mi pare ora si possa aggiungere, in questa sede, un dipinto inedito che va ad arricchire il corpus delle opere del Lillo. Trattasi di una tela raffigurante il Trionfo della Fede sull’Eresia (fig. 3), non datata, ma firmata LILLO P., collocata nella cappella dell’Immacolata nella chiesa matrice di Galatina, ma proveniente dalla chiesa dei cappuccini. E’ questo un documento significativo del costante rapporto che il pittore tenne con i modelli solimeneschi napoletani e qui infatti, è evidente il ricorso del Lillo all’affresco del Trionfo della fede sull’eresia ad opera dei domenicani (1701-1707) realizzato sulla volta della sacrestia della chiesa di S. Domenico Maggiore a Napoli. La raffigurazione allegorica della Fede rievoca il modello realizzato dal Lillo, tra il 1765 ed il 1767, nella Una Fides nell’estradosso della cappella di S. Antonio da Padova della parrocchiale di Ruffano, mentre il corpo dell’eretico sconfitto ha sembianze simili a quelle dei corpi ignudi della tela Eliodoro che ruba i tesori del Tempio, del 1765, nel presbiterio sempre nella parrocchiale di Ruffano.

Fig 4
Fig.4


 

Ma al Lillo attribuirei anche altri due inediti dipinti, presenti a Galatina, che rivelano appieno le caratteristiche tipiche del suo stile. Il primo La fuga in Egitto (fig. 4) che, collocato nella chiesa dell’Addolorata, è opera di notevole qualità realizzata dopo il 1780 quando i confratelli del sodalizio dei Sette Dolori ebbero «l’accortezza di farvi lavorare sei medaglioni di figura ovale […]. Nei loro vuoti adunque vi si collocarono quelle sei tele dipinte di ugual grandezza e figura che tutt’ora si osservano. Queste rappresentano vari episodi della vita di Gesù Cristo. Eccoli: la sua Circoncisione, la Fuga in Egitto, la Disputa coi dottori nel tempio, la Gita al Calvario, la Crocefissione e la sua Sepoltura. Sarebbe stato desiderabile che un altro pennello più diligente e finito si fosse adoperato per queste»9. Tra questi lavori, che costituiscono la Via Matris, solo ne La fuga in Egitto si rileva ben altra mano e altro pennello, tanto da poterla accostare alla ottagona tela de La Natività di Maria Vergine che il Lillo realizzò, prima del 1770, sulla volta del transetto nella parrocchiale di Ruffano.

Fig 5
Fig 5

Il secondo, La sacra famiglia con S. Giovannino, S. Anna e S. Gioacchino (fig. 5),  conservato presso il museo civico “P. Cavoti”, è una composizione di buona qualità per la realizzazione della quale il Lillo si ispirò, ancora una volta, alla omonima tela solimenesca. Al centro della scena, come si ricava dalla descrizione tratta dall’Inventario museale (n. 145), «la Vergine vestita di rosso con manto azzurro che regge il Bambino proteso verso S. Anna ammantata e col capo coperto. Sulla destra, appoggiato ad una roccia, S. Giuseppe che guarda il Bambino, mentre porta la mano destra in alto indicando in lontananza, è vestito di azzurro con manto bruno, ha la verga fiorita poggiata sulla spalla sinistra. S. Giovannino inginocchiato tende la destra verso il Bambinello e regge con la sinistra un’asta con un cartiglio dietro di lui: Ecce Agnus Dei. Sulla sinistra S. Gioacchino vestito di bruno con manto rosso, con le mani giunte sul petto, rivolge lo sguardo verso il Bambino».

 

 

NOTE

1 Su di lui cfr. A. DE BERNART, Saverio Lillo pittore ruffanese del Settecento, in A. DE BERNART – M. CAZZATO, Ruffano una chiesa un centro storico, Galatina 1989, pp. 45-48; A. DE BERNART, Saverio Lillo pittore ruffanese nel bicentenario della morte (1796-1996), in “Bollettino Storico di Terra d’Otranto”, 1996, 6, pp. 81-86.

2 Cfr. M. CAZZATO, Barocco in provincia: la ricostruzione (1706-1712) della parrocchiale di Ruffano. Note e documenti, in A. DE BERNART – M. CAZZATO, Ruffano etc., cit., Documento V, pp. 175-177.

3 Pittura in Terra d’Otranto (secc. XVI-XIX), a c. di L. Galante, Galatina 1993, p. 10.

4 Cfr. C. DE GIORGI, La provincia di Lecce. Bozzetti di viaggio, Lecce 1882, I, p. 157.

5 Cfr. E. PANARESE – M. CAZZATO, Guida di Maglie. Storia, Arte, Centro Antico, Galatina 2002, p. 120, fig. 262.

6 Questa descrizione è tratta da M. CAZZATO, Da S. Pietro a S. Paolo. La cappella delle “tarantate” a Galatina, Galatina 2007, pp. 64-67.

7 Cfr. S. CASSATI, La chiesa di S. Domenico in Tricase, Galatina 1977, tav. XLVII.

8 Per questo ed altro, cfr. M. CAZZATO, Da S. Pietro a S. Paolo. La cappella delle “tarantate” etc., cit., pp. 41-72;  AA. VV., Sulle tracce di S. Paolo. Verità storiche e invenzioni tarantologiche, Galatina 2001; A. VALLONE, Le donne guaritrici nella terra del rimorso. Dal ballo risanatore allo sputo medicinale, Galatina 2004.

9 Cfr. G. VINCENTI, Galatina tra storia dell’arte e storia delle cose, Galatina 2009, p. 165.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

Cognomi e soprannomi salentini di origine greca

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di Piero Vinsper

 

Parlare dell’origine dei cognomi è compito quanto mai arduo e difficile, e comporterebbe un discorso lungo. Molti studiosi hanno affrontato questo problema con zelo, ottenendo degli ottimi risultanti. Dirò solo, e in maniera semplice, che i cognomi derivano da nomi patronimici, matronimici, da qualità e difetti fisici, da animali domestici e selvatici, da insetti, dal nome di giorni e mesi, da numeri, da soprannomi, da sostantivi del sostrato greco, da luoghi, da città e nazioni, da arnesi dell’uso quotidiano, da mestieri e professioni, ecc. Aggiungo anzi che gli studiosi hanno stilato una certa statistica, e non sono le statistiche di stile berlusconiano: quelle sappiamo che vanno sempre nello stesso senso, attratte dall’ago di una politica scialba, vuota, patetica, inconcludente, meschina, retrograda, dannosa e per decoro personale mi fermo qui, basata, beato lui!, su quel vecchio adagio galatinese: “Articulu quintu, ci tene a mmano have vintu!”, strafottendosi delle istituzioni, della nazione e del popolo. Però vorrei ricordare a lui, e lo scrivo con la lettera minuscola, un altro dittèriu nostro: “nu’ bulare throppu ertu mo’ c’hai l’ale, ca sempre si’ suggettu a llu cadire!”.

Dicevo che gli studiosi sono giunti a questa conclusione: i cognomi derivano soprattutto da tre fonti: onomastica, toponomastica, soprannomi. Una piccola percentuale spetta a cognomi di derivazione straniera, un’altra, sparuta, costituisce un nome augurale, che la carità cristiana ha riservato ai trovatelli. Poi il Concilio di Trento del 1564 sancisce l’obbligo per i parroci di aver un registro per i battesimi, sul quale scrivere nome e cognome di una persona, al fine di evitare matrimoni tra consanguinei.

Ebbene, quel che a noi interessa è cercare i cognomi e soprannomi galatinesi che abbiano un sostrato greco. E’ chiaro che prenderemo in considerazione quelli che sono ancora in voga tralasciando, invece, quelli che sono già estinti e quelli che non sono ormai sulla bocca di tutti.

Antonica e Antonaci son formati dall’unione di due sostantivi: anthos + nike e anthos + nake; sicché il primo significa fior di vittoria, il secondo fior di pelle lanosa, di pelliccia. Infatti il termine dialettale naca che deriva da nake o dal neogreco naka non è altro che la culla sospesa, formata di un vello di pecora.

Sambati e Sabato è la stessa cosa, solo che uno è al plurale, sambata (grico sabati) e l’altro al singolare (neogreco sabbata, sabati). Lo stesso si può dire di Stomaci e Stomeo; Stomaci da stomachi, stomaco, oppure dal diminutivo di stoma, stomaki, piccola bocca. Se invece facciamo riferimento al grico stoma, acciaio, come per Stomeo, allora Stomaci sta per piccola tempra di ferro e Stomeo per acciaio. E ciò che avvalora la seconda ipotesi e che la stirpe degli Stomaci erano abili “ferrari”, cioè ottimi maniscalchi.

Colazzo, Cudazzo, Codazzo, Cutazzo sono tutti uguali cognomi che traggono origine da Colazzo. Molto probabilmente, quando le persone si recavano all’ufficio anagrafe per dichiarare il nascituro, vuoi per la cattiva pronuncia del richiedente, vuoi per l’incompetenza dell’ufficiale dell’anagrafe, si incorreva a questi mutamenti di cognome. D’altra parte erano quelli periodi in cui la gente era in massima parte analfabeta, e perciò non poteva rendersi conto di ciò che c’era scritto sul certificato di nascita. Comunque questi cognomi derivano da colazo, io freno, e indica il freno dei guarnimenti da applicare alla coda degli animali da tiro o da soma.

Colaci è un vezzeggiativo di [Ni]kolakis, Nicolino. Però azzarderei un’altra ipotesi: potrebbe avere a che fare con il diminutivo di cholòs, cholàki, un po’ zoppo, claudicante.

Musarò da musaròs, sudicio, impuro, detestabile; Mauro da mauròs, nero. Nel primo caso si fa riferimento a persona trasandata, alla buona, nel secondo a persone dalla carnagione scura.

Spano da spanòs è un uomo privo di barba, sbarbato; Piscopo da [e]pìscopos significa vescovo; Sanzico da sàmpsicon si riferisce, forse, a persona che coltivava in campagna la maggiorana.

Papadia, derivando da papadìa, sta per moglie del prete; Patera, accostato a patèras, sta per padre, ma se lo facciamo discendere dal grico patèra, è il prete.

Ostace e Campa richiamano due simpatici animaletti: ostacòs è il granchio oppure il gambero, kampe è il bruco.

Onesimo si rifà a onèsimon, che si traduce cosa utile, vantaggiosa, benefica, buona. Il termine onèsimos si riscontra nelle opere di antichi scrittori greci: in Sofocle, Antigone v. 995, in Eschilo, Eumenidi v. 924, negli Inni omerici, Mercurio v. 30, e come nome di uomo nell’Antologia palatina. Prendo, così per caso, il verso 995 della tragedia Antigone di Sofocle. Chi parla è Creonte, rivolto a Tiresia: ècho peponthòs martureìn onèsima [posso riconoscere di aver avuto (da te) del bene].

Izzi è una desinenza di origine greca che ha la funzione di diminutivo. Quindi Stefanizzi viene da Stefanitsis, stèfanos + itsis, piccola corona, ghirlanda, oppure dal verbo stefanizo, incorono. Mutatis mutandi il significato è perlopiù identico.

Castriota, Kastriotis, è il signore del castello; Ciriani, Kyr’Jannis, signor Giovanni; Coroneo, da Koronaios, significa abitante di Corone, città del Peloponneso. Marti, Martios o dal grico Marti, è il mese di marzo.

Il cognome Moscara ha a che fare con moschàrion, vitellino; Calso con Kàltios, calzare; Misciali con Michàlis, Michele; Cretì con krytìs, giudice; Mairo con màgeiros, cuoco.

Nei soprannomi, invece, appare più chiaro il sostrato greco; il dialetto, infatti, conserva  la forma più antica del linguaggio.

Sciòi, da skiòeis (leggi sciòis), vale ombroso; pisino, da pisinòs, equivale a culo.

Scuddhrana, figlia de lu Scuddhru, rimarca skulos, codolo della zappa, della scure. E c’è un modo di dire galatinese, vutàmula de lu scuddhru, giriamola dalla parte del codolo, quando non si riesce a dare una spiegazione a qualcosa, oppure non si trova una via d’uscita a una situazione scabrosa.

Canzeddhra è il soprannome dato a una persona di bassa statura, ma nel nostro dialetto rappresenta il tavolo di lavoro del calzolaio. Infatti, kantòs significa cerchio esterno della ruota; ma potrebbe essere un diminutivo di kàmpsos, curvo. Comunque stiano le cose noi sappiamo che la canzeddhra è una specie di mobile molto basso che poggia su tre o quattro piedi. Il Tavolo di lavoro è a forma circolare, diviso in piccole parti, in cui vengono adagiate le semenzelle, le puntine, la tanaja, i capitieddhri, la tavoletta di pece, la ssùja, pezzi di cuoio, ecc. ecc. Lu scarparu, stando seduto può servirsi in maniera maneggevole e degli arnesi e del materiale per riparare le scarpe.

E a proposito di sutor mi torna in mente l’agnomen calopa. Calopa deriva da kalò + pous, forma per le scarpe, “piede di legno”. Quest’attrezzo usato dal calzolaio ha una forma sgraziata e il soprannome riferito a una donna denota trascuratezza nel vestire, impaccio nel portamento e nel camminare.

Panta da pas, pasa, pan, ogni cosa, tutto, sempre, e parà, preposizione greca, ora, mentre, accanto, presso, contro, sono nomignoli appioppati a due rami di una famiglia il cui cognome è molto diffuso qui da noi.

Cista, kiste, è la cesta, il paniere. Famoso a Galatina era Peppinu ‘u cista, gran venditore di ghiaccio. I lettori devono sapere che, un tempo, non esistevano frigoriferi; solo i nobili avevano in casa la ghiacciaia; la povera gente, nel periodo estivo, per far diventare fresca ‘na vucala d’acqua o ‘nu ‘rsulu di vino, possibilità permettendo, mandavano da Peppinu cista i bambini a comprare cinque o dieci lire di ghiaccio. E lui dall’aspetto portentoso e fiero, ma sempre con il sorriso sulle labbra, lasciava cadere un colpo di mannaia sul blocco di ghiaccio e te ne porgeva un pezzo. Poi con un fare bonario, tipico della gente salentina, raccoglieva i pezzettini di risulta e li aggiungeva al ghiaccio comprato esclamando: “Quistu è de cchiùi!”.

Thraca viene da trachùs, duro, violento; calieddhru da kalòs, bello; capasa da kapasa, grande vaso di creta, idoneo alla conservazione delle friselle; soprannome quest’ultimo dato a persona bassa di statura ma dalla pancia prominente.

Chetta deriva da chaite, criniera, chioma: soprannome dato a persona calva; cerasa da keràsion o dal neogreco keràsi, ciliegia; cuja da guion, membro, borsa dei testicoli; cuvizzi da kuix, bulboso.

Panaca da panàke, panacea, è l’agnomen dato, forse, a qualcuno che empiricamente trovava un rimedio per tutti i mali, così come murecca da murèpsos era l’unguentario.

Piricocu risale a berycoca. Alla lettera si traduce albicocca ma nel nostro dialetto equivale a pesca. ‘U piricocu per eccellenza a Galatina era un certo Alfieri, che con due altri amici, Picinera e Naticeddhru, aveva messo su il Carro di Tespi e insieme con loro andava in giro per le piazze a rappresentare il teatrino dei burattini.

Kalès diakopès e a risentirci a presto!

Due tele di Sant’Oronzo ed una inedita immagine di Galatina nel Seicento

di Giovanni Vincenti

 

FIG.1. Lecce. Cattedrale. S.Oronzo (G. A. Coppola)
FIG.1. Lecce. Cattedrale. S.Oronzo (G. A. Coppola)

 

FIG.2. Lecce. Cattedrale. S.Oronzo (G.A

FIG.2. Lecce. Cattedrale. S.Oronzo (G.A. Coppola)

La «nuova immagine di S. Oronzio dipinta» [fig. 1] [fig. 2] che, realizzata dal gallipolino Giovanni Andrea Coppola (1597-1659), «medico, musico ed eccellente pittore», quale segno visibile della popolare gratitudine alla scampata epidemia di peste, fu solennemente introdotta nella chiesa cattedrale leccese il 17 dicembre 1656 e risultò talmente aggradita ai devoti che in breve tempo «se ne sono cavate innumerabili copie per diverse città e terre della provincia» nelle quali «parimenti con molta pietà e liberalità sono stati al medesimo Santo eretti altari essendo da esse stato eletto per lo protettore».

FIG.3. Galatina. Chiesa SS.Annunziata (S.Luigi). S.Oronzo.
FIG.3. Galatina. Chiesa SS.Annunziata (S.Luigi). S.Oronzo

FIG.4. Galatina. Chiesa SS.Annunziata (S.Luigi). S. Oronzo
FIG.4. Galatina. Chiesa SS.Annunziata (S.Luigi). S. Oronzo

Anche Galatina non fu esente da questo entusiasmo devozionale. Nella chiesa della SS. Annunziata delle clarisse (S. Luigi) infatti, sulla cantoria lignea nel retrospetto, è collocato un quadro di S. Oronzo Vescovo [fig. 3] [fig. 4] copia coeva di quello del Coppola la quale deriva dalle visioni mistiche del misero pritello calabrese d. Domenico Aschinia, in cui il santo è «vestito delli vescovili paramenti, che portava in mano un bacolo pastorale…..un poco rovesciato dalla parte di sopra, sopra del quale ci era una piccola croce…..aveva in suo capo la mitra, nella quale vi era molto lampeggiante una bianca croce. Era egli pieno di luce, ed aveva tale vaghezza il di lui piviale, che non vi è cosa simile a compararseli. Dà fianchi di costui vi eran due angeli, quasi vestiti con adobbi a color del cielo, e così fieri per una bellezza inesplicabile, avevano vaghi capelli, sopra le fila d’oro». Ad pedes, sulla sua sinistra, il profilo di una città: Galatina [fig. 5], rinserrata dentro una imponente cinta muraria entro cui si apre una delle sue tre porte urbiche cinquecentesche [fig. 6], custodita da due coppie di colonne a fusto liscio poggianti su alti plinti e reggenti una robusta trabeazione che pare raccordarsi con ampie volute alle pareti laterali.

FIG.5. Galatina. Chiesa SS.Annunziata (S.Luigi). S
FIG.5. Galatina. Chiesa SS.Annunziata (S.Luigi). particolare della tela di S. Oronzo

 

 

FIG.6. Galatina. Chiesa SS.Annunziata (S.Luigi). S
FIG.6. Galatina. Chiesa SS.Annunziata (S.Luigi). particolare a maggiore ingrandimento della tela di S. Oronzo

Appena oltre le mura si intravede la presenza di alcune chiese con i rispettivi alti campanili, mentre all’esterno «battenti divoti, che squarciano pienamente le loro membra per amor di Oronzio» il quale con la mano protesa verso la città scaccia la «figuretta nervosa della peste volante nello sfondo lontano». Questa rappresentazione iconografica rievoca alla mente quella di qualche anno posteriore, dopo il 1675, del Patrocinio di S. Pietro su Galatina [fig. 7], opera proveniente dalla chiesa dei domenicani ed ora conservata presso l’episcopio idruntino. Qui è S. Pietro il defensor civitatis: la mano sinistra regge il volumen con su le due chiavi legate da un fiocco rosso, mentre lo sguardo è rivolto in basso alla sua destra a seguire la mano protesa a protezione di Galatina da una «figura ignuda di donna che scappa in direzione opposta alla città, con la testa tra le mani a proteggersi dalle sferzate celesti» di un angelo con la spada fiammeggiante; anche questa è la rappresentazione simbolica della peste.

FIG.7. Otranto. Episcopio. Patrocinio di S.Pietro.
FIG.7. Otranto. Episcopio. Patrocinio di S.Pietro

Ma c’è ovviamente molto di più. Il 20 agosto 1662, D. Francesco Andriani, l’anno seguente nominato procuratore del duca Gio. Maria Spinola, «per la devotione, che dice havere, e portare verso d.a Collegiata Chiesa havere più e più volte pregato d.o Rev.do Capitolo, et Clero che li concedessero una Cappella, seu Altare dentro d.a Chiesa con conveniente loco di potere costruire una sepoltura avanti di quella, offerendo per carità di detta concessione docati trenta cinque». Il Reverendo Capitolo e Clero «fece deliberatione, et conchiuse che si dovesse concedere la Cappella ultima à man destra all’entrar di d.a Chiesa dalla porta maggiore, ch’è la Cappella à canto à S.to Gorgonio con facoltà di fare la sepoltura vicino d.a Cappella», il tutto come da atto rogato il 20 febbraio 1663. L’Andriani fece innalzare in quella cappella un altare dedicandolo al glorioso S. Oronzo e dipingere un Martirio del Santo [fig. 8] [fig. 9] che, il 1760, così sono descritti: «viene l’altare di Sant’Oronzo Vescovo di Lecce, e Protettore della Provincia, e nel quadro vi sta dipinto il martirio di detto Santo, e di Giusto e Fortunato, colli carnefici attorno, e molti angioli, quale altare è de jure patronatus della famiglia Andriani, e ai piedi del medesimo vi è la di loro sepoltura, quale tiene molti oblighi di messe, e sotto l’arco maggiore vicino la fonte della Acqua Santa vi è una sepoltura per la comodità del publico».

FIG.8. Galatina. Museo civico
FIG.8. Galatina. Museo civico

FIG.9. Galatina. Museo civico. Martirio S
FIG.9. Galatina. Museo civico. Particolare della tela precedente

 

A quello stesso altare D. Domenico Andriani, suo nipote, che il 1692 aveva comprato il feudo di S. Barbara per settemila ducati, lega, il 1702, un lascito di «docati cento alla Cappella del Glorioso S. Orontio sita nella chiesa Matrice fondata dai miei Antecessori» con l’obligo per i suoi eredi di far celebrare tante messe nella suddetta cappella per quante derivassero dal censo attivo di quei cento docati. Non solo, ma il 1732, testando le sue ultime volontà «nella sua solita casa d’abitazione sita dentro questa terra nel vicinato della SS. Trinità», l’Andriani, tra le altre, scrive: «inoltre raccomando l’Anima mia a Dio, ed alla protezione della Madonna Santissima, del mio Angelo Custode, de’ miei santi divoti; acciò colla loro protezione m’impartisca dal Signore un felice passaggio, e doppo la mia morte, voglio che il mio cadavere si seppellisse nella Chiesa Collegiata di questa Terra, nella sepoltura della Cappella di S. Orontio de’ miei maggiori e trovandomi morire in Andrano, voglio essere seppellito nel Convento de’ PP. Domenicani di quella Terra, senza alcuna pompa funerale».

 

San Luigi 013

 

San Luigi 012
particolare della tela precedente

 

Pubblicato su Il filo di Aracne.

 

 

Racconti di Galatina. La còcula de l’anime

di Pippi Onesimo

 

La chiesetta delle Anime, in silenziosa contemplazione, sembra riunire insieme, quasi tenendole per mano, due porzioni squarciate di antiche mura, attraverso le quali sfiora, voltando le spalle con comprensibile pudore, Piazza Lillo.

Non vi è più traccia, non solo di queste mura, ma neanche della cosiddetta Porta delle Anime, o meglio, come sembra, di un piccolo varco abusivo aperto fra le mura originarie, molti anni dopo.

E’ sparita anche, come tutte le altre, una delle meravigliose cinque “torri”, che sembra lì si ergesse (come “congettura” la instabile e confusa tradizione popolare) imponente, solenne e severa a difesa della città, prima ancora che via Lillo, da sempre costretta a risalire per via Vignola, avesse la possibilità di affacciarsi sulla l’estrema periferia del paese, scivolando su via Soleto giù e ancora più giù, verso il Rione Italia.

Qui, troviamo la più grande, spettacolare, delittuosa testimonianza di speculazione edilizia, ideata e realizzata in questo comune.

Lo scempio, minuziosamente disegnato in perfetti riquadri simmetrici tutti perfettamente allineati, senza piazze, senza polmoni di verde e senza menamentu, mancu de nu metru quatru, in una scacchiera, che solo la follia del business poteva concepire, allora non era stato ancora compiuto.

Oltrepassata la chiesa, al di fuori delle Mura, precisamente alla destra di chi scende dalla via de lu Cazzasajette, si trova la “Còcula de l’Anime”, che è uno slargo ovale, ora di pochi metri quadri, ma un tempo molto più spazioso.

E’ lievemente ristretto rispetto al suo originale, perché rimodellato dalla strada (via Giuseppina del Ponte) asfaltata per esigenze di viabilità e delimitato da un marciapiede fino a Vico Topazio.

Mattonato con arruffate soluzioni geometriche, e occupato in parte, sino a pochi giorni fa, da una cabina telefonica in indecente stato di abbandono, è arredato con frettolosa approssimazione con una panchina di pietra, mascherata con assi di legno.

Lo custodisce l’ombra fitta e odorosa di un solenne, solitario albero di pino, corrucciato e indispettito per la presenza di due robinie anoressiche, piantumate di recente, che offendono la sua maestosa eleganza

Così come si presenta oggi, la “còcula“ è la dimostrazione concreta della improvvisazione e della confusione culturale, in salsa arruffata, che regna sovrana a Palazzo, quando si affronta il problema dell’arredo urbano.

E Piazza San Pietro è stata anch’essa, sino a ieri, vittima illustre ed incolpevole di quella incoltura, quando è stata offesa e deturpata dal posizionamento scriteriato di alcune cùcume ricolme anche de scisciariculi e marve.

La Piazza grida ancora vendetta con tutta la forza della sua legittima disperazione, perchè ha subito, a memoria d’uomo, il quinto tentativo di violenza : prima le catine pe lli scjurnatieri, poi un albero di abete piantumato al centro della Piazza in occasione di un Natale, poi le palle, poi li sedili e, infine, lo scempio delle cùcume.

Ora, finalmente, è libera !

La còcula, allora, era completamente sgombra, ricoperta solo di ghiaia e di terra battuta.

Era, di sicuro, meno adatta igienicamente ad accogliere le bancareddhre de nuceddhre, de cupeta, de mantaji e zacareddhre cu lle tine de schipece, ma era più familiare e più paesana.

Alcuni pethroji a carburiu, o citilene (lumi ad acetilene), anneriti dal fumo e cagionevoli per l’età, con le loro fiammelle tenaci e resistenti anche alle capricciose e improvvise folate di vento, le illuminavano con luce stentorea e traballante, a tratti intermittente, durante la festa de Cristu Risortu.

Spandevano nell’aria un odore soffusamente gradevole, che infondeva allegria e vivacità alle conversazioni e allo scambio di saluti in un caratteristico, ciarliero brusio di festa paesana, e, in particolare, rionale.

In precario equilibrio, vi sostavano anche sparute combriccole di avventori, vivacemente loquaci, perché “brilli e spiritosi”, di una antica e attrezzata osteria, di cui è rimasta solo traccia in un vecchio portone.

Questa festa, che cade ogni anno la domenica immediatamente successiva a quella della Pasqua, era molto sentita e seguita, anche se… tristemente famosa (a parte i fatti di sangue avvenuti agli inizi del secolo scorso, che hanno tutt’altra matrice e significato sociale) per le risse, a volte violente, provocate per futili motivi, che, a ricorrenza costante, vi accadevano.

Era risaputo che il Rione de l’Anime pretendeva di essere considerato il Rione più capicaddhu (testa calda) del paese, anche se doveva fare i conti con quello della Porta Luce, col quale stava sempre a discrazzia de ddiu (in eterna rivalità).

Comunque, lì convenivano, durante la festa, tutti li sbelisciati degli altri Rioni, in cerca di divertimento, di baldorie o… cu ssi trovanu la zzita (fidanzarsi).

Il campanilismo rionale era ben coltivato e simpaticamente sostenuto. Gli scherzi e i dispetti, a volte pesanti, erano la manifestazione esteriore della loro rivalità.

Adesso non più!

Oltretutto il rione delle Anime, come tutti gli altri del centro Antico, è desolatamente spopolato, nonostante i timidi, sporadici tentativi di rivitalizzarlo attraverso il recupero e la ristrutturazione edilizia di corti e palazzi, finanziata da privati acquirenti, sopratutto stranieri.

Le antiche mura, o meglio quelle virtuali, scendono dalla via de lu Turrione (via D’Enghien) e si accostano delicatamente alla Porta Cappuccini.

Poi proseguendo verso le scaleddhre, cha pòrtanu rretu llu Ràttulu (Vico Dolce, che, dall’imboccatura di C.so G. Del Ponte, si congiunge con Vico Freddo) e superata la chiesa delle Anime, abbracciano, ansimando per la ripida salita, il costone della chiesa della Madonna del Carmine e si ricollegano alla Porta Nova, o Porta San Pietro.

Di quelle vere sono rimaste poche tracce: ad ondate storicamente susseguenti, sin dalla notte dei tempi, hanno subito l’accanimento barbarico di chi, per l’insipienza, o l’assenza, o l’indifferenza del Palazzo, ha sgretolato con rozza spavalderia porzioni di mura, o divelto cornicioni per realizzare vere e proprie abitazioni, o per aggiungere qualche vano a quelle preesistenti.

Altri le hanno violentate con scandalosa impunità per l’apertura di finestre o per il passaggio di canali di gronda.

Le imprese autorizzate (da chi?) per gli allacci della corrente elettrica, acqua, telefoni e gas hanno poi completato l’opera, senza che mai nessuno si sia preoccupato di controllare, di vietare e, al limite, di chiedere conto degli enormi danni procurati.

Oh che bella Città!

Speriamo ca lu Patreternu ce la conservi a lungo, nonostante i barbari e le colpevoli collusioni o insipienze (di ieri, di oggi e di domani) del Palazzo.


Pubblicato su Il Filo di Aracne.

 

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