Per una storia della scuola a Ruffano nell’Ottocento: ricognizioni archivistiche

 

di Francesco Frisullo e Paolo Vincenti

Molta attenzione ha dedicato nei suoi studi Aldo de Bernart al mondo della scuola e dei maestri di scuola a Ruffano fra Otto e Novecento[1]. È in omaggio alla sua memoria che si offrono queste ricognizioni archivistiche sulla storia della scuola ruffanese.

L’affermazione di un sistema scolastico di base in età moderna è stato inevitabilmente vincolato al ruolo svolto dalle istituzioni ecclesiastiche: così in tutta l’Italia meridionale e non fa certo eccezione Ruffano, sul cui territorio hanno operato due diverse tradizioni monastiche già a partire dall’età greco-bizantina fino al XVI secolo, quando si pose fine al rito greco anche in Ruffano, con una tradizione che qui annoverava, fra gli altri, il monaco copista Giorzio Laurezios, la cui opera è giunta fino a noi[2]. È con l’arrivo degli ordini monastici latini che possiamo parlare di una qualche forma di istruzione istituzionalizzata anche in Ruffano e Torrepaduli. A Torrepaduli è attestata fin dal 1550 la presenza dell’ordine dei Carmelitani con il relativo convento, e del 1621 è l’arrivo a Ruffano dei padri Francescani di cui resta traccia anche nell’importante lascito della biblioteca dei Cappuccini[3].

Come evidenziato da Rosanna Basso, uno degli effetti secondari della soppressione dei monasteri fu di “interrompere quelle attività ispirate alla pietas conventulale”, che nei fatti andavano a “costituirsi come zone di Impegno Pubblico dello Stato laico”[4].

Tra queste incombenze vanno certamente annoverate l’istruzione pubblica e le opere di assistenza per orfani e bisognosi, i “figli dello Stato”, come venivano definiti, che nei disegni dell’intendente Saverio Palmieri avrebbero potuto trovare nel “padre collettivo” una guida sicura, il tutto per la pubblica felicità di cui parla lo stesso Palmieri, il pensiero del quale, insieme a quello del Genovesi, è la sottotraccia delle scelte politiche del tempo[5].

L’interesse regio per l’alfabetizzazione delle masse si concretizzò nel 1778 con la promulgazione del Real Dispaccio, secondo cui all’interno dei conventi appartenenti agli ordini mendicanti si dovevano istituire pubbliche scuole, che avviassero soprattutto la plebe, che non aveva mezzi finanziari, all’alfabetizzazione, ovvero ai primi rudimenti della grammatica e del catechismo.

La nascita della scuola moderna è il frutto illuminato delle scelte politiche settecentesche, in particolare di Maria Teresa d’Austria, nell’area di influenza tedesca, dove nasce il prototipo della scuola come la intendiamo oggi, ossia la “Scuola Normale”. Il termine “normale” era tratto dal latino norma, un’unita di misura alla quale originariamente si riferivano i carpentieri, e derivava probabilmente dall’uso fattone dall’abate Giovanni Ignazio Felbiger (1724-1788), ispiratore della riforma scolastica varata appunto da Maria Teresa nel 1774, che prevedeva tra l’altro l’obbligatorietà della scuola elementare per i bambini dai 6 ai 12 anni e l’istituzione di apposite scuole normali per la preparazione dei maestri. Sulla scia del riformismo teresiano, il 22 agosto del 1784 Ferdinando IV fece pubblicare un reale dispaccio nel quale dichiarò la propria intenzione di stabilire nel Regno le Scuole normali; nello stesso anno i celestini Ludovico Vuoli e Alessandro Gentile furono mandati a spese della Corona a Rovereto per apprendere il nuovo metodo[6].

La storia delle istituzioni scolastiche nel territorio del Comune di Ruffano può essere fatta iniziare il 25 settembre 1725 quando venne rogato il legato Piccinni[7]. Secondo le ultime volontà del Piccinni viene fissata come “universale e particolare erede la cappella sotto il titolo beatissima Vergine della Misericordia situata e posta e da me eretta nella Parrocchiale Chiesa di Ruffano”[8]. Piccinni dispone  in primis “che si abbia a pagare  in ogni anno in perpetuo ad un maestro  di scuola ducati 80”; il maestro però deve celebrare una messa  al giorno in suffragio del testatario, il che lascia intendere che il maestro sia un sacerdote, “e che abbia a insegnare alli figlioli di Ruffano e Torre paduli  tantum e  anche ai forestieri”, ma dietro pagamento degli interessati “Grammatica, umanità ed aritmetica”; la scelta del maestro viene demandata alla discrezione del Vescovo di Ugento, il che anticipa la normativa regnicola, e si precisa che il maestro non all’altezza del compito debba essere rimosso.

Nel quarto capitolo del testamento si dispone inoltre che “un padre dotto e detto padre sia tenuto a leggere filosofia e teologia e morale per i giovani di Ruffano e Torrepaduli”.

I beni dell’Opera Pia Misericordia [d’ora in poi OPM] verranno quindi incamerati dalla Amministrazione comunale degli Ospizi nel 1806 e dal 1862 dalla Congregazione di Carità.

Tralasciando qui tutte le questioni inerenti alle disposizioni circa le messe, oggetto di contrasto tra la Congregazione e il clero ruffanese e tra questo e l’ordinario diocesano, le volontà di natura caritativa verranno esplicitamente richiamate dallo Statuto Organico Speciale dell’Opera Pia Misericordia (15 febbraio 1880)[9].  Nel soppresso Convento dei Carmelitani di Torrepaduli era la scuola nelle more del Legato Piccini fino al 1810, come si riporta nella lettera del 15 ottobre 1854 della Congregazione di Carità[10].

Allo stato delle ricerche possiamo stabilire con certezza l’attivazione a Ruffano della scuola normale, come previsto dal decreto napoleonico del 21 Aprile 1813 n.1705, “relativo alle scuole di Ruffano e Presicce”, che a seguito di rapporto del Ministro dell’Interno (Giuseppe Zurlo) stabilisce all’Art. 1 che “le due scuole di Ruffano e di Presicce nella Provincia di Terra D’Otranto saranno riunite e costituiranno una sola scuola secondaria stabilita nel Comune di Presicce”[11]. Inoltre, “la nominata scuola avrà un corso complementare di grammatica e belle lettere e il numero di istruttori che sarà fissato dal nostro Ministro dell’Interno”[12].

In merito alle politiche dell’istruzione si evidenzia una sostanziale continuità tra le scelte della restaurata monarchia borbonica con il Decennio Francese. Dai dati desunti dagli Stati discussi comunali, Petrilli ricava che nel 1848 nel Regno delle due Sicilie dei 170 Comuni che facevano parte della Terra d’Otranto -terza per numero di Comuni -, Ruffano non è indicata tra i 37 che erano senza scuole[13].

Il 16 febbraio 1843 sono nominate tre maestre a Torrepaduli e come riporta Inguscio, che cita le Conclusioni Decurionali, probabile sede della scuola è Palazzo Pasanisi[14]. Il 6 aprile 1858 la Commissione degli Ospizi invia al vescovo di Ugento (Vincenzo Bruni) una terna di maestri fra i quali, come prevedeva il Real Rescritto del 19 giugno 1821 (ma anche ottemperando alle volontà di Aloisio Piccinni, che è il vero movente di questa disposizione), l’ordinario doveva sceglierne uno di suo gradimento[15]. I tre nomi sono quelli dei sacerdoti Aurelio Pepe di Taurisano, Angelo Antonio Guglielmi e Luigi Vitali di Ugento[16].

È documentabile l’attività di docenza pubblica a Ruffano del sacerdote Alfonso Mellusi che “esercita dal 1856”, come riferisce il consigliere Giuseppe Santaloja nella seduta del Consiglio comunale del 30 giugno 1883[17].

Possiamo inoltre attestare quale sia stato il primo edificio scolastico ruffanese. La commissione amministrativa degli Ospizi di pubblico beneficio di Ruffano rappresentata da don Pietro D’Urso, Sindaco Presidente, Don Antonio Licci e Don  Achille Valente da una parte, Don Francesco Antonio Licci dall’altra, su autorizzazione  del Governatore della Provincia datata 15 novembre, col numero1709, firmano il 29 novembre 1860 il contratto di locazione dell’immobile di Francesco Antonio Licci sito in “una casa a volta nella contrada Porta dei Diavoli (probabilmente l’attuale Via Liborio Romano) per uso della scuola secondaria istruita in questo Comune”,  per ducati 8 di affitto, a decorrere dal 1 dicembre per anni due[18].

 

Il 28 ottobre 1856, il Ministero e Real Segreteria di Stato dell’Interno Ludovico Bianchini autorizza lo stabilimento a Ruffano di 4 Figlie della Carità per assistere ed “educare le donzelle di quel Comune”, inoltre autorizza l’acquisizione della casa, per residenza di Vito Donato Pisanò, al prezzo di 740 Lire[19]. Ma la casa Pisanò non era al momento disponibile sicché il 20 febbraio 1859 viene stilato dall’ Avv. De Pandis un contratto per una “casa destinata provvisoriamente a queste Figlie della Carità”, con “due stanze a tetto con accesso dalla pubblica strada, rimpetto alla porta massima della Chiesa Madre”. Il locatore è Carmelo Pio[20].

Nel 1860 in data non riportata la Congregazione nella persona del Presidente Pomponio D’Urso ottiene da Antonio Leuzzi l’uso della “Cappella di Santa Lucia”, contigua al nuovo fabbricato destinato alle Figlie della Carità per uso delle stesse suore[21].

L’8 aprile 1866 “è stabilito nel Comune di Ruffano un Asilo Infantile, sostenuto in tutto e per tutto dalla Congregazione di Carità”, come appunto recita l’Art.1 dello Statuto per l’Asilo Infantile Margherita[22].  Sono ammessi 30 alunni equamente ripartiti tra maschi e femmine in base ad un sorteggio degli aventi diritto; dei tre, un maschio e una femmina provenienti da Torrepaduli (art 3-6), ma dietro il pagamento della retta annua di L.1,50 sono ammessi tutti gli altri. Prova ne sia che l’Ispettore scolastico provinciale Paolo Massone, nel suo Sunto dello Stato morale e materiale dell’istruzione popolare1867-1868, segnala che in media l’asilo di Ruffano ospitava 70 bambini[23]. Il prefetto Murgia il 5 dicembre 1866 autorizza l’adeguamento di ambienti dell’ex convento dei Cappuccini da destinarsi all’asilo[24].

Prima direttrice dell’Asilo infantile di cui abbiamo notizia è Antonietta Nicoli, bergamasca, che viene congedata dalla Congregazione di Carità nel 1869 in seguito a gravidanza; da questo scaturisce un contezioso con la Congregazione di Carità per quello che oggi definiremmo licenziamento senza giusta causa[25]. Nel periodo della gravidanza la Nicolì venne sostituita da Concetta Margarito come la stessa riferisce in una lettera al Prefetto di Lecce del 24 Giugno 1871 nella quale lamenta “dispiacevolmente di tante fatiche prestate a beneficio dell’Umanità per l’educazione ed istruzione dei poveri figli del popolo”, di non aver mai “ricevuto “compenso di sorte” quale maestra assistente dell’asilo dal 1868 al1869 e precisa che per parecchi mesi ha anche diretto l’asilo stesso “stante la gravidanza e malattia della Direttrice di allora”[26].

In realtà, la prima nominata con lettera del 25 maggio 1866 n.904 del Regio Ispettorato Sopra le scuole primarie e magistrali è Candido Marianna, che rinuncia per motivi di salute. Per non attardare oltre l’apertura del “patriottico Istituto”, sono nominate la Nicoli, Direttrice, con uno stipendio di L. 800, e Carrera Angelina, Maestra assistente a L. 500[27].

In una comunicazione al Ministro dell’Istruzione, il Prefetto di Lecce il 7 gennaio 1866 riferisce con entusiasmo dell’apertura degli asili in provincia: “mercè l’attività e solerzia di questo instancabile Ispettore scolastico Cav. Manfredi spero di poterne inaugurare altri tre nel corrente mese in Gallipoli, cioè, Brindisi e Latiano. E se si rinverranno abili Direttrici se ne potranno aprire altri quattro nel prossimo febbraio nei Comuni di Taranto, Grottaglie, Maglie e Ruffano ove si stanno portando a compimento le pratiche relative”[28]. Nella sua Relazione al Consiglio Provinciale del 1 dicembre 1865, in effetti, il Prefetto Ignazio Murgia aveva dato notizia della imminente apertura in Provincia di alcuni asili tra cui Ruffano[29]. Nel 1867 è già attivo l’“Educatorio femminile” in cui: “Vi si ricevono alunne dai sei ai diciotto anni, pagando l’annua retta di lire 153 oltre il corredo. Direttrice Sacarcan Agostina. Maestra Lantelegne suor Rosa, Assistente Pastore Concetta”[30].

Ritorniamo alla Nicoli. Il contenzioso che scaturì tra la direttrice, difesa dall’avvocato Luigi Villani, e la Congregazione, patrocinata da Giuseppe Foscarini, aveva un retroscena alquanto scabroso che diede scandalo in tutto il paese.

Nella denuncia del 30 agosto 1869 il procuratore legale della direttrice Benedetto Bodini, riferisce di “una deliberazione del Consiglio Provinciale Scolastico del 25 Luglio 1868” che aveva sancito  “pel S.r Mellusi come ispettore dell’Asilo Infantile la interdizione di dare lezioni in tutti i comuni del circondario di Gallipoli”; per la Signorina Carrera la sospensione di sei mesi e di tre mesi “per la S.ra Nicoli come colei che aveva la Direzione dell’Asilo e che aveva l’incarico di guardare tutto il personale insegnante perché aveva mostrata la carenza negli abusi avvenuti per sì lungo tempo poco curandosi di riferire alle autorità superiori quando non aveva ottenuto alcuni risultati dalle relazioni fatte all’Ispettore ed al delegato e continuando ad usare col Mellusi espressioni affettuose, fatti che mostrano la sua tolleranza”. In altri punti della pratica, più esplicitamente si riferisce di “Lunghi trattenimenti da solo a solo (del Mellusi) colla Carrera nelle ore notturne”. Insomma, viene fuori un ritratto del Mellusi un po’ diverso da quello conosciuto finora, meno ligio al dovere sacerdotale e più attento ai piaceri di Venere[31].

La nascita di un asilo a Ruffano è significativa della temperie sociale di quegli anni. Il progressivo ingresso della donna nel sistema produttivo industriale tra fine ‘700 e inizi ‘800 determinò la necessità di una assistenza che non fosse esclusivamente legata all’ambito parentale o al mutuo aiuto fra vicini, anche in una piccola realtà agricola come il comune ruffanese.

 

Nell’Italia liberale si assiste alla “scoperta dell’infanzia”[32]. La presenza delle Figlie della Carità o suore vincenziane non fu duratura; infatti non mancarono insofferenze verso l’affido di istituzioni educativo-caritative alle suore; gli esponenti del Risorgimento salentino, in primis Castromediano, puntavano alla laicizzazione delle istituzioni scolastiche.

Sintomatico fu lo scontro con il Provveditore agli studi della Terra d’Otranto in servizio dall’ottobre 1871, il trapanase ed ex garibaldino Salvatore Calvino (1820-1883), il quale ci consegna un’immagine molto critica delle scuole in Provincia in una delle sue note, in cui si sofferma particolarmente sui maestri privi di titoli: “su 170 scuole diurne maschili, 87 soltanto hanno il maestro patentato, e quelli delle 162 scuole private si possono dire quasi tutti sforniti della patente. Nè gli 87 che hanno il titolo legale, fatta qualche rarissima eccezione, si possono dire veri maestri”[33]. Inoltre scrive: “Gli educandati privati sono tenuti dalle Figlie della Carità. In essi s’insegnano le materie delle classi elementari senza attenersi di fatto ai programmi governativi. La classificazione delle alunne non è regolare, l’istruzione è meschina, la parte educativa è a ritroso della civiltà e delle libere istituzioni. Questi Educandati hanno sede nei Comuni di Galatina, Maglie, Oria e Ruffano e Taranto”[34].

La presenza a Lecce di Calvino coincide con un momento critico nella storia del giovane Regno d’Italia all’indomani della presa di Roma e dell’esplosione della “Questione Romana” che portò ad un esacerbarsi dello scontro tra clericali e anticlericali.  Ben diversi sono i toni di Calvino in una lettera privata da Lecce il 1 maggio 1872 al Ministro della Pubblica Istruzione Cesare Correnti (1815-1888) in cui lamenta gli ostacoli frapposti dalle suore alla laicizzazione degli istituti educativi. Calvino presenta un quadro per niente edificante del livello di alfabetizzazione, delle donne in particolare: “le donne che sanno leggere e scrivere, anche nelle classi agiate, possono contarsi sulle dita; tutte sono prive di qualsiasi educazione”[35].

Gli strali di Calvino sono per le religiose e per il loro operato. Egli parla di una vera e propria “azione malefica delle Figlie della Carità cui alcuni Comuni importanti hanno affidato le loro scuole”, con “un’invasione che fu potentemente aiutata dal prefetto Winspeare, il quale ha fatto un lavoro funesto di regresso che non si riuscirà agevolmente a distruggere”[36].  Lamenta l’azione discriminatrice delle Suore che di fatto favoriscono solo le figlie delle persone agiate e che “nei Consigli  Comunali e nelle Congregazione di Carità proteggono le monache perché le proprie figlie nelle dette scuole sono preferite e accarezzate…”, e si scaglia contro “quel demonio di prussiano che è suor Giuseppina Schone la superiora delle Figlie della Carità, appollaiata nel palazzo comunale di Lecce”; quindi riferisce che è stato avviato un repulisti generale e che su indicazione ministeriale si doveva “procedere con prudenza e riguardi ma direttamente e con fermezza verso il giusto fine (ossia laicizzare le scuole). L’opera è avviata, malgrado gli ostacoli che s’incontrano ad ogni piè sospinto; ed il fatto di Taranto ne è una luminosa prova. La Congregazione di Carità di Ruffano, che mantiene quasi interamente scuole comunali e asilo si dispone a seguire l’esempio”[37].

In realtà, nel periodo immediatamente dopo l’Unificazione, l’Italia si trovò ad affrontare il problema della carenza di insegnanti come risultò evidente dall’Inchiesta sulle condizioni della pubblica istruzione nel Regno d’Italia, proposta nel 1864 da Carlo Matteucci, vicepresidente del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, da cui emerse che a fronte di un fabbisogno stimato di 50.000 maestri si poteva disporre di soli 16.770. Ciò, come sottolinea Covato, inevitabilmente determinò un approccio pragmatico al processo di scolarizzazione, tra cui la scelta di consentire l’insegnamento anche ai privi di titoli e tollerare la massiccia presenza di ecclesiastici[38].

Il problema venne affrontato dal Prefetto Murgia che il 12 febbraio1866 fissò a Lecce una sessione speciale di esami per i maestri che esercitavano in provincia privi di titoli[39].

Il Sottoprefetto di Gallipoli il 17 aprile 1872 scrive a Ruffano per richiamare la normativa che proibiva la direzione della pubblica istruzione alle congregazioni religiose con l’aggravante che “le superiore appartengono ad estere nazioni”, e ordina di bandire un pubblico concorso per la nomina delle nuove maestre imponendo l’obbligo di mantenere l’incarico per un anno e se “suore” di sottostare ai doveri dei pubblici impiegati. Il Sottoprefetto richiama il caso di una suora che nel corso d’anno è stata trasferita dai superiori e ricorda inoltre l’obbligo di sottoporre le nomine delle maestre all’approvazione del Consiglio Scolastico Provinciale[40]. Nel 1872 le Suore vengono cacciate e si apre così una fase laica dell’istruzione a Ruffano fino al 1881, anno di arrivo delle Figlie di Sant’Anna[41].

La Congregazione di Carità stabilirà la sua sede nell’attuale Via Regina Margherita come riporta l’epigrafe in rilievo sulla facciata: “Congregazione di Carità 1872”. Inoltre, l’Educandato femminile nella Delibera n.1 del 30 ottobre 1873 è indicato con il nome di “Principe Umberto”[42]. La suora vincenziana nell’atto della consegna l’11 novembre 1872 è Giuseppina Gatteschi invece della superiora Emiliana Sacaleoni impossibilitata a presenziare[43].

Semeraro segnala anche un “Carteggio tra Prefettura e Ministro” (1872) circa la minaccia di chiusura delle scuole di Ruffano gestite dalle suore di Carità[44]. Il Prefetto con lettera del 12 ottobre 1872 su richiesta della Congregazione di Carità nomina direttrice dell’asilo infantile Zanoni Giuseppina e maestre dell’educandato femminile Raffi Erminia e Bornati Carolina, queste ultime di Cremona. Raffi parte il 30 gennaio per Lecce, come riferisce il Sindaco di Cremona il 27 Gennaio alla Congregazione di Carità dopo aver precisato che L. 50 di viaggio sono a carico della Congregazione; la Bornati rinuncia all’incarico ma è disposta a riconsiderare l’offerta solo se “lo stipendio venga elevato a Lire 900”[45].

Breve è la permanenza a Ruffano di Erminia Raffi che ha soli 17 anni ed è stata assunta senza l’autorizzazione del tutore, il professor Pollini Eugenio, come comunica il Consiglio Provinciale Scolastico il 28 /07/1873, con Prot. n.1086[46], quando chiede l’immediato licenziamento della maestra[47]. Il 14 luglio 1874 Zanoni redige un inventario dell’educandato e riporta che la direttrice percepisce uno stipendio di L. 850 e la maestra di L. 600 e che le due persone di servizio percepiscono L.150 e risultano “conviventi”, ossia ospiti, 15 persone, per un bilancio complessivo di L. 5712. Le lettere della Zanoni sono inviate da Arluno (Milano)[48].  Il 19 marzo 1875 il Consiglio Scolastico Provinciale, tenuto conto che la Congregazione il 15 dicembre 1874 aveva delegato allo stesso le operazioni di nomina della “Maestra assistente”, dà l’incarico ad Angela Guindani di Antonio di Cremona, dichiarando, quali titoli posseduti dalla stessa, “patente normale di grado superiore, altri requisiti voluti dalla legge, ha pure un attestato d’idoneità all’insegnamento negli asili e nei giardini d’infanzia”.

Nel decreto prefettizio di nomina del 19 marzo è precisato che la durata del contratto è di un triennio con stipendio annuo di L. 700 ed il “semplice alloggio gratuito nello stabilimento stesso dov’è l’asilo”[49]. Il 1 aprile 1875 la maestra Angela, scrive alla CdC da Ossolaro (Cremona): “tra poco tempo sarò costì a funzionare e siano certi che cercherò di controcambiare della fiducia che hanno posto in me con assiduità e amore alla scuola alla quale mi hanno affidato. Spero che alla metà di Aprile sarò in codesto paese. Maestra Guindani Angela”.  Quindi avanza i suoi desiderata[50]. La donna scrive 15 giorni dopo una nuova lettera in cui precisa il ruolo affidatole di “maestra dell’asilo infantile” e di essersi informata sui costi del viaggio che ammontano a 70 lire, somma che può sostenere solo a metà, “giacché le condizioni economiche attuali della mia famiglia sono critiche […] le altre 35 non so ove trovarle […] se non si fidano della mia persona”, e chiede di inviare la somma per il tramite del Comune[51].

Del 25 aprile 1875 è un’altra lettera della Guindani da Ruffano che avvisa la Congregazione di essere arrivata in paese[52]. Risale molto probabilmente agli anni in cui la Guindani è direttrice la lettera non datata ma presumibilmente del mese di luglio che ella indirizza alla CdC sollecitando la stessa a fissare la data dell’“esperimento finale”, ossia il saggio di fine anno poiché l’asilo incominciava a svuotarsi per l’arrivo dell’estate che spingeva i bambini con le famiglie al mare[53].

Il 30 aprile 1881 non viene rinnovato il contratto della Guindani che passa alle scuole elementari, dove risulta in servizio dal 6 aprile 1883, come da delibera del Consiglio Comunale del 30/06/1883. Inoltre Angiola Guindani, Mellusi, Marzo Marina e Carmelo Arnisi vengono confermati nel ruolo di maestri elementari sulla base dell’art. 3 della Legge 9 luglio 1876, n. 3250 “Sul miglioramento delle condizione dei maestri elementari”[54].

Nel frattempo una importante tappa era stata segnata nella storia scolastica. Con la Legge Coppino del 15 Luglio 1877 venne introdotto l’obbligo scolastico: “I fanciulli e le fanciulle che abbiano compiuta l’età di sei anni […] dovranno essere inviati alla scuola elementare del comune” (art 1). Gli oneri della scuola ricadono sui comuni che percepiscono fondi statali”. Nelle norme transitorie è fissata la quota di un insegnate ogni mille abitanti.

Ad un anno dall’emanazione del provvedimento viene condotta un’indagine ministeriale da cui risulta che il territorio di Ruffano ha una popolazione di 3290 abitanti, il dato sulla frequenza per Ruffano non è riportato, e che operano 3 scuole e 3 insegnanti[55]. Sulla base della norma sul numero delle scuole, si ebbe uno scambio epistolare tra le autorità scolastiche e il Comune di Ruffano a cui fu fatta richiesta “dell’impianto di altre due scuole elementari maschili”. La questione fu portata alla discussione del Consiglio Comunale che nella seduta del 29/12/1878 la rigettò poiché il comune non aveva disatteso la normativa in quanto contava 3290 abitanti compresa Torrepaduli (di 543 abitanti). Disaggregando il dato su Torre, la sola Ruffano ne contava 2747 e il numero dei maestri rispondeva quindi ai dettami della legge[56].

Il 18 aprile 1883 la Deputazione Provinciale di Lecce propone il commissariamento della Congregazione di Carità di Ruffano e nomina il commissario a seguito di un’inchiesta ordinata dalla Prefettura, “stante il ripetersi frequente di irregolarità ed abusi per parte di quella amministrazione, malgrado i richiami”. Pertanto “il governo delle opere pie è affidato ad un delegato straordinario da nominarsi da parte dal prefetto di Lecce con l’incarico di riordinare e rimuovere, nel più breve termine possibile, le irregolarità e gli abusi esistenti”[57]. Nella seduta del Consiglio Comunale del 23 Luglio 1883 si acquisisce una Relazione “contenente le irregolarità” della Congregazione, non vi è alcun riferimento all’asilo ma sull’ospedale è impietosa l’immagine dei degenti poveri che “si fanno uscire pria che si fosse avverata la perfetta guarigione”, e si invoca lo scioglimento della Congregazione. La proposta è approvata con sei voti e favore e con l’astensione di Pomponio D’Urso[58]. Con decreto regio del 30 Luglio 1883, la Congregazione della Carità di Ruffano è sciolta.

Il 20 ottobre 1883, il Regio delegato Straordinario, avvocato Achille Massa, assistito da Giuseppe Santaloja, prende in consegna i locali dell’Ospedale e dell’asilo infantile dalle mani del signor Grasso Marchetti Vincenzo, in qualità di ex Membro della disciolta Congregazione quale delegato di Tommaso Villanova, ex presidente della Congregazione stessa, alla presenza della “Superiora delle Suore di Santa Anna Signora Ariel Girolama in qualità di Direttrice dell’Ospedale e dell’Asilo”. Dall’inventario si presenta l’immagine di una scuola non certo priva di arredi e sussidi didattici[59]. Il 2 Novembre, alla presenza del Sindaco Pomponio d’Urso e con l’assistenza del Segretario Comunale Santaloja Giuseppe, l’avvocato Massa chiede di prendere visione dell’inventario dei beni a norma dell’art. 3 della L. 3 agosto 1862. Il presidente uscente e il nuovo eletto dovevano redigere l’inventario dei beni con “riscontro in contraddittorio quando avvengano cambiamenti di amministrazione”[60]. Nel verbale di visita il presidente è Sebastiano Pasanisi il quale sostieneche l’inventario suddetto non fu eseguito né in quel momento né durante il tempo in cui il sig. Villanova sostenne la carica di Presidente di questa Congregazione”[61].

La CdC verrà nuovamente commissariata il 20 ottobre 1891, quando il Regio delegato Maggiulli Cav. Luigi (1828-1914), dopo dieci mesi, rimette il suo mandato. Egli incoraggia i nuovi amministratori con considerazioni moralistiche di carattere generale ma che inevitabilmente fanno riferimento alla realtà locale. “Il sentimento morale attutito dall’ozio/odio infingardo e ciarliero che è la cancrena dell’attuale società”, dice Maggiulli[62].

Nel contesto del Basso Salento, Ruffano non poteva certo dirsi un realtà marginale, essendo sede di Mandamento, Giudicatura e Pretura. La struttura amministrativa fino al 1927 era composta su base locale dalla Provincia al cui capo era il Prefetto, i Circondari con a capo il Sottoprefetto (Gallipoli, nel caso di Ruffano), e i Mandamenti che avevano le competenze dell’istruzione. Nei Mandamenti il punto di riferimento era l’Intendente. L’esistenza di tali uffici sul territorio comportava anche la presenza di funzionari, quindi di un ceto impiegatizio non sempre originario di Ruffano ma proveniente da fuori. L’affluenza di burocrati anche dal Nord Italia incide sugli andamenti demografici del paese e sulle sollecitazioni culturali.

Il piccolo centro si trova attraversato da una rete di informazioni che in qualche modo lo connettono ulteriormente al neonato Regno. Lo stesso Pietro Marti (1863-1933), in uno scritto autobiografico pubblicato da Alfredo Calabrese, rievocando i tempi dell’infanzia, ricorda il padre, Pietro, che era stato funzionario (“usciere”) presso la Pretura di Ruffano. Egli, a detta di Pietro, appassionato liberale, iscritto alla mazziniana Giovane Italia e fra i principali collaboratori di Liborio Romano, aveva introdotto fin da piccolissimo il figlio al cospetto di personaggi di spicco del Salento di allora fra i quali il patriota Giuseppe Pisanelli che Pietro conobbe in casa del nobiluomo di Ruffano Antonio Leuzzi, “anche lui educato alla scuola del puro liberalismo”. Ruffano, spiega Pietro, era all’epoca uno dei pochi centri attivi dell’intellettualità salentina e il magnifico Castello Leuzzi, già Brancaccio, il centro ideale di quel movimento socio politico culturale[63]. Agente privilegiato di questo fermento culturale fu il personale scolastico dei maestri/e e dei dirigenti. Semeraro parla di “emigrazione al rovescio […], una penetrazione massiccia di funzionari dell’alfabeto”, a cui aggiunge le “suore francesi” e un “corpo variegato di missionari dell’educazione”, in un quadro legislativo non del tutto chiaro tra corpus borbonico e sabaudo; “vi erano tutte le premesse perché l’avvio fosse faticoso e irto di incomprensioni e di reciproche ostilità”, dice[64].

Come è facile ipotizzare, il posto di maestre o maestre assistenti all’asilo era molto ambito e perciò la CdC, che in passato aveva delegato alle autorità scolastiche provinciali l’individuazione del personale, ricorre alla formula concorsuale. Nel 1885 infatti anche le Figlie di Sant’Anna vennero espulse da Ruffano e si ritornò ad una fase laica.

Il primo concorso di cui ci è pervenuta la documentazione venne deliberato dalla CdC il 10 aprile 1885 e si svolse il 25 giugno di quell’anno. Nel maggio del 1885, viene pubblicata una “inserzione per l’incarico di direttrice dell’asilo di Ruffano con lo stipendio L. 800”[65]. Fra le concorrenti ammesse nel 1885: Chiarillo Cristina, Nassisi Addolorata, Russo Elena. La CdC è composta da: Agostino Marzo Presidente, Giannuzzi Francesco, De Pasca Giacobbe, Solidoro Vito, Barbara Vincenzo e Santaloja Giuseppe Segretario, probiviri i “signori” Mellusi e Carmelo Arnisi[66]. Le prove prevedevano un tema a scelta su una terna proposta e la risoluzione di un problema di computisteria. Il tema è “Dite quale sia l’opera dell’Asilo Infantile”; Addolorata Nassisi nel suo elaborato, mezza facciata che non lascia dubbi sul ruolo che affida all’Asilo, ossia quello di sopperire alle carenze educative delle famiglie, scrive: “Raddrizza l’alberello [il bambino] quando è tenerello […] che è come un consiglio al trascurabile agricoltore [La famiglia]”, ed esplicita nella chiusa finale: “Ecco l’Istituzione più civile, la più santa dell’Asilo Infantile pronto a riparare ai difetti dei genitori”. Successivamente invia una lettera di ringraziamento alla Congregazione “per avermi prescelta ad Assistente dell’asilo Infantile”, in cui dopo i convenevoli scrive: “voglio operare in modo da fare la buona mamma dei fanciulli […] cercando con amore d’infondere nelle loro tenere menti quei primi raggi d’istruzione, ed educazione che poi ben fecondati renderanno l’uomo onesto e buon cittadino”[67].

Russo Elena sceglie il tema “Dite in modo chiaro e non prolissamente quali arredi abbisognano ad un asilo Infantile”. Ella ingenuamente scrive: “Sebbene non abbia frequentato le scuole normali pure cercherò fare scorgere qualche cosa appreso nello studio e [dopo avere fatto un rapidissimo inventario degli arredi] non far mancare il ritratto dei nostri sovrani”[68].

Il concorso fu vinto dalla Nassisi, “avendo presentato maggiori titoli”[69], rispetto agli altri, ma la Russo con lettera bollata del 11/05/1891 fa presente che la Nassisi lascerà il posto per motivi di famiglia e pertanto rivendica l’attribuzione dell’incarico[70]. Ma alla base della scelta della Nassisi c’era anche il motivo dello stipendio mensile che se pur elevato da L. 20 a 30, comunque non era ritenuto dall’interessata congruo, perché inferiore a quello “di una donna del volgo che si è portata a raccogliere le ulive” e iniquo rispetto a quelli percepiti da “altri addetti al servizio di codeste opere pie”, come nella sua del 22 marzo 1885[71].

Intanto l’asilo nel 1886 è oggetto di una ulteriore ispezione. Per l’occasione Mellusi scrive in una Relazione, 8 colonne di foglio protocollo, il 19 settembre 1886, alla CdC, che l’asilo a seguito di una ispezione del Regio Ispettore scolastico evidenziava gravi carenze igieniche e strutturali e che non fu disposta la chiusura dello stesso solo per pura deferenza personale nei suoi riguardi e che era presente il Sindaco di Supersano (Rocco Frascaro); procede a descrivere lo stato di degrado in cui versa la struttura, sottolineandone la fatiscenza. Ricorda quindi l’importanza delle Vincenziane per la nascita degli asili ed in particolare il primo asilo di Ferrante Aporti[72].

Un secondo concorso è del 1895, deliberato il 18 gennaio sotto la presidenza del Cav. Rocco Frascaro. Il bando è destinato a “giovanette” maggiori di 15 anni che presentano i titoli e siano residenti a Ruffano. L’incarico è per due anni per uno stipendio di lire 180. Il concorso venne bandito sulla base delle più che legittime rimostranze della Direttrice Quaini poiché l’assistente in carica Rachele Cantoro, assunta il 25 settembre 1894[73], aveva soli 12 anni: “avrebbe bisogno piuttosto di istruzione”, quando l’asilo aveva 132 bambini[74].

Il concorso si svolge il 14 Marzo 1895[75]. Fra le tante domande, le tre ammesse sono quelle di Elena Russo, Luigia Torsello e Francesca Bianchi[76]. La commissione è così composta: Rocco Frascaro Presidente, Quaini Antonietta Direttrice dell’asilo Infantile, le maestre Marzo Marina[77], Toma Addolorata, Cito Antonietta[78], e il “conte Castriota Giorgio Scandenberg nella qualità di Delegato Scolastico Mandamentale”[79]. La commissione dichiarò vincitrice Elena Russo a cui è assegnato uno stipendio annuo di L. 180.

Il ruolo di maestra offrì anche alle donne salentine la possibilità di un primo ingresso nel mondo del lavoro. Queste donne erano spesso figlie della nascente burocrazia statale; si prenda il caso delle sorelle Quarta, Vittoria e Chiara, figlie di Luigi, Segretario Comunale dal maggio 1883 al 7 dicembre 1885[80]. La moglie di Luigi era Addolarata Arnisi, sorella del maestro poeta ruffanese Carmelo. E le sorelle Quarta sono legate a quella che dovette essere una delle prime scuole elementari di Ruffano, ubicata proprio nel retro della loro abitazione.

Ce ne parla Vincenzo Vetruccio che in un testo sul maestro Carmelo Arnisi scrive: “Sul retro della casa, in fondo al giardino della famiglia Arnisi, attraversato da una stretta corsia, a trenta passi dal cancelletto aperto sul vasto largo dei cappuccini, sorgeva la scuola del maestro Carmelo: un salone corrispondente a due stanze con volte a stella, la porta d’ingresso con una finestra sul muro di levante e una finestra in alto aperta nella parete volta a ponente […] Non è stato reperito alcun documento relativo a un canone corrisposto dal Comune per l’affitto del locale adibito a scuola pubblica. La Legge vigente appariva all’avanguardia in Europa, perché affermava l’obbligo e la gratuità della frequenza della scuola, ma avendone lasciato ai Comuni l’onere della gestione e del mantenimento, poiché essi avevano scarsissime risorse e pochissimi mezzi, la gestione fu purtroppo disattesa”[81].

Nel 1894 la CdC pone fine alla presa in carico della scuola elementare superiore, come nelle more del legato Piccinni, con delibera del 21 settembre 1894, ritenendole superflue rispetto alle esigenze di Ruffano, con considerazioni dalla chiara natura conservatrice: “i giovani insuperbiti dalle lettura e dall’abbicci si sono vergognati di porsi all’arte e mestiere qualsiasi, ed oggi per vivere  si tengono attaccati come piattole alla pubblica amministrazione”; inoltre precisa che l’asilo è nato proprio per rispettare lo spirito del testastore Piccinni accomodato con l’assetto legislativo scolastico in vigore[82]. Nel 1896 rientrarono a Ruffano le Figlie della Carità, come ricorda la lapide posta sulla facciata del Convento dei Cappuccini: “Espulse nel 1872 ritornarono desiderate dal popolo nel 1896”[83].

Sempre nel 1896 si avvia il “Restauro all’ex convento dei cappuccini e lavori di ampliamento e modifiche all’Asilo Infantile (1896-1935)”[84].

Una pagina a se meriterebbe la sede di Torrepaduli: sullo stato in cui versava ci basti quanto scrive l’ispettore scolastico di Maglie Renato Moro, padre di Aldo Moro, che riporta una nota del 2 marzo 1921, virgolettata, del provveditore di Lecce con cui si dispone l’immediata chiusura dell’asilo in quanto manca di arredi e del personale idoneo[85]. Il 16 dicembre dello stesso anno, l’ispettore effettua una visita di persona e il 19 riferisce alla Congregazione che: “l’insegnante Sofia Pepe fu Pietro è priva di qualsiasi certificato di studi, e quasi affatto analfabeta […] ed inesperta  a dirigere un asilo, sia anche esso ridotto ad una semplicissima e modestissima sala di custodia” e consiglia la chiusura dell’asilo[86]; il 26 gennaio ordina la sostituzione della maestra pena la chiusura della struttura “a salvaguardia della dignità dell’istituto e del rispetto che si deve all’infanzia”[87]. L’asilo, sia nella sede di Ruffano che in quella di Torre, negli anni della Grande Guerra e postbellici ospitò i figli dei “richiamati” anche al di sotto dei tre anni e in orario non scolastico[88].

Tra i molteplici documenti che il fondo d’archivio offre è possibile ricostruire le vicende del processo di secolarizzazione nel comune di Ruffano. Tra le carte, un documento, che segna l’avvio di una “scuola di telaio” nel 1864: si tratta di un contratto stipulato il 31 dicembre 1864 dalla CdC con la casaranese Marina Ucini “Maestra di telaio” per un quinquennio. Marina Ucini è chiamata a condurre questa scuola che è riservata “a tutte le fanciulle della classi operose e medie del Comune di Ruffano Torrepaduli e si precisa che le fanciulle devono aver compiuto nove anni, le lezioni giornaliere sono 3 ore la mattina e 2 il pomeriggio”[89]. Ma ci fermiamo qui, certi di aver abusato della pazienza dei lettori. Tutti gli spunti offerti in questo saggio andrebbero seguiti ed approfonditi per ricostruire le vicende della scuola di Ruffano fra Ottocento e Novecento, ricongiungendo i punti già tracciati dagli studi di Bernart con le nuove rilevanze archivistiche.

 

Note

         [1] A. de Bernart, Nel primo centenario della nascita di Pietro Marti, in «La Zagaglia», Lecce, n. 21, 1964, pp. 63-64; Il maestro di scuola nel Salento borbonico, Matino 1965; Il Salento nella poesia di Luigi Marti, in «Nuovi Orientamenti», Gallipoli, marzo-aprile 1984, n.85, p. 25; Un maestro di scuola nella Ruffano ottocentesca -Alfonso Mellusi, Galatina, Congedo, 1990; Carmelo Arnisi e il suo tempo, in  Carmelo Arnisi, un maestro poeta dell’Ottocento (con E. Inguscio e L. Scorrano), Galatina, Congedo, 2003, pp. 13-20; In margine alla figura di Pietro Marti, in «NuovAlba», aprile 2006, Parabita, 2006, p. 15; Cenni sulla figura di Pietro Marti da Ruffano, Memorabilia 35, Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis, 2012; ed altri.

     [2] A. de Bernart, Notizia su Giorgio Laurezios di Ruffano e la sua scuola di filosofia nella Supersano medievale (Memorabilia 28), plaquette, Ruffano, Tipografia Inguscio e De Vitis, aprile 2011; D. Arnesano, Giorgio Laurezio, copista ed intellettuale del secolo XV, in Circolazione di testi e scambi culturali in Terra d’Otranto tra Tardoantico e Medioevo, a cura di Alessandro Capone, con la collaborazione di Francesco G. Giannachi e Sever J. Voicu, Città del Vaticano, 2015 (Studi e Testi, 489), pp. 59-93. Si veda inoltre G. Lisi, Per la storia del rito greco in Terra d’Otranto. Una lettera inedita dell’arcivescovo di Otranto del 1580, in «Brundisii res», n. 13, 1981, pp. 167 e 174 e R. Durante, Iniziali e immagini a confronto: alcuni esempi tratti da codici salentini, in Le livre manuscrit grecécrituresmatériauxhistoireActes du IXe Colloque international de Paléographie grecqueParis10-15 septembre 2018, éd. par M. Cronier, B. Mondrain, Paris, Collége de France, Amis du Centre d’Histoire et Civilisation de Byzance, 2020 (Travaux et Mémoires, 24/1), pp. 113-134.

     [3] A. de Bernart, Il convento dei Cappuccini di Ruffano, in «Nuovi Orientamenti», a. XIII, n. 75, Gallipoli, Tipolito Pacella 1982, pp. 9-13; Idem, Il fondo residuo della biblioteca dei Cappuccini di Ruffano, in «Contributi», III, n. 3-4, Galatina, Congedo Editore, 1984, pp. 45-50; F.Trane, La biblioteca dei cappuccini di Ruffano. Profilo storico e catalogo, Galatina, Congedo, 1993.

     [4] R. Basso, La pietà secolarizzata, Galatina, Congedo editore, 1993, p. 56.

          [5] Ivi, p. 62.

     [6] Di Alessandro Gentile si segnala la presenza anche nel convento di Lecce e di Monopoli: ASNa, Cappellano Maggiore. Registri di relazioni della Cappellania, vol. 764, c. 28v, citato in L. Terzi, Le scuole normali a Napoli tra Sette e Ottocento. Documenti e ricerche sulla “pubblica educazione” in antico Regime, Napoli, L’Orientale editrice, 2001, pp. 33-34. I servigi resi alla corona borbonica gli valsero anche una pensione che il religioso rivendicò di fronte ai governanti francesi, come riportato in data 20 settembre 1806 quando, secondo il documento, sarebbe stato dimorante “alla Carità, Casa di Ruffano numero 85”: ASNa, Commissione liquidatrice del debito pubblico, Pensioni francesi, b. 827 inc. 6, cit. in Ivi, p. 48.  

     Veramente vasta la bibliografia nazionale sulla storia della scuola e dell’educazione. Per restare in ambito salentino, fra i contributi più significativi che riguardano il mondo della scuola e alcuni suoi protagonisti/e: O. Colangeli, Istituto Marcelline. Notizie storiche, in «La Zagaglia», n.35, Lecce, 1967, pp.306-322; G. Bino, La maestra nella letteratura: uno specchio della realtà, in L’educazione delle donne. Scuola e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, a cura di Simonetta Soldani, Milano, F. Angeli, 1989, pp. 331-362; R. Basso, Le scritture di Oronzina Tanzarella (Ostuni 1887-Roma 1940), in Aa.Vv., Il filo di Arianna. Materiali per un repertorio della bibliografia femminile salentina (sec.XVIII-XX), a cura di R. Basso e M. Forcina, Lecce, Milella, 2003, pp.109-126; G. Caramuscio, Virtuosi ed operosi. Modelli educativi e pratiche didattiche nella scuola salentina tra Ottocento e Novecento, in «L’Idomeneo», Università del Salento, Società Storia Patria Sezione Lecce, n.6-2004, Lecce, Grifo Editore, 2004, pp.81-127; Idem, Giulia Lucrezi-Palumbo: soggettività femminile e cultura tra Risorgimento e Guerra fredda (1876-1956), in «L’Idomeneo – Storie di donne», Università del Salento- Società di Storia Patria per la Puglia sezione di Lecce, n.8, Galatina, Panico, 2005, pp. 117-156; Idem, “Tanto gentile e tanto onesta pare…” L’educazione delle fanciulle secondo uno scrittore scolastico leccese di fine Ottocento, in AA. VV., Segni del tempo. Studi di storia e cultura salentina in onore di Antonio Caloro, a cura di Mario Spedicato, “Quaderni de L’Idomeneo”, III, Galatina, EdiPan, 2008, pp. 241-263; M. G. Calogiuri, “Colla ragione come col cuore”. Autrici meridionali tra modernità e tradizione, Lecce, Milella, 2008, pp.73-111; D.  Levante, Maria De Matteis Luceri, insegnante e scrittrice salentina tra Otto e Novecento. Primo approccio, in Humanitas et civitas, Studi in memoria di Luigi Crudo, a cura di Giuseppe Caramuscio e Francesco De Paola, Società Storia Patria sezione Lecce, Galatina, Edipan, 2010, pp. 79-100; P. Manca, «Benedite chi, con infinita pazienza, v’insegnò a tener la penna». La didattica dell’italiano in Maria Attisani Vernaglione (1870-1955)Ivi, pp.101-122; F. De Paola, S. Ciurlia, L’istruzione elementare nella Taurisano del Novecento: esperienza, memoria, immagini, Ivi, pp. 123- 184; F. Capoti, A. D’Antico, “Le cose per imparararle ci sono due modi…”. La sperimentazione del Tempo pieno a Taurisano (1980-83), Ivi, pp. 185-203; G. Caramuscio, Progettazione della cultura e cultura della progettazione. La scuola primaria di Taurisano nell’autonomia, Ivi, pp. 205-238; A. E. Carrisi, Il greco e il latino nell’era dei social network, Ivi, p. 303-310; L. Marrella, Fratelli d’Italia, compagni di scuola. Quaderni scolastici e immaginario infantile tra Risorgimento e fascismo, Manduria, Edizioni Note a margine, 2011; P. Manca, Per una pedagogia della narrazione “Memorie didattiche” del Liceo Statale “F- Capece” di Maglie, in FILOI LOGOI. Studi in memoria di Ottorino Specchia a vent’anni dalla scomparsa (1990-2010), a cura di Giuseppe Caramuscio e Francesco De Paola, Società Storia Patria Puglia sezione di Lecce, Galatina, Edipan, 2011, pp. 189-204; R. Basso, La prima professoressa salentina Giulia Lucrezi Palumbo (1876-1956), in Oltre il segno. Donne e scritture nel Salento (sec. XV-XX), a cura di R.  Basso, Copertino, Lupo, 2012, pp. 200-203; Eadem, La sfida della professione, il richiamo del privato Giulia PosoIvi, pp. 204-214; Eadem, Vestale della scuola pubblica Oronzina Quercia Tanzarella(1887-1940), Ivi, pp. 242-247; M. G. Calogiuri, Impegno educativo e milizia politica Maria Luigia Quintieri (1881-1973)Ivi, pp. 216-221; M. R. Filieri, Oltre la scuola, la parola pubblica, Ivi, pp. 254-259; G. Caramuscio, Scuola e lavoro attraverso le pagine di Istruzione Tecnica e Professionale (1959-1995), in Umanesimo della terra. Studi in memoria di Donato Moro, a cura di Mario Spedicato, Giuseppe Caramuscio e Vittorio Zacchino, “Quaderni de L’Idomeneo 16”, Galatina, EdiPan, 2013, pp. 151-184; Idem, La memoria della Scuola come scuola della Memoria: Galatina e il suo Liceo, in Quando Ippocrate corteggia la Musa. In memoria di Rocco De Vitis, a cura di Maria A. Bondanese e Francesco De Paola, “Quaderni de L’Idomeneo” 30, Lecce, Edizioni Grifo, 2017, pp. 113-144; V. De Luca, Le suore “Marcelline” di Lecce e l’ospedale militare di riserva nell’Educandato “Vittorio Emanuele II”, in La Grande Guerra in Terra D’Otranto. Un progetto di Public History, a cura di G. Iurlano, L. Ingrosso, L. Marulli, Monteroni di Lecce, Edizioni Esperidi, 2018, pp. 313-324; G. Caramuscio, Immagini della Scienza attraverso le tracce d’Italiano assegnate agli esami (1957-2017), in UT SOL IN MEDIO UNIVERSO… Scritti in onore di Ennio De Simone, a cura di Livio Ruggiero e Mario Spedicato, “Quaderni de L’Idomeneo 35”, Lecce, Edizioni Grifo, 2018, pp. 267-332; Idem, Le carte della (nella) scuola. L’insegnamento dell’Italiano attraverso l’archivio della scuola elementare di Monteroni (1925-1960), in Una passione per le cose e per la storia. Omaggio a Carlo Miglietta per i suoi settant’anni, a cura di Mario Spedicato, Castiglione (LE), Giorgiani, 2020, pp. 85-135. G. Caramuscio-P. Morciano, La voce leccese della Patria: Giulia Lucrezi Palumbo, in L’officina del sentimento Gesti voci segni di donne in Terra d’Otranto dalla Grande Guerra al fascismo, a cura di Giuseppe Caramuscio, “Medit Europa”, Società di Storia Patria per la Puglia sezione Lecce, Castiglione, Giorgiani, 2021, pp. 143-199; P. Morciano, La guerra antiretorica di Oronzina Quercia Tanzarella, Ivi, pp. 83-107.

     [7] Nella Santa visita di Mons. De Rossi del 1711, Piccinni è indicato come uno dei quaranta sacerdoti di Ruffano, ha circa 70 anni (A. de Bernart, M. Cazzato, Una chiesa un centro storico, Galatina, Congedo, 1989, p.39), è laureato a Salerno in “Filosophia et medicina” nel 1668 (ASSa, Acta doctoratus, Anno 1668, Volume 22, Fascicolo 12, p. 211).

     [8] Testamento di L. Piccinno relativo all’assegnazione in dote di beni stabili alla Cappella di S. Maria della Misericordia, eretta nella chiesa di Ruffano, ASLe, Congregazione di Carità [d’ora in poi CdC] Ruffano, Sez. I, Opere pie, b.1, ff. 1,2,3. Notaio rogatore, Pomponio D’Urso. Apertura del testamento di L. Piccinno di Ruffano (solo copie del 1765; 1875; 1911); Regolarizzazione dello Stato giuridico del legato Piccinno 1912-1913, in ASLe, Sez. II, CdC, b.90, f.717. L’Inventario si trova on line sul sito dell’Archivio di Stato di Lecce: La Congregazione di Carità ed ente comunale di Assistenza di Ruffano, Inventario a cura di Franca Tondo, https://archiviodistatolecce.cultura.gov.it/.

La cappella fu edificata nel 1722 con interventi dello scultore coriglianese Gaetano Carrone: S. Tanisi, Visita nella Chiesa della Natività della Vergine di Ruffano, https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/07/17/visita-alla-chiesa-della-nativita-della-vergine-di-ruffano-lecce/. Piccini è ritratto nella tela dell’altare orante ai piedi della Vergine: A. de Bernart e M. Cazzato, Santa Maria della Serra a Ruffano Galatina, Congedo Editore, 1994, p. 49.

     [9] Art 1: L’Opera “trae le sue origini dal testamento mistico che fu del D. Aloysio Piccinni”: Statuto Organico Speciale dell’Opera Pia Misericordia Amministrata dalla Congrega di Carità di Ruffano, Pei tipi di Luigi Carra, Matino, 1897, p.1. ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b.126, f. 786, Statuto organico e progetto di revisione.

     [10] ASLe, Sez. II, Cdc, b. 93 f. 725, Copia Lettere 1854, n. 175 28r.

     [11] Tra gli anni 1799 e 1802 gli abitanti di Ruffano erano circa 2000. ASLe, Scritture delle Università e feudi di Terra d’Otranto Comune di Ruffano, busta 23/77, 63r-80r, cit. in S. Vinci, Dal parlamento al decurionato. L’amministrazione dei comuni del Regno di Napoli nel decennio francese, in «Archivio Storico del Sannio», anno XIII, n.2, luglio-dicembre 2008, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2008, p. 198.

     [12] Bullettino delle leggi del Regno di Napoli 1813, Volume 1, p. 234. Inoltre, P. Liberatore, Della pubblica educazione. Trattato del professore Pasquale Liberatore, Napoli, Tipografia G. Palma, 1840, p. 7. L’autore classifica quella di Ruffano come “Scuola secondaria di prima classe”. Sulla Scuola di Presicce, A. Stendardo, Radici. Presicce nella storia, Lecce, Edizioni Grifo, 2022, p. 81. Risale all’agosto del 1806 il provvedimento che stabilisce all’Art. 1: “Tutte le città, terre, ville ed ogni altro luogo abitato di questo regno, saranno obbligate a mantenere un maestro per insegnare i primi rudimenti, e la dottrina cristiana a’ fanciulli: saranno inoltre tenuti a stabilire una maestra per fare apprendere, insieme colle necessarie arti donnesche, il leggere, scrivere e la numerica alle fanciulle”; all’Art. 2 che: “Le somme necessarie pel pagamento di tali individui, dovranno annualmente ascriversi tra pesi detti comunitativi di ogni Università”; all’Art.3 che: “Ne’ luoghi che contengono popolazione minore di 3000 abitanti sarà permesso a’ maestri di serbare il metodo ordinario antico. Ne’ luoghi poi, ove la popolazione sarà maggiore i maestri dovranno insegnare col metodo normale”: riportato in CNR, Collezione delle Leggi, dei Decreti e altri atti riguardanti la Pubblica Istruzione promulgati nel già reame di Napoli dall’anno 1806 in poi, Volume I, 1806-1820, con introduzione e nota tecnica, Responsabile Paola Avallone, Roma, 2014.

     [13] ASNa, Ministero degli affari interni Stati discussi, cit. in V. Petrilli, Leggere, scrivere e far di conto. La scuola primaria nel Mezzogiorno preunitario attraverso gli Stati discussi comunali 1818-1821 e 1848-1852, in L’istruzione in Italia tra Sette e Ottocento. Dal Regno di Sardegna alla Sicilia borbonica. Istituzioni scolastiche e prospettive educative, a cura di Angelo Bianchi, Vol. I, Brescia, Morcelliana, 2019, pp. 303-304.  Tra l’atro, viene riportato che i maestri in Terra d’Otranto erano i meno pagati del Regno: Ivi, p. 314. Ancora un decennio dopo, sotto il Regno di Francesco II (1859-1860), il 35 % dei comuni ha una scuola e solo il 27% una sezione femminile. H. A. Cavallera, Storia della scuola italiana, Le Lettere, Università Firenze, 2013, p. 93. Gli stati discussi erano i bilanci preventivi degli enti locali (Decurioni) nei quali compariva anche la voce “scuola primaria”. M. Lupo, L’istruzione nel Mezzogiorno, in L’istruzione in Italia tra Sette e Ottocento, cit., Volume II, p. 39, e Tavola “Scuole primarie e pubbliche in Terra d’Otranto”, Ivi, p. 62.

     [14] E. Inguscio, Risorgimento nella periferia del Mezzogiorno. Ruffano e Torrepaduli dalla Rivoluzione napoletana del 1799 all’Unità d’Italia, Galatina, EdiPan, 2011, p. 93, con Postfazione di Aldo de Bernart.

     [15] Art. 4: “I Sindaci e Decurioni debbono formare la terna de’ Maestri, e passarla per mezzo dell’Intendente al Vescovo della rispettiva Diocesi”; Art. 11: “I Parrochi avranno l’immediata vigilanza sulle scuole primarie delle rispettive parrocchie”: Real Rescritto Riguardante alcune modifiche al Regolamento per le scuole primarie del Regno del 21 dicembre 1821.

     [16] ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 126, f. 786, Scuola elementare superiore: istituzione, e b.126 f. 788, Proposta di terna  a  maestro. Il maestro nominato “della scuola secondaria istituita in Ruffano per testamento di D. Aloisio Piccini” è Guglielmi, come pubblicato in Notizie interne estratto da Giornale del regno delle Due Sicilie dal 2 al 10 dicembre, Anno 1859, n. 43, p. 338. Il sacerdote secolare Angelo Antonio Guglielmi tenterà invano di ottenere il riconoscimento dalle autorità scolastiche della sua “Scuola Classica di Ruffano”, richiamando le disposizioni del Legato Piccinni, ma le autorità scolastiche, pur riconoscendone il diritto al godimento dei benefici del legato, tuttavia gli negheranno sempre il riconoscimento della sua scuola.  Il 30 luglio del 1862 fa richiesta di “normalizzazione” della sua “Scuola classica”, dichiarando che essa era già operativa con il seguente programma: “Prima Classe Grammatica inferiore Italiana / idem latina / Catechismo della storia d’Italia Geografia   d’Italia. Storia Sagra. Seconda Classe Grammatica superiore Italiana / idem latina Seguito del Catechismo della storia d’ Italia. Geografia d’Europa. Aritmetica Elementare”. ASLe, Sez. II, CdC- O.P.M., b. 126, f. 788, fl. 6r, Scuola elementare superiore: istituzione. Si veda inoltre ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 126, f. 793, Indice di tutte le carte relative al maestro di scuola Guglielmo Angelantonio 1876.

     [17]Archivio Storico Comunale Ruffano [d’ora in poi ASCr], Deliberazione del Consiglio Comunale Tornata 15 del 30/06/1883. Su Mellusi si veda: A. de Bernart, Un maestro di scuola nella Ruffano ottocentesca, cit. Si rinvia inoltre a P. Vincenti, Maestri di scuola a Ruffano fra Ottocento e Novecento (prima parte), in «Nuova Taurisano», a. XXX, n.2, novembre 2019, pp. 2-3 e Maestri di scuola a Ruffano fra Ottocento e Novecento (seconda parte), Ivi, a. XXXI, n.1, luglio 2020, pp. 2-3. Nell’anno scolastico 1862-1863 sono attive in Ruffano due scuole pubbliche, una maschile e una femminile, con 140 maschi e 91 femmine. Statistica del Regno d’Italia Istruzione primaria Istruzione elementare pubblica per Comuni, anno scolastico 1862-1863, Modena, Tipografia di Antonio ed Angelo Cappelli, 1865, tavola 189.

     [18] ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b.126, f. 788, Locale per scuola- Contratto – Carte diverse, fl 5r/v.

     [19]ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b.126 f. 789, Educandato laicale femminile istituzione. Il documento fa riferimento alle libere elargizioni del Vescovo Francesco Bruni (Vincenziano come le suore) e del Sindaco Pomponio D’Urso.

     [20]ASLe, Sez II, CdC- O.P.M., b.127, f 809. Si tratta molto probabilmente della casa di Aldo de Bernart.

     [21] ASLe, Sez. II, CdC -O.P.M., b. 126, f. 787, Uso di una cappella di proprietà Leuzzi da parte delle suore. 

     Quando nel 1896 le Figlie della Carità saranno riammesse, tale disposizione verrà rinnovata con un nuovo atto del 12 gennaio 1896, registrato il 14 gennaio, tra Congregazione della Carità e il commendatore Pasquale Leuzzi fu Antonio per una cappella “sita nell’abitato di Ruffano via di mezzo contigua al fabbricato di questa congregazione già destinato alle Figlie della Carità […]”: Ibidem.

     [22] Lo statuto consta di 50 articoli, la copia qui citata è dell’8 luglio 1918, e si conserva in duplice formato nell’ASCr, una dattiloscritta, non datata, la seconda autografa, la terza di 5 copie, come annotato sul frontespizio; nell’ultimo foglio a calce del testo originale è riportato Per copia conforme ad uso amministrativo”, firmatari il Presidente Maselli e il Segretario Viva Raffaele. Nel testo si riportano anche i nominativi dei firmatari dell’originale ottocentesco: Pasquale Leuzzi, Presidente, Alfonso Mellusi, Vito Santo, Francescantonio D’Urso, Raffaele Viva, Segretario. ASCr, Asilo infantile Margherita, e E. Inguscio, La civica amministrazione di Ruffano 1861-199 Profilo Storico, Galatina, Congedo,1999, pp. 144-145. In ASLe si conserva la Notifica pubblica che annuncia l’apertura della struttura: “Istituzione eminentemente filantropica, e tre volte santa e cristiana va ad inaugurarsi”. Nel 1909 l’asilo si dota di un nuovo statuto, secondo un modello ministeriale: ASLe, Sez II, Cdc -O.P.M, b.127, f. 801, Statuto dell’asilo infantile.

     [23] A. Semeraro, Cattedra, Altare, Foro, educare e istruire nella società di Terra d’Otranto tra Ottocento e Novecento, Lecce, Milella, 1984, p. 98.

     [24] ASLe, Sez. II, CdC -O.P.M., b.127, f. 799.

     [25] ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 126, f. 796, Istanze diverse, e Ivi, b. 89, f .684.

     [26] Ibidem.

     [27] Regio Ispettorato sopra le scuole Primarie e Magistrali del 25 maggio 1866, prot. n. 904, “Direttrice asilo Infantile Ruffano”: ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 127, f 798. I colloqui per la selezione sono stati fatti da Mellusi.

     [28] Relazione sugli Asili Infantili della Provincia inviata dal Segretario della seconda divisione della Prefettura di Terra d’Otranto al Ministero della Pubblica Istruzione, s.d. (ma 1869). ACS, MPI Direzione generale istruzione primaria e popolare (1784-1920), b. 92, cit. in B. Carbè, Gli asili infantili in Terra d’Otranto nella seconda metà dell’Ottocento, in «Quaderni di Intercultura», Anno XI/2019, ISSN 2035-858, X, p. 318.

     [29] A. Semeraro, Cattedra, Altare, Foro, educare e istruire nella società di terra d’Otranto, cit., p. 96. Murgia fu Prefetto dal 24 giugno 1863 al l0 ottobre 1867. M. Missori, Governi, alte cariche dello Stato e prefetti del regno d’ Italia, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, pubblicazioni degli Archivi di Stato, Roma, 1973, p. 499. Il Prefetto Murgia nei Rapporti sullo spirito pubblico 1865 pone particolare attenzione alla scuola e alla laicizzazione della stessa, evidenziando la forte influenza degli ecclesiastici, soprattutto dei gesuiti, e sottolineando come “i costumi della popolazione sono «corrotti» e la prole è spesso abbandonata a se stessa”: ASLe, Prefettura, Gabinetto, vol. 301, fasc. 3648, 1 maggio 1867,  cit. in R. Ibba, A. Piras, A. Sanna, D. Sanna, I Murgia da Villamar all’Unità d’Italia, Cagliari, AM&D, 2019, p. 97. O. Colangeli, L’istruzione pubblica in Terra d’Otranto prima e dopo l’Unità d’Italia, in «La Zagaglia», n.33, marzo 1967, pp. 28-39. La mancanza di personale laico formato porterà le autorità scolastiche a tollerare anche la presenza delle religiose, come appunto scrive il Regio Ispettore delle scuole della Terra d’Otranto Manfredi che con lettera del 30 novembre 1865 sollecita l’apertura dell’asilo a Ruffano, una “santa istituzione”, affidandone la direzione a una figlia della Carità. ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 126, f. 796, Proposta di un asilo infantile in Ruffano, 30 novembre 1865, prot. n. 289. L’affidamento alle suore della direzione venne deliberato il 28 dicembre 1867 su proposta de Delegato Straordinario e sindaco Pomponio D’Urso sulla base di considerazioni finanziarie: ASLE, Sez. II, CdC -O.P.M., b.89, f. 684, Produzione di parte nella c.c. fra la Congr. di Carità e Antonietta Nicolì di Ruffano per opposizione a congedo da direttrice dell’Asilo Infantile.

     [30] L’Annuario della Istruzione Pubblica del Regno d’Italia 1867-1868, Firenze, Tipografia Eredi Botta, 1868, p. 525.

     [31] ASLE, Sez. II, CdC -O.P.M., b.89, f. 684, Produzione di parte nella c.c. fra la Congr. di Carità e Antonietta Nicoli di Ruffano per opposizione a congedo da direttrice dell’Asilo Infantile. Il 02/05/1875 Il Consiglio Comunale di Mesagne con delibera n. 10 riconferma la Sig.ra Antonietta Nicoli come Direttrice dell’Asilo Infantile e il Sig. Antonio Franchetti come Maestro della Prima Elementare: Busta 2, Categoria I, Classe VIII, Fascicolo 1, Anni 1869-1876, Serie 16  http://archiviostorico.comune.mesagne.br.it:8888/index.cfm?stato=visualizzadocumento&iddoc=5780&categoria=I&classe=VIII&busta=2&fascicolo=1&anni=18691876&registro=12&anniregistro=1874-1875&passo=49&n=50&serie=16.

Come si vede, il marito della Nicoli è un maestro elementare e non possiamo escludere che abbia esercitato anche Ruffano. Nel 1895 Nicoli è direttrice della scuola Normale femminile di Bari e collaboratrice di «La missione della donna», periodico letterario educativo fondato e diretto da Olimpia Saccati.

     [32] F. Cambi, S. Ulivieri, Storia dell’infanzia nell’Italia Liberale, Firenze, La Nuova Italia,1988. Gli autori evidenziano il ruolo “catechistico” che assume la scuola nel processo di integrazione risorgimentale; non a caso il volume reca come immagine di copertina l’opera di Giacchino Toma I figli del popolo (1862) che rappresenta due fanciulli scalzi che giocano a fare i garibaldini salutando militarmente l’effigie del generale.

     [33] S. Calvino, Relazione sull’istruzione secondaria e primaria della provincia di Terra d’Otranto per l’anno 1871-72 presentata al Consiglio Provinciale scolastico nella tornata del 16 novembre 1872, Lecce, Tipografia Garibaldi, 1872, p. 12.

     [34]Ivi, p. 20.

     [35] Lettera privata qui integralmente trascritta e commentata da V. C. Manacorda, Testimonianze di un provveditore agli studi sull’educazione femminile nel Mezzogiorno, in L’educazione delle donne. Scuole e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, a cura di Simonetta Soldani, Milano, Franco Angeli, 1991, pp. 265-269. Su Calvino, che fu «nel 1866, al fianco di Garibaldi, ed ebbe da lui l’ordine di trasmettere il famoso “obbedisco”», si veda F. L. Oddo, ad vocem, in Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 17, 1974 (on line).

     [36] Antonio Winspeare (1822- 1918), duca di Salve, fu prefetto di Lecce dal 1868 al 1870: M.M. Rizzo, Potere e grandi carriere. I Winspeare, secc. XIX-XX, Galatina, Congedo, 2004, pp. 134-167.

     [37] V. C. Manacorda, Testimonianze di un provveditore agli studi sull’educazione femminile nel Mezzogiorno, cit.

     [38] C. Covato, Un’identità divisa. Diventare maestra in Italia fra Otto e Novecento, Archivio Guido Izzi, Roma, 1996, p. 42. Si veda anche M. Dei, Colletto bianco, grembiule nero. Gli insegnanti elementari italiani tra l’inizio del secolo e il secondo dopoguerra, Bologna, Il Mulino,1994. Sempre della Covato, Educata ad educare: ruolo materno ed itinerari formativi, in L’educazione delle donne. Scuola e modelli di vita femminile nell’Italia dell’Ottocento, a cura di Simonetta Soldani, Milano, F. Angeli, 1989, pp.180-186.

     [39] Il bando è integralmente riportato in A. de Bernart, Il maestro di scuola nel Salento borbonico, cit., p. 10. Già dal 1861 sono operanti a Lecce scuole preparatorie per allieve maestre, ma bisogna attendere il decreto del Ministero della PI del 23 Luglio 1877 per il pareggiamento. L. Bruno, D. Ragusa, M. R. Tamblè, Inventario dell’Archivio Storico, in L. Bruno, D. Ragusa, C. Stefanelli, M. R. Tamblè, Patrimonio di Carta. Il fondo della Biblioteca e l’Archivio storico del Liceo “Pietro Siciliani” di Lecce, Lecce, Edizioni Del Grifo, 2017, p. 464.

     [40] ASLe, Educandato laicale femminile: Istituzione, 1872-1875, b. 126, f. 789, lettera del 17 aprile 1872, prot. n. 422, ff. 12-13 r/v. La lettera, se pure fa richiami a norme generali, si riferisce chiaramente a situazioni concretizzatesi in Ruffano.

     [41] Data l’8 ottobre 1881 la scrittura privata tra la Congregazione e la Madre generale Rosa Gattorno, oggi beata, fondatrice dell’Ordine Figlie di Sant’Anna nel 1866. Presidente della CdC all’epoca è Sebastiano Pasanisi. ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 126, f. 806, Spese alle Figlie della Carità delle religiose di Sant’Anna.

     [42] ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b.126, f. 791, Ammissione alunne 1873-1909.

     [43] ASLe, Sez. II, Congregazione di Carità Verbali di consegna dell’Asilo Infantile di Ruffano alla Congregazione di Carità, b. 1, f.  4.

     [44] Archivio Centrale dello Stato, Titolo VI, Scuole femminili normali e magistrali, busta 35, cit. in A. Semeraro, Cattedra, trono, cit., p. 246.

     [45] ASLe, Sez II, CdC – O.P.M., b.126, f. 788, Maestre.

     [46] ASLe, Sez II, CdC – O.P.M., b.126, f. 790, Sussidio all’educandato laicale femminile.

     [47]ASLe, Sez II, CdC – O.P.M., b. 126, f. 790, Educandato laicale femminile: istituzione. Il professore /sacerdote Pollini Eugenio è autore, insieme a Luigi Mangili e Senofonte Pessina, di Progetto di riordinamento della scuola magistrale femminile di Cremona, Tipografia Ronzi e Signori, 1869.  Sempre il Consiglio Provinciale Scolastico con lettera del 27 gennaio 1874, n. 429 nomina maestra assistente la piacentina Piva Giovannina. Ibidem.

     [48] ASLe, Sez II, CdC – O.P.M., b.126, f. 789, Educandato laicale femminile: istituzione. È più che plausibile ipotizzare che Zanoni abbia frequentato ad Arluno il Collegio del Sacro Cuore presso cui era attiva una scuola Normale Femminile dove si diplomerà maestra e maturerà la sua vocazione religiosa Santa Francesca Saverio Cabrini (1850-1917): https://www.cabriniroma.it/la-fondatrice/.

     [49] ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 126, f. 796.  Lettera al Consiglio Scolastico Provinciale del 19/03/1875, prot. n. 147.

     [50]ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 126, f. 796, Asilo Infantile. Come scrive de Bernart, Angela o Angiola, o Angiolina, come altrove si firma, sarà un’“apprezzata maestra delle classi femminili”: A. de Bernart Un maestro di scuola nella Ruffano ottocentesca-Alfonso Mellusi, cit., p. 10.

     [51] Ossolaro è oggi frazione del Comune di Paderno Ponchielli  https://www.lombardiabeniculturali.it/istituzioni/schede/4051518/.  A Cremona è nato l’abate Ferrante Aporti che è considerato il padre del primo Asilo Infantile italiano a pagamento.

     [52]ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b.126, f. 796, Asilo Infantile.

     [53] Dello stesso argomento e tenore è quella della direttrice Giuseppina Zanoni del 25 luglio1877 in cui riferisce alla CdC che i frequentanti vanno “decrescendo giorno per giorno a motivo che vari si stabiliscono in campagna”, preoccupata per le sorti del saggio in programma per il 2 agosto e tantissimi sono, nel fondo d’archivio da cui attingiamo, i biglietti di scuse dei notabili locali per non potere presenziare al saggio finale. ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b.126, f. 796, Corrispondenza 1866-1877. L’11 agosto 1877 risultano Zanoni direttrice, Guidani assistente e Chiarillo Maria praticante (tirocinante): Ivi, b.127, f. 798, Personale direttrice e maestra (1866-1877). Il 30 gennaio 1878 Chiarillo scrive lamentando “uno stipendio tanto meschino da far vergognare”: Ivi, b. 126, f. 796. Istanze diverse.  Ritroviamo il nome della Zanoni nella seduta del Consiglio Comunale di Ruffano del 4 gennaio 1894: “Giuseppina Zanoni è nominata maestra a Torre per gli anni 1894-1895”. La Zanoni è autrice del libro Cose d’ogni giorno all’asilo, Milano, A. Vaillardi, 1920.

     [54] Nella stessa seduta, il consigliere Giuseppe Santaloja propone e il Consiglio all’unanimità approva la “Conferma a vita dell’insegnante Mellusi Alfonso nella carica di maestro elementare inferiore”, poiché “con zelo e puntualità […] la sua opera fu sempre rivolta all’incremento e progressivo sviluppo del benessere degli abitanti di questo Comune”. Gli viene confermato lo stipendio annuo di 770 lire. ASCr, Deliberazione del Consiglio Comunale tornata 15 del 30/06/1883 ff. 52r/v-53r. A. de Bernart, Un maestro di scuola nella Ruffano ottocentesca, cit., p. 8. Della maestra Guindani non vi è traccia nell’archivio della scuola che pure conserva i registri a partire dal 1899, ma una “Angiola Guindani” è indicata nel 1894 come “Maestra – direttrice coll’insegnamento nella 2a sezione” del Regio Giardino d’infanzia di Beirut. Bollettino del Ministero degli Affari esteri. Parte amministrativa e notiziario 1894, Roma, 1894, p. 16.  Per l’anno scolastico 1913-1914 ricopre lo stesso incarico a Susa, Turchia. Annuario del Ministero degli Esteri, Scuole italiane all’estero. Governative e sussidiate Anno scolastico 1913-1914, Tipografia editrice nazionale, Roma, 1914, p. 76. Il 20 maggio 1925 con prot. n. 7776, il Provveditorato agli Studi di Bari chiede informazioni alla Congregazione sul servizio prestato dalla signora Guindani in qualità di maestra e direttrice dell’asilo per pratica di pensionamento. ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b.126, f. 796, Corrispondenza 1866-1872. Nella risposta da Ruffano si certifica che la Guindani è stata in servizio dal 20 aprile 1875 al 30 aprile 1881 con stipendio di L.700 e casa ammobiliata. Ibidem.

     [55] G. Buonazia, Sullobbligo della istruzione elementare nel regno d’Italia: attuazione della legge 15 luglio 1877, Roma, Tipografia eredi Botta,1878, tabella a p. 249.

     [56] ASCr, Deliberazione del Consiglio Comunale. Tornata 24 del 29 /12/1878.

     [57] Gazzetta Ufficiale del Regno D’Italia 10 settembre1883, n. 212, pp. 3947-3948.

     [58] I sei consiglieri redattori della Relazione sono: Giuseppe Santaloja, Licci Agostino, Gianuzzi Francesco, De Santis Carmelo, Giaccari Gennaro, Morello Lucio. ASCr, Tornata 17 del 23-07-1883, ff. 58v-60 r.  E. Inguscio, La civica amministrazione, cit., pp. 118-121. Il Sottoprefetto di Gallipoli il 25 febbraio 1885 con prot. n.1287, scrive alla Congregazione di Carità evidenziando che l’Ospedale era abusivo, non essendo stato riconosciuto con “Decreto sovrano”. ASLe, Sez II, CdC – O.P.M., b. 2, f. 32. La chiusura definitiva avverrà il 9 aprile 1886, quando la Prefettura approva la Delibera della Congregazione del 14 febbraio dello stesso anno. Ibidem.

     [59] ASLe, Sez II, CdC – O.P.M., b. 1, f. 8, Verbale di consegna dell’Ospedale e dell’asilo Infantile di Ruffano.

     [60] Secondo l’art. 8 della legge n. 753, Opere pie, del 3 agosto 1862.

     [61] ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 1, f. 8.

Tommaso Villanova, farmacista, viene eletto Sindaco di Ruffano nel 1882 mentre Pomponio d’Urso è Presidente della Congregazione in sostituzione di Alfonso Mellusi dichiarato decaduto dal Prefetto per incompatibilità.  E. Inguscio, La civica amministrazione, cit., p. 118. Mellusi ricoprì la carica di Tesoriere dal gennaio all’aprile 1883, come risulta dal verbale della seduta del 19 aprile 1893 dove si discute dei rimborsi per il sacerdote al tempo del suo incarico. ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b. 2, f. 46.

Il 15 gennaio Giuseppe Santaloia subentra in qualità di Sindaco facente funzioni al Villanova che si è dimesso. Il 23 dello stesso mese D’Urso si dimette da presidente della citata Congregazione e gli succede con la stessa carica Tommaso Villanova. E. Inguscio, La civica amministrazione, cit., p. 28.

     [62] ASLe, CdC – O.P.M., b. 126, f. 796, Asilo infantile 1866-1920 e Ivi, b. 127, f.799, Lavori vari all’edificio dell’Asilo infantile (1866-1891).

     [63] A. Calabrese, Le memorie di Pietro Marti, in «lu Lampiune», n.1 Lecce, Grifo, 1992, pp. 27-34. Si veda anche E. Inguscio, Amici e mecenati in alcune liriche del poeta Carmelo Arnisi (1859-1909), in «Note di storia e cultura salentina», Società Storia Patria Basso Salento, A. XII, Lecce, Argo Editore, 2000, pp. 193-203. Come osserva Cavallera, la “piemontesizzazione” del Sud Italia fu il frutto di una “politica realistica e forse un po’ cinica” legittimata non solo militarmente ma anche dal fatto che la Torino sabauda aveva assunto in quegli anni “la leadership culturale”: H. A. Cavallera, Storia della scuola italiana, cit., pp. 99-100.

     [64] A. Semeraro, Cattedra, Altare, Foro, educare e istruire nella società di Terra d’Otranto tra Ottocento e Novecento, cit., pp.12 e 13. C’è anche la rivendicazione identitaria, per esempio nelle parole di Salvatore De Pace che evidenzia la necessità di avere libri di testo “fatti per le nostre Provincie […] in vece di prendere le mosse da Torino e Firenze”. S. de Pace, Libro per le scuole elementari, Gallipoli, Tipografia Municipale, 1879, cit. in Ivi, pp. 160-166.

     [65] Inserzione in La scuola elementare marchigiana, anno II, Montegiorgio, 15/05/1885, n.11.

     [66] ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., b.126, f. 796, Istanze al posto di assistente, verbale del 21/06/1885.

     [67] Ivi, temi.

     [68] Ibidem.

     [69] Ivi, verbale del 21/06/1885.

     [70] Ivi, Istanze al posto di assistente, lettera dell’11/05/1891.

     [71] Ivi, Istanze diverse.

     [72] ASLe, Sez. II, CdC – O.P.M., Carte diverse.

     [73]ASLe, Sez. II, CdC- O.P-M., b. 2, f. 5. Ivi, Sez. II, Congregazione di Carità, b.2, f. 78.

     [74] Ivi, b.2, f. 78, Aprirsi concorso per assistente dell’Asilo infantile.

     [75] Ivi, b. 126, f. 796, Istanze al posto di assistente, verbale del 14 /03/1895.

     [76] Francesca Bianchi è la sorella di Eteocle Bianchi al quale con delibera del 16 Ottobre 1895 la CdC destina una somma per l’apertura delle “Scuole elementari superiori” ma la Regia prefettura, sentita per parere il 29 novembre, non approva perché tale elargizione sarebbe da considerarsi una distrazione di fondi destinati alla beneficienza”. ASLe, Sussidio al Sig. Bianchi per scuola elementare del Comune, b. 126, f. 788.  Il 10 dicembre la sottoprefettura invia copia della deliberazione del Consiglio scolastico provinciale “che non approva l’impianto della scuola”. Nella seduta del 12 novembre 1898 il Consiglio comunale nomina lo stesso Bianchi Direttore Dittatico (E. Inguscio, La civica amministrazione, cit., pp. 158 e 169) ma la nomina risulterebbe non confermata dal Consiglio scolastico provinciale di Lecce, contro il quale il 19 dicembre 1898 Bianchi presenta ricorso, che viene respinto. Bollettino Ufficiale del Ministero della Pubblica Istruzione, anno XXVI; V. I, n. 16-17 Roma 20-27 aprile 1899, p. 826. Nell’Archivio della scuola si conservano i registri d’epoca del maestro Bianchi, l’ultimo è dell’anno scolastico 1902-1903, quarta e quinta maschile, sita in “Piazza san Francesco”. Il maestro Eteocle muore l’8 /6/1908 a soli 33 anni.  ASCr, Registro degli atti di morte 1908, n.35.

     [77] Alla maestra Marzo Marina il Consiglio Comunale il 25 Giugno 1889 conferisce l’attestato di lodevole servizio: E. Inguscio, La civica amministrazione, cit., p. 220.

     [78] Cito Antonietta nativa di Sogliano Cavour (27/06/1872) sarà la maestra elementare a Torrepaduli fino al 1 ottobre 1935, anno del “collocamento a riposo” dopo 41 anni di servizio. Archivio Scolastico Ruffano, fascicolo personale “pensionamento”, Lettera del Provveditorato agli studi di Bari n. 5276, 24 Marzo 1935. Nel 1902 è nominata “mastra a vita” con delibera n. 117 del Consiglio comunale. Ivi, nota 107, p. 157. Nel 1936 le verrà conferito il “Diploma di benemerenza. Ministero delleducazione nazionale, Bollettino ufficiale dell’anno 63, Volume 2, 29 ottobre 1936, anno XV, n. 44, p.1476. Il marito è Giovanni Maselli che nel 1918 ricopre la carica di Presidente della CdC, il figlio è Mario Maselli che si laureerà in Farmacia il 18/07/1929 a Napoli. G. Carruggio, Rassegna annuale della vita e del pensiero salentino, Volume VII per l’anno 1933, Lecce, Editrice “L’Italia Meridionale”, 1933, p. LIX; E. Inguscio, La civica amministrazione, cit., p. 76.

     [79] R. Basso, Donne in provincia. Percorsi di emancipazione attraverso la scuola nel Salento tra Otto e Novecento, Milano, Franco Angeli, 2007, p.74.

     [80] L. Quarta, Relazione sullo stato dell’amministrazione del Comune di Ruffano e sull’andamento di essa nel biennio 1882-1883, Lecce, 1884, cit. in A. de Bernart, Un maestro di scuola, cit., nota 1, p. 2. Su Chiara Quarta, insegnate dal 1922 al 1949, Archivio Scolastico Ruffano, fascicolo personale Chiara Quarta.

     [81] V. Vetruccio, Discorso letto il 21 Giugno 2012, in occasione della prima “stella” posata nel cortile della Scuola Primaria, in onore del maestro-poeta Carmelo Arnisi, Inedito. Vetruccio riporta un inventario stilato da Carmelo Arnisi degli arredi della scuola da lui diretta e cita altri colleghi venuti prima di lui, quali don Alfonso Mellusi, Ferdinanda Calì e Anna Maria Casaluce. Una foto dell’antica Casa Quarta-Arnisi, oggi proprietà Frisullo, è riportata da A. de Bernart in Carmelo Arnisi e il suo tempo, in Carmelo Arnisi. Un maestro-poeta dell’800, cit., p. 16 e riprodotta in un disegno di Pasquale Ricchiuto riportato da E. Inguscio in Carmelo Antonio Arnisi. L’uomo e il poeta, Ivi, p.25.

     [82] ASLe, Sez. II, CdC-O.P.M., b. 2, f. 71.

     [83] Nel verbale del 5 dicembre 1895 la Congregazione presieduta da Michele Cagnazzo delibera appunto il rientro delle suore per affidare la gestione della farmacia e sottolinea lo zelante operato delle stesse “durante l’epidemia colerica di cui fu funestato il nostro Comune nel 1867”. ASLe, Sez. II, CdC-O.P.M., b. 2, f. 94, Istituzione delle Figlie della Carità. 

     [84] ASLe, Sez. II, CdC-O.P.M., b. 25, f. 289. Il 6 luglio 1897 in seduta straordinaria presieduta da Luigi Rubino la Congregazione prende atto della rinuncia per motivi famigliari da direttrice dell’asilo di Antonietta Quaini e delibera di affidare l’asilo alle Figlie della Carità. ASLe, Sez. II, CdC -O.P.M., b. 2, f. 98, Affidarsi l’asilo Infantile alle Figlie della Carità. La direttrice Quaini comunica che a seguito della morte della madre rinuncia all’incarico. La madre è Grossi Teresa, vedova di Giuseppe Quaini, di Brembio (Lodi), morta a Ruffano il 25 aprile 1897. Comune di Ruffano, Registro Atti di Morte Parte I, 1897, n. 33. Dalla lettera dell’assistente Russo Elena del 26 marzo 1900 apprendiamo che la Congregazione con sua del 24 marzo n.154 comunica il licenziamento del personale laico dell’asilo Infantile “essendo stato affidato lo stesso Asilo alle distinte Figlie della Carità”. ASLe, Sez. II, CdC -O.P.M., b. 126, f. 796, Istanze diverse.

     [85]ASLe, Sez. II, CdC -O.P.M. b. 126, f. 796, 2 marzo 1921, prot. n.3325.

     [86] Ivi, 19/12/1919, prot. n.8092.

     [87] Ivi, 26 /01/1920, prot. n. 520.

     [88] La Direttrice Concetta De Benedictis nel 1918 ricevette una menzione ministeriale. Benemeriti dell’assistenza scolastica a favore dei figli dei militari, in Bollettino ufficiale del Ministero dell’istruzione pubblica, anno XLV, vol I. n.14, del 4 aprile1918. La Congregazione si fece carico anche di ospitare due orfane del terremoto di Messina con telegramma del 24/11/1909 e il Ministero degli Interni comunicò l’assegnazione delle piccole sorelle Visciano, Angela di 11 anni e Elvira di 10 anni. ASLe, Sez II, b.126, f. 791, Ammissione alunne 1873-1909.

     [89] ASLe, Sez II, CdC – O.P-M-, b.126, f. 788, Maestre.

Maestri di scuola a Ruffano fra Ottocento e Novecento

di Paolo Vincenti

 

Come la vicina Taurisano[1], anche Ruffano vanta una serie di maestri elementari fra Ottocento e Novecento, esponenti di quella classe intellettuale che certo faticava a trarre fuori dall’analfabetismo la popolazione, assillata in quel torno di tempo da problematiche più urgenti come la miseria, la mancanza di lavoro e l’alta mortalità per malattia. In questa sede, non ci soffermeremo sul loro ruolo di insegnanti e sulle problematiche connesse all’esercizio della professione,[2] ma piuttosto sulla loro produzione letteraria, nei due secoli presi in esame.

Il primo maestro di cui ci occupiamo è Alfonso Mellusi (1826-1907), biografato da Aldo de Bernart nel bel saggio Un maestro di scuola nella Ruffano ottocentesca –Alfonso Mellusi-[3].  Originario di Ginosa ma proveniente da Alessano, aveva studiato presso il Seminario di Ugento e poi aveva perfezionato la formazione presso il Convento dei Cappuccini di Ruffano. Divenuto sacerdote, fu il primo maestro di scuola a vita (oggi si direbbe insegnante di ruolo) non solo a Ruffano ma nel Salento. “Sacerdote filosofo”, lo definisce de Bernart, “direttore di un corso per la formazione di maestri elementari”,[4] autore nel 1868 di un Catechismo religioso comparato con la storia sacra[5] che de Bernart pubblica in versione integrale nel succitato volume. Si tratta di un’opera sulla didattica dell’insegnamento della religione cattolica, che diede al maestro Mellusi grande prestigio e notorietà, tanto che nel 1900 il Re Umberto I lo nominò Cavaliere della Corona d’Italia.

Ma Ruffano negli stessi anni si dimostrava all’avanguardia anche sotto l’aspetto della parità di genere e dell’emancipazione femminile. Occorre ricordare almeno due nomi di maestre donne a cavallo fra Ottocento e Novecento: Marina Marzo e Angiola Guindani.[6]

Altro maestro di cui ci occupiamo è Carmelo Arnisi (1859-1909).  Oltre ad essere ricordato da Ermanno Inguscionella sua opera La civica amministrazione di Ruffano-Profilo storico[7], è stato al centro di una pubblicazione del 2003, a cura della Pro Loco di Ruffano: Carmelo Arnisi – Un maestro poeta dell’Ottocento, un pregevole volume con tre saggi, di Aldo de Bernart, Ermanno Inguscio e Luigi Scorrano, sulla vita e le opere del poeta ruffanese, fino ad allora quasi sconosciuto, nonostante a lui sia a Ruffano intitolata una strada[8].

Nel libro, pubblicato con il patrocinio dell’Amministrazione Comunale di Ruffano, Cosimo Conallo, nell’Introduzione, sottolineava come fosse ormai tempo di riscoprire la figura di questo poeta ruffanese, intorno al quale non era mai stato fatto uno studio organico. Nel primo saggio, L’Arnisi e il suo tempo, Aldo de Bernart fa uno spaccato della società, della politica, dell’arte scultorea, pittorica ed architettonica del tempo in cui visse l’Arnisi, e parla delle sue fonti di ispirazione, delle sue frequentazioni con i maggiori protagonisti della cultura salentina dell’epoca, fra i quali il grande Cosimo De Giorgi, con cui egli era in corrispondenza, ed anche con gli esponenti della nobiltà locale, come le famiglie ruffanesi Castriota-Scanderbeg, Pizzolante -Leuzzi, Villani- Licci. <<Ispirandosi alla poesia di Luigi Marti […] che aveva cantato la “Verde Apulia”, l’Arnisi cantò la “Verde Ruffano”, in particolare S.Maria della Serra dove soleva recarsi, pellegrino di fede e d’amore…>>.[9] Il secondo saggio, Carmelo Arnisi (1859-1909) L’uomo il poeta, a cura di Ermanno Inguscio, ripercorre le tappe fondamentali della vita del poeta, la cui salute fu minata fin dalla giovane età da una persistente forma di tosse convulsa; l’infanzia serena trascorsa a Ruffano, presso la casa di Vigna La Corte prima e Casa Quarta, in Via Pisanelli, dopo, il suo lavoro di maestro elementare, l’amore per la cultura, la collaborazione con alcuni giornali dell’epoca, come “Il Corriere meridionale”, diretto da Nicola Bernardini, e la “Cronaca letteraria”, diretta da Giuseppe Petraglione; gli inverni a Ruffano e le estati trascorse a Leuca, ospite nelle ville delle famiglie Daniele, Castriota, Fuortes. Sempre ben disposto nei confronti degli amici, fra i quali il segretario comunale Donato Marti, era invece tagliente e fortemente sarcastico nei confronti degli usurai, che egli definì “vampiri sociali”, degli operatori di banca, “illustri parassiti”, e degli ipocriti. Morì, nel luglio del 1909, spossato da una forma grave di polmonite, a soli 49 anni. Alla sua morte, il giornalista e scrittore Pietro Marti traccia un elogio funebre sul giornale “La Democrazia”.[10] Nel terzo saggio, Sui versi di Carmelo Arnisi, Luigi Scorrano fa una attenta analisi dell’opera “Versi”, unica inedita dell’Arnisi, e dei manoscritti lasciati dal poeta e non pubblicati. Viene fuori il ritratto di un autore che si può ascrivere al filone della poesia sentimentale dell’Ottocento, influenzato da Leopardi, D’Annunzio, Pascoli, Carducci, dei quali trascrive molte poesie. La produzione dell’Arnisi è caratterizzata da toni intimistici, i temi sono gioie familiari, amore deluso, spesso tristezza e ripiegamento su se stesso; è costante, nelle sue liriche, la presenza della morte. Nell’opera non data alle stampe, che il curatore chiama “Versi 2”, per distinguerla da quella a stampa, indicata come “Versi 1”, compaiono altri motivi e fonti di ispirazione, come la natura, l’amor di patria, l’attenzione al sociale, gli scherzi nei confronti degli amici, la filiale devozione per la terra natale, Ruffano. Anche se non vi è una vera e propria connotazione locale nell’opera dell’Arnisi, che voleva evitare la dimensione municipalistica di una caratterizzazione estremamente tipicizzata, emerge comunque la salentinità del poeta e il suo attaccamento al borgo natìo. È stato il maestro Vincenzo Vetruccio il primo a riscoprire Carmelo Arnisi dal momento che, come giustamente rivendica in una sua pubblicazione autoprodotta[11], fu lui che ritrovò il manoscritto dell’Arnisi, Versi, inedito, lo fotocopiò e ne donò una copia al prof. Cosimo Conallo, all’epoca Presidente della Pro Loco, il quale si fece poi promotore della pubblicazione, affidandone l’incarico agli studiosi de Bernart, Inguscio e Scorrano. Nel quadernetto, Vetruccio riporta molte interessanti notizie biografiche e foto sull’Arnisi e sulla Ruffano del tempo in cui visse l’insegnante.

Ed eccoci a Pietro Marti (1863- 1933), il nome più altisonante fra gli intellettuali a cui Ruffano abbia dato i natali.[12]

Dalle svariate fonti in nostro possesso sappiamo che Pietro Marti nasce in una poverissima famiglia ruffanese, ma riesce tuttavia a studiare, tra mille sacrifici, ed a diplomarsi maestro elementare, attività che svolge a Ruffano, nei primi anni. Marti non aveva un carattere facile. Ben presto, i suoi rapporti con l’amministrazione comunale di Ruffano si fecero tesi ed egli, dopo ricorsi e sentenze del Consiglio di Stato, fu mandato ad insegnare a Comacchio. In realtà i motivi del suo esonero furono le arbitrarie assenze dal posto di lavoro. Oltre alle lettere, la sua grande passione è l’arte e l’amore per la sua terra, che lo studioso manifesta in vari modi, nella sua sfaccettata e multiforme attività. Spirito libero, brillante e poliedrico, si dà al giornalismo, fondando e dirigendo molte testate, fra le quali “La Voce del Salento”, “Arte e Storia”, “La Democrazia”, ecc. Il nome di Marti è anche legato alla nascita ed alla diffusione del Futurismo pugliese.  Nel febbraio del 1909, infatti, veniva pubblicato sul prestigioso giornale francese “Le Figarò” il Manifesto del Futurismo, la corrente letteraria fondata da Filippo Tommaso Marinetti. Sulla “Democrazia”, settimanale fondato e diretto da Pietro Marti, il 13 marzo 1909, vale a dire a meno di un mese di distanza dall’apparizione del manifesto Le futurisme sul “Figaro”, veniva pubblicato il “Manifesto politico dei Futuristi”. Ancora, dopo un periodo di parziale oblio del futurismo leccese, nel 1930, a smuovere le acque fu “La Voce del Salento”, nuovo settimanale fondato e diretto da Marti, con un articolo, a firma di Modoni, fortemente critico nei confronti dell’arte futurista. Questo articolo innescò l’effetto contrario rispetto a quello desiderato dal suo autore; vi fu infatti una levata di scudi, da parte degli esponenti del futurismo, in difesa del movimento. Lo stesso Marti, con lo pseudonimo di Ellenio, pur chiamandosi fuori dalla rissa che si era scatenata, esprimeva forti perplessità sulla concezione futurista dell’arte. E tuttavia, da intellettuale aperto e illuminato, pur non in sintonia con le idee dei giovani futuristi, accettava di pubblicare qualsiasi intervento. Si ritrovò così a dare spazio ad un gruppo di giovani artisti leccesi, che si chiamerà “Futurblocco”, capeggiato dall’allora poco più che adolescente Vittorio Bodini, nipote dello stesso Marti, il quale ricorderà sempre il nonno in pagine di grande affetto. Molti i meriti di Marti nell’arte. Da vero talent scout, fece conoscere al grande pubblico i giovani artisti salentini, con l’allestimento di Biennali d’arte a Lecce. Fu Regio Ispettore ai Monumenti della Provincia di Lecce, dal 1923 al 1929, e Direttore della Biblioteca provinciale “Nicola Bernardini” fino alla morte. Oltre ad una biografia di Antonio Bortone, in cui Marti dimostra la propria ammirazione per lo scultore ruffanese,[13] scrisse diverse opere di carattere storico, artistico e letterario. Fra queste, una la dedica proprio al filosofo taurisanese Giulio Cesare Vanini. Al martire di Tolosa, Marti si sentiva molto vicino per indole e temperamento e ne sposava idealmente la causa. Il libro è Giulio Cesare Vanini del 1907.[14] Marti, nel suo elogio del filosofo, definito il “precursore del trasformismo scientifico”, seguendo le parole di Bodini[15], passa in rassegna tutti gli studiosi che avevano severamente contestato il Vanini e quelli che invece lo avevano difeso. Si sofferma lungamente sulle vicende biografiche di Vanini, sulle numerose tappe del suo lungo peregrinare e soprattutto sulle sue opere, approfondendo il pensiero del filosofo, che inquadra nel contesto storico in cui visse e operò. Porta illustri esempi di filosofi del Cinquecento, Seicento, Settecento, per esaltare l’eroismo di Vanini, e tuttavia non si sottrae a quella visione che erroneamente lo considerava un martire della repressione cristiana se non un Giordano Bruno minore. Da citare anche l’opera Nelle terre di Antonio Galateo, [16]che faceva riferimento al grande autore del De situ Iapigiae, l’erudito del Cinquecento Antonio De Ferraris, di Galatone.

In tutto, si conservano circa 40 opere di Marti presso la Biblioteca provinciale di Lecce, che gli costarono molti anni di paziente ricerca, agevolata sicuramente dal suo incarico di Direttore della Biblioteca provinciale, nella quale egli profuse grandissimo impegno e amore per la nobile cultura di cui si sentiva paladino. Per questo, esaminò un numero impressionante di documenti e svolse ricerche sul campo per tutto il corso della sua carriera. Pietro Marti muore il 18 luglio 1933; a lui a Ruffano, è anche intitolata una via.   

 

Note

[1] Si rinvia a Francesco De Paola, Stefano Ciurlia, L’istruzione elementare nella Taurisano del Novecento: esperienza, memoria, immagini, in Aa. Vv., Humanitas et Civitas. Studi in memoria di Luigi Crudo, a cura di Giuseppe Caramuscio e Francesco De Paola, Società di Storia Patria-Sezione di Lecce, “Quaderni de l’Idomeneo”, Galatina, Edipan, 2010, pp.123-184.

[2] Si veda Aldo de Bernart, Il maestro di scuola nel Salento Borbonico, Tipografia di Matino, 1965.

[3] Aldo de Bernart, Un maestro di scuola nella Ruffano ottocentesca –Alfonso Mellusi, Galatina, Congedo, 1990.

[4] Aldo de Bernart, Carmelo Arnisi e il suo tempo, in Aldo de Bernart, Ermanno Inguscio e Luigi Scorrano, Carmelo Arnisi Un maestro poeta dell’Ottocento, Galatina, Congedo, 2003, p17.

[5] Alfonso Mellusi, Catechismo religioso comparato con la storia sacra, Lecce, Tip. Gaetano Campanella, 1868.

[6] Aldo de Bernart, Un maestro di scuola nella Ruffano ottocentesca –Alfonso Mellusi cit., p.10.

[7] Ermanno Inguscio, La civica amministrazione di Ruffano-Profilo storico, Galatina, Congedo,1999, pp.176-179 ed anche Idem, Amici e mecenati in alcune liriche del poeta Carmelo Arnisi (1859-1909), in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria sezione Maglie, n. XII, Lecce, Argo, 2000, pp.193-203.

[8] Aldo de Bernart, Ermanno Inguscio e Luigi Scorrano, Carmelo Arnisi – Un maestro poeta dell’Ottocento, Galatina, Congedo, 2003.

[9] Aldo de Bernart, Carmelo Arnisi e il suo tempo, in op.cit., p.19.

[10] Pietro Marti, Lutto nell’arte, in “La Democrazia”, n.27, Lecce, 11 luglio 1909, riportato da Ermanno Inguscio nel suo saggio Carmelo Arnisi (1859-1909) L’uomo il poeta, in Carmelo Arnisi – Un maestro poeta dell’Ottocento cit., p.38, nel quale riporta anche il necrologio dell’Arnisi scritto sul “Corriere Meridionale” dell’8 luglio 1909: Ivi, p.29.

[11] Vincenzo Vetruccio, Carmelo Arnisi (Maestro-poeta/ 1859-1909), s.d..

[12] Sulla figura dell’erudito Pietro Marti (1863-1933), storico, giornalista, conferenziere, illustre concittadino di Ruffano, esiste una cospicua bibliografia. Tra gli altri:

Carlo Villani, Scrittori ed artisti pugliesi antichi, moderni e contemporanei, Trani, Vallecchi, 1904, p.578 (nuova edizione Napoli, Morano, 1920, pp-137-138);  Domenico Giusto, Dizionario bio-bibliografico degli scrittori pugliesi (dalla Rivoluzione Francese alla rivoluzione fascista), Bari, Società Editrice Tipografica, 1929, pp.187-188;  Aldo de Bernart, Nel I centenario della nascita di Pietro Marti, in “La Zagaglia”, Lecce, n. 21, 1964, pp.63-64;  Pasquale Sorrenti, Repertorio bibliografico degli scrittori pugliesi contemporanei, Bari, Savarese, 1976, pp.375-376; Ermanno Inguscio, La civica amministrazione di Ruffano (1861-1999). Profilo storico, Galatina, Congedo, 1999, pp.174-175; Paolo Vincenti, Pietro Marti da Ruffano, in “NuovAlba”, dicembre 2005, Parabita, 2005, pp-17-18; Aldo de Bernart, In margine alla figura di Pietro Marti,  in “NuovAlba”, aprile 2006, Parabita, 2006, p.15;  Ermanno Inguscio, Vanini nel pensiero di Pietro Marti, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia sezione di Maglie, n. XX, Lecce, Argo, 2009, pp.137-148;Idem, Pietro Marti direttore di giornali, in “Terra di Leuca. Rivista bimensile d’informazione, storia, cultura e politica”, Tricase, Iride Edizioni, a. VII, n. 39, 2010, p. 6; Idem, L’attività giornalistica di Pietro Marti, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia sezione di Maglie, n. XXI, Lecce, Argo, 2010-2011, pp.227-234; Idem, Il giornalista Pietro Marti, in “Terra di Leuca. Rivista bimensile d’informazione, storia, cultura e politica”, Tricase, Iride Edizioni, a.VIII, n.40, 2011, p.7; Idem, Liborio Romano e le ragioni del Sud nel periodo postunitario. Il contributo di Pietro Marti sul patriota salentino, in “Risorgimento e Mezzogiorno. Rassegna di studi storici”, n.43-44, dicembre 2011, Bari, Levante, 2011, pp.147-161; Idem, Pietro Marti e la cultura salentina. Apologia di Liborio Romano, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia sezione di Maglie, n. XXII, Lecce, Grifo,2012, pp.164-185; Aldo de Bernart, Cenni sulla figura di Pietro Marti da Ruffano, Memorabilia n.35, Ruffano, Tip. Inguscio e De Vitis,2012; Ermanno Inguscio, Pietro Marti, il giornalista, il conferenziere, il polemista, in “Note di Storia e Cultura Salentina”, Società Storia Patria Puglia sezione di Maglie, n. XXIII, Lecce, Argo, 2013, pp.40-58; Idem, Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013.

[13] Pietro Marti, Antonio Bortone e la sua opera, Lecce, 1931.

[14] Pietro Marti, Giulio Cesare Vanini, Lecce, Editrice Leccese, 1907; su quest’opera si sofferma Ermanno Inguscio in Vanini nel pensiero di Pietro Marti, contenuto nel suo libro Pietro Marti (1863-1933) Cultura e giornalismo in Terra d’Otranto, a cura di Marcello Gaballo, Fondazione Terra D’Otranto, Nardò, Tip. Biesse, 2013, pp.123-134.

[15] Vittorio Bodini, In memoria di Pietro Marti. La vita e l’opera, in “La Voce del Salento”, n,11, Lecce, 18 maggio 1933, p.1.

[16] Pietro Marti, Nelle terre di Antonio Galateo, Lecce, 1930.

Poeti per Ruffano

di Paolo Vincenti

Ruffano: il suo paesaggio viene cantato in poesia da vari rimatori fra Ottocento e Novecento. I suoi “colli ridenti”, la pace e la salubrità dell’aria del suo verde poggio, la collina della Madonna della Serra, attirano spiriti pensosi in cerca di silenzio e ispirazione. Fra questi, Carmelo Arnisi, a cui la Pro Loco di Ruffano nel 2003 ha dedicato un elegante volume che lumeggia la figura di questo maestro elementare vissuto fra Ottocento e Novecento .
Questi i delicati versi del poeta: “O del villaggio mio colli ridenti, / sparsi d’ulivi scintillanti al sole;/ o d’aria pura libere correnti /profumate di timo e di viole;/ o boschetti dai verdi allacciamenti /dove l’augelli intessono carole;/ come son dolci i vostri allettamenti, / come son dolci le vostre parole!/ e chi potrà mai dir quali favori/ voi concedete a l’uom, quali ricchezze?/ il vino ai vecchi, a le fanciulle i fiori, / a tutti il pane che la vita allieta…/ e quanti sogni poi, quante dolcezze / serbate pel mio cuore di poeta!/” .
La collina della Madonna della Serra di Ruffano attrae anche studiosi che la frequentano per i loro interessi eruditi: fra questi il grande scienziato Cosimo De Giorgi, che ammira “il suo paesaggio davvero pittoresco” e la sua “flora così ridente e rigogliosa” che “conforta l’occhio dell’artista” . Così anche Raffaele Marti, che tratta del Bosco Belvedere, enorme riserva di caccia che un tempo occupava le aree di svariati comuni del medio Salento, a partire da Ruffano e Supersano ; in tempi più recenti, Aldo de Bernart e Mario Cazzato hanno descritto le caratteristiche orografiche, storiche e artistiche del poggio ruffanese .
Il fratello di Raffaele Marti, il poeta Luigi, anche se non cita Ruffano, ne canta i lieti colli in un delizioso bozzetto nella sua opera Il Salento, in cui dipinge lo spettacolo del paesaggio della Iapigia estrema con il tocco del pittore. “Salve Japigia estrema! Ah non per anche / l’improbo ferro strusse i tuoi boscheti / Piniferi! Le cime ancor non stanche / del Belvedere tuo, de’ tuoi querceti!/ Spettacol nuovo, a chi per queste franche / aure trascorre, rimirar su i lieti / colli, dal piano rampicanti e bianche, / le tue borgate uscir da gli uliveti!/ Spettacol molle i tuoi cieli orientali!/ e tra le piante, al lume delle stelle, / le tue marine tremolari innanti, / sonare i campi d’opere rurali / e di muggito d’animali, belle / fanciulle l’opre accompagnare a i canti! /” .
Ma c’è anche un poeta non ruffanese che scrive delle campagne ridenti e dei sentieri odorosi di una Ruffano da cartolina, ritratta in una immagine idealizzata dal suo occhio sensibile. È Leonardo Mascello, “un poeta di passaggio da Ruffano nei primi del Novecento”, scrive Aldo de Bernart ,  che riporta anche alcuni versi del componimento di Mascello dedicato a Ruffano: “O paesetto raccolto sul poggio, / coronato di verde in giro, in giro, / sotto un cielo di perle e di zaffiro, / che, al tramonto, s’incende e divien roggio;/ o campagne ridenti, o praterie / odoranti di timo e di mortella;/ o sentieri dei monti, o pia cappella /erma e perduta ne le grige ombrie/ degli ulivi sul colle della Serra;/ o del padule pallidi acquitrini, / molli canali e torpidi pollini, / quanta tristezza ora per voi m’afferra!/  (“Nostalgia”).  Versi semplici e cantabili, nei quali si può riconoscere una chiara descrizione della collina di Ruffano.
Ma chi era questo poeta di passaggio da Ruffano? In realtà, egli fu sacerdote della Parrocchia Natività Beata Vergine Maria dal 1903 al 1907, precedendo Don Francesco Fiorito, al quale è dedicata la lirica.  Una prima scarna biografia è disponibile in rete, sul sito del Comune di Castrignano dei Greci, il suo paese nativo. È riportato: «Leonardo Mascello, poeta e sacerdote, nacque a Castrignano dei Greci nel 1877 e morì ad Olinda in Brasile dove insegnò lingua e letteratura italiana.» . Interessante, ma poco. Allora consultiamo il libro di Angiolino Cotardo, Castrignano dei Greci, che riporta in aperura la lirica di Leonardo Mascello, “Paese natio” dedicata a Castrignano dei Greci, ma non dice sul poeta se non le stesse note biografiche riportate nel sito, specificando che la lirica “Paese natio…” è contenuta nel suo libro di poesie Foglie al vento pubblicato ad Olinda nel 1910 . Reperiamo il libro di Leonardo Mascello presso la Biblioteca Comunale “Piccinno” di Maglie e all’interno è scritto che esso è stato pubblicato in Belgio . Il volumetto è dedicato dall’autore a “Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Dom Luiz Raymundo Da Silva Britto Vescovo di Olinda”, al quale indirizza anche parole di gratitudine, invero gonfie di retorica, nella sua Introduzione. Scorrendo le pagine del libro, diviso in varie sezioni, ritroviamo la lirica “Paese Natio”, nella sezione Voci del tempo lontano, mentre la lirica “Nostalgia”, dedicata a Ruffano, si trova nella sezione Il poema della tristezza. Seguiamo ancora i versi del poeta. “Ora che sarò da voi sempre lontano / o paesetto, o fertile campagna, / da voi mi giunge voce che si lagna, / a cui risponde un mio rimpianto vano./”. E più avanti: “Lo so, querci ospitali e risonanti / al vento con fragore di cascate;/ lo so che i sogni miei più non cullate/ con l’ombre che da voi scendon giganti, / a vespro, sulla via che fiancheggiate;/ mentre in alto, garrendosi fra loro, / saettando lo spazio e i cieli d’oro/ le rondini s’inseguon disperate./ Addio, luoghi ridenti, addio colline, / da cui lo spirto si slanciava in alto / in un empito effreno, in un assalto, / d’ideali e di cose ardue e divine!/ Addio per sempre, o sogni di bellezza;/ addio per sempre! ora l’ombra s’aduna/ greve sul cor. Ne l’ombra, tacita, una / piange perdutamente: la tristezza!/”.  Un quadretto di genere, nello stile bozzettistico che caratterizza la sua musa. Si avverte la nostalgia di abbandonare il paese che lo aveva visto parroco, dove probabilmente egli si era trovato bene, ma i toni di accorata mestizia con i quali si rivolge al paesaggio intorno, nella consapevolezza di non più rivederlo, fra chiari echi del manzoniano “addio ai monti” dei Promessi Sposi, ci fanno intuire che i motivi dell’abbandono non furono felici. Probabilmente essi sono da ricercare nella vita privata del sacerdote, nella quale a noi non è dato di entrare. Sta di fatto che proprio da Ruffano egli partì per il Brasile, risoluto a non tornare più in Italia. E in Brasile, come già detto, insegnò lingua e letteratura italiana nelle scuole superiori. Uomo di vasta cultura, compose opere di teologia e filosofia morale, sulle quali occorrerebbe far luce per ricostruire interamente la sua bibliografia.
Un poeta tardo novecentesco è Aniceto Inguscio, originario di Torrepaduli, Padre Spirituale della Confraternita B.M. Vergine del Carmine e SS. Trinità di Ruffano, di cui riferisce Ermanno Inguscio, che riporta il suo testo poetico “Alla Beata Vergine della Serra”: “Salve chiesetta, / che sul solitario colle sorgi / e della via della valle i passegger, /che frettolosamente vanno, / guardi./ Al sorgere e al tramontar / coi suoi rai ti bacia il sole, / e, di color di porpora, / le mura tue colora. / Dal piccol campanil / che man sacrilega, / dell’unico bronzo lo vedovò, / mai un dondolar d’una preghiera./ Sol dal fitto e verdeggiante bosco, / che dai tuoi piedi discende a valle, / pien d’ulivi, d’aranci e peri, / musici uccelli, tra i verdi rami / volano cantando a te/” . “La poesia è tratta dalla silloge Frammenti di vita, pubblicata a Ruffano nel 1995. E con questi versi senza pretese del prelato di campagna concludiamo la nostra rassegna.

Vent’anni di Pinacoteca comunale a Ruffano

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Tra luci, forme e colori…

Vent’anni di Pinacoteca comunale a Ruffano

 

di Stefano Tanisi

L’idea di istituire una Pinacoteca comunale a Ruffano nasce nel 1997, con il progetto “Cento artisti per Ruffano”, promosso dell’Amministrazione Stradiotti, attraverso cui il Comune di Ruffano, nelle tre edizioni tenute dal 1997 al 1999, ha visto la generosa donazione di numerose opere d’arte da parte di artisti e collezionisti. La raccolta e le relative mostre sono state curate dal noto storico e critico d’arte prof. Carlo Franza.

La Pinacoteca comunale di Ruffano vanta un fondo costituito da oltre 300 opere d’arte contemporanea realizzate da artisti di rilevanza nazionale e internazionale come Goliardo Padova, Luigi Veronesi, Ibrahim Kodra, Walter Lazzaro, Giovanni Conservo, Salvatore Fiume ed altri, comprendenti opere di pittura, scultura e grafica, tutte inserite nei tre cataloghi curati da Carlo Franza di “ARS – Collana di Arte contemporanea del Comune di Ruffano” (“Il disvelamento dell’arte tra sacro e profano”, 1997; “Il mito mediterraneo”, 1998; “La porta d’Oriente”, 1999), editi da Congedo editore.

La collezione rappresenta tutto il secolo scorso, come ha scritto il Franza, «nello specchio del primo e del secondo Novecento, – con le immagini della figurazione nuova, del realismo esistenziale, del magico realismo, del nuovo surrealismo, dell’astrattismo lirico, dell’arte strutturale, cinetica, dell’informale, fino alle vicende degli anni Ottanta-Novanta».

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Dopo il 1999, la collezione fu errante negli edifici comunali per una decina di anni, fino a quando nel 2008 è stata individuata la sua sede presso l’ex Convento dei Cappuccini, in Piazza della Libertà, attraverso la realizzazione di due sale espositive attrezzate.

Sin dal 2011, questi luoghi si sono animati con personali di artisti nazionali e internazionali, mostre didattiche e di documentazione storica.

In occasione dei vent’anni dalla sua costituzione, dopo che l’attuale Amministrazione comunale – guidata dal sindaco Antonio Cavallo – ha curato il riallestimento museale delle sale, la Pinacoteca organizza la mostra “Tra luci, forme e colori…” sulle opere più significative della sua collezione, con l’intento di creare un percorso, mai scontato e sempre suadente, che possa dialogare con la sensibilità del visitatore attraverso la percezione dei colori, delle forme, delle luci, dei contrasti, delle ombre e dei materiali.

Accanto alle opere di maestri scomparsi come Giovanni Conservo, Albino De Francesco, Imer Guala, Walter Lazzaro, Rosalba Masone Beltrame, Carola Mazot, Montevago, Goliardo Padova, Petros, Luigi Poiaghi, Raffaella Robustelli, Enrico Sirello, Antonio Stagnoli, troviamo artisti affermati quali Paolo Barrile, Xante Battaglia, Daniele Bertoni, Giovanni Blandino, Gloria Bornacin, Gianni Brusemolino, Giovanni Campus, Secondo Chiappella, Clelia Cortemiglia, Francesco Cucci, Ivan Cuvato, Leonida De Filippi, Mario De Leo, Denise De Rocco, Giuliano Del Sorbo, Germana Eucalipto, Primo Formenti, Angelo Dionigi Fornaciari, Achille Guzzardella, Leila Lazzaro, Donato Linzalata, Giacomo Lussu, Diego Mancini, Max Marra, Franco Marrocco, Felice Martinelli, Antonio Massari, Alfredo Mazzotta, Tino Montagna, Geri Palamara, Antonio Pizzolante, Antonio Pugliese, Giorgio Reggio, Flavio Roma, Giuseppe Rossicone, Pino Salvatore, Giuseppe Siliberto, Osvaldo Spagnulo, Salvatore Spedicato, Tony Tedesco.

L’obiettivo primario della Pinacoteca comunale è puntare sulla cultura delle arti visive, come strumento di attrazione per la cittadinanza, le scuole e i turisti, grazie a mostre tematiche periodiche che possano anche valorizzare la collezione comunale.

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La mostra “Tra luci, forme e colori…” è visitabile fino al 30 marzo 2018 presso la sede della Pinacoteca comunale di Ruffano in piazza della Libertà (presso l’ex Convento dei Cappuccini), dal lunedì al venerdì dalle ore 16.30 alle 18.30, mercoledì e venerdì dalle ore 10.00 alle 12.00, e su prenotazione.

Per le visite negli orari indicati rivolgersi alla Biblioteca comunale, sita in via Napoli n. 15.

Per informazioni: pinacotecaruffano@libero.it, tel. 0833.1821254.

Pietro Marti e la scuola

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Pietro Marti e la scuola

L’alunno, il maestro-professore, il dirigente scolastico

 

 di Ermanno Inguscio

 

A descrivere gli anni della sua infanzia ci viene in soccorso lo stesso Pietro Marti, il quale, nelle sue Memorie, opera incompleta, scrisse i ricordi autobiografici riguardanti il periodo storico compreso tra la sua nascita ed il 1879, anno nel quale ricevette la sua prima nomina a maestro elementare a Ruffano, suo paese natale.

L’opera, dedicata a Gregorio Carruggio, noto scrittore leccese, del quale era buon amico e con cui collaborava anche sulla rivista di quest’ultimo, “Il Salento”, è saltata fuori dal fondo di una biblioteca privata, rimasto nascosto sino al 1992. Il manoscritto steso con la caratteristica sua grafia appare composto di getto, viste le numerose correzioni e s’interrompe a metà di una frase sulla pagine segnata al 29 luglio di una agenda del 1932. Il manoscritto, iniziato nella stesura agli inizi del 1933, registra una interruzione con la frase, nella quale iniziava a descrivere l’incontro con una fanciulla “dalla dolce e pura affettuosità” e trova quasi certamente la sua spiegazione nella improvvisa morte del suo autore, avvenuta a Lecce il 18 aprile 1933. In quelle poche pagine, una quindicina in tutto, Marti descrive la sua infanzia triste e modesta, gli episodi che più colpirono il mondo della sua fanciullezza (l’abbraccio di Giuseppe Pisanelli, l’aurora boreale del 1871, i tristi eventi di miseria del 1873 tra le popolazioni salentine).

E’ una vera confessione che va al di là della esperienza di vita, in cui sembra rivivere il suo romantico immaginario giovanile, e che Marti fa interrogandosi intorno alla dimensione esistenziale dell’uomo nella società e offrendoci l’occasione per considerare  la profondità del suo saldo approdare nel mondo della cultura. Di sé giovanissimo Marti afferma di avere sempre creduto nell’ideale di pace e di giustizia, nell’amore reciproco, sebbene  orfano, povero, sperduto quasi nella solitudine grigia del borgo rurale.

Si smarriva di fronte alle miserie degli umili, considerava la donna vittima della sopraffazione sessuale, trepidava per l’abbandono e la maternità. La sua giovinezza era sbocciata in un’epoca di fanatismo rivoluzionario, ma era convinto  che  l’ideale è legge della vita ed alimento del progresso  e guardava con ripugnanza quanti, bruciando incenso  al Dio Tornaconto, misuravano i propri comportamenti sulla bilancia dell’egoismo.

Sin dalla piena maturità, e prossimo alla fine dei suoi giorni, egli restava turbato di fronte alle forme di cupidigia umana, di pervertimento, di privilegio e di miseria. All’età di tre anni, nel 1866, il piccolo Pietro, per iniziativa della sorella Caterina, venne investito del  “battesimo patriottico”: avvolto in un drappo tricolore e portato dentro una grande sala al pianterreno di palazzo Viva, venne consegnato nelle mani di un reduce garibaldino mutilato, in divisa indossata da Marsala al Volturno, che incitava a seguire Garibaldi per la liberazione del Veneto. Tra gli applausi e come augurio di vittoria, il piccolo Pietro venne mostrato all’assemblea festante tra canti di giubilo.

All’età di cinque anni, nel 1868, Marti venne portato dal padre, una sera,  nel palazzo di Antonio Leuzzi, munifico signore della città natale, ma liberale, che aveva invitato nel salone delle feste amici e personalità del diritto, della politica e dell’arte, per rendere omaggio al grande giurista Giuseppe Pisanelli. Una volta nel salone, dopo l’omaggio del padre al grande personaggio, il piccolo Pietro destò l’interesse del Pisanelli,  che si  mise amabilmente sulle ginocchia il piccolo, scambiando qualche frase con lui e baciandolo, infine, sulla fronte.

Del 1873, anno definito funesto per tutta la regione del Capo di Leuca, Marti rievoca le piogge torrenziali dell’autunno precedente e le grandini dell’estate, ma anche  la triste condizione di cittadine e villaggi, pieni di poveri mendicanti e di malfattori dediti a ruberie e assalti di ogni genere. Nella sua memoria campeggiano il ricordo infantile del pane nero d’orzo, introvabile, e delle erbe del contado, che costituivano l’unica base dell’alimentazione popolare; ma anche le mute privazioni delle sorelle e la cupa rassegnazione dei suoi genitori. Tra gli episodi di violenza  abbastanza inquietante era stato quello dell’assalto all’Ufficio del registro, compiuto da donne travestite da agenti di finanza.

A carestie e calamità si era aggiunta, nell’autunno, la morte del fratello Giuseppe. Aumentato lo stato di bisogno, il fratello Luigi aveva accolto come una vera fortuna la nomina di istitutore nel Convitto Palmieri di Lecce; il fratello Antonio, alunno prodigio del Ginnasio Capece di Maglie, aveva dovuto abbandonare gli studi e accettare anche lui un incarico nell’ insegnamento primario. Illuminante, tra primi ricordi scolastici di Marti, quanto egli scriveva di sé, piccolo scolaro: Spesso mi recavo a scuola senza pane, ma tanta miseria non faceva al mio spirito. Sebbene fanciullo sentivo in me qualcosa che mi faceva guardare con baldanza l’avvenire…, che la dice lunga sulla sua motivazione negli studi e sulla ferma volontà di riscatto personale e sociale. Nel 1874, a undici anni, il Nostro ebbe il modo di trascorrere una giornata trionfale a scuola. Egli, non sempre gratificato come dovuto dall’austero maestro, pur mostrando grande creatività nei testi scritti, viene sottoposto alla stesura di un compito in classe d’italiano (Prodigio di fede  e di costanza), alla presenza del terribile ispettore Calvino. Alla spedita consegna del testo, vergato senza brutta copia, dopo neanche due ore di tempo a disposizione, lo scolaro Marti provocò nell’arcigno ispettore grande meraviglia, per la bontà del prodotto. Questi se ne rallegrò davanti all’intera classe, dispensando lodi al piccolo prodigio e suggellando gl’incoraggiamenti meritati  con un bacio sulla fronte dell’alunno. Marti, per la compiacenza di tanti piccoli amici e il plauso inaspettato dell’Ispettore, riuscì a dimenticare le ingiurie della sorte (l’umiliazione degli abiti rammendati e le scarpe in pessimo stato).

Nel 1879, e per tre anni, ebbe l’incarico di maestro nelle scuole rurali di Ruffano. Una nomina, di gratificante prestigio sociale, all’inizio forse,  e ricevuta soprattutto per benevolenza di un sindaco, il liberale Leuzzi, ma stroncata da un vicesindaco Santaloja, che innescò un grave contenzioso, dopo un licenziamento per assenteismo, e che farà dire a Marti,  con amarezza, che la vita del Maestro di quel tempo fosse spesso un tirocinio di privazioni e di umiliazioni. L’educatore del popolo guadagnava appena tanto da non morire di fame e, soprattutto, il suo stato morale era fatto di servilismo obbligatorio verso tirannelli, spesso analfabeti, che la fiducia del patrio governo elevava alla carica di sindaci e ispettori.

Della sua cittadina di quel tempo, Ruffano, egli amava ricordare ben tre cose: la bellezza fascinatrice del paesaggio, la fraterna intimità di Carmelo Arnisi e la dolcezza pura e affettuosa di una fanciulla. Il clima ostile creatosi in paese  e la conflittualità aperta con l’amministrazione comunale, con esiti fino al Consiglio di Stato, lo costringono ad emigrare con alcuni fratelli nel capoluogo leccese.

Qui fonda un prestigioso ginnasio privato, frequentato da studenti della migliore intellighenzia di Lecce. Ma dopo appena due anni, e prima di fondare i giornali “La Democrazia” e “Il Popolo”, anche il suo ginnasio naufraga sotto i colpi di una dittatura faziosa e violenta. Nel 1893, già direttore de “L’Indipendente”, pubblica a Lecce Origine e fortuna della Coltura salentina, che gli procura notorietà nazionale, e, per “chiari meriti”, ottiene una cattedra per insegnare lettere e storia a Comacchio, nel ferrarese. E’ stato questo il passaggio di Marti da “maestro” a “professore”.

Nel 1895 pubblica a Ferrara il secondo volume de Origine e Fortuna della Coltura salentina, elogiato dallo stesso Carducci in Nuova Antologia.Dopo appena un biennio di esperienza scolastica tra i canali di Comacchio e molti plausi soprattutto in campo giornalistico (come direttore del foglio “Il Lavoro”), Marti, per questioni di salute, farà ritorno in Puglia. Egli sia a Taranto sia a Lecce troverà nel giornalismo e nell’insegnamento i due congeniali canali di realizzazione personale. Nella città ionica si fa apprezzare come operatore culturale (fonda “Il Salotto” e la sezione cittadina della “Dante Alighieri”), a Lecce, oltre che collaboratore di vari giornali, é apprezzato docente in vari tipi di scuola superiore (tecniche, artistiche e classiche).

In tutta la Puglia (Brindisi, Bari, Cerignola, Lecce)  e altrove (Roma) tiene conferenze di vario contenuto  storico-artistico. Accomuna una intensa attività produttiva editoriale a quella dell’insegnamento per un ventennio, sino a registrare anche l’esperienza di dirigente scolastico nella città di Manduria. L’11 ottobre 1921, per iniziativa del sindaco socialista Errico Giovanni, Marti viene designato per istituire a Manduria, in qualità di preside-dirigente, una “Scuola Tecnica privata”, quando a Lecce esercita la sua attività di professore di lettere nell’Istituto Statale d’Arte. Un anno di fruttuose soddisfazioni trascorre con un gruppo di circa 50 alunni iscritti, tra la soddisfazione di amministratori e famiglie. Così almeno sembra, a giudicare da una sua “Relazione” di fine anno, inviata al ministero il 29 luglio 1922.

Nell’autunno dello stesso anno, le mutate condizioni politiche generali e la baldanza della sezione fascista di Manduria rischiano di incrinare gravemente quell’esperienza scolastica, pure giudicata in città particolarmente fruttuosa. I fascisti locali lo accusano di avere percepito indebitamente due stipendi statali, dal novembre 1921 al gennaio 1923, e il clima in città sembra sommergere la buona esperienza del dirigente Marti. Nell’azione di volantinaggio fascista si getta fango sulla sua esperienza, si ipotizza la fine della “Scuola Tecnica Superiore” e il “tradimento” di Marti, come un dirigente scolastico “che se ne vuole andare” e affossare quell’istituto cittadino.  Marti, provocato sul registro della comunicazione a lui congeniale, risponde con suo volantino  a stampa, dal titolo “Per la verità” : nel giungere a Manduria, puntualizza, egli si era naturalmente messo in aspettativa  da professore a Lecce e l’opera diffamatoria della sezione PNF avrebbe portato tutti i responsabili in tribunale, con esiti di rilevanza penale. E nello stesso foglio dichiara: La missione della scuola dev’essere sacra e superiore a tutte le passioni personali e politiche; ed è triste per ogni paese quell’ora in cui si tenta di propinare il veleno della disistima fra discepoli e maestri.

Un’autentica dichiarazione di valore ideale sulla funzione educativa dell’istituzione scolastica e della funzione docente, della necessità di una forte sinergia tra famiglia e scuola, dell’idea del servizio che la politica deve fornire nell’interesse generale della popolazione. Quell’istituzione scolastica a Manduria sopravvisse per il 1922-’23 e Marti, a cui era stato offerto un importante incarico scolastico a Taranto, ritirò la sua decisione. Rimase per un altro anno a dirigere la Scuola Tecnica in quella città, per poi rientrare definitivamente a Lecce nel 1924. Nel 1923 aveva fondato, intanto, l’importante rivista “Fede” (poi trasformata, dal 1926, in “La Voce del Salento”), era stato nominato Ispettore ai Monumenti della provincia di Lecce. Per invito dell’Associazione Pugliese, tiene a Roma una conferenza, riportata su tutti i giornali della capitale.

Nell’estate del 1924 prepara l’organizzazione delle Biennali d’Arte, cui partecipano artisti e cultori della Puglia e dell’intera Italia meridionale. Le Biennali saranno ripetute nel 1926 e 1928, con il consenso del Governo, di stampa e  di critica. Ormai la sua passione di “docente” si affina verso percorsi culturali che lo vedranno, tra le tante opere pubblicate, autore de Ruderi e Monumenti della Penisola Salentina (1932), anche Direttore della Biblioteca Provinciale “Bernardini”, prima di cominciare a scrivere le sue Memorie, preziose, ma rimaste purtroppo incomplete.

Non così la sua figura di docente appassionato in favore della scuola e di ciò che essa d’importante significa per l’intera società di ogni tempo.

Pietro Marti a 150 anni dalla nascita. Il saggista e il polemista

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di Ermanno Inguscio

 

Memorabili tra le sue polemiche quella con Pasquale Guarini sul Problema Morale nel secolo XIX, con Guido Porzio su Lucio Sergio Catilina e su Giulio Cesare Vanini, con Matteo Incagliati e Raffaele De Cesare su Don Liborio Romano e la Caduta dei Borboni. Lo scritto, ripubblicato nel 1909, secondo la Bibliografia di Nicola Vacca del 1949, con una silloge di lettere del Romano a Ercole Stasi, era di tono sicuramente apologetico.

Alla polemica con il senatore Raffaele De Cesare, ragione prima del libro Don Liborio Romano, fecero riscontro attestazioni di apprezzamento, come riferito dal nipote Vittorio Bodini nel 1933: “Nella stratosfera silente degli studiosi di trent’anni fa, si levò gran rumore, uomini che non lo conoscevano trovarono garenzia d’amicizia nel libro…”, che riportò il testo integrale dei messaggi, provenienti dalla Camera dei deputati e dal Senato del Regno, in cui gli onorevoli Enrico Ferri (da Spoleto, 23 luglio 1909) e Guido Mazzoni (da Roma, 25 giugno 1910) rimarcavano l’errata modalità di annessione delle Provincie meridionali al Regno d’Italia secondo criteri che ne avevano aggravato le specifiche problematiche, a suo tempo denunciate da Liborio Romano. Il volume oltre che su Marti, richiamò l’attenzione sulla spinosa questione dell’annessione “forzata”. Napoleone Colajanni pubblicò un lungo articolo su “Rivista Popolare”, Valentino Simiani su “Natura ed Arte”. Persino chi non condivideva la sua tesi sul Romano non poté astenersi dal lodare il volume. Pietro Palumbo, discorde da lui e dal De Cesare, in un accurato studio della polemica, scrisse su “Rivista Storica Salentina”: Per fortuna del buon nome pugliese Pietro Marti gli [al De Cesare]  gli ha contrapposto un suo lavoro, piccolo di mole, ma denso di documenti e di affetto. E’ la glorificazione, direi, è la riabilitazione di don Liborio Ministro di Francesco II. Se questo lavoro non avesse altro pregio, e ne ha parecchi, gli rimarrebbe sempre quello di aver rialzato il buon nome di Terra d’Otranto”. E lo stesso Matteo Incagliati, discorde anch’egli, concluse su “Il Giornale d’Italia”: “Pietro Marti ha reso un alto servizio alla causa della storia nazionale”.

Quando poi l’Incagliati riaprì il dibattito a proposito della polemica sul Romano, Marti scrisse un volumetto, I Naufraghi, supplemento degno del libro e lo ripubblicò poi in Pagine di propaganda civile, affiancando con conferenze e discorsi la passione del suo assunto.

Nel 1912 Marti affrontò nuovamente l’argomento con I Naufraghi (Per don Liborio Romano) Pagine di polemica, con cui si scontrò con M. Incagliati.

L’anno precedente aveva pubblicato, con I Precursori, facendone una strenna sul foglio “La Democrazia”, un nutrito lavoro su alcuni patrioti carbonari, su una Relazione dell’Intendente Cito (1828) e sull’arcidiacono neretino Giuseppe Maria Zuccaro. Infine con Alessandro Cutolo su Maria D’Enghien.

La poliedricità della sua mente, aperta a vari problemi di cultura e d’arte, lo mise in luce negli ambienti culturali della Lecce dei primi del Novecento. Il suo trittico  sulla Origine  e  Fortuna della Cultura Salentina, rappresenta il compendio della sua attività di studioso, sebbene punteggiata a volte da critiche amare, come quella di dilettantismo in materia di storiografia, rivoltagli dal prof. Alessandro Cutolo, a proposito di Maria d’Enghien.

Sulla conferenza che il Cutolo aveva tenuto a Lecce nella Sala “Dante Alighieri” il 28 marzo 1928, sul tema La gran passione di Maria d’Enghien, Marti aveva mosso alcuni rilievi sul suo giornale “La Voce del Salento”, sottolineando l’eccessiva erudizione dell’oratore e una non puntuale documentazione.

Ne nacque una polemica, com’era da prevedersi, le cui pagine furono raccolte da Marti in un volume pubblicato a Lecce, poco prima della sua morte, per i tipi dell’Editrice Italia Meridionale, nel 1931, dal titolo Nella Terra di A. Galateo.

All’accusa di dilettantismo Marti rispose con un lungo articolo nel quale lamentava, in sostanza, che nella conferenza, fosse stata eccessivamente mortificata la personalità storica della sfortunata Contessa. Dopo due giorni il Cutolo replicò, mettendo ancora in  dubbio le doti di storico di Pietro Marti, accusandolo di attenersi più alle cronache che ai documenti, sulle quali egli aveva invece condotto il suo lavoro, consultando gli atti della Cancelleria di Re Ladislao e della regina Giovanna.

La polemica, mentre contribuì a riscoprire aspetti meno noti della personalità di Maria d’Enghien, finì con l’esasperare i due, come accade spesso in queste occasioni, inasprendole a tal punto da far dichiarare al Cutolo, in una sua lettera del 20 aprile, di non voler più rispondere a Marti su quell’argomento.

Tra i due, invero, fu il Nostro a mantenere il garbo e la calma, mentre il Cutolo manifestò la propria impazienza con antipatici riferimenti di sufficienza cattedratica, sebbene mista ad attestazioni di simpatia e stima. Il Nostro non se ne dolse, rispondendo ancora al Cutolo, che aveva inteso chiudere bruscamente ogni tipo di contatto, e rimandando ogni definitiva puntualizzazione alla pubblicazione su Maria d’Enghien che ne sarebbe seguita.

La polemica, in  fondo non giovò neppure a Marti, che se non registrò l’aumento della  sua fama, tuttavia presso gli sprovveduti la vide incrinata, dove invece non c’era d’attendersi necessariamente, in simili diatribe, un vincitore e un vinto, ma rispettabili valutazioni storiche pur su posizioni diverse.

Egli era abituato, però, a mantenere alta la guardia contro denigratori o avversari di turno. Scorrendo le pagine del suo giornale “La Voce del Salento”, è facile rilevare che anche come giornalista di razza fosse sottoposto a continue provocazioni.

Marti dovette rintuzzare i periodici assalti, come quello del cav. Giuseppe Zaccaria, che, dalle colonne del “Corriere del Salento”, avanzava dubbi sulla sua “sincerità politica” nei confronti del fascismo e addirittura sulla sua “educazione giornalistica”. E ciò avveniva nell’ottobre del 1932, ad appena sei mesi prima della sua morte, quando dal suo giornale dovette rispondere per le rime  con due articoli di  fondo, il primo Un chiarimento e il secondo Nel campo della sincerità. Premessa.

Ma ancor maggiore eco ebbe a Lecce e nell’intero Meridione, in campo storico-culturale, la polemica sostenuta da Marti, dalle colonne del suo giornale “La Voce del Salento”, contro la prestigiosa opera enciclopedica della “Treccani”, sulla quale, con ferree argomentazioni si denunciavano gravi omissioni di contenuti (quando non errori e abbagli madornali) in relazione a personaggi della storia del Salento e della Puglia intera, a firma di studiosi pur riconosciuti in campo nazionale. Il giornale leccese divenne la roccaforte delle puntuali contestazioni rivolte a spada tratta, e senza alcuna concessione di sorta, al prestigioso Comitato redazionale, nonché alla Direzione, dal giugno all’agosto del 1932, con la puntigliosa riproposizione di una rubrica, a firma di Ellenio, Rilievi e Polemiche. Lagune, granchi e… papere nella Enciclopedia Treccani. La polemica assunse i toni di una virulenza tale che per stemperare i caustici “rilievi” di Ellenio, graditi all’intero panorama culturale salentino e meridionale, pensò bene di scomodarsi lo stesso filosofo Giovanni Gentile. Questi  indirizzò ad Ellenio (pseudonimo, per il filosofo, un po’ troppo comodo) una puntuale lettera di precisazione circa i contenuti e le modalità editoriali dell’intera opera enciclopedica, pubblicata sul periodico leccese il 31 luglio 1932. Nelle ficcanti osservazioni di Marti, pesanti e puntuali come macigni, che rischiavano di mettere alla berlina studiosi di fama conclamata alla stregua di distratti scolaretti, si additavano omissioni, nelle voci “campanile” e “chiesa”, quali la mancata citazione della Guglia di Soleto del 1397 e il Tempio dei SS. Niccolò e Cataldo di Lecce.

In altro articolo si contestavano le sole cinque righe assegnate a Cosimo De Giorgi dall’estensore, prof. Stefano Sorrentino, che pure aveva pubblicato nel 1876 le Note Geologiche della Provincia di Lecce. In altro intervento, alle voci “Arditi” e “Briganti”, Marti considerava assolutamente inaccettabile la mancata citazione dell’Arditi e del gallipolino Tommaso Briganti (1691-1772). Come non mancava di sottolineare, il 24 luglio 1932, il pressapochismo della linea editoriale Treccani, per cui non si diceva assolutamente nulla di personaggi come Oronzo Massa, di Filippo Lopez y Royo, arcivescovo di Palermo, e di Francesco Antonio Astore, una delle vittime più illustri della repressione borbonica del 1799.

Nella lettera di Giovanni Gentile, dal filosofo si contestarono le “omissioni” denunciate dal giornale leccese che altro non erano che il frutto di scelte editoriali obbligate in forza del carattere universale della Enciclopedia, nella quale non potevano confluire tutte le voci di “abbazie, campanili, chiese e personaggi storici”: altro, dunque che “lagune, granchi e papere”. A tali “omissioni”, tuttavia, Gentile annunciava ad Ellenio (ma chi si celava sotto quello “pseudonimo”?) la promessa della compilazione e stampa di un apposito “Dizionario biografico degli Italiani”. Al direttore del foglio leccese “La Voce” se piacque l’annuncio del promesso Dizionario Biografico, non mancò l’ardire di respingere però al mittente l’ammiccante accusa di giornalista “mimetizzato” sotto le ali di uno pseudonimo. E in una conclusiva replica sulla faccenda della Treccani, a comprova della sua coraggiosa militanza giornalistica di un intero cinquantennio di battaglie contro la sordità di Sovrintendenze e Istituzioni, attacchi di giornali e scontri in campo amministrativo, rimarcava che le lacune, una volta accertate, rimangono tali e i granchi e le papere non si possono improvvisamente dissolvere in altro. Il pezzo si concludeva con la firma Pietro Marti e, tra parentesi, lo pseudonimo Ellenio. La prima e unica volta in cui il direttore del giornale leccese decise di apporre, su “La Voce”, ambedue le indicazioni.

Ma ai colpi mancini della fortuna Marti era abituato, sin dalla fanciullezza, quando, rimasto a sei anni orfano di padre, impiegato presso la Pretura di Ruffano, con l’aiuto dei fratelli maggiori, era riuscito, con grande sacrificio a conquistare il patentino di maestro rurale. Qui cominciò col misurarsi con le scolaresche del natìo paesello, dove pure entrò in conflitto con la locale amministrazione, il cui sindaco Santaloja gli interruppe lo stipendio, per essersi assentato dal servizio, per motivi di studio. Ne nacque un contrasto infinito, con ricorsi legali sino alla Corte dei Conti e che lo fece decidere vieppiù ad allontanarsi dall’amata terra di origine, trasferendosi presso gli istituti scolastici di Comacchio. Con la sua multiforme attività giornalistica si fece apprezzare nell’intera Penisola, più tardi anche come Direttore della Biblioteca provinciale “Bernardini” e come Ispettore onorario ai Monumenti per la Provincia di Lecce.

Tornò a Ruffano un’ultima volta, il 24 aprile 1927, per tenervi il discorso inaugurale per il Monumento ai Caduti, La Vittoria alata, opera offerta alla cittadinanza dal suo grande concittadino, l’artista Antonio Bortone.

Questi soltanto alcuni degli aspetti di Marti giornalista, conferenziere e polemista. Ciò era doveroso rimarcarlo, ma è soltanto parte di quanto si può riferire del suo battagliero e creativo giornalismo, della sua profonda cultura in ordine ai temi di rilevanza civile, trattati nelle conferenze in giro per la Puglia e l’intera Penisola, e della stessa virulenza delle polemiche innescate in nome del suo amore per il Salento, la Puglia, l’Italia. Altri interessanti aspetti verranno degnamente sottolineati nel preannunciato Convegno nazionale da celebrarsi ad inizio estate 2013, tra Lecce e  Ruffano, da valenti studiosi come Alessandro Laporta e il prof. Antonio Lucio Giannone. Il primo, infatti, in qualità di direttore della Biblioteca provinciale “Bernardini” di Lecce approfondirà tematiche bibliografiche anche in ordine al “Catalogo” del suo predecessore Marti; il secondo compulserà aspetti più tipicamente letterari, che appunteranno la riflessione sulla poesia del grande salentino Vittorio Bodini.

 

(Pubblicato su Presenza Taurisanese, a. XXXI, aprile 203, pp. 8-9)

Il giornalista ruffanese Pietro Marti (1863-1933)

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di Ermanno Inguscio

 

Dopo un primo contributo sul direttore della Biblioteca  provinciale “Bernardini”, Pietro Marti (1863-1933), descritto nella sua preziosa attività di direttore di giornali, in questo secondo intervento si lumeggerà la sua attività di giornalista, sua seconda attività, dopo quella di giovane docente a Ruffano e a Comacchio, lungo il suo peregrinare per la Penisola  tra fine Ottocento e il primo trentennio del Novecento.

La vivacissima attività giornalistica di Pietro Marti, iniziata poco più che ventenne e alimentata per l’intero arco della sua esistenza, si articolò lungo due principali filoni produttivi: la collaborazione a giornali diretti da altri, di cui qui si riferisce, e le prestigiose iniziative, diverse, già presentate su questo foglio, di fondazione e direzione di giornali e riviste d’ampio respiro.

Quanto alla “collaborazione” giornalistica di Marti, anticipata dalla prestigiosa direzione a “Democrazia”, iniziò con una lettera al Comitato di curatori del numero unico “ 2 Giugno”, composto da studenti e operai democratici leccesi. Il foglio aveva visto la luce a Lecce nel 1889, per i tipi della Tipografia Campanella. Su quelle colonne, accanto a diversi interventi sulla figura di Garibaldi, erano riportate altre due lettere, sempre rivolte al Comitato, ad opera di A. Saffi e di F. Rubichi.

Significativamente dedicato nel sottotitolo (“A Giuseppe Garibaldi”), dell’eroe dei due mondi, su “2 Giugno” era riprodotto il testo di un suo biglietto, indirizzato a Carlo Arrighi, il 7 aprile del 1862.

Dal 1891  Marti collaborò alla stesura del settimanale di Vincenzo Giosa, “Il Messaggero  Salentino”, con interventi giornalistici forniti per undici anni,  quasi quanto tutta la durata del foglio leccese, pronto a dare manforte all’impostazione già battagliera e scopertamente votata  a favore di Pellegrino. Suoi collaboratori nella più che decennale impresa furono Pietro Trinchera, G. Pellegrino, Francesco Rubichi, ecc.

Clemente Antonaci, Giuseppe Petraglione. Il giornale ebbe una ripresa nel 1908 e col numero del 23 giugno uscì sotto la direzione di Francesco Forleo-Casalini e dopo di Duilio Guglielmi. Di fatto era direttore e redattore principale Vincenzo Giosa e, dopo il 1898, fu vivamente antipellegriniano. Col numero 3 dell’anno VII (1897), iniziò la pubblicazione delle Cronache di Lecce dal 1591 al 1775 del Braccio, del Panettera e del Cino, da uno zibaldone del Duca Castromediano. Nella Biblioteca provinciale si conservano i numeri delle prime cinque annate, della VII, X e XII.

Marti fu poi partecipe allo stuolo di collaboratori de “La Cronaca Letteraria”, diretta da Giuseppe Petraglione, pubblicata a Lecce dal 1 gennaio 1893, presso la Tip. Lazzaretti e Figli.

Il giornale sospese le pubblicazioni col numero 8 del 16 aprile 1893. Le riprese il 2 maggio 1894. Dopo sei numeri cessò definitivamente il 5 agosto 1894. La seconda serie uscì per i tipi della Tip. Cooperativa, Editore Vincenzo De Filippi. Vi collaborarono, oltre il Petraglione, Clemente Antonaci, Carmelo Arnisi, di cui abbiamo ampiamente riferito nella monografia  Carmelo Arnisi. Un maestro-poeta dell’800 (Congedo Ed., 2003), Francesco Bernardini, Alessandro Criscuolo, Cosimo De Giorgi, Francesco D’Elia, Giuseppe Gigli, Trifone Nutricati, Arturo Tafuri, Vincenzo Ampolo, ecc.

Due mesi dopo, nel marzo del 1891, con Giacomo Gridi, Marti fu assiduo redattore del settimanale satirico leccese  “Don Ficchino”, diretto da Giuseppe  Carlino. Si trattava di un giornaletto di piccolo  formato, ma di grande impatto su ogni fascia di lettore, anche di tipo popolare, molto noto per le sue punzecchiature velenose, mimetizzate sotto il velo d’una leggera ironia, non sempre pietosa, che di rado mancava il bersaglio. Ai deputati al Parlamento Brunetti e Monticelli  non furono mai risparmiati gli strali della critica, ma non sfuggirono alla gogna gli avvocati socialisti, gli acquirenti di titoli nobiliari e, come allora si diceva, gli spacciatori di carte false. Sebbene i numeri pubblicati non superarono la decina, i vespai nati si rivelarono tuttavia così virulenti, da suggerire presto ai redattori, rimasti all’inizio pure anonimi, il pensiero del’interruzione della stampa del periodico. Cosa che puntualmente avvenne, a conferma dell’estrema pericolosità della satira politica per i propri ideatori.

Dal 7 giugno 1896, all’epoca del soggiorno nella città jonica, sotto lo pseudonimo di “Ellenio”, Marti produsse diversi interventi, richiesti dal direttore-proprietario Alfredo Guariglia della pubblicazione “Jonio”, organo delle provincie meridionali. Il taglio era di carattere politico, commerciale e letterario. Agli articoli furono spesso accostate delle piccanti vignette, che miravano a colpire soprattutto l’on. Nicola Re.

Del periodo del soggiorno “tarantino”, preceduta già dalla direzione de “Il Salotto” dell’aprile del 1896 e del periodico bisettimanale “L’Avvenire” (1897), di cui figurò anche proprietario, fu sua la collaborazione al foglio indipendente “Il Lavoro”, che usciva con cadenza settimanale, a partire dal 1898, e per cinque anni, diretto da Antonio Misurale.

Sempre a Taranto, dal maggio del 1902, il Nostro collaborò alla stampa del settimanale “La Palestra, diretta da Achille Trisolari. Purtroppo, ebbe a lamentare Nicola Vacca, anche di quella pubblicazione non si conservano che pochissimi esemplari.

Oltre agli interessi di carattere storico-artistico, non mancò a Marti quello per le manifestazioni d’ordine letterario. Dal 1905, infatti, collaborò alla rivista quindicinale “Calliope”, diretta da Luigi De Simone, su cui furono affrontate questioni relative alla produzione poetica, alla prosa ed al teatro. Suoi compagni di avventura furono V. D. Palumbo e Francesco Capozza.

Marti non mancò di essere nello stuolo dei protagonisti delle vicende editoriali

della “Rivista Storica Salentina”, fondata nel 1903 dal direttore Pietro Palumbo. Il prestigioso mensile fu stampato prima presso la Tipografia Giurdignano, poi presso la “Dante Alighieri”. La rivista fu sospesa coi numeri 1-2 dell’anno X (1915) per la morte del direttore Palumbo. Riprese le pubblicazioni, il 20 luglio 1916, sotto la direzione di Salvatore Panareo e Cosimo De Giorgi, stampata dall’editore Gaetano Martello nella Tipografia Salentina.

Con la morte del De Giorgi, avvenuta nel dicembre 1922, rimase direttore Salvatore Panareo. Con l’ultimo fascicolo del 1920 si pubblicò in Maglie nella Tipografia Messapica di B. Canitano. Le pubblicazioni cessarono definitivamente con l’anno XIII, nel dicembre del 1923.

In Appendice si pubblicarono le Cronache Leccesi del Braccio, del Panettera, del Cino e del Piccinni. Nell’anno X vi è l’indice del decennale, compilato da Panareo e una commossa necrologia di Pietro Palumbo, dettata da Cosimo De Giorgi.

La rivista, creata con i soli mezzi finanziari del Palumbo, verso il quale insensibili furono le pubbliche amministrazioni, avare di aiuti nel difficile periodo dell’anteguerra, costituì un’importantissima rassegna di studi storici regionali per serietà, costanza di propositi e cospicui risultati raggiunti.

Il Palumbo seppe radunare intorno alla sua rivista i migliori studiosi tanto da farne per molti anni il centro propulsore di autorevoli studi storici salentini. Tra i maggiori collaboratori non mancarono, oltre al direttore, Pietro Marti, F. Bacile, Luigi e Pasquale Maggiulli, Amilcare Foscarini, Cosimo De Giorgi, N. Bernardini, Umberto Congedo, il can. Francesco D’Elia, Salvatore Panareo, Baldassarre Terribile, Giovanni e Ferruccio Guerrieri, Giuseppe Blandamura,, Giovanni Antonucci, Nicola Argentina, G. F. Tanzi, Rodolfo Francioso, Giuseppe Petraglione, V. De Fabrizio, M.A. Micalella, P. Coco, C. Massa, F. D’Elia, T. Nutricati, E. Pedìo, A. Perotti, F. Ribezzo, G. Ceci,, F. Barberio,L. Bianchi,. P. Camassa, G. Della Noce. V.D. Palumbo, G. Porzio, A. Anglani, ecc.

Il Vacca notava che questa rivista era la più ricordata e la più ricercata dai collezionisti, lettori e studiosi. La sua collezione completa, che per fortuna è presente nella Biblioteca provinciale, è quotatissima, anche perché ormai introvabile.

Altra interessante collaborazione di Marti fu quella che egli fornì al foglio Arco di Prato, che cominciò le sue pubblicazioni  a Lecce nel 1928. Esso vedeva la luce una volta l’anno, la sera del Veglione della Stampa, quando veniva presentato al pubblico leccese. Tra i principali redattori dei primi anni vi furono Ernesto Alvino, Nicola Vacca e Mario Bernardini. Spesso non fece mancare la sua collaborazione anche Pietro Marti, Memorabili, tra le caricature che non mancavano quasi mai, quelle di Ernesto Alvino e Pippi Rossi.

Nel 1932 fu scritto in Almanacco Illustrato (Il Salento, 1932) il contributo non firmato, ma certamente  fornito da Pietro Marti, dal titolo “Giornali e giornalisti di altri tempi: nel decennio del trasformismo”. Nella nota giornalistica si faceva un quadro del decennio trasformista nella provincia di Lecce e soprattutto, ed è ciò che depone in favore della sua paternità, l’apologia del giornale “La Democrazia”, che il giornalista ruffanese aveva diretto.

Questa, dunque, la serie completa, forse, dei fogli, delle riviste e dei periodici che videro Pietro Marti, accanto ad altri prestigiosi intellettuali salentini, misurarsi con la nobile arte del giornalismo, fatto di serietà e di passione, con le quali egli illuminò non poco il panorama culturale della sua Lecce e dell’intera Puglia, con tracce significative da lui lasciate anche in altre città della Penisola, come a Comacchio, dove egli aveva soggiornato e scritto, sempre con l’intento di recuperare e riproporre il patrimonio storico-artistico delle nostre genti salentine.

 

pubblicato nel  bimestrale  “Terra di Leuca”, Tricase, a. VIII (2011), n. 40, p. 7.

L’attività giornalistica di Pietro Marti. Il direttore, il giornalista (1863-1933)

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di Ermanno Inguscio

Pietro Marti  ( Ruffano,1863- Lecce,1933) fu saggista, studioso di storia, arte e archeologia, giornalista, docente, ispettore onorario ai Monumenti, e direttore della Biblioteca Provinciale “Bernardini” di Lecce, nella quale si conservano una quarantina di sue apprezzate opere, volte al recupero delle memorie patrie della Terra di Salento.

La vivacissima attività giornalistica di Pietro Marti, iniziata poco più che ventenne e alimentata per l’intero arco della sua esistenza, si manifestò con un innato spirito creativo tale da farlo misurare subito alla direzione di qualche foglio, da lui fondato e diretto, senza quasi passare dalla fase di semplice pubblicista, appassionato dello strumento della comunicazione cartacea di riviste e giornali.

La sua attività, nel complesso, si articolò lungo due principali filoni produttivi: la collaborazione a giornali affidati alla direzione di altri colleghi e le prestigiose iniziative, fatte su diverse testate, di fondazione e direzione di giornali e riviste d’ampio respiro, compito assunto in prima persona, con costanza e ardito piglio giornalistico.

Egli era nato a Ruffano il 15 giugno 1863, dal padre Pietro, occupato come cancelliere presso il regio giudicato di quel circondario e dalla madre Elena Manco, contadina quarantanovenne, che dovette presto occuparsi da sola della sua educazione per la prematura scomparsa del padre. Compiuti i suoi primi studi in patria e poi a Lecce, conseguì con profitto la patente di maestro elementare. Ottenne la prima nomina in una pluriclasse del comune di nascita, Ruffano, ma contrasti con quella amministrazione comunale (e la sospensione dello stipendio nel luglio 1883), per i quali produsse ricorsi persino al Consiglio di Stato, lo spinsero a spostarsi presso scuole di Comacchio. Qui, accanto all’attività d’insegnamento e alla proficua produzione delle prime monografie di ambito storico, affiancò presto una febbrile attività giornalistica. Successivamente si spostò a Taranto e Lecce, dove fondò e diresse diverse giornali e riviste.

Nella sua casa leccese costituì grande figura di riferimento per il giovane nipote, l’adolescente Vittorio Bodini. Al piccolo Vittorio, infatti, figlio di Anita Marti, era mancato irrimediabilmente il rapporto con la giovane mamma, approdata a nuovo matrimonio con  Luigi Guido, e costretto a rimanere per tutta l’infanzia in casa del nonno materno, e lontano dai quattro fratelli nati dal patrigno.

Così, stando alla traccia biografica dell’esegeta e amico della prima ora, suo conterraneo, Oreste Macrì, Bodini visse con Pietro Marti la prima delle sue “sette vite”, quella dell’infanzia e dell’adolescenza futurista.

A Lecce, accanto al nonno, l’inquieto Bodini apprese a conoscere menabò e ogni fase di allestimento d’un giornale, e da cui fu certamente spinto a compiere i primi approcci con l’attività scrittoria, che tanto lustro diedero alla letteratura di tutto il Salento.

Pietro Marti produsse nella sua vita una quarantina di opere di carattere storico-artistico, tra cui le più famose “Origine e fortuna della coltura salentina”, oltre a tenere decine di conferenze in tutta la Puglia. Per oltre un ventennio raccolse attorno a sé giovani artisti salentini, che si prodigò di far conoscere al grande pubblico. Divenne poi Ispettore onorario dei Monumenti e Scavi per la Provincia di Lecce e direttore della Biblioteca Provinciale “N. Bernardini”, per cui lasciò un prezioso “Catalogo bibliografico delle Opere di scrittori salentini” (1929). Morì a Lecce il 18 aprile 1933, lasciando un grande vuoto negli ambienti storico-artistici e del giornalismo dell’intera Puglia.

Interessante è  soffermarsi, a questo punto, sull’attività giornalistica affrontata da Marti in qualità di direttore, cui non riusciva difficile fondare di sana pianta nuove testate, quasi in ogni città che l’avevano visto vagare su e giù per la Penisola.

Prestigiosa, agli occhi di molti estimatori, apparve la sua attività  giornalistica di direzione-produzione di fogli di grande respiro e di forte impatto culturale nell’intero Salento e nelle maggiori città di Puglia.

Appena ventiseienne Pietro Marti, alla luce anche dell’esperienza del collezionista Nicola Bernardini, che l’anno precedente, nel 1896, aveva suscitato scalpore con la ghiotta pubblicazione sulla storia del giornalismo leccese (Giornali e Giornalisti Leccesi, Lecce, Ed. Lazzaretti, 1896) dal 1808 al 1896, intraprese l’avventura della direzione in città del settimanale “La Democrazia”. Grande era infatti, nel capoluogo leccese  l’esigenza d’una grande spinta all’informazione periodica, sebbene le statistiche ufficiali ponessero Lecce tra le città italiane con maggiore presenza di testate.

La rivista fu sospesa per alcuni anni, durante i quali Marti, trasferitosi prima a Comacchio, poi a Taranto, dove aveva fondato altri giornali come “Jonio (1896), “Il Lavoro” (1898), “La Palestra” (1902), aveva continuato la sua vivace attività di giornalista, oltre che quella di docente nelle Scuole pubbliche. Il settimanale leccese, “La Democrazia”, riprese le nuove pubblicazioni con due numeri di saggio, il 6 e il 13 dicembre 1902, ma col sottotitolo di “Pugliese”, poi soppresso, stampato nella Tip. di L. Carrozzini e M. Ghezzi. Con il numero 4 uscì dalla Tipografia Garibaldi, col numero 16 fu aggiunto il sottotitolo di “Corriere Salentino politico amministrativo, commerciale letterario”, presso la Tipografia Giurdignano.

Subì poi interruzioni ed ebbe riprese editoriali; ma la regolarità delle pubblicazioni

non fu sempre rispettata. Nel 1913, anche se per breve tempo, figurò direttore Pietro Massari.

“La Democrazia”, ceduta in proprietà al senatore Tamborrino, uscì, sempre sotto la direzione di Marti, in edizione quotidiana, durante il periodo elettorale dal 21 ottobre 1919 fino al giugno 1920 dalla Tip. Leccese Bortone e Miccoli. Memorabili le polemiche personali asperrime, violentissime che Pietro Marti sostenne contro Nicola Bernardini, che lo ricambiò con eguale moneta sulla sua “Provincia di Lecce”, polemiche ripetutesi ad intervalli durante un trentennio, e che spesso finirono in processi da cui Marti ne uscì sempre assolto.

Intanto, nel 1891, Marti aveva diretto il foglio settimanale leccese L’Indipendente , che trattò ambiti di politica amministrativa, commerciale e naturalmente anche di arte. Vi collaborò Giuseppe Petraglione e i numeri furono stampati presso gli stabilimenti Scipione Ammirato e  Garibaldi.

 Nel periodo di permanenza a Taranto, Marti volle subito misurarsi in quel contesto con la direzione di alcuni giornali.  L’esperienza maturata a Lecce, infatti, costituirono una grande premessa per risvegliare la città jonica dal torpore nel quale sembrava fosse da tempo precipitata.

Cominciò  nell’aprile del 1896  con “Il Salotto”, una sorta di biblioteca tascabile, stampata presso l’Editore Salvatore Mazzolino.

Un foglio, dal titolo analogo, diretto da Niccolò Foscarini, aveva avuto breve vita a Lecce, dall’ottobre 1885 al novembre 1886.

Il primo fascicolo jonico, di trenta paginette, uscì il primo aprile 1896. Il numero complessivo delle uscite, stando alla testimonianza di Nicola vacca, ammonta a otto. Nella pubblicazione trovarono spazio anche poesie di Emilio Consiglio, Luigi Marti, Giuseppe Scarano e Giuseppe Gigli; conferenze di Alessandro Criscuolo e Angelo Lo Re, un dramma di un atto di Michele De Noto. Ciò a comprova dell’interesse per la letteratura di Pietro Marti e di tutti i suoi collaboratori. Tra questi, il prof. Giuseppe Gigli, in una sua conferenza del 3 maggio 1890, letta nella sala dell’Associazione Giuseppe Giusti in Lecce e data alle stampe, per  i tipi dei Fratelli Spacciante, aveva toccato ampiamente “Lo stato delle lettere in Terra d’Otranto”.

Nel maggio dell’anno successivo, Marti fondò a Taranto e diresse, in qualità anche di proprietario, “L’Avvenire”. Si trattò di un periodico bisettimanale, edito dalla Tipografia del Commercio, che stampò il primo numero il 3-4 maggio 1897.

Nel luglio del 1898 egli fece stampare un altro periodico, “Il Presente”, presso lo Stabilimento Tipografico di F. Leggieri: gli ambiti trattati andarono dal politico-amministrativo al commerciale, senza mai trascurare quello letterario.

Al periodo del suo ritorno a Lecce risale l’altra pubblicazione da lui diretta nel 1900, “L’Imparziale”, un periodico settimanale, che trattò argomenti politico-amministrativi, commercio e arte. I numeri pubblicati, videro la luce presso la Tipografia  litografica dei Magazzini Emporio.

Un’altra importante direzione di Marti fu quella della rivista quindicinale d’arte e di cultura,  “Fede”, pubblicata per Lecce e Taranto, a partire dal 1 dicembre 1923. Col primo numero dell’anno III (1 gennaio 1925), il formato divenne più ampio. I primi due fascicoli, di 16 pagine in 8°, si stamparono nella Tipografia Sociale di Oronzo Guido, i successivi nella Tip.-Litogr. Giuseppe Guido. L’ultimo fascicolo (16-17 dell’anno III) uscì il 15 novembre 1925.

Si trasformò poi, in giornale settimanale dal titolo “La Voce del Salento”, sempre diretta da Marti, a partire dal 15 gennaio 1926, per i tipi della Tip. Prim. “La Modernissima”, che fece sentire il proprio peso sull’opinione pubblica salentina sino all’anno della morte di Marti, avvenuta nel maggio del 1933. Vi collaborarono tra gli altri, Gregorio Carruggio, Pasquale Camassa, E. Alvino, Elia Franich, Luigi Paladini, P. Maggiulli, N. Vacca, presso cui fu reperibile l’intera collezione della rivista.

Alla scomparsa di Pietro Marti, non fu soltanto Lecce a perdere un epigone del giornalismo militante, votato alla riscoperta e alla rivalutazione delle peculiarità storico-artistico-culturali di Terra d’Otranto, ma l’intera Puglia  e la stessa Italia, nelle quali egli, sin da giovane e per diverse stagioni della sua esistenza, aveva operato battendosi con passione nel campo dell’istruzione, dell’informazione, della storia e dell’arte.

La vivacissima attività giornalistica di Pietro Marti, iniziata poco più che ventenne e alimentata per l’intero arco della sua esistenza, si articolò, come detto, lungo due principali filoni produttivi: la collaborazione a giornali diretti da altri, di cui qui si riferisce, e le prestigiose iniziative, diverse, di fondazione e direzione di giornali e riviste d’ampio respiro.

Quanto alla “collaborazione” giornalistica di Marti, anticipata dalla prestigiosa direzione a “Democrazia”, iniziò con una lettera al Comitato di curatori del numero unico “ 2 Giugno”, composto da studenti e operai democratici leccesi. Il foglio aveva visto la luce a Lecce nel 1889, per i tipi della Tipografia Campanella. Su quelle colonne, accanto a diversi interventi sulla figura di Garibaldi, erano riportate altre due lettere, sempre rivolte al Comitato, ad opera di A. Saffi e di F. Rubichi.

Significativamente dedicato nel sottotitolo (“A Giuseppe Garibaldi”), dell’eroe dei due mondi, su “2 Giugno” era riprodotto il testo di un suo biglietto, indirizzato a Carlo Arrighi, il 7 aprile del 1862.

Dal 1891  Marti collaborò alla stesura del settimanale di Vincenzo Giosa, “Il Messaggero  Salentino”, con interventi giornalistici forniti per undici anni,  quasi quanto tutta la durata del foglio leccese, pronto a dare manforte all’impostazione già battagliera e scopertamente votata  a favore di Pellegrino. Suoi collaboratori nella più che decennale impresa furono Pietro Trinchera, G. Pellegrino, Francesco Rubichi, ecc.

Clemente Antonaci, Giuseppe Petraglione. Il giornale ebbe una ripresa nel 1908 e col numero del 23 giugno uscì sotto la direzione di Francesco Forleo-Casalini e dopo di Duilio Guglielmi. Di fatto era direttore e redattore principale Vincenzo Giosa e, dopo il 1898, fu vivamente antipellegriniano. Col numero 3 dell’anno VII (1897), iniziò la pubblicazione delle Cronache di Lecce dal 1591 al 1775 del Braccio, del Panettera e del Cino, da uno zibaldone del Duca Castromediano. Nella Biblioteca provinciale si conservano i numeri delle prime cinque annate, della VII, X e XII.

Marti fu poi partecipe allo stuolo di collaboratori de “La Cronaca Letteraria”, diretta da Giuseppe Petraglione, pubblicata a Lecce dal 1 gennaio 1893, presso la Tip. Lazzaretti e Figli.

Il giornale sospese le pubblicazioni col numero 8 del 16 aprile 1893. Le riprese il 2 maggio 1894. Dopo sei numeri cessò definitivamente il 5 agosto 1894. La seconda serie uscì per i tipi della Tip. Cooperativa, Editore Vincenzo De Filippi. Vi collaborarono, oltre il Petraglione, Clemente Antonaci, Carmelo Arnisi, di cui abbiamo ampiamente riferito nella monografia  Carmelo Arnisi. Un maestro-poeta dell’800 (Congedo Ed., 2003), Francesco Bernardini, Alessandro Criscuolo, Cosimo De Giorgi, Francesco D’Elia, Giuseppe Gigli, Trifone Nutricati, Arturo Tafuri, Vincenzo Ampolo, ecc.

Due mesi dopo, nel marzo del 1891, con Giacomo Gridi, Marti fu assiduo redattore del settimanale satirico leccese  “Don Ficchino”, diretto da Giuseppe  Carlino. Si trattava di un giornaletto di piccolo  formato, ma di grande impatto su ogni fascia di lettore, anche di tipo popolare, molto noto per le sue punzecchiature velenose, mimetizzate sotto il velo d’una leggera ironia, non sempre pietosa, che di rado mancava il bersaglio. Ai deputati al Parlamento Brunetti e Monticelli  non furono mai risparmiati gli strali della critica, ma non sfuggirono alla gogna gli avvocati socialisti, gli acquirenti di titoli nobiliari e, come allora si diceva, gli spacciatori di carte false. Sebbene i numeri pubblicati non superarono la decina, i vespai nati si rivelarono tuttavia così virulenti, da suggerire presto ai redattori, rimasti all’inizio pure anonimi, il pensiero del’interruzione della stampa del periodico. Cosa che puntualmente avvenne, a conferma dell’estrema pericolosità della satira politica per i propri ideatori.

Dal 7 giugno 1896, all’epoca del soggiorno nella città jonica, sotto lo pseudonimo di “Ellenio”, Marti produsse diversi interventi, richiesti dal direttore-proprietario Alfredo Guariglia della pubblicazione “Jonio”, organo delle provincie meridionali. Il taglio era di carattere politico, commerciale e letterario. Agli articoli furono spesso accostate delle piccanti vignette, che miravano a colpire soprattutto l’on. Nicola Re.

Del periodo del soggiorno “tarantino”, preceduta già dalla direzione de “Il Salotto” dell’aprile del 1896 e del periodico bisettimanale “L’Avvenire” (1897), di cui figurò anche proprietario, fu sua la collaborazione al foglio indipendente “Il Lavoro”, che usciva con cadenza settimanale, a partire dal 1898, e per cinque anni, diretto da Antonio Misurale.

Sempre a Taranto, dal maggio del 1902, il Nostro collaborò alla stampa del settimanale “La Palestra, diretta da Achille Trisolari. Purtroppo, ebbe a lamentare Nicola Vacca, anche di quella pubblicazione non si conservano che pochissimi esemplari.

Oltre agli interessi di carattere storico-artistico, non mancò a Marti quello per le manifestazioni d’ordine letterario. Dal 1905, infatti, collaborò alla rivista quindicinale “Calliope”, diretta da Luigi De Simone, su cui furono affrontate questioni relative alla produzione poetica, alla prosa ed al teatro. Suoi compagni di avventura furono V. D. Palumbo e Francesco Capozza.

Marti non mancò di essere nello stuolo dei protagonisti delle vicende editoriali

della “Rivista Storica Salentina”, fondata nel 1903 dal direttore Pietro Palumbo. Il prestigioso mensile fu stampato prima presso la Tipografia Giurdignano, poi presso la “Dante Alighieri”. La rivista fu sospesa coi numeri 1-2 dell’anno X (1915) per la morte del direttore Palumbo. Riprese le pubblicazioni, il 20 luglio 1916, sotto la direzione di Salvatore Panareo e Cosimo De Giorgi, stampata dall’editore Gaetano Martello nella Tipografia Salentina.

Con la morte del De Giorgi, avvenuta nel dicembre 1922, rimase direttore Salvatore Panareo. Con l’ultimo fascicolo del 1920 si pubblicò in Maglie nella Tipografia Messapica di B. Canitano. Le pubblicazioni cessarono definitivamente con l’anno XIII, nel dicembre del 1923.

In Appendice si pubblicarono le Cronache Leccesi del Braccio, del Panettera, del Cino e del Piccinni. Nell’anno X vi è l’indice del decennale, compilato da Panareo e una commossa necrologia di Pietro Palumbo, dettata da Cosimo De Giorgi.

La rivista, creata con i soli mezzi finanziari del Palumbo, verso il quale insensibili furono le pubbliche amministrazioni, avare di aiuti nel difficile periodo dell’anteguerra, costituì un’importantissima rassegna di studi storici regionali per serietà, costanza di propositi e cospicui risultati raggiunti.

Il Palumbo seppe radunare intorno alla sua rivista i migliori studiosi tanto da farne per molti anni il centro propulsore di autorevoli studi storici salentini. Tra i maggiori collaboratori non mancarono, oltre al direttore, Pietro Marti, F. Bacile, Luigi e Pasquale Maggiulli, Amilcare Foscarini, Cosimo De Giorgi, N. Bernardini, Umberto Congedo, il can. Francesco D’Elia, Salvatore Panareo, Baldassarre Terribile, Giovanni e Ferruccio Guerrieri, Giuseppe Blandamura,, Giovanni Antonucci, Nicola Argentina, G. F. Tanzi, Rodolfo Francioso, Giuseppe Petraglione, V. De Fabrizio, M.A. Micalella, P. Coco, C. Massa, F. D’Elia, T. Nutricati, E. Pedìo, A. Perotti, F. Ribezzo, G. Ceci,, F. Barberio,L. Bianchi,. P. Camassa, G. Della Noce. V.D. Palumbo, G. Porzio, A. Anglani, ecc.

Il Vacca notava che questa rivista era la più ricordata e la più ricercata dai collezionisti, lettori e studiosi. La sua collezione completa, che per fortuna è presente nella Biblioteca provinciale, è quotatissima, anche perché ormai introvabile.

Altra interessante collaborazione di Marti fu quella che egli fornì al foglio Arco di Prato, che cominciò le sue pubblicazioni  a Lecce nel 1928. Esso vedeva la luce una volta l’anno, la sera del Veglione della Stampa, quando veniva presentato al pubblico leccese. Tra i principali redattori dei primi anni vi furono Ernesto Alvino, Nicola Vacca e Mario Bernardini. Spesso non fece mancare la sua collaborazione anche Pietro Marti, Memorabili, tra le caricature che non mancavano quasi mai, quelle di Ernesto Alvino e Pippi Rossi.

Nel 1932 fu scritto in Almanacco Illustrato (Il Salento, 1932) il contributo non firmato, ma certamente  fornito da Pietro Marti, dal titolo “Giornali e giornalisti di altri tempi: nel decennio del trasformismo”. Nella nota giornalistica si faceva un quadro del decennio trasformista nella provincia di Lecce e soprattutto, ed è ciò che depone in favore della sua paternità, l’apologia del giornale “La Democrazia”, che il giornalista salentino aveva diretto.

Questa, dunque, la serie completa, forse, dei fogli, delle riviste e dei periodici che videro Pietro Marti, accanto ad altri prestigiosi intellettuali salentini, misurarsi con la nobile arte del giornalismo, fatto di serietà e di passione, con le quali egli illuminò non poco il panorama culturale della sua Lecce e dell’intera Puglia, con tracce significative da lui lasciate anche in altre città della Penisola, come a Comacchio, dove egli aveva soggiornato e scritto, sempre con l’intento di recuperare e riproporre il patrimonio storico-artistico delle nostre genti.

 

 Testo pubblicato in: “Note di storia e Cultura Salentina”, Lecce, Grifo Ed., a. XX (2012-2011), pp. 227-234. 

La chiesa madre di Casarano: nuove ipotesi e brevi annotazioni

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, interno, navata principale (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, interno, navata principale (ph Maura Lucia Sorrone)

di Maura Sorrone

 

La chiesa madre di Casarano, dedicata a Maria Santissima Annunziata, è da annoverarsi tra i monumenti più rilevanti del barocco salentino.

Tra gli studi sulla chiesa, si ricordano soprattutto le pubblicazioni inerenti le opere pittoriche: il saggio di Mimma Pasculli Ferrara che ha analizzato le sei tele di Oronzo Tiso[1], quello di Michele Paone del 1980[2] e l’inventario dei dipinti curato da Lucio Galante nel 1993[3].

La chiesa fu edificata tra la fine del XVII e i primi decenni del secolo successivo, in seguito all’abbattimento di un edificio precedente, scelta da imputarsi probabilmente alla crescita demografica del paese.

Il progetto, o quantomeno l’esecuzione materiale dei lavori, in precedenza attribuiti ipoteticamente al clan dei Margoleo[4], sembra invece da riferirsi più correttamente alla famiglia De Giovanni, costruttori originari di Galatina. Infatti fu Angelo De Giovanni, ha lasciare il suo nome in un epigrafe ben in vista sulla facciata principale della chiesa.[5] La scelta di maestranze galatinesi ci autorizza a ritenere ancora una volta questo paese del Salento tra i centri più significativi per l’edilizia barocca della provincia[6]. Sicuramente, le tante botteghe presenti sul territorio[7] furono in grado di favorire, in modo diverso, la diffusione di modelli che dai centri principali ben presto entrarono a far parte della cultura architettonica delle periferie, facendo così diventare il barocco da leccese a salentino[8].

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare di S. Antonio, part. epigrafe dopo il restauro (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare di S. Antonio, part. epigrafe dopo il restauro (ph Maura Lucia Sorrone)

La chiesa, a croce latina, ha una pianta longitudinale. La facciata principale, alquanto semplice, presenta il portale arricchito da una decorazione a punta lanceolata, motivo utilizzato di frequente da Giuseppe Zimbalo e con lui entrato nella cultura tipica dell’arte salentina fino al Settecento inoltrato[9].

All’interno si possono ammirare opere risalenti a periodi diversi quasi a testimoniare il cambiamento di gusto e le scelte operate dai diversi committenti. Innanzitutto, come accennato in precedenza, la chiesa attuale ha sostituito quella precedente, ma alcune opere realizzate per la vecchia matrice furono trasferite nella nuova costruzione. Hanno generato maggior confusione le poche e scarne notizie su un probabile acquisto fatto a Lecce nel 1874 dal Reverendo don Giuseppe De Donatis[10] che portò a Casarano diversi altari provenienti dalla chiesa di San Francesco della Scarpa a Lecce[11]. Anche se non abbiamo forti testimonianze documentarie che ci permettano di attestare certamente quali siano le opere provenienti dalla vecchia chiesa e neppure precise carte documentarie che attestino l’acquisto del 1874, i restauri degli ultimi anni sembrano dare corpo ad alcune ipotesi, in questa sede soltanto brevemente segnalate[12].

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, altare di S. Antonio part. epigrafe prima del restauro (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, altare di S. Antonio part. epigrafe prima del restauro (ph Maura Lucia Sorrone)

Ponendoci di fronte all’altare maggiore è facile percorrere con lo sguardo l’intera navata. A sinistra, vicino al portale d’ingresso è collocato l’Altare di Sant’Antonio di Padova (primo decennio del XVIII secolo), nel quale vi è la statua lapidea del santo. Durante gli ultimi lavori di restauro è stata scoperta un’iscrizione prima d’ora completamente sconosciuta. Si tratta di un’epigrafe per ricordare Giuseppe Grasso che restaurò quest’altare, un tempo dedicato ai re magi, intitolandolo al santo di Padova[13]. Nessuno conosceva queste parole completamente nascoste dal responsorio latino, (si quaeris miracula), che si ripete nella preghiera dedicata al santo di Padova e trascritto in un clipeo dell’altare.

A mio avviso, Giuseppe Grasso è lo stesso benefattore che nel 1713 ha lasciato il suo nome sull’altare dell’Immacolata nella matrice di Ruffano. Com’è stato ricordato di recente[14] si tratta di un noto personaggio appartenente ad una famiglia di medici. Da Ruffano ben presto egli si trasferì a Lecce diventando, a quanto ci dicono le fonti, il medico di fiducia del vescovo Pignatelli[15].

È piuttosto insolito che un’ epigrafe in memoria di un illustre benefattore, tanto generoso da impegnarsi a finanziare un intervento di restauro, sia stata volutamente coperta mentre di solito è consuetudine ricordare gli interventi di restauro con epigrafi e iscrizioni ben visibili sulle pareti delle chiese salentine, sugli altari e sulle tele dipinte. Credo che sia più corretto leggere la scelta di modificare l’iscrizione nell’ottica di un vero e proprio riutilizzo dell’altare che, provenendo da un’altra chiesa, doveva essere adattato a un altro luogo entrando nella vita di una nuova comunità di fedeli. Inoltre, nelle carte documentarie dell’archivio parrocchiale non sembrano esserci riferimenti a questo facoltoso medico. Dunque, l’altare potrebbe essere uno di quelli provenienti dalla chiesa di San Francesco della Scarpa. Anche per quanto riguarda l’intitolazione originaria non sembra esserci stato nelle diverse chiese matrici di Casarano alcun altare dedicato ai Magi né al Presepe. Tematiche più solitamente vicine alla religiosità francescana. È possibile dunque che l’epigrafe modificata e la statua di Sant’Antonio siano state assemblate al nuovo altare dopo il 1874[16].

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, interno, part. navata e tela di O. Tiso (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, interno, part. navata e tela di O. Tiso (ph Maura Lucia Sorrone)

Per cercare di capire le scelte fatte, in assenza di precise carte documentarie, credo che si debba considerare la tematica del riutilizzo di parti o intere strutture d’altare che, entrate in questa chiesa devono aver integrato o rinnovato gli altari che qui già esistevano o che si scelse di creare ex novo perché segno di una particolare devozione del territorio, come abbiamo visto per Sant’Antonio.

Tornando alla nostra breve visita in chiesa, segue all’altare del Santo di Padova, quello dedicato all’Immacolata e poi ancora il pulpito ligneo del 1761 e l’organo a canne realizzato dieci anni dopo[17].

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare delle Anime Sante del Purgatorio (sin.) e altare del Rosario (d.) (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare delle Anime Sante del Purgatorio (sin.) e altare del Rosario (d.) (ph Maura Lucia Sorrone)

Nella navata destra si susseguono l’Altare dell’Incoronazione della Vergine, quello del Rosario che al centro conserva la tela omonima dipinta da Gian Domenico Catalano[18] e l’altare dedicato alle Anime del Purgatorio. Quest’opera, realizzata entro il 1660[19] fu voluta dal Chierico Giovanni D’Astore.

Sebbene realizzato per la chiesa precedente, quest’altare insieme  al dipinto posto al centro, è frutto di una scelta unitaria da parte del committente e, nonostante i diversi spostamenti subiti all’interno della chiesa, il dipinto e la struttura architettonica sono state mantenute insieme. I lavori di realizzazione furono affidati a Donato Antonio Chiarello per la scultura e a Giovanni Andrea Coppola per la tela dipinta[20].

Ricordiamo tra l’altro che lo scultore copertinese in questi stessi anni realizza a Casarano l’altare maggiore nella chiesa della Madonna della Campana.[21]

Altri tre altari sono posti nel transetto: quello dell’Annunciazione, realizzato entro il 1829 dal capomastro Vito Carlucci[22] (a destra), e a sinistra quello dedicato a San Giovanni Elemosiniere, mentre l’Altare dell’Assunta è collocato in cornu epistolae.

L’Altare dedicato al protettore del paese, è frutto di diversi adattamenti. La nicchia posta al centro è stata modificata dall’aggiunta di due colonne, accorgimento utilizzato probabilmente per adattare lo spazio, in precedenza destinato ad ospitare un dipinto, alla statua ottocentesca (fig. 7). Nelle visite pastorali e nello scrupoloso lavoro fatto da Chetry, si cita più volte un altare dedicato al Crocifisso, presente in chiesa dal primo decennio del XVIII secolo fino al 1799[23]. Quest’intitolazione certamente sembra essere più consona agli angeli scolpiti in basso che reggono i simboli della Passione.

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare di San Giovanni, part. (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare di San Giovanni, part. (ph Maura Lucia Sorrone)

L’altare dedicato all’Assunzione della Vergine, datato 1740, appartiene invece a un altro ramo della già citata famiglia D’Astore[24]. Questa struttura ha sostituito un’altra più antica attestata in chiesa fin dal 1719. L’altare, bell’esempio di scultura barocca, si caratterizza per gli angioletti scolpiti che letteralmente invadono lo spazio della scena, dipinta quasi due secoli prima dal pittore neretino Donato Antonio D’Orlando (fig. 9). La tela sicuramente fu richiesta da un’altra committenza data la discordanza degli emblemi visibili. Quello dei D’Astore presente nella macchina d’altare, precisamente  nei plinti alla base delle colonne, è diverso da quello visibile nel dipinto (fig. 10).

Al 1634 risale la tela del Miracolo di San Domenico di Soriano. Essa è parte restante di un altare documentato in questa chiesa fino al 1910. L’opera è adesso collocata nel transetto sinistro, di fronte all’altare dell’Assunta. L’anno di esecuzione e il monogramma del pittore[25] sono stati recuperati durante il recente restauro. Nel transetto destro, di fronte alla cappella novecentesca in cui è riposto il SS. Sacramento, vi è la tela raffigurante la Pentecoste, attribuita ad un pittore di cultura emiliana[26] probabilmente del XVII secolo.

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, part. Altare di S. Giovanni Elemosiniere (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, part. Altare di S. Giovanni Elemosiniere (ph Maura Lucia Sorrone)

A questa veloce descrizione si vuole aggiungere la segnalazione di alcune sculture e architetture attualmente collocate nel cimitero comunale. Si tratta precisamente di due trabeazioni decorate con motivi fogliati e di quattro statue. Non c’è dubbio che le due trabeazioni siano parte dell’architettura di un altare così come una delle statue, raffigurante Sant’Oronzo. Quest’ultima, come possiamo vedere dalle fotografie, sembra essere stata staccata da un altare. Infatti, la figura, anche se è molto danneggiata, mostra un intaglio carico di particolari nella parte frontale, a differenza del retro, in cui la pietra, piatta, è lasciata completamente allo stato grezzo.

Si può ipotizzare che, in seguito alle modifiche di fine Ottocento, l’altare sia stato smembrato e alcune parti siano state trasportate nel cimitero comunale edificato proprio alla fine di questo secolo.

Ad ogni modo, dopo i recenti interventi di restauro si spera che un nuovi studi possano chiarire le vicende storico – artistiche di una delle principali chiese del Settecento in Terra d’Otranto[27].

 

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare dell'Assunta, tele di D. A. D'Orlando (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare dell’Assunta, tele di D. A. D’Orlando (ph Maura Lucia Sorrone)

 

Pubblicato su Il delfino e la mezzaluna n°2, cui si rimanda per la bibliografia, fonti archivistiche e sitografia

 


[1] Oltre alle sei tele conservate nella matrice, la studiosa ha analizzato quelle conservate nella chiesa confraternale dell’Immacolata e quelle della cappella della famiglia Valente. M. PASCULLI FERRARI, Oronzo Tiso, Bari 1976.

[2] M. PAONE, I Tiso di Casarano, in A. DE BERNART,  Paesi e figure del vecchio Salento, Casarano, vol. I, Galatina 1980, pp. 258 – 272.

[3] Regione Puglia Assessorato Pubblica Istruzione C.R.S.E.C. LE/46 Casarano, Pittura in Terra d’Otranto, (secc. XVI – XIX), Inventario dei dipinti delle chiese di Acquarica del Capo, Alliste, Felline (fra. di Alliste), Casarano, Matino, Melissano, Parabita, Presicce, Racale, Ruffano, Torre Paduli (fraz. di Ruffano), Supersano, Taurisano, Ugento, Gemini (fraz. di Ugento), a cura di L. Galante, Galatina 1993.

[4] Questa ipotesi probabilmente nasce per la somiglianza della chiesa casaranese con la vicina chiesa madre di Ruffano realizzata dai fratelli Ignazio e Valerio Margoleo. Sulla chiesa di Ruffano: A. DE BERNART – M. CAZZATO, Ruffano: una chiesa, un centro storico, Galatina 1989; V. CAZZATO – S. POLITANO,  Topografia di Puglia: atlante dei monumenti trigonometrici : chiese, castelli, torri, fari, architetture rurali, Galatina 2001, cit. p. 238.

[5]M. L. SORRONE, Alcune note sulla chiesa madre di Casarano, in “Fondazione Terra d’Otranto”, 23 novembre 2012 https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/11/23/annotazione-sulla-chiesa-madre-di-casarano/.

[6] M. CAZZATO, L’area galatinese: storia e geografia delle manifestazioni artistiche, in: M. CAZZATO, A. COSTANTINI, V. ZACCHINO, Dinamiche storiche di un’area del Salento, Galatina 1989, pp. 260 – 366.

[7] Si ricordano tra gli altri: l’artista neretino Giovanni Maria Tarantino che nel 1576 firma il portale della chiesa di San Giovanni Elemosiniere a Morciano, Pietro Antonio Pugliese, che lavorò alla chiesa di Santa Caterina Novella di Galatina intorno al 1619 e l’architetto leccese Giuseppe Cino, autore  di numerose opere a Lecce e nel Salento che, a quanto dicono i documenti, aveva stretti legami lavorativi con i suoi fratelli, che ricoprivano il ruolo di <<costruttori>>, cfr. M. PAONE, Per la storia del barocco leccese, estr. da “Archivio storico pugliese”, 35 (1982), fasc. 1, cit. p. 141.

[8] M. CAZZATO, L’area galatinese…, cit. p. 330.

[9] F. ABBATE, Storia dell’arte Meridionale, Il secolo d’oro, Roma 2002, p. 267.

[10] Il Reverendo Giuseppe De Donatis commissionò anche il restauro della tela di Oronzo Tiso, San Giovanni che distribuisce l’Eucarestia ai fedeli, (a sinistra, dietro il presbiterio). Intervento ricordato da un’iscrizione posta in basso a sinistra sulla tela, si veda: L. GRAZIUSO – E. PANARESE – G. PISANO’, Iscrizioni latine del Salento. Vernole e frazioni, Maglie, Casarano, Galatina 1994, p. 139.

[11] G. BARRELLA, La chiesa di San Francesco della Scarpa in Lecce, Lecce 1921, p. 28; C. DE GIORGI, La provincia di Lecce – Bozzetti di viaggio, Galatina 1975, vol. II, p. 153; A. CHETRY, Spigolature casaranesi, I, La chiesa matrice di Casarano, ed. a cura dell’Amministrazione comunale di Casarano, Casarano 1990, p. 11.

[12] Queste brevi segnalazioni vogliono essere un preambolo ad un lavoro più dettagliato che chi scrive sta svolgendo.

[13] <<DANT. O  PATAVINO/ SERAFICA FAMILIAE P.P SIDERI FULGENTISS.O/ SACELLUM OLIM REGIBUS AD PRAESEPE VENIETIB(US)/ SACRUM IOSEPH GRASSUS VETUSTATE COLLAPS(US)/ DICAVIT: UT SI ILLI QUONDAMSTELLA DUCE IAM/ DEUM HOMINEM NORUNT: TANTI NUNC/ SIDERIS LUMNEM DEUM SIBI NOSCAT/ PROPITIATOREM>>, trad. <<A Sant’Antonio di Padova astro fulgentissimo tra i presbiteri della famiglia serafica Giuseppe Grasso ha dedicato questo altare rovinato dagli anni un tempo (dedicato) ai re (magi) diretti al presepe affinché come loro un tempo guidati dalla stella hanno già conosciuto il Dio uomo, così ora alla luce del Santo Astro, Dio gli si mostri propizio>>.  Traduzione a cura di G. Pisanò, F. Danieli e don Agostino Bove. In queste sede voglio ricordare con affetto il mio prof. Gino Pisanò scomparso nei giorni di revisione di questo saggio.

[14] A. DE BERNART, I Grassi di Ruffano: una famiglia di medici, estr. da “Nuovi Orientamenti”, 12 n. 71, Cutrofiano 1981, A. DE BERNART – M. CAZZATO, Ruffano…, Galatina 1989, p. 37.

[15] S. TANISI, Visita alla chiesa della Natività della Vergine di Ruffano, in “Fondazione Terra d’Otranto”, 17 luglio 2012,

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/07/17/visita-alla-chiesa-della-nativita-della-vergine-di-ruffano-lecce/.

[16] A Casarano è ben documentato il culto di Sant’Antonio da Padova, al quale era intitolata una cappella, cfr. ACVN, Atti delle visite pastorali, Mons. Antonio Sanfelice, anno 1711, A/52. È probabile che una volta dismessa questa, la statua in pietra del santo sia stata trasferita nella chiesa madre.

[17] Al centro si legge: D.O.M. / A. D./ MDCCLXXI.

[18] Attivo negli anni 1604 – 1628.

[19] <<[…] per sua devott.ne a sue proprie spese novam.te have eretto, et edificato una cappella sotto il titulo dell’Anime del Purgatorio dentro la Matrice chiesa di […] Casarano dalla parte destra nell’entrare dalla porta grande d’essa chiesa et proprio dove stava prima il quadro di s. Trifone, nella quale anco a sue proprie spese vi ha fatto un quadro delle dette Anime del Purgatorio…>>. ASLe, Protocolli notarili, notaio Marc’Antonio Ferocino, anno 1660, f. 138, 20/3, Archivio di Stato, Lecce.

[20] V. CAZZATO, Il Barocco leccese, Bari 2003, p. 99; V. CAZZATO – S. POLITANO, L’altare barocco nel Salento: da Francesco Antonio Zimbalo a Mauro Manieri, in Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e la Spagna, Roma 2007, catalogo della mostra, pp. 107 – 129, cit. pp. 113 – 114. La tela fu inizialmente commissionata a Giovanni Andrea Coppola, ma egli non riuscì a portare a termine l’opera che dopo la sua morte fu completata dal pittore Fra’ Angelo da Copertino. Il dipinto è stato restaurato dalla dott.ssa Luciana Margari. Sulla vicenda si segnala un recente articolo di S. TANISI, La tele delle Anime del Purgatorio di Casarano: due autori per un dipinto, in “Fondazione Terra d’Otranto”, 10 gennaio 2012, https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/01/la-tela-delle-anime-del-purgatorio-di-casarano-due-autori-per-un-dipinto/.

[21]V. CAZZATO – S. POLITANO, L’altare…, cit. p. 114.

[22] Sull’altare si legge: Vito Carlucci e figli (Muro leccese) mentre sulla tela è presente l’anno di esecuzione: 1829.

[23] ACVN, Atti delle Visite Pastorali, mons. Antonio Sanfelice, anno 1719, b. A/77;  A. CHETRY, Spigolature…, cit. p. 27 e p. 41. Anche quest’altare, nella sua architettura originaria, fu commissionato dalla famiglia D’Astore.

[24]L. GRAZIUSO – E. PANARESE – G. PISANO’, Iscrizioni …, cit. p. 127: << Gentilicium familiae de Astore sacellu[m] hoc/ deiparae in coelum evectae dicatum ac benef[icio]/ [a] notaro qu[o]nda[m] Antonio Vergaro fu[n]d[a]tore donatum/ cl. Vitus Antonius De Astore ex matre pronep.[os]/ excitandu[m] curavit anno reparati orbis/ MDCCXL>>, <<Questo altare gentilizio della famiglia d’Astore, dedicato alla Madonna Assunta in Cielo e dotato di un beneficio dal defunto notaio Vergari, il signor Vito Antonio d’Astore, pronipote da parte di madre, fece erigere nell’anno della redenzione del mondo 1740>>.

[25]ORT. BR. NER. 1634, (Ortensio Bruno Neritonensis). Altri dipinti sono accompagnati da questo stesso monogramma, pensiamo alla tela dell’Immacolata nella chiesa di Santa Lucia a Taviano e al dipinto raffigurante il Miracolo di Soriano nella chiesa matrice di Racale. In queste opere per l’abbreviazione della provenienza si legge “N. US” e non “NER.” (neritonensis), cfr. L. GALANTE, Pittura…, cit. p. 11 e nota n. 23 a p. 20. Si veda anche: A. SERIO – G. SANTANTONIO, Racale: note di storia e costume, Galatina 1983.

[26] L. GALANTE, Pittura…, fig.74 senza numero di pagina.

[27] Ringrazio sentitamente il parroco, don Agostino Bove, per la disponibilità e per avermi permesso di fotografare la  chiesa.

Antonio Baldassarre e la Residenza dell’Amore

sculture08

di Paolo Vincenti

 

“Io che avevo dipinto sempre paesaggi, mi sono ritrovato  a scolpire e a dipingere scene di amore e di sesso come mai avrei pensato che sarebbe potuto succedere”. Così scrive Antonio Baldassarre, da Ruffano, sulla brochure di presentazione della sua “Residenza dell’Amore”, altare, tempio pagano, monumento  all’amor profano, sito in quel di Cardigliano di Specchia,  a metà fra castello sulla sabbia e cattedrale nel deserto. Come queste, infatti , il museo dell’erotismo di Baldassarre possiede le caratteristiche proprie di tutte le opere d’arte: l’inutilità e insieme la follia. E come tutti gli artisti, Baldassarre ha l’ambizione e insieme l’illusione che qualcosa possa durare per sempre, a dispetto della sua precarietà.  E chissà che Baldassarre,  in barba a pregiudizi  e scetticismo che seguono tutti i visionari, non abbia proprio ragione e che, al di là del suo artefice, il Museo dell’Amore non possa  avere quella memoria più duratura del bronzo e, meglio, quella vita perenne e quella fama immortale, utopia realizzata, cui aspira ogni facitore armato di penna , pennello o scalpello.

Cyrano e Rossana, Isotta e Tristano
Cyrano e Rossana, Isotta e Tristano

Antonio Baldassarre, classe 1950, nato e cresciuto a Ruffano, dipingeva le marine e le strade del nostro Salento, la vita vera di questa nostra terra come solo riesce a fare la sensibilità di chi proviene da una cultura contadina come lui e i colori predominanti erano il grigio e il verde informati ad un certo pessimismo, ma sicuramente di grande resa poetica. Il pessimismo di Baldassarre era quello tipico di chi vedeva come angusti i propri orizzonti e cercava una liberazione dall’amara realtà oscurantista e terragna del Salento di qualche decennio fa, una via di fuga, insomma, nell’arte. E a coronamento degli sforzi del pittore, certi suoi dipinti ad olio costituiscono davvero un effetto compositivo straordinario, trasmettendo con la tecnica dello sfumato e con il sapiente gioco di luci ed ombre, quasi commozione all’osservatore, per quell’aura di soffusa tristezza che sembra avvolgere certi desolati paesaggi. Pessimismo di rigetto, come è stato definito, quello del Baldassarre, sorretto da un impressionismo tanto istintivo quanto lirico.

Giulietta e Romeo
Giulietta e Romeo

Molte famiglie ruffanesi hanno in casa almeno un’opera del maestro Baldassarre ed anch’io ne ho  tre in casa mia. Gli anni Settanta e Ottanta sono stati quelli di più intensa produzione per Baldassarre che mi dice aver  venduto molto bene in quel periodo ma continua a vedere pure oggi  essendo ormai la sua firma molto quotata.  “Paesi e strade, case e campagne trattati con la spatola balzano vivi dalla tela quasi fossero animati”, scrive Giuseppe Albano, “ Sono paesaggi di Puglia cari all’artista che nel suo continuo vagabondare osserva con occhio d’amore gli uomini e le cose e li fa vivere autonomamente nel suo discorso pittorico. Di particolare interesse il contenuto cromatico delle sue opere: prevalgono i toni cupi ed anche se i cieli sono aperti è difficile scorgere in essi i colori festosi della nostra terra. E’ chiaro che l’artista ha l’animo tormentato e dà al nostro cielo il suo colore”.   Scrive Aldo de Bernart: “…I suoi paesaggi, i suoi fiori, i suoi scorci, le sue figure hanno una cromatica singolare, ottenuta quasi sempre con due colori con i quali l’artista sa ricavare le tonalità più intense e le sfumature più delicate. Ma ciò che più sorprende è il gusto con cui il nostro artista sa cogliere gli angoli del suo paese nativo e della sua campagna, pietrosa ed assolata, per trasfigurargli in scene a volte ariose a volte cupe, in un impressionismo non scevro da evidenti reminiscenze ma pur personale nel sentimento…”. I suoi dipinti ad olio, dalla grande armonia, hanno attraversato gli anni e continuano a sussurrare a chi li osserva di questo nostro paesaggio attraverso la loro calda cromaticità con un discorso pittorico nel quale Baldassarre ha intrecciato la sua meditazione intima con una resa estetica particolare, originale. Ma quello che colpisce nella carriera di questo ottimo artista nostrano è la svolta che egli ha impresso alla sua carriera. Infatti,  ad un certo punto della sua vita, Baldassarre , pur senza ripudiare la pittura, abbraccia la scultura e decide di dedicare all’amore sensuale ed appassionato un tempio, che chiama  “La Residenza dell’amore”: un’opera molto ambiziosa, unica nel suo genere, che,  fra pittura, scultura e mosaici, esalta il godimento  dei sensi ed i piaceri della carne. Baldassarre illustra con malcelata fierezza la propria opera, con stanze piene di affreschi e di gruppi scultorei che costellano anche il grande giardino, al centro del quale campeggia una grande “A” di amore ; e poi numerose sculture di donne ed uomini in atteggiamenti inequivocabili, scene orgiastiche di sesso sfrenato e sculture di grande o piccolo formato che hanno come ossessivo leit motiv  gli organi di riproduzione maschile e femminile, che ritornano in tutte le realizzazioni dell’ardito  complesso architettonico-scultoreo. Attraverso la pietra leccese, l’artista ha modellato vicende d’amore delle più disparate, fantastiche e reali, e poi i grandi amanti della storia e della letteratura come  Paolo e Francesca, Otello e Desdemona, Romeo e Giulietta, Dante e Beatrice, Tristano e Isotta,  tutti dominati dalla lascivia , arsi dal fuoco della lussuria. Dal ponte dell’amore,  sotto il quale scorre un fiumiciattolo quasi clandestino, come il sole che illumina questo orgiastico ritrovo, si può avere una visione d’insieme delle creazioni scultoree e della casa che si sposano amabilmente con il verde della natura circostante mentre lo sciabordio del fiumicello crea un piacevole sottofondo musicale all’estasi quasi mistica che rapisce gli esterrefatti visitatori. Tra realtà e mito, i corpi nudi che si intrecciano nell’osmosi della passione sembrano suggerire le movenze di una danza simile a quella che nell’antichità greca le donne simulavano nelle processioni falliche con le quali si propiziavano  la fertilità dei campi e la prosperità della città.  Tutti i soggetti maschili delle rappresentazioni di Baldassarre in effetti sembrano irrimediabilmente colpiti da priapismo, come il dio adorato nell’antica Roma, appunto Priapo, dall’enorme fallo, da cui il nome di questa malattia. E’ difficile  non provare una forte emozione di fronte a questo spettacolo che un uomo ha concepito e realizzato da solo, nonostante un grave problema di deambulazione che lo tormenta da sempre. Fatale quella delusione d’amore che ha portato l’artista Baldassarre a realizzare questa sua utopia, sfidando la morale imposta, preconcetti, ignoranza e finanche paura da parte della società , almeno di quella società che non ama chi non capisce e non capisce chi è diverso. Ma ogni artista è diverso, dagli altri ed anche da sé, un artista non sarebbe tale se non avesse dentro di sé un assillo, come un rovello, un tormento che lo spinge  a creare. Certo, non si può restare indifferenti la prima volta che si visita la residenza dell’amore, dopo una immersione totale nel  regno dell’Eros.

 

“Novecento” di Baricco a Ruffano

baricco

di Paolo Vincenti

 

Il 30 aprile 2013 presso il Teatro Comunale di Via Paisiello, a Ruffano, a cura dell’associazione “Voce alle donne”, è andato in scena lo spettacolo “Novecento”, a cura di Antonio D’Aprile. Si tratta di un adattamento del noto monologo teatrale di Alessandro Baricco, “Novecento”, pubblicato da Feltrinelli nel 1994 e di cui ricordiamo anche una importante trasposizione cinematografica, “La leggenda del pianista sull’oceano”, del regista Giuseppe Tornatore, del 1998, e addirittura una riduzione in fumetto, sul settimanale Topolino (“La vera storia di Novecento”, riadattato  da Tito Faraci –sceneggiatura  e Giorgio Cavazzano – disegni), nel 2008.

Recita la sinossi dello spettacolo: “Il Virginian era un piroscafo. Negli anni tra le due guerre faceva la spola tra Europa e America, con il suo carico di miliardari, di emigranti e di gente qualsiasi. Dicono che sul Virginian si esibisse ogni sera un pianista straordinario, Danny Boodmann T. D. Lemon Novecento, dalla tecnica strabiliante, capace di suonare una musica mai sentita prima, meravigliosa. Dicono che la sua storia fosse pazzesca, che fosse nato su quella nave e da lì non fosse mai sceso. Dicono che nessuno sapesse il perché… Tutto questo rivive nelle parole commoventi e vibranti di pura poesia, dell’amico trombettista Tim Tooney. Un racconto che incanta, una musica senza tempo e senza confini, magistralmente eseguita dal vivo per conoscere la vita di un uomo, comprendere le sue scelte e imparare a guardare, insieme a lui, il mondo, dalla scaletta di una nave.”

Al capolavoro di Baricco si è ispirato anche il cantautore Edoardo Bennato con la sua canzone “Sempre in viaggio sul mare”.

Antonio D’Aprile, talentuoso attore salentino, sta portando in giro per i teatri della provincia di Lecce questo testo che riscuote un successo crescente ad ogni data. Per la regia di Antonio D’Aprile, gli arrangiamenti musicali di  Daniele Vitali e le scenografie di Benedetta Pepe, sul palco l’attore, fedele alla lezione originale del testo, riesce ad evocare con il solo strumento della sua voce  richiami lontani e avventurosi,  facendo entrare gli spettatori in un’atmosfera suggestiva e rarefatta, di sospensione del tempo e dello spazio.

“Io, che non ero stato capace di scendere da questa nave, per salvarmi sono sceso dalla mia vita. Gradino dopo gradino. E ogni gradino era un desiderio. Per ogni passo, un desiderio a cui dicevo addio.Non sono pazzo, fratello. Non siamo pazzi quando troviamo il sistema per salvarci. Siamo astuti come animali affamati. Non c’entra la pazzia. È genio, quello. È geometria. Perfezione. I desideri stavano strappandomi l’anima. Potevo viverli, ma non ci son riuscito. Allora li ho incantati. E a uno a uno li ho lasciati dietro di me. Geometria. Un lavoro perfetto” ( da “Novecento”).

 

Il Risorgimento a Ruffano e Torrepaduli

 

di Paolo Vincenti

Il Risorgimento nella periferia del Mezzogiorno. Ruffano e Torrepaduli dalla rivoluzione giacobina all’Unità (1799-1861), per la collana “Cultura e Storia” della Società di Storia Patria – Sez. di Lecce, è l’ultima fatica dello studioso Ermanno Inguscio (Edipan 2011).

Dedicato al “maggiore pilota Michele Cargnoni, comandante degli ‘Otto Angeli Azzurri’ dell’84° S.A.R. Aereo Aereonautica Militare Italiana”, il libro vanta una Prefazione del professor Mario Spedicato, Presidente della S.S.P.- Lecce nonché docente di Storia Moderna presso l’Università degli Studi del Salento, e una Postfazione dello studioso ruffanese Aldo de Bernart, decano degli storici salentini, maestro e donno del Nostro. Nell’anno delle celebrazioni per l’unità d’Italia, quindi, un ulteriore tassello, nel grande mosaico della conoscenza storica del Risorgimento locale, che tanti studiosi hanno contribuito a comporre. In effetti, mai c’è stata messe più foriera di nuovi spunti e stimoli di dibattito e ricerca storica nell’ambito degli studi salentini, della copiosa produzione editoriale del 2011, grazie alla quale le vicende politico-amministrative che interessarono Terra D’Otranto durante gli anni dell’unificazione sono state a lungo lumeggiate.

Il volume che qui si presenta va appunto in questa direzione, vale a dire cerca di far luce su fatti e personaggi minori del periodo risorgimentale, nello specifico dei due paesi Ruffano e Torrepaduli, nella ormai consolidata e condivisa consapevolezza che la microstoria sia intrecciata indissolubilmente alla macrostoria, nel tessuto connettivo della nostra storia nazionale.

Dopo la Prefazione di Spedicato, nel libro compare una Premessa dell’autore e quindi il corpus della narrazione storica, suffragata da documenti d’archivio, nella compulsazione dei quali Inguscio è un esperto, come dimostrano i suoi numerosi precedenti lavori editoriali, tutti mirati alla conoscenza storica e all’approfondimento delle principali tematiche sociali, economiche, politiche e culturali che hanno interessato le nostre comunità d’appartenenza nei secoli andati.

Il libro di Ermanno Inguscio ci dimostra ancora una volta che il Risorgimento italiano non fu fatto solo dai grandi nomi che abbiamo imparato a conoscere sui libri di scuola , ma anche dal contributo di tanti e tanti uomini e donne i cui nomi sono meno noti, conosciuti solo a livello locale o, a volte, del tutto ignorati, ma che hanno partecipato fattivamente, spesso dando la propria vita, alla causa nazionale. Così anche nell’ambito degli studi storici di Terra D’Otranto, ai nomi tanto celebrati di Sigismondo Castromediano, Liborio Romano, Antonietta De Pace, Giuseppe Libertini, e via dicendo, dovremmo aggiungere quelli dei tanti sconosciuti eroi che, in ogni piccola o grande municipalità della nostra provincia di Lecce, si spesero per la giusta causa e sui quali nomi, libri come questo che abbiamo tra le mani, fanno luce, meritoriamente.

Patrioti come Giuseppe Marti, Antonio Leuzzi, Francesco Villani, Vito Santo, Vincenzo Marchetti, Samuele Gaetani, Raffaele Viva a Ruffano, e Delfino Caretta, Piacentino Occhiazzo, don Antonio De Giorgi a Torrepaduli, vengono messi in risalto in questa pubblicazione, e tornano a parlarci della storia della nostra comunità che anch’essi hanno contribuito ad edificare, con la loro idea forte di patria unita, di nazione. Questo libro potrebbe costituire il prequel, come si direbbe con un termine tratto dal linguaggio televisivo delle fiction, dell’altro libro di Inguscio, “La civica amministrazione di Ruffano. Profilo storico 1861-1999” (Congedo Editore, 1999), nel senso che approfondisce il periodo storico immediatamente precedente a quello trattato in quel libro. Ciò offre una visione d’insieme sulla storia ruffanese degli ultimi due secoli Ottocento e Novecento.

Nella sua Premessa, Inguscio spiega quali sono le fonti (tantissime) da lui consultate per la redazione di questo volume e quali anche le difficoltà incontrate nel percorso di studio a causa della mancata reperibilità di alcuni documenti fondamentali. Nella Prima Parte (“Il 1799 tra rivoluzione e restaurazione”), Inguscio si occupa dei riflessi della Repubblica Partenopea del 1799 in Terra D’Otranto, nello specifico con riferimento alle “Università” di Ruffano e Torrepaduli, e ci parla delle mortalità e natalità nel nuovo stato civile di Ruffano e Torrepaduli (che, all’epoca era aggregata a Supersano). Nella Seconda Parte ( “Decennio francese, Nonimestre, Società segrete”), si occupa delle riforme che avvennero in Terra d’Otranto dalla Rivoluzione Partenopea all’eversione della feudalità (1799-1806), sempre con specifico riferimento al nostro comune, quindi dell’istituzione delle Conclusioni Decurionali di Ruffano e della nascita delle società segrete.

Passa poi ad occuparsi dei demani, dei catasti e del contenzioso amministrativo nel comune di Torrepaduli in età murattiana (1806-1808), della carboneria torrese di Antonio De Giorgi, con la “vendita” di Torrepaduli nell’ex Convento dei Carmelitani , e delle vicende amministrative che interessarono Ruffano durante quegli anni davvero “caldi” per il nostro Paese. Si fanno i nomi di diversi settari ruffanesi, con il movimento carbonaro nell’ex Convento dei Cappuccini.

Nella Terza Parte (“ ll 1848. Fermenti e sommosse”), Inguscio si occupa del periodo che va dal 1830 al 1840, con il propagarsi delle idee mazziniane in Terra D’Otranto, focalizzando le figure di alcuni liberali ruffanesi fra i quali in primis il patriota Raffaele Viva.

Con l’Unificazione, e siamo nella Quinta Parte del libro, anche a Ruffano e Torrepaduli si tiene un Plebiscito per l’Unità, con ben 877 “si” all’Italia unita.

Una parte dello studio è riservata ai mercati e fiere, fra cui la Fiera di San Marco a Ruffano e l’altrettanto nota e antica Fiera di San Rocco a Torrepaduli. Nel biennio decisivo per l’Unità d’Italia (1859-1861), viene approfondito il fenomeno del legittimismo reazionario, in particolare con lo scontro, a Torrepaduli, fra le figure dell’arciprete Caracciolo e del Sindaco D’Urso. In effetti furono molte le manifestazioni filo borboniche nel nostro comune e disordini, in quegli anni agitati, se ne registrarono in tutto il Salento , con processi politici che interessarono anche il Circondario di Ruffano.

E con le Conclusioni, termina il libro, che riporta una serie di fotografie dei più importanti monumenti, palazzi e strade di Ruffano. Dopo la Postfazione di Aldo de Bernart, in “Appendice” vengono riportati: una tavola sinottica delle cose più notevoli in età preunitaria (fatti, luoghi e nomi) di cui si è parlato nel libro, e l’intero elenco degli 877 elettori del plebiscito del 21 ottobre 1860 a Ruffano e Torrepaduli.

Lascio che a chiudere questo pezzo siano le significative parole dell’autore stesso: “Nell’anno delle mille celebrazioni, giustamente programmate nella Penisola, in occasione del 150° dell’Unità D’Italia, nel pieno fiorire nel contesto globale della realtà dell’Europa Unita, è parso utile dotare il lettore di una minuscola tessera di riappropriazione storica d’identità, di due piccole comunità… che, con l’umile contributo dei propri antenati (patrioti, liberali, legittimisti e diffidenti), hanno contribuito al raggiungimento di un’unica patria, dove ciascuno sia protagonista della propria esistenza e della ricerca collettiva del bene.”

La statua di san Francesco da Paola a Ruffano

di Paolo Vincenti

Sarà bene il caso di ricordare che la statua di San Francesco di Paola, che campeggia al centro della nostra bella piazza ruffanese, dedicata proprio a questo santo, compie 300 anni. Ebbene si. Come ci ricorda con solerzia  Aldo de Bernart, quella statua venne costruita all’inizio del Settecento, per la precisione nel 1711, quando, giunta la venerazione di San Francesco di Paola nel Salento e anche a Ruffano, venne costruita la chiesetta intitolata al Santo , per volere dell’allora arciprete don Antonio d’Alessandro, nello stesso periodo in cui era anche in costruzione la Chiesa Madre intitolata alla Beata Maria Vergine. Aldo de Bernart, pochi anni fa, ha ricordato in un suo opuscoletto auto distribuito, la figura del Santo di Paola e la chiesetta in parola che, nell’Ottocento, divenne l’oratorio privato di Mons. Francesco D’Urso, Vescovo di Ugento dal 1825 al 1826. Questa chiesetta e la statua, opere di Valerio Margoleo, sono oggi di proprietà della famiglia Pizzolante- Leuzzi, ma  versano purtroppo in uno stato di profonda incuria  e richiederebbero  un urgente restauro, come lo stesso de Bernart da più tempo denuncia. Anche perché la statua lapidea di San Francesco di Paola, come si può capire, ha per il nostro paese un valore devozionale e  storico se è vero che a questa è stata intitolata la piazza, che alcuni ruffanesi ritengono superficialmente sia intitolata  al più noto  San Francesco D’Assisi. Trecento anni, dunque, per uno dei manufatti artistici che compongono il patrimonio culturale della nostra Ruffano e per una testimonianza importante della nostra storia.

 

La saga dei Grassi a Ruffano di Aldo de Bernart

di Paolo Vincenti

Aldo de Bernart ha dato recentemente alle stampe l’opuscoletto “La saga dei Grassi di Ruffano – Giuseppe Grassi- “,  l’ennesimo,  della sua pregevole collana “Memorabilia”, che ha preso le mosse, qualche anno fa, dalla voglia di de Bernart di far riscoprire ai propri concittadini personaggi e  fatti minori della storia ruffanese. Questa volta la plaquette, sottotitolata “Scritture storiche in onore del dott. Mario Stefanò per il suo ottantesimo compleanno”,  e come sempre stampata dalla Tipografia Inguscio e De Vitis, tratta di alcune figure storiche di medici della Ruffano dei secoli scorsi. In realtà, si tratta della riproposizione di “Note sull’arte medica in Ruffano tra Cinque e Settecento”, già pubblicata da De Bernart, ma stavolta col valore aggiunto della dedica ad un amico personale dello studioso, vale a dire Mario Stefanò,  conosciuto e stimato medico in pensione di Ruffano, che compie il genetliaco e che, come de Bernart, è un profondo conoscitore della storia  e delle tradizioni di Ruffano, il paese di Sant’Antonio e San Marco, di Antonio Bortone e Saverio Lillo, di Pietro Marti e Carmelo Arnisi.

Nella Ruffano  della Madonna della Serra e di Torrepaduli col suo importante culto di San Rocco, Stefanò è nato e cresciuto e qui ha svolto, per molti anni di onorata carriera, la propria professione di medico condotto, sempre

Uccisione di un brigante

 

di Alessio Palumbo

Come oramai assodato da buona parte della storiografia locale e nazionale, il brigantaggio salentino fu, nel contesto meridionale, un fenomeno quantitativamente e qualitativamente marginale. Lo stesso Regio Decreto del 20 marzo 1863, del resto, non incluse la Terra d’Otranto tra le province “invase dal brigantaggio”.

Sebbene, dunque, non fossero mancati episodi di ostilità ai Savoia, spesso fomentati dal clero e da vecchi “baroni”, le bande dei briganti salentini, solo in rarissimi casi, furono guidate da ideali legittimisti o conservatori.

In Terra d’Otranto, quindi, operarono soprattutto gruppi di sbandati, guidati da generici malviventi dai nomi pittoreschi, come lu Pecuraru, Pirichillu, Cavalcante, Scardaffa, Statico, etc.

In alcuni casi, le azioni spettacolari e sanguinose di queste bande, diedero ai briganti un’aura leggendaria che si riverberò per anni ed anni. È il caso di Quintino Venneri di Alliste, la cui leggenda continuò ad essere tramandata ancora per molti decenni dopo la sua morte, come testimonia questo scritto sulla sua uccisione, datato 1912:

La stazione dei carabinieri di Ruffano, nel pieno della notte del 23 luglio 1866, “fu avvertita che Quintino Venneri si era rifugiato entro la cappella di Cirimanna, una chiesetta sita alle falde della collina di Supersano. […] La chiesetta aveva dietro un piccolo orto, cinto di alto muro, e il brigadiere, posti i suoi militi alla posta, si avventurò da solo per forzare la posizione. Poverino, si era appena appena affacciato all’orto, ed al momento di scavalcare il muro, una rombata di Venneri lo fredda. Alla caduta fulminea del superiore i militi si lanciano come leoni feriti nel covo di Quintino Venneri. I più risoluti si gettano nell’orto, gli altri, col calcio del fucile atterrano la porta della Cappella e, a due fuochi, impegnano il sanguinoso conflitto. Una palla del moschetto del carabiniere Anacleto Risis, di Alba Pompea, pose fine alla mischia spaccando in due il cuore del temuto bandito[…].

La notizia, intanto, del conflitto che si era impegnato tra l’arma dei carabinieri e Quintino Venneri, sulla cappella Cirimanna, era giunta a Don Angelantonio Paladini, sopra la Masseria Grande, e quando il maggiore, comandante tutte le guardie nazionali dei nostri dintorni, impegnate nella repressione e cattura degli sbandati, giunse ai piedi della collina di Cirimanna, già la benemerita arma aveva pagato il suo tributo e riscosso il premio delle sue fatiche. Don Angelantonio divise in due drappelli le sue guardie: la compagnia delle guardie nazionali di Parabita l’adibì per accompagnare il corpo esamine del povero brigadiere, sino al vicino paese di Supersano, e la 3° compagnia delle guardie nazionali di Galatina accompagnò il cadavere di Quintino Venneri che per pubblico esempio e per appagare la curiosità di tutte le popolazioni del Capo lo si tenne esposto, per tre giorni, sulla piazza di Ruffano, guardato dalla nostra Guardia Nazionale.

La presa di Quintino Venneri fece epoca e in tutta la regione del Capo se ne formò una leggenda: bello, dai capelli ricci, forte, simpatico e, nella sua rudezza di uomo di macchia, generoso e galantuomo. Le mamme ancora lo ricordano ai loro bambini, intessendo mille aneddoti e mille avventure intorno alla vita di colui che, morto, si tenne esposto sulla piazza di Ruffano per pubblico esempio” (R. Rizzelli, Pagine di Storia Galatinese, 1912).

Saverio Lillo, pittore settecentesco di Ruffano

di Paolo Vincenti

Saverio Lillo nasce a Ruffano nel 1734. Inizia giovanissimo a dipingere, spinto soprattutto dalla necessità, a causa delle ristrettezze economiche in cui versava la sua famiglia. Sposatosi a 21 anni con Margherita Stefanelli, che gli diede ben sette figli, accettava ogni tipo di committenza per sbarcare il lunario. Ben presto venne a contatto con la nobiltà salentina, per la quale il Lillo iniziò a produrre le sue inconfondibili Madonne, dal tenero incarnato e dal volto dolce e malinconico.

Nel 1765, quando ormai aveva abbracciato in pieno l’arte come sua ragione di vita, iniziò la sua opera più importante: le tele della nuova chiesa parrocchiale Beata Maria Vergine di Ruffano, su committenza della Confraternita del Rosario, per un prezzo di 160 ducati, un prezzo certo molto modesto ma che il Lillo accettò volentieri poiché voleva lasciare l’impronta della sua arte nella chiesa madre del suo paese.

La prima opera è la tela centrale, raffigurante “Eliodoro che ruba i tesori del tempio”, datata 1765. L’episodio è tratto dal II Libro dei Maccabei e il soggetto ricalca l’affresco del 1725 di Francesco Solimena nella chiesa del Gesù Nuovo a Napoli e la tela del leccese Serafino Elmo nella parrocchiale di Muro Leccese. Poi, la tela del “Trasporto dell’Arca”, episodio tratto dall’Esodo, che riprende l’omonima tela del leccese Oronzo Tiso nella chiesa di Sant’Irene a Lecce. Quindi, la tela della “Visita della Regina di Saba a Salomone”, la più bella del Lillo, episodio tratto dal III Libro dei Re, che ricalca la omonima tela di Oronzo Tiso nel Palazzo Baronale di Arnesano.

Il Lillo poi si occupò della tela ottagonale del transetto, raffigurante la “Natività di Maria Vergine” e, successivamente, delle tele degli estradossi, raffiguranti le virtù “Vigilantia, Fortitudo, Virginitas, Puritas, Una Fides, Iustitia, Constantia, Miseratio, Aelemosina, Spes, Charitas”.

Completa l’opera la tela “Gesù che caccia i profanatori del Tempio”, episodio tratto dal Vangelo di Matteo, che ripete le omonime tele di Liborio Riccio nella parrocchia di Muro Leccese e di Nicola Malinconico nella cattedrale di Sant’Agata a Gallipoli.

Nel 1776, dopo alcuni lutti in famiglia, come la prematura scomparsa di due sue figlie, si dedicò a dipingere la tela raffigurante “Il miracolo di Sant’Antonio e la conversione dell’eretico”.

Vissuto in un secolo in cui l’arte pittorica fioriva in Terra D’Otranto, circostanza che giovò alla sua formazione, non ebbe però la possibilità di frequentare le grandi scuole pittoriche del Settecento e questo influenzò la sua arte che non venne considerata, dai critici,  degna dei grandi maestri dell’epoca.

Lillo morì a 62 anni e venne sepolto proprio nella chiesa parrocchiale che con tanto amore aveva decorato.

(Liberamente tratto da: “Saverio Lillo pittore ruffanese del Settecento”, di Aldo de Bernart,  in “Ruffano una chiesa un centro storico”, Congedo Editore 1989).

Il Lillo, che non solo a Ruffano ha lasciato l’impronta della propria arte, morì nel 1765 e, da quel momento, scese su di lui un velo di silenzio, dispiegato, nel 1989, da una preziosa pubblicazione, la sopramenzionata “Ruffano una chiesa un centro storico”, ad opera di Aldo de Bernart e Mario Cazzato, che ha fatto riscoprire la figura di questo pittore del XVIII secolo, ingiustamente dimenticato.

 

Antonio Bortone da Ruffano (1844-1938), il mago salentino dello scalpello

busto muliebre di Antonio Bortone (da http://auction.leonardauction.com)

 

di Paolo Vincenti

Nel 160° di sua nascita (1844-2004) migliore ricordo non poteva avere il “Mago salentino dello scalpello” se non quello del riconoscimento ufficiale della sua casa natale, con l’apposizione di una lapide sulla facciata ovest della fabbrica, di recente restaurata. Una casa dalla nobiltà delle linee architettoniche degne di un grande architetto, che la edificò nel 1595 con una ardita scala aggettante bordata di un intenso fogliame di felce che corre lungo il toro che guarnisce la fronte d’appoggio della scala, rotta da feritoie al tempo stesso lucernari e saettiere; e con un balcone a patio, posto in un angolo con tetto a tegole cadente su di una svelta colonna ottagona, che spartisce gli spazi aperti su due scorci dell’antico borgo di S.Foca.

Una casa prestigiosa, extra moenia, dirimpettaia della dugentesca chiesa di S.Foca, prima matrice di Ruffano. Una casa palatiata, al civico 6 di via S.Foca, dove il 13 giugno del 1844 vide la luce Ippazio Antonio (tale il nome di battesimo) figlio di Carmelo Portone e di Anna Antonino […].

Ma il nostro scultore ben presto ritoccò i suoi dati anagrafici scegliendo il secondo nome Antonio (forse perché era nato proprio il giorno di S.Antonio da Padova-13 giugno) e tralasciando il primo nome Ippazio (impostogli forse per discendenza patronimica) e mutando il cognome da Portone a Bortone.

Il tutto, crediamo, per esigenze d’arte. Infatti, a soli trentatré anni, quando la sua fama di scultore varca i confini d’Italia, la statua che lo rende famoso a Parigi (il Fanfulla) porta infisso il nome di Antonio Bortone. E ancora, Antonio Bortone è scolpito sul plinto, che regge quella famosa statua, nel testo epigrafico del prof. Brizio De Santis: Sono/ Tito da Lodi /detto il Fanfulla/ un mago di queste contrade /Antonio Bortone/ mi tramutò in bronzo/ Lecce ospitale mi volle qui/ ma qui e dovunque/ Dio e l’Italia nel cuore/ affiliamo la spada/ contro ogni prepotenza/ contro ogni viltà/ MCMXXII.

La statua raffigura il Fanfulla, uno dei tredici cavalieri della “Disfida di Barletta”, ritratto ormai avanti negli anni quando orbo di un occhio e col saio domenicano faceva penitenza nel fiorentino convento di S.Marco, mentre affila la misericordia, un acuminato spadino che all’inquieto lodigiano era servito in tante battaglie.

Modellata a Firenze nel 1877, l’opera è figlia della tensione tra i circoli artistici fiorentini e il Bortone, che si era prodotto, e bene, nel nudo, con il Gladiatore morente, ma non aveva ancora dato prova di sé nel drappeggio. Tale prova il Bortone la darà appunto con la statua del Fanfulla, inviata alla Mostra Internazionale di Parigi, dove però giungerà ammaccata in più parti. Invitato a ripararla, il Bortone non andò mai nella capitale francese, forse per il suo carattere che a volte lo rendeva spigoloso e quasi intrattabile. […] Comunque la statua fu esposta ugualmente a Parigi e vinse il terzo premio, previo il restauro praticato dal grande scultore napoletano Vincenzo Gemito, che si trovava nella capitale francese a motivo della stessa Esposizione.

Tanto spigoloso e mutevole nel carattere, altrettanto continuo, però, puntuale e riflessivo nella composizione delle sue opere, che studiava profondamente documentandosi sempre sulla storia dei personaggi che andava modellando, fino a tormentarli, quasi, perché parlassero di sé.

Sotto questo profilo l’opera più sofferta rimane il monumento a Sigismondo Castromediano, il bianco duca di Cavallino, condannato alle patrie galere ad opera dell’intendente di Lecce barone Carlo Sozy Carafa.

Ma le due figure, antitetiche sul piano politico, avevano aiutato, in tempi diversi, il Bortone a percorrere le tappe della sua carriera artistica, talchè l’impianto del monumento le richiamava entrambe alla mente dell’artista, che finì per raffigurare, come ognuno sa,  il Castromediano nell’atto di levarsi dalla sedia per offrire le sue “Memorie” ad un ospite che lo visita, che potrebbe essere lo stesso Carafa, non più tutore di un’autorità ma semplice cittadino, che rende omaggio all’antico avversario, alla presenza della Libertà, nelle nobili fattezze di una matrona seduta ai piedi del plinto del monumento, e della Gloria, simboleggiata da un’aquila che lascia cadere la catena di forzato sul blasone dell’antico casato dei duchi di Limburg.

[…] Per il Fusco, Antonio Bortone riassume prodigiosamente, con ritmo severo ed alato, le nostre glorie; per il Vacca, il motto del Bortone è nulla dies sine linea.

Alla sua morte, che lo colse il 2 aprile 1938, il vescovo di Lecce, monsignor Costa, in un commosso saluto pubblico su L’Ordine, scrisse: Il figlio più illustre del Salento, vanto dell’Arte, onore della Patria, si è spento nel bacio di Cristo […] Corsa di una vita di 94 anni, seminata di capolavori della mente e della mano, nei quali egli ha scolpito il suo nome per i secoli…

Ai funerali, io c’ero. A ridosso di Palazzo Carafa, guardavo una marea di gente che attraversava muta le vie di Lecce, al tocco lugubre del campanone del Duomo. Ero a Lecce per motivi di studio. Avevo tredici anni. Non potevo allora immaginare che proprio io sarei diventato il biografo di Antonio Bortone!

Biella, particolare del monumento a Quintino Sella (1888) di Antonio Bortone. Sella è ritratto a figura intera mentre ai lati del basamento siedono due corpulente allegorie: la Politica e la Scienza (da http://www.duesecolidiscultura.it/monumento-a-quintino-sella-%E2%80%93-antonio-ippazio-bortone/)

(Tratto da: “Antonio Bortone e la sua casa natale in Ruffano” di Aldo de Bernart, stampato in occasione della inaugurazione, nel 2004, della Domus Bortoniana, da parte dell’Amministrazione Comunale ruffanese)

Fra le  numerose opere del Bortone,oltre a quelle citate, ricordiamo: il busto di Giuseppe Garibaldi, in marmo, che si trova presso il Castello CarloV di Lecce;  presso la Biblioteca provinciale N.Bernardini di Lecce, i busti in marmo di G.C.Vanini, di Francesco Milizia, di Antonio Galateo e di Filippo Briganti; quello di Gino Capponi, presso Santa Croce in Firenze; il monumento a Quintino Sella, a Biella; il monumento a Francesca Capece, a Maglie; il monumento a Salvatore Trinchese, a Martano; il ritratto di Pietro Cavoti, in bronzo, presso il Convitto Colonna a Galatina; il monumento ai Martiri di Otranto; il monumento ai Caduti di Tuglie; il monumento ai Caduti di Ruffano;  il monumento ai Caduti di Calimera;il monumento al Sottotenente Benedetto Degli Atti, nel Palazzo comunale di Guagnano; e tanti altri.

Visita alla chiesa della Natività della Vergine di Ruffano (Lecce)

 

di Stefano Tanisi

part. dell’altare di S. Antonio (ph M. Gaballo)

La chiesa della Natività della Beata Maria Vergine di Ruffano rappresenta un inestimabile monumento del barocco salentino.

La sua edificazione, iniziata nel 1706 sul suolo della vecchia chiesa di rito greco e terminata nel 1713, si deve all’impulso religioso delle Confraternite del SS. Rosario e del SS. Sacramento e al contributo corale del popolo. I lavori furono affidati ai mastri martanesi Ignazio e Valerio Margoleo. Nel 1716 fu edificata la sacrestia e nel 1725 la torre dell’orologio sulla porta secondaria comunemente detta “porta dei maschi” (memoria della bizantina divisione tra uomini e donne).

Grande e maestosa architettonicamente, si presenta nella planimetria a croce latina, con la navata centrale su cui si aprono le cappelle dei sei altari.

Dal 1765 al 1776 il pittore ruffanese Saverio Lillo (1734-1796), arricchisce le pareti della chiesa con le Virtù che inquadrano gli altari laterali; la tela ottagonale del transetto che raffigura la Natività di Maria; le grandi tele del presbiterio che raffigurano il Castigo di Core, Eliodoro scacciato dal tempio e la Regina di Saba; S. Antonio e miracolo della mula nel braccio destro del transetto; e Gesù che scaccia i mercanti dal tempio nella

Ruffano/ MAGMA. Le mani dell’arte

di Paolo Vincenti

Nel bel centro storico di Ruffano, a pochi passi dalla barocca chiesa matrice “B.M.Vergine”, Pamela Maglie ci riceve nel suo laboratorio creativo ricavato in una antica costruzione sapientemente restaurata a adattata anche, per il piano superiore, ad abitazione.  Nella calma pigra e sonnolente di Piazzetta Giangreco, il cuore dell’antica Ruffano, locus amoenus, scrigno di memorie per generazioni e generazioni di ruffanesi che ivi sono nate e cresciute, prima che l’ampliamento urbanistico del paese e le mutate esigenze abitative causassero un esodo che ha di fatto spopolato questo vecchio quartiere, il laboratorio di Pamela Maglie sembra quasi un’oasi nel deserto, un’ancora di salvezza nel vuoto che almeno apparentemente il centro storico di Ruffano può trasmettere a chi vi si addentri.

In effetti, nel cuore antico del paese, ad uno sguardo meno distratto, ci si accorge che ci sono tante bellezze, che sono potenzialità inespresse, che attendono solo di essere riscoperte e valorizzate.

Pamela Maglie, versatile e dinamica artista salentina, laureatasi all’Accademia di Belle Arti di Lecce, ha  lavorato in laboratori di restauro cartaceo a Milano.  E’ promotrice di eventi d’arte e partecipa e organizza mostre d’arte personali e collettive. A Ruffano, ha realizzato diverse mostre presso il Museo della Civiltà Contadina di Torrepaduli e performaces artistiche, soprattutto di manipolazione della carta, nell’ambito di manifestazioni culturali organizzate dalla locale Pro Loco,  di cui Pamela Maglie è attiva esponente.

Oltre al restauro di opere d’arte, la Maglie è una originale pittrice e tiene diversi corsi di pittura rivolti a minori e anche a soggetti svantaggiati. L’arteterapia è, infatti, ormai inserita all’interno dei programmi psico-educativi al fine di promuovere la salute, favorire la guarigione o, in senso più ampio, migliorare la qualità della vita dell’utente disabile. Fra le diverse attività della Maglie, una delle sue passioni è la cartapesta e in particolare Pamela si è specializzata nella creazione di gioielli in cartapesta, come dire un modo di alleggerire e rendere avvicinabili a tutti (e a tutte le tasche)  questi preziosi monili che siamo abituati a guardare ammirati dietro a lussuose vetrine del centro dove essi, inavvicinabili ai più, fanno bella mostra di sé.

Insieme alla collega e amica Francesca Mazzotta, ha creato un marchio che è Magma. Questo progetto nasce dalla comune passione per la lavorazione della carta, un materiale che le due artiste definiscono affascinante per la continua ricerca e sperimentazione che su di esso si possono fare. Sul loro sito, le artiste presentano la nuova collezione autunno-inverno 2011 di Magma con una citazione da Eraclito, il filosofo greco del divenire, e cioè: “Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo lógos”. “Bios”  hanno chiamato la nuova collezione di gioielli di cartapesta, una parola greca che letta  “biòs” significa “arco” , ma letta “bìos” significa “vita”. Tutto ciò ci incuriosisce e ci invita a scoprire queste preziose e delicate realizzazioni, frutto del lavoro di due giovani donne che hanno passione e fantasia da vendere, che potrebbero essere fra i tanti talenti salentini (fedelmente all’assioma, oggi di moda, “Salento-talento”) da esportazione, ma che invece  rimangono devote alla nostra terra natale perché qui, in questo Salento riarso dal sole, vogliono raggiungere la propria realizzazione. Certo, i percorsi per arrivare ad un risultato sono più lunghi e tortuosi, si fa sempre più fatica, come è noto, a queste latitudini, per imporre sul mercato una progetto innovativo e per trovare il successo sperato. Ma voglia di fare, estro e puntigliosità, non difettano a chi si esprime con l’arte: e le due artiste sanno non essere, la propria, scelta di vita facile, ma non per questo demordono, anzi ogni nuova tappa del proprio cammino artistico e umano è stimolo per andare avanti e ogni piccola gratificazione, motivazione per fare meglio.

Sul sito del progetto Magma si legge: “ MAGMA, oltre che essere un acronimo dei due cognomi (Maglie, Mazzotta), evidenzia la lettera G di gioiello, vero protagonista del loro lavoro. Nel suo significato la stessa parola ricorda il processo tecnico della focheggiatura, tipico della cartapesta leccese, la quale necessita di ferri arroventati per la modellazione. La carta, piegata, intrecciata, cucita, riciclata assume forme insospettabili, generando dei gioielli la cui preziosità non è più affidata a metalli e gemme, ma ad un  progetto di sostenibilità, ecologia e valorizzazione del territorio. Le creazioni sono pezzi unici in un mix di materiali, forme e colori.”

E ancora: “Bìos è studiata attorno alla forma circolare e a un concetto di linearità, un semplice filo che chiude uno spazio vuoto incornicia e valorizza dettagli della natura. Un guscio di una lumachina, una foglia d’alloro per un gioiello odoroso, un peperoncino piccante, un fico d’india, quasi a voler sottolineare il valore autoctono della biodiversità.”

Come pittrice, pur essendo quella che si definirebbe un’artista in progress, nel senso che tanti e diversi potranno essere ancora gli approdi della sua pittura, Pamela Maglie ha tuttavia ben chiare le idee e la ricerca che ella compie denota un attaccamento forte, viscerale, alla propria terra d’origine che esercita su di lei un richiamo materno, ancestrale;  solo che le modalità scelte di volta in volta per riappropriarsi di queste sue radici non sono quelle consuete del Salento immaginifico di certa pittura sognante o simbolista, né del Salento pietroso e contadino di certa pittura verista, né ancora del Salento depresso e violentato di certa pittura militante e di denuncia.

Il Salento di Pamela Maglie è quello della sua natura, che si fa filo di cipolla, coccinella, guscio di lumachina, noce, fil di ferro e spago, fico d’india, chicco di caffè, ecc. ecc., come si può vedere dai suoi quadri.

Sono formule nuove, quelle della Maglie, sorrette da una robusta formazione culturale, da acuto spirito di osservazione, da una forte curiosità e duttilità artistica e da una estrema capacità di sintesi, e manifestate con fermezza compositiva, varietà cromatica e vigoria espressiva. Ecco, certamente quello delle sue tele è un cromatismo non retorico, diverso ma alquanto poetico perché sa rendere, anche a chi non conosca questo lembo di terra, l’incanto dei suoi elementi e la magia delle piccole cose quotidiane, di quei dettagli che, a volte, più dei raffigurati palazzi e chiese o dei grandi paesaggi di campagna o di mare, sanno riassumere in sé l’anima vera del Salento. Senza asprezze e con originalità,la Magliedipinge con la nostalgia accorata di chi pur sa che ha ancora tanta strada da fare davanti a sé ma sente comunque il peso di quel bagaglio culturale ed esperienziale che si porta sempre appresso, dovunque le stagioni della vita e le occasioni dell’arte la porteranno.

Naturalmente, la rappresentazione del  Salento è filtrata dalla sua visione personale, perché, come dice Oscar Wilde “nessun grande artista vede mai le cose come realmente sono. Se lo facesse, cesserebbe di essere un artista”. E il viaggio nel laboratorio della Maglie  e nel centro storico di Ruffano termina così lasciandoci una speranza, come un mazzo di rose profumate di primavera, promessa di future sorprese, di vita e di arte che si intrecciano magicamente insieme ad un Salento avvenire.

in “Il Paese Nuovo”,  6 agosto 2011

Ruffano festeggia San Marco, il protettore dell’udito

di Stefano Tanisi

ruffano – statua in cartapesta di san marco

San Marco si festeggia a Ruffano da tempo immemorabile, forse dal XII secolo, quando i monaci bizantini dipinsero nella loro chiesetta ipogea un affresco raffigurante il santo mentre si accinge a scrivere -in greco- il primo passo del suo Vangelo.

Il santo è invocato come protettore dell’udito: il 25 aprile, giorno in cui  ricorre le solennità dell’Evangelista, si distribuisce ai devoti un batuffolo di cotone imbevuto di olio benedetto, che applicato nel condotto auricolare, attenua il dolore sino a farlo passare. I numerosi ex voto in oro e argento esposti (per la maggior parte a forma di orecchio) testimoniano le grazie ricevute dai fedeli. Nella piccola cappella ruffanese, meta di numerosi pellegrinaggi, sono poste la reliquia e la statua in cartapesta dell’evangelista.

La mattina di questo giorno, si tiene la tradizionale Fiera di S. Marco, la più antica (XV secolo) fiera primaverile dei dintorni, con la quale si introducevano i frutti di stagione e si potevano acquistare gli strumenti da lavoro e i prodotti d’artigianato locale come le terracotte. In origine si svolgeva solo nello slargo antistante alla chiesa (c.d. borgo S. Marco) e già dall’Ottocento si è estesa nella parte sud del paese, divenendo oggi la più importante fiera-mercato del basso Salento.

In questo giorno di festa si può anche visitare la cripta dedicata sempre a San Marco (XII sec.), situata al di sotto della chiesa del Carmine. Si accede

La statua di san Francesco da Paola a Ruffano

di Paolo Vincenti

Sarà bene il caso di ricordare che la statua di San Francesco di Paola, che campeggia al centro della nostra bella piazza ruffanese, dedicata proprio a questo santo, compie 300 anni. Ebbene si. Come ci ricorda con solerzia  Aldo de Bernart, quella statua venne costruita all’inizio del Settecento, per la precisione nel 1711, quando, giunta la venerazione di San Francesco di Paola nel Salento e anche a Ruffano, venne costruita la chiesetta intitolata al Santo , per volere dell’allora arciprete don Antonio d’Alessandro, nello stesso periodo in cui era anche in costruzione la Chiesa Madre intitolata alla Beata Maria Vergine. Aldo de Bernart, pochi anni fa, ha ricordato in un suo opuscoletto auto distribuito, la figura del Santo di Paola e la chiesetta in parola che, nell’Ottocento, divenne l’oratorio privato di Mons. Francesco D’Urso, Vescovo di Ugento dal 1825 al 1826. Questa chiesetta e la statua, opere di Valerio Margoleo, sono oggi di proprietà della famiglia Pizzolante- Leuzzi, ma  versano purtroppo in uno stato di profonda incuria  e richiederebbero  un urgente restauro, come lo stesso de Bernart da più tempo denuncia. Anche perché la statua lapidea di San Francesco di Paola, come si può capire, ha per il nostro paese un valore devozionale e  storico se è vero che a questa è stata intitolata la piazza, che alcuni ruffanesi ritengono superficialmente sia intitolata  al più noto  San Francesco D’Assisi. Trecento anni, dunque, per uno dei manufatti artistici che compongono il patrimonio culturale della nostra Ruffano e per una testimonianza importante della nostra storia.

 

La saga dei Grassi a Ruffano

di Paolo Vincenti

Aldo de Bernart ha dato recentemente alle stampe l’opuscoletto “La saga dei Grassi di Ruffano – Giuseppe Grassi- “,  l’ennesimo,  della sua pregevole collana “Memorabilia”, che ha preso le mosse, qualche anno fa, dalla voglia di de Bernart di far riscoprire ai propri concittadini personaggi e  fatti minori della storia ruffanese. Questa volta la plaquette, sottotitolata “Scritture storiche in onore del dott. Mario Stefanò per il suo ottantesimo compleanno”,  e come sempre stampata dalla Tipografia Inguscio e De Vitis, tratta di alcune figure storiche di medici della Ruffano dei secoli scorsi. In realtà, si tratta della riproposizione di “Note sull’arte medica in Ruffano tra Cinque e Settecento”, già pubblicata da De Bernart, ma stavolta col valore aggiunto della dedica ad un amico personale dello studioso, vale a dire Mario Stefanò,  conosciuto e stimato medico in pensione di Ruffano, che compie il genetliaco e che, come de Bernart, è un profondo conoscitore della storia  e delle tradizioni di Ruffano, il paese di Sant’Antonio e San Marco, di Antonio Bortone e Saverio Lillo, di Pietro Marti e Carmelo Arnisi.

Nella Ruffano  della Madonna della Serra e di Torrepaduli col suo importante culto di San Rocco, Stefanò è nato e cresciuto e qui ha svolto, per molti anni di onorata carriera, la propria professione di medico condotto, sempre

Spigolature ruffanesi

di Paolo Vincenti

Sul fronte degli studi ruffanesi, dobbiamo segnalare, innanzitutto, alcune pregevoli plaquettes, recentemente date alle stampe dal più noto studioso ruffanese, Aldo de Bernart.

Si tratta di alcun brevi saggi storici, che fanno parte della collana “Memorabilia”, stampati in una tiratura fuori commercio di n.99 copie.

Fra le ultime, due, in particolare, ci sembra giusto menzionare.

La prima è: Note sull’arte medica in Ruffano tra Cinque e Settecento (Tipografia Inguscio e De Vitis) in cui l’autore ricorda la figura di Altobello Grasso, medico ruffanese e capostipite di una generazione di medici in Ruffano fra il Cinque e il Settecento, autore di una pregevole opera di carattere tecnico, dedicata al gesuita leccese Padre Bernardino Realino, e il cui frontespizio viene riportato nell’opuscolo, insieme ad una immagine dell’Altare dell’Immacolata, con lo stemma della famiglia Grassi, che si trova nella settecentesca chiesa matrice di Ruffano.

Una citazione dal Foscolo ammonisce: “Spiar ne’ guardi medici speranza lusinghiera della beltà primiera”.

La seconda plaquette è In margine al V Centenario –1507 = 2 aprile = 2007- della morte di San Francesco di Paola (Tip. Inguscio e De Vitis) in cui de Bernart si sofferma su un culto molto sentito in provincia di Lecce, quello di San Francesco di Paola, che a Ruffano viene ricordato da una statua lapidea che si trova in una nicchia sopra l’ingresso della cappelletta di San Francesco di Paola, sita nella piazza omonima.

La statua, opera dello scultore Valerio Margoleo, del XVIII secolo, che oggi necessiterebbe di un appropriato restauro poichè ormai resa quasi irriconoscibile dall’incuria e dall’usura del tempo, viene ripresa in fotografia nell’ultima di copertina dell’opuscoletto in parola; sulla seconda di

Ruffano, festività della Madonna del Latte

 

di Stefano Tanisi

Situata sulla collina della Serra -a 170 metri sul livello del mare- è la piccola chiesa rurale della Madonna della Serra o comunemente detta Madonna del Latte di Ruffano. La cappella sin dal XII secolo ha visto sostare i numerosi pellegrini diretti verso la “perdonanza” di Leuca.

La domenica seguente la Pasqua la chiesa riapre per festeggiare la titolare, la Vergine del Latte. Grande è la devozione delle donne verso questa Madonna: fino a pochi decenni fa le donne -in gestazione o che avevano appena partorito- percorrevano il sagrato e la navata della chiesa in ginocchio, fino ad arrivare al cinquecentesco affresco della Madonna che allatta il Bambino (la Vergine Galaktotrophusa – che nutre col latte), per chiedere la grazia di avere abbondante latte per il nutrimento dei propri piccoli.

Nei primi del ‘900 il pittore mandurino Giovanni Stano (1871-1945) realizza il dipinto omonimo per l’altare maggiore, mentre verso gli anni ‘30 del secolo scorso è stata realizzata la statua in cartapesta che le donne portano in processione per le strade di campagna intorno alla chiesa.

Bibliografia

– A. de Bernart, L’antica chiesa di Mater Domini a Ruffano. Storia, culto, tradizione, Ruffano 2008

– A. de Bernart – M. Cazzato, S. Maria della Serra a Ruffano, Galatina, 1994

– S. Tanisi, Giovanni Stano. A Santa Chiara il grande dipinto dei Quattro Santi, in “L’Ora del Salento”, settimanale, Anno XIX, Numero 28, 5 settembre 2009

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