Michelangiolo Ruberti di Alessano e il vitello a due teste

di Armando Polito

Figlio di Francesco, fu avviato dal padre alla carriera medica insieme col fratello Domenico. S’ignora la data di nascita che, comunque, dovrebbe collocarsi nel secondo decennio del XVIII secolo. Lo si deduce dal fatto che in Bartolomeo Ravenna, Memorie istoriche della città di Gallipoli, Miranda, Napoli, 1836, a p. 555 si legge che Francesco convinse pure Lazzaro Presta ad avviare agli studi medici il figlio, Giovanni, che sarebbe diventato famoso1, nato a Gallipoli il 24 giugno 1720.

Michelangelo si trasferisce nel 1733 a Napoli per frequentare i Regi Studi e consegue il dottorato nel 1741, anno pure del suo matrimonio con Marianna Angela Geronima De Cristoforo, che gli darà otto figli, cinque maschi (Francesco, Domenico, Gaetano, Ferdinando e Giacinto) e tre femmine (Teresa, Agnese e Anna Maria). Morì nel 1776.

Già nel corso degli studi universitari aderì all’Accademia delle Scienze (o Accademia Reale) voluta e poi sostenuta dal re Carlo di Borbone, anche se eccessivamente desolante appare il quadro della cultura napoletana di quel periodo tracciato da Michelangelo Schipa in Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, Luigi Pierro e figlio, Napoli, 1904. Certamente non antiquato, poi, cioè legato alle vecchie teorie, poteva essere definito il nostro, convinto gassendiano2 e tra i fautori della variolizzazione o vaiolizzazione3, metodo di protezione dal vaiolo adoperato prima della vaccinazione di Edward Jenner del 1796. Il re Carlo faceva sottoporre allo studio dei luminari dell’accademia alcuni degli esemplari più rari di animali che giungevano alla sua corte. Nel 1744 giunse dalla Calabria  un esemplare di vitello malformato nato morto. L’osservazione anatomica venne affidata proprio a Michelangelo ed essa divenne una lezione pubblicata l’anno successivo. Di seguito l’antiporta (un’incisione di Filippo De Gado4) e il frontespizio.

Nella Lezione il nostro  dopo un’accurata descrizione  (uno era il collo, uno il fegato, il pancreas, il cuore, una spina, e tutto uniforme, e proporzionato ad un solo compiuto animale. Tutta la mostruosità mecanica si osserva nel capo, quivi essendo perfettamente addoppiato5) e dopo aver rilevato l’impossibilità fisiologica della sopravvivenza (Di qui è, che somiglianti Mostri, o nascono estinti, come avvenne al nostro Vitello, o per poco tratto di tempo sogliono sopravivere6) si poneva una domanda e la relativa risposta (Ma qual erroneo, e vano disegno sarebbe stato quello della Natura, l’aver fatto macchine, che non possano conservarsi, che non reggono, o conducono a qualche fine, e che alle vere, ed armoniche leggi della medesima si ravvisa intieramente contrario? Sarebbe invero riputato stupido, e dappoco quell’Artefice, il quale sapendo a fondo il mestiere, che ha tra le mani, facesse ogni sforzo, ed impiegasse tutta la diligenza a fare artificiosamente scomposti, e mal connessi i quotidiani lavori.7). E subito dopo la conclusione (Rimane adunque a riguardare le macchine mostruose, come opere miserabili, ed imperfette della Natura da non poche accidentali cagioni attraversata, e interrotta …7).

La Lezione di Michelangelo dette subito vita ad un ampio dibattito con posizioni, prima ancora che scientifiche, filosofiche e, direi, nell’ultima testimonianza, religiose.

Dal Giornale de’ letterati per l’anno MDCCXLVI, Fratelli Pagliarini, Roma, 1746, riporto integralmente in formato immagine le pp. 26-29 perché il lettore prenda contezza, senza interferenze, di quella che è una recensione dettagliata ma che, secondo me, decisamente esagera nelle battute finali in cui svilisce la posizione del Ruberti riducendola sostanzialmente ad un plagio.

Da Novelle letterarie, Stamperia della SS. Annunziata, Firenze, tomo VII, 1746, colonne 406-407.

Se nella recensione precedente l’appunto finale è al Ruberti, qui ad essere accusato, tutto sommato, di presunzione e saccenteria è chi con lo pseudonimo di Lemuel Gulliver8 pubblicò l’opera, della quale segue il frontespizio (assenti nome dell’editore, del luogo e la data).

 

Integralmente leggibile al link https://books.google.it/books?id=oDpfAAAAcAAJ&pg=PA40&lpg=PA40&dq=lezione+su+d%27un+vitello+a+due+teste&source=bl&ots=zrxfIBRSuF&sig=ACfU3U32SlZ0sYArCWWVaax1R27PFn74lA&hl=it&sa=X&ved=2ahUKEwj77LGK8J3mAhWHjKQKHa3oA1IQ6AEwAHoECAUQAQ#v=onepage&q=lezione%20su%20d’un%20vitello%20a%20due%20teste&f=false, riporto l’inizio dell’opera dell’alessanese e di seguito di quella del suo critico perché il lettore si renda subito conto di qual è il registro di quest’ultima (a meno di una riga della prima, puntualmente citata, corrispondono, a mo’ di commento, ben tredici della seconda, delle quali la prima è in latino (citazione da Orazio, Ars poetica, 139: Parturient montes, nascetur ridiculus mus=Partoriranno i monti, nascerà un ridicolo topo).

L’opposizione più decisa al pensiero dell’alessanese , senza, però, che nome ed opera fossero citati, venne da un illustre collega napoletano ma oriundo calabrese: Gioacchino Poeta (1685 circa-1752), che ricoprì per quasi vent’anni la prestigiosa cattedra primaria di medicina pratica, ma si distinse anche nella poesia (fu membro dell’Accademia dell’Arcadia col nome pastorale di Clealgo Argeateo) e la filosofia.

Lo fece in Che la natura nell’ingeneramento de’ mostri non sia né attonita, né disadatta né i poeti gli finsero per calda, ed altera fantasia ma per uso d’artificiose allegorie, Naso, Napoli, 1747.

Dopo essersi soffermato su diversi esempi di esseri mostruosi (tra cui il vitello a due teste giunto dalla Calabria), il Poeta osserva genericamente: Ver’è ch’a noi, che non abbiamo la mente a guisa della volontà, ch’è infinita nelle sue voglie, ma corta, e picciola, e non molto feconda nel concepire, non è permesso il conoscere, se l’addoppiamento delle macchine simili, e di struttura, e d’usi uniformi nel corpo dell’uomo, e degli animali sia fatto dalla stessa natura per miglioramento d’alcune azioni, ed usi di quelle, ed il diminuimento per minore speditezza, e perfezion delle di lor particolari azioni9. E questa concezione finalistica emerge ancor più chiaramente quando conclude: Dico, che per le cose dianzi dimostrate non puossi corpo d’uomo, o d’animale chiamar deforme, e mostruoso, avendo gli organi, o macchine simili, ed uni formi di struttura sddoppiate, o diminuite nel lor numero, e non secondo la consueta sua organizzazione rizzate per colpa, o mal’oprare dell’imperfetta natura; ma ‘l difetto è nostro di non saper di sì strane macchine comprender’il mirabil magistero10.

Con tutto il rispetto per l’illustre medico (ma, non citando il nostro non si mostra più spocchioso del sublime Lemuel Gulliver?), mi chiedo se oggi, tornando in vita e prendendo atto delle mostruosità (comprese, a monte, le mutazioni genetiche) indotte dall’inquinamento ambientale, si schiererebbe, magari, a fianco di chi nega spudoratamente, anche di fronte a dati statistici schiaccianti, il rapporto causa-effetto, scaricandone la responsabilità su quel Dio in cui crede e mettendone in campo l’imperscrutabilità della volontà.

_________

1 Vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/27/giovanni-presta-ovvero-quando-eravamo-noi-a-chiedere-alleuropa/

2 Pierre Gassendi (1592-1655) combattè l’aristotelismo ed in generale il pensiero metafisico, rivalutando il metodo sperimentale  come unico processo di conferma di qualsiasi teoria scientifica.

3 Inoculazione nel soggetto da immunizzare di materiale prelevato da lesioni vaiolose di pazienti non gravi.

4 Il più famoso di una famiglia di incisori. Suoi, fra gli altri, sono in Giovanni Pietro Bellori, Le vite de’ pittori, scultori ed architetti moderni, Successore al Mascardi, Roma, 1728, i ritratti e le due tavole anatomiche di seguito riprodotte.

5 p. 3.

6 p. 4.

7 p. 13.

8 È il nome del protagonista de I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift (1667-1745); il nome del personaggio venne a lungo scambiato per quello dell’autore.

9 p. 33.

10 p. 35.

Cesare Rao di Alessano e il suo bestseller

di Armando Polito

C’è chi, purtroppo è un italiano, con un’affermazione stupida perché non rispondente in ultima analisi alla realtà di ogni tempo, ha detto che con la cultura non si mangia, dimenticando che il nostro attuale presente è figlio ingrato del nostro passato e padre snaturato del nostro futuro. C’è chi dimentica (o, peggio, finge di dimenticare …) per sua rozzezza, congenita o acquisita, chi preferisce dimenticare per una convenienza (più che convinzione …) ideologica che fatalmente si coniuga con il potere e l’interesse materiale (è il caso dell’autore del sublime aforisma citato all’inizio, autore che, comunque, può vantare un numero staripante di proseliti e, si sa, il numero fa la forza … bruta), c’è chi dimentica semplicemente perché rincoglionito dall’età o perché vittima di qualche malattia degenerativa del cervello,  chi, infine si difende rimuovendo un ricordo traumatico.

In quest’ultimo caso l’oblio rappresenta l’ultima spiaggia sulla quale non è detto che i fantasmi del passato prima o poi non possano ritornare. Se la perdita di una memoria in questo caso è un conforto, in altri è, invece, il suo recupero ad assolvere alla stessa benefica funzione. E, se il presente che viviamo è quello che è, il confronto col passato può essere non un piagnucolante raggomitolarsi sulle comuni miserie del momento in una sterile, qualunquistica lode del tempo che fu, ma una presa di coscienza per incrementare con solide basi e senza presunzione la propria autostima, un motivo, insomma, di rabbioso e orgoglioso riscatto, anche perché ogni rosa del passato ha avuto le sue inevitabili spine: tutto sta nel loro numero, che rende statisticamente più probabile la spiacevole puntura …

Ho avuto già occasione di parlare di qualche illustre quanto dimenticato figlio della nostra terra ed oggi è la volta di Cesare Rao di Alessano,  che fiorì nel XVI secolo1. Il mio scritto ha solo un intento divulgativo e, dunque, la parte del leone, la reciteranno le immagini.

Fa (o dovrebbe fare) un certo effetto, soprattutto ad un alessanese, la copertina della sua prima pubblicazione, L’argute e facete lettere di Cesare Rao di Alessano Metropoli Città della Leucadia nelle quali si contengono molti leggiadri Motti, e sollazzevoli Discorsi, uscita a Brescia (Bressa) per i tipi di Bozzola nel 1562.

L’arguzia e la facezia, ingredienti fissi della produzione del nostro che, unitamente ad una forma ridondante e ad effetto, autorizzano a considerarlo come un precursore della letteratura del secolo successivo, traspaiono  già da alcuni dettagli del titolo: Metropoli sembrerebbe sarcastico se inteso nell’accezione comune, ma ai tempi del Rao Alessano era, e lo sarebbe stata ancora per lungo tempo, centro di diocesi; con Leucadia, invece, più che di ambiguità si deve parlare di equivoco (non so quanto consapevole) perché qui è inteso come territorio attorno al Capo di Leuca, ma la Leucadia attestata è solo quella greca (Tucidide, III, 94, 1 ed altri) e non c’è nulla che provi che Leuca sia stata fondata da coloni provenienti da quella parte della Grecia. Da notare anche la “dialettalità” di Bressa per Brescia e Lisandro per Alessandro che conferiscono a questa prima edizione i connotati di quel prodotto che in dialetto salentino definiamo fattu ‘ccasa (fatto in casa), anche se, come in questo caso, in casa altrui …

Un titolo intrigante può essere il motivo del suo iniziale successo ma non è pensabile che esso continui se in qualsiasi pubblicazione non c’è dell’altro. È il caso di quest’opera del Rao, che conobbe un numero incredibile di ristampe, anche dopo che il letterato di Alessano era sicuramente morto, evento collocato, nella mancanza di dati certi, tra il 1587 e il 1609 da Nicola Vacca nel saggio segnalato col link in nota 1.

Nell’elenco che segue ho raccolto tutte le edizioni successive alla prima del 1562 (dati tratti dall’OPAC) riportando anche il frontespizio e il link quando la relativa edizione  è reperibile integralmente in rete. Per le altre opere vedi la nota 6.

1567, Girolamo Bartoli, Pavia (http://books.google.it/books?id=hRc8AAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:HsI4Krmtm9oC&hl=it&sa=X&ei=6q8yVLfZDaX4yQPw7oKwAw&ved=0CDsQ6AEwAw#v=onepage&q&f=false)

1573, Girolamo Bartoli, Pavia,  1573

1576, Girolamo Bartoli, Venezia

1584, Girolamo Bart(oli), Pavia (http://books.google.it/books?id=FP47AAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:HsI4Krmtm9oC&hl=it&sa=X&ei=6q8yVLfZDaX4yQPw7oKwAw&ved=0CEMQ6AEwBA#v=onepage&q&f=false)

 

1585, Ad istantia di Marc’Antonio Pallazzolo, Trento (http://books.google.it/books?id=Hv47AAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=l%27argute+e+facete+lettere&hl=it&sa=X&ei=fK4yVMyTN-TjywOvy4DoDQ&ved=0CCIQ6AEwAA#v=onepage&q=l’argute%20e%20facete%20lettere&f=false)

 

1585, De Gelmini, Trento, 1585

1585, Perin & Greco, Vicenza,

1590, Giovan Battista & Giacomo De Gelmini, Trento, 1590 (1 esemplare nelle Biblioteca provinciale Nicola Bernardini di Lecce) (http://books.google.it/books?id=ga9dAAAAcAAJ&pg=PP7&dq=l%27argute+et+facete+lettere&hl=it&sa=X&ei=krUyVMH4EMXEygOkxIGIBA&ved=0CCcQ6AEwAQ#v=onepage&q=l’argute%20et%20facete%20lettere&f=false)

1591, Farri, Fano 1591 (1 esemplare nella Biblioteca Marco Gatti a Manduria)

1592, Zenaro, Venezia

1596, Appresso gli Heredi di Perin libraro, Vicenza (http://books.google.it/books?id=nKNRAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=l%27argute+et+facete+lettere&hl=it&sa=X&ei=krUyVMH4EMXEygOkxIGIBA&ved=0CEAQ6AEwBg#v=onepage&q=l’argute%20et%20facete%20lettere&f=false)

Giustamente il Vacca nel saggio citato (p.p. 30-31) ipotizza che la figura che si vede sia il ritratto (sarebbe l’unico giunto fino a noi) del Rao perché né si può opinare che sia una marca tipografica , o ex libris, dell’editore, che quasi sempre si presenta con qualche fregio o figurazione allegorica. Né, d’altra parte, si può pensare ad una generica figura di filosofo: in questo caso – siamo nel Rinascimento, per quanto tardo – sarebbe stato rappresentato dalla figura di un filosofo dell’antichità classica, mentre noi vediamo un uomo cogitabondo in costume del cinquecento e con lunga barba, com’era l’uso del tempo.

1598, Appresso la Compagnia Minima, Venezia (http://www.bsb-muenchen-digital.de/~db/1017/bsb10176047/images/index.html)

1601, Daniel Zanetti, Venezia, 1601 (1 esemplare a Lecce presso la Biblioteca provinciale Nicola Bernardini)

1610, Spineda, Venezia

1622, Giovanni Alberti, Venezia

1622, Ghirardo & Iseppo Imberti, Venezia

A riprova del successo che quest’opera del Rao riscosse anche oltre i confini d’Italia va citata la sua traduzione in francese fatta da G. Chappuys e che ebbe tre edizioni: la prima nel 1584 a Lione per i tipi di Jean Stratius con il titolo Lettres facetieuses et subtiles de Cesar Rao d’Alexan, ville du païs d’Otrante. Non moins plaisantes, & recreatives, que morales, pour tous esprits genereux, la seconda  e la terza a Rouen per I tipi di Le Villain nel 1609 e nel 1610  con il titolo  Lettres subtiles et facetieuses de Cæsar Rao d’Alexan, ville d’Otrante. Tres-utiles & profitables aux esprits genereux.

E, se esiste un aldilà, quale brivido di orgogliosa soddisfazione avrà provato la buonanima di Cesare nel venire a sapere a posteriori che il nostro maggior rappresentante del barocco, Giovan Battista Marino,  avrebbe scimmiottato, sia pure a distanza di poco più di un secolo, proprio il titolo del suo bestseller?

Ed avrà ulteriormente sorriso, nel vedersi accomunato in questo scippo parziale con quello quasi totale subito dal luogo natio, nel constatare che la Alessano della seconda delle tavole di seguito riprodotte è, a poco meno di 70 anni di distanza, sostanzialmente la stessa della prima (per chi fosse interessato a quest’ultima: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/23/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-214-alessano/).

Tavola tratta da Giovan Battista Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva, tomo II, s. p., Parrino, Napoli, 1703

Tavola tratta da Cesare Orlandi, Delle città d’Italia e sue isole adiacenti compendiose notizie, Riginaldi, Perugia, 1770, tomo I, p. 362

Come congedarsi meglio dal lettore se non proponendo un passo dell’opera dell’alessanese di cui mi sono qui occupato esclusivamente, che, pur nella prosa altisonante, gonfia e immaginifica dell’epoca, appare premonitorio perché denunzia, a parte qualche differente dettaglio di ambientazione e denominazione dei protagonisti che ho evidenziato nelle note, un fenomeno che forse ai suoi tempi era solo l’eccezione e che nei nostri è diventato, purtroppo, la regola. Cito dall’edizione Palazzolo del 1585 carta 27r e v (la numerazione delle pagine ricalca ancora quella dei manoscritti); le note esplicative sono mie.

Son venuti in luce hoggi certi cacastecchi2 che non sono buoni se non di stare al fuoco, e cicalar sotto i camini. Son certi giovani spensierati giottoncelli3, capestri da forche, arroganti, superbi, insolenti, lussuriosi, linguacciuti, fastidiosi, noiosi, senza cervello e pieni di presontione, che infettano, ammorbano e uccidono le genti di buona qualità. Son saliti i plebei alle sedie di virtuosi, e gli ignoranti hanno occupati quasi tutti i lochi degni d’onorati personaggi. Il mondo ha messo in riputazione i Marzocchi4, insedia i parasiti, in onore i gnatonici5, in pregio i giottoni, in grandezza i scimoniti, in colmo la gola, in lode le lascivie. 

_____________

1 Per le notizie biografiche e di altra natura vedi http://emeroteca.provincia.brindisi.it/Archivio%20Storico%20Pugliese/1948/1948%20fasc.%201%20articoli/CesareRao.pdf

2 Uomo di poco valore, significato con cui la voce è usata da Machiavelli (Mandragola, atto II, scena III):  In questa terra non ci è se non cacastecchi, non ci si apprezza virtù alcuna. In altri autori ha il significato di avaro o di sofistico.

3 Diminutivo di giottone (che compare verso la fine del brano), voce di uso letterario già in Matteo Maria Boiardo (XV secolo), Orlando innamorato, libro II, canto XI, ottava III, versi 5-8:  Onde di sdegno la donzella acerba/si consumava ne l’animo acceso/poi che con tante beffe e tanto scorno/le gira il capo quel giottone intorno; libro II, canto XXII, ottava LII, versi 5-8: Ma urtò il destrier, gridando: – Aspetta un poco,/giotton giotton, che tua faccia somiglia/proprio al Demonio, mirandoti appresso,/e certamente io credo che sei desso.

Di uso frequente nella commedia del XVI secolo. Alcuni esempi: Ludovico Ariosto ne La Lena, atto V: … questo giotton di  Corbolo/ch’io non intendo che mi stia più un attimo/in casa, io vo cacciarlo come merita; ne Il Negromante, atto V: … pur finalmente raccontoli/quel ch’un giotton m’avea dato a intendere.  Luigi Groto, ne La Emilia, atto III: … se quel giotton mi capita/innanzi o tosto, o tardi io vo’ cantargliela.

Il Vocabolario milanese-italiano di Francesco Cherubini, Stamperia reale, Milano, 1840 al lemma giottòn reca solo i sinonimi astuto e scellerato, senza alcuna indicazione etimologica.

Nel Vocabolario mantovano-italiano dello stesso autore, al lemma giotton si leggono i sinonimi: gittaione, nigella, erba nota. Nel saggio L’economia del cittadino in villa di Vincenzo Tanara, Bertani, Venezia, 1661, a p. 317 il giottone viene citato insieme ad altre piante parassite del grano: La Lichne, over Giottone, di fior rosso doppio, e semplice bianco, le cui foglie secche usavano gli Antichi in luogo di bombace filato nelle lucerne, e perciò è chiamata Lichnis, che in Greco suona Lume. E a p. 26 a proposito del frumento aveva scritto: Per servitio di casa tua capa il più pesante formento, che habbi, e sarà quello che producono i colli, quale se bene non fa così bianco come quello, che nasce alle larghe e in particolare nel Commue di S. Agostino (essendo per far bianco il meglio, di questo Contado) fa però pane saporito, e gustoso, onde fu detto Triticeus panis laeta ex regione salubris. Fallo conciar bene ne li permettere compagnia alcuna, e in particolare di loglio, o ghiottone: se fossi sforzato a comprare o  mangiare pane nel qual sospettasi di loglio o ghiottone tu guardi la crosta di detto pane contro il Sole, se ci vedi certi pelletti, come la prima lanugine de’ putti, è segno che ci è loglio, se nella crosta ci sono macchiette picciole e nere segno  che c’è giottone, se per caso havesti formento solo, ove fosse un poco di vezza, non te ne disgustare, poiché per la famiglia non fa mal pane, et è grave assai.

Il brano appena citato introdurrebbe pure una differenza tra ghiottone e giottone; quest’ultima voce potrebbe essere deformazione di gittaione (o agrostemma), il cui nome scientifico è Agrostemma githago L. Githago (da cui, evidentemente, gittaione) è formazione latina moderna dal classico git che in Celso (I secolo d. C.) è il nome della nitella.

La conclusione, pur ipotetica, è che giottone abbia trasferito dal mondo vegetale a quello umano le sue caratteristiche dannose e che con un ulteriore sviluppo si sia passati dall’idea di parassita a quello di astuto, mascalzone.

4 Marzocco è l’immagine scolpita o dipinta di un leone che, seduto, regge con la zampa destra lo scudo col giglio, insegna del comune di Firenze, dunque del potere popolare che non sembra rientrare nelle simpatie del Rao, essendo in linea, con la sua valenza spregiativa,  con il precedente plebei che dal contesto è in modo evidentissimo legato all’idea, anzi all’ideologia di  una casta inferiore rispetto alla nobiltà che, quasi per definizione (e magari pure con la benedizione del potere religioso …), è considerata come l’unica depositaria della virtù e del connesso merito. L’iniziale maiuscola, uso che poi sarà straripante nel barocco e dal quale, secondo me, nasce la disgraziata abitudine oggi invalsa di abusarne anche quando lo sproposito non trova ombra di giustificazione, qui è giustificata dal probabile etimo della parola (dal latino Martius=di Marte, perché proprio della statua di quest’ultimo, collocata all’imbocco di Ponte Vecchio ed abbattuta dall’alluvione del 1333, avrebbe preso il posto quella del leone; in latino nella pratica corrente si usa l’iniziale maiuscola per ogni parola, anche avverbio, che derivi da un nome proprio) ma anche dal numero plurale e da una valenza che quasi assume di marchio infamante; e i marchi, si sa, sono nomi propri …

5 Sinonimo di compiacente, adulatore, piaggiatore. Gnatonico è aggettivo da Gnatone, il modello dell’adulatore ricordato da Cicerone nel De amicitia, XXV, 97:  Quid enim potest esse tam flexibile, tam devium, quam animus eius, qui ad alterius non modo sensum ac voluntatem, sed etiam voltum atque nutum convertitur? – Negat quis, nego; ait, aio; postremo imperavi egomet mihi omnia assentari -ut ait idem Terentius, sed ille in Gnathonis persona, quod amici genus adhibere omnino levitatis est (Che cosa può essere tanto flessibile, tanto deviato quanto l’animo di colui che cambia non solo secondo il sentimento e la volontà di un altro ma anche secondo l’espressione del volto e un gesto? – Uno nega, io nego; afferma, affermo; insomma ho comandato a me stesso di assentire in tutto – come dice il medesimo Terenzio ma in riferimento alla persona di Gnatone; è certamente una leggerezza accettare questo tipo di amico).

Gnatho (nominativo dello Gnathonis del brano) è dal greco Γνάθων (leggi Gnathon), che ricorre come nome di un parassita in parecchi autori. Sicuramente la voce greca è connessa con γνάθος (leggi gnathos)=mascella (il parassita mangia a sbafo), che ha dato vita ai composti italiani chetognato, gnatodinia, gnatoplastica, gnatostomae prognatismo; tuttavia nel personaggio latino la mascella non è impegnata a masticare ma a far assumere al volto un atteggiamento condiscendente.

6  Oratione di Cesare Rao nella morte dell’illustrissimo S. Don Ferrante Gonzaga, prencipe di Molfetta, s. n., 1558

Il sollazzevol convito del Raho, nel quale si contengono molti leggiadri motti, et piacevoli ragionamenti, Franceschi, Venezia, 1561

Dell’origine de’ monti, Salviani, Napoli, 1577

De eloquentiae laudibus Caesaris Rahi Alexanensis philosophi oratio, Salviano, Napoli, 1577

I meteori di Cesare Rao di Alessano città di Terra d’Otranto. I quali contengono quanto intorno a tal materia si può desiderare, Varisco & C., Venezia, 1582 (http://books.google.it/books?id=uRs8AAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=cesare+rtao+i+meteori&hl=it&sa=X&ei=92s1VNbhNIXYPZ3cgIgP&ved=0CCsQ6AEwAA#v=onepage&q=cesare%20rtao%20i%20meteori&f=false)

Invettive, orationi, et discorsi di Cesare Rao di Alessano città di terra d’Otranto, fatte sopra diverse materie, & à diversi personaggi, Zenaro, Venezia, 1587 (http://books.google.it/books?id=AWdcAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=Invettive,+orationi,+et+discorsi+di+Cesare+Rao&hl=it&sa=X&ei=omw1VJyyKYOsOoGigcgO&ved=0CCAQ6AEwAA#v=onepage&q=Invettive%2C%20orationi%2C%20et%20discorsi%20di%20Cesare%20Rao&f=false)

 

Quattro corsie e un funerale (275 “No” al Salento sfregiato)

quattro corsie

Oggi, 20 febbraio, alle ore 19.00, ad Alessano (Lecce), presso la “Scuola di Pace” della Fondazione Don Tonino Bello (piazza Don Tonino Bello), so sarebbe dovuto presentare il libro “Quattro corsie e un funerale” (275 “No” al Salento sfregiato), curato da Francesco Greco e pubblicato dalle Edizioni Miele (in foto la copertina di Roberto Russo).

Erano previsti innterventi di: Vito Lisi, presidente del Comitato 275, Luigi Russo, presidente CSVS, Francesco Greco, giornalista e curatore del volume.

Avrebbe dovuto condurre Ada Martella, giornalista.

Il libro (progetto grafico di Antonio Pizzolante, foto di Dario Carbone e Vincenzo Santoro), propone le riflessioni sul tema di tecnici, imprenditori, intellettuali, artisti, giornalisti, contadini di varie nazionalità: Vito Lisi, Luigi Paccione (avvocato), Marco Cavalera (archeologo), Marcello Gasco (imprenditore), brani estrapolati da “La Colala”, a cura di Ferruccio Sansa, con Andrea Garibaldi, Antonio Massari, Marco Preve e Giuseppe Salvaggiulo (Chiarelettere, Milano 2010), dal romanzo “La leggenda di domani”, di Maria Corti (scrittrice e filologa), Manni Editore, Lecce 2007, una piccola rassegna-stampa dal quotidiano “Puglia”, Antonio Biasco (psicologo), Sergio L. Duma, scrittore e docente di Letteratura Angloamericana all’Università del Salento, Padre David Maria Turoldo, Franco Arminio (scittore, paesologo), Riccardo Scamarcio (attore), Regina Poso (Facoltà dei Beni Culturali Università del Salento), Alfredo De Giuseppe (imprenditore, scrittore, regista), Antonio Sodo (scultore), Fontas Ladis (poeta greco), Associazione Culturale “Salento: che fare?”, Luca Mercalli (climatologo), Bruno Vaglio (agronomo), Lorenzo Martina (poeta), Francesco Nuzzo (giornalista dell’ATS, Agenzia Telegrafica Svizzera), Fabio Calenda (giornalista, scrittore), Luigi Nicolardi (architetto, già sindaco di Alessano dal 2001 al 2011), Paolo Rausa (giornalista, scrittore, docente, socio dell’Arp, Associazione Regionale Pugliesi a Milano), Francesco De Benedetto (contadino), Vassilis Nicolakopoulos (interprete), Michalis Katsaros (poeta greco), Sandra Sammali (esperta in management del turismo), Cristina Rugge (Presidente Fitetrec-ante Puglia), Beppe Sebaste (giornalista), Massimo Fersini (regista), Rosario Scrimieri (archistar), Romina Power (cantante, attrice, pittrice), Antonio Prete (poeta, scrittore), Rosy Trane (tecnico dell’ambiente), Donato Margarito (docente, critico letterario), Rossella Pulimeno (poetessa, editrice) e Toby Follett (documentarista).

Nel corso della serata si sarebbe dovuto proiettare il documentario “275 strada a senso unico”, girato da Caterina Vitiello e Davide Penzo, con la regia di Maurizio Pepe e prodotto da Movideo Productions Tv.

L’evento era stato organizzato dalla Libreria Idrusa (Alessano) in collaborazione con il “Comitato No 275” e l’Associazione culturale “Archès”.

 

Poi tutto è saltato. Ancora non si sa perché!

La Terra d’Otranto ieri e oggi (2/14: ALESSANO)

di Armando Polito

Il toponimo

La terminazione in -ano rende molto probabile che si tratti di un nome prediale e che quindi il toponimo sia collegato con la centuriazione romana e con l’attribuzione del territorio ad un Alexus; un Iunius Alexus è attestato in parecchie iscrizioni provenienti da ogni parte dell’Impero: AE 1966, 00609d e 00614a; AE 1998, 01228f; CAG-11-01; CCCA-05, 00044; CIL 02, 04970,247; CIL 08, 10478,18; CIL 08, 10478,18b-e,; CIL 08, 22644,159; CIL 08, 22644,159a-z; CIL 10, 08053,102°; CIL 10, 08053,102a-z; CIL 11, 06699,111; CIL 13, 10001,171e;  CIL 15, 06501,1; CIL 15, 06501,7; EE-08-01, 00243,5;  un Caius Iunius Alexus è attestato in CIL 15, 06501,6.

Mi pare quanto meno discutibile l’ipotesi che vorrebbe la città fondata dall’imperatore bizantino Alessio I Comneno non tanto per l’assenza di documenti che la suffraghino ma perché supporrebbe un eponimo greco con una desinenza tipicamente latina. All’obiezione che anche Alexus nasce dalla radice di ἀλέξω (leggi alexo=proteggere) ribatto che rispetto al Comneno (1056-1118) è uno dei tanti nomi latini di origine greca sui quali si è innestato il suffisso tipicamente latino di cui ho detto, a parte il fatto che Ἀλέξιος (leggi Alèxios) avrebbe dovuto dare Alexianum, che, infatti, è attestato come aggettivo riferito ad Alessio ma mai come toponimo. E poi, sembra plausibile che la cittadina abbia una fondazione così “recente?”.

Non manca pure la proposta di qualche buontempone (a meno che non vada applicato il rasoio di Hanlon, discendente, filosoficamente parlando, dell’altro … barbiere, cioè Occam; però, se diamo retta ai due barbieri, in quale sgabuzzino della loro bottega  andrebbe gettato e chiuso A pensar male si fa peccato, ma quasi sempre si indovina portato poi a maggior fortuna, tant’è che quasi tutti sono convinti che ne sia il padre,  da Giulio Andreotti?) pullulante in rete grazie al copia-incolla e “ratificata” da wikipedia (la nota 6 avverte che questa che sto per riportare e le altre sarebbero strate tratte dal sito del Comune, dove, però, manca proprio quella che ora sto incriminando): La leggenda vuole che Dedalo, atterrato nella zona dopo il suo famoso volo, abbia esclamato “Alae Sanae!” in riferimento alle sue ali artificiali ancora intatte, e da questa locuzione deriverebbe il nome del paese. Nemmeno Nino Frassica sarebbe stato (lui, comunque, consapevolmente) capace di tanto!

 

Pacichelli (A), pagg. 163-164:

Pacichelli (C, anni 1686 e 1687):

Resta alla punta la città picciola di Alessano, di 239 fuochi, già Vescovado di Monsignor Agostino Barbosa, Ducato oggi di Don Gioseppe di Aragona, Principe di Cassano, che ha stato grande e sposò la nipote del fu Cardinal Trivulzio.

Contan sei miglia per Alessano (città e Ducato della nobilissima Casa Aierbi del regal sangue di Aragona, ricco di casali e forte di torri), che io misuro almen a dieci, e divennero assai moleste dal replicato nostro fallar delle vie, tralasciando presso i Minimi una ricca libreria.

E dopo aver venerata a mille passi e sotterra un’imagine di Nostra Signora, assai corrosa dal tempo, stentai fra vie larghe e assai comode fabriche di pietra, nella piazza abondante, per colpa del sindico, a trovar pane, che da quattro giorni non si vendea in Alessano, dove unito alle mura vidi, senza nulla di curioso, il Vescovado. E, fuori veduta, per amene vie passeggiar quella Principessa ch’è di rare maniere, della Casa Trivulsia di Milano, con la sua prole ben instituita dal savio genitore, e in carrozza il gentilissimo Vescovo Monsignore Don Andrea Tontoli, che s’intitola ancor Vescovo dell’unita e descritta chiesa del Capo di Leuca.

Ne’ Conventuali, già fondati dal loro Santo Padre, presi comodo alloggio, regalato dal Padre Lorenzo di erbe e di vino, supplendo io la mattina, e vincendo le sue scuse con la limosina, nel far celebrare da lui e ricever la Sagrosanta Eucaristia, al caso del giorno antecedente, il che imitò ancor con pietà il mio cameriero.

Pacichelli (A)

 

immagine tratta e adattata da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Alessano_Panorama.jpg
immagine tratta e adattata da http://it.wikipedia.org/wiki/File:Alessano_Panorama.jpg

Ora sulla mappa originale evidenzio i dettagli citati nella didascalia che preliminarmente trascrivo. Tale operazione sarà ripetuta ogni volta per le mappe degli altri centri di Terra d’Otranto che corredano il volume del Pacichelli.

A   Vescovato/Chiesa madre del SS. Salvatore e palazzo vescovile rispettivamente abbellita e ricostruito dal vescovo  Andrea Tontoli, vescovo di Alessano dal 1667 fino alla morte avvenuta nel 1695; il tutto poi ricostruito nel 1755 (mappa/immagine tratta e adattata da Google Maps)-

B Palazzo del Prencipe/Palazzo ducale (mappa/http://rete.comuni-italiani.it/wiki/Alessano)

Duca di Alessano ai tempi del Pacichelli doveva essere Giuseppe di Aragona, stando a quanto scrive, partendo da molto lontano, Luigi Tasselli (1622-1694) in Antichità di Leuca, Eredi di Pietro Micheli, Lecce, 1693, pagg. 560-5611.

Mi soffermo brevemente su un’iscrizione posteriore di quasi un secolo presente all’interno: Haec domus odit, amat, punit, conservat, honorat/nequitiam, pacem, crimina, iura, probos. A. D. 1794. Si tratta di un distico elegiaco in cui, però, i versi non sono normali ma, come  tecnicamente vengono definiti,  rapportati o correlativi, perché ogni verbo del primo nell’ordine, regge, sempre nell’ordine, il complemento oggetto del secondo, sicché la traduzione è obbligata a seguire questi accoppiamenti e, anziché (quale sarebbe quella lineare) Questa casa odia, ama, punisce, conserva, onora l’ingiustizia, la pace, i crimini, il diritto, gli onesti, sarà: Questa casa odia l’ingiustizia, ama la pace, punisce i crimini, conserva il diritto, onora gli onesti. Nell’anno del Signore 1794. Quest’iscrizione è particolarmente  ricorrente in tutta Europa in molte fabbriche del XVII, generalmente prigioni, come a Glasgow in Scozia, a  Delft in Olanda, a Praga nella Repubblica ceca.

D Torre antica della famiglia de San Giovanni/Palazzo Sangiovanni (mappa/http://www.bebsalentopittoresco.com/luoghi.asp?vacanze=Alessano)

I   Cappuccini/Chiesa e convento dei Cappuccini (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Chiesa_dei_Francescani_Alessano.jpg)

K  Conventuali/Chiesa di S. Antonio (mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Chiesa_di_Sant%27Antonio_Alessano.jpg)

Chiudo con lo stemma che rispetto all’attuale presenta solo due festoni laterali invece dei rami di alloro.

(mappa/http://it.wikipedia.org/wiki/File:Alessano-Stemma.png)

 

Abbiamo visto come pochissimi dettagli sono ancora, pur con difficoltà e dubbi, riconoscibili nello stato attuale dei luoghi. Ciò è dovuto non solo alle trasformazioni sovente radicali succedutesi nel tempo ma anche al fatto, comune a tutte le mappe antiche, che non sempre la fedeltà del dettaglio è rispettata. Il Pacichelli, poi, era uno storico, per cui non è da escludersi, come vedremo per Brindisi, che le sue mappe nascano dalla rielaborazione di precedenti di epoca medioevale e che, quindi, non rappresentino i luoghi quali erano agli inizi del XVIII secolo). Tra le fabbriche perdute per sempre le porte (la mappa mostra solo Porta Nova, l’ho evidenziata nella prima delle due immagini che seguono; mi pare inverosimile, però, che la città avesse una sola porta, tanto più che il nome fa intuire che essa fu l’ultima costruita e probabilmente l’ultima ad essere demolita; infatti, oltre a Porta Nova, ce n’erano altre tre: Porta La Terra, Porta Castello e Porta Lo Chiuso e nella mappa ne è visibile una (Porta La Terra?) nella parte anteriore della cortina muraria, ievidenziata nella seconda immagine), le torri (nella mappa ne sono visibili dieci, ma, supponendo un intervallo regolare fra l’una e l’altra, non dovrebbero essere state teoricamente meno di diciotto)  e il resto delle mura, il tutto abbattuto (secondo quanto si legge in http://www.borghiautenticiditalia.it/assobai/i-borghi/puglia/consintercomcapo-sm-di-leuca-le/874-alessano-le.html) nel 1867.

(CONTINUA)

Prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/12/19/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-114-presentazione/

Terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/01/05/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-314-brindisi/

__________________________

1 Qui mi torna pure in acconcio a mostrarvi la divotione, che hanno professato à Maria gli altri figli, che hebbe Giacomo I Rè di Aragona da D. Teresa Viduaura [si tratta della terza moglie; il nome esatto era Teresa Gil di Vidaure], e tutti i loro Posteri, poiche [sic] essendo questi due Pietro, e Giaxomo, Gicomo lo volle il Rè Conte di Zerica in Valenza, e Pietro lo instituì, e dichiarò Signore, e Conte del Contado di Ayerbo nel Regno di Aragona. Lasciando da parte la Posterità di Giacomo, e parlando de’ soli Posteri di Pietro: trovo, che à Pietro successe Giacomo il figlio, à Giacomo successe Michele, à Michele Garzia, à Garzia Sancio primo suo figlio, à questo sancio II, ed altri figli. Sancio II, divotissimo della Beata Vergine fù [sic] quello, che venne in Regno con Alfonso il Savio I Rè di Napoli, e militando à suo favore, ne ottenne dal figlio Rè Ferrante I l’esser Conte di Simari in Calabria, ed altre preminenze. In Simari poi sancio guidato dalla Beata Vergine, fondò ub Monastero de’ Padri Domenicani sotto il titolo di S. Caterina Vergine, e Martire, dove elesse per sè [sic], e suoi figli la Sepoltura; à Sancio II successe Alfonso, ad Alfonso successe Michele II suo figlio, celebre, e celebrato Cavaliere, che per la Moglie venne ad essere nipote di Alessandro VI e Callisto III ed arrivò ad altre preeminenze in premio della divotione, che haveva della Beata Vergine; à  questo successe Alfonso II ed altri suoi figli, il quale Alfonso II ottenne da Filippo II l’essere Marchese della Grotte … [resto della parola illegibile]; all’accennato Alfonso successe Pietro III ed à Pietro III Gasparo, che per la Moglie Donna Girolama De Curtis, divenne Prencipe di Cassano, di cui essendo figlio Don Filiberto divoto di Santa Maria di Leuca, e questi havendo avuto in Moglie D. Laura Guarini Duchessa di Alessano, coll’essere Prencipe di Cassano divenne anco Duca di Alessano, da’ quali nato Don Giuseppe, hoggi vivente, Prencipe di Cassano, e Duca di Alessano, imitando i suoi Antenati, frequenta ogni Sabbato a riverire Santa Maria di Leuca, dalla quale ne ha avuto in premio per adesso l’essere felice Padre di numerosa prole, con certa speranza, che se peerseverarà nella vera divotione della Beata Vergine, sarà da questa riconosciuto con prosperità, e contentezza in questa vita, e col premio della futura gloria nell’altra, perche [sic] essa è quella gran Signora del Mondo, che … 

 

 

C’era la luna sul mare di Castro

di Gianni Ferraris

C’era la luna sul mare di Castro. Ed era il primo giorno d’estate. La notte scendeva lentamente, si portava appresso stupore e voglia di lasciarsi andare. Quasi come se tutto fosse stato detto e ascoltato.  Poi di nuovo i ricordi che si inseguivano. Abbiamo mangiato acciughe e bevuto birra in riva al mare. “Li portate via o li mangiate qui vicino al mare?” ci chiedeva la signora che stava friggendo. “Qui, vicino al mare, è meglio”. Di fronte a quello spettacolo che le parole non riescono a dire, che commuove per la sua prepotente imponenza e maestosa bellezza era bello ascoltare le onde e la luna. Ma si sa,  spesso si vive ieri.  Oggi è talmente strano da sembrare incomprensibile.

“Devo andare ad Alessano domattina, mi accompagni? Poi ci fermiamo a Castro”. Mi aveva detto l’amica con la quale stavo condividendo birra e acciughe. Così ci sono andato, mentre lei era presa dai suoi impegni, io sono salito sull’auto e me ne sono andato in giro. Erano le otto e trenta circa quando entravo nel cimitero di quel paese. Non sono un frequentatore di cimiteri. Di solito li evito,  perchè  ritengo che i ricordi siano nel cuore e nella testa. Parlo con un tramonto, con la luna magari. Non mi riesce farlo di fronte ad una lapide con una fotografia che ha fermato un attimo, un momento. Non necessariamente dei migliori. Magari vedo quella posa in giacca a cravatta: “proprio lui che detestava le cravatte…”.  Ma era la foto buona, quella per le grandi occasioni.    E’ come il vestito della domenica di quando ero piccolo. Era magari bello, l’avevo scelto con cura, però non lo indossavo che in poche occasioni. Che perdita di tempo. Forse per questo il mio guardaroba è ridotto al minimo. Solo cose che mi piacciono. O con le quali mi sento a mio agio. Finchè le logoro.  Però ad Alessano mi sono sentito in dovere di entrarci, nel cimitero. C’è una specie di piccolo anfiteatro rotondo. Con gradoni dove ti puoi sedere. Al centro, in un’aiola, rotonda anch’essa, con erba tagliata e curata, c’è la grande lapide di Don Tonino Bello. Mi sono seduto su quei gradini. Non ho pregato perchè non lo so fare. Neppure so, e non compete a me sapere, se è giusto santificare una persona. Ritengo però sia indispensabile ricordarne la figura in ogni momento. Perchè la vera santificazione è questa. Ricordare. Sopratutto in questi tempi. Dove per troppe persone la vita è una scommessa. No, veramente non so se la santificazione lo renderà più santo di quanto già non sia. Ero solo in quel cimitero, a quell’ora. Unica presenza, lo zampillo dell’acqua che rendeva più verde l’erba intorno alla lapide. Ripensavo al grembiule e alla stola  uscendo. Camminavo leggero per non disturbare. Di nuovo l’auto,  sono andato fino al Ciolo. Così, per ricordarmi la bellezza. Per farmi rapire. Così, giusto per sapere di essere vivo. Poi, la sera, quella luna che abbiamo visto sorgere, alzarsi piano piano, e illuminarsi sempre più mentre dall’altra parte il sole calava. Le luci là in fondo erano l’estremo lembo d’Italia. Il giorno prima ero in piazza Sant’Oronzo a Lecce. Mi ferma un signore, era in compagnia della moglie e del figlioletto di pochi mesi. Mi ha chiesto dove fosse il duomo. Pantaloni corti come si conviene ai turisti. Accento veneto. “Lei è veneto vero?” “Si sente eh? Anche lei non è di qui”. Poi abbiamo parlato un pò mentre gli spiegavo il duomo e la strada per arrivarci. “Come mai lei vive qui?” mi chiede. “Vede la luce? Ecco, forse è per quella” Non so se ha capito. Ma come è possibile spiegare un profumo? O un lampo di luce? O quella luna? Come si può parlare delle pagghiare e della via del sale senza sentire le voci dei contrabbandieri di sale? Come è possibile dire il perchè, io che non so muovere due passi di qualunque ballo, rimango affascinato dalla taranta? E dalla pizzica?  “E’ stato a Nardò?” “Si, bella cittadina”. Però nulla sapeva della repubblica neritina, neppure della fame dei contadini. Nulla dei murales ebrei. Conosceva le chiese e qualche dipinto, le apprezzava anche. Ma accidenti. L’anima mancava. Guernica non è solo un quadro. E’ un pezzo di storia narrato incredibilmente da Picasso con tratti decisi, con sofferenza. Munch e quell’urlo che è un quadro magari non bello in senso assoluto, ma con un pathos, una forza evocativa, una violenza inaudite.

Accidenti alla luna e al mare. Accidenti al silenzio di Castro.

Simone de Beauvoir diceva in non ricordo quale libro, che quando arrivava in una città sconosciuta la visitava di giorno, ma non poteva non passeggiarci tutta la notte. Per coglierne l’anima, i silenzi. Per vederne il passato. Perchè la notte i muri parlano, parlano le chiese e i monumenti. La notte accompagna e avvolge le storie lette o ascoltate. Mi mancava Chopin davanti a quel mare. Sarebbe stato perfetto. Contaminare Chopin con acciughe, birra, la luna, il suo riflesso nel mare  può sembrare blasfemo. Penso lo avrebbe apprezzato però.

Terminare così una giornata iniziata davanti ad una lapide, in fondo, è la vita che per ora procede con lentezza, con fatica. Con il pensiero fisso che torna: “E se tutto fosse stato già detto veramente?” –

Don Tonino Bello, vera sciabolata di luce viva

di Gianni Ferraris

Ricordare certe figure è un obbligo morale, una questione etica e socialmente non prescindibile.

Ci sono uomini che travalicano le loro appartenenze religiose, politiche, culturali. Che parlano all’umanità intera i linguaggi più consoni e che raggiungono le coscienze in modo diretto. Ci sono sguardi che trafiggono per la loro intensità.

Pensiamo al Dalai Lama che porta in giro per il mondo il suo esilio. Al Mahatma Gandhi che invocava la pace con messaggi di una coerenza difficilmente riscontrabile da altre parti. Pensiamo a figure di statisti come Pertini, Moro e molti altri potrei citarne, sicuramente scordandone molti altri ancora.

Sono figure di fronte alle quali ogni essere umano si sente in dovere di esprimere riconoscenza. Cattolici, atei, laici, di religioni diverse, però con un univoco modo di essere eticamente, moralmente, socialmente preziosi per gli insegnamenti che ci hanno donato.

Così anche un non credente si sente in forte debito nei confronti di un sacerdote, un vescovo in questo caso, che ha aperto uno squarcio nella pochezza di alcuni linguaggi o, peggio, nelle nefandezze che sono di strettissima attualità in ogni ordine di gerarchie, siano esse laiche o religiose.

Sono voci fuori da questi cori così poveri, e sono vere sciabolate di luce viva, fari di coscienza e di consapevolezza. Hanno sguardi penetranti, hanno parole che commuovono come l’estrema coerenza sa commuovere. Aiutano a guardare e vedere, invitano a non spegnere mai la luce.

Tonino Bello nacque ad Alessano (Le) il 18 marzo del 1935. Finite le medie, venne mandato in seminario prima ad Ugento (Le) , poi a Molfetta (Ba). Ordinato sacerdote a 22 anni, si occupò della rivista “vita nostra”. Poi, negli anni 70, fu parroco a Tricase (Le). Qui incontrò e conobbe gli ultimi: i poveri, i disoccupati, gli emarginati. Nel 1982 venne nominato vescovo di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi e nel 1985 presidente di pax Christi.

Fra i molti suoi scritti ed interventi, mi piace citare quello del grembiule e della stola, che forse contribuisce a comprenderne la statura:

“…Forse a qualcuno può sembrare un’espressione irriverente, e l’accostamento della stola col grembiule può suggerire il sospetto di un piccolo sacrilegio. Si, perchè di solito la stola richiama l’armadio della sacrestia, dove con tutti gli altri paramenti sacri, profumata d’incenso, fa bella mostra di sè, con la sua seta ed i suoi colori, con i suoi simboli ed i suoi ricami… Il grembiule, invece, ben che vada, se non proprio gli accessori di un lavatoio, richiama la credenza della cucina, dove, intriso di intingoli e chiazzato di macchie, è sempre a portata di mano della buona massaia. Ordinariamente non è articolo da regalo: tanto meno da parte delle suore, per un giovane prete. Eppure è l’unico paramento sacerdotale registrato dal vangelo. Il quale vangelo, per la messa solenne celebrata da Gesù nella notte del Giovedì Santo, non parla nè di casule, nè di amitti, nè di stole, nè di piviali… La cosa più importante, comunque, non è introdurre il “grembiule” nell’armadio dei paramenti sacri, ma comprendere che la stola ed il grembiule sono quasi il diritto ed il rovescio di un unico simbolo sacerdotale. Anzi, meglio ancora, sono come l’altezza e la larghezza di un unico panno di servizio: il servizio reso a Dio e quello offerto al prossimo. La stola senza il grembiule resterebbe semplicemente calligrafica. Il grembiule senza la stola sarebbe fatalmente sterile…”

Servizio. E’ stata questa la grandezza di Tonino Bello.

L’umiltà di essere servitore del suo Dio e delle persone, al di là ed oltre il loro credo. Persone e basta. Aprendo le porte del suo vescovado agli operai, ai disoccupati. Andando con la sua utilitaria la notte nei quartieri degradati per aiutare un tossicodipendente, una prostituta, un clochard. Indossava il solo grembiule in quei momenti, ma quanto era luminoso, sembrava una stola di seta dorata! E come vescovo inizia un percorso che lo vede a fianco degli operai delle acciaierie di Giovinazzo che difendono il posto di lavoro. Soprattutto lo si vede a Comiso con i pacifisti a sfilare contro l’installazione dei missili. E aprirà le austere porte del vescovado per accogliere gli sfrattati, sostenendo con forza che non risolverà lui il problema degli sfrattati, non è compito suo. Lui intende semplicemente istigare le istituzioni a fare il loro lavoro.

“…io ho posto un segno di condivisione che alla gente deve indicare traiettorie nuove (…), insinuare qualche scrupolo come un sassolino nella scarpa.”

E ancora, nella consapevolezza di essere personaggio scomodo, crea centri di accoglienza per i tossicodipendenti, per immigrati. E fa nascere una moschea per “i fratelli mussulmani”.

Integrazione, accoglienza, solidarietà nei fatti, sono le parole d’ordine che lo guidano e il suo essere pastore. La pace e un pacifismo “militante” furono le sue battaglie più aspre. Quelle che lo portarono addirittura ad essere accusato di incitare alla diserzione quando in una lettera ai parlamentari nel gennaio 1991, disse che era possibile: “esortare direttamente i soldati, nel caso deprecabile di guerra, a riconsiderare secondo la propria coscienza l’enorme gravità morale dell’uso delle armi».

Prima aveva lottato contro gli F16 a Crotone, contro gli Jupiter a Gioia Del Colle. Aveva promosso campagne per il disarmo e l’obiezione fiscale alle spese militari.

Immediato viene il paragone con un altro vescovo. Oscar Romero infatti invitò i militari salvadoregni ad opporsi a ordini di pena di morte. E immediato viene il parallelo con la teologia della liberazione. Romero venne trucidato da un tiratore scelto delle squadracce del dittatore mentre elevava l’ostensorio in una cattedrale affollata di campesinos impauriti e sgomenti.

Il culmine dell’impegno per la pace di Tonino Bello furono quei 500 che partirono da Ancona per la marcia per la pace in una Sarajevo martoriata dalla guerra, era il 7 dicembre 1992.

E lui, già malato, terminò la sua omelia con queste parole: “…Gli eserciti di domani saranno questi: uomini disarmati”.

Alexander Langer, suo estimatore ed amico, ricordò con queste parole un dialogo fra loro dopo il ritorno da quella marcia: “Tornò pieno di dubbi, e non li nascose: aveva vissuto con acuto dolore l’impotenza della pura proclamazione di pace, non se la sentiva di dare o escludere indicazioni operative, ma era sicuro di una cosa, come nei giorni della guerra del Golfo: che la pace, per affermarsi, ha bisogno innanzitutto di persone pacifiche e di mezzi pacifici”.

Tonino Bello morì il 7 aprile 1993 per cancro.

Alcune sue citazioni sono rimaste impresse come scritte indelebili. Una sua frase ricordo in particolare: «Dicono che gli uomini sono angeli con un’ala soltanto, devono tenersi abbracciati per poter volare».

E ancora nel corso di un incontro che ebbe con i ragazzi di una scuola media, disse parlando a braccio: “…Abbiamo sentito una canzone qualche sera fa nella cattedrale di Terlizzi ad un incontro per i giovani… facemmo mettere una canzone di Zucchero che diceva: “… voglio amare fino a che il cuore mi faccia male…”. Io vi auguro, ragazzi, che voi possiate essere capaci di amare a tal punto che il cuore veramente vi faccia male! Lo dico a tutti, indipendentemente dalla vostra esperienza religiosa… anche se c’è qualcuno, qualcuna che è molto lontana… sono convinto che è una cosa che tocca anche loro… starei per dire… soprattutto loro! Vi auguro che possiate veramente amare, amare la vita, amare la gente, amare la storia, amare la geografia, cioè la Terra… a tal punto che il cuore vi faccia male… e ogni volta che vedete non soltanto queste ignominie che si compiono, queste oppressioni crudeli, queste nuove Hiroshima e Nagasaki, questi nuovi campi di sterminio, vedrete fra 5 o 6 anni come i momenti che stiamo vivendo oggi passeranno davvero nella storia con una gravità più grande di quella che avvolge gli episodi di Hiroshima, di Nagasaki, dei campi di concentramento, dei campi di sterminio… quello che si sta compiendo oggi… nel silenzio generale di tutti… questi curdi massacrati, come gli iracheni massacrati, come le guerre che hanno mietuto iracheni, americani, europei… ma che c’importa della bandiera? Quando muore un uomo è sempre una tristezza incredibile. Io penso che quando voi vedete queste cose vi dovreste sentire il cuore che vi fa male… Ma noi il cuore ce lo sentiamo triste soltanto quando vediamo le cose epidermiche… Perché vedere la moglie di un marinaio che ieri è morto nell’incidente di Livorno che viene ripresa dalle zoomate impietose della tv e che piange, che singhiozza… anche te ti senti il cuore che ti fa male… ma poi dopo passa… e la televisione ci sta abituando a girar pagina subito. Però il grido violento che si sta sprigionando dalla Terra, soprattutto dalle turbe dei poveri, quello lì deve risuonare costantemente dentro di voi… vi auguro, dicevo, che il cuore vi faccia male, come anche il cuore vi dovrebbe far male quando vedete lo sterminio della natura… Sentiremo fra poco che cosa significa la fiumana di greggio che si è sprigionata nel Golfo Persico… ”.

Gli auguri scomodi di Tonino Bello ai suoi fedeli:

Non obbedirei mai al mio dovere di vescovo, se vi dicessi “Buon Natale” senza darvi disturbo. Io, invece, vi voglio infastidire. Non posso, infatti, sopportare l’idea di dover rivolgere auguri innocui, formali, imposti dalla “routine” di calendario. Mi lusinga, addirittura, l’ipotesi che qualcuno li respinga al mittente come indesiderati. Tanti auguri scomodi, allora! Gesù che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali. E vi conceda la forza di inventarvi un’esistenza carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio. Il bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il guanciale del vostro letto duro come un macigno, finchè non avrete dato ospitalità a uno sfrattato, a un povero marocchino, a un povero di passaggio. Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la carriera diventa l’idolo della vostra vita; il sorpasso progetto dei vostri giorni: la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate. Maria, che trova solo nello sterco degli animali la culla ove deporre con tenerezza il frutto del suo grembo, vi costringa con i suoi occhi feriti a sospendere lo struggimento di tutte le nenie natalizie, finché la vostra coscienza ipocrita accetterà che lo sterco degli uomini o il bidone della spazzatura o l’inceneritore di una clinica diventino tomba senza croce di una vita soppressa. Giuseppe, che nell’affronto di mille porte chiuse è il simbolo di tutte le delusioni paterne, disturbi tutte le sbornie dei vostri cenoni, rimproveri i tepori delle vostre tombolate, provochi cortocircuiti allo spreco delle vostre luminarie, fino a quando non vi lascerete mettere in crisi dalla sofferenza di tanti genitori che versano lacrime segrete per i loro figli senza fortuna, senza salute, senza lavoro. Gli angeli che annunciano la pace portino guerra alla vostra sonnolenta tranquillità incapace di vedere che, poco più lontano di una spanna con l’aggravante del vostro complice silenzio, si consumano ingiustizie, si sfrutta la gente, si fabbricano armi, si militarizza la terra degli umili, si condannano i popoli allo sterminio della fame. I poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell’oscurità e la città dorme nell’indifferenza, vi facciano capire che, se anche voi volete vedere “una gran luce”, dovete partire dagli ultimi. Che le elemosine di chi gioca sulla pelle della gente sono tranquillanti inutili. Che le pellicce comprate con le tredicesime di stipendi multipli fanno bella figura ma non scaldano. Che i ritardi dell’edilizia popolare sono atti di sacrilegio, se provocati da speculazioni corporative. I pastori che vegliano nella notte, “facendo la guardia al gregge” scrutando l’aurora, vi diano il senso della storia, l’ebbrezza delle attese, il gaudio dell’abbandono in Dio. E vi ispirino un desiderio profondo di vivere poveri: che poi è l’unico modo per morire ricchi. Sul nostro vecchio mondo che muore nasca la speranza!!!  don Tonino Bello.

Bibliografia:

– “Alla finestra della speranza” Ed. S. Paolo, Cinisello B., 1988.

– “Sui sentieri di Isaia” Ed. La Meridiana, Molfetta, 1990.

– “Scrivo a voi… lettere di un vescovo ai catechisti” Ed. Dehoniane, Bologna 1992.

– “Pietre di scarto” Ed. La Meridiana, Molfetta, 1993 – “Stola e grembiule” Ed. Insieme, Terlizzi, 1993

Davide Monaco. Il poeta, il filosofo, il critico

alessano-049

di Paolo Vincenti

 

Sull’ultimo numero di “Note di Storia e Cultura Salentina” (Società per la Storia Patria di Maglie, XXII, Argo Editore 2012), compare un contributo di Manuel De Carli e Sergio Torsello su “Davide Monaco. Il poeta, il filosofo, il critico letterario”.  Dopo gli studi di Carlo Franza (Davide Monaco, in “Profilo storico, critico e bibliografico di alessanesi illustri dal ‘500 al ‘900, Galatina, 1978) e di Sergio Torsello ( Davide Monaco, sacerdote e letterato alessanese . Appunti per una biografia, in “Controcanto”, Alessano, giugno 2006), lo stesso Torsello insieme al De Carli tornano, per approfondirla, su questa figura così interessante di erudito, l’illustre Monaco (1863-1916), insegnante, critico letterario, filosofo e poeta.

Autore di opere come “Foglie morte”(1890), “Arturo Shopenhauer”(1890), “Padre Agostino da Montefeltro”(1889),  “TeofiloFolengo e la poesia maccheronica in Italia” (1891), “Linea per linea” (1896),  tipo passionale ed arguto, brillante, fine polemista, Monaco fu in contatto con tutti i maggiori esponenti della cultura salentina e nazionale dell’epoca.

Sacerdote colto e raffinato, sempre controcorrente, ha lasciato anche una notevole mole di lettere, attestati, articoli su riviste locali e tante opere minori, sicché la sua  è una figura certamente da ricordare sia per la natìa Alessano che per gli studi salentini.

Ad Alessano, un giorno d’estate

di Gianni Ferraris

Qualche giorno passato sul capo di Leuca. La tappa ad Alessano è importante per chi vuole rendere omaggio ad un grande salentino. Vale per credenti ed atei, don Tonino Bello è stato il vescovo dalla parte degli ultimi, ha valenza civile, laica e religiosa, i giusti sono tali per tutti. Ci sono andato, ho salutato, poi sono stato qualche tempo sull’auto all’ombra dei cipressi. Di fronte al cimitero c’è una casa semidiroccata, parzialmente recintata, e ci sono alcuni alberi che offrono uno dei rari spazi ombreggiati sotto il sole impietoso delle 12 di un torrido luglio. Mentre fumo una sigaretta in attesa di andarmene, da un edificio di servizio del cimitero esce un signore con in mano un pesante secchio rosso pieno di calcinacci e con dentro anche un pezzo di un sanitario rotto, mi passa davanti al cofano (al massimo due metri), mi guarda e con disinvolta nonchalance getta quei rifiuti, secchio compreso, nella parte più diroccata della casa, sale sull’auto con il suo collega e se ne va, sulla fiancata della Panda bianca spicca una scritta: “Comune di Alessano, Servizi sociali”. Ah, però, i servizi sociali.

Confesso il mio stupore, mi ha visto benissimo. Evidentemente è un comportamento ritenuto normale. Non avevo fotocamera quel giorno, però passando da Alessano vedo la vigilessa e le spiego il fatto. La risposta è stata puntuale e precisa “noi facciamo campagne contro questi comportamenti, telefono immediatamente e faccio rimuovere l’immondizia”. Il giorno seguente, verso le nove, ripasso da lì, controllo, ed il secchio è ancora lì con tutti i suoi detriti, questa volta la fotocamera è con me.

Tornando sconsolato verso il paese rivedo la Panda bianca, scendo e la fotografo. Qualcuno mi vede, la vigilessa anche. Due ore dopo dal luogo del

L’altare di S. Antonio in Alessano

La prima opera datata del copertinese Ambrogio Martinelli.

L’altare di S. Antonio in Alessano

di Antonella Chiarello

Lo scultore copertinese Ambrogio Martinelli si presume sia nato nel 1616 e deceduto nel 1684. Chierico, ha lasciato nel Salento numerose testimonianze della sua capacità artistica, forgiata sulla scia dello Zimbalo e delle numerose maestranze leccesi coeve, compreso il suo concittadino Giovan Donato Chiarello, le cui opere precedono, nella maggior parte dei casi, quelle del nostro artista.

Da qualche decennio ci si sofferma sulla sua figura, trascurata invece dai noti scrittori salentini: Cosimo De Giorgi lo menziona incidentalmente, solo «pei raccoglitori di patrie notizie»; il Foscarini lo considera dotato di «genialità e inventiva», un «ottimo scultore in legno e in pietra, sebbene, per l’epoca in cui visse, seguisse lo stile barocco».

Con certezza gli sono attribuiti il portale della Collegiata di Campi Salentina (1658), i due altari  della Parrocchiale di Monteroni (1658-59), l’altare di S. Giuseppe per l’omonima chiesa di Surbo (1661), dove realizzò anche l’altare di S. Oronzo nella Matrice. La fiorente produzione annovera inoltre i quattro altari per i conventuali di Otranto (1666), quasi coevi con l’altare maggiore in S. Maria la Greca a Leverano e i due S. Maria della Scala a Maglie. Altrettanto certi sono l’altare di S. Girolamo nella navata destra della Cattedrale neritina e il maestoso di S. Giuseppe nel transetto della chiesa dei domenicani nella sua città natale.

Possibili interventi in numerosi altri centri, ma senz’altro importante fu l’altare dedicato a S. Antonio da Padova nell’ex chiesa dei conventuali di Alessano, voluto e finanziato dalla pia Laura Guarini, duchessa di Alessano, e dal coniuge Filiberto Ayerbo d’Aragona, che campeggiano, a mezzo busto e di profilo, agli estremi lati dell’altare, in composto atteggiamento di devozione e contemplazione.

L’iscrizione apposta sull’altare, «A.D. 1652», e la firma «MAG: ▼AMBR: MARTINELLV SCVLPEBAT CVPERTINENSIS», la attestano come opera prima e certa.

Oltre al santo titolare sono facilmente riconoscibili sui lati il serafico padre

Controcanto ad Alessano

epigrafe nel centro storico di Alessano

di Paolo Vincenti

Al “canto” della paludata e un po’ sterile editoria culturale e storica salentina, Alessano risponde con il “Controcanto” di una agile ma preziosa rivista, fondata e diretta da un gruppo di giovani intellettuali del paese di San Trifone. Della serie “siamo piccoli ma cresceremo”. “Controcanto –  Rivista Culturale del Salento”, nasce con alcuni numeri O nel 2004, con limitatissima foliazione ed ancor più esigue risorse finanziarie. Ma l’audacia e le penne di Raimondo Massaro, Patrizia  Morciano, Antonio Ippazio Piscopello, Alfredo Massaro, Antonio Marzo e Francesco Primiceri portano la rivista a diventare un piccolo punto di riferimento per appassionati e studiosi di storia alessanese e del Capo di Leuca.

Al primigenio gruppo di lavoro si unisce Sergio Torsello, che firma la rivista come Direttore Responsabile, e dà un apporto notevole, grazie alla sua vastissima conoscenza storica e antropologica,  che distilla in brevi ma intensi saggi che appaiono di volta in volta sulle pagine di Controcanto. Anche Antonio Caloro, decano degli studiosi alessanesi,  benedice la rivista e la nobilita con il suo contributo. La rivista nei suoi numeri si occupa del culto di San Trifone, protettore di Alessano (Raimondo Massaro), della storia messapica della frazione Montesardo ( ancora Raimondo Massaro),  di Placido Boffelli, fra i più noti architetti scultori pugliesi del XVII secolo  (Antonio Marzo), dell’antico casale di Provigliano (Alfredo Massaro), di Piero Panesi, pittore alessanese scomparso nel 1990, (A.M.Marzo e Patrizia Morciano), della signoria dei Gonzaga su Alessano nel Cinquecento ( Raimondo Massaro), degli Alessanesi di Anders,vale a dire un contingente di soldati polacchi che, durante la seconda guerra mondiale, fecero stanza ad Alessano, cui Antonio Caloro ha recentemente dedicato un libro ( “Gli Alessanesi di Anders. Un liceo-ginnasio polacco in Alessano. 1945-1946”, Gino Bleve Editore 2006),  con un dibattito, sulle pagine di Controcanto, fra Mario Quaranta e lo stesso Caloro.

Scorrendo i vari numeri della rivista, Antonio Piscopello si occupa di molti alessanesi illustri, come Antonio Amoroso, tra i primi maestri delle scuole pubbliche di Alessano nel XIX secolo, del partigiano Negro Arturo Rosario (1917-1948), di Francesco Antonio Duca, ultimo vescovo di Castro del Settecento, delle Società Segrete nella Alessano del XIX secolo, e della “Nobile Accademia di Santa Teodora Imperatrice”.

Sergio Torsello si occupa della letteratura sul tarantismo, con interviste ad Antonio Prete e a Donato Valli, e traccia un profilo biografico di Davide Monaco, sacerdote e letterato alessanese (1863-1916), mentre Daniela Colaci si  occupa del Catasto Onciario di Alessano (1742-1743).

Una rivista “in progress”? Certamente, una rivista in movimento che, distribuita in fotocopie in tutta Alessano, accende il dibattito, vuole scuotere le coscienze e  ricordare il passato glorioso di una cittadina ricca di storia, arte e cultura, come Alessano.

Alessano/ Piero Panesi. Un percorso interrotto

di Paolo Vincenti

“Piero Panesi. Un percorso interrotto (Alessano 29 giugno 1959-5 maggio 1990)”: questo il titolo di una serata celebrativa e di una plaquette con cui nel maggio 2006 Alessano ha voluto rendere omaggio a questo artista di grande talento, prematuramente scomparso, al quale, forse, non è stata riservata ancora tutta l’attenzione necessaria. Dopo un lungo lavoro, è stata finalmente presentata la catalogazione delle opere del Panesi, accolte con grande attenzione e vero entusiasmo. Sul filo dei ricordi e della nostalgia, nella serata celebrativa, soprattutto nelle parole della madre di Piero Panesi e dell’amico Paolo Torsello, la serata ha contribuito anche a far conoscere meglio alcuni aspetti dell’arte di Panesi che fino ad ora non erano stati analizzati, grazie all’esposizione dell’illustre critico d’arte Toti Carpentieri.

Una ricerca, quella di Panesi, che si muoveva fra l’astratto e il figurativo, purtroppo interrotta dalla drammatica fine dell’artista il quale, legato al suo paesaggio salentino, sapeva tuttavia trasfigurare odori, colori e sapori della nostra terra in una vena surreale, funambolica quasi, utilizzando tecniche diverse, ma lasciando sempre il suo segno in tutte le composizioni che creava. Dopo il Liceo artistico, frequentò l’Accademia di Belle Arti di Lecce, ma poi si trasferì a Firenze, dove si diplomò nel 1982 con una tesi su Cezanne, pittore molto amato da Piero. Fece un viaggio a Parigi, molto importante per la sua formazione, e poi ritornò ad Alessano, dove iniziò la sua attività che però non gli riservò soddisfazioni in vita.

 

Nel 1991, venne organizzata, postuma, una mostra al centro “A per A” di Firenze; due anni dopo, alcune sue opere furono esposte all’interno della mostra collettiva “Artisti per la pace”, nel chiostro di Santa Croce  a Firenze e, nel 1995, si tenne una sua mostra a Brescia.

L’impegno preso dagli amministratori di Alessano è quello di realizzare, in un’ala di Palazzo Legari, sede della Biblioteca Comunale, una galleria con tutte le opere di Panesi, adesso custodite gelosamente dalla  famiglia.

Nel 1996, si svolse, presso la Biblioteca Comunale di Tricase, una mostra dedicata a Piero Panesi , organizzata dalle Arti Grafiche Laborgraf, con il patrocinio del Comune di Alessano, del Comune di Tricase e della Provincia di Lecce. In quell’occasione, vennero esposte alcune opere, fra le più significative di Panesi, elaborate fra il 1975 e il 1990. Toti Carpentieri, nel suo saggio intitolato “Piero Panesi e il suo essere nomade”, sul catalogo della mostra, scrisse che “Non ci sarà mai concesso di poter sapere quale sarebbe stata la pittura di Piero Panesi, oltre questo suo itinerario di ricerca, tra riflessioni e ripensamenti, forse, ma nella persistenza di un reale concetto evolutivo.

Questa mostra è solo un pretesto per riflettere ed un invito a non dimenticare.” E a noi  sembra bello ricordare il pittore con i versi di Raimondo Massaro: “E tu non sai non puoi sapere/ gli artisti cercano la pace/ e trovano la morte. Come i cani sulla strada / Gli artisti hanno l’arte. Come Piero/”.

 

Ahi Alessano, terra di Tonino Bello!

di Gianni Ferraris

Ahi Alessano, terra di Tonino Bello. Con tanto Salento, proprio lì dovevano sbarcare? Ahi Salento, con tanta Italia, proprio nella terra dell’accoglienza dovevano arrivare? Loro non vogliono essere “colonizzati” da nessuno. E mal sopportano i finanziamenti a pioggia. Loro sono dei “duri”. In senso lato e, più terra terra, virilmente parlando. E non le mandano a dire a nessuno. “I ripetitori sono i nuovi carri armati del colonialismo romano, per quelli veri basterebbero le armi anticarro e con 100 mila lire gliene buchi uno, ma contro quelli non basta non pagare il canone, vanno buttati giù, perché non devono più trasmettere a spese nostre”. Arringava al suo popolo il 9 agosto 1996,  il ministro Bossi Umberto. E se non sono parole chiare queste, perbacco. Ora che è ministro ha messo tutte le cose a posto. Va bene, la RAI continua a trasmettere a “spese nostre”, e lui, per par condicio, ha imposto una leggina per finanziare con 500.000 euro annui “Radio padania”. E, sempre per par condicio, ha deciso di colonizzare Alessano con le sue antenne. Perbacco, ora avremo Radio padania anche in Salento.  E che volete che importi se da quelle onde verdastre si sparino insulti a raffica contro immigrati e “terroni”? Che volete che importi se da lì parla anche un eurodeputato che ha detto che il terremoto in Abruzzo è un peso per il nord, salvo poi correggersi, dopo le critiche, e dire che non è vero, non è l’Abruzzo il problema, anzi, è tutto il meridione? Ma stiano sereni i camiciotti verdi (come la bile, come le cimici) nessuna persona di buon senso dirà che qui ci sono stipate armi anticarro o simili. Il Salento, quando sente le nefandezze trasmesse, semplicemente cambia programma. La RAI, magari “colonizza”, però al mattino il “Ruggito del Coniglio” è decisamente più istruttivo. Quanto meno per la lingua italiana di cui si fa scempio in alcune lande desolate e tristanzuole.  A proposito di finanziamenti pubblici, anche la scuola gestita dalla moglie di cotanto statista riceve 800.000 euro per il lavoro benemerito che fa. E lavora sodo eh? È riuscita financo a far diplomare il suo pupillo, dopo alcuni tentativi di esame di stato nelle scuole pubbliche. E si è diplomato talmente brillantemente che ora guadagna, euro più, euro meno, 12.000 al mese. Altro che centralismo romano, questo è il  federalismo tanto agognato. Ma questo è altro discorso. Però è interessante notare come tutti gli italiani (anche i terroni) contribuiscano a foraggiare cotanta radio. Neonati compresi ovviamente. Perché i genitori acquistano abiti, cibo  e quanto serve per sopravvivere nonostante la crisi. E su ogni acquisto si paga l’IVA. È una partita di giro insomma. Comunque vada noi ammiriamo la coerenza, soprattutto quella. E loro la sanno lunga.

C’era la luna sul mare di Castro

di Gianni Ferraris

C’era la luna sul mare di Castro. Ed era il primo giorno d’estate. La notte scendeva lentamente, si portava appresso stupore e voglia di lasciarsi andare. Quasi come se tutto fosse stato detto e ascoltato.  Poi di nuovo i ricordi che si inseguivano. Abbiamo mangiato acciughe e bevuto birra in riva al mare. “Li portate via o li mangiate qui vicino al mare?” ci chiedeva la signora che stava friggendo. “Qui, vicino al mare, è meglio”. Di fronte a quello spettacolo che le parole non riescono a dire, che commuove per la sua prepotente imponenza e maestosa bellezza era bello ascoltare le onde e la luna. Ma si sa,  spesso si vive ieri.  Oggi è talmente strano da sembrare incomprensibile.

“Devo andare ad Alessano domattina, mi accompagni? Poi ci fermiamo a Castro”. Mi aveva detto l’amica con la quale stavo condividendo birra e acciughe. Così ci sono andato, mentre lei era presa dai suoi impegni, io sono salito sull’auto e me ne sono andato in giro. Erano le otto e trenta circa quando entravo nel cimitero di quel paese. Non sono un frequentatore di cimiteri. Di solito li evito,  perchè  ritengo che i ricordi siano nel cuore e nella testa. Parlo con un tramonto, con la luna magari. Non mi riesce farlo di fronte ad una lapide con una fotografia che ha fermato un attimo, un momento. Non necessariamente dei migliori. Magari vedo quella posa in giacca a cravatta: “proprio lui che detestava le cravatte…”.  Ma era la foto buona, quella per le grandi occasioni.    E’ come il vestito della domenica di quando ero piccolo. Era magari bello, l’avevo scelto con cura, però non lo indossavo che in poche occasioni. Che perdita di tempo. Forse per questo il mio guardaroba è ridotto al minimo. Solo cose che mi piacciono. O con le quali mi sento a mio agio. Finchè le logoro.  Però ad Alessano mi sono sentito in dovere di entrarci, nel cimitero. C’è una specie di piccolo anfiteatro rotondo. Con gradoni dove ti puoi sedere. Al centro, in un’aiola, rotonda anch’essa, con erba tagliata e curata, c’è la grande lapide di Don Tonino Bello. Mi sono seduto su quei gradini. Non ho pregato perchè non lo so fare. Neppure so, e non compete a me sapere, se è giusto santificare una persona. Ritengo però sia indispensabile ricordarne la figura in ogni momento. Perchè la vera santificazione è questa. Ricordare. Sopratutto in questi tempi. Dove per troppe persone la vita è una scommessa. No, veramente non so se la santificazione lo renderà più santo di quanto già non sia. Ero solo in quel cimitero, a quell’ora. Unica presenza, lo zampillo dell’acqua che rendeva più verde l’erba intorno alla lapide. Ripensavo al grembiule e alla stola  uscendo. Camminavo leggero per non disturbare. Di nuovo l’auto,  sono andato fino al Ciolo. Così, per ricordarmi la bellezza. Per farmi rapire. Così, giusto per sapere di essere vivo. Poi, la sera, quella luna che abbiamo visto sorgere, alzarsi piano piano, e illuminarsi sempre più mentre dall’altra parte il sole calava. Le luci là in fondo erano l’estremo lembo d’Italia. Il giorno prima ero in piazza Sant’Oronzo a Lecce. Mi ferma un signore, era in compagnia della moglie e del figlioletto di pochi mesi. Mi ha chiesto dove fosse il duomo. Pantaloni corti come si conviene ai turisti. Accento veneto. “Lei è veneto vero?” “Si sente eh? Anche lei non è di qui”. Poi abbiamo parlato un pò mentre gli spiegavo il duomo e la strada per arrivarci. “Come mai lei vive qui?” mi chiede. “Vede la luce? Ecco, forse è per quella” Non so se ha capito. Ma come è possibile spiegare un profumo? O un lampo di luce? O quella luna? Come si può parlare delle pagghiare e della via del sale senza sentire le voci dei contrabbandieri di sale? Come è possibile dire il perchè, io che non so muovere due passi di qualunque ballo, rimango affascinato dalla taranta? E dalla pizzica?  “E’ stato a Nardò?” “Si, bella cittadina”. Però nulla sapeva della repubblica neritina, neppure della fame dei contadini. Nulla dei murales ebrei. Conosceva le chiese e qualche dipinto, le apprezzava anche. Ma accidenti. L’anima mancava. Guernica non è solo un quadro. E’ un pezzo di storia narrato incredibilmente da Picasso con tratti decisi, con sofferenza. Munch e quell’urlo che è un quadro magari non bello in senso assoluto, ma con un pathos, una forza evocativa, una violenza inaudite.

Accidenti alla luna e al mare. Accidenti al silenzio di Castro.

Simone de Beauvoir diceva in non ricordo quale libro, che quando arrivava in una città sconosciuta la visitava di giorno, ma non poteva non passeggiarci tutta la notte. Per coglierne l’anima, i silenzi. Per vederne il passato. Perchè la notte i muri parlano, parlano le chiese e i monumenti. La notte accompagna e avvolge le storie lette o ascoltate. Mi mancava Chopin davanti a quel mare. Sarebbe stato perfetto. Contaminare Chopin con acciughe, birra, la luna, il suo riflesso nel mare  può sembrare blasfemo. Penso lo avrebbe apprezzato però.

Terminare così una giornata iniziata davanti ad una lapide, in fondo, è la vita che per ora procede con lentezza, con fatica. Con il pensiero fisso che torna: “E se tutto fosse stato già detto veramente?” –

Don Tonino Bello, vera sciabolata di luce viva

di Gianni Ferraris

Ricordare certe figure è un obbligo morale, una questione etica e socialmente non prescindibile.

Ci sono uomini che travalicano le loro appartenenze religiose, politiche, culturali. Che parlano all’umanità intera i linguaggi più consoni e che raggiungono le coscienze in modo diretto. Ci sono sguardi che trafiggono per la loro intensità.

Pensiamo al Dalai Lama che porta in giro per il mondo il suo esilio. Al Mahatma Gandhi che invocava la pace con messaggi di una coerenza difficilmente riscontrabile da altre parti. Pensiamo a figure di statisti come Pertini, Moro e molti altri potrei citarne, sicuramente scordandone molti altri ancora.

Sono figure di fronte alle quali ogni essere umano si sente in dovere di esprimere riconoscenza. Cattolici, atei, laici, di religioni diverse, però con un univoco modo di essere eticamente, moralmente, socialmente preziosi per gli insegnamenti che ci hanno donato.

Così anche un non credente si sente in forte debito nei confronti di un sacerdote, un vescovo in questo caso, che ha aperto uno squarcio nella pochezza di alcuni linguaggi o, peggio, nelle nefandezze che sono di strettissima attualità in ogni ordine di gerarchie, siano esse laiche o religiose.

Sono voci fuori da questi cori così poveri, e sono vere sciabolate di luce viva, fari di coscienza e di consapevolezza. Hanno sguardi penetranti, hanno parole che commuovono come l’estrema coerenza sa commuovere. Aiutano a guardare e vedere, invitano a non spegnere mai la luce.

Tonino Bello nacque ad Alessano (Le) il 18 marzo del 1935. Finite le medie, venne mandato in seminario prima ad Ugento (Le) , poi a Molfetta (Ba). Ordinato sacerdote a 22 anni, si occupò della rivista “vita nostra”. Poi, negli anni 70, fu parroco a Tricase (Le). Qui incontrò e conobbe gli ultimi: i poveri, i disoccupati, gli emarginati. Nel 1982 venne nominato vescovo di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi e nel 1985 presidente di pax Christi.

Fra i molti suoi scritti ed interventi, mi piace citare quello del grembiule e della stola, che forse contribuisce a comprenderne la statura:

“…Forse a qualcuno può sembrare un’espressione irriverente, e l’accostamento della stola col grembiule può suggerire il sospetto di un piccolo sacrilegio. Si, perchè di solito la stola richiama l’armadio della sacrestia, dove con tutti gli altri paramenti sacri, profumata d’incenso, fa bella mostra di sè, con la sua seta ed i suoi colori, con i suoi simboli ed i suoi ricami… Il grembiule, invece, ben che vada, se non proprio gli accessori di un lavatoio, richiama la credenza della cucina, dove, intriso di intingoli e chiazzato di macchie, è sempre a portata di mano della buona massaia. Ordinariamente non è articolo da regalo: tanto meno da parte delle suore, per un giovane prete. Eppure è l’unico paramento sacerdotale registrato dal vangelo. Il quale vangelo, per la messa solenne celebrata da Gesù nella notte del Giovedì Santo, non parla nè di casule, nè di amitti, nè di stole, nè di piviali… La cosa più importante, comunque, non è introdurre il “grembiule” nell’armadio dei paramenti sacri, ma comprendere che la stola ed il grembiule sono quasi il diritto ed il rovescio di un unico simbolo sacerdotale. Anzi, meglio ancora, sono come l’altezza e la larghezza di un unico panno di servizio: il servizio reso a Dio e quello offerto al prossimo. La stola senza il grembiule resterebbe semplicemente calligrafica. Il grembiule senza la stola sarebbe fatalmente sterile…”

Servizio. E’ stata questa la grandezza di Tonino Bello.

L’umiltà di essere servitore del suo Dio e delle persone, al di là ed oltre il loro credo. Persone e basta. Aprendo le porte del suo vescovado agli operai, ai disoccupati. Andando con la sua utilitaria la notte nei quartieri degradati per aiutare un tossicodipendente, una prostituta, un clochard. Indossava il solo grembiule in quei momenti, ma quanto era luminoso, sembrava una stola di seta dorata! E come vescovo inizia un percorso che lo vede a fianco degli operai delle acciaierie di Giovinazzo che difendono il posto di lavoro. Soprattutto lo si vede a Comiso con i pacifisti a sfilare contro l’installazione dei missili. E aprirà le austere porte del vescovado per accogliere gli sfrattati, sostenendo con forza che non risolverà lui il problema degli sfrattati, non è compito suo. Lui intende semplicemente istigare le istituzioni a fare il loro lavoro.

“…io ho posto un segno di condivisione che alla gente deve indicare traiettorie nuove (…), insinuare qualche scrupolo come un sassolino nella scarpa.”

E ancora, nella consapevolezza di essere personaggio scomodo, crea centri di accoglienza per i tossicodipendenti, per immigrati. E fa nascere una moschea per “i fratelli mussulmani”.

Integrazione, accoglienza, solidarietà nei fatti, sono le parole d’ordine che lo guidano e il suo essere pastore. La pace e un pacifismo “militante” furono le sue battaglie più aspre. Quelle che lo portarono addirittura ad essere accusato di incitare alla diserzione quando in una lettera ai parlamentari nel gennaio 1991, disse che era possibile: “esortare direttamente i soldati, nel caso deprecabile di guerra, a riconsiderare secondo la propria coscienza l’enorme gravità morale dell’uso delle armi».

Prima aveva lottato contro gli F16 a Crotone, contro gli Jupiter a Gioia Del Colle. Aveva promosso campagne per il disarmo e l’obiezione fiscale alle spese militari.

Immediato viene il paragone con un altro vescovo. Oscar Romero infatti invitò i militari salvadoregni ad opporsi a ordini di pena di morte. E immediato viene il parallelo con la teologia della liberazione. Romero venne trucidato da un tiratore scelto delle squadracce del dittatore mentre elevava l’ostensorio in una cattedrale affollata di campesinos impauriti e sgomenti.

Il culmine dell’impegno per la pace di Tonino Bello furono quei 500 che partirono da Ancona per la marcia per la pace in una Sarajevo martoriata dalla guerra, era il 7 dicembre 1992.

E lui, già malato, terminò la sua omelia con queste parole: “…Gli eserciti di domani saranno questi: uomini disarmati”.

Alexander Langer, suo estimatore ed amico, ricordò con queste parole un dialogo fra loro dopo il ritorno da quella marcia: “Tornò pieno di dubbi, e non li nascose: aveva vissuto con acuto dolore l’impotenza della pura proclamazione di pace, non se la sentiva di dare o escludere indicazioni operative, ma era sicuro di una cosa, come nei giorni della guerra del Golfo: che la pace, per affermarsi, ha bisogno innanzitutto di persone pacifiche e di mezzi pacifici”.

Tonino Bello morì il 7 aprile 1993 per cancro.

Alcune sue citazioni sono rimaste impresse come scritte indelebili. Una sua frase ricordo in particolare: «Dicono che gli uomini sono angeli con un’ala soltanto, devono tenersi abbracciati per poter volare».

E ancora nel corso di un incontro che ebbe con i ragazzi di una scuola media, disse parlando a braccio: “…Abbiamo sentito una canzone qualche sera fa nella cattedrale di Terlizzi ad un incontro per i giovani… facemmo mettere una canzone di Zucchero che diceva: “… voglio amare fino a che il cuore mi faccia male…”. Io vi auguro, ragazzi, che voi possiate essere capaci di amare a tal punto che il cuore veramente vi faccia male! Lo dico a tutti, indipendentemente dalla vostra esperienza religiosa… anche se c’è qualcuno, qualcuna che è molto lontana… sono convinto che è una cosa che tocca anche loro… starei per dire… soprattutto loro! Vi auguro che possiate veramente amare, amare la vita, amare la gente, amare la storia, amare la geografia, cioè la Terra… a tal punto che il cuore vi faccia male… e ogni volta che vedete non soltanto queste ignominie che si compiono, queste oppressioni crudeli, queste nuove Hiroshima e Nagasaki, questi nuovi campi di sterminio, vedrete fra 5 o 6 anni come i momenti che stiamo vivendo oggi passeranno davvero nella storia con una gravità più grande di quella che avvolge gli episodi di Hiroshima, di Nagasaki, dei campi di concentramento, dei campi di sterminio… quello che si sta compiendo oggi… nel silenzio generale di tutti… questi curdi massacrati, come gli iracheni massacrati, come le guerre che hanno mietuto iracheni, americani, europei… ma che c’importa della bandiera? Quando muore un uomo è sempre una tristezza incredibile. Io penso che quando voi vedete queste cose vi dovreste sentire il cuore che vi fa male… Ma noi il cuore ce lo sentiamo triste soltanto quando vediamo le cose epidermiche… Perché vedere la moglie di un marinaio che ieri è morto nell’incidente di Livorno che viene ripresa dalle zoomate impietose della tv e che piange, che singhiozza… anche te ti senti il cuore che ti fa male… ma poi dopo passa… e la televisione ci sta abituando a girar pagina subito. Però il grido violento che si sta sprigionando dalla Terra, soprattutto dalle turbe dei poveri, quello lì deve risuonare costantemente dentro di voi… vi auguro, dicevo, che il cuore vi faccia male, come anche il cuore vi dovrebbe far male quando vedete lo sterminio della natura… Sentiremo fra poco che cosa significa la fiumana di greggio che si è sprigionata nel Golfo Persico… ”.

Gli auguri scomodi di Tonino Bello ai suoi fedeli:

Non obbedirei mai al mio dovere di vescovo, se vi dicessi “Buon Natale” senza darvi disturbo. Io, invece, vi voglio infastidire. Non posso, infatti, sopportare l’idea di dover rivolgere auguri innocui, formali, imposti dalla “routine” di calendario. Mi lusinga, addirittura, l’ipotesi che qualcuno li respinga al mittente come indesiderati. Tanti auguri scomodi, allora! Gesù che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali. E vi conceda la forza di inventarvi un’esistenza carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio. Il bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il guanciale del vostro letto duro come un macigno, finchè non avrete dato ospitalità a uno sfrattato, a un povero marocchino, a un povero di passaggio. Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la carriera diventa l’idolo della vostra vita; il sorpasso progetto dei vostri giorni: la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate. Maria, che trova solo nello sterco degli animali la culla ove deporre con tenerezza il frutto del suo grembo, vi costringa con i suoi occhi feriti a sospendere lo struggimento di tutte le nenie natalizie, finché la vostra coscienza ipocrita accetterà che lo sterco degli uomini o il bidone della spazzatura o l’inceneritore di una clinica diventino tomba senza croce di una vita soppressa. Giuseppe, che nell’affronto di mille porte chiuse è il simbolo di tutte le delusioni paterne, disturbi tutte le sbornie dei vostri cenoni, rimproveri i tepori delle vostre tombolate, provochi cortocircuiti allo spreco delle vostre luminarie, fino a quando non vi lascerete mettere in crisi dalla sofferenza di tanti genitori che versano lacrime segrete per i loro figli senza fortuna, senza salute, senza lavoro. Gli angeli che annunciano la pace portino guerra alla vostra sonnolenta tranquillità incapace di vedere che, poco più lontano di una spanna con l’aggravante del vostro complice silenzio, si consumano ingiustizie, si sfrutta la gente, si fabbricano armi, si militarizza la terra degli umili, si condannano i popoli allo sterminio della fame. I poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell’oscurità e la città dorme nell’indifferenza, vi facciano capire che, se anche voi volete vedere “una gran luce”, dovete partire dagli ultimi. Che le elemosine di chi gioca sulla pelle della gente sono tranquillanti inutili. Che le pellicce comprate con le tredicesime di stipendi multipli fanno bella figura ma non scaldano. Che i ritardi dell’edilizia popolare sono atti di sacrilegio, se provocati da speculazioni corporative. I pastori che vegliano nella notte, “facendo la guardia al gregge” scrutando l’aurora, vi diano il senso della storia, l’ebbrezza delle attese, il gaudio dell’abbandono in Dio. E vi ispirino un desiderio profondo di vivere poveri: che poi è l’unico modo per morire ricchi. Sul nostro vecchio mondo che muore nasca la speranza!!!  don Tonino Bello.

Bibliografia:

– “Alla finestra della speranza” Ed. S. Paolo, Cinisello B., 1988.

– “Sui sentieri di Isaia” Ed. La Meridiana, Molfetta, 1990.

– “Scrivo a voi… lettere di un vescovo ai catechisti” Ed. Dehoniane, Bologna 1992.

– “Pietre di scarto” Ed. La Meridiana, Molfetta, 1993 – “Stola e grembiule” Ed. Insieme, Terlizzi, 1993

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!