di Cristina Manzo
Quando tornai al mio paese nel Sud,
dove ogni cosa, ogni attimo del passato
somiglia a quei terribili polsi di morti
che ogni volta rispuntano dalle zolle
e stancano le pale eternamente implacati,
compresi allora perché ti dovevo perdere:
qui s’era fatto il mio volto, lontano da te,
e il tuo, in altri paesi a cui non posso pensare.
Quando tornai al mio paese del Sud,
io mi sentivo morire.
(Vittorio Bodini) [1]
L’idea di turismo, come filosofia di viaggio può essere ricondotta a una sorte di memoria inconscia della condizione nomade dell’umanità. Molte volte si comincia un viaggio per uscire momentaneamente da sé, fare un giro e ritornarvi; per orientarsi verso qualcosa che ci distragga momentaneamente dal peso dell’abitudine; perché si ha il ricordo e il richiamo di una terra che abbiamo già visitato o di cui abbiamo sentito parlare e per il sospetto che essa potrà essere determinante nella nostra vita. Ma, come quando Ulisse intraprese la sua odissea, è nel corso d’opera, in itinere, che accade l’inaspettato che cambia il corso dei giorni. Ad un certo punto della vita non siamo più noi a cercare i viaggi ma sono loro a cercare noi. La vita non è mai dove è ma dove si arriverà. Una ricerca di sé sempre in partenza, in attesa di un approdo per dipanare la matassa della vita, in cui siamo aggrovigliati e chiusi come in un bagaglio, prima di arrivare alla meta. Quanta ironia c’è nelle carte d’identità, nei passaporti e negli strumenti indispensabili del viaggio: ci sono tempi, luoghi, dimensioni e professioni nelle quali ci si conosce bene, eppure non ci si riconosce mai, perché ogni volta è tutto nuovo, è come ricominciare ogni volta daccapo. Ma che differenza c’è tra il trovare e l’essere trovati? Una diversità che affascina nel momento fondante della propria esistenza, quando l’io riconosce la sua dimensione e la dimensione riafferma l’io; quando l’anima chiama al viaggio sopra ogni cosa, superando anche la paura di smentirsi. Nel viaggio abita l’ironia profonda di non sapere mai a cosa si va incontro e in che modo esso cambierà il percorso della nostra vita. L’anima e la terra sono le note in sintonia a cui l’uomo, in corso di ricerca, dovrebbe evitare di contrapporre l’elemento razionale. E, tuttavia, anche l’Odisseo ad un certo punto del Nostos è combattuto tra l’irrequietezza originata nel bisogno di vagare e di conoscere e la razionalità del ritorno a casa e agli affetti. Tutto sta nell’ambiguità dello scambio, della novità di culture, tradizioni, cibo, persone, prospettive e, nel fine da raggiungere, per mediare la nostra esistenza con la felicità. Potremmo dire che ad un certo punto si è rapiti da un bisogno di avventura e di incognito come quello che rapì la mente del Don Chisciotte di Cervantes che, in groppa a Ronzinante, al fianco di Sancho Panza, si dedicò all’esplorazione delle terre della Mancha.
Il Salento, nel profondo sud, non è mai stato luogo di confine ma piuttosto quel “sud nel sud”, quell’idea di “luogo non luogo” dalla quale è difficile uscire e a cui è altrettanto difficile non tornare. Il Salento è sin dall’antichità quella terra-paese che bisognerebbe attraversare tutta, per poterla trasformare in un racconto itinerante di poesia proprio come nel pensiero di Bodini e di Carmelo Bene che, per consegnare voce e visione a quella poesia dell’amico Vittorio, avrebbe voluto compiere quel Don Chisciotte itinerante nel “Salento della Mancha”. Progetto purtroppo rimasto irrealizzato. ( Nel 1975, siamo stati vicini di casa, io e Carmelo, al secondo piano del palazzo Bozzicorso, in via degli Antoglietta n° 42, dove io abitavo con mia nonna. Ricordo che ero appena undicenne e una mattina ci incontrammo sul pianerottolo mentre lui apriva la porta, di ritorno da uno dei suoi impegnatissimi viaggi, (infatti restò solo pochi giorni) e quella era la casa in cui da Campi Salentina si era trasferito con la famiglia. Vedendo che io sbirciavo curiosa, all’interno, mi fece segno di entrare e io lo feci, mi fermai nell’ingresso e scambiammo qualche parola, era appena morto mio padre. Carmelo era molto gentile e carismatico, una personalità stravagante e immensa, con il senno di poi, (intendo per me che, ancora piccola, non conoscevo la sua importanza). Mi è sempre rimasto impresso quell’incontro. Per i condomini del palazzo non era chiaro se la presenza del “personaggio” fosse gradita o scomoda ma, di sicuro nelle mie memorie ricordo che lo definivano “uno strano”. Proprio la sua città è stata quella che meno lo ha capito e ha riconosciuto il suo talento. Quando mise in scena l’Amleto al teatro Ariston, i leccesi gli furono apertamente ostili e quindi, come dare torto a quell’animo straordinario che sosteneva di « essere nato al Sud del Sud dei santi e che del Salento era orfano»? E questo è forse, uno di quei pochi casi inversi, in cui per concedere libertà all’immenso genio, si ebbe bisogno di lasciare un luogo amato, pur portandolo nel cuore.
Il Salento che Carmelo sognava è una parte di quel sud che con grande fatica, eppure senza sforzo, si era impegnato a raggiungere il resto dell’Italia e dell’Europa dopo la sua unità ma che, pur tuttavia, aveva sempre conservato con onore e gelosia quella piccola distanza silenziosa nel fiume del dialogo con il resto dei luoghi. Ed è stata questa rispettosa distanza che ha permesso al Salento di restare “Il Salento” nei cuori di tutti coloro che l’hanno lasciato e poi ritrovato o semplicemente scoperto. Il Salento degli incontri e degli scontri, della terra e del mare, dell’accoglienza e dell’ascolto, dei tramonti e del dolce naufragare. Delle partenze, dei transiti e dei ritorni.
Forse quel giorno avrò sognato… ma di certo lungo la via, nei borghi e attraverso i campi infiniti della Mancha, ho ritrovato il piacere del viaggio povero e sconclusionato, e ho sentito mie le parole che un Sancho, reso più esperto da tutte le peripezie attraversate, confida alla moglie dopo il suo ritorno: “Non c’è al mondo cosa più piacevole per un uomo che l’esser l’onorato scudiero di un cavaliere errante che va in cerca di avventure … Che bella cosa che è aspettare gli eventi attraversando monti, frugando selve, scalando picchi, visitando castelli, alloggiando in locande a volontà…”[2].
Chi torna da un viaggio non è mai la stessa persona che è partita. A maggior ragione se, il “viaggio” è stato nel sud che, con la sua poesia, ti scava dentro, un solco nell’anima che nessun’altro luogo può riempire.
[…] Non era qui sorta, nella Magna Grecia, la prima splendida civiltà? Non erano qui nate, in Palermo e nella Puglia, al tempo di Federico II, la letteratura e l’arte nazionale? Non era sempre questo l’incantato paese «dove fiorisce l’arancio»? Tutti credevano che fosse la terra promessa, colma di tutti i doni celesti, a’quali il mezzogiorno «troppo favorito dalla natura», secondo il Bonghi, «eccezionalmente cospicuo» a detta del Sella, «singolarmente ricco», per bocca del Depretis, «il più bello, il più fertile paese d’Europa», a giudizio del Minghetti, il quale parlando alla camera nel giugno del ’61, metteva in prima linea, tra le inesauribili occulte miniere della nostra fortuna, la nuda steppa, che è tutta un bassofondo marino quaternario, del tavoliere di Puglia: già prima di loro, non lo aveva forse descritto Vincenzo Cuoco, esule a Milano nel 1804, come il «più ferace sotto più dolce clima», e Pietro Colletta presso a morte, in Firenze il 1831, quale «terra ubertuosa sotto cielo lascivo», e Petrucelli della Gattina, profugo a Torino nel 1849, «un paese per cui Iddio esaurì la sua opulenza di creazione»[3]? Il termine “viaggio” nel dizionario indica uno spostamento in cui è dato sempre, un luogo di partenza ed un luogo di arrivo. Ma se fosse un mero spostamento, un transito e basta, non riscuoterebbe tanto interesse da parte di chi lo compie. Attraverso il “Nostos”, in cui si origina la nostalgia, il dolore, la mancanza, la tensione, il desiderio del nuovo o del vecchio già conosciuto, avviene il “ritorno”. Gli occhi di ogni viaggiatore sono importanti per descrivere un luogo, come pure è importante la visione di chi ci vive da sempre e non lo ha mai lasciato, ma niente, e ripeto “niente” è così incisivo come la storia di chi lo ha scelto seguendo una sorte fatale e lo ha abitato per dare un percorso nuovo alla propria vita. Nel caso del Salento, per esempio, non sono né gli abitanti che lo vivono da sempre né i turisti che lo visitano per poi ripartire che ce lo possono raccontare; possono farlo, invece, tutti quei personaggi venuti da lontano a scoprirlo quando ancora esso non era una moda ma, un modo di vivere, fiero e ineguagliabile testimone di tradizioni, libertà e cultura in bilico tra afa e tramontana, scirocco e respiro del mare.
(1 – continua)
Note
[1] Vittorio Bodini, Tutte le poesie, (a cura di Oreste Macrì), Controluce, Nardò, 2015.
[2] https://www.scuoladelviaggio.it/alla-ricerca-di-don-chisciotte-it.php
[3] Francesco Melzi D’Eril, Civiltà italiana dell’Ottocento, Mursia, Milano, 1966-1968, p.238,239.
Davvero magico.
Grazie!
Flavia grazie.