
di Marcello Gaballo
Passeggiando nella Cattedrale di Nardò, lo sguardo del visitatore è inevitabilmente catturato dal ciborio: una struttura fissa che sovrasta l’attuale altare maggiore in marmo, aperta sui quattro lati e composta da quattro colonne che sorreggono capitelli corinzi. Su di essi poggiano architravi corrispondenti e un cupolino piramidale ornato da ventiquattro colonnine. Questo elemento scenografico, realizzato provvisoriamente in legno su disegno di Antonio Tafuri, fu collocato in occasione dei radicali restauri condotti alla fine dell’Ottocento, quando si decise di rimuovere l’insieme delle sovrastrutture barocche realizzate nel secolo XVIII da Ferdinando Sanfelice (1675-1748), che avevano ridefinito in profondità lo spazio interno della chiesa.
In tale contesto l’antico altare maggiore barocco, insieme alla balaustra del presbiterio, fu traslato nella cappella di San Gregorio, dopo il consolidamento della sua volta, così da conservarne almeno in parte la memoria all’interno della fabbrica sacra.
Le colonne che oggi sostengono il ciborio non appartenevano originariamente alla Cattedrale, e la loro storia, poco nota, si ricostruisce grazie a un documento datato 23 marzo 1895, conservato in originale presso l’Archivio Storico Diocesano di Nardò. Si tratta di una lettera che permette di seguire le modalità con cui quei preziosi elementi lapidei giunsero da Roma fino in Terra d’Otranto.
La vicenda prende avvio da una corrispondenza tra Giulio Sangiorgi, titolare della prestigiosa Galleria Sangiorgi di Roma con sede a Palazzo Borghese, e monsignor Giuseppe Ricciardi, vescovo di Nardò. La Galleria Sangiorgi, tra le più rinomate case d’arte e di antiquariato dell’Italia postunitaria, era un punto di riferimento per collezionisti ed enti ecclesiastici desiderosi di arricchire i propri spazi di arredi e opere d’arte.
Nella missiva, inviata per il tramite dell’archeologo e storico dell’arte Giovanni Battista Boni, ispettore ministeriale presso la Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti, Sangiorgi comunicava di poter offrire al presule neretino quattro colonne di marmo verde antico, alte 2,30 metri e dal diametro di 25 centimetri, “in buonissimo stato, non scheggiate né troncate, ma in perfetta condizione”.
Il prezzo pattuito era di 500 lire, somma che comprendeva anche l’imballaggio “a regola d’arte”, mentre restavano a carico della committenza le spese di trasporto da Roma a Nardò. La lettera non solo documenta l’acquisto, ma testimonia anche la cura e l’attenzione con cui il vescovo Ricciardi intese dotare la sua Cattedrale, allora in fase di restauro, di un elemento nobile e di forte valore simbolico. Il marmo verde antico era infatti tra i materiali più ambiti dalle grandi committenze ecclesiastiche e nobiliari dell’Ottocento: evocava la magnificenza della classicità e insieme offriva un segno di continuità tra la tradizione romana e il nuovo slancio liturgico.
Grazie a quell’acquisto le quattro colonne – due di marmo africano e due di cipollino – furono trasferite da Roma a Nardò e collocate a sostegno del ciborio, dove ancora oggi si ammirano. Il loro colore intenso e la compattezza della materia conferiscono all’insieme un tono di solennità che fonde armoniosamente la suggestione dei marmi antichi con la spiritualità della comunità locale.
La decisione di importare da Roma un materiale tanto prezioso rivela la volontà del vescovo Ricciardi di legare la chiesa madre della diocesi a un respiro universale, attingendo alle risorse della capitale per nobilitare l’altare, cuore liturgico e simbolico dell’edificio.

