Quella seconda mensola del balcone del castello di Nardò … (3/6)

di Armando Polito

Quello del Ripa, come i repertori di ogni epoca, fu scritto utilizzando fonti che qui tenterò di individuare nello specifico iconografico e testuale.

Non poteva il Ripa non rifarsi al padre dei repertori di simboli, cioè all’Emblemata di Andrea Alciato, pubblicato senza autorizzazione la prima volta ad Augusta nel 1531 per i tipi di Heinrich Steyner, comprendente 104 emblemi; la prima edizione autorizzata uscì a Parigi per i tipi di Christian Wechel nel 1534 e contava 113 emblemi (in basso il frontespizio).

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A pag. 16, in basso riprodotta, c’è la scheda relativa all’amicizia (a fronte la traduzione della parte testuale).

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Il testo dell’Alciato ebbe, lui vivente, una serie sterminata di edizioni. In quella uscita a Lione per i tipi di Guglielmo Rovillio nel 1948, mentre il testo è identico a quello delle edizioni precedenti, cambia leggermente l’immagine dell’olmo e della vite (foto in basso), adottata anche nell’ultima edizione, lui vivente,  uscita a Lione, ancora per i tipi del Rovillio, nel 1550.

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L’opera dell’Alciato continuò ad essere pubblicata dopo la sua morte avvenuta, come ho detto, nel 1550, con aggiunte ed integrazioni di altri irrilevanti ai fini di questa indagine.

Quello dell’olmo e della vite è un topos antico che è presente già in Catullo (I secolo a. C.), dove ricorre come metafora dell’amor coniugale1, mentre Orazio (I secolo a. C.) parla genericamente di arbores2 che traggono giovamento dall’accoppiamento con la vite. E questi stessi autori in altri passi ci danno indicazioni più precise sull’essenza allo scopo utilizzata, oltre l’olmo: il platano3 e il pioppo4. Columella (I secolo d. C.), poi, ci darà la graduatoria di tutti i potenziali mariti della vite togliendo dall’insieme delle essenze citate dagli altri il platano ed aggiungendo il frassino5.

Il Cristianesimo farà sua la metafora pagana nella seconda similitudine che Erma (II secolo) ci presenta nel Pastore, un testo che ebbe una fortuna tale che alcuni Padri della Chiesa lo tennero in considerazione come se facesse parte delle Sacre scritture: Mentre passeggiavo per il campo e osservavo un olmo e una vite e riflettevo  su di essi e sui loro frutti, il pastore mi appare e dice: –  Che cerchi in te stesso intorno all’olmo e alla vite? -. Dico: – Cerco di capire, signore,  perché  sono reciprocamente adatti -. Dice: – Questi due alberi costituiscono un simbolo per i servi di Dio-. Dico: – Vorrei conoscere il simbolo di questi alberi dei quali parli -. – Vedi l’olmo e la vite? -. Dico: – Li vedo, signore -.  Dice: – Questa vite porta il frutto, l’olmo, invece, è un albero senza frutto. Ma questa  vite se non sale sull’olmo  non può produrre  frutti in abbondanza mentre giace per terra e Il frutto che porta se non è sospesa all’olmo, lo porta marcio. Quando dunque la vite si attorciglia all’olmo  produce frutto per merito suo e per merito dell’olmo. Vedi dunque che l’olmo dà molto frutto, non meno della vite, anzi anche di più -. Dico: – Come, signore, di più? -. Dice: – Perché la vite sospesa all’olmo dà un frutto abbondante e bello; , giacendo per terra, invece, scarso  e marcio. Questa similitudine  si addice ai servi di Dio, al povero e al ricco -. Dico: – Fammelo sapere, signore, in che modo -. Dice: -Ascolta. Il ricco ha beni ma questi non valgono nulla davanti al Signore; tutto preso dalla sua ricchezza, rivolge pure al Signore un ringraziamento troppo piccolo  e una preghiera, quella che fa,  piccola e debole, non avente la forza di un uomo. Quando dunque il ricco va in aiuto del povero e gli fornisce il necessario, credendo che colui che si adopererà per il povero  potrà trovare la ricompensa da parte di Dio, che il povero è ricco nel ringraziamento e nella preghiera e la sua preghiera presso Dio ha una grande forza, il ricco dunque aiuta il povero in tutto senza titubanza. Il povero, aiutato dal ricco, intercede per lui presso Dio e lo ringrazia per il dono ricevuto; e l’altro ancora si preoccupa del povero perché non si abbandonato nella sua vita; infatti sa che la preghiera del povero è gradita e ricca per Dio. Entrambi dunque compiono un lavoro: il povero fa la preghiera in cui è ricco, quella che ha preso dal Signore e questa rende al Signore per chi lo aiuta e il ricco ugualmente offre senza titubanza al povero la ricchezza che ha preso dal Signore e quest’azione è grande e  gradita per Dio perché ha inteso bene la sua ricchezza e ha lavorato per il povero utilizzando i doni del Signore e ha compiuto correttamente il servizio al Signore. Presso gli uomini  dunque l’olmo sembra non portare frutto ed essi non sanno né comprendono che, se c’è siccità, l’olmo che ha acqua nutre la vite e la vite avendo incessantemente acquaproduce frutto doppio e per conto suo e per conto dell’olmo. Così anche i poveri intercedendo presso il Signore per i ricchi ricolmano la ricchezza di questi e a loro volta i ricchi provvedendo i poveri del necessario riempiono il loro animo. Diventano dunque entrambi partecipi dell’opera giusta. Chi dunque fa questo non sarà abbandonato da Dio ma sarà iscritto nei libri dei viventi. Beati coloro che posseggono e comprendono  che sono ricchi per opera di Dio.6

Probabilmente al Ripa non sfuggì quanto è contenuto nell’estratto di un’orazione tenuta nel 1587 da un certo Aldorfio pubblicata da Filippo Camerario in Operae horarum subcisivarum, sive meditationes historicae, Hoffmann, Francoforte, 1609,  pagg. 196-197: CAPUT LIII. Commendatio et typus amicitiae et concordiae, ac viceversa detestatio discordiae, excerpta ex oratione Aldorfii habita Anno 1587 postridie Petri et Pauli. Temporis et loci ratio praesens postulare, & me monere videtur, mihique materiam suppeditavit, ut amicitiae typum, utputa ingeniosum, & non vulgarem, veluti in tabula, ante oculos proponendum & explicandum, et hac ratione auditores commonere faciendum censuerim, ut diligenter perpendant, quantam vim & utilitatem vera amicitia contineat: econtra quam innumera mala, ea sublata, in locum eius succedat: ut recte Comicus dixerit: Neque falsum neque suave esse quicquam, ubi amor non admiscetur. Pictura autem apud Romanos amicitiae quam tamque Deam , quae a Graecis φιλία appellatur, gentiles inter sua numina collocavere, licet peculiares aras et templa, huic Deae dedicata fuisse, non reperiam antiquitus, talis fuit. Pingebatur puella iuvenis forma, detecto capite, quae erat tunica rudi induta, in cuius fimbria scriptum erat, MORS ET VITA. In fronte, AESTAS ET HYEMS. Latus habebat apertum vique ad cor, & brachium inclinatum, digito cor ostendens, ibi scriptum erat, LONGE ET PROPE. Huius ingeniosae picturae mysteria ita explicari possunt. Forma iuvenilis indicare videtur amicitiam semper recentem, vigore & alacritate florentem, nullaque temporis diuturnitate tepescentem. Nudum caput, ut omnibus pateat, & amicus, nullo unquam tempore, amicum publice suum fateri erubescat. Rude autem indumentum ostendit, ut amicus nulla ardua, extremamque inopiam pro amico subire non recuset: Vita & mors in vestimento scripta indicat, quod, qui vere diligit, usque ad mortem amat, imo etiam post mortem, ut epigramma quoddam monet “ … tales nos quaerere amicos/quos neque disiungat foedere summa dies”. Aestas et hyems, quia in prosperis & adversis aeque amicitia servanda; latus apertum habet usque ad cor, quia nihil amicum celat, sed cum eo omnia communia habet. Brachium inclinat, & digito cor ostendit, ut opus cordi, & cor verbis respondeat, nihilque fictum fucatumve admisceat. Longe & prope scriptum est, quia vera amicitia nullo tempore aboletur, nec locorum intercapedine disiungitur. Hanc statuam & descriptionem amicitiae ideo libentius introducere, & ante oculos proponere volui, cum ea germana soror Concordiae fingatur, eaeque ut coniunctissimae, & a Deo genitae, ut humanis mentibus utilissimae et integris iucundissimae sunt.

La mia traduzione che segue aiuterà il lettore a cogliere agevolmente la dipendenza del Ripa da Aldorfio o, quanto meno, da uno sviluppo, già diventato canonico, del tema7 : CAPITOLO LIII. Elogio ed immagine dell’amicizia e della concordia e, al contrario, condanna della discordia, estratte da un’orazione di Aldorfo tenuta nell’anno 1587 il giorno dopo quello di Pietro e Paolo. Motivi connessi col tempo e col luogo sembrano richiedere e ammonirmi, e me ne hanno fornito l’argomento, come l’immagine dell’amicizia, per esempio ingegnosa e non volgare come nella tavola, da proporre agli occhi e da spiegare, e per questo motivo credo che si debbano esortare gli uditori affinché diligentemente pensino quanta forza e utilità contenga l’amicizia e al contrario quanti mali, quando lei vien meno, subentrano al suo posto. Così giustamente avrebbe detto il Comico8: Non c’è niente di falso o di soave, dove l’amore non si mescoli. Tale fu poi presso i Romani la pittura dell’amicizia che i pagani collocarono tra i loro dei come una dea, quella che dai Greci è chiamata φιλία, sebbene non trovi che anticamente fossero state dedicati a questa dea particolari altari e templi: era dipinta come una fanciulla  giovane di aspetto, col capo scoperto, che era vestita di una rozza tunica sul cui orlo era scritto MORS ET VITA, in fronte AESTAS ET HYEMS. Aveva il fianco aperto e a forza fino al cuore, il braccio inclinato che mostrava col dito il cuore, dove era scritto LONGE ET PROPE. I misteri di questa ingegnosa pittura possono essere spiegati così. L’aspetto giovanile sembra indicare l’amicizia sempre fresca, fiorente di vigore ed energia, che non diventa tiepida per nessun trascorrere del tempo. La testa nuda affinchè a tutti si mostri e l’amico non arrossisca in nessun tempo mai di chiamare (un altro) pubblicamente amico. Mostra poi una rozza veste affinché l’amico non rifiuti di subire per l’amico qualche difficoltà e l’estrema povertà. Vita et mors sul vestito indica che chi ama veramente ama fino alla morte, anzi anche dopo la morte, come ammonisce un epigramma: “ … dobbiamo cercare amici tali che neppure l’ultimo giorno sciolga dal patto”9. Aestas et hiems perché l’amicizia dev’essere mantenuta egualmente nella prosperità e nell’avversità; ha il fianco aperto fino al cuore poiché nulla nasconde all’amico ma ha tutto in comune con lui. Inclina il braccio e mostra col dito il cuore affinché l’opera del cuore e il cuore corrispondano alle parole e non vi si mescoli nulla di artificioso o di affettato. È scritto longe et prope perché l’amicizia non è cancellata da nessun tempo né viene disgiunta dalla distanza dei luoghi. Piuttosto volentieri perciò volli introdurre questa statua dell’amicizia e proporla alla vista, essendo essa rappresentata come sorella germana della Concordia, ed esse come unitissime e generate da Dio, siccome sono giocondissime per le menti umane e integre.       

(CONTINUA)

prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/10/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-16/

seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/11/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-26/

quarta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/13/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-46/

quinta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/19/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-56/

sesta parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/20/quella-seconda-mensola-del-balcone-del-castello-di-nardo-66/

 

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1 Carmina, LXII, 51-58: Ut vidua in nudo vitis quae nascitur arvo/numquam se extollit, numquam mitem educat uvam/sed tenerum prono deflectens pondere corpus/iam iam contingit summum radice flagellum,/hanc nulli agricolae nulli coluere iuvenci,/ at si forte eadem est ulmo coniuncta marito/multi illam agricolae multi coluere iuvenci,/sic virgo … (Come la vite che nasce vedova nel nudo campo mai s’innalza, mai produce dolce uva ma piegando il tenero corpo per il peso che abbatte ormai con la radice tocca la punta del tralcio, ma se per caso essa è stata unita al marito olmo molti agricoltori l’hanno curata, molti giovenchi, così la vergine …).

2 Odi, IV, 5, v. 30: Et vitam ad viduas ducit arbores (E porta la vita agli alberi vedovi).

3 Carmina, LXIV, 290): non sine nutanti platano lentaque sorore (non senza l’oscillante platano e la flessibile sorella). Il platano è citato insieme con la vite in un’epigramma di Antipatro (Antologia palatina, IX, 231):  Ἆυον μὲ πλατάνιον ἐφερπύζουσα καλύπτει/ἄμπελος ὀθνείη δ’ἀπφιτέθηλα κόμη,/ἥ πρὶν ἐμοῖς θαλέθουσιν ἐνιτρέψασ’ὀροδάμνοις/βότρυας, ἥ ταύτης ὀυκ ἀπετηλοτέρε./Τοῖον μέντοι ἔπειτα τιθηνείσθω τὶς ἐταίριον,/ ἥ τις ἀμείψασθαι καὶ νέκυον οἷδε μόνη (Una vite procedendo a poco a poco nasconde me platano secco; con la chioma altrui mi son ricoperto di fiori io che prima con i miei rami in fiore avevo nutrito i grappoli, io che non meno di lei ero privo di foglie. A sua volta qualcuno nutra tale amica che da sola seppe ricambiare anche un morto).

4 Odi, II, 2, vv. 9-10: adulta vitium propagine/altat maritas populos (… e col tralcio adulto delle viti marita gli alti pioppi).

5 De agricultura, XVI: Vitem maxime populus alit, deinde ulmus, deinde fraxinus (Soprattutto il pioppo fa crescere la vite, poi l’olmo, poi il frassino).

6 Riporto il testo originale dall’edizione a cura di R. Auger, Weigel, Lipsia, 1856, pagine 55-56:

4 prima in nota

5 seconda in nota

 

7 E lo sarà anche dopo. Uno tra i tanti esempi, Francesco di Sales (XVI-XVII secolo); cito da Opere complete, Borroni e Scotti, Milano, 1845,  v. XII, pag. 53:  Voi sapete che l’amicizia è nemica mortale dell’oblio: onde gli antichi quando la dipingevano, mettevano per emblema sopra i suoi abiti: Aestas et hyems, procul et prope, mors et vita: d’estate e di verno, da vicino e da lontano, in vita e in morte; quasi volendo dire che mai non si dimenticava in alcun tempo o di prosperità o di avversità, né dappresso né da lontano, né in vita, né in morte l’affetto verso l’amico.

Da notare che Francesco ha sostituito longe col sinonimo procul.

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