di Armando Polito
Quaranta anni fa io e mio cognato Giuseppe eravamo i sacerdoti (almeno io, perché lui, che all’epoca aveva non più di dieci anni, poteva essere al massimo chierichetto …) di un rito che si compiva puntualmente, a meno che non fosse in atto un temporale, quasi ogni sera d’estate, una o due ore dopo il tramonto. Muniti di una lanterna ad acetilene (poi sostituita da una più costosa ma pratica torcia a pile ricaricabili) e di una specie di retino (caritaru) da noi stessi confezionato con un angolo di sacco fissato ad tondino di ferro le cui estremità piegate a 90° costituivano l’impugnatura (c’era poi l’altro modello, ancora più ecologico, che prevedeva l’impiego come telaio di un ramo, preferibilmente di olivo, a forcella con le estremità libere unite in cerchio con spago o fil di ferro sottile), scendevamo in una delle numerose spunnulate (nella foto seguente a sinistra la preferita in tutto il suo splendore diurno) che circondano quella più grande della Palude del Capitano per catturare la carita, cioè una sorta di gamberetto, che avremmo utilizzato all’alba per pescare con la canna lungo la scogliera del vicino Frascone1.
Abbagliate dal fascio luminoso (quello della torcia a pile era più efficace perché più concentrato e agevolmente indirizzabile) le carite restavano immobili e in un attimo si trovavano imprigionate nel caritaru manovrato con rapido gesto alle loro spalle. Certe sere bastava una decina di calate per fare la riserva di esca occorrente di lì a poche ore. Allora si approfittava del maggior tempo a disposizione per praticare lo stesso tipo di pesca lungo la scogliera ai danni di qualche polpo o di qualche pesce usando la fiòscina2. Più restii a farsi abbagliare e poi essere infilzati dalla fiòscina erano i grossi cefali che popolavano (credo che abbiano fatto in tempo a non estinguersi e che ora vivano in pace in questo paradiso finalmente protetto) la Palude del Capitano; oltretutto bisognava cogliere l’attimo in cui la loro sagoma appariva a mezza altezza in una delle tante buche che circondano la palude. Quante fioscine (anche del fucile ad aria compressa …) sfracellatesi contro la roccia! Quante parolacce (alcune irriferibili; e infatti non le riporto …) accompagnavano quel fallimento che oggi, a distanza di tanti anni, guardo (non garantisco per Giuseppe …) con occhio decisamente diverso, anzi diametralmente opposto!
Ora in perfetto stile mentalista
al bando metto la malinconia:
scultore non sono o acquarellista
e farollo con un’etimologia.
Lettor gentile, non me ne volere
e a quel paese no, non mi mandare!
È colpa mia se un poco di sapere
a tutti, me compreso, può giovare?
Iacca suppone secondo il Rohlfs un latino *flacca dal classico fàcula, diminutivo di fax (genitivo facis)=torcia. Trafila: fax>fàcula>*facla (sincope di –u-)*flaca (metatesi di –l-)>*flacca (geminazione di –c-)>fiacca (variante in uso in diverse zone del Leccese, con normale passaggio di fl– seguito da vocale in fi-, come in fiume da flumen, fiato da flatus, etc.)>iacca (aferesi di f-).3
Una volta tanto noi salentini non abbiamo esagerato, scomodando una fiaccola e non un piccolo forno. In toscano, infatti, il corrispondente di iacca è frugnòlo o frugnuòlo, anticamente fornuòlo, da un latino *furnèolus diminutivo del classico furnus.
Chiudo con tre belle stampe antiche: le prime due di Jan van der Straet (1523-1605, pittore fiammingo col nome italianizzato di Giovanni Stradano), tratte da Venationes ferarum, avium, piscium, Philippe Galle, Anversa, 15804; la terza, di anonimo, è tratta da E. Raimondi, Delle caccie, Napoli 16265.
Una sorta di pesca fluviale alla lampara su zattera. Didascalia (come quella della stampa successiva è tratta dai Carmina di Cornelio Kiliano Duffleo6): Ludicra piscandi quaedam ars est: vespere mensae/insistit rutila fulgenti lampade cautus/piscator, placidaque in stagni aut fluminis unda/lumen pisciculos adeuntes decipit astu.
Sono quattro esametri con schema:
Lūdĭcră/pīscān|dī || quaē|dam ārs ēst|vēspĕrĕ|mēnsaē
Īnsī|stīt rŭtĭ|lā || fūl|gēntī|lāmpădĕ|caūtŭs
pīscā|tōr plăcĭ|dāque īn|stāgni aūt|flūmĭnĭs|ūndā
lūmēn|pīscĭcŭ|lōs || ădĕ|ūntēs|dēcĭpĭt|āstū
Traduzione: Un certo modo di pescare è divertente: a sera il pescatore cauto sta su una tavola mentre fa luce una sfavillante lampada e con astuzia cattura sulla placida superficie dello stagno o del fiume i pesciolini che si avvicinano.
Al centro, in primo piano, dio del fiume con cornucopia seduto su una roccia e la dea Diana con ramoscello di ulivo. Sullo sfondo il fiume serpeggiante tra le colline. In primo piano a sinistra pesca diurna con la canna, a destra notturna con la lampada e il retino. In basso la didascalia: Lumine sic capitur noctu, sed sola nitente/pendet fallaci pisces deductus ab hamo.
Vanno rilevati, anzitutto, gli errori di sola per sole e di pisces per piscis. Sono due esametri, la cui scansione è:
Lūmĭnĕ|sīc căpĭ|tūr || nōc|tū sēd|sōlĕ nĭ|tēntē
pēndēt|fāllā|cī || pī|scīs dē|dūctŭs ăb|hāmō
Traduzione: Il pesce così di notte viene preso con la luce ma quando il sole risplende pende tratto dall’amo ingannevole.
In realtà l’ultima tavola è la rielaborazione del dettaglio invertito ed appena appena elaborato della seconda, come mostra senz’ombra di dubbio la comparazione sottostante.
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1 Su spunnulata, Palude del Capitano, Frascone e carita vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/31/il-frascone-e-dintorni-in-due-carte-piuttosto-datate/
2 Rispetto all’italiano fiocina presenta maggiore fedeltà fonetica all’originario latino fùscina(m)=forcone, tridente.
3 Nel suo commento a Delle delizie tarantine, opera postuma di Tommaso Niccolò D’Aquino (1665-1721), Cataldanton Atenisio Carducci, Stamperia Raimondiana, Napoli, 1771 a pag. 284 in nota avanza per iacca due proposte etimologiche: “forse dal fenicio Juag che suona sorpresa, ferir d’improviso, se non anzi da jaculo, cioè, dall’atto di lanciar la fiocina”. Sulla voce fenicia bisognerebbe credergli sulla parola (dal momento che di questa lingua abbiamo solo testimonianze epigrafiche e non letterarie) e per jaculo ricordo che ha già dato vita, correttamente dal punto di vista fonetico, a giacchio (rete da pesca rotonda che viene lanciata con gesto rotatorio e fatta scendere sul fondo; trafila: jàculu(m)>jaclum>jacchio>giacchio) e sarebbe strano se fosse pure il padre di un figlio foneticamente difettoso e semanticamente connesso con un dettaglio importante (la fiocina) ma non caratterizzante quanto l’altro (la lampada).
4 Per l’intero volume (nell’immagine che segue il frontespizio) in alta definizione: http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b550059821.r=Venationes+ferarum%2C+avium%2C+piscium.langEN
5 Per l’intero volume: http://books.google.it/books?id=_itAAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=raimondi+delle+cacce&hl=it&sa=X&ei=ZaMpU7_JHs7XsgbrjYCYBw&ved=0CDEQ6AEwAA#v=onepage&q&f=false
6 Fu anche l’autore di un importante Dictionarium teutonico-latinum che uscì ad Anversa per i tipi di Cristoforo Plantino nel 1574 e che per due secoli vide numerose ristampe.
io, della Jacca, ho ricordo invernale nitidissimo per quanto lontano …
http://pinodeluca.ilcannocchiale.it/2011/05/14/la_jacca.html