Armando Perotti (1865-1924): fermare parvenze fugaci in non mortali rime

 

di Renato De Capua

Armando Perotti (Bari 1 febbraio 1865- Cassano Murge 1924) fu un poeta, uno studioso di storia locale e un assiduo collaboratore della Gazzetta di Puglia[1] (oggi Gazzetta del Mezzogiorno), testata giornalistica che, dopo la morte dell’autore, intraprese l’iniziativa di divulgarne l’opera scarsamente conosciuta, raccogliendo e pubblicando i vari scritti che potevano riscontrarsi in maniera non sistematica e sparsa in giornali, riviste letterarie e di storia locale, nonché in copie tipografiche numerate e difficilmente reperibili, essendo state prodotte in tiratura limitata.

Pertanto, grazie all’impegno della Gazzetta, di colleghi ed estimatori, nonché della casa editrice Giuseppe Laterza & figli, venne pubblicato il volume Poesie[2], che funge a noi da stella polare nel fugare la memoria dell’autore dalle ombre del passato.

L’opera, che ha visto all’attivo un organico comitato[3] di studiosi adoperarsi per la sua pubblicazione, in particolare nella persona di Giuseppe Petraglione[4] , ha visto la luce nel 1926 (due anni dopo la dipartita terrena del Nostro) e offre un profilo biografico e bibliografico sommario con delle linee di poetica dell’autore.

Essa accoglie due raccolte poetiche di Perotti. La prima, Il libro dei canti (prima edizione 1890) venne scritta dall’autore all’età di venticinque anni e riflette una chiara adesione al modello carducciano, molto in voga negli autori di quegli anni, per il fascino classicheggiante su di essi esercitato dal poeta di Valdicastello.

Nel volume confluiscono poi numerose liriche pubblicate in vari periodici tra il 1882 e il 1888; un dato di non trascurabile importanza è che, dopo la pubblicazione del Libro dei Canti, Perotti si dedicò meno all’attività poetica, prediligendo l’attenzione per gli studi di storia locale e patria.

Dovremo attendere i primi del Novecento per un ritorno alla lirica da parte dell’autore, dimostrata nelle intenzioni per la volontà di pubblicazione della seconda raccolta di liriche Or da pioggia or da orza.

Il progetto editoriale fu iniziato, ma non portato a compimento dallo stesso, a causa della sopraggiunta morte, che lo colse nel 1924.

Disponendo del disegno dell’opera, i curatori del volume di liriche, hanno cercato di attenersi il più possibile fedeli alla progettualità dell’autore, aggiungendo alle quarantatré poesie manoscritte e selezionate dal poeta quando egli era ancora in vita, altre venti, tratte dalla sterminata e disseminata produzione a cui si poteva facilmente accedere, proprio per la notorietà del Nostro.

Inoltre tale integrazione fu dettata dalla presupposta incompletezza del manoscritto di partenza, al cui interno erano state lasciate volutamente alcune pagine bianche tra una lirica e l’altra, nonché nell’indice; tali dovevano essere probabili sedi di ulteriore aggiunte sulle quali l’autore si era riservato di riflettere.

I curatori del volume, come dichiarano apertamente nello scritto in forma di postfazione Notizia intorno alla presente edizione[5], sono ben consapevoli che loro scelte integrative forse non sarebbero state pienamente condivise dall’autore, presentato come un uomo dal carattere schivo e fortemente critico, specie nei confronti dei propri scritti. Pertanto, nel porgere l’opera ai lettori, i curatori hanno avvertito l’esigenza di giustificare le motivazioni di una scelta, che potrebbe sembrare ai più azzardata e arbitraria senza una resa formale delle volontà dell’autore:

“E tra il pericolo di essere più severi dell’autore stesso, e quello di essere più indulgenti, si è ritenuto di dover protendere verso l’indulgenza e includere anche qualche lirica un po’ sfiorita dall’ala del tempo, e qualche breve composizione occasionale scritta forse per condiscendere a un’amichevole richiesta, o per adempiere un dovere di cortesia”[6].

Prendendo atto di tali parole, la scelta dei curatori ci risulta più chiara e oculata, adottata ai fini di conferire al progetto una veste di completezza e in adesione quasi filologica all’intenzionalità del suo autore, della quale il comitato di redazione poteva avere contezza e diretta conoscenza, dato il rapporto di consolidata stima nei riguardi dell’autore.

Inoltre le aggiunte si presentano opportunamente collocate, all’interno del nucleo originale dell’opera, ed esplicitamente segnalate nella sede indicata e nel criterio dell’ordinamento adoperato:

“Le poesie aggiunte a quelle raccolte dall’autore sono quindi – come si è già detto – venti, e corrispondono ai numeri VI, VII, VIII, IX, X, XI, XII, XV delle Intime, XII, XIII delle Nereidi, I, II, III, IV, V, VI, VII, IX, X e XIII delle Varie[7].

Le Intime e le Varie seguono quasi sempre l’ordine cronologico, permettendosi il margine di qualche deroga, secondo un consueto modus operandi dell’autore, nel tentativo di adeguarsi a una più vicina affinità tematica con le altre liriche.

Il manoscritto, lasciato da Perotti, fu ritrovato in uno stato lacunoso: talvolta c’erano la mancanza di un verso o di una parola. Le varie omissioni si presentavano o perché alcune liriche furono trascritte mediante l’esclusivo ausilio della memoria, e quindi senza un possibile raffronto con una fonte fissata su un supporto scrittorio oppure perché lo stesso autore avrebbe voluto apportare lievi correzioni o variazioni al testo.

In questo caso i curatori hanno opportunamente emendato i testi, risalendo alle prime redazioni degli stessi, tenendo ovviamente conto del materiale già edito e delle esplicite correzioni dell’autore, ai loro occhi fruibili e accertate. Ad ogni modo il volume Poesie ha cercato di rispettare metodicamente e dal punto di vista testuale quelle che risultavano essere le ultime intenzioni dell’autore.

Sulla produzione poetica di Perotti, torneremo in alcuni prossimi scritti per meglio esplorarne i camminamenti, volendoci soffermare specialmente su come egli abbia saputo cantare in versi il territorio salentino e i suoi paesaggi. Basti pensare che, proprio per tali meriti, la città di Castro(LE) gli ha dedicato una piazza con un suggestivo affaccio sul mare e vicina al Castello Aragonese e al Museo Archeologico.

Intanto, per dare un assaggio dell’abilità poetica dell’autore e per un liminare approccio alla sua poetica, leggiamo il testo Lasciateci sognare: noi viviamo di sogno[8], che di seguito riporto per intero con l’aggiunta di alcune brevi note di natura esegetica ed editoriale, e di un commento.

 

Lasciateci sognare: noi viviamo di sogno

Lasciateci sognare: noi viviamo di sogno;

lasciateci sognare.

Il poeta ha bisogno

di tutto ciò ch’è inutile alla gente volgare.

 

Codeste visioni un nonnulla le forma

dentro all’anima inferma;

quando par ch’ègli dorma,

il poeta le vede, e le chiama, e le ferma.

 

Ei le vede. O profili rubati al Perugino[9],

o tramonti lunari,

o labbra di carmino[10]

o flottiglie[11] vaganti nel silenzio de’ mari,

 

o profumi di fiore che hanno vita ed essenza,

o accordi di mandole

divenuti parvenza,

o popoli viventi di suoni e di parole!

 

Ei le chiama. Venite, o fuggevoli torme,

al fanciullo mortale.

E discendon le forme,

e discendono i sogni, senza un fremito d’ale.

 

Ei le ferma. Io vi tengo nelle braccia tenaci!

Che lavoro sublime,

o parvenze fugaci,

è questo di fissarvi in non mortali rime!

 

Volendo effettuare una comparazione di natura linguistica e stilistica tra la prima redazione del testo apparsa sui periodici La battaglia bizantina e il Corriere delle Puglie (entrambe risalenti al 1888) con la seconda e definitiva stesura, pubblicata prima ne Il libro dei canti (Perotti A., ed. Vecchi, Trani 1889-90) e poi in Poesie (Perotti A., op. cit., 1926), è possibile riscontrare pochi ma interessanti cambiamenti ed emendamenti, voluti dall’autore.

Complessivamente, in tutto il testo, c’è una revisione  generale della punteggiatura, atta a rendere il ritmo poetico più fluido e lineare, senza spezzare la sintassi e ostacolarne la lettura; l’interiezione vocativa “o” viene preferita a “oh” probabilmente per una lettura più agevole e meno enfatica; all’arcaismo “ch’anno” del v.13 viene privilegiata la forma corrente “che hanno”; è mantenuto, invece, l’arcaismo di natura latina “ei”, indicante il pronome di terza persona singolare maschile e riferito al “poeta”, proprio per lasciare anche nella sintassi una patina linguistica di classicità, che è ben congeniale se la si correla al soggetto cui si riferisce. Il lessico è perlopiù medio con l’impiego talvolta di arcaismi e di vocaboli specialistici, come abbiamo già notato, e ancora  l’uso di raffinate allusioni e perifrasi.

Tra l’iniziale redazione e quella definitiva si riscontrano due significative variazioni lessicali:

al v. 14 il termine “preludii” viene sostituito con “accordi”; al v. 24 l’espressione verbale “fissarvi” viene preferita a “tradurvi”.Si può brevemente congetturare sul perché di queste scelte.

Nel primo caso bisogna far riferimento all’area semantica della musica, per cui è possibile definire il preludio come un’introduzione strumentale a un componimento musicale, mentre l’accordo è l’esecuzione armoniosa e simultanea di tre o più suoni appartenenti a una stessa tonalità, stando alle norme dell’armonia classica.

Sicuramente Perotti ha preferito il lemma “accordi”, proprio per dare alle “mandole” del v. 14 una capacità espressiva già in sé unitaria e portatrice di un messaggio originario e compiuto. All’armonia dei suoni potrebbe corrispondere quella della natura da cui essi stessi vengono generati. Il termine “preludii”, infatti, non rendeva pienamente l’immagine dell’unità primordiale che il poeta è in grado di cogliere, ma agli altri passa inosservato. Per quel che concerne la revisione del v. 24, il poeta avrà certamente preferito “fissarvi”, poiché in esplicita connessione semantica con “le ferma” del v.8. Tale variazione lessicale non si discosta troppo dal messaggio iniziale e dal lemma di partenza, anzi potremmo dire che lo inglobi: si potrebbero fissare parole in “non mortali rime” senza un processo di traduzione aprioristico? Cos’è la traduzione se non il voler cercare di fissare, in maniera goethiana, l’attimo mediante la parola?

Il testo appare come un’esplicita richiesta, una rivendicazione del desiderio di libertà nel dispiegare il proprio animo al sogno.  L’io lirico si fa portavoce e carico non solo delle sue stesse esigenze, ma anche di quelle di ogni poeta, poiché egli necessita “di tutto ciò ch’è inutile alla gente volgare”.

E in questo punto si fa riferimento a tutto ciò che cattura l’attenzione della propria anima sensibile, ciò che sfugge ai più e che invece egli non solo vede, ma chiama (e dunque riconosce) e ferma.

Questa precisazione, quest’accostarsi di parole così accurate e definitorie della natura dell’azione, costituisce un vero e proprio climax ascendente, che rammenta ai lettori il carattere specifico della poesia, e dunque, una delle funzioni della letteratura: fissare, attraverso le parole, ciò che vuol fuggire, quell’attimo che trascolora nell’aria di un paesaggio, in un campo aperto e preda della distrazione.

Ecco rivelarsi il compito del poeta: catturare tali visioni, parvenze di per sé sfuggenti ed effimere. Il poeta le stringe tra le sue “braccia tenaci”, cerca un dialogo con gli uomini. Il suo sguardo guarda lontano per poter realizzare un fine di più alta aspirazione, “un lavoro sublime”.

Tradurre tali “parvenze fugaci” in “non mortali rime”, fermare per poco il corso della realtà e renderlo eternamente poesia.

 

Note

[1] Per inciso, ma non in maniera superficiale, si ritiene utile ricostruire il rapporto tra tale testata giornalistica e Perotti. La sua collaborazione, infatti, è già documentabile dal 1887, come attestano i dati presenti nell’Archivio storico della Gazzetta del Mezzogiorno. Proprio nel 1887, infatti, Martino Cassano (1861-1927), già fondatore del periodico settimanale La settimana, edito in Bari, aveva fondato il Corriere delle Puglie, con il quale Perotti inizia subito a collaborare in qualità di articolista, critico, poeta. Il quotidiano voleva colmare la mancanza di un mezzo mediatico di tale impianto strutturale nel capoluogo pugliese; e sebbene, in quegli anni il tasso di alfabetizzazione fosse ancora piuttosto basso, nel 1890 il quotidiano riuscì a espandersi e ad aprire una filiale a Lecce. Successivamente il 26 febbraio 1922, nel panorama dell’editoria dei quotidiani pugliesi, esce La Gazzetta di Puglia a firma del giornalista Raffaele Gorjux (1885-1943). È il 1923 e il Corriere delle Puglie cessa le sue pubblicazioni; l’anno  successivo, La Gazzetta di Puglia aggiunge, sotto il nome della propria testata, la testatina Corriere delle Puglie, ereditando così tutti gli anni di vita editoriale del Corriere, attribuendo alla nuova testata un carattere di continuità e di autorevolezza per la sua rete di diffusione. Infine, dal 26 febbraio 1928, appare la nuova testata La Gazzetta del Mezzogiorno, che reca in piccolo i nomi delle due testate precedenti, quasi a voler essere memore del proprio punto di partenza. Ecco, dunque, ricostruita, sulla base delle fonti a nostra disposizione, la collaborazione di Perotti con la Gazzetta di Puglia (già Corriere delle Puglie).

[2] Perotti A., Poesie, Gius. Laterza & figli, Bari 1926.

[3] Prima dell’indice, presente nella parte finale dell’op. cit., sono presenti, in una pagina a parte, i nominativi del comitato per la pubblicazione delle opere di Perotti. Esso fu formato da Giuseppe Petraglione, Presidente e curatore della postfazione indicante le principali informazioni sulla biografia, sull’attività letteraria dell’autore e sui criteri di ordinamento filologico dell’edizione delle Poesie dagli stessi curata e, in questa sede, presa in esame; Francesco Colavecchio, Segretario; e ancora gli altri componenti: Luigi De Secly, Francesco Nitti, Filippo Petrera, Nicola Tosti, Michele Viterbo.

[4] Giuseppe Petraglione (Lecce 1872- Bari 1947), docente di Lettere negli istituti di Milano e Bari; attivo intellettuale, collaboratore di numerose testate giornalistiche, studioso di storia locale e letteraria; scrittore di prose e versi.

[5] Op. cit. pagg. 255-261.

[6] Op. cit. pag. 259.

[7] Op. cit. pag. 260.

[8] Il componimento preso in esame, venne pubblicato dapprima in un numero della rivista letteraria La battaglia bizantina di Bologna nel 1888; successivamente replicato sul Corriere delle Puglie, Bari 6 maggio 1888, anno II, n. 125, pag. 2.

Lo stesso sarà incluso nella prima edizione de Il libro dei canti, stampato dall’editore Vecchi a Trani in una pregiatissima edizione a stampa in tiratura limitata e recante la data 1890, ma effettivamente pubblicata già nel 1889 (per tale nota di carattere editoriale, si veda lo scritto a mo’di postfazione a cura di Petraglione G. nell’op. cit. di Perotti A., 1926, pag. 256). E ancora la lirica si ritrova nel volume Poesie (Perotti A., 1926), all’interno della riproduzione fedele de Il libro dei canti, costituente la prima parte dell’opera.

[9] Il riferimento è al pittore italiano Pietro di Cristoforo Vannucci (1448-1523), noto anche con gli appellativi di “Perugino” o di “divin pittore”. Perotti, in questo verso, associa i dettagli sopraffini, percepiti dal poeta, alla purezza formale che impernia le opere dell’artista, dove i personaggi appaiono svestiti della loro terrestrità in una veste angelicata e sublimata.

[10] Il termine, come aggettivo e sostantivo, deriva dal latino medievale carminium e significa “scarlatto”.

[11] Termine specialistico che indica un raggruppamento di navi sotto un solo stesso comando.

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Un commento a Armando Perotti (1865-1924): fermare parvenze fugaci in non mortali rime

  1. E veramente piacevole intrattenersi a scoprire geniali artisti della nostra terra di puglia…molta riconoscenza perciò alla fondazione che continuamente e con particolare sensibilità ci aggiorna

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