Epopea del Natale

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di Lucio Toma

 

Che farsene del Natale? Dei personaggi del presepe? Perché dovremmo ancora baloccarci con questo giocattolo? Non ci coinvolge solo il tempo dell’infanzia, per poi essere relegato nelle chincaglierie puerili? Se non possediamo affezioni, barlumi di sentimento verso i riti, perché semplicemente non dimenticarli e lasciarli scomparire? Perché questa ostinazione?

Siamo capaci di viverlo come viene, gustando il piacere di stare insieme, degli abbracci, dei sorrisi, dei regali? Proprio questi sono spesso causa di rifiuto verso una apparato di comportamenti che francamente vorremmo evitare. Nel mezzo di una giostra di pensieri, di voci che discutono, che si tirano da una parte all’altra. Sullo sfondo della battaglia, una macchia di luce (una cometa?), spesso offuscata da nubi di dubbio, come un occhio ci osserva lacrimando inquietudine.

Il lavoro di Wilma incarna questa ostinazione a riproporci la “faccenda”, ma è un’ostinazione soffice e, quello che fa più timore, sincera. I personaggi di “Voci per un presepe” sono sotto l’influenza di un bisogno metafisico. Il punto di vista cristiano non è una limitazione, ma una chiave. Questo è un bisogno che non dipende dalla loro condizione di povertà, non è il loro oppio. È la loro urgenza ad infiammare la cometa, a farne un fenomeno più che astronomico. Se distogliessero lo sguardo dal cielo, se interrompessero i loro passi, la cometa si spegnerebbe all’istante come una stella filante. Si può fare a meno di questo bisogno? Se ne può fare a meno, certo, ma resterebbe sempre in fondo un frammento caldo che pungolerebbe l’animo per tutto il tempo della vita. Nessuno sfugge a questa urgenza tra i personaggi del presepe di Wilma, neppure quelli in apparenza più calcolatori. Sono convinto che sotto la saccenza dello Scriba e l’interesse del Mercante si celi il maggior bisogno. Il loro passo è il più svelto verso la stalla e non per dimostrare l’ignoranza della gente o per la fretta di fare affari. È un malanno da cui i personaggi sono affetti, proprio come lo siamo noi in quanto uomini. Li vediamo alcuni di questi personaggi sulle tavole di Marco Musarò. Scolpiti in blocchi di colore, restituiscono una solidità in cui tutto appare come un mosaico di pietra dura, avvolto dalla morbida luce notturna. Con le sue tavole, ci racconta, in modo personale, i diversi punti di vista, la peculiare sospensione di ogni figura davanti all’insolito avvenimento, che accade in realtà nel firmamento interiore. Possiamo avvisare un silenzio di stupore, un loro pensiero giocoso o di carità, qualcosa di pratico che si dicono sottovoce.

Le voci che si alternano nel libro sono voci di una coscienza unica che oscilla tra incredulità e abbandono, tra il vizio della ragione e l’assurdità del dono. Queste voci, sebbene usino a volte le parole di speranza, p.es “[…] Colui che ci sgraverà dal peso della vita e ci darà ali per volare[…]”, la speranza l’hanno già risolta. I loro passi verso la stalla sono già un volo, carichi di un’energia che li ha riempiti, e ha nutrito il loro bisogno.

La notte del presepe non è una notte silenziosa. Alle voci immaginate da Wilma, se ne aggiungono altre. Non è affatto difficile vedere i musicisti e i cantanti protagonisti del disco aggregarsi ai personaggi del presepe, avvicinarsi piano e sedersi intorno alla culla. E poi incominciare a suonare i loro strumenti, sommare una a una le loro voci per la Strina oppure intonare la ninna nanna per il bambino. Immaginiamo, per puro caso, oggi, di avere l’animo intirizzito, che ha abusato del cinismo, delle sicurezze di una ragione utilizzata con sicumera. Sguainiamo il coltello della ragione, contro nemici invisibili, mentre sono le nostre mani a sanguinare. Cosa potremmo augurare a noi stessi? Rispondono volti amici che aprono la porta, t’offrono un bicchiere, ti fanno accomodare davanti al camino e cantano e suonano con tanta sincera lietezza che vorresti spaccare il bicchiere e fuggire via. Ma è troppo tardi ormai, perché t’è sfuggito il primo sorriso e non puoi più tornare indietro. Ahimè sei a tuo agio, sei fregato e ora vuoi restare nel cerchio che ti sembra perfetto e non importa se auguri o meno buon Natale, sei un ceppo anche tu ora del focolare. Qualcuno maledica la nostra debolezza umana che ci lascia sensibili alla musica, al vino, a un sorriso.

È un disco briccone, che s’insinua nell’orecchio, velenoso. Ci propone la sfacciataggine di temi tradizionali, l’arroganza di lingue minori in via d’estinzione e perfino (sic!) del dialetto. Ci ha preso già la mano e intontito dai ghirigori del fuoco, batti una gamba, o forse lasci andare gli occhi ad una ninna nanna, o ti maledici di non sapere bene le parole di quella canzone lì e poi ti culli sul quel tema di chitarra che è piacevole sentire prolungare ancora e ancora.

Nel disco avviene un incontro luminoso di esperienze artistiche diverse che vivono la propria terra amandola a cuore aperto, a cuore piagato dalla sua modestia, a cuore lacerato dalla sua ricchezza e bellezza svendute per pochi soldi, ma con dignità enorme e forza bellissima. Forse a chi fa il mestiere del musicista in questo angolino d’Italia, sembra delle volte di suonare in una stalla, per pochi zotici accorsi per una curiosità in apparenza molto poco metafisica. Ma il loro bisogno, come quello delle “Voci”, li tiene in equilibrio, li sostiene e loro non lo tradiscono, grazie ad un’ostinazione che sfiora la follia. Sono per noi riferimento, come una cometa alimentata dal calore che questa musica sprigiona. Siamo invitati a metterci in cammino.

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