Seicentesimo anniversario della elevazione della chiesa abbaziale benedettina di S. Maria de Nerito in Cattedrale e della elevazione della “Terra” di Nardò al rango di Civitas
Un’importante ricorrenza ricade nel 2013, anno in cui si celebrerà il seicentesimo anniversario della elevazione della chiesa abbaziale benedettina di Sancta Maria de Nerito in Cattedrale, con l’insediamento del vescovo Giovanni De Epiphanis (1355-1425), e contestualmente della elevazione della “Terra” di Nardò al rango di Città.
L’11 gennaio 1413 il papa Giovanni XXIII elevava la chiesa abbaziale di Sancta Maria de Nerito in Cattedrale e, nel contempo, la terra di Nardò in Città. Non vi è dubbio che la circostanza meriti di essere ricordata in quanto ha segnato in maniera decisiva la vita e la storia della Città.
Il Comitato che organizza le celebrazioni da tenersi nel corso dell’anno, formato dal parroco della Cattedrale di Nardò, Mons. Giuliano Santantonio, don Eugenio Bruno, il sindaco di Nardò Avv. Marcello Risi, il presidente del Consiglio Comunale Dott. Antonio Tiene e il presidente della Fondazione Terra d’Otranto Dr. Marcello Gaballo, ha definito il calendario delle prime manifestazioni che si terranno nel mese di gennaio 2013. Diverse saranno anche le manifestazioni a carattere civico, che sottolineeranno l’importante evento e che prevedono il coinvolgimento dell’intera città, con particolare attenzione alla popolazione scolaresca di ogni ordine e grado.
Intanto sugli edifici civili e religiosi della città si sta collocando il logo dell’anniversario 1413-2013 (di Sandro Montinaro) caratterizzato dalla croce patriarcale, che ricalca quella antichissima scolpita sulla facciata della Cattedrale neritina, alla cui base sono opportunamente innestate le due lettere NC, che compendiano la valenza laica e religiosa dell’evento, essendo abbreviazione N di Neritonensis e C di Cathedralis e di Civitas. Dalla stessa bolla papale è tratto il motto “Ecclesiam in Cathedralem, Terram in Civitatem Neritonensem” che è parte integrante del logo.
La memoria del passato orienti il nostro cammino verso il futuro, nella consapevolezza della responsabilità che ci compete di dover trasmettere alle nuove generazioni l’altissimo e preziosissimo patrimonio di valori, significati da tale evento, che fanno la nostra identità.
MERCOLEDì 9 GENNAIO 2013
BASILICA CATTEDRALE – ore 18.30
dissertazione storica
del prof. Mario SPEDICATO, docente di Storia Moderna presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università del Salento, sul tema: «Dalla Chiesa abbaziale alla Cattedrale. Alle origini della fondazione della diocesi neretina».
GIOVEDì 10 GENNAIO 2013
BASILICA CATTEDRALE – ore 18.00
CANTO DEI VESPRI IN GREGORIANO
animato dalla Comunità dei Benedettini di Noci, con riflessione dell’Abate P.Donato OGLIARI sul tema: «La Cattedrale: ecclesia mater e segno visibile della comunione nella Chiesa Particolare».
VENERDì 11 GENNAIO 2013
BASILICA CATTEDRALE – ore 17.30
CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA, presieduta da S.E.Mons. Domenico CALIANDRO, arcivescovo di Brindisi-Ostuni, con la partecipazione del Clero diocesano.
DOMENICA 13 GENNAIO 2013
BASILICA CATTEDRALE – ore 19.00
CONCERTO DELL’ORCHESTRA DELLA FONDAZIONE ICO “TITO SCHIPA”
diretta dal Maestro Marcello PANNI, che eseguirà:
Il Canto dell’usignolo, di Igor Stravinskij
Suite da Lo Schiaccianoci, di Pëtr Il’ič Čajkovskij.
Recentemente, gli studi sulla scultura in legno, sostenuti da numerosi interventi di restauro, ci hanno permesso di aggiungere ulteriori tasselli allo sterminato e immenso patrimonio di opere presenti sul territorio salentino; ed è proprio grazie a ciò che altri nomi si aggiungono a quelli dei più conosciuti artisti del legno, svelando intrecci e legami che i documenti finora conosciuti avevano solo suggerito.
È proprio il restauro delle opere che può compensare le lacune documentarie, permettendo, spesso a distanza di molto tempo, di chiarire importanti vicende stilistiche1.
Negli ultimi anni, si è cercato di utilizzare al meglio le nuove tecnologie nel campo della diagnostica2, ma quando ciò non risulta possibile, anche solo un corretto intervento di restauro può permettere una lettura omogenea dell’opera e il più delle volte salvarla dall’incuria e da metodi di scarsa manutenzione utilizzati di frequente in passato.
Tra i casi più noti ci sono le vicende artistiche di scultori come Nicola Fumo e Giacomo Colombo, ai quali spesso, vengono attribuite opere sulla base di una somiglianza stilistica con opere certe, dimenticando però che tale somiglianza è frutto di restauri poco corretti. Ciò ha portato ad accrescere inevitabilmente il catalogo di alcuni artisti a scapito di altri, ancora poco conosciuti, che meritano le dovute attenzioni.
È il caso di Giovanni Antonio Colicci3, scultore di origini romane, documentato negli anni 1692 – 17404, autore di due opere in legno custodite ancora oggi a Nardò, negli ultimi anni recuperate e ripulite da interventi che ne occultavano il valore.
Prima di soffermarci sulle due opere in questione è necessario spendere alcune parole sul Colicci e sulle vicende che lo avvicinarono all’ambiente napoletano.
Il nostro artista, sembra appartenere ad una famiglia di intagliatori romani, che negli anni Novanta del XVII secolo, lavorano nell’Abazia di Montecassino collaborando alla realizzazione del coro ligneo della basilica5.
In questi anni i lavori nel cantiere cassinate impegnano importanti artisti napoletani, tra cui Luca Giordano, Francesco Solimena e Francesco De Mura; dunque la famiglia Colicci era già ben inserita nell’ambiente artistico napoletano; infatti come ha evidenziato Filippo Aruanno, già nel 1699, Giovanni Antonio Colicci realizza due angeli che reggono uno stemma per la Chiesa degli Incurabili di Napoli6.
I documenti pubblicati da Gian Giotto Borrelli7 testimoniano, inoltre, Giovanni Antonio attivo a Napoli a partire dal 1712 come scultore de legnami8, perfettamente inserito nella società napoletana.
E dalla sua bottega sita ante largum Archiepiscopalis Ecclesia9 due anni più tardi, nel 1714, partirono le due belle statue, quella della Madonna Assunta (fig. 1) e il busto di San Filippo Neri (fig. 2) che giungeranno a Nardò per volontà del Sanfelice10. Dunque un’ incarico illustre per il Colicci, al quale, proprio in questi anni, verranno commissionati arredi lignei per monasteri e chiese, e diverse statue, tra cui quella di San Benedetto per la badessa del monastero di San Giovanni a Capua11.
Tutto questo mentre Antonio Sanfelice aveva già dato inizio all’opera di restyling dell’intera diocesi salentina.
Scontato ricordare l’attività di grande mecenate che il vescovo intraprese, i cui segni, ad ogni modo, sono tuttora visibili12. Interessante porre attenzione sui rapporti del vescovo – committente con gli artisti che da Napoli inviavano le proprie opere nella provincia salentina. A tal proposito, ricordiamo che intenso doveva essere il rapporto del vescovo Sanfelice, tramite il fratello, con Francesco Solimena o comunque con artisti della sua cerchia13, che fruttò alla città di Nardò diverse opere. Proprio questa potrebbe essere la stessa strada che ha portato Giovanni Antonio Colicci, a ricevere degli incarichi da parte del vescovo Sanfelice, mediante l’intervento, anche in questo caso, del fratello architetto14, al quale forse, come ipotizza Borrelli, spetta il disegno delle due opere neretine15.
Purtroppo le sostanziose visite pastorali sono avare di notizie riguardanti i nomi degli artisti, ma è indicativo ricordare che proprio al 1714, anno di commissione delle due statue, risale il rifacimento dell’altare maggiore e l’intero presbiterio della Cattedrale che verrà dedicato alla Vergine Assunta16 mentre a San Filippo Neri, già da tempo venerato in città17, fu intitolato il Seminario diocesano18.
Questi segni testimoniano l’intenzione del vescovo di attuare un vero programma politico19, che anche per la scultura sembra seguire la stessa linea che Galante ha ipotizzato per le pitture dell’Olivieri nella chiesa della Purità20.
Chiarito a grandi linee il clima culturale e accennato ai proponimenti del Sanfelice, possiamo ora soffermarci sulle statue oggetto della questione.
Le due opere sono state di recente restaurate21, e ciò ci permette di avere una lettura omogenea dei manufatti.
L’intervento effettuato sulla statua dell’Assunta ha ripristinato quella che sembrerebbe essere la policromia originale dell’opera: la tunica rosso – arancio con piccoli motivi floreali, il manto blu che dalla spalla sinistra scende sulla figura, il copricapo color avorio a strisce rosse, che dalla spalla destra scivola con un delicato movimento sulla sinistra.
Prima del restauro la statua si presentava completamente modificata nella cromia (fig. 3 e 4), al rosso della tunica era stato preferito l’avorio, mentre uno spesso strato di sporco e vernice ossidata ricopriva l’intera superficie.
Per realizzare l’opera lo scultore ha utilizzato diversi masselli di legno, lavorati e poi assemblati insieme; con il restauro, è stato possibile constatare la situazione compromessa di tutta la struttura e capire in quali punti sono stati assemblati i pezzi (fig. 5).
L’intera figura, piuttosto grande, presenta la Vergine assisa su una nuvola circondata da teste alate di cherubini, ha le braccia aperte e lo sguardo rivolto verso l’alto.
Il pessimo stato in cui versava l’opera aveva finanche nascosto completamente la delicatezza dell’intaglio, alquanto profondo nelle pieghe del vestito e più dettagliato e minuzioso per ali dei puttini.
Sappiamo bene che, soprattutto le sculture in legno, sono dei veri e propri oggetti di culto legati alla devozione. Inoltre il legno stesso non aiuta la conservazione e così le statue nel corso dei secoli hanno subito integrazioni e ridipinture. Per questo, molte volte sembra essere inutile e dannoso tentare di riportare le opere al loro stato originario. Per esempio, sul manto blu della Vergine Assunta, si vedono delle stelle, che in origine sicuramente erano realizzate con la foglia oro, forse anche leggermente in rilievo.
Durante l’intervento di recupero della cromia, sono invece state semplicemente dipinte, perché la materia originale era andata perduta totalmente e si dovuto tenere conto del ruolo che l’opera doveva svolgere: cioè quello di essere esposta al culto dei fedeli.
Per quanto riguarda la scultura in legno, infatti, più che per altri manufatti, ci troviamo di fronte quasi sempre a dei veri e propri simulacri, ancora oggi utilizzati come tali.
Il busto di San Filippo Neri, collocato nel Seminario Diocesano, è stato restaurato dalla Soprintendenza BAAAS per la Puglia, anche in questo caso il lavoro di restauro, ha permesso di recuperare interamente la policromia dell’opera.
Il santo, vestito con una dalmatica verde, cosparsa di roselline rosse, ha al centro del petto un incavo che custodisce la reliquia. È raffigurato in una posa alquanto ieratica mentre regge nella mano sinistra il libro della Sacra Scrittura.
La totale compostezza della figura si allenta soltanto in un movimento delle pieghe, che cadono leggere, andando a coprire una parte della base realizzata in finto marmo.
Le ridipinture precedenti occultavano quest’importante particolare che, com’è stato scritto, è un rimando ad una tipologia tipica di tutto il Settecento, che si vede già in un disegno del Solimena per una statua d’argento, raffigurante San Matteo22. Inoltre, anche il modo di realizzare la base a finto marmo è una pratica piuttosto diffusa nel Settecento; ritroviamo precise indicazioni a riguardo in un documento per la commissione di una statua di San Francesco di Sales scolpita da Giovanni Antonio Colicci23.
Gli studi, soprattutto negli ultimi anni, hanno ricostruito la biografia dell’artista, ampliando il catalogo con opere certe24.
Questo ci permette almeno di abbozzare e riconoscere i dettagli stilistici che egli sembra ripetere nelle sue sculture. Oltre a quel <<lieve e distaccato sorriso>>25 e ai volti ovali, ritroviamo panneggi morbidi e raffinati, che sembrano adagiarsi con delicatezza sulle immagini scolpite quasi a circondarle di grazia leggera, come per esempio nei busti di San Francesco di Paola e di San Giuseppe col Bambino conservati nella Chiesa Madre di Savoia di Lucania (Pz), e di recente pubblicati26. Qui, come già abbiamo visto nel San Filippo Neri di Nardò, lo scultore ripete la particolarità del panneggio che scende fino alla pedagna.
Anche l’intaglio della barba si ripete, nelle diverse opere, piuttosto simile con linee fitte e regolari, ma ad un esame più attento delle opere, notiamo che la maestria dell’artista permette di caratterizzare al meglio i personaggi scolpiti. Infatti, per quanto riguarda il busto di San Francesco citato in precedenza, Giovanni Antonio Colicci, oltre ad evidenziare <<la condizione di eremita del Santo con rughe profonde>>27, rende la barba con linee più nervose e ondulate che terminano in ricci mossi e vivaci, differente dall’intaglio che vediamo nella barba di San Giuseppe o di San Filippo Neri: qui entrambe le figure mostrano un intaglio della barba più regolare e ordinato.
Come abbiamo accennato in precedenza, Colicci, non è da annoverare tra gli scultori più conosciuti, per diverse vicende, tra cui la trascrizione, spesso scorretta, del suo cognome che ha generato non poche confusioni tanto da intendere la firma sul busto di Sant’Antonio da Padova (figg. 6 e 7) della Parrocchiale di Lequile28 frutto di una inesattezza nel ridipingere l’intera opera29.
Il busto del santo di Padova, è citato da Foscarini che nel 1941 ne riporta nome dell’autore e data di esecuzione30.
Purtroppo l’opera non è in buone condizioni: la delicatezza dell’intaglio è vistosamente occultata da numerose ridipinture e anche il legno è danneggiato dai tarli, per questo è difficile poter fare un confronto critico con altre opere dello scultore. Ciò nonostante, possiamo riconoscere anche in quest’opera particolari che sembrano ormai essere tipici del Colicci: il solito lembo di panneggio che scende fino al basamento, anche qui realizzato a finto marmo, e più in generale le fattezze delle mani, il volto tondo, gli occhi grandi e le pieghe morbide del saio, sebbene il tutto appesantito dalle ridipinture. Elementi che si ripetono in un’opera pubblicata di recente. Mi riferisco al San Filippo Neri di Cassano Murge, segnalato nel 2010 da Clara Gelao31.
Il santo è rappresentato qui a figura intera e sulla base sono presenti firma dell’autore e data di esecuzione.
Ad ogni modo, sembra essere giunto il momento di dedicare a Giovanni Antonio Colicci studi più ampi, per il cospicuo numero di opere firmate e datate, che permettono appunto di valutare meglio la sua crescita artistica e i contatti che egli ebbe con artisti e committenti.
Si ringrazia il restauratore Valerio Giorgino per le informazioni fornitemi riguardo il restauro della Madonna Assunta e per le foto numero 1, 4 e 5
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1 A tal proposito si ricorda il saggio di R. Casciaro, Due botteghe a confronto: intaglio e policromia nelle sculture di Gaetano Patalano e Nicola Fumo, in La statua e la sua pelle, Galatina 2007, pp. 221 – 245, p. 226 – 227: “[…] l’apporto personale dei singoli maestri è un elemento imprescindibile nella comprensione delle opere d’arte e l’individuazione di tale apporto nelle opere autografe […]è l’unico modo per risalire anche ai processi produttivi, all’organizzazione delle botteghe, alla sequenza modello – opera – copia – imitazione”.
2 R. “B. Minerva, Strati pittorici e tecniche esecutive nel restauro di alcune sculture lignee napoletane di età barocca, in Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e la Spagna, catalogo della mostra, Lecce 2008, pp. 339 – 349.
3Oltre a problemi di attribuzione dovuti a restauri pesanti, il nome di Giovanni Antonio Colicci non ha avuto fortuna anche perché spesso trascritto in modo errato generando ulteriore confusione.
4 G. Filangieri, Documenti per la storia, le arti e le industrie delle provincie napoletane, vol. 5, Napoli 1891, “Colicci Domenico Antonio di Roma, scultore in legno. Operò nel 1696. Fece lavori di sculture e di intagli all’Organo della Chiesa di Monte Cassino […] . Questi aveva con sé due suoi figli, Giuseppe Salvatore e Giovanni Antonio, il quale ultimo nella sedia all’angolo destro intorno allo scudo, che un guerriero tiene levato, incise il suo nome Jo. Ant. Coliccius faciebat aetat XV.1696”, con bibliografia precedente: A. Caravita, I codici e le arti a Monte Cassino. Monte Cassino, pei tipi della badia, 1869 – 1870, vol. III, p. 391 e segg.
5 A. Caravita, I codici…,1869 – 1870, op. cit. in nota prec., Vol. III, p. 395
6 si veda A. Caravita, I codici… cit. pp. 394 – 395. Il Colicci è poi ricordato in un documento del 1722 come membro della Congregazione dell’Assunta, in G. G. Borrelli, Sculture in legno di età barocca in Basilicata, Napoli 2005, doc.37, pp. 109 – 110.
7G. G. Borrelli, Sculture in legno di età…cit. in nota prec., pp. 109-110.
8 G. G. Borrelli, Sculture…cit., doc. 36, p. 109 “Intus apotheca Gio. Antonio Coliccio sita ante largum Archiepiscopalis Ecclesia eius civitatis [Neapolis], costituiti il canonico Galeotto Gignano patrizio capuano[…] e Giovanni Antonio Colicci scultore de legnami”.
10 V. Rizzo, Scultori napoletani tra Sei e Settecento. Documenti e personalità inedite, in Antologia di Belle Arti, Nuova Serie, nn.24 – 25, 1985, p. 29, doc. 11: “A Don Ferdinando Sanfelice, Ducati 15 a Gio. Antonio Celucci, a saldo e final pagamento di una Statua della SS. Vergine Assunta e un mezzo busto di S. Filippo Neri, fatte per il Vescovo di Nardò secondo il pattuito. 27 febbraio 1714”; riguardo la commissione della Statua dell’ Assunta, la notizia è riportata anche nel primo testamento del Vescovo, pubblicato da M. Gaballo, Antonio Sanfelice Vescovo della diocesi di Nardò, in M. Gaballo, B. Lacerenza, F. Rizzo, Antonio e Ferdinando Sanfelice il vescovo e l’architetto a Nardò nel primo Settecento, Galatina 2003, p. 35: “Doniamo alla nostra S. Cattedrale l’altare di marmo che abbiamo fatto lavorare in Napoli con la statua della SS. Vergine Maria Signora Nostra, che aspettiamo da Napoli…” il documento è datato 6 Marzo 1714; e ancora R. Casciaro, Ex vario rum colorum selectis lapidibus: le opere in commesso marmoreo di Ferdinando Sanfelice a Nardò, in Antonio e Ferdinando Sanfelice… cit, Galatina 2003, p. 117 (l’altare maggiore) era tutto di pietre nobili commesse di verde e giallo antico, con una statua di nove palmi della Vergine S. ma assunta in cielo” con riferimento alla Visita Pastorale del Sanfelice, anno 1719, p. 220.
11 G. G. Borrelli, cit… doc. 36, p. 109. Recentemente è stata pubblicata una scheda biografica del Colicci, si veda F. Aruanno,Giovanni Antonio Colicci, in E. Acanfora (a cura di), Splendori del barocco defilato, catalogo della mostra, Firenze 2009.
12 Cfr. M. Gaballo, B. Lacerenza, F. Rizzo, Antonio e Ferdinando Sanfelice, cit… Galatina 2003.
13 B. De Dominici, Vite de’ pittori, scultori ed architetti napoletani, 1846, tomo IV, Vita del Cavalier Francesco Solimena… e de’ suoi discepoli, pp. 405 – 630.
14 L. Galante, Antonius Sanfelicius Episcopus Neritinus Quo Facilius Posteritati Commendaret Pennicillo Esprimi Curavit Anno Domini MDCCXVIII, in Saggi di Storia dell’arte,Roma 2005,pp. 281 – 287, p. 281: “Orientata verso Napoli fu l’azione di Antonio Sanfelice. Pesarono in ciò naturalmente le sue origini napoletane con le inevitabili relazioni che egli intrattenne con l’ambiente artistico della città campana […] il fratello Ferdinando, allievo di Solimena, aveva intrapreso la carriera artistica.
15 G. G. Borrelli, Sculture barocche e tardo barocche in Calabria. Un percorso accidentato, in Sculture in legno in Calabria dal Medioevo al Settecento, Napoli 2009, p.72.
16 E. Mazzarella, La cattedrale di Nardò, Galatina 1982, pp. 72 – 73 “il presbiterio era circondato la balaustra in marmo e terminava con cinque gradini marmorei[…]su ciascuno dei quali si leggeva un rigo della seguente iscrizione: Ad pedes Dominae suae et vivere vult et mori cupit Antonius Sanfelicius dictus neriton. Episcopus Beatissimae Virginis Cappellanus anno a partu Virginis MDCCXIV”; e R. Casciaro, “Ex vario rum colorum selectis lapidibus… cit., in M. Gaballo, B. Lacerenza, F. Rizzo, Antonio e Ferdinando… cit, p. 117.
17 A Nardò esisteva una chiesa dedicata a San Filippo Neri, E. Mazzarella, Per la storia degli istituti di formazione per gli ecclesiastici in Puglia: il seminario di Nardò (1674), in Studi di storia pugliese in onore di Giuseppe Chiarelli, Galatina 1974, p.493 – 525, p. 509 “la chiesa era vicina alle carceri del governatore e alla chiesa di San Giovanni Battista, esattamente nel luogo dove sorgono la chiesa e il conservatorio della Purità”.
18 E. Mazzarella, cit. Per la formazione degli istituti… in Studi di storia pugliese…, op. cit. p. 512 “si giunse al 27 febbraio 1674, quando, essendo già pronti i locali e l’occorrente per la dimora… il vescovo emise la Bolla di costruzione del seminario diocesano sotto il titolo di San Filippo Neri”.
19 Si deve ricordare inoltre, la volontà del Vescovo di riportare nelle Visite Pastorali “epigrafi, stemmi, decori e sculture rinvenute nella diocesi”. M. Gaballo, Antonio Sanfelice vescovo…, in Antonio e Ferdinando Sanfelice…, op. cit. p. 15. Dunque il Sanfelice scelse di rinnovare la diocesi, ma anche di mantenere un legame con il passato, tutelandone le tracce.
20 L. Galante, Antonius…cit p. “Più verosimile è che Sanfelice avesse ritenuto Olivieri, meglio il suo modo di dipingere, soprattutto per quel giusto tono nobilitante, idoneo a dare veste alla sua visione <<politica>> proprio per la vicinanza al Solimena, che evidentemente restava il referente culturale forte”.
21 Rispettivamente il busto di San Filippo Neri dalla soprintendenza BAAAS di Puglia e la statua a figura intera della Vergine Assunta da Valerio Giorgino nel 2000.
22 E. Catello, Francesco Solimena e la scultura del suo tempo, in Ricerche sul ‘600 Napoletano, Saggi e documenti 2000, Rubrica per Luca Giordano, Napoli 2001, pp. 7- 17, p. 14 e fig. 10 a pag. 13.
23 G. G. Borrelli, Sculture di età…, cit. p. 110, doc. 39 “A Giuseppe Cuomo doc. dieci per esso al canonico don Nicola Rocco per alt.ti; e per esso a Gio. Antonio Colicci[…]per prezzo e final pag.to di una statua intiera fattali di San Francesco di Sales… con vestito di prelato […] e d.ta base scorniciata in ottangoli con due pezzi d’intaglio inargentati[…]ed il rimanente di color marmoresco[…]”.
24 G. G. Borrelli, Sculture in legno di età…, p. 31 e docc. Nn. 36 – 39, pp. 109 – 110;F. Aruanno, in E. Acanfora (a cura di), Splendori del Barocco…; schede opere n. 82 – 83, p. 158; biografia dell’artista pp. 277 – 278; G. G. Borrelli, Sculture barocche… cit., in Sculture in legno in Calabria… cit. p. 72; C. Gelao, Un’aggiunta alla scultura del Settecento in Puglia: il San Filippo Neri di Giovanni Antonio Colicci a Cassano Murge, in Kronos 13 speciale 2009, scritti in onore di Francesco Abbate, vol. 2, pp. 41 – 48.
25 G. G. Borrelli, Sculture barocche… cit., in Sculture in legno… cit., p. 72.
26 F. Aruanno, schede opere Nn. 82 e 83, p. 158, in Splendori del barocco… op. cit.
27 F. Aruanno, scheda op. n. 83 p. 158, in Splendori del barocco, catologo della mostra, Firenze 2009.
28 Ringrazio il parroco Don Luciano Forcignanò che mi ha permesso di vedere e fotografare l’opera.
29A. Foscarini, Lequile. Pagine sparse di storia cittadina, pubbl. a cura di Gioacchino Ruffo, principe di Sant’Antimo, con illustrazioni di Gino Bolzani, Lecce, Tip. La Salentina, 1941, in 8°, II ed. a cura di M. Paone, Galatina 1976.
30 A. Foscarini, op. cit. in nota precedente, II ed. p. 59 nota 1: Giovanni Antonio Colicci scolpì in legno nel 1726 il busto di Sant’Antonio di Padova, opera che firmò e datò (I altare a sinistra).
31 Gelao, Un’aggiunta alla scultura…, in Kronos 13/2009 op. cit. pp. 41 – 48.
Tra le sorprese che la cattedrale di Nardò riserva possono senz’altro comprendersi i numerosi affreschi, per lo più quattrocenteschi, alloggiati sulle semicolonne e sulle facce dei due ordini di pilastri a base rettangolare della navata centrale, oltre che sulle pareti laterali delle due navate.
Tutti di buon livello qualitativo, qualcuno anche ottimo, sono stati descritti in più riprese dal De Giorgi, dalla Gelao e da Micali. In occasione dell’Anno Santo Giubilare del 2000, in una pubblicazione su Cesare Maccari e sui dipinti della cattedrale neritina, ebbi modo di trattarne anche io, integrando con ricerche archivistiche e notizie inedite desunte da protocolli notarili.
Da quel lavoro estrapolo gli affreschi che ritraggono il santo di Myra, ben tre, riproponendoli in occasione della festività che ricordiamo oggi in questo spazio.
Cominciamo dal primo, che si osserva sul secondo pilastro della navata sinistra (per chi entra), presumibilmente della fine del XIV secolo-inizi XV. E’ allocato sul lato settentrionale e lo ridenominai San Nicola tra Gesù e la Vergine. Ridipinto a tempera dopo la metà del XV secolo, il santo appare benedicente more graecorum, secondo lo schema bizantino. Ritratto frontalmente e a figura intera, veste tunica bianca, felonion rosso, omoforion bianco nerocrociato e tiene nella mano sinistra un Vangelo decorato con gemme. Appeso alla vita si intravede parte del fazzoletto (epigonation). In alto, a sinistra, la Madre di Dio porge il pallio, mentre all’ opposto il Cristo, anch’ esso a figura intera, porge al santo il Vangelo.
Le iniziali latine sono scritte in caratteri gotici; nel terzo inferiore sono graffite diverse iscrizioni greche ed ebraiche. Inquadra il tutto una cornice di color corallo, complementare all’ azzurro dello sfondo. Misura m. 2,48×0,80 e lo stato di conservazione è discreto.
Sul terzo pilastro, sempre della navata sinistra, è ritratto ancora un San Nicola, anche questo, come il precedente, della fine del secolo XIII, ridipinto a tempera nel secolo successivo.
La pittura è la meglio conservata rispetto alle altre del medesimo pilastro. Ritrae il santo frontalmente, a figura intera, inquadrato in un arco trilobato, in piedi sullo sfondo azzurro, con camice bianco e piviale (felonion)[1] rosso, stola (omoforion) nerocrociata, guanti bianchi, con la mano sinistra impugnante il pastorale. La testa è circondata da un’aureola raggiata gialla, mentre nella parte superiore, all’altezza della spalla, si legge il nome del Santo (NICOLAUS) e si ripete uno stemma nobiliare, rovinato in più punti e con parte degli smalti originari mutati nelle ridipinture[2].
Anticamente dotata di altare proprio, la cappella era sub titulo di S. Nicola il dipinto era alloggiato sempre nella navata sinistra, ma in luogo diverso dall’attuale.
Poco distante, in corrispondenza della base del campanile, vi è il trittico, recentemente restaurato, con S. Maria Maddalena orante, la Beata Vergine col Bambino e un terzo affresco con S. Nicola. Quest’ ultimo, in posizione frontale assisa, su sfondo scuro, benedicente alla greca, è vestito con camice bianco e solito felonion rosso, omoforion e guanti bianchi, sostenente con la mano sinistra un libro, poggiato sul ginocchio sinistro, su cui si legge Ecce sa/ cerdos/ magnus/ qui in di/ ebus su/ is placuit/ Deo et/ inventus.
Il volto è incorniciato dai capelli bianchi e dalla barba corta a riccioli. L’ affresco, di m. 2×0,80, è incorniciato da una banda gialla dipinta e mostra diverse scrostature, graffiti ed incisioni.
Occorre tornare sulla determinazione del già citato don Giuliano Santantonio, parroco della Cattedrale di Nardò, che continua a recuperare le memorie artistiche dell’Ecclesia Mater neritina, magari sollecitato dall’appuntamento del 2013, atteso evento che celebrerà i 600 anni del massimo tempio religioso cittadino[1].
Questa volta si è restituito all’ antico splendore un dipinto raffigurante un san Bernardino da Siena[2] sul pulpito della basilica, quasi rispondendo all’appello lanciato da Milena Loiacono in un suo saggio di qualche anno fa: Un’opera da salvare: ilSan Bernardino da Siena attribuito a Francesco Solimena[3]. L’Autrice sottolineava “il pessimo stato di conservazione” e “al fine di arrestarne il lento ed inevitabile degrado, sarebbe auspicabile un intervento di restauro che consentisse di giungere anche ad una più approfondita conoscenza dei materiali e quindi ad una più corretta lettura del manufatto”.
Il dipinto di nostro interesse, distinto dall’altro affrescato nel 1478 sulla parete della navata sinistra e del quale si è già trattato[4], è ubicato sul dossale del solenne pulpito, addossato al quinto pilastro della navata centrale, in cornu evangelii.
La presenza in questo luogo, un tempo deputato alle predicazioni più che alla proclamazione della Parola di Dio tenuta dall’ambone[5], fu scelta dal vescovo Antonio Sanfelice[6], per tramandare ai posteri, ancora una volta, che in questo sacro tempio predicò il santo senese (*Massa Marittima, 8 settembre 1350 – +L’Aquila, 20 maggio 1444). Celebre per la straordinaria capacità oratoria e le ferventi prediche tenute in moltissime città italiane, tanto da essere ancora considerato il più illustre predicatore italiano del secolo XV, il frate Minore avrebbe predicato nella cattedrale di Nardò nel 1433, probabilmente chiamato dal vescovo dell’epoca, suo confratello, monsignor Giovanni Barella o Barlà, in carica dal 1423 al 1435.
Prima di accennare al capolavoro riemerso, forse è utile qualche cenno sul pulpito che lo ospita. Poggia questo su quattro colonne marmoree policrome, delle quali le anteriori a base circolare e le posteriori, addossate al muro, a base rettangolare. Particolarmente elaborata la tribuna, sempre in marmo policromo, con i due stemmi angolari del vescovo Sanfelice e il monogramma bernardiniano nella parte centrale, tutti e tre altorilevati. A sinistra di chi guarda una porticina d’accesso lignea, inserita nell’interruzione della tribuna, mette in comunicazione il ridotto spazio della stessa con la scala in ferro che consente di salirvi; un elemento decorativo, anche questo ligneo, riprende il controlaterale in marmo. Il dossale su cui è posto il nostro lavoro sorregge il baldacchino, sul cui soffitto è dipinto lo Spirito Santo, sotto forma di splendida colomba ad ali spiegate al centro di una raggiera.
L’eccezionalità dell’evento, ritenendo da più parti quella neritina come l’unica tappa del santo nella nostra regione, fu giustamente rimarcata dall’instancabile Sanfelice, che commissionò il lavoro ad uno dei più grandi artisti napoletani a lui coevi, il celeberrimo Solimena, che lo eseguì con pittura ad olio su marmo.
Un’epigrafe immortalava l’opera e l’autore: S. Bernardinus Senensis/ qui suis concionibus/ illustriorem reddidit/ basilicam hanc/ ad uiuum expressus[7]/ a celeberrimo Solimena/ Anno D(omi)ni MDCCXXXIV.
Marina Falla Castelfranchi[8], pur non avendo potuto visionare il dipinto per il pessimo stato in cui versava, lo ha attribuito alla maturità di Francesco Solimena. Dell’artista, ben noto al vescovo e a suo fratello Ferdinando, si conservano a Nardò almeno altre due opere: la Madonna in gloria tra i Santi Pietro e Paolo (cappella privata del vescovo) e San Michele Arcangelo, sull’altare omonimo in Cattedrale, di cui si legge la paternità in una delle visite pastorali[9].
La perizia dell’operatore Valerio Giorgino ha restituito un’opera molto interessante, che certamente sarà esaminata e descritta dagli studiosi del Solimena. Il santo, vestito di un abbondante saio minoritico e stretto in cintura dal cingolo, è raffigurato per tre quarti. Con l’indice della mano destra mostra l’oggetto, forse ligneo, che è tenuto dalla sinistra; sul fusto si innesta una cartella ottagonale su cui è inciso il trigramma IHS[10], con la croce innestata sull’asta trasversale della H e con i tre chiodi della Passione alla base delle lettere. Se nell’affresco neritino di cui si è già fatto cenno il santo viene raffigurato in età avanzata, qui invece ha una età media, con il capo leggermente volto a destra e lo sguardo verso il riguardante, quasi ad invitarlo alla contemplazione del simbolo da lui stesso ideato.
Ci auguriamo che l’azione di recupero e di restauro continui per le tante altre ricchezze di cui può gloriarsi la cattedrale neritina, così che si presenti all’appuntamento, ormai prossimo, nella sua migliore forma.
[2] Sul san Bernardino da Siena affrescato a Nardò si veda la relativa scheda di restauro pubblicata su “Il delfino e la mezzaluna”, a. I, n. 1 (luglio 2012), pp. 146-148. Cfr. inoltre R. Poso, La cultura del restauro pittorico in Puglia nella seconda metà del XIX secolo, in Storia del restauro dei dipinti a Napoli e nel Regno nel XIX secolo, Atti del Convengo Internazionale di Studi (Napoli, 14-16 novembre 1999), a cura di M.I. Catalano e G. Prisco, volume speciale 2003 del “Bollettino d’Arte”, pp. 273-286.
[3] In “Kronos”, n°4 (2003), pp. 145-146, Congedo Editore.
[5] Furono le Instructiones fabricae del cardinale Borromeo a stabilire che il pulpito dovesse trovarsi in tutte le chiese, a circa metà della navata, sopraelevato rispetto all’assemblea, così che il predicatore potesse essere visto e udito da tutti.
[7] Da leggersi ad vivum expressus = rappresentato realisticamente, al naturale. Ringrazio Armando Polito per la corretta interpretazione.
[8] M. Falla Castelfranchi, Monumenti di Nardò dal XIII al XVIII secolo, in Città e Monastero. I segni urbani di Nardò (secc. XI-XV), a cura di Benedetto Vetere, Galatina 1986, p. 253. Del dipinto ne aveva già scritto M. D’Elia in due suoi lavori: Mostra dell’Arte in Puglia dal Tardo Antico al Rococò, Roma 1964, p. 185; La Pittura Barocca, in La Puglia tra Barocco e Rococò, Milano 1982, p. 279.
[9] La tela è in restauro e si spera che questo confermi l’attribuzione.
[10] IHS, le prime tre del nome greco di Gesù, oppure forma abbreviata di “Iesus Hominum Salvator”. Il simbolo, più tardi adottato anche dai Gesuiti, conteneva la devozione al Nome di Gesù. Venne rappresentato in moltissimi luoghi religiosi e civili, pubblici e privati, e risulta che esso campeggiasse sulle antiche porte della città di Nardò. Risalta anche sulla tribuna del nostro pulpito, inserita nel sole raggiante.
La festività di Tutti i Santi è occasione utile per ricordare una eccezionale donazione dell’abate Domenico Roccamora, allora rettore del Seminario della Compagnia del Gesù di Roma, alla Cattedrale di Nardò effettuata nei primi decenni del ‘600.
Il prelato, con lettera accompagnatoria del 10 febbraio 1612, difatti, aveva fatto dono all’ università neritina dei corpi, con le loro teste, di S. Vittore martire e di S. Teodora vergine, ed altre reliquie di santi contenute in due grandi reliquiari che oggi sono esposti alla venerazione dei fedeli nella chiesa madre neritina. Tra le varie disposizioni del presule si legge nell’atto notarile che le reliquie sarebbero state conservate in apposita cappella in Cattedrale, di patronato dell’ università, ancora esistente e serrata da due grandi ante, aperte solo in questa giornata ed in particolari festività. Si tratta de “lu stipu ti li Santi”, nella cappella della navata sinistra, abbellita e definitivamente sistemata sotto l’episcopato di Mons Ricciardi, sul finire del secolo XIX. Lo stemma del vescovo difatti è finemente scolpito sulle due grandi ante.
Oltre la donazione è bene anche notare la particolare e poco nota richiesta del prelato. Nell’atto del marzo 1612, per notar Palemonio da Castellaneta rogante in Nardò, si legge infatti che le reliquie donate alla Cattedrale
La festa del santo senese (*Massa Marittima, 8 settembre 1350 – +L’Aquila, 20 maggio 1444) è occasione utile per sottolineare ancora una volta l’operosità del parroco don Giuliano Santantonio, che ha fermamente voluto il restauro dell’affresco del santo francescano, celebre nel mondo per la devozione al santissimo nome di Gesù e per la riforma del suo ordine, della quale fu uno dei principali sostenitori.
La straordinaria capacità oratoria e le ferventi prediche tenute in moltissime città italiane ne fecero il più illustre predicatore italiano del secolo XV.
Non si riproporrà qui la biografia, trattata ampiamente in numerosissimi libri e facilmente consultabile nel web, mentre piace sottolineare come nessuno degli agiografi ufficiali faccia cenno della sua sosta in Puglia e a Nardò nello specifico. Si descrivono infatti le sue celebri prediche tenute per un trentennio in quel di Mantova, Bologna, Venezia, Ferrara, Siena, Viterbo e nell’Urbe, ma non risultano soste pugliesi.
Si è portati a considerare quelle neritina come l’unica tappa del santo nella nostra regione, e vi giunse perché chiamato dal vescovo dell’epoca, suo confratello, monsignor Giovanni Barella o Barlà, in carica dal 1423 al 1435[1].
Il fratello Minore avrebbe predicato nella cattedrale di Nardò nel 1433 e la memoria di quel celebre atto fu immortalata qualche decennio dopo da un altro vescovo neritino, Ludovico de Pennis, in carica dal 1451 al 1484[2]. Il presule volle raffigurare l’evento ritraendo il santo nell’atto di predicare dal pergamo di questa cattedrale, con un affresco del 1478, ventotto anni dopo la santificazione. La presenza dello stemma episcopale[3], replicato nei due angoli superiori, consente di fornire veridicità sulla datazione dell’opera.
Molti secoli dopo ancora un vescovo neritino, Antonio Sanfelice[4], volle rimarcare quel giorno facendo dipingere a celeberrimo Solimena il santo con in mano il turibolo. Ciò avvenne nel 1734, con pittura ad olio sul marmo del lastrone posteriore del pergamo, addossato alla quinta colonna della medesima cattedrale[5]. L’inusuale tecnica e l’usura del tempo hanno cancellato buona parte del dipinto e confidiamo sempre nella sensibilità del parroco a che si recuperi quanto gravemente danneggiato.
Ma torniamo al nostro prezioso affresco, che originariamente si trovava su di un pilastro della navata sinistra, inserito in una più ampia decorazione pittorica che solo in minima parte sopravvive.
I rifacimenti e rimaneggiamenti del provato edificio sacro, in origine basiliano, poi benedettino, ampiamente rivisto nel XVI secolo, quindi da Ferdinando Sanfelice (Napoli, 18 febbraio 1675 – Napoli 1 aprile 1748) ed infine dagli importanti lavori di restauro e ripristino della fine dell’800, probabilmente causarono diverse traslazioni del nostro, come avvenne per altri pregevoli affreschi eseguiti nello stesso edificio.
L’affresco, su incarico del Ministero, venne separato nel 1893 dal muro con la tecnica dello “strappo” dal pittore-restauratore romano Pietro Cecconi Principi e montato su una rete metallica trattata adeguatamente, per essere collocato dove si trova attualmente[6].
Alto 270 cm e largo 130, l’affresco è stato restaurato quest’anno da Januaria Guarini e Gaetano Martignano, che lo hanno ultimato nell’aprile 2011[7]. Eccellente il lavoro da essi effettuato, anche perché non facile era la rimozione meccanica del cemento utilizzato dal Cecconi Principi e dell’altro del 1980, quando con esso si vollero colmare delle lacune. Diligentemente rimosse anche le scialbature a calce e le scolature di colore utilizzato nella ridipintura delle pareti. Tutte le complesse fasi di restauro hanno restituito un’opera tra le più belle della cattedrale, la cui iconografia merita dei cenni.
Il santo è raffigurato in piedi, inquadrato in un’edicola ottagonale, leggermente rivolto a sinistra. Indossa un saio grigio con cappuccio e cordone intorno alla vita da cui pende un sacchetto. Con la mano destra regge una tavoletta circolare col trigramma JHS, con la quale benediva i fedeli al termine della sua predicazione, e nella sinistra ha un antifonario aperto su cui si legge Pater/ mani/ festa/ vi no/ men/ tuum/ homi/ nibus. In alto, agli angoli, sono dipinti i citati due scudi con lo stemma del vescovo; ai lati del capo si legge il nome del santo (S. BER – NAR. OM[8].).
A parte la rarità del soggetto in Puglia, occorre anche rimarcare che il nostro è uno dei più antichi ritratti, probabilmente conforme al calco mortuario eseguito a L’Aquila, comunque assai vicino ai prototipi delle rappresentazioni rinascimentali di Bernardino che lo raffigurano calvo, con il volto scarno e mento prominente[9].
Qualche nota merita anche il trigramma JHS, il simbolo ideato dal nostro santo, che per questo motivo è ritenuto patrono dei pubblicitari.
Consiste in un sole raggiante in campo azzurro, al centro del quale vi sono le lettere dorate IHS, le prime tre del nome greco di Gesù, oppure forma abbreviata di “Iesus Hominum Salvator”. L’asta sinistra della H è chiaramente tagliata in alto per farne una croce.
Il sole è chiara allusione a Cristo e i dodici suoi raggi a serpentina rappresenterebbero i dodici Apostoli. Studi accreditati dei secoli scorsi attribuiscono ai raggi un preciso significato teologico: il primo raggio starebbe per “rifugio dei penitenti”; il secondo per “vessillo dei combattenti”; il terzo per “rimedio degli infermi; il quarto-conforto dei sofferenti, il quinto-onore dei credenti, il sesto-gioia dei predicanti, il settimo-merito degli operanti, l’ottavo-aiuto degli incapaci, il nono-sospiro dei meditanti, il decimo-suffragio degli oranti, l’undicesimo-gusto dei contemplanti, il dodicesimo-gloria dei trionfanti.
Nella nostra tavoletta non figurano altri otto raggi che in altre raffigurazioni si intercalano ai precedenti, che rappresenterebbero le beatitudini.
Il simbolo, più tardi adottato anche dai Gesuiti[10], dunque conteneva la devozione al Nome di Gesù. Venne rappresentato in moltissimi luoghi religiosi e civili, pubblici e privati, e risulta che esso campeggiasse sulle antiche porte della città di Nardò. Sempre in città sopravvive ancora sulla facciata della chiesa dei SS. Medici, sull’architrave d’accesso al palazzo di città (nella piazza), sul pergamo della cattedrale e in diversi altri luoghi che sarebbe troppo lungo elencare.
Ci piace esprimere gratitudine al citato don Giuliano per la sensibilità e l’impegno dimostrato, ancora una volta, a salvaguardare il notevole patrimonio artistico di cui la città di Nardò può gloriarsi.
[1] Nato a Galatina nel 1359, nato da nobile famiglia, francescano, deceduto a Nardò nel 1435, nominato dal pontefice Martino V.
[2] Nato a Napoli nel 1393, di nobile schiatta, deceduto a Nardò nel gennaio 1485, nominato dal pontefice Niccolò V.
[3] ”d’azzurro a tre penne di struzzo d’ argento disposte in palo” (cf. M. Gaballo, Araldica civile e religiosa a Nardò, p. 88).
[4] Napoletano, XXIV vescovo della diocesi, in carica dal 2/11/1707 sino al 1/1/1736, data della sua morte.
[5] Cf. V. De Martini-A. Braca (a cura di), Angelo e Francesco Solimena, due culture a confronto, Fausto Fiorentino Ed. 1994, pp. 83-84.
[6]A. Tafuri, Ripristino e restauro della Cattedrale di Nardò, Roma 1944, p.66; C. Gelao, Chiesa Cattedrale, in Insediamenti benedettini in Puglia, II/2, p.439.
[7] La relazione dei lavori di restauro è datata 22 aprile 2011.
[9] Una delle prime raffigurazioni di Bernardino pervenutaci, datata 1447, tre anni prima della sua canonizzazione, è data da un affresco strappato e riportato su tela proveniente dalla chiesa di San Francesco di Vercelli e conservato al Museo Borgogna. Nel 1460 (vale a dire 16 anni dopo la sua morte) s. Bernardino viene affrescato nel Santuario della Madonna del Carmine in s. Felice del Benaco (Brescia), come risulta dal libro “1952-2002 – Cinquantesimo anniversario dal ritorno dei Padri Carmelitani nel Santuario della Madonna del Carmine a s. Felice del Benaco” (da wikipedia).
[10] Pur con delle variazioni. A volte c’è la figura di Gesù al posto della croce che sormonta la lettera H (Iesus per crucem Hominum Salvator) e i tre chiodi della passione sono infissi in un cuore.
Come già annunciato in precedenti comunicati nel 2013 ricade un’importante ricorrenza, il seicentesimo anniversario della elevazione della chiesa abbaziale benedettina di S. Maria de Nerito in Cattedrale, con l’insediamento del vescovo Giovanni De Epiphanis (1355-1425), e contestualmente dell’elevazione della “Terra” di Nardò al rango di Città.
Tale ricorrenza rappresenta senza dubbio una singolare e preziosa occasione per trarre dalla memoria storica elementi sicuri per un rilancio del desiderio di futuro, sia sul piano sociale che su quello pastorale.
L’anniversario ricade l’11 gennaio 2013, data in cui fu emessa la relativa bolla dal pontefice Giovanni XXIII nell’anno 1413, documento che si conserva in originale presso l’Archivio Storico della Diocesi di Nardò-Gallipoli.
Il Comitato che organizza le celebrazioni da tenersi nel prossimo anno, formato dal parroco della Cattedrale di Nardò, Mons. Giuliano Santantonio, don Eugenio Bruno, il sindaco di Nardò Avv. Marcello Risi, il presidente del Consiglio Comunale Dott. Antonio Tiene e il Dr. Marcello Gaballo, presidente della Fondazione Terra d’Otranto, sta definendo il calendario manifestazioni da tenersi nel corso dell’anno. Intanto ha definito quello che sarà il logo ufficiale delle celebrazioni, allegato alla presente, messo a disposizione della Fondazione Terra d’Otranto e realizzato da Sandro Montinaro.
Domina la croce patriarcale, che ricalca quella antichissima scolpita sulla facciata della Cattedrale neritina, alla cui base sono opportunamente innestate le due lettere NC, compendiando alla perfezione la valenza nello stesso tempo laica e religiosa dell’evento, essendo abbreviazione N di Neritonensis e C di Cathedralis e di Civitas. Nell’ambito della seconda lettera trovano allocazione le due date 1413 e 2013.
Dalla stessa bolla papale è tratto il motto “Ecclesiam in Cathedralem, Terram in Civitatem Neritonensem” che è parte integrante del logo.
Il logo sarà affisso nei prossimi mesi sugli edifici civili e religiosi della città.
…La prima impressione che si ottiene guardando il nostro Crocifisso è innanzitutto il rispetto delle partizioni anatomiche ed il rigoroso senso dell’ armonia, che presuppone grande sensibilità e capacità artistiche dello scultore.
Pur se evidente l’ influsso delle tradizioni religiose orientali, è uno dei modelli di Christus patiens medievali, sebbene l’ artista non ne abbia volutamente accentuato l’ aspetto patetico o tragico, sottolineando invece la serenità e sacralità.
La sua espressione, quieta e composta, come di rado si osserva in altri Crocifissi coevi, sembra più essere quella di un dormiente che di un martirizzato.
Nessuna tensione di tendini o vene, nessuna alterazione o smorfia che deforma il volto, non esagerati fiotti di sangue dalle ferite, non sopracciglia aggrottate né segni di flagellazione.
Al contrario un volto sereno, con bocca e occhi socchiusi e composti, un naso affilato che contribuisce ad ingentilire la bellezza del volto, intensamente espressivo.
“… morto senza transizioni di forme o stile, col corpo atteggiato in un composto dolore, disteso e con le braccia aderenti ai due lati della trave trasversa, col corpo afflosciato, il capo inclinato a destra, ma col volto di espressione singolare: occhi chiusi, “in beatitudine”, non glorificato ma aria di serenità in segno di magnanimo sopportamento del dolore, senza spasimo duro e prolungato; in modo che dimostrasse l’umanità veramente sofferente, con la divinità presente a sublimare l’infinito dolore ed umiliazione, volontariamente accettati”[1].
Nessuna spigolosità, anzi delicati trapassi di piani in tutta la scultura e perfino nella sottile barba, che incornicia le dolci fattezze.
Insolita la trattazione della capigliatura a ciocche ondulate, disposte ordinatamente in volumi ben definiti, ricadenti dai due lati della testa, dietro le orecchie e fin sopra le spalle[2].
Molto accurata anche la lavorazione dell’ ampio perizoma che avvolge i fianchi con una stoffa ritorta al di sotto dell’ addome e che si adatta alla linea delle gambe, senza pendere, come nella tradizionale iconografia. Vistosamente aderente al corpo, dalla parte sinistra ricade col suo lembo estremo dietro il ginocchio, che resta scoperto come l’ altro. I residui di colore rilevati nei restauri testimoniano che esso fosse di color verde e quindi anche la scultura, oggi pressochè monocroma, un tempo doveva essere di più colori[3].
Gli arti inferiori, leggermente flessi, poggiano coi piedi sul sostegno; i superiori non sono perfettamente orizzontali, mentre le mani sono inchiodate alla stesa altezza.
Le spalle sono leggermente incurvate in rapporto all’inclinazione della testa e tutto il corpo presenta una lieve curvatura rispetto all’ asse verticale della croce, quasi descrivendo una “S” a rovescio. Potrebbe trattarsi di un implicito rimando iconologico al serpente di bronzo, prefigurazione della Croce del Salvatore, innalzato da Mosè nel deserto.
Il capo dunque girato verso la spalla destra, con un riequilibrio dato dalla pendenza del bacino verso sinistra e delle gambe flesse verso destra.
E’ il corpo di un trentatreenne, modellato con estrema raffinatezza e, nonostante l’ infelice sorte, dolorosamente sereno…
[1]Discorso di S. E. Rev.ma Mons. Nicola Giannattasio, arcivescovo di Pessinonte, nella commemorazione del 7° Centenario del Miracolo del Crocifisso “ Gnoro” di Nardò, in “Bollettino Ufficiale della Diocesi di Nardò”, gennaio 1955, a. IV n°1, pp.157-158.
[2] Il restauro ha rimosso la brutta tinteggiatura castana effettuata probabilmente il secolo scorso.
[3] Anche al di sotto della ferita del costato vi era dipinto sangue rosso vivo, per acuirne l’effetto doloroso, rimosso negli ultimi restauri.
(tratto da “Il Cristo nero della Cattedrale di Nardò”, a cura di Marcello Gaballo e Santino Bove Balestra, Quaderni degli Archivi Diocesani di Nardò e Gallipoli, Nuova Serie, Supplementi II, Congedo Ed., Galatina 2005).
Tra il 1230 e il 1249 due violente scosse telluriche lesionarono gravemente tutta la navata a nord. I monaci benedettini che intrapresero i primi interventi di restauro fecero ricostruire la navata a nord, secondo lo stile gotico, con archi a sesto acuto, visibilmente assai diversi da quelli a tutto sesto della navata di destra.
E’ cosi spiegata l’anomalia evidente, dettata dall’esigenza (come affermava Cosimo De Giorgi) e non voluta intenzionalmente (come invece sosteneva Giacomo Boni).
Dal punto di vista tecnico, gli archi a sesto acuto hanno diversi vantaggi rispetto a quelli a tutto sesto. Il materiale utilizzato fu il carparo, materiale più duro e che fa miglior presa con le malte rispetto alla pietra leccese, utilizzata in precedenza.
I capitelli e le cornici delle semicolonne addossate ai pilastri vennero tutti realizzati in pietra leccese, pietra friabile e facilmente lavorabile.
Nel 1249 l’abate Goffredo fece restaurare la venerata immagine della Madonna della Sanità, affrescata su una lastra di carparo. Lo attestava un’epigrafe dell’epoca, oggi scomparsa, che riportava anche il nome del pittore (Bisardo) e del restauratore (Baylardo).
Alla fine del XIII secolo, i benedettini ripresero la costruzione del campanile in stile tipicamente normanno e staccato dal corpo della chiesa. Di forma quadrangolare, su due ordini sovrapposti, con bifore sui lati, fu anch’esso costruito in carparo, utilizzando le soluzioni decorative tipiche dell’età
Un Sant’Onofrio tra le iconae depictae della Cattedrale di Nardò.
Il santo eremita egiziano riemerge nel corso degli ultimi restauri
di Marcello Gaballo
Non si può che plaudire la determinazione e la costanza con le quali don Giuliano Santantonio, parroco della Cattedrale di Nardò, ha dato impulso – da oltre un anno a questa parte – ai lavori di restauro degli affreschi dell’Ecclesia Mater neritina. I recenti interventi, effettuati dai restauratori Januaria Guarini e Gaetano Martignano, hanno restituito al loro antico splendore gli affreschi raffiguranti il san Bernardino da Siena[1] su uno dei pilastri della navata sinistra, il Cristo alla Colonna sul lato destro del presbiterio, e il meraviglioso trittico con san Nicola, la Vergine col Bambino e la Maddalena, conservato nella navata sinistra, in corrispondenza della base del campanile.
Attualmente il paziente lavoro di recupero sta interessando alcune porzioni di affresco collocate sulla parete meridionale della Cattedrale, in direzione della piazza principale della città. Uno di questi affreschi (l’ultimo in ordine di restauro) occupa lo spazio della parete destra compreso tra la cappella di San Michele Arcangelo e la porta laterale.
Posto sull’originario muro perimetrale, il dipinto ha suscitato particolare interesse per il soggetto rappresentato, finora inedito, reso tuttavia quasi illeggibile sia per le cadute di colore, sia per uno strato d’intonaco con tracce di affreschi che lo ricopre nella zona intermedia. In aggiunta a questo, l’affresco reca danni evidenti anche a causa delle manomissioni subìte dal tempio nel corso dei secoli, soprattutto durante l’episcopato di mons. Fabio Fornari (1583-1596); periodo al quale risale la demolizione di numerosi altari – alcuni dei quali collocati in ogni angolo e a ridosso dei pilastri – e con essi la distruzione delle iconae depictae che li ornavano, poi riemerse in buona parte a fine Ottocento, durante i lavori di restauro finalizzati a rimuovere le strutture settecentesche realizzate da Ferdinando Sanfelice.
L’affresco in oggetto ritrae un santo olosomo, in piedi con le mani giunte, inserito in una cornice lineare ocra su una campitura blu. Il soggetto – raffigurato nudo, con il capo circondato da un nimbo giallo – esibisce una folta barba e una lunga e fluente capigliatura. Meglio leggibili gli arti inferiori, ugualmente privi di indumenti e caratterizzati dalla presenza di tre steli di un elemento vegetale (forse una palma) che, dai piedi, si innalzano fino alle cosce del santo, culminando in tre ampie foglie.
Ai lati della figura si intravedono alcuni caratteri di una duplice iscrizione disposta in senso verticale, all’altezza del volto: a destra si legge “[…] F […] YS”; a sinistra la sola lettera “S”.
Il riquadro con l’effigie del santo era originariamente accostato ad una seconda riquadratura (all’interno della quale sopravvivono pochi brani), come si evince da una porzione di cornice ornata da girali vegetali, che sovrasta entrambi i riquadri.
La perizia degli operatori ha restituito un’interessante iconografia che si presta a diversi spunti di riflessione sui quali è utile soffermarsi. La nudità del soggetto farebbe pensare ad un santo anacoreta, vissuto nel deserto sull’esempio di san Giovanni Battista e del profeta Elia, i cui attributi iconografici, assenti nell’affresco neritino, autorizzano ad escluderli da un’ipotesi interpretativa.
Le poche lettere sopravvissute e soprattutto l’irsutismo della figura[2] permettono di identificarvi sant’Onofrio, un eremita vissuto nel V secolo che, per oltre settant’anni, si ritirò in solitudine nel deserto, nutrendosi di erbe e riposando nelle grotte presenti attorno al suo eremo di Calidiomea, il luogo dei palmizi. La leggenda narra che, quando i suoi abiti diventarono lisi al punto da ridursi a pochi brandelli, il Signore fece crescere su tutto il corpo del santo un abbondante pelo, per proteggerlo dalla rigidità del clima, mentre un angelo, ogni giorno, si recava da lui per portargli del pane come unico alimento.
Le vicende del santo anacoreta furono narrate da Pafnuzio, un monaco vissuto nel V secolo in Egitto, che lo incontrò più volte e ne scrisse nella Vita greca, asserendo che l’eremita morì l’11 giugno (anche se il santo è celebrato il 12 giugno nei sinassari bizantini)[3].
Alla luce di questi pochi elementi, l’iscrizione potrebbe dunque essere completata e letta come “[ONO]F[R]YS”; più ardua, invece, l’interpretazione dell’apparentemente singola lettera “S”, che potrebbe essere la lettera finale di Onofrius o di Sanctus.
Riuscire a decifrare il significato di questi caratteri è, dunque, di estrema importanza ai fini dell’esatta datazione dell’affresco che, in ogni caso, merita uno studio approfondito da parte degli specialisti di arte medievale e bizantina, sia per la comparazione di questo con i restanti affreschi, sia per una migliore definizione dell’intero ciclo pittorico.
L’identificazione del santo egiziano rimanda ad un inusuale culto neritino nel Medioevo, del quale non si conosce nulla, sebbene l’eremita fosse ben noto nel Salento, considerata l’esistenza di numerose altre sue rappresentazioni in questa terra, tra le quali si citano quelle di Santa Maria di Cerrate a Squinzano (in cui era dipinto su uno degli archivolti nella chiesa), dell’abbazia di San Mauro sul litorale ionico (dove l’anacoreta è affrescato sull’intradosso di uno degli archi), nella basilica di Castro[4]. Più celebre il bel sant’Onofrio dipinto nella chiesa galatinese di Santa Caterina, dov’è raffigurato con i canonici attributi iconografici che lo caratterizzeranno nel corso dei secoli[5].
Alla luce di questo importante rinvenimento e dei numerosi affreschi tuttora conservati nel massimo edificio religioso neritino, ci si augura che la sensibilità del sacerdote – evidentemente supportata da generosi offerenti – possa proseguire nella meritoria opera di recupero di queste importanti testimonianze pittoriche, anche in vista dell’eccezionale evento che ricorrerà il prossimo 2013, quando la Diocesi di Nardò celebrerà il secentenario dell’istituzione della cattedra episcopale (11 gennaio 1413) ad opera di papa Giovanni XXIII (il pontefice scismatico Baldassarre Cossa), il quale nominò primo vescovo l’abate Giovanni de Epifanis.
[1] Sul san Bernardino da Siena si veda la relativa scheda di restauro pubblicata su “Il delfino e la mezzaluna”, a. I, n. 1 (luglio 2012), pp. 146-148. Cfr. inoltre R. Poso, La cultura del restauro pittorico in Puglia nella seconda metà del XIX secolo, in Storia del restauro dei dipinti a Napoli e nel Regno nel XIX secolo, Atti del Convengo Internazionale di Studi (Napoli, 14-16 novembre 1999), a cura di M.I. Catalano e G. Prisco, volume speciale 2003 del “Bollettino d’Arte”, pp. 273-286.
[2] Con tale aspetto “santu ‘Nufriu u pilusu” è raffigurato nella Cappella Palatina di Palermo, dov’è annoverato tra i comprotettori della città ed oggetto di un culto molto intenso. Come riferisce il Pitrè, il santo era anticamente invocato da parte delle fanciulle in cerca di marito, diversamente da quelle salentine che, invece, rivolgevano le loro preci a san Nicola di Myra.
[4] Mi comunica a tal proposito l’amico Emanuele Ciullo: “il S. Onofrio della basilica bizantina di Castro è stato rinvenuto nel corso dei recenti restauri cui è andata soggetta la basilica, che è la chiesa cattedrale di Castro, è una figura stante ubicata nel sottarco dell’arcone centrale della navata destra (l’unica porzione in elevato dell’edificio) al centro di altre due figure per complessivi sei santi (tre da un lato e tre dall’altro, il disegno è perfettamente “>speculare) divisi da una fascia a fregio vegetale al centro dell’arco. La figura naturalmente è completamente nuda e ha il nome iscritto affianco. Datazione incerta (X-XI?)”.
Ringrazio per la segnalazione l’altro amico Angelo Micello.
[5] Qui il santo, barbuto e con fluente capigliatura che ricopre buona parte del corpo, si appoggia con la mano sinistra su un bastone che termina in una croce a “T” (Tau) nella parte superiore; con la mano destra stringe un singolare rosario, i cui grani (circa 35), di colore marrone, sembrerebbero ghiande. Ai piedi del santo una corona rammenta agli astanti la rinuncia di Onofrio alla sua probabile stirpe regale e, comunque, alla gloria terrena, in favore di quella celeste attraverso l’eremitaggio.
Ricostruendo le vicende del restauro ottocentesco della cattedrale di Nardò sono emersi, contestualmente alle discussioni tecniche e metodologiche, momenti di intima religiosità che aiutano a focalizzare ulteriormente l’attività pastorale di mons. Giuseppe Ricciardi, vescovo di Nardò (1888-1908).
Nel 1892 lo stato di conservazione della cattedrale neretina indusse il vescovo ad escludere qualsiasi ipotesi di conservazione a favore di una nuova costruzione su progetto di Filippo e Gennaro Bacile di Castiglione.
L’ultimo rilevante intervento, curato dall’architetto napoletano Ferdinando Sanfelice (1725) durante il vescovato del fratello Antonio (1708-1736), era stato finalizzato al consolidamento della navata principale, alla realizzazione della facciata e all’adeguamento stilistico dell’edificio, avendo cura di preservare rispettosamente la memoria architettonica[1].
Di fatto, nel corso dei lavori preparatori alla demolizione, su insistenza di Ricciardi e dell’ing. Antonio Tafuri, furono eseguiti alcuni saggi conoscitivi ed inaspettatamente apparvero tracce più antiche.
Ricciardi, persona dotata di una singolare coscienza conservativa[2], non esitò a richiedere l’intervento del competente Ministero della Pubblica Istruzione, nonostante la forte opposizione di alcune rappresentanze cittadine e del progettista. Avvenne cosi l’incontro tra il lungimirante prelato e Giacomo Boni[3], Ispettore presso la Direzione Generale Antichità e Belle Arti, incaricato di recarsi a Nardò per esaminare e relazionare sulle inattese scoperte.
Boni osservò accuratamente l’edificio e giudicò la Cattedrale come «l’anello di congiunzione tra le due forme di architettura, la greca e la saracena, che hanno popolato di monumenti le provincie meridionali; essa è pure un prezioso monumento, nobile e severo nella linea, grandiosamente semplice, dei suoi pilastri e delle sue arcate»[4], la cui alterazione non si poteva tollerare.
Con il consenso ministeriale si procedette all’eliminazione delle superfetazioni e lungo la navata maggiore vennero alla luce alcuni dipinti murali trecenteschi, i pilastri e semicolonne con archi a sesto acuto (lato nord) e a tutto sesto (lato sud), l’arco trionfale, le antiche finestre e il tetto a capriate, sino ad allora occultato dal soffitto a cassettoni voluto dal vescovo Orazio Fortunato (1678-1707).
L’ispettore ministeriale fu tra i primi ad osservare attentamente le trentaquattro incavallature e a rilevare le decorazioni policrome e le iscrizioni a grandi lettere gotiche sul lato di alcune travi-catene; i riferimenti espliciti al Principe di Taranto Roberto d’Angiò e all’abate Bartolomeo consentirono a Boni di datare la realizzazione tra il 1332 (anno in cui Roberto assunse il principato) e il 1351 (anno di morte dell’abate), periodo storico confermato anche dai caratteri dell’iscrizione[5].
L’importanza dei rinvenimenti indusse il vescovo ad accantonare il progetto Bacile e ad assegnare all’ing. Antonio Tafuri il compito di redigerne un altro, attenendosi alle prescrizioni di Boni filtrate dall’istituzione ministeriale.
Come azione preliminare, al fine di garantire la staticità architettonica, furono sostituiti i pilastri in pietra leccese a sostegno degli archi a tutto sesto (lato sud della navata maggiore), «schiacciati e deviati» rispetto ai corrispondenti in carparo «solidi e ben conservati» (lato nord)[6]. Seguirono numerosi altri lavori per i quali rimando alla specifica letteratura, ad eccezione dell’intervento per le capriate della navata maggiore, il cui rifacimento fu necessario soprattutto per il pessimo stato di conservazione delle catene, «guaste e tarlate nei punti di appoggio alla muratura»[7].
L’interesse per questa fase di lavori prescinde dalle disamine tecnico-costruttive e si sofferma sulla singolare valenza religiosa e devozionale documentata da una inedita cronaca. Boni, per conto del Ministero, acquistò da Venezia 127 metri cubi di legno di larice (243 travi di cui 190 nuove acquistate dalla ditta Lazzaris e 53 provenienti dai restauri del Palazzo Ducale veneziano), mentre da Taranto pervennero le trentaquattro travi-catene (di metri 10.20) di pick-pine fornite dalla ditta Luigi Blasi e C.
Rimosse le travi policrome[8], il 13 agosto del 1895 si procedette alla messa in opera e il vescovo Ricciardi, come riferisce il documento citato, «accompagnato dal suo Capitolo e Clero, si faceva ad inaugurare la copertura del tetto della nave maggiore della Chiesa con la Benedizione della prima capriata»[9].
Iniziò, dunque, una speciale funzione religiosa solennemente allietata:
«Difatti dopo il canto del Laudate pueri Dominum, del Nisi Dominus custodierit civitatem, del Lauda Jerusalem Dominum, s’intonò l’AveMaris Stella e si benedisse la capriata dedicandola alla Vergine Santa Maria titolare Assunta in Cielo. E quando l’abile manovra dei carpentieri tarantini sollevava tutta armata ed intera la capriata, si sciolse il Cantico del Magnificat alla Vergine al suono di tutte le campane della Città.
Colla copertura del tempio si fanno voti affinché si abbrevi il tempo che priva la Città della sua Cattedrale, e che si inauguri al più presto la solenne sua destinazione al Culto colla Consacrazione.
Le altre capriate saranno dedicate con questo motto; la seconda: Sancte Michael Arcangele defende nos in praelio; la terza: Sancte pater Gregori esto memor nostra; la quarta: Sancte Antoni ora pro nobis; la quinta: Sancte Sebastiane ora pro nobis; la sesta Sancte Joseph a Cupertino ora pro nobis; la settima: Sancte Joannes Elemosynari ora; l’ottava: Sancte Roche ora; la nona: Sancte Georgi ora; la decima Sancte Quintine ora; l’undecima: Sancte Leuci Martyr ora; la duodecima: Sancte Paule Apostoli; la tredicesima: Sancte Nicolae ora; la quattordicesima: Sancte Martine; santi questi protettori della Città e luoghi della Diocesi.
Le altre venti capriate si avranno il nome delle famiglie benefattrici della Cattedrale, con i nomi celesti del principale di famiglia: quindi la decima quinta capriata avrà il nome: O Emmanuel Salvator noster; la decima sesta Sancta Marianna ora pro nobis; la decima settima Sancte Aloysi ora pro nobis; la decima ottava: Sancte Raymonde ora pro nobis; la decima nona Sancte Ferdinande ora pro nobis; i quali titoli o nomi celestiali corrispondono alle rispettive famiglie di questa cospicua e nobilissima Città di Nardò, cioè alle benemerite famiglie De Pandi-Dellabate, Tafuri, Vaglio, Personè.
Quando si salì la prima capriata, incominciando dall’ingresso maggiore a man destra, si pose una deca di piombo legata con fettuccia celeste, con suggello dall’impronta dello stemma di Monsig. Ricciardi contenente l’effigie del Sacro Cuore di Gesù, della Vergine Santa Immacolata, di S. Giuseppe Patriarca e S. Michele, di S. Benedetto e del Sommo Pontefice regnante Leone XIII.
La Vergine Santa come assistette Monsig. Ricciardi nel salvare dall’ultima rovina già decretata questo suo tempio normanno, così lo compisca a Suo onore e gloria»[10].
Il documento non è datato o firmato, ma quasi certamente il redattore fu testimone dell’evento e «al suono di tutte le campane della Città» condivise con i fedeli neretini la contentezza per l’approssimarsi della fine dei lavori poiché sin dal 1892 la chiesa era stata interdetta al culto e le lungaggini dovute alla scelta delle metodologie appropriate e alle difficoltà economiche avevano accresciuto il desiderio della riapertura.
La dedica alla Vergine Assunta, titolare della chiesa cattedrale sin dalla fondazione, rinsaldava la devozione della cittadinanza e del clero diocesano due giorni prima della celebrazione ufficiale (15 agosto)[11]; l’intitolazione al patrono civico e ai due compatroni s. Michele e s. Antonio da Padova[12] rinnovava l’invocazione alla santa protezione suggellata dalla presenza simbolica degli altri patroni diocesani riuniti sotto lo stesso cielo ligneo[13].
Con gli eponimi santi sarebbero stati ricordati ed onorati anche i rappresentanti delle famiglie benefattrici che sostennero il completamento del restauro: i fratelli De Pandi-Dell’Abate commissionarono il pavimento e il restauro della cappella di s. Marina, la nobildonna Clementina Personè offrì il nuovo organo e la famiglia Vaglio la balaustra del presbiterio[14].
La deposizione della teca con le sante figure è il documento tangibile a ricordo dell’evento e per una inaspettata similitudine riporta all’antica tradizione di riporre l’effige di un santo, quella del protettore cittadino o al quale si è votati, sulla sommità di un edificio al termine della costruzione come segno di ringraziamento e richiesta di protezione[15].
L’invocazione finale schiude al lettore l’intima preghiera del cronista affinché la santa intercessione, guida e sostegno spirituale per il vescovo, possa sostenere il compimento dell’opera, la cui riconsacrazione (27 maggio del 1900) culminò con la celebrazione pittorica del Maccari nel catino absidale[16].
La cerimonia rientra, dunque, nel processo di evangelizzazione avviato dal vescovo al fine di infondere una pratica religiosa ed una partecipazione cristiana «fortemente sentiti e vissuti senza cedimenti a manifestazioni formali ed esteriori che immiseriscano e svuotino di significato e contenuto spirituale il sentimento religioso»[17].
Non di rado l’intransigenza religiosa coincise con una azione di restaurazione culturale e di recupero della coscienza identitaria, quale presupposto indispensabile per una migliore cultura conservativa. L’acceso confronto sui temi della tutela e della conservazione che il vescovo Ricciardi promosse in città con il conforto di Giacomo Boni fu la conseguenza positiva del nuovo clima intellettuale a sostegno del recupero dei beni culturali[18].
[1] G.B. Tafuri, Dell’origine sito ed antichità della Città di Nardò. Libri due brevemente descritti da Gio. Bernardino Tafuri in Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Gio. Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò. Ristampate ed annotate da Michele Tafuri, Napoli 1848, 501-508, E. Mazzarella, La Cattedrale di Nardò, Galatina 1982, 67-84; cfr. M.V. Mastrangelo, L’intervento dei Sanfelice sulla cattedrale neritina. Storia di un restauro “illuminato”, in «Spicilegia sallentina», 2 (2007), 69-76. Per la storia della cattedrale si veda pure B. Vetere, S. Maria di Nardò: un’Abazia Benedettina di Terra d’Otranto. Profilo storico critico, in C. Gelao, a cura di, Insediamenti benedettini in Puglia, Galatina 1980, I, 199-254; C. Gelao, Chiesa Cattedrale (già Chiesa Abbaziale di S. Maria Assunta). Nardò, in C. Gelao, a cura di, Insediamenti benedettini in Puglia, Galatina 1985, II, 2, 433-440.
[2] Per il profilo biografico si veda G. Falconieri, Discorso commemorativo di S.E.Rev.ma Mons. Giuseppe Ricciardi per la traslazione della salma nella Cattedrale di Nardò, in «Bollettino Ufficiale della Diocesi di Nardò», 1 (1955), 61-74; O.P. Confessore, Zelo pastorale e attività civile di Mons. Giuseppe Ricciardi, vescovo di Nardò (1889-1908), in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», XXVI (1972), 436-471; C. Rizzo, L’Episcopato di Mons. Giuseppe Ricciardi (1888-1908), in A. Cappello, B. Lacerenza, a cura di, La Cattedrale di Nardò e l’Arte Sacra di Cesare Maccari, Galatina 2001, 57-64.
[3] Per il profilo biografico si veda E. Tea, Giacomo Boni nella vita del suo tempo, Milano 1932, 2 voll.;E. Tea, Giacomo Boni nelle Puglie, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 28 (1959), fasc. 1-2, 3-34, 193-224.
[5] Tea, Giacomo Boni nelle Puglie, cit., 219-220.
[6] A. Tafuri di Melignano, Ripristino e restauro della Cattedrale di Nardò, Roma 1944, 19.
[7] Tafuri di Melignano, Ripristino e restauro, cit., 30.
[8] Il vescovo e Boni si preoccuparono sin dai primi momenti della loro conservazione e fu proposto di impiegarle per la copertura di una sala dell’episcopio e poi per la sacrestia. Ma, nonostante l’approvazione dei progetti dell’arch. Ettore Bernich da parte del Consiglio Superiore di Belle Arti, l’intervento non fu eseguito ed ignota rimane la sorte delle antiche travi la cui esistenza è documentata nel 1936 quando furono ispezionate dai funzionari della Soprintendenza (Mazzarella, La Cattedrale di Nardò, cit., 13). Fortunatamente l’arch. Pier Olinto Armanini e il pittore Primo Panciroli copiarono in parte le decorazioni policrome per riprodurle sulle nuove travature (cf C. Boito, G. Ricciardi, G. Moretti, In memoria di P. O. Armanini. La Cattedrale di Nardò. La Cascina Pozzobonello in Milano, Milano 1898; P. Panciroli, Raccolta dei motivi decorativi appartenenti alla distrutta travatura della Cattedrale di Nardò, Roma 1904).
Per lo studio iconografico e iconologico delle decorazioni si veda C. Gelao, Un capitolo sconosciuto di arte decorativa. «Tecta depicta» di chiese medievali pugliesi, «I quaderni dell’Amministrazione provinciale», n. 9, Bari, s.d.; M. Gaballo, Per Visibilia ad Invisibilia. Un bestiario sulle antiche travi, in M. Gaballo – F. Danieli, Il mistero dei segni, Galatina 2007, 21-63. Tuttora nella cattedrale neretina sono visibili solo dodici travi antiche che coprono la volta del presbiterio, mentre una è depositata presso il vicino Seminario (cf M.V. Mastrangelo, La distrutta travatura della Basilica Cattedrale di Nardò. Note tecniche, in Gaballo – Danieli, Il mistero dei segni, cit., 65-72).
[9] A.S.C.N. (Archivio Storico della Curia Vescovile di Nardò), B. 14, s.d.
[11] Tafuri, Dell’origine sito ed antichità, cit., 508
[12] Sant’Antonio di Padova fu il primo protettore della città poi detronizzato in un periodo non definito da s. Michele Arcangelo. L’origine di questo patronato fu chiarita da G.B. Tafuri: «essendo decaduta la città dal diritto viver cristiano, un giorno verso il mezzodì oscurata l’aria, con tuoni e fulmini diedesi a divedere il cielo irato, e da certe nubi distaccavansi alcuni globi di fuoco, i quali facevan mostra di cascare sopra della città. Atterriti i Neretini di si spaventevole veduta invocaron con fiducia l’aiuto dell’Arcangelo S. Michele. Incontanente si vide quel potentissimo principe Angelico frapporsi fra quelle fiamme, e trattenerle, e dopo poco spazio di tempo il cielo si fece sereno».
I Neretini a ricordo dell’evento fecero coniare una moneta e lo dichiararono protettore della città (Tafuri, Dell’origine sito ed antichità, cit., 346-347). Nel IX secolo il patronato civico passò a San Gregorio Armeno, le cui reliquie furono traslate a Nardò nella seconda metà del VIII sec.. Il coinvolgimento devozionale per il santo Illuminatore subì un forte rinnovamento con il processo di evangelizzazione post-tridentina (mons. Cesare Bovio curò la conservazione della reliquia del braccio in un teca d’argento) e proseguì con i vescovati di Luigi De Franchis (dichiarazione della festa dedicata al Santo il 1 ottobre), Girolamo de Franchis (dedicazione di un altare della cattedrale), Orazio Fortunato (la costruzione del cappellone di San Gregorio sul lato sud della cattedrale e il reliquiario d’argento dorato a braccio) e mons. Antonio Sanfelice (nel 1717 donò alla città il prezioso busto reliquiario). L’intervento salvifico dalla distruzione del terremoto del 20 febbraio del 1743, palesato dal movimento della statua del santo posta sul Sedile della piazza, rappresentò il definitivo suggello del forte legame tra il santo armeno e la città (Mazzarella, La Cattedrale di Nardò, cit., 118-120; M. R. Tamblè. Il culto di San Gregorio Armeno a Nardò, in 20 febbraio 1743-1993. 250° Anniversario, 10-14; B. Vetere, Il patronato civico di S. Gregorio Armeno, in «Neretum», 1 (2002), 7-16).
[13] Alliste: San Quintino; Aradeo: San Nicola di Myra; Casarano: San Giovanni Elemosiniere; Copertino: San Sebastiano (solo dall’Ottocento San Giuseppe da Copertino); Felline: San Leucio Martire; Galatone: San Sebastiano; Matino: San Giorgio (dal Novecento, compatrona Madonna del Carmine); Melissano: Sant’Antonio di Padova; Nardò: San Gregorio Armeno (compatroni San Michele Arcangelo e Sant’Antonio di Padova); Neviano: San Michele Arcangelo (compatrona Madonna della Neve); Parabita: San Sebastiano (compatrono San Rocco e solo dal Novecento patrona Madonna della Coltura); Racale: San Sebastiano; Seclì: San Paolo Apostolo; Taviano: San Martino di Tours (ringrazio don Francesco Danieli per le notizie sui santi patroni). Per la cronistoria della Diocesi di Nardò, di Gallipoli e poi di Nardò-Gallipoli (dal 1986) si veda F. Danieli, Nardò-Gallipoli, in S. Palese – L.M. de Palma (a cura di), Storia delle Chiese di Puglia, Bari 2008, 251-270.
[14] Cf Falconieri, Discorso commemorativo, cit., 68-69; Tafuri di Melignano, Ripristino e restauro, cit., 98-111.
[15] Il rito si concludeva profanamente con il “capocanale”, un banchetto di ringraziamento per tutti gli operai che avevano partecipato all’impresa (M. Congedo, Il Capocanale, in «Apulia», IV (dicembre 2005).
[16] Cf A. Cappello – B. Lacerenza, La Cattedrale di Nardò e l’arte sacra di Cesare Maccari, Galatina 2001.
[17] Confessore, Zelo pastorale e attività, cit., 443.
[18] P. Giuri, Alcuni contributi alla storia del restauro del patrimonio storico-artistico nel Salento, in R. Poso(a cura di), Riconoscere un patrimonio. Storia e critica dell’attività di conservazione del patrimonio storico-artistico in Italia meridionale (1750-1950), Atti del Seminario di studi (Lecce, 17-19 novembre 2006), Galatina 2007, 169.
Marcello Gaballo / Francesco Danieli, Il mistero dei segni. Elementi di iconologia sacra nella cattedrale di Nardò tra medioevo e età barocca
Galatina 2007 pp. 117 – € 20
La prefazione di questo libro esordisce con un brano della Lettera agli artisti scritta il 4.4.1999 da Papa Giovanni Paolo II, inerente all’arte come funzione mediatrice tra lo spirito celeste e il mondo visibile, e introduce con profonda elegante precisione al vasto, complesso ed affascinante argomento felicemente trattato dal testo: la riscoperta e l’esame dei dipinti eseguiti sulle travi lignee della cattedrale neritina (tornate alla vista nel 1892 e poi perdute), seguito da un saggio tecnico sulla loro struttura, e da un altro sull’Altare delle Anime realizzato per la medesima chiesa nel 1698 dal Sodalizio dell’Orazione e Morte. Il testo prende spunto dai diversi modi con cui è possibile accostarsi all’opera d’arte, e dai punti di vista più o meni approfonditi che permettono di farlo, passando presto alla differenza tra iconografia e iconologia: da qui iniziano i molti cenni agli autori ed ai testi del XVI secolo (in primis a Cesare Ripa), con colti rimandi a bagagli culturali paralleli e precedenti quali bestiari, erbari e lapidari dei primi tempi dell’era cristiana, ed ai loro antesignani della tradizione classica.
Subito dopo, gli autori entrano nel merito della trattazione: alcuni cenni storici sulla cattedrale di Nardò, e più in specifico sui rifacimenti della copertura a inizio XVII secolo (dei quali restano i documenti di spesa e le relative ricevute), preludono alla narrazione delle ristrutturazioni volute nel 1892 per il ripristino all’antico dell’edificio. Procedura oggi filologicamente discutibile, ma che peraltro permise di riscoprire nel soffitto le superstiti travi dipinte (oggi quasi tutte sostituite da altre in larice) e i loro decori, subito ricopiati da due artisti presenti al restauro e rimasti colpiti dalla geniale bellezza dei manufatti.
Un’impresa meritoria, che ha salvato queste importanti testimonianze pittoriche dall’oblio. La parte scritta dell’opera è (doverosamente) accompagnata dalle riproduzioni a colori di dette copie, affiancate a fotografie e disegni pertinenti ad altre fonti artistiche d’epoca antica – a partire dal celebre Arazzo di Bayeux, ricamo su tela normanno dell’XI secolo – che permettono interessanti raffronti tra manufatti differenti: gli autori, ben consci del respiro universale dei simboli e della loro capillare diffusione nei vari ambiti della cultura antica, intelligentemente allargano il campo della loro ricerca a tutti i generi di manifestazioni d’arte, non solo ai pochi altri esempi esistenti di soffitti a travature dipinte (fra cui quello di palazzo Steri a Palermo), ma anche a sculture e mosaici, riuscendo ad identificare con relativa sicurezza la maggior parte delle figure presenti sulle travature di Nardò.
Un’operazione di non poco conto, se si considera che queste figure venivano sì realizzate in maniera per così dire “standardizzata”, ma secondo canoni ben diversi dai nostri attuali concetti di standard figurativo seriale. Gli autori procedono parlando dei più diversi simboli fino a p. 43 ove, su tre pagine, si soffermano sulla parte araldica del lavoro, la quale si sostanzia in figure araldiche senza scudo, oppure inserite liberamente all’interno di decori dai contorni più diversi, o in più rari stemmi completi di “veri” scudi: ciò si spiega col fatto che l’edificio venne radicalmente riattato, anche nel soffitto, dopo un rovinoso terremoto avvenuto nel 1245, epoca in cui l’ostracismo ecclesiastico verso gli oggetti d’arme probabilmente indusse i pittori delle travi a realizzare su di esse soltanto i simboli e non anche gli scudi. A quel periodo risalgono le aquile forse sveve, le croci forse teutoniche, i tori poi passati all’arma civica, e tutte le altre figurazioni araldiche “libere” che qui vediamo, seguite nel tempo da figure emblematiche di cospicue famiglie locali, da stemmi o stemmoidi non ancora identificati, e da stemmi conseguenti ai numerosi interventi manutentivi delle epoche più tarde.
Tutti questi fattori, uniti al naturale degrado delle pitture ed alle possibili imprecisioni dei riproduttori ottocenteschi, hanno spinto gli autori a dare attribuzioni probabilistiche circa i titolari degli stemmi medesimi: prudenza saggia, e utile preludio ad auspicabili approfondimenti araldici futuri.
Terminato il lato simbolico, il testo passa all’esame tecnico delle poche travature dipinte superstiti, tutte situate in scomoda posizione sopra il presbiterio; dopodiché, si torna alle questioni iconologiche nel parlare dell’Altare delle Anime, manufatto barocco sopravvissuto alle epurazioni di inizio XX secolo. Di esso si delinea la committenza e la realizzazione sovrabbondante di decori, rifinita come una trina, ridondante come la sua epoca, ma ricca di segni e significati, degna cornice alla tela in essa racchiusa ed effigiante la Vergine col Bambino e le anime purganti.
La composizione scenica dell’insieme e i numerosi temi iconografici affrontati vengono valutati con cura ed esaminati con attenzione, senza trascurare le fonti sacre e i moventi teologici, tutti indagati e spiegati tenendo in debito conto le parallele fonti “laiche” (come l’Iconologia del Ripa menzionata fin nelle ultime pagine del testo) e l’agiografia dei diversi Santi effigiati: compreso l’insolito (dal punto di vista delle consuetudini cultuali italiche) San Patrizio che cima l’altare e che costituisce la maggiore fra le tante inattese sorprese riservateci da questo stupefacente manufatto, oltre che dall’intero testo nel suo insieme.
La lettura del volume è molto facilitata ed ottimamente assistita dalle grandi e belle illustrazioni di accompagnamento, rese anche a tutta pagina (il testo è in formato A4 grande), per un totale di 199 figure in bianco-nero e a colori, talora desunte da altre fonti, molto spesso costituite da foto o disegni originali appositamente realizzati.
Il testo viene ulteriormente dettagliato da 158 note sparse fra i diversi capitoli, e seguito da una bibliografia estesa su tre pagine e mezza, fitte di titoli fra cui tredici a soggetto araldico e cavalleresco (va ricordato che uno dei due autori è socio IAGI) e la citazione di un articolo pubblicato su Nobiltà (S. Bracco, L’Ordine Teutonico, Nobiltà n° 18, maggio 1997, p. 289 e segg.), oltre a numerosi altri più strettamente legati all’iconologia ed alla simbologia.
Il monumentale e severo crocifisso ligneo da secoli venerato nella cattedrale di Nardò, già abbazia benedettina di Sancta Maria de Neritono, non gode di adeguata fama e, nonostante il suo valore artistico, non è molto conosciuto al di fuori della popolazione neritina per la quale, almeno dalla metà del Trecento, è oggetto di grande devozione.
La mancanza di documenti ha consentito agli storiografi settecenteschi di ritenerlo d’epoca bizantina ed il vescovo Antonio Sanfelice (1708-1736), nella sua visita astorale del 1719, scrive, per la prima volta, che l’ effigie ex Oriente in Italiam delata à Grecis monachis ordinis s. Basilii quo tempore Constantini Copronymi imperatoris, l’ acerrimo nemico dei cristiani e delle loro sacre immagini. I Basiliani erano sbarcati apud Neritinos portando con sé il Crocifisso ligneo ut in ipsem et medio ecclesiae capite publice ipsorum venerationi exposito.
La notizia, ripresa da diversi AA., compreso il Mazzarella, è priva di fondamento, così come lo è pure la versione del miracolo del 1255, riportata dall’abate Pietro Polidori nel suo De Neritinae Ecclesiae: le milizie saracene giunte in città l’avrebbero espugnata e nell’allontanare il nostro Crocifisso per bruciarlo in piazza esso avrebbe urtato col braccio sinistro contro lo stipite della porta. Per rimuovere l’ostacolo un infedele avrebbe reciso un dito da cui fuoriuscì un discreto fiotto di sangue. L’evento atterrì i Saraceni che, datisi alla fuga, rinunciarono al progetto di arderlo e quindi non poterono neppure allontanarlo dall’edificio.
Un motivo in più per dubitare dei leggendari avvenimenti del 1255 viene dalle recenti considerazioni fornite da Porzia Lovecchio, nel lavoro di tesi in paleografia greca compiuto presso la facoltà di Lettere dell’Università di Bari nell’ anno accademico 2001/02: “Il ms. Vat. Barb. gr.297: analisi testuale, codicologica e paleografica”, relatore il prof. Francesco Magistrale, titolare della cattedra di paleografia latina e greca. La giovane studiosa offre delle interessanti indicazioni circa il Codice Scorialense, manoscritto risalente alla seconda metà del XIII secolo e già ampiamente esaminato dallo Jacob, opera di “Ioannis de Neritono notarii et fidelis nostri scribi”.
In tale documento l’estensore neritino, testimone oculare dell’accaduto, riporta un’accurata descrizione dei fatti relativi al sacco di Nardò sopraccitato. Mentre fa menzione dell’assalto alla città da parte della lega antisveva (al giorno 12 febbraio 1255), a dispetto della tradizione, non riporta alcun assedio per mano dei saraceni.
L’omissione del miracolo del Crocifisso, che tanta eco avrebbe dovuto suscitare in tutta l’opinione pubblica del tempo, sarebbe un errore imperdonabile per un cronista meticoloso come Giovanni di Nardò. La studiosa conclude: «persino il miracolo del Crocifisso Nero si traduce in una leggenda dal sapore puramente simbolico, visto che lo scriba, un religioso (!), non registra questo atto sacrilego».
Tutto da rileggere, per farla breve, nell’ottica di quelle lunghe lotte intestine tra guelfi e ghibellini che tennero occupati politici ed ecclesiastici per lungo tempo.
Nonostante la battuta d’arresto della Tamblè sulle infondate asserzioni settecentesche non si è ancora riusciti a colmare la lacuna sulla provenienza del Crocifisso e ad esso è stata dedicata un’attenzione di carattere più devozionale che documentario. Sono stati invece di notevole aiuto i restauri che, oltre ad orientare sulla datazione del manufatto, invogliano a nuove ricerche ed indicano nuove piste.
Certo sembra strano come tanta straordinaria arte sia passata inosservata, nonostante la sua comprovata antichità, le sue dimensioni, la venerazione, l’originale ed inconsueta iconografia, che non si riscontra in altri Crocifissi lignei del Salento, della Puglia e forse di tutto il Mezzogiorno d’Italia.
Notizie estrapolate da: AA. VV., Il Cristo nero della Cattedrale di Nardò, a cura di Marcello Gaballo e Santino Bove Balestra, Quaderni degli Archivi Diocesani di Nardò e Gallipoli, Nuova Serie, Supplementi II, Congedo Ed., Galatina 2005
Seicentesimo anniversario della elevazione della chiesa abbaziale benedettina di S. Maria de Nerito in Cattedrale e della elevazione della “Terra” di Nardò al rango di Civitas
Un’importante ricorrenza ricade nel 2013, anno in cui si celebrerà il seicentesimo anniversario della elevazione della chiesa abbaziale benedettina di S. Maria de Nerito in Cattedrale e contestualmente della elevazione della “Terra” di Nardò al rango di Città.
Tale ricorrenza rappresenta senza dubbio una singolare e preziosa occasione per trarre dalla memoria storica elementi sicuri per un rilancio del desiderio di futuro, sia sul piano sociale che su quello pastorale.
L’anniversario ricade l’11 gennaio 2013, data in cui fu emessa la relativa bolla dal pontefice Giovanni XXIII nell’anno 1413, documento che si conserva in originale presso l’Archivio Storico della Diocesi di Nardò-Gallipoli.
Nei mesi scorsi è stata avviata la fase di organizzazione delle celebrazioni da tenersi nel prossimo anno e si è insediato il Comitato che organizzerà gli eventi. Componenti sono il parroco della Cattedrale di Nardò e vicario episcopale per i Beni culturali ecclesiastici, Mons. Giuliano Santantonio, delegato dal vescovo Mons. Domenico Caliandro; don Eugenio Bruno, parroco in Copertino; il sindaco di Nardò Avv. Marcello Risi e il presidente del Consiglio Comunale Dott. Antonio Tiene, in rappresentanza della Città di Nardò; il Dott. Marcello Gaballo, presidente della Fondazione Terra d’Otranto, che per prima ha richiamato l’attenzione sulla ricorrenza.
Il programma di massima, suscettibile di miglioramenti ed integrazioni, prevede una terna di manifestazioni da tenersi tra il 10 e il 12 gennaio 2013, con grande risalto per la solenne Messa di ringraziamento che sarà celebrata dal vescovo nella Basilica Cattedrale il giorno dell’anniversario.
Nei mesi successivi saranno presentati alcuni volumi che illustreranno l’arte, la spiritualità ed i protagonisti della chiesa neritina nel corso dei secoli, prevedendo altresì un convegno di studi che chiarisca finalmente le vicende della cattedra episcopale, grazie al contributo di eminenti studiosi.
Diverse saranno anche le manifestazioni a carattere civico, che sottolineeranno l’importante evento che caratterizzerà il prossimo anno e che prevedono il coinvolgimento dell’intera città, con particolare attenzione alla popolazione scolaresca di ogni ordine e grado.
Fin dai primi secoli del Cristianesimo Nardò (Neretum), dominio dell’Impero Romano di Bisanzio, è stata sede vescovile. Come l’intero Salento era rimasta legata a Costantinopoli anche in seguito alle invasioni barbariche dell’Italia e, ai tempi dell’iconoclastia (VIII sec), divenne il rifugio di alcuni dei monaci basiliani che lasciarono Costantinopoli per sfuggire alle persecuzioni.
Le origini dell’attuale Cattedrale si perdono nella leggenda, che ne attribuisce la fondazione al conte Goffredo, conte normanno di Conversano, conquistatore della città nel 1054. All’epoca, sul luogo dell’attuale Cattedrale esisteva già una chiesa di probabile fondazione basiliana, nota come Sancta Maria de Nerito.
Sotto i dominatori normanni, che soprattutto per motivi politici appoggiavano la chiesa latina, S. Maria de Nerito fu ricostruita e trasformata in abbazia benedettina e tale restò fino al XV secolo. In quanto avamposto dell’espansione benedettina, fu sempre sostenuta dai normanni con donazioni e privilegi.
La costruzione fu iniziata nel 1080 e la chiesa fu consacrata il 15 novembre 1088: orientata secondo la direttrice est-ovest, come vuole la tradizione, e costruita sopra la basilica precedente, aveva una larghezza circa pari
Un viaggio attraverso le eccellenze artistiche, architettoniche e ambientali del territorio salentino è quello che intende presentare la Fondazione Terra d’Otranto con la pubblicazione della collana “Itineraria”, serie di guide brevi monotematiche dedicate ai principali monumenti del Salento.
Per ogni opuscolo – aggiornato rispetto a contenuti, fonti, bibliografia e iconografia – la collana propone un identico schema: si parte da una breve introduzione storica, volta a contestualizzare l’analisi delle singole opere (delle quali sono sinteticamente delineate le vicende costruttive e artistiche, fino ai più recenti restauri), per poi passare alla visita guidata vera e propria, dove ad essere illustrati sono i singoli elementi costitutivi del monumento, dell’opera o del luogo trattato, quasi fossero tappe virtuali di un itinerario. L’apparato iconografico accompagna costantemente il testo, focalizzando l’attenzione su manufatti, dettagli e decori di particolare pregio, mentre una planimetria dettagliata del monumento consente di seguire agevolmente la guida in loco.
Il primo numero della collana è dedicato alla Cattedrale di Nardò, eccezionale
Un viaggio attraverso le eccellenze artistiche, architettoniche e ambientali del territorio salentino è quello che intende presentare la Fondazione Terra d’Otranto con la pubblicazione della collana “Itineraria”, serie di guide brevi monotematiche dedicate ai principali monumenti del Salento.
Per ogni opuscolo – aggiornato rispetto a contenuti, fonti, bibliografia e iconografia – la collana propone un identico schema: si parte da una breve introduzione storica, volta a contestualizzare l’analisi delle singole opere (delle quali sono sinteticamente delineate le vicende costruttive e artistiche, fino ai più recenti restauri), per poi passare alla visita guidata vera e propria, dove ad essere illustrati sono i singoli elementi costitutivi del monumento, dell’opera o del luogo trattato, quasi fossero tappe virtuali di un itinerario. L’apparato iconografico accompagna costantemente il testo, focalizzando l’attenzione su manufatti, dettagli e decori di particolare pregio, mentre una planimetria dettagliata del monumento consente di seguire agevolmente la guida in loco.
Il primo numero della collana è dedicato alla Cattedrale di Nardò, eccezionale palinsesto architettonico dove si accordano inaspettatamente l’edificio romanico-normanno, i restauri settecenteschi di Ferdinando Sanfelice e gli affreschi eseguiti da Cesare Maccari sul finire dell’Ottocento.
Nella basilica cattedrale di Nardò da oltre due secoli si venera una bellissima statua dell’Addolorata, conservata in un’artistica teca lignea a base esagonale, protetta da vetri. Nella parte sottostante, fino a qualche anno fa, era collocata anche la statua del Cristo morto, poi definitivamente sistemata in un’urna in vetro, come si può vedere nella prima cappella della navata destra.
Le celebrazioni della Vergine Addolorata, o Desolata, come più facilmente ricorda il popolo neritino, sono utile occasione per soffermarci sull’opera artistica, molto interessante e particolare, la cui costante devozione è ancora molto sentita.
E’ una delle più belle statue processionali esistenti in città e ancora oggi, come accaduto per secoli, viene portata “a spalla” dalle devote nella processione del venerdì santo, seguendo quella del Figlio morto.
La figura ricalca l’iconografia tradizionale. Lo sguardo affranto è rivolto al cielo e i lineamenti felicemente resi dallo scultore conferiscono all’opera una suggestiva espressività, assolutamente consona alla tragicità dell’evento, per il quale si giustificano anche il pallore cutaneo e la posizione delle mani, in asse con il capo sollevato sul quale poggia una corona argentea.
A grandezza naturale, con struttura a manichino ligneo, richiama molto la tipologia della statuaria “da vestire” settecentesca napoletana. In mancanza
Nel precedente post si è accennato al reliquiario a braccio con la reliquia di San Gregorio, copia di un precedente rubato negli anni ’80. Oggetto di maggiore venerazione, almeno in questi anni, è il busto del Santo, portato processionalmente la mattina del 20 febbraio tra le vie principali della città, subito dopo il pontificale del vescovo in Cattedrale, accompagnato dalle confraternite cittadini, le Autorità religiose e civili ed un seguito di fedeli che stanno riscoprendo il culto del santo.
Bisogna dare atto che il neo-costituito comitato cittadino si sta impegnando da qualche anno a incrementare la devozione al santo, con festeggiamenti che senz’altro il popolo gradisce e finanzia.
L’inclemenza del tempo e le troppe feste cittadine oscurano il giusto tributo che dovrebbe rendersi al santo patrono, ma si spera in una crescente sensibilità per onorare al meglio una delle più antiche devozioni.
Mi piace in questa nota riproporre quanto già scrissi diversi anni fa nel libro sui Sanfelice a Nardò, visto che si continua ad avere incertezza sul prezioso busto settecentesco, spesso datato con incertezza.
Anche in questo caso la ricerca premiò e una serie di atti notarili, conservati nell’Archivio di Stato di Lecce, attestano che l’opera fu realizzata a Napoli nel 1717, come si evince anche dall’iscrizione posta sulla stessa.
A distanza di un anno il busto richiese un intervento di restauro e in un atto del notaio neritino Emanuele Bovino del 1718 si legge che il mastro argentiere Giovan Battista Ferreri di Roma era stato saldato dall’economo della cattedrale sac. Domenico Grumesi, per conto di Mons. Sanfelice:
Costituito personalmente avanti di noi in testimonio publico il Sig.re Gio: Batta Ferrieri della città di Roma, al p(rese)nte in questa Città di Nardò mastro Argentiere, il quale spontaneam(en)te e per ogni miglior via, avanti di noi dichiarò come hoggi p(rede)tto giorno esso Sig. Gio: Batta have presentato al Sig. D. Domenico Grumesi economo di questa mensa vescovile qui p(rese)nte una tratta pagabile ad esso da Mons(igno)re Il(ustrissi)mo R(everendissi)mo D. Antonio Sanfelice vescovo di questa Città sotto la data in Napoli li 15 del corrente mese di Giugno in somma di ducati quindici, come dalla suddetta tratta alla quale et havendo esso Sig. Gio: Batta richiesto detto Sig.re D. Dom(eni)co per la consegna e soddisfatione delli suddetti ducati quindici, e conoscendo il medesimo esser cosa giusta e volendo soddisfare la tratta suddetta che può hoggi p(rede)tto giorno esso Sig.re Gio: Batta presentialmente e di contanti avanti di noi numerati di moneta d’argento ricevè et hebbe detti ducati quindici dallo detto Sig.re D. Dom(eni)co p(rese)nte date et numerate di proprio denaro detto Il(ustrissi)mo e R(everendissi)mo Mons(ignor) Vescovo come disse, e sono a saldo, e complimento e fino al pagam(ento) della statua d’Argento del nostro Prò(tettore) S. Gregorio Armeno fatta fare nella Città di Napoli da detto Ill.mo R.mo Sig.re come disse, così d’Argento, metallo , oro, indoratura e manifattura e di qualsi’altra spesa vi fusse occorsa…
Nell’ atto dunque l’argentiere si dichiara soddisfatto della somma avuta, impegnandosi per il futuro di apportarvi ogni restauro, senza nulla pretendere, fatta eccezione per l’argento che gli sarebbe stato fornito per le necessarie riparazioni.
Essendo stato il busto realizzato a spese del Vescovo probabilmente egli ne restava anche proprietario, visto che con altro atto del medesimo notaio, ma del 20 febbraio 1722, il Sanfelice donò alla Cattedrale il nostro busto, il braccio d’ argento di S. Gregorio e quello, anch’ esso argenteo, col dito di S. Francesco di Sales.
Per amor di completezza occorre dire che tale donazione includeva altre suppellettili preziosissime, come alcuni “reliquiari d’ argento lavorati in Roma”, due “dossali o baldacchini”, un paliotto d’ argento, una cartagloria e la croce tempestata di smeraldi. Nella donazione infine si includevano duecento “stare di oglio, per farcene lo stucco della nostra Cattedrale, alla quale doniamo anche il cornicione di legno venuto da Napoli”.
Una successiva e definitiva conferma di tanta generosità la conferma ancora un atto notarile che viene stilato alla morte del vescovo Antonio, quando, nel 1736, fu redatto l’inventario dei beni da esso lasciati alla Chiesa neritina, conservati nell’episcopio e nella tesoreria della cattedrale.
Stralcio quanto già pubblicato a suo tempo in Antonio e Ferdinando Sanfelice. Il pastore e l’ architetto a Nardò nei primi del Settecento, a cura di M. Gaballo, B. Lacerenza, F. Rizzo, Quaderni degli Archivi Diocesani di Nardò e Gallipoli, Nuova Serie, Supplementi, Galatina 2003:
Die nona mensis Januarii 1736. Neriti.
E continuandosi il notamento et inventario sudetto con l’ assistenza de deputati e con l’ intervento de testimonii sottoscritti si procedè ad annotarsi et inventariarsi li beni riposti nell’ appartamento piccolo.
Prima camera: una porta con maschiatura e chiave e maschiatura di dentro.
Una carta con l’ effiggie di tutti i Pontefici con cornice d’ apeto.
Carte francesi sopra tela senza cornici n° 18 e sei paesini con cornici.
…
Un braccio d’ argento con la reliquia di S. Francesco di Sales calato in sacrestia consignato al Rev. Sig. Abb. D. Giuseppe Corbino Tesoriero.
Una statua di argento a mezzo busto di S. Gregorio Armeno protettore e […] vi manca un po’ di rame indorata, et à man sinistra vi manca un po’ di argento, con il piede indorato dentro una cassa, con l’ imprese di detto Ill.mo Sanfelice, e due vite di ferro per vitare la statua sopra detto piede; et una cassa con due maschiature e chiavi in dove stava riposta la detta statua e braccio, calate in sacrestia e consignate al detto Sig. Tesoriere.
E l’ inventario continua con l’ elencazione degli altri argenti conservati nella prima stanza:
Un paglietto di argento per l’ altare maggiore[1]con la sua cassa e maschiatura e chiave, sulla quale vi mancano ventidue vite piccole seu chiodetti et in […] vi manca un po’ di argento, calato in sacrestia e consignato al detto Sig. Tesoriero.
Un baldacchino di argento fatto dal medesimo per esporre il SS.mo con la sua veste, cui mancano 30 chiodetti.
Sei candilieri grandi di argento per l’ altare maggiore fatti dalla B.M. di detto Vescovo, calati in sacrestia e consignati al detto Sig. Tesoriero.
Due ciarroni di argento dal medesimo per fiori che si mettono su l’ orlo dell’ altare maggiore sù le teste de’ cherubini; in uno vi mancano tre chiodetti e nell’ altro quattro con le loro vesti; calati in sacrestia e consignati al detto Tesoriero.
Due reliquarii grandi di argento fatti dal medesimo, in uno de’ quali vi è l’ insigne reliquia delle fascie del S. Bambino, e nell’ altra de pallio […] et veste della Beata Vergine, sulli quali mancano due chiodetti d’ argento, calati in sacrestia e consignati al detto.
Sei altri reliquarii più piccoli di argento fatti dal medesimo, in uno de’ quali vi sono e reliquie di tutti SS. Apostoli; in un altro de Martiri; in un altro de Confessori; in un altro de Vergini; in un altro de Dottori della Chiesa e nell’ altro de Santi Abbati, in cinque de’ quali vi mancano alcuni pezzotti di argento nelli finimenti, quali si sono calati in sacrestia e consignati al detto Tesoriero.
Una pisside grande nuova di argento con la sua veste ricamata fatta dal medesimo, calata in sacrestia e consignata al detto Tesoriere.
Sei candilieri grandi inargentati per ogni giorno per il gradino dell’ altare maggiore e sei craste dell’ istessa maniera fatte dal medesimo, e sei fiori seu frasche di carta inargentata fatti dal medesimo, e calati in sacrestia e consignati al detto Tesoriere.
Sei fiori di seta di diversi colori, due grandi e quattro piccoli e due splendori argentati fatti dal medesimo, e calati in sacrestia e consignati al detto Tesoriere.
[1] Si tratta del bellissimo paliotto argenteo del 1723, fatto realizzare a Napoli da Giovambattista D’ Aura, per l’ altare maggiore della Cattedrale di Nardò e che in circostanze recenti è stato esposto alla visione dei fedeli.
“Antonio e Ferdinando Sanfelice. Il vescovo e l’architetto a Nardò nel primo Settecento”
a cura di Marcello Gaballo, Bartolomeo Lacerenza e Fulvio Rizzo, Lavello (Potenza), Congedo Editore-Galatina, 2003. 315×220 mm., 152 pagine, con 119 tra rilievi e fotografie b/n di Raffaele Puce. Supplemento I della collana “Quaderni degli Archivi diocesani di Nardò e Gallipoli”. 20 Euro.
Prefazione di B. Lacerenza, preside dell’Istituto Statale d’Arte. Contributi di S. Bove Balestra, A. Campo, R. Casciaro, G. De Cupertinis, D. Falconieri, M. Gaballo, L. Galante, V. Manca, F. Musumeci, P. Peri, F. Rizzo
Davvero fortunata ed interessante la serie di volumi curati dall’Istituto Statale d’Arte di Nardò. Il primo riguardava la chiesa ed il convento dell’Incoronata, il secondo la cattedrale di Nardò e le pitture di Cesare Maccari nel coro dello stesso edificio. Ora la scuola ha lavorato per un superbo progetto, l’analisi delle opere dell’architetto Ferdinando Sanfelice (Napoli, 1675-1748) in città, in concomitanza con l’episcopato del fratello Antonio (Napoli, 1660-Nardò, 1707), XXIV vescovo della diocesi di Nardò, in carica per circa trent’anni.
Questo volume, ben curato e con illustrazioni di effetto, illustra l’operato e l’attività pastorale dei due fratelli che cambiarono lo spirito e l’arte a Nardò nei primi decenni del Settecento.
Ben inseriti nel contesto napoletano (la loro famiglia era tra le più in vista nella capitale del regno), trasferirono a Nardò stuoli di maestranze e capolavori dei più grandi artisti napoletani, tra i quali opere di Olivieri, De Matteis, Luca Giordano e Francesco Solimena, maestro ed amico di Ferdinando.
All’elenco delle opere artistiche tuttora esistenti in città si affianca lo studio più approfondito della chiesa del Conservatorio, che Antonio volle realizzare per le fanciulle ospiti nell’istituzione e per conservare i suoi resti mortali.
Progetti, rilievi, studio di particolari eseguiti dagli studenti della scuola ed esauriente documentazione fotografica ne fanno un testo importante.
Non è da meno la ricerca archivistica, che vanta la riproduzione dei disegni dell’architetto conservati nel museo napoletano di Capodimonte e la pubblicazione integrale dell’inedito testamento del vescovo, ritrovato negli atti notarili dell’archivio di Stato di Lecce.
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