Pietro Marti a 150 anni dalla nascita. Il saggista e il polemista

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di Ermanno Inguscio

 

Memorabili tra le sue polemiche quella con Pasquale Guarini sul Problema Morale nel secolo XIX, con Guido Porzio su Lucio Sergio Catilina e su Giulio Cesare Vanini, con Matteo Incagliati e Raffaele De Cesare su Don Liborio Romano e la Caduta dei Borboni. Lo scritto, ripubblicato nel 1909, secondo la Bibliografia di Nicola Vacca del 1949, con una silloge di lettere del Romano a Ercole Stasi, era di tono sicuramente apologetico.

Alla polemica con il senatore Raffaele De Cesare, ragione prima del libro Don Liborio Romano, fecero riscontro attestazioni di apprezzamento, come riferito dal nipote Vittorio Bodini nel 1933: “Nella stratosfera silente degli studiosi di trent’anni fa, si levò gran rumore, uomini che non lo conoscevano trovarono garenzia d’amicizia nel libro…”, che riportò il testo integrale dei messaggi, provenienti dalla Camera dei deputati e dal Senato del Regno, in cui gli onorevoli Enrico Ferri (da Spoleto, 23 luglio 1909) e Guido Mazzoni (da Roma, 25 giugno 1910) rimarcavano l’errata modalità di annessione delle Provincie meridionali al Regno d’Italia secondo criteri che ne avevano aggravato le specifiche problematiche, a suo tempo denunciate da Liborio Romano. Il volume oltre che su Marti, richiamò l’attenzione sulla spinosa questione dell’annessione “forzata”. Napoleone Colajanni pubblicò un lungo articolo su “Rivista Popolare”, Valentino Simiani su “Natura ed Arte”. Persino chi non condivideva la sua tesi sul Romano non poté astenersi dal lodare il volume. Pietro Palumbo, discorde da lui e dal De Cesare, in un accurato studio della polemica, scrisse su “Rivista Storica Salentina”: Per fortuna del buon nome pugliese Pietro Marti gli [al De Cesare]  gli ha contrapposto un suo lavoro, piccolo di mole, ma denso di documenti e di affetto. E’ la glorificazione, direi, è la riabilitazione di don Liborio Ministro di Francesco II. Se questo lavoro non avesse altro pregio, e ne ha parecchi, gli rimarrebbe sempre quello di aver rialzato il buon nome di Terra d’Otranto”. E lo stesso Matteo Incagliati, discorde anch’egli, concluse su “Il Giornale d’Italia”: “Pietro Marti ha reso un alto servizio alla causa della storia nazionale”.

Quando poi l’Incagliati riaprì il dibattito a proposito della polemica sul Romano, Marti scrisse un volumetto, I Naufraghi, supplemento degno del libro e lo ripubblicò poi in Pagine di propaganda civile, affiancando con conferenze e discorsi la passione del suo assunto.

Nel 1912 Marti affrontò nuovamente l’argomento con I Naufraghi (Per don Liborio Romano) Pagine di polemica, con cui si scontrò con M. Incagliati.

L’anno precedente aveva pubblicato, con I Precursori, facendone una strenna sul foglio “La Democrazia”, un nutrito lavoro su alcuni patrioti carbonari, su una Relazione dell’Intendente Cito (1828) e sull’arcidiacono neretino Giuseppe Maria Zuccaro. Infine con Alessandro Cutolo su Maria D’Enghien.

La poliedricità della sua mente, aperta a vari problemi di cultura e d’arte, lo mise in luce negli ambienti culturali della Lecce dei primi del Novecento. Il suo trittico  sulla Origine  e  Fortuna della Cultura Salentina, rappresenta il compendio della sua attività di studioso, sebbene punteggiata a volte da critiche amare, come quella di dilettantismo in materia di storiografia, rivoltagli dal prof. Alessandro Cutolo, a proposito di Maria d’Enghien.

Sulla conferenza che il Cutolo aveva tenuto a Lecce nella Sala “Dante Alighieri” il 28 marzo 1928, sul tema La gran passione di Maria d’Enghien, Marti aveva mosso alcuni rilievi sul suo giornale “La Voce del Salento”, sottolineando l’eccessiva erudizione dell’oratore e una non puntuale documentazione.

Ne nacque una polemica, com’era da prevedersi, le cui pagine furono raccolte da Marti in un volume pubblicato a Lecce, poco prima della sua morte, per i tipi dell’Editrice Italia Meridionale, nel 1931, dal titolo Nella Terra di A. Galateo.

All’accusa di dilettantismo Marti rispose con un lungo articolo nel quale lamentava, in sostanza, che nella conferenza, fosse stata eccessivamente mortificata la personalità storica della sfortunata Contessa. Dopo due giorni il Cutolo replicò, mettendo ancora in  dubbio le doti di storico di Pietro Marti, accusandolo di attenersi più alle cronache che ai documenti, sulle quali egli aveva invece condotto il suo lavoro, consultando gli atti della Cancelleria di Re Ladislao e della regina Giovanna.

La polemica, mentre contribuì a riscoprire aspetti meno noti della personalità di Maria d’Enghien, finì con l’esasperare i due, come accade spesso in queste occasioni, inasprendole a tal punto da far dichiarare al Cutolo, in una sua lettera del 20 aprile, di non voler più rispondere a Marti su quell’argomento.

Tra i due, invero, fu il Nostro a mantenere il garbo e la calma, mentre il Cutolo manifestò la propria impazienza con antipatici riferimenti di sufficienza cattedratica, sebbene mista ad attestazioni di simpatia e stima. Il Nostro non se ne dolse, rispondendo ancora al Cutolo, che aveva inteso chiudere bruscamente ogni tipo di contatto, e rimandando ogni definitiva puntualizzazione alla pubblicazione su Maria d’Enghien che ne sarebbe seguita.

La polemica, in  fondo non giovò neppure a Marti, che se non registrò l’aumento della  sua fama, tuttavia presso gli sprovveduti la vide incrinata, dove invece non c’era d’attendersi necessariamente, in simili diatribe, un vincitore e un vinto, ma rispettabili valutazioni storiche pur su posizioni diverse.

Egli era abituato, però, a mantenere alta la guardia contro denigratori o avversari di turno. Scorrendo le pagine del suo giornale “La Voce del Salento”, è facile rilevare che anche come giornalista di razza fosse sottoposto a continue provocazioni.

Marti dovette rintuzzare i periodici assalti, come quello del cav. Giuseppe Zaccaria, che, dalle colonne del “Corriere del Salento”, avanzava dubbi sulla sua “sincerità politica” nei confronti del fascismo e addirittura sulla sua “educazione giornalistica”. E ciò avveniva nell’ottobre del 1932, ad appena sei mesi prima della sua morte, quando dal suo giornale dovette rispondere per le rime  con due articoli di  fondo, il primo Un chiarimento e il secondo Nel campo della sincerità. Premessa.

Ma ancor maggiore eco ebbe a Lecce e nell’intero Meridione, in campo storico-culturale, la polemica sostenuta da Marti, dalle colonne del suo giornale “La Voce del Salento”, contro la prestigiosa opera enciclopedica della “Treccani”, sulla quale, con ferree argomentazioni si denunciavano gravi omissioni di contenuti (quando non errori e abbagli madornali) in relazione a personaggi della storia del Salento e della Puglia intera, a firma di studiosi pur riconosciuti in campo nazionale. Il giornale leccese divenne la roccaforte delle puntuali contestazioni rivolte a spada tratta, e senza alcuna concessione di sorta, al prestigioso Comitato redazionale, nonché alla Direzione, dal giugno all’agosto del 1932, con la puntigliosa riproposizione di una rubrica, a firma di Ellenio, Rilievi e Polemiche. Lagune, granchi e… papere nella Enciclopedia Treccani. La polemica assunse i toni di una virulenza tale che per stemperare i caustici “rilievi” di Ellenio, graditi all’intero panorama culturale salentino e meridionale, pensò bene di scomodarsi lo stesso filosofo Giovanni Gentile. Questi  indirizzò ad Ellenio (pseudonimo, per il filosofo, un po’ troppo comodo) una puntuale lettera di precisazione circa i contenuti e le modalità editoriali dell’intera opera enciclopedica, pubblicata sul periodico leccese il 31 luglio 1932. Nelle ficcanti osservazioni di Marti, pesanti e puntuali come macigni, che rischiavano di mettere alla berlina studiosi di fama conclamata alla stregua di distratti scolaretti, si additavano omissioni, nelle voci “campanile” e “chiesa”, quali la mancata citazione della Guglia di Soleto del 1397 e il Tempio dei SS. Niccolò e Cataldo di Lecce.

In altro articolo si contestavano le sole cinque righe assegnate a Cosimo De Giorgi dall’estensore, prof. Stefano Sorrentino, che pure aveva pubblicato nel 1876 le Note Geologiche della Provincia di Lecce. In altro intervento, alle voci “Arditi” e “Briganti”, Marti considerava assolutamente inaccettabile la mancata citazione dell’Arditi e del gallipolino Tommaso Briganti (1691-1772). Come non mancava di sottolineare, il 24 luglio 1932, il pressapochismo della linea editoriale Treccani, per cui non si diceva assolutamente nulla di personaggi come Oronzo Massa, di Filippo Lopez y Royo, arcivescovo di Palermo, e di Francesco Antonio Astore, una delle vittime più illustri della repressione borbonica del 1799.

Nella lettera di Giovanni Gentile, dal filosofo si contestarono le “omissioni” denunciate dal giornale leccese che altro non erano che il frutto di scelte editoriali obbligate in forza del carattere universale della Enciclopedia, nella quale non potevano confluire tutte le voci di “abbazie, campanili, chiese e personaggi storici”: altro, dunque che “lagune, granchi e papere”. A tali “omissioni”, tuttavia, Gentile annunciava ad Ellenio (ma chi si celava sotto quello “pseudonimo”?) la promessa della compilazione e stampa di un apposito “Dizionario biografico degli Italiani”. Al direttore del foglio leccese “La Voce” se piacque l’annuncio del promesso Dizionario Biografico, non mancò l’ardire di respingere però al mittente l’ammiccante accusa di giornalista “mimetizzato” sotto le ali di uno pseudonimo. E in una conclusiva replica sulla faccenda della Treccani, a comprova della sua coraggiosa militanza giornalistica di un intero cinquantennio di battaglie contro la sordità di Sovrintendenze e Istituzioni, attacchi di giornali e scontri in campo amministrativo, rimarcava che le lacune, una volta accertate, rimangono tali e i granchi e le papere non si possono improvvisamente dissolvere in altro. Il pezzo si concludeva con la firma Pietro Marti e, tra parentesi, lo pseudonimo Ellenio. La prima e unica volta in cui il direttore del giornale leccese decise di apporre, su “La Voce”, ambedue le indicazioni.

Ma ai colpi mancini della fortuna Marti era abituato, sin dalla fanciullezza, quando, rimasto a sei anni orfano di padre, impiegato presso la Pretura di Ruffano, con l’aiuto dei fratelli maggiori, era riuscito, con grande sacrificio a conquistare il patentino di maestro rurale. Qui cominciò col misurarsi con le scolaresche del natìo paesello, dove pure entrò in conflitto con la locale amministrazione, il cui sindaco Santaloja gli interruppe lo stipendio, per essersi assentato dal servizio, per motivi di studio. Ne nacque un contrasto infinito, con ricorsi legali sino alla Corte dei Conti e che lo fece decidere vieppiù ad allontanarsi dall’amata terra di origine, trasferendosi presso gli istituti scolastici di Comacchio. Con la sua multiforme attività giornalistica si fece apprezzare nell’intera Penisola, più tardi anche come Direttore della Biblioteca provinciale “Bernardini” e come Ispettore onorario ai Monumenti per la Provincia di Lecce.

Tornò a Ruffano un’ultima volta, il 24 aprile 1927, per tenervi il discorso inaugurale per il Monumento ai Caduti, La Vittoria alata, opera offerta alla cittadinanza dal suo grande concittadino, l’artista Antonio Bortone.

Questi soltanto alcuni degli aspetti di Marti giornalista, conferenziere e polemista. Ciò era doveroso rimarcarlo, ma è soltanto parte di quanto si può riferire del suo battagliero e creativo giornalismo, della sua profonda cultura in ordine ai temi di rilevanza civile, trattati nelle conferenze in giro per la Puglia e l’intera Penisola, e della stessa virulenza delle polemiche innescate in nome del suo amore per il Salento, la Puglia, l’Italia. Altri interessanti aspetti verranno degnamente sottolineati nel preannunciato Convegno nazionale da celebrarsi ad inizio estate 2013, tra Lecce e  Ruffano, da valenti studiosi come Alessandro Laporta e il prof. Antonio Lucio Giannone. Il primo, infatti, in qualità di direttore della Biblioteca provinciale “Bernardini” di Lecce approfondirà tematiche bibliografiche anche in ordine al “Catalogo” del suo predecessore Marti; il secondo compulserà aspetti più tipicamente letterari, che appunteranno la riflessione sulla poesia del grande salentino Vittorio Bodini.

 

(Pubblicato su Presenza Taurisanese, a. XXXI, aprile 203, pp. 8-9)

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