Galatina, Atena e il tarantismo

di Romualdo Rossetti

 

  1. “Galatina”: storia e interpretazioni di un toponimo

Molte sono state le supposizioni e gli studi effettuati nel corso degli anni riguardo alla possibile genesi del nome “Galatina” e molte sono state anche le probabili risposte scaturite da questi studi, alcune più fantasiose di altre, ma nessuna delle quali, va ribadito, ha mai tenuto in debito conto la possibilità che il nome del popoloso centro urbano salentino potesse essere nato da una sacra invocazione a carattere iatromantico, un’invocazione divenuta poi nello scorrere del tempo toponomastica, come questo studio, invece, tende a sostenere.

Le teorie più additate sull’origine del toponimo della città sono state quelle che vorrebbero il nome derivare da γάλα con esplicito riferimento al “latte”, per la sovrabbondanza di pascoli presenti anticamente nel limitrofo circondario rurale. Per altri ermeneuti, invece, il nome sarebbe da attribuire a un probabile epiteto, a γάλα αθηνά “Atena del latte” per richiamare alla mente anche l’arcaica γίδα αθηνά “Atena capra”, in riferimento all’egida della dea (il pettorale) costituita dal bellissimo vello della capra Amaltea o, secondo altre versioni del mito, dalla pelle caprina del gigante Pallante, ucciso e scuoiato dalla dea in uno scontro. Altri interpreti hanno proposto come plausibile la possibilità che il toponimo significasse invece non “Atena”, bensì “Atene del latte” in virtù di un’antica alleanza militare stipulata dai Messapi con la grande polis ellenica che avrebbe avuto come naturale conseguenza anche un antico insediamento attico in loco.

Teorie più marginali hanno attribuito, viceversa, l’origine del nome della città a Galathena[1] la polis di provenienza del popolo dei Tessali che avrebbero colonizzato la parte occidentale della Messapia, o ancora alla mitica nereide Galatea[2], o anche una non meglio identificata Galata o Galazia che nella confusione di alcuni mitografi venne ritenuta come una presunta figlia di Teseo.

La teoria più accreditata ma anche quella più dibattuta in seno alle nuove indagini semantiche, è stata l’interpretazione “scientifica” del filologo tedesco Gerhard Rohlfs che, ammaliato dalle teorie linguistiche ariane, sostenne che il termine “Galatina” fosse derivato per opera dell’antica colonizzazione del luogo su cui ora sorgono i paesi di Galatina e Galatone di genti di stirpe celtica, i Galati, coloro i quali, si diceva possedessero la pelle “color del latte”.

Ultimamente è emersa anche un’altra ipotesi[3], per certi versi affascinante anche se non del tutto persuasiva  da un punto di vista geologico, che vuole il nome della città derivare dal non dall’ “Atena del latte” bensì dal “latte di Atena” ovverosia dalla presenza nel sottosuolo galatinese di una falda freatica di origine sulfurea che renderebbe le acque lattiginose  e dalle proprietà curative ed emetiche che riporta la dea alla sovrapposizione con l’arcaica “Dea Madre” di cui pure era stata in origine sovrapposta.

NASCITA DI ATENA – PITTURA VASCOLARE A FIGURE NERE SU FONDO ROSSO

 

Questo breve saggio propende, invece, a sostenere che il nome derivi da una sacra invocazione rituale o da un frammento di un antico peana destinato alla καλή αθηνά alla “Bella Atena”[4], che nella fattispecie greca del termine sottintenderebbe anche la “Buona Atena” e per espansione semantica anche la soteriologica formula di “Benevola Atena” o la più consona “Indulgente Atena”.

Ma se così fosse di quale Atena si starebbe parlando? Di quale dea della “strategia d’intervento” e della “protezione” ben sapendo che verosimilmente nell’antichità il culto di Atena era stato un culto d’importazione medio-orientale e che successivamente non fu unicamente legato alla sfera olimpica della religione ellenica?

 

  1. L’origine e la diffusione del culto di Atena nel mondo antico

Prima di trattare dell’Atena che ha dato il nome a Galatina è bene riesaminare quale fu la genesi (o le genesi), le trasmutazioni, e in ultimo, le ipostasi che subì quest’antica divinità durante nel corso dei secoli.

Rintracciare le sue origini non è certo impresa facile perché la sua genesi si perde nella protostoria del bacino del Mediterraneo e del Medio Oriente dove si sovrapposero varie etnie e si fusero culture di diversa provenienza. Molte sono state le opinioni circa il luogo d’origine del suo culto, ma a tutt’oggi, nessuna di queste può ritenersi risolutiva. Si può solo credere che il culto di Atena sia stato un culto d’importazione perché molti sono stati gli studi filologici e linguistici che hanno supportato questa ipotesi, primo fra tutti quello di Giovanni Semerano che nella sua esemplare opera Le origini della cultura europea, esaminando la lingua degli Accadi ha scoperto un’impressionante affinità semantica e fonetica tra i lessici delle lingue europee e quelli delle antiche lingue mesopotamiche. Secondo le sue approfondite ricerche semantiche riguardanti il nome “Atena” ha scritto:

Il nome di Atena, Ἀϑήνη nella forma ionica, Ἀϑάνά in dorico, Ἀϑήνάα in attico, fu inteso da Platone (Cratilo, 406 d) come ἁ θεονόα, τὰ θεῖα νοοῦσα o anche ἡ ἐν τῴ ἤθει νόησις. Così Παλλάς, fu accostato a πάλλειν (vibrare). I moderni hanno ceduto all’accostamento con πάλλεξ (giovane donna), riferito da Eustazio (Ad Od.,1742, 30). Atena ha assunto gli attributi della dea bellicosa degli Accadi, Ištar, la figlia di Sin o Anu, come Atena è figlia di Giove: di Ištar Atena serba nel nome l’attributo E-ta-nam-an, come Minerva ripete l’altro attributo di Ištar stessa, Me-nu-ata. Ma in seguito E-ta-nam-an si incrociò con la base che ha il significato di “protettore”, accadico ֲatīnu (‘protector’, CAD,6, 148 sgg.), ḫutnu protezione (‘protection’) da accadico ḫatānu (proteggere, ‘to protect’). Ḫutnu appare in nomi personali quali Adad-ḫu-ut-ni, Marduk ḫu-ut-nu, Ḫu-ut-ni – Dingir. Ma Atena è ricalco su accad. ḫazānu (magistrato supremo di una città, protettore ‘chief magistrate of a town…mayor, burgomaster, headman; fron Ur IIIon…’). L’etimologia del nome della città di Atene deve riferirsi al sistema di protezione e di difesa dell’acropoli e dobbiamo ricondurre la voce Ἀϑῆνάι alla stessa base di ḫatānu ma, comunque, con incrocio della base corrispondente ad accadico dannu (forte, detto di luogo di fortificazione di città, ‘stark: v. Orten, Festungen, Städte’ vS 161a), interferenza che si scopre, anche per Atena, con questa base da’ ānu, attestata per gli dei (da’ ānu ‘migth, force, strength, said of gods’, CAD, 3, 81 sgg). Pallas Athena si chiarisce come la divinità con occhi benevoli fissi alla Città: Pallas deriva da base corrispondente ad accad. palāsu (guardare con occhio amico, ‘freundlich anblicken: Subj. Gott’) vS, 814; cfr. M.-J. Seux, Epithètes royales, Paris, 1967, p. 187 sg.), pullusu in ant. Accadico è nome proprio. Ma Athena deve essere stata sentita come la divinità del diritto: accad. (š)a dēni: dēnu, dinu è anche la decisione, il verdetto di un dio (‘verdict: said of gods’) e dậnu significa giudicare (‘to judge, to render judgment: referring to the favorable judgment of a deiry’, CAD, 3, 100sg.), che è sempre un attributo del potente. L’accadico da’’ānu dajānu (giudice, ‘judge’, ‘Richter’) ricorda il supremo giudizio dell’Aeropago sotto gli auspici di Atena. Tale voce accadica richiama anche il nome Diava (v.), altra divinità che è posta originariamente a tutela del diritto di tribù, di popolazioni vicine e federate. L’attributo τριτογένεια corrispone alle basi accadiche tārītu protettrice (‘Wärterin’) e kࣵēnu vero (‘wahr’): auspice del vero, cioè del giusto.[5]

Pallade Atena

 

È possibile anche che il nome “Atena” possa essere originario della Lidia e trattarsi di una parola composta, derivata in parte dalla lingua Tirrena dove ati significava “madre”, e in parte dal nome della divinità hurrita denominata Hannahannah che spesso veniva abbreviato in Ana. Il suo nome comparve in una singola iscrizione in lingua micenea nelle tavolette in scrittura Lineare B in un testo appartenente al gruppo delle “Tavolette della stanza del carro” rinvenute a Cnosso. La più remota testimonianza scritta in lineare B riguardante la dea trovava iscritto il nome A-ta-na-po-ti-ni-ja il cui significato letterale oscillò tra una “Padrona Atena” e una poco verosimile “Signora di Atene” di cui non è possibile stabilire con certezza una connessione con la polis attica. Si è rinvenuta anche un’altra forma espressa con A-ta-no-dju-wa-ja, la cui parte finale risultava essere la scomposizione in sillabe in Lineare B di quella che in greco era conosciuta come Diwia (in miceneo Di-u-ja o Di-wi-ja), che significava “la divina”.

Anticamente esisteva una versione del mito che vedeva Atena avere una sua eguale in Egitto al punto che tanto Erodoto quanto Platone affermarono che nella città di Sais, si venerava una divinità della guerra denominata Neith che gli stessi Egizi identificavano con Atena.

Trasmigrata in Grecia con l’avvento degli Ioni provenienti dalle coste dell’Asia Minore diede il nome alla città di Atene che come giustamente ha fatto notare Semerano traducendo l’accadico che il significato della polis attica doveva significare il significato di “La protetta”.

In ambito ellenico venne da sempre considerata una divinità olimpica sebbene custodisse nascosto da tempo immemorabile un suo lato ctonio che disveleremo più avanti, Atena ha lasciato un’impronta indelebile in miti e imprese di uomini. In un’arcaica versione del mito, Atena era emersa dalla forza dirompente delle onde del titanico “fiume” Oceano[6](Ὠκεανός) o da Tritone (Τρίτων) tanto da venire chiamata Tritoghèneia[7] (Τρίτωγένεια) ovvero “generata da Tritone”.

Nell’Odissea giocò un ruolo importantissimo dove Omero la descrisse con le doti di protettrice e consigliera dell’Itacese. Anche nell’Iliade, il sommo cantore ne narrò le gesta definendola la “figlia di forte padre” alla quale Zeus affidava fiducioso gli incarichi più delicati e problematici. Molto celebre nel mondo antico fu l’ode[8] omerica a lei dedicata, che recitava:

Pallade Atena, la Dea famosa comincio a cantare, che azzurro ha il ciglio, saggia la mente, inflessibile il cuore. Intatta è, veneranda, gagliarda, e le rocche protegge. A Trito nacque; e Giove medesimo a luce la diede, dal suo cerèbro, già vestita dell’armi di guerra lucide, tutte d’oro. Stupirono tutti i Celesti, quando la videro. Ed essa, dinanzi all’egíoco Giove, rapidamente balzò, dal suo capo immortale, scotendo un giavellotto acuto. L’Olimpo, un orribile crollo die’, sotto l’urto della Divina Occhiglauca: la terra tutta echeggiò d’un rimbombo terribile, il mar si sconvolse, tutto agitato nei flutti purpurei, contro la spiaggia l’onda proruppe, fermò d’Iperíone il fulgido figlio a lungo i suoi cavalli veloci, sinché la fanciulla Pallade Atena tolte non ebbe dagli òmeri santi l’armi divine: lieto fu il cuor del saggissimo Giove. E dunque, a te, figliuola di Giove l’egíoco, salute: io mi ricorderò d’esaltarti in un carme novello.

 

Atena risulta quindi, protostoricamente venerata come fosse stata una ninfa legata al culto delle acque superficiali e sotterranee tanto da essere venerata molto spesso lungo le sponde dei fiumi o dei laghi. In Beozia la si venerava con l’epiteto di Atena Alalkomenìs o Alalcomenide (Ἀλαλκομεηῖς) ovvero “protettrice” della polis di Alalcomene che vantava i natali della dea e si trovava ubicata nei pressi delle pendici sovrastanti l’antico lago acquitrinoso di Copaide dove operò il violento re Flegias padre di Coronide e nonno di Asclepio. In Arcadia, il suo culto si diffuse presso il fiume Alfeo. Nell’Elide gli indigeni erano particolarmente devoti ad Atena Larisea (Ἀϑήνά Λάρισας) così denominata perché venerata lungo le sponde del gelido fiume Larisos oggi Larisso, lo stesso fiume che aveva utilizzato Eracle per pulire le fetide stalle di re Augia nella sua quinta fatica. In Messenia il suo culto ebbe luogo in prossimità del corso d’acqua Nedonas la cui sorgente era situata sul famoso monte Taigeto. A Creta la divinità trovò particolarmente riconoscimento nelle sue qualità salvifiche e salutari presso la grande polis di Cnosso.

Ben più diffusa fu, viceversa, l’altra sua origine cosmogonica che la volle far nascere dalla testa di Zeus – o dal suo polpaccio – dopo che questi per paura di un’oscura profezia aveva ingurgitato preventivamente la sua prima moglie Metis – la dea della saggezza e della prudenza primordiale e madre naturale di Atena – per paura di pover venire detronizzato dalla tracotanza dei figli della sua compagna.

Fu per tale motivo che dopo aver giaciuto con lei, Zeus convinse Metis a trasformarsi in una goccia d’acqua, o in una mosca, o ancora in una cicala, come sostennero altri mitografi in altre versioni, per poter meglio cibarsene. Nonostante il suo piano fosse riuscito, il suo seme divino era già attecchito nell’utero della dea[9] la quale, nonostante fosse stata fagocitata a tradimento, si era messa subito in moto per costruire ciò che sarebbe stato necessario alla creatura che portava in grembo per la sua futura incolumità. Nel forgiare l’elmo a colpi di maglio provocò una dolorosissima cefalea a Zeus che non gli lasciò scampo. Il dio Efesto, allora, intervenne, in aiuto del padre degli dèi e, con un assestato colpo di labris[10] aprì la tempia di Zeus liberandolo dal dolore e facendo uscir fuori Atena in sembianze già adulte e armata di tutto punto.

La dea come primo gesto di nascita, avrebbe mimato una ordinata danza di guerra dando così il via a quella che sarebbe divenuta la sua specializzazione divina, ovverosia l’utilizzo della migliore strategia di difesa atta a combattere il nemico, qualunque esso fosse.

L’aver voluto ingerire Metis non significò per Zeus il volerla annientare, bensì piuttosto nel volerla trasformare da ancestrale intelligenza anticipatrice o prolessi (πρόληψις) in una mera capacità tecnico-strategica e in una nuova sapienza filantropica, la sophia (σοφία) da porre all’interno del logos umano affinché questo ne potesse fruire nell’esplicazione delle sue azioni pratiche e teoretiche. Quell’atto a prima vista così crudele fu un atto di benevolenza divina, teso a realizzare un cambio di registro logico. Fu così che, per volere del padre degli dèi, la prima forma d’intelligenza presa nella sua primitività e nel proprio sacrificio si trasformò in nuova sapienza – in Atena appunto – per divenire nella ritualità pratica dell’azione umana, un perenne equilibrio o di phronesis (φρόνησις) ovvero saggezza e sophrosyne (σωφροσύνη) ovvero temperanza.

Atena, quindi, come la dea atta a quella “giusta misura” da intraprendere per poter raggiungere al meglio uno scopo o anche la divinità atta alla della “giusta azione” per districarsi in una “tela” reale, immaginaria o logica per rammendarla, ripararla, “curarla” o costituirla ex novo. Atena quindi come “mente di dio” e non fu un caso se il sommo Platone nel suo Cratilo fornì l’origine del nome della dea dal lemma “A-θεο-νόα” o “H-θεο-νόα” per rievocare il mito olimpico della sua nascita, quello conosciuto dagli ateniesi. Egli, infatti, scrisse:

Questo è più difficile, amico mio. Pare che gli antichi riguardo ad Atena la pensassero allo stesso modo di come oggi fanno i bravi critici di Omero. Infatti la maggior parte di loro, studiando il poeta, sostengono che in Atena abbia voluto personificare il “nous” e la “dianoia”, ovvero la mente e il pensiero, e similmente sembra aver ragionato colui che le assegnò i nomi; addirittura, appellandola con ancor maggiore solennità “theou nesis” (mente del Dio) dice che è la “theonoa”, ovvero la “mente divina”, servendosi della lettera “alfa” al posto della lettera “eta” come fanno gli stranieri, ed eliminando “iota” e “sigma”. Era assai poco distante dal chiamarla “Ethonoe”, dato che è colei che come indole ha il pensiero “en thoi ethei noesis”. Ma alla fine o lui stesso od altri, per renderne il nome più bello, la chiamarono Atena.[11]

Atena, va ricordato, era entrata in relazione con Efesto non soltanto a causa della sua nascita, lo era stata anche a causa di una primordiale contesa mitica, una lite che aveva visto contrapporsi i due “fratelli sposi” Zeus ed Era, una lite familiare in seno alla quale il primo aveva generato Atena da una parte di sé, la seconda, Efesto, per un atto di gelosa ripicca. Era, però, ebbe la sfortuna di mettere al mondo un essere deforme, brutto e zoppo, che sarebbe stato da lei ripudiato e scaraventato giù dall’Olimpo per la vergogna di aver generato un mostro[12]. Così, se Atena nella sua fulgida glaucopide bellezza[13] era nata da Zeus che rappresentava l’infinito cielo tempestoso, tra i bagliori dei lampi e il fragore dei tuoni, Efesto, al contrario, era nato da un atto egoistico di divina empietà, ovverosia da ciò che era apertamente in contrapposizione al sacro connubio teogamico, da ciò che contravveniva e contrastava la stessa divina missione di sua madre – la partenogenesi. Tale atto nefasto avrebbe causato dunque la deformità fisica ad Efesto, quale segno indelebile della colpa di sua madre.

Fu così che Atena finì per rappresentare l’etra raggiante che disperdeva lampeggiando le nubi minacciose riconducendo il cielo al sereno, allo svelamento e al luminoso veritativo da cui l’idea veritativa filosofica detta alétheia (ἀλήθεια), Efesto rappresentò la fiamma primordiale domata, il fuoco che fondeva la materia (soprattutto il metallo) e purificandolo creava la forma ottimale al suo utilizzo. Atena ed Efesto, quindi, nei propri opposti simbolici rappresentarono un’endiade inscindibile, che contemplava da una parte l’abilità tecnica che riusciva a produrre il migliore armamentario, dall’altra, la sagacia della scelta e del suo migliore utilizzo in vista della vittoria finale.

ATHENA PARTHENOS RICOSTRUZIONE DIMENSIONI REALI

 

Atena, dunque come divinità guerriera[14] perché nata in mezzo alle dispute celesti, armata di lancia elmo e scudo atta però, a differenza di Ares, più alla difesa conservativa che all’attacco distruttivo. La sua lancia rappresentava un chiaro riferimento alla folgore paterna tramite la quale riusciva a squarciare la spessa tetra coltre delle nuvole permettendo il passaggio dei raggi vivificanti e curativi del Sole, i raggi di Apollo Iatros (Ἀπόλλων Ιατρός) o Apollo Medico. Nel mezzo del suo corpetto detto “egida” compariva la testa raccapricciante della Gorgone Medusa[15] Gorgòneion (Γοργόνειον) il cui significato originario alludeva non solo alla notte, rappresentata dal suo aspetto lunare, ma anche la malattia, la sofferenza e il decadimento ultimo umano. La sua armatura protettiva grazie a quell’orribile orpello allontanava la morte e la disfatta garantendo la vittoria. Venne per questo soprannominata Gorgὸphonos (Γοργοϕόνος) ovvero la “dea che ha ucciso la Gorgone” – o meglio ha suggerito la strategia del riflesso a Perseo affinché potesse annientarla – e Gorgὸpis o Gorgopide (Γοργῶπις) “colei che ha il potere dello sguardo truce della Gorgone”.

Le rappresentazioni della dea, i cosiddetti “Palladi” ovvero le sue rappresentazioni più frequenti, la vollero raffigurata tutta armata, con tanto di elmo, scudo e lancia, i suoi epiteti più famosi furono quelli di: Pròmachos  (Πρόμαχος ) ovvero “colei che combatte nelle prime file”, in Tessaglia e in Beozia era chiamata Alkìs ( Ἀλκίς ) “la soccorrente”, in Macedonia era venerata come Steniàs (Σϑενιάς) la “forte”, a Trezene la si invocava con l’appellativo di Laossòos (Λαοσσόος) “la dea che chiama il popolo a battaglia” o con quello di Aghelèie (Ἀγελείη) “colei che concede la vittoria e la preda” ma anche come Erusìptolis (Ἐρυσίπτολις) “colei che difende la polis” o Ergàne (᾿Εργάνη)  “la industre”. In ultimo ma non certo per ordine d’importanza la si trovava spessissimo menzionata come  Arèia (Ἀρεία) come quella che spesso era invocata nelle battaglie[16] insieme ad Ares.

 

La sua relazione con i fenomeni celesti venne accentuato dal simbolismo dei suoi epiteti, primo fra tutti quello di Glaucopide o Glaukopis (Γλαυκῶπις) allusivo al colore glauco dei suoi occhi, tanto che, in Atene la sua città per antonomasia, le venne affiancato la nottola o civetta (Athene noctua) dagli occhi fulgenti come animale totem che divenne, in seguito, il suo simbolo ufficiale.

Atena[17] rappresentò oltre alla salvezza (Σωτηρία) anche la vittoria, (Νίκη) come tale (Ἀϑηνᾶ Νίκη) venne venerata in Atene, nello speciale tempio dinnanzi ai Propilei. In Attica fu riverita come Hippìa (‛Ιππία ) in special modo a Corinto dove aveva insegnato a Bellerofonte a domar e mettere il freno al cavallo alato Pegaso e perciò venne detta anche Chalinìtis (Χαλινῖτις) ovvero “colei che imbriglia il morso”; a Lindo, presso l’isola di Rodi, era riverita come la dea che aveva insegnato a Danao a costruire la prima nave a cinquanta remi, così come il mito narrava avesse diretto la costruzione della nave “Argo” che avrebbe condotto Giasone e i suoi cinquanta compagni nella lontana Colchide a ritracciare il famoso “vello d’oro”.

Igea

 

Il suo epiteto più importante ai fini di questa indagine fu senza ombra di dubbio quello di Atena Hygièia o Igea[18] (Ἀϑηνᾶ Ὑγίεια) epiclesi che l’avrebbe introdotta nel novero della paredria asclepiea in qualità di sovrapposizione mitica della figlia prediletta dell’agatodemone greco della cura e della medicina ovvero Asclepio. Fu così che anche il suo culto sarebbe rientrato nella ritualità dell’incubatio e dell’oneirocritica tanto da lasciare famosa testimonianza nella biografia dello stesso Pericle ad opera di Plutarco che nel tratteggiare il famoso personaggio ateniese ricordò che durante dei lavori di edificazione sull’acropoli della polis, un operaio era precipitato da grande altezza ferendosi gravemente. Allora la dea Atena era apparsa in sogno a Pericle indicandogli quale dovesse essere la cura giusta che avrebbe guarito e salvato l’operaio:

Per questo, dunque, Pericle fece erigere sull’acropoli la statua di bronzo di Atena Hygièia presso l’altare che, a quanto dicono, esisteva anche prima.[19]

 

Ma non solo Plutarco avrebbe attestato la presenza ad Atene del culto di Atena Hygièia, anche Pausania ricordò di aver veduto sull’acropoli, accanto alla statua dello stratego Diitrefe trafitto dalle frecce le statue di due divinità:

Igea figlia di Asclepio e Atena anch’essa denominata Hygièia [20].

 

È probabilissimo che la sovrapposizione del culto Atena su quello di Igea ad Atene si sia verificata durante la celebre epidemia del 430 a.C. descritta da Tucidide, causata dal morbo della peste o di una febbre emorragica, che dall’Africa transitò per il Pireo per poi diffondersi in tutta la Grecia, durante la Guerra del Peloponneso.

Dalla sua origine guerriera la dea dagli occhi glauchi si tramutò col tempo nella divinità protettrice delle opere di pace tanto da venire considerata in qualità di genio tutelare dello stato, la maggiore dea della polis detta Poliàs (Πολιάς), e come tale venne venerata con gran rispetto ovunque tanto in madrepatria quanto nelle colonie. Accanto a suo padre Zeus definito Boulàios (Βουλαῖος) con l’epiteto di Boulàia (Βουλαία) o di Agoràia (Άγοραία), vegliava sul buon governo delle póleis e delle sue istituzioni, proteggeva le costituzioni e le leggi, controllava le alleanze liberamente stipulate. Come divinità poliade, venne appellata ovunque in con epiteti che designano i toponimi e le maggiori sedi locali del suo culto. In Tessaglia e in Beozia fu detta Itoniàs (Ἰτωνίας) ovvero “la dea di Itonos”, oppure Alalcomenèis (Ἀλαλκομενηῖς) “la dea di Alcomene”; in Arcadia, fu Alèa (Ἀλέα) “la dea di Alea”, nella regione della Troade fu venerata con l’epiteto di Iliaca o Iliàs (Ἰ’λιάς) la stessa divinità recentemente rinvenuta nel Tempio a lei dedicato a Castro[21]. Nelle tre città dell’isola di Rodi fu Kàmira (Κάμιρας), Ialusìa (Ἰαλυσία), Lindia (Λίνδία); a Delos venne, invece, detta Kynthia (Κύνϑία); fu chiamata Lemniàs (Λεμνίας) sull’isola di Lemno.

Ella proteggeva le città anche sotto un profilo igienico, purificandone l’aria dai miasmi mortali garantendo così facendo il mantenimento e della salute pubblica allontanando le malattie e le infermità da guadagnarsi l’epiteto di Apotropàia (Ἀποτροπαία), favorendo, come suo padre Zeus, il moltiplicarsi e il perpetuarsi delle genti e delle famiglie in quanto Fràtria (Φρατρία) e Apaturìa (Ἀπατούρια).

Atena personificò non soltanto il valore della migliore strategia d’intervento ma anche, o soprattutto, la virtù intellettuale per antonomasia perché, in quanto figlia di Zeus e di Metis, venne personificata di volta per volta con la sapienza (σοφία), con la filantropia (ϕιλανϑρωπία), con la saggezza (φρόνησις), con la protezione (προστασία) ma soprattutto con la prudenza intesa come “capacità di autocontrollo e di riflessione” (σωφροσύνη).

Atena inventò la tromba, in Beozia invece l’aulos e il diaulos (strumenti musicali aerofoni a una o due canne), l’aratro, il vaso in terracotta e il tornio per produrlo, il giogo per i buoi, il rastrello, il morso per i cavalli, il cocchio e l’arte per costruire imbarcazioni. Fu la prima a insegnare il calcolo e la scienza dei numeri. Fu lei a proteggere tutte le arti domestiche femminili come il danzare[22], tessere, il filare, il cucinare che vennero designate come “opere di Atena” (ἔργα Ἀϑηναίης). Estese in particolar modo la sua protezione sulle donne elargendo loro la fecondità nel matrimonio, la capacità di vegliare sulla salute e la capacità di crescere la prole per cui assunse il nome anche di Kurotròphos (Κουροτρόϕος) ovvero “nutrice”, protesse anche le attività più prettamente maschili come la produzione artigianale e l’agricoltura. Da lei l’Attica aveva appreso la coltura dell’olivo il cui prodotto ebbe non unicamente una valenza alimentare ma anche simbolica e soprattutto iatrica.

Riguardo alle varie festività del culto attico dedicate alla dea vanno ricordate le Oscofòrie (Ὀσχοφόρια) che si celebravano al tempo della vendemmia, sul finire dell’anno agricolo. Queste consistevano in una lunga processione che, movendo dal tempio ateniese di Dioniso, arrivava a quello di Atena Scirade (Ἀϑηνᾶ Σχίράς) al Falero, atto religioso che ricordava la mitica partenza di Teseo e dei giovani destinati a placare la fame del Minotauro. Il corteo in processione era preceduto da due fanciulli vestiti con l’antico chitone attico recanti in mano dei tralci di vite carichi di grappoli detti (ὀσχοϕόροι). All’inizio di ogni anno agricolo, invece, che corrispondeva alla fine dell’inverno, quando le piante cominciavano a germogliare le messi, si festeggiavano le Procaristèrie (Προχαριστήρια), ovverosia dei riti di ringraziamento nei quali tutti i magistrati della polis erano obbligati a offrire dei sacrifici ad Atena, a Demetra e a Core. Nel mese di Pianepsione (Πυανεψιών) corrispondente a fine ottobre, in occasione delle Efèstie (Ἡφαίστια) festività dedicate al culto di Efesto, quando aveva inizio il lavoro di tessitura del peplo destinato ad Atena, al quale compito di tessitura e ricamo attendevano le donne e le fanciulle dette ergastine (ἐργαστῖναι) poste sotto la stretta sorveglianza della sacerdotessa della dea delle due ragazze prescelte nelle festività delle  Arrefòrie (Ἀρρηφόριαι)[23].

Al principio del periodo estivo tra maggio e giugno, nel mese di Targelione (Θαργηλιών) avevano luogo le Plintèrie (Πλυντήρια) e le Callintèrie (Καλλυντήρια): in questa occasione, i Prassiergidi ovvero i membri di un apposito sodalizio religioso dopo aver compiuto alcune funzioni espiatorie, svestivano del peplo la statua della dea e serravano il tempio ai visitatori. Nel mese successivo di Sciroforione (Σκιροφοριών), seguivano le festività delle Arrefòrie (Ἀρρηφόριαι) durante le quali si sceglievano due fanciulle, di alto lignaggio e di età compresa fra i sette e gli undici anni, che venivano incaricate, per gran parte dell’anno, di porsi al servizio di Atena Poliade sull’Acropoli di Atene. Nel periodo di Ecatombeone (Ἑκατομβαιών) metà luglio metà agosto, infine, si celebravano le famose Panatenee (Παναθήναια) dedicate al sinecismo attico, voluto e protetto dalla dea. Queste solenni festività si distinguevano in Panatenee ordinarie, che avean luogo ogni anno, e in Grandi Panatenee, che ricorrevano, invece, nel terzo anno post olimpiade. Le feste consistevano principalmente in agoni ginnici, e gare musicali e poetiche. Culminavano, il ventottesimo giorno di Ecatombeone intorno alla metà di agosto, con la grande processione che portava in dono alla dea il magnifico peplo tessuto e ricamato dalle fanciulle ateniesi.

I primi documenti della presunta iconografia di Atena furono rappresentati da una categoria di rozzi idoli cui doveva apparteneva il cosiddetto Palladion (Παλλάδιον)[24], citato nell’epopea omerica, venerato come indispensabile talismano protettore e garante della libertà di Troia. È probabile che statuette simili esistessero in molti arcaici luoghi di culto della Grecia preistorica e protostortica. La loro presenza fu documentata in varie poleis prima fra tutte Atene, dove era conservata all’interno del tempio dell’Eretteo, a Sparta, dove veniva venerata sotto il nome di Chalchiòikos (Χαλκίοικος) che significava “dal bronzeo tempio” a Pergamo ma anche altrove. La divinità era rappresentata in piedi con le gambe serrate, col corpo bloccato in una compostezza poco plastica, in attitudine di difesa e/o di attacco, con lo scudo imbracciato e la lancia pronta a essere scagliata. Doveva trattarsi di primordiali idoli lignei detti xoàna (ξόανα) e derivati molto probabilmente da antichissimi trofei antropomorfi che si riteneva avessero poteri miracolosi e apotropaici.

Insieme a questa tipologia di statuette se ne aggiunse, successivamente, un’altra in cui la dea comparve assisa così come doveva apparire l’Atena Poliade descrittaci da Omero nell’Iliade. Assise[25] erano anche le statue successive descrittaci da Strabone[26] a Focea e a Chio oltre alle note Atena Alea di Tegea, la Ergane di Eritre e le famosissime statue dell’Acropoli di Atene, una posta davanti l’Eretteo opera dello scultore attico Endeo che la tradizione voleva fosse stato un discepolo del mitico Dedalo e l’altra l’Atena Parthènos (Αθηνά Παρθένος) ovvero “Atena la vergine” scolpita da Fidia nel 438 a.C di cui parleremo nel dettaglio più avanti.

La tipologia assisa non ebbe, però, grande fortuna nell’iconografia della dea, alla quale si preferì l’atteggiamento in piedi che sarebbe divenuto, via via, sempre più plastico. Mentre avveniva lo sviluppo di questa prevalente tipologia scultorea di Atena combattente in atto di scagliare la lancia, sopravvenne un altro motivo che la raffigurò si in piedi e armata ma in posa di calma vigilanza. Subentrò poi nell’immaginario collettivo un’altra postura che fu presente unicamente nel caso di Atena Hygièia. Fattole deporre lo scudo la si immortalò col gesto della richiesta dell’offerta tramite la mostra del palmo aperto della sua mano destra. Successivamente venne raffigurata “orante”[27] e soprattutto in atteggiamento pensieroso atteggiamento che la abbinò all’esercizio della filosofia.

La famosa statua crisoelefantina d’oro, avorio, legni e metalli preziosi che Fidia aveva scolpito per il Partenone nel 438 a. C., era simile alla tipologia più diffusa. Pausania nel primo libro della sua Descrizione della Grecia la descrisse ritta, vestita d’una lunga tunica talare, con l’egida e l’elmo crestato con un cavallo raffigurato sopra di esso. Sui tre cimieri si trovano anche una sfinge, che rappresentava la grande sapienza degli Egizi, e dei grifoni alati. La dea si appoggiava con la mano sinistra allo scudo posato a terra, dietro il quale svolgeva le spire il mitico serpente[28] Erictonio o Erittonio[29]. Il suo braccio destro sosteneva una statuetta della “Vittoria”, il cui peso era sorretto da una piccola colonna. La sua lancia era appoggiata alla spalla sinistra. Sull’esterno dello scudo era stata cesellata in rilievo una amazonomachia, sulla parte interna, invece, una titamomachia. Sulla bordura dei suoi sandali compariva una lotta di Centauri e Lapiti e sul prospetto del piedistallo la nascita di Pandora. Secondo Plinio[30] la statua era alta, senza il piedistallo, 26 piedi (circa 12 metri) ed erano occorsi, per costruirla, 40 talenti d’oro.

Con l’avvento della civiltà romana[31] Atena cedette il posto alla sua alter ego italica Minerva[32] di discendenza molto presumibilmente etrusca[33], anche lei considerata dea della saggezza, della guerra scoppiata per giuste cause o per motivi di difesa, ma anche protettrice delle strategie, degli artigiani e dei musici e dello Stato. Svolse funzioni di ausilio medico col nome di Minerva Medica che a Roma venne venerata in un tempio situato mei pressi dell’Esquilino che da poco tempo a questa parte è stato riscoperto dagli archeologi solo in qualità di un antico ninfeo[34].

LA NOTTOLA DI MINERVA DIVENUTO IL SIMBOLO CIVICO DI GALATINA

 

Il suo animale sacro continuò a essere la civetta ma, alcune volte, anche il gufo che nella mitologia greca era sacro, invece ad Ares. Anche per i Romani era considerata colei che aveva inventato i numeri dei quali le era sacro il numero cinque. I Romani celebravano la festività dal 19 al 23 marzo nei giorni denominati Quinquatria[35]. Una versione più contenuta, le Minusculae Quinquatria, aveva invece luogo dopo le Idi di giugno, il 13 giugno, con la presenza di flautisti, strumenti molto usati nelle sue cerimonie religiose a ricordo della loro invenzione.

A Roma come in Grecia venne particolarmente venerata con vari epinomi al punto che le costruirono numerosi templi in tutta l’urbe. In epoca tarda il suo culto assunse caratteri sincretistici, come per molte altre divinità, per cui la dea venne assimilata a Igea per la scelta della migliore terapia di cura, Vittoria-Bellona con la presenza di due poderose ali e Fortuna se nella sua iconografia la si riscontrava reggente una cornucopia. Stranamente comparve come in Etruria sugli specchi che le donne utilizzavano per imbellettarsi probabilmente per la loro azione riflettente atta a valutare la loro condizione fisica. La sua clemenza durante le votazioni propendeva sempre a titolo di garanzia[36] a favore del presunto colpevole.

A Roma il calculus Minervae era la pietra di Minerva, cioè il voto decisivo in un organo collegiale che fosse in stallo per parità di voti su una proposta, equamente approvata e avversata dal medesimo numero di componenti[37].

 

  1. Atena Hygièia: la divinità che proteggeva dalle malattie

Dopo aver lungamente trattato l’epigenesi mitica di Atena è bene soffermarsi a esaminare nel dettaglio quale fosse l’Atena venerata nell’antico comprensorio di Galatina e, al contempo, ricercare le tracce della sua presenza e del suo culto impresse indelebilmente, a livello religioso extraliturgico, nell’antico rito di guarigione del tarantismo, tramite l’ausilio di una terapia a carattere coreutico musicale, che ha reso Galatina, etnologicamente e folkloristicamente parlando, famosa e unica in tutto il mondo.

Senza ombra di dubbio, soprattutto per la sopravvivenza nel rito di catarsi e guarigione della pratica iatromantica dell’incubatio, la divinità venerata in quel di Galatina non potette non essere che Atena Hygièia, che in epoca romana sarebbe stata ricordata con gli appellativi di Salus o Valetudo.

Quali sono, però, le prove storico-scientifiche a supporto di questa teoria?

Le prove a favore di questa tesi risultano non solo essere molteplici ma anche abbastanza consistenti sotto una lente d’indagine storico-religiosa. In primis va detto che difficilmente in un luogo ben determinato come quello della penisola salentina – una terra protesa naturalmente verso l’Ellade arcaicamente particolarmente affezionata al culto della dea – vi sarebbe potuta essere una duplicazione cultuale della stessa figura religiosa senza ipotizzare una differenziazione del proprio intervento specialistico.

PICCOLA EFFIGE IN BRONZO RAFFIGURANTE L’ATENA ILIACA DI CASTRO

 

Così se Castro[38] aveva goduto di antica fama per il grande tempio dedicato alla sua Athena Iliaca e Otranto a un altro santuario dedicata a un’Athena ancora da specificare ma molto probabilmente legata al culto delle acque fluviali, come pure in quel di Santa Caterina al bagno col fiumiciattolo che ne richiama la presenza. Anche il richiamo semantico presente nel nome del paese di Minervino di Lecce rimanderebbe ad una radicata presenza cultuale sul suo territorio. Nel comprensorio galatinese molto difficilmente avrebbe officiato una dea Athena presente altri luoghi seppur limitrofi senza pretendere che la divinità in questione si offrisse ai suoi adepti con una propria peculiarità di culto, caratteristica che per il territorio in cui sarebbe sorta la città di Galatina si sarebbe avuta, con buona probabilità all’interno di un antico santuario, usualmente creduto un semplice Athenaion, ma verosimilmente legato a doppio mandato al culto di Asclepio e dei suoi paredri[39], un vero e proprio Asklepieion, dove l’Atena locale ebbe modo di trovare collocazione con ben altre  specifiche finalità d’intervento strategico.

LA NUDA VERITÀ ESCE DAL POZZO, JEAN-LÉON GÉRÔME, 1896,

 

Risultano infatti esserci elementi e corrispondenze inoppugnabili tra antico culto asclepieo e tarantismo, come la presenza del pozzo (cisterna) dalle acque curative divenute poi dopo la cristianizzazione forzata popolarmente intese come miracolose, la vicinanza del luogo di cura extraliturgico (la famosa casa di san Paolo) ad un tempio liturgico (la chiesa Matrice[40]), la presenza di alcuni atti propiziatori pre e post ricovero religioso, la mimica coreutico-catartica delle tarantate durante il rito di richiesta guarigione, la presenza e il comportamento dei parenti delle tarantate o dei tarantati in loco, l’utilizzo di determinati strumenti musicali atti a scatenare la scazzicatura soprattutto quelli a percussione, l’applicazione diagnostica della cromocritica tramite la scelta delle zacareddhe[41], la presenza nel tarantismo di alcuni animali simbolici considerati emissari della malattia proveniente dal numinoso (tarantole, serpenti costrittori e scorpioni), la corrispondenza astrologica in occasione della data della festività, l’azione iatroimantica dei richiedenti la grazia al santo con esplicazione di vera e propria ira hominum e in ultimo ma non certo per ordine d’importanza la figura iconograficamente similare e sovrapponibile di san Paolo col nume pagano Asclepio.

MONUMENTO AI CADUTI DI GALATINA DEDICATO AD ATENA

 

In particolar modo è evidente la somiglianza della la fenomenologia rituale riportata anche ne La Terra del rimorso di Ernesto De Martino delle reminescenze dell’antico rito dell’incubazione onirica, rito che nel suo saggio venne documentato dalle splendide immagini in bianco e nero scattate dal fotografo italiano neorealista Franco Pinna che immortalarono tal tarantata Filomena di Cerfignano distesa sotto l’altare della cappella sconsacrata di san Paolo mentre cercava di addormentarsi per ricevere in sogno la terapia di cura migliore da parte del santo utilizzando le stesse movenze e gli stessi atti propiziatori effettuati negli antichi santuari di Asclepio di tutto l’ecumene antico.

Riprendendo, poi, ad analizzare l’utilizzo iatrico degli classici, animali totemici del tarantismo non si può non rimanere stupefatti nell’osservare come tutti questi ebbero una notevole valenza terapeutica nell’arte medica dell’antichità mediterranea. Nello specifico i serpenti costrittori, scurzune e sacara richiamano ora alla mente il loro utilizzo all’interno delle varie tholos dei santuari di Asclepio[42] e Igea dove venivano appositamente allevati in quanto si credeva che il loro morso succhiasse via il male provocato, lo scorpione anticamente utilizzato come medicamento per le afflizioni oculari una volta ridotto in polvere, la taranta (il ragno) per gli effetti emostatici della sua ragnatela in caso di ferite da taglio procurate in battaglia. Precedentemente a questo studio la dea Atena la si era approssimata al tarantismo unicamente per la vicenda mitologica della sfida che questa ebbe con Aracne e per la metamorfosi da questa subita per aver offeso la dea che l’aveva tramutata in uno degli animali totemici del tarantismo, la taranta.

 

  1. Atena, il tarantismo e il ripudio mitologico nella ricerca di Ernesto De Martino.

 

A questo punto della presente indagine ermeneutica, qualche critico o studioso del tarantismo di salda fede demartiniana potrebbe obiettare chiedendosi per quale motivo Ernesto De Martino, non abbia, con la sua competenza in materia, avvalorato tale ipotesi optando, invece, per una origine del fenomeno in età medievale?

A tale lecita domanda si potrebbe rispondere tirando in causa in primis la famosa disputache vide De Martino contrapporsi al filosofo milanese Remo Cantoni riguardo la considerazione del cosiddetto primitivo, anche da un punto di vista religioso, quindi mitologico.

De Martino, nonostante avesse in gioventù usufruito della competenza del suocero l’archeologo Vittorio Macchioro, suo vero e proprio “nume tutelare” che lo portò all’inizio a valorizzare la bellezza e la complessa attualità del mito greco arcaico[43], nell’evoluzione del suo pensiero critico si trovò più volte costretto a barricarsi dietro stereotipi utili alla propria connotazione filosofica, come l’aver voluto abbracciare lo storicismo idealista crociano di matrice occidentalista e separatista.

Egli accusò Cantoni – che a sua volta lo rimproverò di palesare nelle sue teorie poco spessore filosofico – di irresponsabilità perché aveva preteso di poter vivere l’arcaico nel presente o addirittura di tesserne le lodi. Per De Martino che permaneva ancorato ad una visione cristiana del tempo lineare, pur avvalorando la presenza di un pensiero primitivo in epoca contemporanea, riteneva essere il primitivismo culturale la causa di tutti i mali dell’Occidente.

Fu molto probabilmente anche il suo complesso e contraddittorio percorso politico  che lo vide dapprima convintamente aderire alla scuola di Mistica Fascista per poi avvicinarsi timidamente al liberalismo crociano e poi ancora dopo al socialiberismo di Tommaso Fiore e amici, tramutatosi in piena adesione clandestina a Giustizia e Libertà d’ispirazione azionista, adesione a sua volta abbandonata per aderire al Partito del lavoro, poi ancora al PSI di Nenni per cambiare ancora collocazione e aderire in ultimo al partito comunista nel quale sopravvisse alle antipatie di Togliatti grazie al “lasciapassare Gramsci”  e all’adesione all’etnologia progressiva di matrice sovietica di Sergej Tolstov  molto apprezzata dallo stesso Stalin –  che lo costrinse a rigettare d’ufficio ogni possibile eco mitologica che lo avrebbe fatto nuovamente avvicinare all’irrazionalismo macchiorano guénoniano e eliadeiano.

Pur avvicinandosi, poco prima della pubblicazione della Terra del Rimorso al tema del dionisismo e coribantismo mitici leggendo il saggio dello storico delle religioni francese Henri Jeanmaire Les mystères de Dionysos ed des Corybantes pubblicato nel 1949 sul Journal de Psychologie normale et pathologique pur tenuamente ammettendo all’inizio alcuni aspetti sincretici del tarantismo con alcuni antichi riti catartici pagani, successivamente escluse con un breve scritto intitolato Tarantismo e Coribantismo comparso nel 1961 sulla prestigiosa rivista universitaria “Studi e materiali di storia delle religioni” qualsiasi possibile parallelismo:

 

Ovviamente il confronto tra tarantismo pugliese e coribantismo, per quanto abbia fruttato una migliore comprensione del modo di esecuzione dei riti coribantici e una più perspicua interpretazione di alcuni passi di Platone (piccolo ma sicuro frutto che da solo mostra l’opportunità del confronto), non autorizza affatto, neanche in via ipotetica, a stabilire rapporti di dipendenza storica fra l’uno e l’altro.[44]

Pur apparendo affini ad un primo superficiale sguardo, le due modalità catartiche erano storicamente del tutto differenti. Per De Martino l’origine del tarantismo risaliva al tempo delle crociate con nessun esplicito riferimento, però, alla terra di Puglia:

Quanto alla voce taranta, al diminutivo tarantula (a cui risalgono tutti i continuatori romanzi indicanti probabilmente diverse varietà di ragni) e all’altro più tardo e popolare diminutivo tarantella, tutto ciò che si può ragionevolmente dire dal punto di vista etimologico è la connessione di taranta con Taranto, almeno sin quando non si ritrovi qualche nuovo documento che consenta di rivedere la quistione. La taranta e il suo morso velenoso appaiono per la prima volta nelle cronache medievali in connessione all’urto fra Occidente e Islam, ma senza riferimento alla Puglia e all’esorcismo musicale.[45]

 

Ma quali furono le plausibili ragioni di questo suo atteggiamento, per certi versi inspiegabile e contraddittorio?

Molto presumibilmente se avesse interpretato il tarantismo e la sua genesi sotto la lente dell’ermeneutica del mito classico, con tanto di presenza di divinità specialistiche atte alla cura e alla guarigione sincreticamente e religiosamente subentrate le une alle altre (Asclepio-San Paolo, Atena IgeaVergine della luce o altra peculiarità mariana) sarebbe stato obbligato, per certi versi ad abiurare i canoni progressivi della sua etno-antropologia e i fondamenti della sua stessa etnometapsichica, unitamente a quelli propri di un’azione emancipatrice politica delle masse contadine del meridione d’Italia; masse costrette a continuare a subire sperequazioni economiche irrisolvibili e a permanere in una stagnante situazione di assoggettamento ad un numinoso dispotico capace di ammansire nella sua ciclicità fenomenica l’ira hominum riconducendola nell’alveo di una devozione rurale, seppur in via di estinzione, come avrebbe compreso tempo dopo proprio all’interno della cappella di san Paolo a Galatina osservando le tarantate, che avrebbe  generato l’ultima sua opera, uscita postuma, intitolata  La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali.[46]

Inoltre, l’analisi del mito classico collegato al tarantismo avrebbe dato in parte ragione anche a Levy-Bruhl, al suo prelogismo e alla sua “legge di partecipazione” ma al contempo avrebbe avvalorato anche le tesi anche a Remo Cantoni con la sua idea di inclusione crono-antropologica del primitivo nel contemporaneo, una permanenza da non condannare come regressione culturale ma da proteggere come “peculiarità contrastante” dell’Occidente progredito e cristiano.

Immergersi nel mito dei Mysteria[47] lo avrebbe obbligato a indagare anche l’esoterismo magico presente nei riti d’iniziazione presenti in organizzazioni frequentate dalle sfere più colte del paese come “La Massoneria” e non soffermarsi a indagare strumentalmente solo il magismo presente unicamente nelle zone più arretrate dell’Italia, soprattutto quelle meridionali.

ASCLEPIO – SAN PAOLO: CORRISPONDENZE STATUARIE

 

Fu dunque utile per lui rimanere fedele alla sua scelta politica e utilizzare il corollario folklorico del luogo per leggerlo in chiave gramsciana considerando che tutto il costrutto, a cominciare dal culto di San Paolo che a Galatina[48], a differenza di quello di san Pietro era stato introdotto e sovrapposto solo in età moderna per volontà per bonificare cristianamente, una buona volta per tutte, il “luogo magico della cura” che aveva generato il peana καλή αθηνά che avrebbe a sua volta dato origine al toponimo ovverosia un vecchio pozzo, o meglio ancora, una vecchia cisterna dalle acque medicamentose facente parte ad un arcaico santuario pagano. Il tarantismo è stato, con buona pace di De Martino e dei suoi seguaci, la riprova dell’inapplicabilità universale dell’editto di Tessalonica nelle remote terre del Salento dove mutò pelle mantenendo inalterate le sue caratteristiche di fondo, prima fra tutte la volontà di un nume pagano/santo cristiano iconograficamente molto simile che prima colpisce, poi misericordiosamente guarisce il suo prescelto.

Se è indubitabile che Veritas filia temporis, di conseguenza la presunta “inviolabilità” del contenuto storico della Terra del Rimorso meriterebbe una più degna reinterpretazione partendo in primis, proprio dal significato nascosto del toponimo Galatina che Ernesto De Martino trascurò volontariamente di esaminare.

 

 RINGRAZIAMENTI

L’autore devolve i suoi più sentiti ringraziamenti alla dott.ssa Emanuela Zitti per la supervisione critica al testo.

  

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Note

[1] Col nome Galatena o Galathena è stata denominata nel Salento una piccola sorgente d’acqua dolce defluente in località Santa Maria al Bagno frazione balneare del comune di Nardò, situata nei pressi dei resti di una roccaforte difensiva, ora denominata “Le quattro colonne” per la forma assunta dal complesso difensivo dopo i crolli che hanno rovinato l’integrità della struttura facendo restare in piedi i quattro torrioni situati agli spigoli del complesso a pianta quadrata. Non si esclude la possibilità che in loco in passato potesse esistere qualche edificio di culto dedicato alla dea il cui culto in terra di Messapia era diffusissimo come ricordano altri toponimi o luoghi. A tal proposito si ricordi il tempio di Atena Iliaca di Castro, il “Colle della Minerva” dove vennero decollati gli 800 martiri di Otranto e il nome del paese di Minervino di Lecce.

[2] Galatea dal greco “Γαλάτεια” che significa “lattea”, ma questa interpretazione sembra un’etimologia popolare data dalla somiglianza con l’aggettivo γάλακτος, γαλακτεία, derivato da γάλα “latte”, mentre probabilmente la vera origine del nome potrebbe derivare da γαλήνη “calma” e per estensione terminologica “la dea del mare calmo”. Galatea, infatti, era nella mitologia greca, una delle cinquanta ninfe del mare, dette Nereidi, la cui abituale residenza si trovava negli abissi marini dove insieme al loro padre Nereo proteggevano e assistevano i marinai nel loro peregrinare.

[3] Tesi sostenuta dallo studioso del tarantismo di salda fede demartiniana, Maurizio Nocera.

[4] A onor del vero la possibilità che il toponimo Galatina derivasse dalla frase “Bella Atena” è stato sostenuto con perizia documentale  dal prof. Rino Duma in un approfondito articolo comparso nel 2016 sulla rivista telematica “la Tela di Aracne” ma anche dallo studioso magliese Oreste Caroppo nell’articolo.http://naturalizzazioneditalia.altervista.org/i-celti-galli-galati-in-salento/. Entrambi gli studiosi, però, si sono soffermati a tradurre unicamente la corrispondenza lessicale non collocandola, come invece questo lavoro di ricerca tende a fare, in un ambito iatrico-religioso da cui sarebbe derivato il rito coreutico curativo del tarantismo.

[5] G. Semerano, Le origini della cultura europea. Rivelazioni della linguistica storica, Firenze, L.O. Olschki Editore 1984, pp. 179-180.

[6] Nella mitologia greca, Oceano era un titano, nato da Urano (il cielo) e Gea (la terra). Cresciuto aveva preso in moglie di Teti, con la quale generò i tremila Potamoi e le tremila Oceanine. Egli possedeva un’inesauribile potenza generatrice, non diversamente dai fiumi, nelle cui acque si bagnavano per un auspicio di fecondità le fanciulle greche prima delle loro nozze, e a tal motivo molti fiumi o corsi d’acqua furono considerati come i capostipiti di molte antiche famiglie. Oceano non era, però, un comune dio fluviale comune, perché non era, di fatto, un fiume comune. Quando tutto aveva già avuto inizio da lui, lui continuò a scorrere agli estremi margini della terra, rifluendo in se stesso dando vita a un circolo ininterrotto. Il mare, i fiumi, i torrenti, i rigagnoli, le sorgenti e le paludi continuavano a scaturire dal suo essere fluente. Anche quando il mondo si trovò sotto il dominio di Zeus, egli solo poté rimanere al suo posto originario, oltre al quale si credeva esistesse solo Erebo, il buio. Tuttavia anche Teti e non solo Oceano rimasero nel loro luogo primitivo tanto che teti venne appellata col titolo di “madre”. Per ira reciproca la coppia primordiale decise di non procreare più e a Oceano rimase soltanto la facoltà di fluire in modo circolare in modo da poter alimentare le sorgenti, i fiumi e il mare unitamente alla subordinazione al potere di Zeus. A differenza dei suoi fratelli, Oceano non prese parte alla titanomachia, e non fu quindi imprigionato nel Tartaro. Oceano veniva raffigurato come un anziano a torso nudo, semicoperto da un manto e con due chele di granchio tra i capelli. A volte era rappresentato accompagnato da Teti.

[7] L’enigma dell’epiteto permane irrisolto in quanto potrebbe significare tanto “nata da Tritone” quanto “nata presso il lago Tritone” nell’Africa Settentrionale come avrebbe addirittura riportato lo stesso Omero.

[8]   Cfr. Omero, Ode a Pallade Atena.

[9] Nella Teogonia di Esiodo, Metis risultò essere la prima compagna di Zeus anche se Atena sarebbe nata quando Zeus era già sposato con sua sorella Era. Con nascita di Atena, sua madre Metis scomparve dall’orizzonte umano, mantenendosi sempre, però, dentro Zeus in qualità di intelligenza e sapienza primordiale.

[10] Ascia bipenne.

[11] Platone, Cratilo 407b.

[12] Efesto sarebbe stato, poi, riaccolto nell’Olimpo dalla misericordia di colui che non gli fu padre naturale ma soltanto zio e padre putativo perché fratello e sposo di sua madre Era.

[13] Alcuni mitografi sostennero però che avesse una testa sproporzionata dal corpo proprio per accentuare la sua sagacia.

[14]Cfr.  Platone Timeo 21 e ErodotoStorie 2:170-175.

12 Medusa era una fanciulla dotata dai una splendida chioma, che, amata da Poseidone, aveva provocato la gelosia di Atena che per punizione aveva trasformato i suoi capelli in serpenti e reso così micidiale lo sguardo da impietrire chi avesse voluto sostenerlo. Inviato dalla dea, Perseo aveva ucciso il mostro il cui volto orribile, procurava terrore e rovina di ogni nemico, con l’abile stratagemma del riflesso dello sguardo tramite il suo scudo. Atena aveva poi fissato nel centro del suo scudo la testa di Medusa a mo’ di trofeo come era in uso nelle antiche popolazioni europidi che consideravano la testa la sede naturale della psychè (ψυχή), ovverosia, dell’anima/energia del nemico.

 [16] Atena in battaglia consigliò i guerrieri greci che le furono particolarmente devoti e cari come Odisseo e Diomede.

[17]La dea aveva altri epiteti, oltre a quello sovra menzionati. I più diffusi furono: Leitis (dea della bellezza), Peana (la misericordiosa), Zosteria (della cintura) quando era armata per la battaglia, Anemotis (dei venti), Promachroma (protettrice dell’ancoraggio), Pronea (attinente al pronao), Pronoia (della provvidenza), Xenia (la ospitale), Oftalmitis (dell’occhio), Cissea (dell’edera), Agoraia (delle piazze), Coronide (la cornacchia) e in quest’ultimo caso ciò lascia propendere a una confusione e sovrapposizione originaria con la madre di Asclepio.

[18] Sulla base di una statua votiva dedicata ad Atena alta m. 0,60 con base 0.09 rinvenuta a Epidauro in prossimità delle terme di Antonino (senatore Sex Iulius Maior Antoninus) ora custodita presso il Museo Nazionale di Atene, fu apposta una dedica risalente al 304 d.C. da parte di tal Marco Giunio Neoretos, sacerdote di Asclepio Soter e daduco di Eleusi, quindi di sangue ateniese ad Atena Hygieia. Cfr. IG 4², 428.

[19] Plutarco, Le vite parallele. Pericle 13, 13.

[20] Pausania, Periegesi della Grecia,1, 23, 4.

[21] La statua della dea mutila della testa del tempio della Minerva di Castro venne rinvenuta dal Prof. Archeologo Amedeo Galati nel 2015, all’epoca supervisore degli scavi dell’equipe del prof. Francesco d’Andria dell’Università degli studi del Salento, il noto archeologo nazionale famoso per le sue importanti campagne di scavi archeologici in Italia e all’estero, con l’ausilio di altri validissimi collaboratori.

[22] Fu anche la dea che impartì agli uomini la danza guerriera che infondeva coraggio prima della battaglia e precedeva gli scontri più importanti.

[23] Erano due fanciulle, di nobile famiglia (chiamate appunto ἀρρηϕόροι), fra i sette e gli undici anni, le quali restavano addette, per gran parte dell’anno, al servizio di Atena Poliade sull’Acropoli della polis.

[24] Callimaco nel suo inno: Per i lavacri di Pallade narra di una cerimonia argiva, che consisteva nel portare il Palladio ogni anno al fiume Inaco per lavarlo e riallestirlo.

[25] Numerose statuette votive di terracotta ritrovate in Attica riproducevano lo schema di tali primitive statuette in atteggiamento assiso con gli attributi del πόλος, dell’αίγίς e del γοργόνειον.

[26] Strabone, XIII, 601.

[27] In atteggiamento orante si veda per esempio l’Atena di Velletri, ora al Museo del Louvre, attribuita alla mano dello scultore cretese Cresila di poco posteriore a Fidia.

[28] Il serpente potrebbe connetterla alla dea cretese dei serpenti, divinità domestica cui è affidata la protezione della casa o molto più verosimilmente con Igea la figlia di Asclepio di cui divenne l’ipostasi.

[29] Erittonio essere mitologico successe ad Anfizione divenendo il quarto mitologico re di Atene. Secondo Pausania era nato dall’unione di Efesto e Gea. Nella Biblioteca di Apollodoro risultava essere, invece, il figlio di Efesto ed Athena (o di EfestoAttide). Sposò la naiade Prassitea con la quale generò Pandione. Il suo nome secondo etimologie popolari, deriverebbe da ἔρις èris (contesa) e χθών chthṑn, (terra), oppure per quanto riguarda la prima parte da ἔριον èrion (lana, la stessa con la quale Athena si deterse dallo sperma di Efesto che questi aveva eiaculato sulla sua coscia). Un’altra tradizione vorrebbe invece significasse il nome terra dell’ericain quanto alcune leggende lo facevano derivare dall’azione di pulizia della dea Athena che facendolo cadere il lembo di lana sporco del seme del suo assalitore sulla terra, lo fece finire sulla sommità di un monte ricoperto di piante di erica. Gli avvenimenti della sua nascita furono i seguenti: Poseidone, ancora arrabbiato per aver perso il diritto di protezione sulla polis di Atene che era andata, invece, in dote ad Athena, aveva convinto Efesto del fatto che quest’ultima sarebbe andata a trovarlo per intrattenersi eroticamente con lui usando la scusa di farsi forgiare una nuova armatura. Atena recandosi effettivamente da Efesto con l’intenzione di farsi fabbricare delle armi nuove attirò le sue morbose attenzioni. Efesto dopo aver cercato di possederla iniziò a inseguirla. Athena fuggì e quando Efesto riuscì a raggiungerla, non si lasciò possedere. Il dio riuscì solo a eiaculare sulla sua coscia. Dopo essersi ripulita dallo sperma con un panno di lana lo scagliò a terra con ribrezzo. A causa di questo gesto Gea (la Terra) divenne gravida e dovette generare Erittonio che rispecchiando l’aspetto deforme del padre nacque con due serpenti al posto delle gambe. Athena vedendolo ne ebbe, però, pietà e lo chiuse in una cesta che affidò ad AglauroPandroso ed Erse (le figlie di Cecrope), imponendo loro di non aprirla. Le ragazze però, incuriosite disobbedirono alla dea che, per punizione le spinse a gettarsi dalla rocca di Atene. L’unica ad essere risparmiata dall’amara sorte fu Pandroso, che aveva distolto all’ultimo momento lo sguardo dalla cesta. Successivamente Athena cominciò a occuparsi di Erittonio, nutrendolo e allevandolo nel recinto dell’Eretteo. Una volta cresciuto, riuscì a scacciare l’usurpatore Anfizione divenendo re di Atene.  Ordinò che venisse posta nell’Acropoli una statua lignea di Athena istituendo con quell’atto le feste Panatenee che secondo Plutarco, invece, sarebbero state create non da lui ma da Teseo. Poi prese in moglie la naiade Prassitea, dalla quale nacque Pandione. Il fatto che Erittonio fosse stato nutrito nel recinto chiamato di Eretteo, ha dato forse adito alla confusione che spesso vi è tra Erittonio e il nipote Eretteo. A Erittonio venne accreditata l’introduzione del denaro e l’invenzione della quadriga per celare le sue gambe serpentiformi.

[30] Plinio, NatHist., XXXVI, 18.

[31]Pare che Minerva non fosse conosciuta nei primi stadi della religione romana, per la mancanza di un flàmine ovvero di colui che accendeva il fuoco sull’ara dei sacrifici con funzioni sacerdotali addetto al suo culto e dall’assenza di festività a essa dedicate. Nel più antico calendario sacro dei Romani: il suo nome comparve nel canto dei Sali, anche se è noto che questo venne introdotto solo dopo che Minerva sarebbe stata accolta nella religione pubblica romana. È probabile che il suo ingresso nel culto ufficiale dei Romani sia avvenuto quando era ormai finitala serie dei cosiddetti dei indigeti del tempo dei Tarquini.

[32] Benché sia così dimostrata l’antichissima appartenenza della dea alla religione etrusca, non pare per questo che Minerva debba ritenersi etrusca anche di origine. Il suo nome infatti risalirebbe probabilmente a lontane radici italiche. Colse nel segno l’ipotesi del filologo classico Georg Wissowa che ammise che patria d’origine della dea fosse stata la polis di Falerii, dove l’antico elemento latino-falisco aveva saputo e mantenersi vivo sotto l’elemento etrusco che si sovrappose poi a questo indigeno. Nella polis di Falerii le testimonianze antiche del culto di Minerva furono molto più numerose che altrove nella penisola italica. Da Falerii la dea sarebbe transitata nella religione etrusca e solo successivamente in quella romana entrando a far parte della famosa triade capitolina.

[33] Il termine Minerva fu probabilmente importato dal pantheon etrusco dove veniva denominata Menrva. I Romani ne confusero il nome straniero col loro lemma mens (mente) proprio per il fatto che la dea governava non solo la guerra, ma anche tutte le attività intellettuali.

[34] Va ricordato che i Ninfei anticamente svolgevano un ruolo devozionale atto alla cura.

[35] I primi cinque giorni successivi alle Idi di marzo, a partire dal diciannovesimo nel Calendario degli Artigiani

[36] Si trattava della traduzione latina dell’Athenas Psephos, il coccio che il presidente deponeva nell’urna per ultimo nella Bulè dei Cinquecento, l’organo legislativo nella Costituzione di Clistene, che pare esercitasse anche una funzione giurisdizionale. Tale definizione fu ricavata dall’esempio del leggendario voto di Athena in favore di Oreste, scritto da Eschilo ne: Le Eumenidi, voto che fu decisivo per mandare esente da pena capitale l’eroe che si era macchiato di matricidio.

[37] Stando a Tito Livio il numero dell’assemblea giudicante si aggirava intorno ai cinquecento.

[38] La divinità venerata a Castro era probabilmente molto affine all’Athena Poliade per l’ubicazione del suo tempio sull’acropoli e per il richiamo troiano del vestiario (presenza di un elmo di foggia frigia) e assenza dell’egida e le antiche gesta che legavano la fondazione della polis medesima a un nobilissimo eroe omerico di stirpe minoica presente in prima fila nelle vicende della guerra di Troia (Idomeneo o meglio Idameneo essendo il nome un oronimo) se non addirittura la presenza momentanea per approvvigionamento idrico e alimentare del mitico profugo Enea.

[39] Aiutanti di Asclepio che nel suo culto comparivano assisi accanto.

[40] Con l’avvento del cristianesimo tutti i santuari di Asclepio e Igea vennero distrutti e sulle loro rovine innalzati luoghi di culto della nuova religione. Molto singolare è la vicinanza del pozzo-cisterna pagano a pochi metri dalla chiesa matrice cosa che lascia supporre la preesistenza di un santuario pagano atto alla cura, dedicato molto probabilmente ad Athena Igea.

[41] Nastri colorati che erano utilizzati per comprendere la specializzazione della tarantola che aveva punto la donna o l’uomo richiedente l’intervento liberatorio di san Paolo. Potevano essere stati punti da taranta ballerina e allora dovevano danzare per ottenere la grazia, da taranta de partu e allora dovevano soffrire le doglie del parto, da taranta muta allora persistevano in uno stato comatoso, da taranta d’amore che causava malesseri a sfondo sentimentale, taranta d’acqua presente nella zona nord del Salento e via discorrendo.

[42] Primo fra tutti quello di Epidauro in Argolide.

[43] Nello studio dei Gephyrismi Eleusini suo argomento di laurea, aveva trattato ermeneuticamente la figura di vecchia Baubò la mitica moglie di Disaule colei che aveva inventato il ciceone che era divenuta con il passare del tempo una maschera in auge nei carnevali mitteleuropei.

[44] E. De Martino, Tarantismo e Coribantismo, “Studi e Materiali di Storia delle Religioni”, XXXII, 2: p.200.

[45] E. De Martino, La terra del rimorso. Il Sud, tra religione e magia, Milano, il Saggiatore 1997, p. 229.

[46] «de Martino ha avuto modo di assistere “in presa diretta”, sul terreno, al tarantismo in statu moriendi, alla sua disgregazione in atto, dietro la quale si cela la fine di un mondo, quello della cultura contadina d’impronta magica dell’Italia del Sud, “altra” rispetto ai canoni del cattolicesimo ufficiale». Cfr. M. Massenzio, Senso della storia e domesticità del mondo in Ernesto de Martino. Un’etnopsichiatria delle crisi e del riscatto, (a cura di) Roberto Beneduce, Simona Taliani, in «Aut aut» (2015), n. 336, pp. 39-60.

[47] I riti e i culti di Asclepio e Igea rientrano a pieno titolo nei grandi Mysteria ellenici.

[48] Cfr. AA.VV., Sulle tracce di S. Paolo. Verità storiche e invenzioni tarantologiche, Regione Puglia – Settore Pubblica Istruzione CRSEC, Galatina, Torgraf 2001;

 

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