E’ nato l’1 gennaio nel Salento il primo olio ProEVO

OlioE’ nato il 1 gennaio in Puglia “Nectàrea” il primo olio ProEVO (pro ExtraVergine d’Oliva).

Un rivoluzionario nettare naturale della Dieta Med-Italiana che punta ad essere venduto anche in erboristeria e in farmacia.

Sino ad oggi non si era ancora sentito parlare di un olio “ProEVO” (Pro ExtraVergine d’Oliva), ossia di un olio così puro da mirare ad elevare e ad esaltare le innumerevoli qualità e peculiarità degli oli evo d’eccellenza e di qualità superiore. Fra tutti i Paesi produttori di extravergine (Spagna, Grecia, Portogallo, Tunisia, Usa,…), questa volta spetta all’Italia il merito di aver creato in assoluto il primo ProEVO a cui, probabilmente, ne seguiranno degli altri.

Il 1 gennaio 2013 nella Puglia salentina è nato “Nectàrea”, un prodotto della Dieta Med-Italiana, 100% italiano, un olio extravergine d’oliva purissimo, di categoria superiore, ottenuto esclusivamente dalla spremitura con procedimenti meccanici esclusivamente di olive delle antiche cultivar Ogliarola leccese e Cellina di Nardò, da secoli autoctoni del territorio e, nel caso di Nectarea, provenienti dall’area Vernole/Melendugno, in provincia di Lecce.

Ma la grande novità è nella sua “veste”, poiché Nectarea è il primo olio extravergine presentato sul mercato accentuando principalmente tutti quegli aspetti legati ai benefici e alle qualità cosmetiche, di salute e di benessere che un pregiato extravergine può e sa offrire.

Sia la confezione che l’immagine promozionale di Nectarea porteranno l’utenza a scoprire e a dare (finalmente) la giusta importanza ed il giusto valore che spetta all’olio extravergine d’oliva italiano di eccellenza.  Nectàrea si presenta in un’elegante bottiglia di acciaio inossidabile da 0,30L, appositamente progettata e realizzata per contenere e conservare un olio di qualità nel migliore dei modi. La bottiglia è a sua volta contenuta in una originalissima confezione cilindrica realizzata in foglia di legno e tenuta chiusa da un laccetto.

image001Il sito web del prodotto (www.nectarea.it) è concepito per offrire al visitatore l’immagine di un prodotto d’eccellenza, un raffinato articolo di gourmet ma anche da erboristeria o da cosmesi. Due termini questi ultimi non certo menzionati a caso, visto che Nectàrea si presenta come un prodotto adatto e consigliato in quattro ambiti: come un condimento alimentare a crudo, come un cosmetico naturale al 100%, come un prodotto di protezione della salute e di prevenzione e infine come conosciuto dai più, ottimo in cucina.

E’ risaputo, infatti, che le proprietà e le qualità dell’olio extravergine d’oliva vanno ben oltre il semplice gusto a tavola.  Come condimento, Nectarea aggiunge ed esalta il sapore degli alimenti e ha il miglior equilibrio di grassi. Infatti è povero di grassi saturi, i maggiori responsabili dell’aumento di colesterolo nel sangue, mentre é ricco di grassi monoinsaturi, ossia di acido oleico, e contiene grassi polinsaturi essenziali in corretto rapporto tra di loro. Questo importante rapporto è similare a quello che c’è nel grasso del latte materno, a totale giovamento del nostro organismo.

Mentre come cosmetico, grazie al fatto di essere leggero, non irritante, antibatterico e ricco di antiossidanti, quest’olio extravergine d’oliva di categoria superiore è perfetto per la cura della pelle del viso e per la cura del corpo. Aiuta sia le pelli secche che quelle grasse, si può usare come struccante e per effettuare leggeri scrub, può alleviare l’acne giovanile e le piccole rughe a zampa di gallina intorno agli occhi. E’ particolarmente indicato anche nella cura dei capelli fragili o secchi, li fortifica e li rende più lucenti e luminosi. Anche per mani e unghie è un toccasana, ammorbidendo le prime e rafforzando le seconde.

Invece non tutti sanno (o scordano) che l’olio extravergine d’oliva di qualità, grazie al suo elevato contenuto in antiossidanti, protegge dalle malattie cardiovascolari e contrasta i meccanismi d’invecchiamento cellulare. Non solo, i grassi in esso contenuti sono quelli che aiutano ad aumentare i livelli di colesterolo HDL (quello “buono”).

ulivi borgagne santoro
ph Donato Santoro

A queste proprietà si aggiungono poi l’azione antinfiammatoria e la capacità di favorire la digestione aumentando la produzione di bile e di promuovere la salute delle ossa migliorando l’assorbimento del calcio. Inoltre aiuta e contribuisce a prevenire alcune forme tumorali, come quella al seno, nelle donne, e alla prostata, negli uomini. E infine, ma certo non meno importante, non serve probabilmente neanche spendere molte parole per ciò che concerne il suo uso in cucina, essendo un olio extravergine puro, prodotto principe e cardine attorno al quale ruota tutta la nostra buona e sana Dieta Mediterranea. In virtù dei suddetti aspetti benefici, Nectàrea punta ad essere venduto in erboristeria, nei negozi di cosmetica e persino nelle farmacie, oltre naturalmente ad occupare una posizione di rilievo e di prestigio sugli scaffali di raffinate gastronomie e negozi di gourmet. E non sono nemmeno esclusi i ristoranti di livello che, facendo trovare Nectarea sul tavolo, offriranno ai propri clienti un suggello di qualità. Nectarea inoltre ha un occhio di riguardo verso la sostenibilità in quanto sia le fasi di produzione del contenuto che la qualità e le materie del contenitore (acciaio inox e legno) sono tutte attuate nel più rigoroso rispetto della sostenibilità ambientale, attraverso pratiche agronomiche sostenibili e che prevedono il minor impatto possibile. E anche un occhio di attenzione nei confronti della solidarietà e della ricerca, visto che per ogni confezione venduta saranno devoluti 0,25 euro ad una onlus di sostegno ai più bisognosi e 0,25 euro ad un’organizzazione di ricerca scientifica nel campo della salute.

Una curiosità? Nectarea è realizzato con olive provenienti dalle stesse campagne (in agro di Vernole/Lecce) in cui è posizionato l’albero d’ulivo monumentale e millenario “La Regina”, assegnato e “donato” l’anno scorso alla First Lady degli Stati Uniti Michelle Obama quale riconoscimento per il suo impegno profuso in America con la campagna “Let’s move!” a favore della Dieta Mediterranea e di uno stile di vita e nutrizionale più oculato e più sano.Nectarea è ideato e commercializzato dal gruppo di promozione della “Dieta Med-Italiana” ed è prodotto presso la Cooperativa Sant’Anna di Vernole (Le).

 

Il matrimonio nei proverbi

cranineddha 1

di Armando Polito

Avrei potuto dire “vita di coppia”che attualmente sembra identificarsi, più che col matrimonio, con la convivenza. Sia ben chiaro, non ho nulla contro di essa (purché i protagonisti, in ossequio alle loro scelte fisiche ed affettive,  di qualsiasi tipo esse siano, campino a loro spese) ma non potevo correre il rischio di intrufolare nella trattazione un fenomeno che probabilmente avrà i suoi proverbi solo fra cinquanta o più anni.

1) Beddha, ci ti mmariti, l’uecchiu spandi, ca no ggh’è quatareddha cu lla cangi (Bella, se ti mariti, fai molta attenzione, perché il matrimonio non è una piccola caldaia che puoi cambiare).

2) Ci no bbuuei cu mmueri ccisu no ffare l’amore cu lli mmaritate (Se non vuoi morire ucciso non fare l’amore con le maritate)

3) Ci pigghia mugghiere ccatta guai  (Chi prende moglie compra guai).

4) Ci si nsora si ‘mpastora e si ‘ncaggiola (Chi prende moglie s’impastoia e s’ingabbia).

5) Ci tene la mugghiere bbeddha sempre canta, e ci tene moti sordi sempre conta (Chi ha la moglie bella sempre canta e chi ha molti soldi sempre conta).

6) Ci vuei nno aggi cilusia no mmugghiere beddha e nno rrobba a mmienzu lla ia (Se non vuoi essere oggetto di gelosia, né moglie bella né ricchezze in vista).

7) Cusì ggh’ete la vita: la bbeddha resta e la bbrutta si mmarita (Così è la vita: la bella resta zitella e la brutta si marita).

8) La cattia1 ca si torna a mmaritare la pinitenza non ll’ha spicciata ancora ti fare (La vedova che torna a maritarsi non ha ancora finito di fare la penitenza).

9) La prima mugghiere ti la tae Ddiu, la seconda la gente e lla terza lu tiaulu (La prima moglie te la dà Dio, la seconda la gente e la terza il diavolo).

10) Lu maritu  cu lla mugghiere: ti lu liettu allu fucalire (La moglie col marito: dal letto al focolare).

11) Lu maritu este la mugghiere e lla mugghiere spogghia lu maritu (Il marito veste la moglie e la moglie spoglia il marito).

12) Lu zzitu2, quandu si ‘nsora, tuttu ola, tuttu ola; ma poi ‘ncapu allu mese iastema la zzita e cci li la tese (Il fidanzato, quando si sposa, tutto vola, tutto vola; ma poi dopo un mese bestemmia la fidanzata e chi gliela diede).

13) Mai pane a ffili ti addhi ha ddare, mai secreti alla mugghiere ha ddire, mai patrunu cu llu core ha ssirvire (Mi devi dare pane a figli altrui, mai devi dire segreti alla moglie, mai devi servire col cuore un padrone).

14) Nna bbona mmaritata cu ffazza femmina la prima fiata! (Una buona maritata che partorisca una femmina la prima volta!).

15) Nna bbona mmaritata nné ssocra nné ccaniata!(Una buona maritata, né suocera né cognata!).

16) No ffondi a strate, no ccase a mmuri, no mmugghiere beddha, ca no ssi ppatrunu (Non fondi in prossimità di una strada, non casa con un muro in comune, non moglie bella, perché non ne sei padrone).

17) Quandu ti ‘nsueri quarda la razza, ci no cacci li corne comu la cozza (Quando ti sposi considera la famiglia della sposa, sennò ti spuntano le corna come avviene alla lumaca).

Emerge, e come poteva essere altrimenti?,  in tutta la sua prepotente nitidezza il quadro di una società maschilista che celebra qui il festival dei suoi moltiplici difetti. La misogenia trova il suo apice in 3, in 11, in 15 (dove vi è la conferma della convinzione che solo le donne della propria famiglia sono sante …) e, con una punta di razzismo che è uno degli ingredienti più vomitevoli della sempre disgustosa stupidità umana, in 17, fino a diluirsi solo in una scarsa considerazione in 13. La bellezza femminile pericolosa per il possesso esclusivo trova la sua più castrante celebrazione in 6 e soprattutto in 16, tanto che il “canta di 5 sembra solo un pretesto per un gioco di parola col successivo “conta. La libertà unilateralmente intesa ispira il 4 (la perderebbe solo l’uomo che si “nsora” e non la donna che si “mmarita; infatti quest’ultima non l’ha mai avuta e, beata lei! …, non si può perdere una cosa che non si è mai avuto) e lo conferma addirittura  la prudenza sbandierata in 2 in cui c’è la masochistica consapevolezza di quello che era chiamato e giuridicamente riconosciuto come “delitto d’onore”.

In tanta desolazione non manca, fortunatamente, una nota di conforto, a dimostrazione che non sempre il pensiero dominante (che per una sorta di maledizione della nostra razza è sempre il più scadente …) riesce a soffocare totalmente l’equilibrio e il buon senso: il 10, che a me pare come la sintesi più felice dell’amore coniugale, una scintilla rivoluzionaria che ancora oggi, purtroppo, raramente riesce a diventare un incendio duraturo. Nel contesto generale tutto ciò mi pare molto strano, ma voglio sperare lo stesso di non averlo interpretato male.

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1Dal latino “captiva(m)”=prigioniera. L’italiano “cattivo ha mediato il significato della locuzione cristiana “captivus diaboli”=prigioniero del diavolo. Difficile dire se la voce dialettale abbia la stessa ascendenza, con riferimento alle tentazioni da cui una vedova può essere presa oppure si colleghi al significato originario, con riferimento alla vita riservatissima che in passato era obbligata a tenere per un periodo più o meno lungo.

2 Secondo il Rohlfs dal latino medioevale “zitus che, però, risulta introvabile, tant’è che la voce italiana corrispondente “zito” correntemente è considerata da alcuni probabile variante del toscano “citto, che secondo alcuni è di origine onomatopeica legata al linguaggio infantile;  mi chiedo, invece, se “citto”  non sia abbreviazione del siciliano “piccittu”, di importazione settentrionale (piemontesi “pcit” e “cit”). Etimologia a parte, il maschilismo fin qui affiorato poteva essere assente anche in questa voce? Alzi la mano chi non attribuisce un valore non dico spregiativo ma semplicemente negativo a “zitella!

Otranto, il ponte verso Oriente

di Stefano Todisco

 

Otranto

Hydrous messapica

La città costruita in origine è due volte più grande di quella cinta in seguito dalle mura spagnole. La mole imponente delle fortificazioni messapiche doveva conferire un aspetto maestoso a chi spesso giungeva dal mare. Le mura, realizzate con un’anima di pietre a secco rivestite poi da blocchi rettangolari, terminavano con una merlatura quadrangolare ed erano alte 7 metri e spesse 3. Lungo la via che collegava il porto orientale con la porta marina si dovevano immaginare moltitudini di cippi monolitici scolpiti e decorati con cornici, meandri, fiori di loto, palmette e iscrizioni. Sebbene i nomi citati fossero messapici le lettere erano quelle dell’alfabeto greco; ricalcati poi i caratteri con una tintura rossa per evidenziarne il testo, queste tombe o ex voto accompagnavano i viandanti verso la città. (1)

Il toponimo si deve alla vicinanza con un torrente omonimo che richiama molto la parola greca hydràino (bagnare) e le radici ̒ / ̒ (hydor / hydros) che significano acqua / sorgente (2)

 

Hydruntum romana

Pochissimo si sa della città romana. Parte dei reperti rinvenuti però testimoniano la fase tra epoca messapica e medievale. (3)


via del Porto, complesso abitativo tardoromano

Il toponimo compare sulla mappa di Soleto e sulla Tabula Peutingeriana come Ydrunte, posto su una via secondaria che unisce i centri costieri del Salento.


Otranto segnata come HYDR sulla mappa di Soleto – V sec.  a.C.

Otranto indicata come Ydrunte sulla Tabula Peutingeriana
Otranto indicata come Ydrunte sulla Tabula Peutingeriana

 

La cattedrale

Gioiello architettonico ed artistico, la cattedrale fu terminata nel 1088. Il romanico e il gotico si sposano in una simbiosi plurisecolare. La sua fama è nota in tutta Europa grazie al celebre mosaico pavimentale del monaco basiliano Pantaleone (XII secolo). 600.000 sono le tessere policrome che lo compongono e che ricoprono letteralmente la superficie delle tre navate.

Cattedrale di Otranto

Lo stile romanico è influenzato dall’arte bizantina coeva. Le scene rappresentano ambiti sacri e profani, escatologici e mitici, pagani e cristiani. Qui, santi, imperatori, donne e uomini, contadini e mostri prendono vita attorno a figure come Alessandro Magno, la torre di Babele, il Diluvio universale, Adamo ed Eva, i segni dello zodiaco, Artù a cavallo, il Giudizio universale, singolari tenzoni tra armati o tra uomini e mostri.

Alessandro Magno
Alessandro Magno


Mostri

Adamo ed Eva
Eva e Adamo

Mesi nel mosaico di Otranto
Mesi

Il tutto è bipartito ai lati del mitico Albero della Vita, bisettrice che marca la linea mediana del pavimento.


L’Albero della vita

Una cripta, sorretta da una selva di 42 colonne marmoree, si trova sotto il pavimento della navata destra. (4)

Otranto, cattedrale, capitello della cripta

Otranto, cattedrale, capitello della cripta

Otranto, cattedrale, capitello della cripta

Otranto, cattedrale, capitello della cripta

Otranto e i saraceni

Il borgo antico fu testimone dell’aspro assedio perpetrato dai musulmani del sultano Maometto II nel 1480: i pochi idruntini armati resistettero alcuni giorni ma infine la cattedrale venne saccheggiata e trasformata in stalla; i cristiani che non rinnegarono la fede furono martirizzati con la decapitazione (oggi i teschi sono conservati nella Cappella dei Martiri nella Cattedrale).

I resti dei martiri di Otranto
I resti dei martiri di Otranto

Quasi un anno dopo, Alfonso d’Aragona raccolse truppe grazie a papa Sisto IV e guidò le milizie cristiane che liberarono Otranto dagli invasori ottomani tramite un assedio congiunto per terra e per mare.

Dopo questo episodio, i signori d’Aragona fecero edificare un poderoso castello (1485-89), protetto da un ampio fossato e da torri troncoconiche e cilindriche. Un secolo dopo, gli spagnoli realizzarono il bastione a punta di lancia per raggiungere il porto dalle mura del fortilizio.

Castello di Otranto

Castello di Otranto

Castello di Otranto

Note

  • (1) F. D’ANDRIA, I nostri antenati, viaggio nel tempo dei Messapi, pp. 63-64.
  • (2) G. GASCA QUEIRAZZA, Dizionario di toponomastica: storia e significato dei nomi geografici italiani, p. 545.
  • (3) http://www.lecceprima.it/articolo.asp?articolo=21984
  • (4) M. BERNO, Salento : luoghi da scoprire, arte, storia, tradizioni, società e cultura, curiosità, p. 127.

Bibliografia

  • M. BERNO, Salento : luoghi da scoprire, arte, storia, tradizioni, società e cultura, curiosità, Novara, 2009.
  • F. D’ANDRIA, I nostri antenati, viaggio nel tempo dei Messapi, Fasano, 2000.
  • G. GASCA QUEIRAZZA, Dizionario di toponomastica: storia e significato dei nomi geografici italiani. Torino, 1990.
  • http://www.lecceprima.it/articolo.asp?articolo=21984

Nota dell’autore

Chi scrive ha visitato la città tra 2007 e 2008. Le foto sono state scattate da Stefano Todisco, ad eccezione di quella aerea.

 

Nota della redazione

Si ringrazia l’Autore per aver permesso la replica di questo articolo, già pubblicato su http://www.antika.it/005244_otranto.html

L’esiliato dei pazzi, di Antonio Errico

errico

di Paolo Vincenti

 

E si torna a scrivere. Guardo i libri impilati sulla mia scrivania che reclamano attenzione, e decido di cominciare dall’ultimo che è poi quello meno impolverato perché protetto dagli altri che lo sovrastano. “L’esiliato dei pazzi”, di Antonio Errico (Manni Editore 2012). Che scrivere di un libro quando altri, tanti e tanto più bravi, ne hanno scritto in questi ultimi mesi? Del resto, si sa che quando esce un nuovo libro di Errico avviene una mobilitazione senza pari nel mondo della pubblicistica, si muove tutto il ghota dell’intellettualità salentina e non solo. Difficile allora scrivere qualcosa di originale, a meno che non si cerchi di stupire con effetti speciali, il più delle volte debordando e andando miseramente fuori tema. No, questa voglia di stupire non mi appartiene. Ansia da prestazione, allora? Non credevo di poterla avere. Eppure, di fronte ad un libro già diventato cosa preziosa, best seller, cult della letteratura salentina, giuro che questo tipo di ansia può venire. Dunque, si può decidere di non scriverne, magari soltanto di presentarlo, se richiesto, perché, come si dice, verba volant, al netto di qualche invadente e fastidioso registratorino che spesso ti piazzano sotto il mento quando ti siedi al tavolo dei relatori ( ed è così che quei verba, nel frattempo diventati scripta, manent). Oppure, si può decidere che un libro, come questo libro, ti appartiene, è cosa tua, come ogni libro letto ed amato nella tua vita, e che quindi val la pena di scriverne, e anzi decidi di sgomberare dalla tua scrivania la batteria di fogli di giornale con tutte le recensioni  del libro che avevi sistemato accanto al pc, quasi che la loro lettura fosse propedeutica alla tua, di recensione. Anche se, poi, riapri quel fogli e ti accorgi di condividere molte delle cose scritte sul libro di Antonio Errico.

“Un romanzo storico. Una storia d’amore. lo sfondo di una congiura. L’umiltà di una confessione. Un libro di libri, di filosofie, di misteri. Che dice del tempo, della luce, del vuoto, della vendetta, del potere, del destino, di verità e di menzogne, di passioni e di stupori. Una lucida accusa contro il governo di Lorenzo il Magnifico. Una riflessione dolorosa sui tortuosi processi della storia. La ricerca del padre, la memoria della madre. L’esperienza della solitudine di un uomo. La scoperta sbalordita di Dio. In principio: Firenze al tempo dei Medici, scintillante e oscura. In fine: il Sud più profondo, alla vigilia di una tragedia”. La sinossi che compare sulla quarta di copertina è una cosa fondamentale perché da quella lettura spesso, quasi sempre, l’avventore che sbircia sullo scaffale delle nuove uscite in libreria decide se valga la pena o no di acquistare un libro. La sinossi deve essere un amo perfetto: una parola in più o in meno, la scelta di un passo del libro sbagliato o non così efficace, e il lettore non abbocca. Bravo l’autore o l’editore che sanno estrapolare dal corpo del libro una frase chiave o poche frasi illuminanti, significative ( lo penso a maggior ragione ora che anch’io ho un libro in uscita e per la sinossi richiestami dall’editore ho preso a caso dalla prima pagina aperta…).

Quest’ultimo libro di Antonio Errico è un romanzo storico, ambientato nel Quattrocento, in cui la realtà dei fatti accaduti nella Firenze dei Medici si mischia con l’invenzione letteraria, il tutto sorretto dalla originale prosa lirica che ormai conosciamo essere la cifra stilistica dell’autore. Un romanzo epistolare, in cui il protagonista della narrazione, un esponente della nobile famiglia dei Pazzi, scrive al suo signore, Lorenzo, il quale lo ha costretto all’esilio che il protagonista, per una serie di eventi, imperscrutabili come incomprensibile è sempre il destino degli uomini, si trova a scontare qui, al Sud, in questa nostra Finibusterrae, dove “valanghe d’ombra sommergono l’esistenza”.  Questo, l’espediente letterario che da l’abbrivio ad Errico per descrivere, da par suo, le meraviglie di questa nostra terra “dove si fa concreta l’esperienza del tempo che ci stringe e ci sospinge verso l’assoluto”,  attraverso gli occhi  trasognati di questo esule. Entrano così nel racconto, dall’alto tasso di letterarietà, tutti gli elementi di questa terra,  iconizzati dai nessi infrasemantici e dalle invenzioni lessicali che puntellano la sua narrazione e che costituiscono, direi, l’antropologia lirica di Antonio Errico.  Questa terra solare e archetipica, che vive di ambivalenze, dove “l’abbaglio confonde i punti cardinali. Acerbità e maturità non hanno differenza. Le distanze si cancellano. Le forme si adulterano. I contrari si congiungono. S’invischia il vero e il falso, la stoltezza e la sapienza, il prossimo e il remoto, la gemma col marciume, il principio con la fine, incenso di purezza e miasma di corruzione”, questa terra totemica  è la stessa terra rappresentata nella prosa di Luigi Corvaglia (in “Finibusterrae”) e di Fernando Manno (in “Secoli fra gli ulivi”), dei quali Errico è il degno continuatore, in una aurea triade che mi sentirei di segnalare a chiunque mi chiedesse che cosa, in narrativa, abbia prodotto di rimarchevole negli ultimi settanta, ottant’anni la nostra letteratura. Con la differenza che oggi Antonio Errico, aedo di un Salento all’incrocio dei tempi e dei luoghi, può meritare quella rilevanza nazionale che  non è toccata ai suoi predecessori. Perché il Salento, per Errico, è emblema di una condizione esistenziale, dimensione ontologica, un luogo dell’anima prima che un luogo fisico, metafora del mondo. Perché la scrittura ha, per Errico, quel valore salvifico, quel potere palingenetico che lo fa davvero sacerdote di un umanesimo  letterario forse affondato da superficialità, grettezza, logiche del profitto, esasperato individualismo e interessi di bottega. Davvero per Errico vale quella nota massima che dice “parla del tuo paese e sii universale”, sicché il Salento di Antonio Errico, in una ideale corografia letteraria nazionale, può stare accanto alla Romagna di Pascoli, alla Sicilia di Quasimodo e di Pirandello, alla Liguria di Montale,Caproni e Sbarbaro,  alla Lucania di Sinisgalli e di Levi, alle Langhe di Fenoglio, ecc.  “L’esiliato dei pazzi”, dunque  o del  “Nobilissimo Signore”. O de “i trasalimenti, le pacatezze, i furori, le malinconie, i sogni, gli ardimenti, gli stupori”. Ovvero, parlare della Firenze della seconda metà del Quattrocento per descrivere il nostro Salento, questa infuocata Terra D’Otranto, vecchia di millenni e di memorie, con la sua storia, il suo paesaggio, la sua luce, il suo vento, le sue albe e i suoi tramonti, le “sue stemperanze d’autunno, veemenze di primavera”, le sue nenie e i canti di lutto, il canto e il controcanto di questa terra tra due mari.

Entrano nella narrazione alcuni personaggi ed eventi storici o anche inventati, come il pittore Niceforo, il “fabbricante d’armonie” Antonio Galateo  e la presa di Otranto da parte dei Turchi del 1480. Entra soprattutto la città di Otranto, dove il romanzo è ambientato, con la sua chiesa di San Pietro, la Cattedrale con il mosaico di Pantaleone, l’abbazia di San Nicola di Casole con i suoi monaci copisti. Al “Nobilissimo Signore”(espressione che , come e più di altre, nella tipica costruzione paratattica del testo, ricorre spessissimo nel corso della narrazione, diventando quasi un mantra), l’esiliato scrive  lettere che mai spedirà ma che danno al libro la struttura di romanzo epistolare.  L’autore dichiara di essersi scrupolosamente documentato sul periodo storico preso in esame nel libro e questo viene dimostrato dai numerosi particolari forniti sulla torbida vicenda della congiura . E’vero, e già Benedetto Croce ebbe a smentirlo, che non sono certo i poeti e i romanzieri a dover scrivere la storia (per una loro presunta capacità di meglio interpretare lo spirito dei tempi), ma questo deve essere compito degli studiosi e degli eruditi. Non ripeterò dunque questo luogo comune, preso come sono dalla magistrale capacità di Errico di riportare la drammaticità di quegli eventi come nessun libro di studio potrebbe mai fare. Ho letto che Umberto Eco, a proposito del romanzo “I tre moschettieri” di Dumas Padre, nell’analizzare alcune regole di plausibilità del romanzo storico (presenza di personaggi immaginari che non facciano cose o usino un linguaggio impossibili alla loro epoca, e la cui identità o il cui operato pur non risultando da documenti storici non appaiano in contrasto con la realtà dei fatti), sottolineava la capacità del romanzo di incidere sul codice immaginativo dei propri lettori. In questo senso, il racconto di Errico, incidendo profondamente, assolve egregiamente il suo compito, e io posso definirlo, senza vergogna né timor reverentialis (ché io non sono Benedetto Croce, e nemmeno accademico o critico professionista e non rispondo a nessun dettame di consorteria o casta) un piccolo grande capolavoro.

Vi sono varie aree tematiche intorno alle quali è incentrata la narrazione. La prima è quella dell’esilio. Questo uomo, di cui non si conosce il nome, vive nella nostra terra il proprio ultimo approdo, quella condizione forzata di esiliato che i due intensi anni qui trascorsi stemperano in una dolcezza di cose lontane, in uno struggimento che il nòstos, la nostalgia del rientro, rende dolce e amaro ad un tempo, bivalente, come la scrittura stessa di Errico che vive di questi contrasti, che fa dell’antinomia, dei chiaroscuri, il sale della propria narrazione, come di vita e morte, di alfa e di omega, partenza e ritorno, è fatta questa terra di confine, come ogni terra di confine del mondo. Quella dell’esiliato, scrive Maria Bondanese, “è una situazione di incertezza, di confine che riflette, a specchio, quella esistenziale dell’uomo, pellegrino e straniero a se stesso, da sempre. Fuga, inseguimento, evasione o disperazione sembrano essere il destino di protagonisti emblematici delle opere di Errico: dalla infelice Didone virgiliana a Federico II, stupore del mondo, dal Disertore del romanzo ‘Stralune’ a questo Esiliato..”.  La pena dell’esilio, molto diffusa nell’antichità, comminata soprattutto per motivi politici, oggi è scomparsa dalla giurisprudenza di quasi tutti i paesi del mondo. Ma dopo la morte e la privazione della libertà, certo l’allontanamento dalla propria città, dai propri cari e interessi, si può capire che fosse una condanna molto severa soprattutto per chi, come il protagonista del romanzo, appartenesse ad una classe sociale elevata: tanto più dolorosa insomma, quanto più ingente l’accumulo di affetti, relazioni, agi e ricchezze che si abbandonava. L’esiliato dei Pazzi segue nella medesima sorte un altro fiorentino, il vate Dante Alighieri, il quale sperimentò “come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”. E la bellezza delle lettere di questo innominato conferma quanto la condizione esistenziale dell’esule contribuisca a far fiorire opere mirabili, se è vero che padre Dante creò la Commedia quand’era  al bando. Egli, che pure riteneva infamante la condanna inflittagli, scrisse nelle Rime “l’essilio che m’è dato, onor mi tegno:ché, se giudizio o forza di destino vuol pur che il mondo versi i bianchi fiori in persi, cader co’ buoni è pur di lode degno”:  e in questo troviamo una consonanza con la sorte dell’esiliato di Antonio Errico il quale sceglie, alla fine del romanzo, di cadere con i martiri nel sacco di Otranto del 1480.

L’altra tematica che è possibile enucleare dal libro è quella che Gianluca Virgilio definisce “la metafora del potere”, quando scrive: “i l romanzo storico di Errico, pur senza mai fare riferimento all’attualità, vi allude, su di essa ha molto da dire,  poiché esso mette in scena, mutatis mutandis, la condizione dello scrittore contemporaneo e i suoi rapporti con il potere, un potere lontano e incontrastabile, cui lo scrittore-esiliato, ovvero estromesso dalla gestione del potere, contrappone la monofonia di lettere non corrisposte, che non raggiungeranno mai coloro che lo incarnano (ma chi oggi incarna il potere?)”. Denso, problematico, complesso il rapporto di amore-odio che lega l’esiliato al “Nobilissimo Signore” cui indirizza le proprie lettere, il tiranno travestito da benefattore e mecenate.  Un potere, quello di Lorenzo De Medici, che si alimenta di se stesso e si sostiene con la paura, le armi, la violenza, l’oppressione, il denaro.  Lorenzo è leone e volpe, secondo la nota distinzione fatta da Machiavelli : egli cioè cerca di mantenere il potere, non solo con l’uso della forza (come viene dimostrato dall’atroce vendetta che mette in atto dopo la congiura), ma anche attraverso il consenso, circondandosi di una corte di sapienti, scienziati e vari intellettuali(come prima avevano fatto l’altissimo nonno Cosimo e il padre Piero) e fingendo di non accorgersi che è l’interesse che lega a lui quegli ottimi umanisti.

Ancora, nucleo di interesse del libro è la bellezza di questa nostra terra Salento di cui Antonio Errico si conferma “superbo cantore”, come scrive Ilaria Seclì,che “delle cose dell’uomo e del mistero di questa terra” dice che Errico “ possiede le chiavi, innegoziabili, imbarattabili”.  Sembra che Errico, pur essendo nato in questa terra, abbia essa eletta a propria dimora vitale, e che questa terra eserciti si di lui una malia,che egli sia quasi affatturato come da un canto di sirena, pietrificato come dallo sguardo di Medusa, e che niente possa spezzare questa catena di sangue, lacrime, preghiere, nervi, cervello, cuore, pagine di libri, canzoni e idee, sicché la sua condizione potrebbe ben definirsi simile a quella dell’esiliato protagonista del suo romanzo, con la differenza che non sono stati degli eventi politici a condannarlo a questa clausura, a questo refugium peccatorum, ma è stato egli stesso a rinchiudersi in questa prigione dorata – come quella che Calipso aveva costruito per Odisseo – senza saperne più uscire, molto simile a quello stato di “esiliato in patria”di cui ebbe a dire Donato Valli a proposito di Vittorio Pagano.   Ciò forse permette ad Errico di avere una doppia visione della terra madre, quasi la guardasse con due occhi diversi: con l’occhio blu ne vede la miseria, le storture, i guasti, le contraddizioni, gli angoli bui e la sua dimensione limitante, castrante, con quella spietata rabbia che solo un figlio ribelle può avere; con l’occhio azzurro invece ne vede la nobiltà, gli incantamenti , “i deserti di pietra, le stoppie, le sterpaglie,le icone ingenue di angeli ai crocicchi delle strade, il sangue di agnelli sgozzati da mani innocenti”,  con quella fascinazione che solo un visitatore estasiato può avere. Questa terra larica, archetipica, entra in tutte le prose di Errico, ne alimenta la liricità, impasta le sue mirabili descrizioni paesaggistiche, fornisce humus, linfa vitale alla sua ispirazione, è Musa. E ciò perché Errico vive questa terra con un attaccamento forte, viscerale, ma anche doppio, come dicevo sopra, ambiguo, prossimo alla sindrome di Stoccolma, ossia l’amore della vittima nei confronti del proprio aguzzino, che nasce in chi sa, o crede di sapere, di non avere via d’uscita, di non avere altra scelta se non quella di restare qui, a vivere in questo paese “così sgradito da dover(lo) amare”, per citare Bodini, e dove “i volti amati si sfrondano delle loro vicende, non restano che i nomi”:  non resterebbero nemmeno quelli,  se non ci fossero opere come questa, il cui canto ininterrotto, come una lunga elegia, mi sembra quasi una testimonianza di impegno civile contro la dimenticanza, contro l’oblio. Il suo amore per la terra dei padri, polarizzato fra estremi che coincidono, si alimenta nelle sue opere, e in questa in particolare, del sentimento della lontananza, quella che Antonio Prete, in un suo bel trattato invita a non sopprimere,ma anzi a tenere aperta attraverso la narrazione, la poesia, l’arte in genere. E la lontananza diventa visione di tenebra, squarcio, lacerazione, ferita che non si rimargina.

L’ultimo motivo del libro che voglio evidenziare è l’amore: quello puro, innocente, intrinseco e incondizionato per la propria donna e quello tenebroso, carnale, peccaminoso per l’altra, una bella e sfacciatamente provocante Idrusa salentina che l’esiliato incontra in questo posto . Ed anche l’amore, così ingarbugliato, si fa incoerenza, “antinomia, contraddizione, una mistura di scuro e di chiarore”.

Concludo dunque questa recensione che non è una recensione, così come l’ho cominciata, affermando che questo amabile libro è una splendida conferma del talento narrativo di Antonio Errico al quale  già le precedenti opere avevano fatto meritare un posto di riguardo nel contesto della letteratura salentina e meridionale contemporanee.

Libri/ Il passo della notte

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Per il ciclo “Poeti e prosatori salentini contemporanei”, mercoledi 9 gennaio 2013, presso l’Università Popolare “Aldo Vallone” di Galatina, alle ore 18,  Paolo Vincenti presenterà Elio Ria con il suo libro“Il passo della notte”.

“Il passo della notte” è un libro di poesie. Dall’ispirazione della notte il poeta ha tratto dettagli e appigli di certezze per colmare le assenze dei giorni. Poesie che delineano la gioia e il dolore della vita. Sono parole tenere e forti, sussurri alla mutevole luna che non sempre si degna di ascoltare il poeta nelle notti afose colorate di tristezza e noiose. È la luna del Salento quella che il poeta osserva e infastidisce con i suoi interrogativi. È la luna dei ricordi di gioventù, ma anche la luna corrente di un tempo un po’ troppo frettoloso e discutibile. È la luna che soccorre quando si annuncia il collasso della speranza, ma anche la luna che racconta storie. È la luna che raccoglie e possiede il senno e l’anima degli uomini: <<Nulla mai nell’universo va perduto. Le cose perse in terra, dove vanno a finire? Sulla luna. Nelle sue bianche valli si ritrovano la fama che non resiste al tempo, le preghiere in malafede, le lacrime e i sospiri degli amanti, il tempo sprecato dai giocatori. Ed è là che, in ampolle sigillate, si conserva il senno di chi ha perduto il senno, in tutto o in parte>> (Italo Calvino).

Introduce la serata Gianluca Virgilio. Letture di Antonio D’Aprile.

E noi che di cotognata ci nutriamo da secoli ne perdiamo ogni forma di memoria…

di Pino de Luca

Identità e grettezza di campanile non s’hanno da confondere. Avere una identità forte e radicata è, però, condizione necessaria per aprirsi allo scambio e al confronto, facendosi contaminare contaminando, nello splendido rapporto che è alla base della evoluzione culturale.

Di piccoli alimenti qui ragionammo e proviamo a ragionare, dando a Cesare ciò che a Cesare appartiene e, con grande sincerità, riconoscendo meriti e primazìe. Sarebbe bello che chiunque lo facesse. A volte, credo per pura ignoranza, sfugge e allora tocca lasciar stare l’edonismo e ricorrere alla precisazione.

Qualche settimana fa, su un “grande giornale quotidiano” si raccontò di una ricetta con la mela cotogna espressa da un grande chef, e da qui nulla quaestio, ma sulla distribuzione e tipicità del frutto qualche cosa va detta.

Codogno è il comune simbolo del melo cotogno in quanto così si è qualificato, l’Istituto Agrario ne conserva ben 78 varietà e l’albero è nell’araldica del comune stesso e forse anche il nome da lì deriva.

Ma tra ottobre e novembre, chi attraversa le campagna salentine non può fare a meno di notare delle macchie di giallo sparse, un po’ sospese e un po’ sul terreno.

Mele cotogne che crescono spontanee da tempo immemorabile e per lungo tempo elemento fondamentale della alimentazione delle terre fra i due mari.

Cydonia oblonga si chiama, frutto delle rosacee di forma sferica o oblunga, dal sapore acre, tannico e stopposo, sostanzialmente incommestibile ma ricchissimo di proprietà salutari e capace di regalare profumi e dolcezze inenarrabili.

Infatti i suoi zuccheri sono raccolti in lunghissime catene di polisaccaridi termosensibili.

La cottura della melacotogna infrange queste catene e permette di produrre delle gelatine e delle marmellate di straordinario gusto e olfatto.

La trappola è nelle parole, nei nomi. Il cotogno è un toponimo, il pomo viene così nominato da Plinio il vecchio poiché poveniente da viene da Kydon, cittadina dell’Isola di Creta.

Il cotogno ha origini Caucasiche e i suoi frutti in antico greco si dicevano “Malìmelon” ovvero “mela di miele” proprio perché cotta era dolce e profumata come il miele, anzi lo sostituiva egregiamente.

Oggi la “cotognata” si racconta di Codogno o di Ragusa e financo come prodotto tipico dell’Abruzzo.

E noi che di cotognata ci nutriamo da secoli ne perdiamo ogni forma di memoria. Non ci vuole grande genio, basta l’attenzione. Attenzione che ci mancò e ci manca altrimenti non accadrebbe che si legiferasse in codesta maniera: DpR 8 giugno 1982, n. 401.

….[si intende per] “marmellata, la mescolanza, portata a consistenza gelificata appropriata, di zuccheri e di uno o più dei seguenti prodotti ottenuti da agrumi: polpa, purea, succo, estratti acquosi e scorza.:”

Le cose incredibili sono due:

1 – che umane menti in alto scranno abbiano impiegato la bellezza di tre anni per tradurre tutto questo sapere da una norma di indirizzo (79/663) in Legge dello Stato.

2 – che si ignori che marmellata deriva dal portoghese “marmelo” ovvero mela cotogna che non è certo un agrume.

Prendo un pezzo di cotognata leccese per colazione stamane, dolce e profumata come il miele.

 

NdR: Sull’argomento rimandiamo anche a:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/18/la-cotognata-leccese-un-prodotto-deccellenza/

 

Povera Elvira!

 elvira

 di Alessio Palumbo


Bello non lo sono mai stato, nemmeno da giovane. Ricco men che meno. Mi sono rotto la schiena per più di cinquant’anni sulle paranze di mezza Gallipoli e tutto quello che sono riuscito a mettere da parte l’ho speso per tirare su una casa di tre stanze su un appezzamento di terra sulla via per Mancaversa donatomi da uno zio prete. Una casa senza pretese, piccola e con poche comodità. Una strada la separa dal mare e d’inverno è quasi come trovarsi all’aperto. La tramontana si infiltra fredda dalle fessure ed il mare ha da tempo divorato tutto l’intonaco. Tuttavia, vivendo per quasi tutta la mia vita da solo, mi sono adattato.

Non sono sposato, né lo sono mai stato. Non che non mi piacessero le donne. Anzi! Tuttavia, per un tipo brutto e senza soldi le occasioni non sono mai tante e, se non si è pronti nel coglierle, sfumano rapidamente.

Anche da vecchio, però, la compagnia di amici e conoscenti non è mai scarseggiata. Tutto il vicinato, da quando ho abbandonato la vita di mare, si è preso cura di me. Gli uomini, quasi tutti pescatori come me, mandavano le mogli o i figli per portarmi un pasto caldo, qualche primizia o il conforto di due chiacchiere. Per questo non ho sofferto mai la solitudine. Tuttavia la compagnia di una donna è un’altra cosa. Finché uno non ce l’ha non sa cosa sia…e io, a settanta anni suonati, ho avuto la fortuna di goderne le piacevolezze. “Fortuna” forse non è la parola più azzeccata.

Si chiamava Elvira e si era trasferita da poco nella casa del compare Franco, proprio accanto alla mia. Abitava una stanza che aveva preso in affitto con i pochi soldi che aveva portato con sé venendo via dal paese. Era fuggita, mi raccontò, per non sposare un vecchio ricco che la famiglia voleva imporle. Dovevate vederla cos’era. Bruna, con un viso liscio e gentile, gli occhi neri come la pece e un bel seno da balia su dei fianchi stretti stretti da ragazza. Aveva venticinque anni quando l’ho conosciuta.

Elvira non era solo bella: era onesta e lavoratrice. Fin da subito si era data da fare per cercare un lavoro che le consentisse di sostentarsi; tuttavia, meschina, la salute non glielo aveva permesso. Nonostante infatti quell’aspetto florido era spesso malata. E così finì presto i pochi soldi che aveva con sé, rischiando di trovarsi per strada. Me lo ricordo ancora, accadde esattamente cinque anni fa. Mancavano una decina di giorni al Natale. La poveretta venne a portarmi gli auguri in anticipo perché, da lì a pochi giorni, avrebbe dovuto abbandonare la casa. Compare Franco l’aveva sfrattata. Mi disse che sarebbe andata un paio di giorni da un’amica e poi, se non avesse trovato altro, sarebbe tornata dai suoi. Mi sentii stringere il cuore e le chiesi se avesse voluto accettare la mia ospitalità. Non volevo nulla in cambio, al massimo mi avrebbe aiutato a tenere in ordine la casa. Le avrei dato il mio letto e io mi sarei sistemato in una branda in cucina. La poveretta accettò subito, tant’era disperata. Venne quindi a vivere da me, in quella mia casa povera e fredda.

Io feci di tutto per non farle pesare quella situazione. La mia pensione e l’aiuto del vicinato non bastava per entrambi e così ripresi a darmi da fare presso qualche vecchio amico. Ricucivo le reti, pulivo le paranze, insomma per un annetto riuscimmo ad andare avanti. Ma Elvira, poveretta, era sempre triste. Qualcosa la tormentava e finalmente un bel giorno riuscì a confessarlo: al paese era rimasto un suo fratello, vedovo e disoccupato, che viveva di stenti insieme al figlio. Proprio in quei giorni i suoi li avevano sbattuti fuori di casa.

“E falli venire qui, perdio” le dissi “Dove si mangia in due si mangia in quattro. E poi posso presentare tuo fratello a qualcuno dei miei amici. Vedrai, glielo troveremo un lavoro”

Elvira saltò dal letto e mi strinse forte. Dovevate vederla com’era felice.

Da lì a due giorni si presentò il fratello, Renzo, con il figlio ma, come capii quasi subito, anche Renzo avrebbe potuto fare ben poco per il sostentamento di quella famiglia che stavamo formando. Come la sorella, infatti, era spesso ammalato, tanto che i due, poveretti, restavano spesso per interi giorni a letto, mandando via di casa anche il ragazzino per evitare che potesse ammalarsi stando con  loro. Non fosse stato per la nostra povertà, saremmo stati proprio una famiglia felice. Elvira ed il fratello si volevano bene come pochi. Si abbracciavano spesso; lei era persino gelosa di lui, perciò le rare volte che Renzo era in forze gli impediva di venire a lavorare con me. Chissà cosa le girava in quella testolina? Sta di fatto che nessuno sapeva dirle di no e tutti le volevamo bene. Anche il nipote l’amava talmente tanto che, a volte, la chiamava mamma. Le cose andarono avanti così per quasi due anni, finché un giorno non successe quel che successe. Al solo pensiero mi tremano le gambe.

Una mattina, mentre riparavo le reti da Nino Persico, un amico che mi aveva dato del lavoro, si presentarono due carabinieri. Mi dissero che Elvira mi aveva denunciato per violenze su di lei e sul bambino. Mi sentii mancare. Non ve lo sto neanche a dire.

“Non ci credo” dissi “Fatemi parlare con lei”

Il maresciallo e l’appuntato mi portarono a casa e quando chiesero conferma ad Elvira delle accuse mi sembrò che anche lei ne fosse colpita. Ricordo che abbracciò il nipote e si mise a piangere violentemente. L’unica frase che riuscì a pronunciare fu: “Portatelo via, per favore”.

Poverina, doveva essere sconvolta. Non riuscì a dire altro e svenne.

Come sono andate le cose tutto il paese lo sa. Forse stanco per quel clamore che si era creato, per le malelingue che si erano messe a girare sul conto mio e di Elvira, ammisi la colpa che non avevo. In fondo in prigione non stavo così male: di inverno faceva meno freddo che a casa mia.

L’unico rammarico è non aver rivisto più Elvira. Sono due anni che non la vedo: prima in galera e poi in questa casa di cura non è venuta mai a trovarmi. Poveretta, malata com’è non avrà mai avuto modo di venire a farmi visita. Del resto non lo ha fatto quasi nessuno. Non perché si siano dimenticati di me, ma per mio volere. Dopo pochi giorni dall’arresto, venne in parlatorio compare Franco, il mio vicino di casa, e mi raccontò una storia incredibile. Mi disse che in realtà il fratello di Elvira era il marito, che stavano bene e vivevano tranquillamente in casa mia. Insomma mi avevano raggirato per impossessarsi della casa e per questo avrei dovuto denunciarli.

“Eh no” gli dissi “Tu la devi smettere di parlare così di Elvira. Quella ragazza non ti è andata mai a genio”

Franco me ne disse di tutti colori e se ne andò via bestemmiando. Da allora nessuno è più venuto a trovarmi. Perché vi ho raccontato questa storia? Per dimostrarvi la cattiveria della gente! Compare Franco è un uomo crudele. Prima mette alla porta una brava ragazza; poi, vedendo che questa ha trovato la felicità con me e con i suoi parenti, con qualche imbroglio mi mette nei guai. Sono infatti sicuro che dietro al mio arresto ci sia lo zampino di Franco. Come se non bastasse, cerca di danneggiare anche la brava ragazza accusandola ingiustamente di un fantasioso raggiro ai miei danni. Avete capito? Povera Elvira mia, che gente cattiva c’è al mondo!

Dal topo al mouse. E “mùsciu”?

di Armando Polito

mouse

 

In greco, quello classico, il sostantivo μῠς (miùs)/μυός (miuòs) significa topo ma anche muscolo. Ѐ il classico caso in cui, data la differenza del campo semantico, in prima battuta si è indotti ad ipotizzare che si tratti di un omofono, cioè dello stesso vocabolo avente, però,  radice e, dunque,  etimologie diverse; poi, mettendo in moto la fantasia che non guasta neppure in filologia, si parte alla ricerca dei punti di contatto che quasi sempre risiedono nella somiglianza.  Ѐ proprio questo il nostro caso perché già i Greci associarono l’idea del muscolo a quella dei movimenti guizzanti del grazioso (senza il minimo rispetto da parte mia per chi la pensa diversamente …) animaletto1. Questa traslazione fu ereditata dai Romani che chiamarono il topo mus/muris e col suo diminutivo, mùsculus (da cui la voce italiana), il dettaglio anatomico ma, in ossequio alla perversione tipica dell’uomo, anche una macchina da guerra con la parete anteriore aperta ad uso degli arcieri2.

mouse

Probabilmente la radice è di comune origine indoeuropea ma non posso non riflettere sui dettagli fonetici che differenziano la forma greca da quella latina e quest’ultima da quella inglese. Se consideriamo il nominativo e il genitivo latino notiamo nel secondo caso (muris) il fenomeno del rotacismo, cioè il passaggio di –s– intervocalico a –r-, il che significa che prima del rotacismo il nominativo in latino era mus e il genitivo musis. L’inglese mouse conserva, perciò, il consonantismo originario come avvenuto, per esempio, nell’antico indiano mūș, nell’antico alto tedesco mūs, nell’antico slavo myšĭ, nel persiano mūš.

Come la mettiamo, infine, con il salentino mùsciu? Il corrispondente italiano più vicino è micio da tutti considerato voce onomatopeica del linguaggio infantile. Stessa origine ha per il Rohlfs mùsciu (pag. 375 del suo vocabolario: “ dalla voce di richiamo muš-muš: cioè gattino”). Condivido quest’etimo ma, da quel nostalgico che resto del tempo felice che fu, non posso non ricordare la proposta fatta in classe nell’ormai lontano 2000 dal mio allievo di V ginnasiale Luigi Scarlino: mùsciu è dal latino musculu(m) perché significherebbe macchina contro i topi. Proposta suggestiva, come sembreranno alcune di cotanto maestro …, anche alla luce del significato militare ricordato all’inizio. La proposta mi lasciò perplesso all’epoca perché la trafila sarebbe dovuta essere: mùsculum>*musclum (sincope)>mùschiu (e non mùsciu), come perplesso mi lascia, per lo stesso motivo, ancora oggi; ma non ho resistito a ritornare con la mente a quegli anni felici, almeno per me …. E poi: chi pratica lo zoppo impara a zoppicare; ma Luigi all’epoca avrebbe potuto cambiare sezione e chissà se ancora oggi si pente di non averlo fatto!

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1 Per completezza va detto pure che la stessa voce indicava un tipo di balena.

2 Chi può dire che qui tutto si riduce ad un rapporto di somiglianza e non c’è nessun collegamento con quella che poi sarebbe diventata la frase fatta mostrare i muscoli?

Quando la befana smise di portarmi le sue calze

befana

di Alfredo Romano

Negli anni Cinquanta del secolo scorso bastava poco per far contento un bambino. Una caramella era già un dono prezioso e, se la ricevevi da un estraneo, dovevi prima cercare l’assenso del genitore che ti faceva cenno col capo. A Collemeto, paese prossimo in linea d’aria al campo d’aviazione militare di Galatina, era facile incontrare degli avieri che frequentavano l’osteria dei Petrelli (la più vecchia che ricordi) che stava a pochi metri da casa mia in Via Padova n. 31. Noi bambini li aspettavamo gli avieri perché si divertivano a lanciarci le caramelle e noi a rotolare per terra per raccattarle con tutto il cuore fino a escoriarci le mani e le braccia.

 

La stessa cosa capitava quando una coppia se spusava te carbu (si sposava in bianco) in chiesa con tanto di cerimonia, codazzo, confetti e cannellini lanciati in aria. Anche qui a rotolarci sulla terra battuta (non c’era l’asfalto allora) per riempirci le tasche e tornare a casa vantandoci del bottino. Accadeva raramente, però, perché, ahimé, la maggior parte delle coppie se nde fucìanu (fuga d’amore) non solo per contrasti familiari, ma soprattutto per non affrontare le spese delle nozze in pompa magna.

Nel giorno di Natale allora non c‘erano regali per i bambini, ma, a cominciare dalla prima elementare, era d’uso porre una letterina sotto il piatto di papà, letterina che era stata preparata a scuola con l’aiuto della maestra. Papà sapeva della letterina, ma faceva finta di niente e aspettava la fine del pranzo per scoprirla. Quindi l’apriva e me la porgeva per leggerla. In poche righe dichiaravo i miei buoni propositi di diventare più buono e ubbidiente e di voler sempre più bene ai miei cari genitori. Finita la lettura, papà si metteva le mani in tasca e ti porgeva 10 lire: ci potevi comprare 2 caramelle con 10 lire, oppure 10 monachelle di liquirizia dalla putea te lu nunnu Vitu Sparpaja. Eppure per noi bambini bastavano a farci provare la gioia del Natale.

Ma l’attesa più grande per noi era quella della Befana, quando arrivavano dei regali veri. Eravamo quattro fratellini e la sera della vigilia c’era un certo trambusto alquanto inspiegabile dentro casa: si trattava dei miei genitori che si davano da fare per cercare i posti più assurdi per nascondere i doni da mettere nelle calze. Noi sapevamo che la vecchia Befana sarebbe scesa dal cielo passando per lo stretto del focalìre (caminetto). Aspettarla era sicuramente un evento carico di attese, ma anche di paura per l’arrivo in fondo di una misteriosa vecchia strega che arrivava chissà da dove e si fermava nel buio a un passo da noi per depositare i suoi doni. Sapevamo che i bambini più buoni sarebbero stati premiati; quelli cattivi, invece, avrebbero avuto solo carboni.

Naturalmente la sera della vigilia bisognava andare a letto presto e guai ad alzarsi nel corso della notte: occorreva attendere l’alba almeno per levarsi: rischiavi senò di far fuggire la Befana con tutti i suoi regali. E all’alba era un corri corri a llu focalìre per scoprire le calze lasciate dalla Befana per ognuno di noi fratelli. Io, che ero più grande, trovavo sempre un fuciletto che sparava a càzzule (una specie di triktrak che scoppiettavano), 3-4 arance e, immancabilmente, uno o due carboni. Quindi la Befana era stata sì generosa, ma.. ma… quei carboni stavano a significare che bisognava essere più buoni, più ubbidienti ai genitori, più timorati di Dio.
Si può immaginare sul tardi tutti i bambini in mezzo alla strada con i loro giocattoli: i maschietti con le pistole e i fuciletti, le femminucce con le bambole per lo più. Ma poi ricordo anche tanti bambini di famiglie più indigenti cui la Befana “non portava nulla” e imprecavano per non essersi degnata di scendere nel loro focalìre. E i genitori davano loro manforte incolpando anch’essi la vecchia strega.

Per tutto il giorno era un rincorrersi tra bambini in mezzo alla strada con spari di qua e di là, tanto che i grandi sbottavano nel solito: Vagnuni, ci cu ppuzzati schittunisciàre, spicciàtela! ca sta nne purtati la capu! (Ragazzi, che vi possano uscire getti in tutto il corpo, finitela! che ci fate venire mal di capo!). E dàgli e dàgli, a sera finivano le càzzule, e anche le pistole e i fuciletti erano ormai inservibili: avevano ballato un solo giorno, tanto per parodiare il titolo del romanzo “Ha ballato una sola estate” di Olof Ekström.

Ma arrivò l’anno in cui la Befana smise di portarmi le sue calze. Facevo la terza elementare. Si dà il caso che la sera della vigilia della Befana improvvidamente aprii casualmente un cassetto del comò, e che cosa ti andai a scovare?: pistole e fuciletti per me e per i miei fratellini. Non dissi niente ai miei genitori, ma ci rimasi di stucco: era sparita la magia della Befana, era sparita la bella attesa della vecchia strega carica dei suoi doni che scendeva nel focalìre. E quando il giorno dopo aprii la calza con dentro il mio fuciletto, le arance e i carboni, non esultai più di tanto: s’era rotto l’incantesimo. E sul tardi, appresso a mamma, quasi per fare il saputello:
«Mamma, io so chi è la Befana!».
«E chi è?» mi incalzò lei un po’ perplessa.
«Sei tu,» le dissi sfoderando un mezzo sorriso «l’ho scoperto ieri sera in un cassetto del comò».
«Ah sì? E allora d’ora in poi la Befana non verrà più a portarti i suoi doni!» sentenziò.
Ed è da allora che la mattina di ogni 6 gennaio, appena sveglio, mi affaccio sempre al caminetto della mia vecchia casa di campagna a Civita Castellana, ma nessuna calza, nessun fuciletto a càzzule, arance o carboni dir si voglia riesco a intravedere con gli occhi in su scrutando la canna fumaria: giusto la spenta brace e la graticola usata la sera prima per una cena consumata tra vecchi amici.

 

Donne salentine alle 5 di mattina. Ad Otranto

otranto

 

di Francesco Greco

 

Il 2013 è donna. E’ entrato pudico e pregno di belle promesse scacciando un anno vecchio che in tanti non vedevano l’ora di rottamare poiché è coinciso con sacrifici da lacrime e sangue, disastri d’ogni genere e default infiniti. E l’ha fatto portato dalle voci di donne dell’altro secolo, sulla frequenza della memoria e dell’identità, che narrano le loro storie tormentate ma dignitose, per tentare di sfuggire al tempo insonne che come un tarlo infido corrode tutto sino a non lasciare tracce.

Vincenzina la “tabbaccara” (tabacchina), quinta di undici figli, detta la “Moretta” per la carnagione olivastra e il colore dei capelli, Nunziata “vedova bianca” che scrive lettere sgrammaticate al marito Nicola che è partito per la Merica dove lavora in una fabbrica di ferro, Teresina che iniziata al sesso dal barone Ignazio, che la crede una sua proprietà, sposa Marcello Musca, soldato tornato dal fronte che ha perso la moglie a causa di una polmonite ed è rimasto solo con due bambini da crescere, nonostante le lusinghe del potente nobiluomo, Immacolata invece va a nozze con Efrem, soldato ebreo scaricato a Santa Maria al Bagno (Nardò): “Domani ti cucino un piatto di vermicelli con il baccalà… Credo che tutte le religioni del mondo nascano dall’amore”. La “mammana“ (levatrice) Uccia Capirizza che aiuta una ragazza a partorire e poi “decisi di prendere con me quella creatura che il destino mi aveva fatto incontrare e dal quel giorno divenni madre…”. Caterina giovane vedova “bella e altera”, che rifiuta le proposte di matrimonio dei paesani e si dedica alla sua famiglia lottando “per la sua dignità e per il futuro dei figli”.

Una gallery di donne del mondo di ieri, che abbiamo troppo velocemente relativizzato, senza metabolizzare i suoi valori immortali, per tuffarci in una modernità alienante che formatta ogni individualità, e che riappaiono sotto altre forme, ma con tutta la grande forza dialettica anche oggi, all’epoca di Facebook. Dopo la commovente performance il 26 di dicembre a Nociglia (alla Casa di riposo fra gli anziani grati) – una esperienza che fa il paio con l’altra che il regista ha vissuto due anni fa con i detenuti-attori nel Carcere di Milano-Bollate in un’altra sua rappresentazione dal titolo “Natura e Cultura nel mondo romano” , in attesa di recitare a Roma e l’8 marzo di nuovo in Salento, al Teatro Illiria di Poggiardo,  aspettando la prima alba dell’anno nuovo (foto di Filomena Giorgino) nel punto più a est d’Italia (Otranto), lo spettacolo tratto da “Volti di carta. Storie di donne del Salento che fu” della scrittrice pugliese Raffaella Verdesca è stato rappresentato dalla Compagnia “Ora in scena!” di Poggiardo a Punta Palascìa, alle pendici del celebre Faro, alle 5 del mattino, davanti a un pubblico attento e coinvolto, impressionato dalla cifra neorealistica del testo adattato dal regista teatrale Paolo Rausa, un maestro del teatro italiano, quello fatto con poche risorse ma con tanto cuore, che ha già rappresentato in diversi luoghi della penisola “L’idea di Italia nella letteratura: da Dante a Pasolini” nell’occasione del 150° dell’Unità dell’Italia e l’anno scorso l’opera teatrale “Sguardi sul Mediterraneo. Miti Leggende Storie”.

Altri personaggi: Rosaria Rita Pasca (Donna anziana che affida al vento le vecchie foto e i documenti), Norina Stincone (Vincenzina), Pippi (Francesco Greco), Maria Orsi (Nunziata), Paolo Rausa (Nicola ed Efrem), Ninetto Cazzatello (Marcello), Tiziana Montinari (Teresina), Francesco Greco (Don Ignazio, il barone), Cinzia Carluccio (Immacolata), Florinda Caroppo (Uccia Capirizza), Lucia Minutello (Caterina). Musiche di Pasquale Quaranta (P40), regia tecnica di Ornella Bongiorni.Dopo lo spettacolo, tutti sulla terrazza a guardare l’orizzonte che lentamente scolorava nell’alba. Tamburi e tamburelli hanno acceso il ritmo della pizzica. Una ragazza, Silvia Primiceri, di Casarano, addolciva il freddo dell’attesa passando con un vassoio di dolcetti fatti da lei (il suo sogno è aprire una pasticceria: auguri!). La luna piena campeggiava discreta come in una scenografia a picco sulla location, illuminando le scogliere di una atmosfera carica di energia dolce e le centinaia di persone giunte da ogni parte del mondo al beneaugurante appuntamento con l’Alba dei Popoli. Persino un missionario italiano che lavora in Nicaragua. Decine i reporter e i cineoperatori armati di videocamera, smartphone e quant’altro per immortalare l’evento. Faceva la comparsa persino un branco di delfini nuotando davanti al Faro e poi verso Badisco (l’approdo di Enea è colmo di monnezza!). Ma il sole, offuscato da una barriera di nuvole che occultava la costa albanese, tardava a sorgere. Previsto per le 6 e 40, per la Storia, è riuscito a vincere l’ostacolo solo alle 7 e 20 del primo giorno del nuovo anno salutato da una scarica di flash. Il tempo di un ultimo vortice di pizzica e di un altro brindisi accompagnato da una fetta di mascarpone (il panettone quaggiù non è molto popolare: richiama l’odiata iconografia leghista), e la folla si è sciolta come ipnotizzata dall’astro sovrano dell’universo. Tutti avevano sul viso un sorriso di infinita dolcezza e di quieta bellezza: le ragazze avvolte in sciarpe pesanti e plaid colorati e gli uomini con cappelli e giubbotti pesanti. E mentre i delfini sparivano leziosi all’orizzonte verso Porto Badisco, la socialità spontanea e contagiosa di un rito solenne, il cui fascino è immutato nel tempo, rendeva l’atmosfera serena e gaia, come se tutti, scaldati dallo stesso sole,dalla sua energia,appartenessero alla stessa etnia che include i popoli di tutto il mondo, condividessero un comune immaginario e avessero trovato il loro Graal, una formula magica capace di sintonizzarti con gli altri, il mondo, gli Universi possibili.

Ciao Otranto, e grazie per quest’altro Capodanno con tutti i Popoli della Terra: ci si vede fra un anno…

Il delfino e la mezzaluna, per la Fondazione Terra d’Otranto

copertinadelfino bassa risoluzione

di Paolo Vincenti

 

Il delfino è da sempre considerato il più intelligente degli animali marini e ad esso si riferiscono innumerevoli storie, leggende, favole, le quali tutte suggellano un elemento sempre ricorrente quando si parla di questo simpatico mammifero: la sua amicizia con l’uomo. Quella del delfino è una simbologia molto complessa: solare e mercuriale da un lato, infera e ctonia dall’altro. Infatti, nell’antichità, oltre ad essere considerato salvatore dai naufragi, e quindi vera e propria divinità nelle religioni pagane, il delfino era anche psicopompo, cioè traghettatore delle anime da questo all’altro mondo. Presente nel mito, questo animale solca i mari e incrocia più di ogni altro pesce le rotte e il destino dell’uomo.  Il delfino è considerato amico dei bambini, amante della musica, compagno di avventure dei marinai e complice dei pescatori. Rappresentazioni di delfini sono state ritrovate su dipinti, affreschi, monete e mosaici diffusi nelle antiche civiltà, in particolare quelle greca e romana.  Nella mitologia greca il delfino è strettamente legato al dio Apollo che segue spesso nelle caratterizzazioni iconografiche del dio. Ma ancor prima di soffermarci su Apollo, bisogna dire che il delfino era l’animale sacro al dio Nettuno o Poseidone, insieme al cavallo. Vi è una doppia leggenda su questa associazione. Una leggenda dice che Nettuno, che anelava la mano delle nereide Anfitrite, ebbe come intermediario il messaggero Delfino, il quale riuscì a convincere la bella ninfa d unirsi al possente signore del mare. E Nettuno, per riconoscenza, immortalò Delfino nel cielo fra le costellazioni. Quella del delfino, infatti, è una costellazione boreale non molto estesa che si fa vedere soprattutto sul finire dell’estate e in autunno. L’altra leggenda vuole che Poseidone si fosse unito alla ninfa Melanto, sotto forma di delfino. Da questa unione nacque un figlio, Delfo, dal quale prese il nome l’isola di Delfi, dove egli era Signore, proprio quando Apollo giunse sull’isola. Il delfino inoltre veniva associato alla dea Venere: infatti simboleggiava la nascita della dea emersa dalla spuma delle acque e venne anche raffigurato insieme ad Eros. Lo si trova effigiato, oltre che a Delo, nella Casa dei Delfini, nel palazzo di Cnosso ( infatti i Cretesi credevano che i morti si ritrovassero ai limiti del mondo, nelle isole dei Beati, e che i delfini li trasportassero sul dorso alla loro dimora finale ), nelle  decorazioni musive di Ostia, su monete, vasi, anelli, orecchini, ecc. Presso i greci, l’associazione con il dio Apollo era  molto frequente. L’Inno ad Apollo di Omero infatti narra che il dio arrivò sull’isola di Delfi sotto forma di delfino. Una leggenda sul l’origine di Delfi  narra che Icadio, figlio di Apollo,  fece naufragio e venne salvato da un delfino, che lo trasportò fino ai piedi del Parnaso. Fu qui che Icadio volle fondare una città cui diede nome Delfi per rendere onore al delfino che lo aveva salvato. Un’altra leggenda narra del mitico cantore Arione. Secondo Erodoto, riportato da Pausania, Arione era un musico, originario di Lesbo, e aveva ottenuto dal tiranno di Corinto il permesso di girare per la Magna Grecia per arricchirsi con  il suo canto; della bravura di Arione come musicista parla anche Ovidio nei “Fasti”.  Al momento di  tornare in patria i marinai decisero di ucciderlo per derubarlo, ma il dio Apollo in sogno lo avvertì del pericolo. Quando fu aggredito, Arione chiese di poter cantare un’ultima volta: al suono del suo  canto accorse un branco di delfini, Arione si gettò in acqua e fu raccolto da un delfino che lo condusse a riva. Qui giunto, dedicò un ex-voto ad Apollo e tornò a casa, dove raccontò l’accaduto al tiranno. Quando la nave giunse a Corinto, i marinai riferirono al tiranno che Arione era morto durante il viaggio ma a quel punto Arione si mostrò e i colpevoli vennero messi a morte. A perenne ricordo  dell’episodio Apollo trasformò la lira di Arione e il delfino in costellazioni.  Plinio il Vecchio, nella “Naturalis Historia”, narra di un bambino che aveva fatto amicizia con un delfino, nelle vicinanze di Baia: ogni giorno andando a scuola gli offriva la merenda e lo cavalcava per essere traghettato sulla sponda opposta del lago. Quando il bimbo morì, il delfino continuò ad aspettarlo, fino a  quando morì di dolore. Anche Eliano ci racconta la storia dell’amicizia fra un delfino e un ragazzo; il ragazzo era solito cavalcare il delfino per giocare fra le onde, ma un giorno si ferì a morte con l’aculeo della pinna dorsale. Il delfino, disperato, si gettò sulla spiaggia e si lasciò morire. Ancora Plinio ci racconta di come i delfini collaborerebbero con i pescatori, spingendo verso le reti i banchi di pesce, in cambio di una parte del pescato. Secondo Plinio, i pescatori chiamavano a gran voce i delfini con l’appellativo di “Simone”, dal greco simòs, da cui il latino simus, per  “camuso”, come viene definito il muso dell’animale. Anche Taranto deve la propria fondazione a  un delfino: narra Pausania che Falanto, spartano, dopo un naufragio fu salvato proprio da un delfino, e trasportato sulla costa dell’Italia meridionale, dove fondò la città. Nella mitologia greca il delfino si lega anche a Dioniso. Il dio dell’ebbrezza e del furore selvaggio chiese ad alcuni pirati di traghettarlo da Argo a Nasso, ma scoprì che costoro avevano ordito un complotto per venderlo in schiavitù. Per punirli, il dio trasformò i loro remi in serpenti, avviluppò la nave in una cortina di edera e la bloccò con tralci di vite finché i pirati, impazziti, non si gettarono in mare, venendo trasformati in delfini. Da allora essi sono amici degli uomini e si adoperano per salvarli dai flutti, come memoria del pentimento dei pirati da cui discendono. Della complessa simbologia di questo pesce poi si impossessò anche il Cristianesimo che raffigurò spesso Cristo sotto forma di delfino. Inoltre, essendo esso da sempre considerato simbolo di salvezza per  i naviganti, nell’iconografia più usata gli si affiancò l’ancora. E attorcigliato ad un’ancora lo troviamo molto spesso negli stemmi araldici, accanto al motto “festina lente”. Questa raffigurazione è stata ripresa dalle monete romane del I secolo d.C.. Il motto “festina lente” era attribuito all’imperatore Augusto dallo scrittore latino Svetonio nella sua opera “Vita di Augusto”, e può essere tradotto come “affrettati lentamente”, a significare prudenza nella velocità, calma anche quando gli eventi sembrano sopraffare, caratteristiche queste certamente attribuibili al mitico mammifero.

La mezzaluna, come si sa, rappresenta il simbolo dell’Islam e ha un particolare valore nello stemma civico della nostra Provincia di Lecce, l’antica Terra D’Otranto, con riferimento alla secolare lotta fra cristiani e musulmani. Per i paesi arabi, è un simbolo antichissimo sebbene adottato, quasi ufficialmente, solo dal Quattrocento in poi. Infatti la storia racconta che nel IV secolo a.C.  Filippo di Macedonia, precisamente intorno al 340-341 a. C.,  quando mise sotto assedio la città di Bisanzio, essendo una notte molto scura, contava di prendere di sorpresa gli abitanti della città e di poterla facilmente sottomettere. Accadde invece che, alzandosi un forte vento a disperdere le nuvole, il chiarore della falce di luna che campeggiava nel cielo di quella notte epocale favorisse la difesa da parte degli abitanti della città i quali riuscirono ad allertare l’esercitò, che scacciò prodemente gli invasori. Da quel momento venne visto nella mezzaluna un simbolo portafortuna ed esso iniziò ad essere inciso sui muri e in ogni angolo della città come riconoscenza. La mezzaluna diventò quasi una divinità alla quale essere eternamente grati. Fu però nel 1453, in occasione dell’assedio da parte dei Turchi alla città di Bisanzio, che questo simbolo diventò universalmente noto  fino ad essere inscindibilmente associato al mondo musulmano. L’impero Ottomano infatti  rispettò la cultura delle comunità musulmane e ne mantenne iconografia, culti e tradizioni. Tutti gli stati islamici oggi amano questo simbolo e si riconoscono nella mezzaluna  con la stella che campeggia sulla bandiera ufficiale di molti di essi ( come Azerbaigian, Turchia, Maldive, Pakistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Algeria, Libia, Tunisia, Mauritania e Comore)

Il delfino e la mezzaluna convivono dal 1481 nello stemma araldico della nostra antica Terra D’Otranto e sono anche oggetto dello studio di Maurizio Carlo Alberto Gorra, “Il delfino nel mito, nell’estetica, nell’araldica”, nel suo bel saggio introduttivo alla neonata rivista “Il delfino e la mezzaluna”, alla quale offro, come modestissimo contributo, la mia piccola ricerca di cui sopra che non ha certo il carattere di originalità che hanno invece i preziosi scritti che compaiono nella rivista stessa. Si tratta del numero del luglio 2012 del periodico della “Fondazione Terra D’Otranto”, ente costituito a Nardò nel 2011. Presidente del nuovo sodalizio culturale è Marcello Gaballo, deus ex machina di una ensemble di ricercatori, giovani e meno giovani, noti e meno noti, che hanno già fatto parlare molto bene del precedente cenacolo culturale, vale a dire “Spigolature Salentine”, sito on line e rivista cartacea, che ora passa il testimone a questa nuova pubblicazione e al sito web www.fondazioneterradotranto.it. Verso questo sito web anche chi scrive le presenti note ha più di un debito di gratitudine. La  Fondazione Terra D’Otranto vara allora questo nuovo strumento editoriale, una rivista dall’elegante formato, che vanta un Comitato Scientifico di tutto rispetto.  Direttore Responsabile è Pierpaolo Tarsi, il quale nel suo scritto introduttivo ricorda gli obbiettivi che si propone  la fondazione, sottolinea il criterio di severa valutazione e di scientificità a cui vengono sottoposti i testi che giungono in redazione, la molteplicità e varietà delle tematiche trattate fin da questo primo numero e il respiro internazionale della rivista testimoniato anche dalla tradizione in inglese  dell’abstract, cioè il sommario dei testi presentati .

Nel primo numero della rivista, oltre al già citato saggio di Gorra, compaiono contributi di Alessandro Laporta, “Il Plinio di Nardò. Un incunabolo da riscoprire”;  Roberto Spaventa, “Successioni feudali a Seclì dal XIII al XIX secolo”; Eugenio Imbriani, “Le parole degli altri”; Valentina Antonucci ,“Contributo alla storia dell’arte sacra: riflessi di una strategia controriformistica nella produzione pittorica della diocesi di Lecce”; Francesca Talò , “Un’inedita testimonianza della famiglia Del Balzo Orsini nella storia del santuario di San Pietro in Bevagna, agro di Manduria”; Paolo Agostino Vetrugno, “La Colonna di S.Oronzo a Lecce tra monumentum e documentum”; Pier Paolo Tarsi, “Il lieto fine invisibile del Capitan Black: una rilettura del pensiero politico ed etico nei Canti de l’autra vita di Giuseppe De Dominicis”; Liliana Qafa, “Intervista a Stefania Casini, regista del film-documentario <Made in Albania>”; Angelo Salento, “Cultura popolare,territorio, sviluppo: genesi, forza e rischi dell’immaginario turistico del Salento”;  Tommaso Ariemma, “La struggente meravigliosa poesia delle cose. Intorno all’opera di Annunziata Martiradonna”; Schede restauri e Recensioni. Seguono le Norme redazionali della rivista, lo Statuto della Fondazione e l’Indice.

Una pregevole pubblicazione che segue a due precedenti uscire editoriali con le quali la Fondazione si era già messa in luce nei mesi precedenti, vale a dire “Salvatore Napoli Leone. Genio di Terra D’Otranto (1905-1980)” di Gianni Ferraris, a cura di Marcello Gaballo,  e “La Cattedrale di Nardò”, a cura di Marcello Gaballo, Giovanna Falco e Giuliano Santantonio. Particolare importanza viene riservata dagli animatori del gruppo culturale alla veste grafica delle pubblicazioni impreziosite da un corredo fotografico da far invidia ad esperti e collezionisti.

Albo signanda lapillo, per dirla in latino, “da segnare con pietra bianca”, come con i giorni fausti del calendario romano, questo lieto evento che  è la nascita nel nostro Salento di una nuova creatura editoriale alla quale rivolgo, ultimo di tanti a me maggiori, i miei migliori auguri.

 

Seicentesimo anniversario della Cattedrale e della Città di Nardò

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Seicentesimo anniversario della elevazione della chiesa abbaziale benedettina di S. Maria de Nerito in Cattedrale e della elevazione della “Terra” di Nardò al rango di Civitas

 

Un’importante ricorrenza ricade nel 2013, anno in cui si celebrerà il seicentesimo anniversario della elevazione della chiesa abbaziale benedettina di Sancta Maria de Nerito in Cattedrale, con l’insediamento del vescovo Giovanni De Epiphanis (1355-1425),  e contestualmente della elevazione della “Terra” di Nardò al rango di Città.

L’11 gennaio 1413 il papa Giovanni XXIII elevava la chiesa abbaziale di Sancta Maria de Nerito in Cattedrale e, nel contempo, la terra di Nardò in Città. Non vi è dubbio che la circostanza meriti di essere ricordata in quanto ha segnato in maniera decisiva la vita e la storia della Città.

Il Comitato che organizza le celebrazioni da tenersi nel corso dell’anno, formato dal parroco della Cattedrale di Nardò, Mons. Giuliano Santantonio, don Eugenio Bruno, il sindaco di Nardò Avv. Marcello Risi, il presidente del Consiglio Comunale Dott. Antonio Tiene e il presidente della Fondazione Terra d’Otranto Dr. Marcello Gaballo, ha definito il calendario delle prime manifestazioni che si terranno nel mese di gennaio 2013. Diverse saranno anche le manifestazioni a carattere civico, che sottolineeranno l’importante evento e che prevedono il coinvolgimento dell’intera città, con particolare attenzione alla popolazione scolaresca di ogni ordine e grado.

Intanto sugli edifici civili e religiosi della città si sta collocando il logo dell’anniversario 1413-2013 (di Sandro Montinaro) caratterizzato dalla croce patriarcale, che ricalca quella antichissima scolpita sulla facciata della Cattedrale neritina, alla cui base sono opportunamente innestate le due lettere NC, che compendiano  la valenza laica e religiosa dell’evento, essendo abbreviazione N di Neritonensis e C di Cathedralis e di Civitas. Dalla stessa bolla papale è tratto il motto “Ecclesiam in Cathedralem, Terram in Civitatem Neritonensem” che è parte integrante del logo.

La memoria del passato orienti il nostro cammino verso il futuro, nella consapevolezza della responsabilità che ci compete di dover trasmettere alle nuove generazioni l’altissimo e preziosissimo patrimonio di valori, significati da tale evento, che fanno la nostra identità.

 

la facciata della Cattedrale di Nardò (ph Raffaele Puce)
la facciata della Cattedrale di Nardò (ph Raffaele Puce)

 


MERCOLEDì 9 GENNAIO 2013 

BASILICA CATTEDRALEore 18.30

dissertazione storica

del prof. Mario SPEDICATO, docente di Storia Moderna presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università del Salento, sul tema: «Dalla Chiesa abbaziale alla Cattedrale. Alle origini della fondazione della diocesi neretina».

 

 

GIOVEDì 10 GENNAIO 2013

BASILICA CATTEDRALEore 18.00

CANTO DEI VESPRI IN GREGORIANO 

animato dalla Comunità dei Benedettini di Noci, con riflessione dell’Abate P.Donato OGLIARI sul tema: «La Cattedrale: ecclesia mater e segno visibile della comunione nella Chiesa Particolare».

 

VENERDì 11 GENNAIO 2013

BASILICA CATTEDRALEore 17.30

CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA, presieduta da S.E.Mons. Domenico CALIANDRO, arcivescovo di Brindisi-Ostuni, con la partecipazione del Clero diocesano.

 

DOMENICA 13 GENNAIO 2013

BASILICA CATTEDRALEore 19.00

CONCERTO DELL’ORCHESTRA DELLA FONDAZIONE ICO “TITO SCHIPA”

diretta dal Maestro Marcello PANNI, che eseguirà:

Il Canto dell’usignolo, di Igor Stravinskij

Suite da Lo Schiaccianoci, di Pëtr Il’ič Čajkovskij.

Copia di 4

Dai Loukoumades ai purciddhuzzi

 

 

di Pino de Luca

 

Nel Libro III dell’Eneide Virgilio descrive, in qualche modo, quella che fu detta Magna Grecia. Numerose imprecisioni ne costellano la storia ma non sarà qui ed ora che esse troveranno lume. La Magna Grecia è, qui, solo il punto primigenio dal quale nascono i Loukoumades: farina di frumento impastata con acqua, latte e sale, lasciata lievitare per qualche ora e, ridotta a palline, fritta in olio di oliva bollente finché non diventa dorata. Dopo, ben scolata dell’olio, condita con miele e aroma di cannella.

Siamo tra il VI e il II secolo a.c., quando, da Cuma ad Ancona, l’italica penisola è punteggiata da colonie di stirpe Greca. Con i Greci hanno viaggiato nella storia le “palline” fritte dolci che nella zona di Parthenope diventano stroggoulos (rotondi) e, negli anni, struffoli

Ogni colonia aveva i suoi loukomades, e ogni colonia la sua contaminazione linguistica: ciciriata in Basilicata e Calabria, cicerchiata nelle Marche, ciceriata in Abruzzo, pignolata in Calabria. E in Puglia accadde di tutto. Popolazioni autoctone divise in mille gruppi e gruppuscoli, consolidate da antiche civiltà, tiraron fuori Pizzi Cunfritti, Sannacchiudere, e le varie declinazioni dell’amato suino: Purciddhruzzu, Purceddhruzzu, Purcidduzzu e Purcedduzzu.

Loukoumades che prendono nome ed occasione dalla forma, dal tempo e dalla regione. Sicché la pignolata si ottiene mettendo le palline nel cartoccio e poi rivoltando il medesimo, la ciciriata o cicerchiata (con palline a forma di ceci o di cicerchia) si costruisce versando le palline intorno ad un bicchiere ed ottenendo una specie di vulcano ciambella e così via.

Sui purciddhruzzi non v’è contea, paese, famiglia o persona che non ne abbia una variante, una sua variante. Dal vino bianco nell’impasto alla modalità di sciogliere e scegliere il miele, alla forma del purciddhruzzu (pallina, cilindro, ricciolo o nodino), dalla “massa dura” che si deve rompere irregolarmente alla “separabilità” di ciascuna pallina, dall’uso dell’alloro ai canditi, agli anisini. Il purcirddhruzzu con il miele secco e quello con il miele filante e quelli che invece del miele usano il vincotto di fichi o il mosto cotto di uva.

E la buccia di limone, di arancio o di mandarino. O di bergamotto?

Qualcuno li inforna e qualcun altro ci aggiunge cioccolato o “mendule ricce”, dall’Immacolata all’Epifania i purciddhruzzi abitano nelle case dei Sallentini di Idomeneo, e a carnevale si fanno Cartiddhrate. Barocco puro.

Ma il purciddhruzzo è un’altra cosa, è socialità nel prepararlo e nel consumarlo, è segno di prosperità e di allegria. Il Purciddhruzzo non tradisce, è buono anche quando non è buono, non va mai a male e dà sapore al tempo. Si mangia piano per forza, si gusta per costruzione, e si continua per passione anche all’infinito. E dove prese terra l’Ecista Falanto, proprio perché troppo attraenti, i probi spartani li chiamano “Sannachiudere”.

Un giorno, la comunità dei Loukoumades si riunirà. Magari per decretare chi ne è l’interprete migliore. Noi, Sallentini di Idomeneo, qualche cosa da dire sull’argomento credo che l’avremo!!!

“Prièsciu” e “prisciarsi”, un po’ di strada prima di arrivarci …

Eduard von Grützner 1
Eduard von Grützner

di Armando Polito

“Sta mmuèru pi llu prièsciu” (Sto morendo per la gioia) e “Prèsciate!” (Gioisci!): chi, neretino, non ha sentito o usato, magari con finalità ironiche o addirittura sarcastiche, queste due espressioni? Nessuno. E chi si è chiesto il loro etimo? Naturalmente solo gli studiosi, anche perché se l’uomo comune dovesse passare al vaglio dell’etimologia ogni parola che usa probabilmente avremmo una società di muti o semibalbuzienti…

Eppure, una riflessione a posteriori ogni tanto non guasterebbe e ci aiuterebbe, forse, a capire meglio noi stessi e gli altri, compresi quelli che ci hanno preceduto. Ognuno di noi è, sostanzialmente, “passato”. Infatti il “presente” è ciò che non fai in tempo a pensare ed è già “passato”. Poi ci siamo inventato quel concetto di presente più o meno progressivamente dilatato per cui bisognerebbe più correttamente usare il termine “corrente”: “il presente giorno, il presente mese, il presente anno, il presente”, quest’ultimo inteso come “i nostri tempi” in contrapposizione a quelli di coloro che ci hanno preceduto (il “passato”) e a quelli di coloro che verranno dopo di noi (il “futuro”).  Può sembrare paradossale ma, ripeto, la vita che ciascuno di noi vive è fatta sostanzialmente di passato e di una continua tensione, nel presente, verso il futuro che diventa, in men che non si dica, passato; eppure, prigionieri di quello che ho definito “presente dilatato”, complice anche il ritmo forsennato della vita attuale, trascuriamo il passato e ci precludiamo, così facendo, un futuro che gli sia, nel bene e nel male,  degnamente consequenziale.

Nessuno, forse, meglio del Leopardi ha sintetizzato questa nostra condizione ne “Il sabato del villaggio” e in particolare nei versi:  “Questo di sette è il più gradito giorno,/pien di speme e di gioia:/diman tristezza e noia/recheran l’ore, ed al travaglio usato/ciascuno in suo pensier farà ritorno”. Il sabato (il “presente”) è l’unico effimero momento di felicità che si consuma nell’attesa della domenica (il “futuro”) su cui già sembra proiettato lo spettro durevole di ciò che è destinato ad essere il doloroso rimpianto di quell’attimo di felice attesa, almeno fino al sabato successivo…

Eduard von Grützner
Eduard von Grützner

Sarà casuale, ma anche a livello filologico la precarietà del presente è tutta nell’etimo della stessa voce. “Presente” è dal latino “praesens”, participio presente di “praesum”, composto da “prae”=davanti e “sum”=io sono. Non è un caso che gli unici composti di “sum” ad avere il participio presente (nel periodo classico assente in “sum”, nel tardo latino “ens” modellato proprio su “absens” e “praesens”) sono proprio “praesum”=sono presente ed “absum”=sono assente, come se ad essi fosse stato deputato il compito di rappresentare due postulati di significato contrario (essere/non essere),  statici nella loro astrattezza e senza conseguenze pratiche, per cui immaginare, per esempio, un participio presente di “prosum” (=giovare) o di “intersum” (=partecipare) sarebbe stato illusorio:  infatti, come s’è detto, non esistono.  Per capire, poi, quanto lo stesso “sum” sia precario basta considerarne il paradigma: “sum/es/fui/esse”: come si nota, esso manca di supino ma il suo participio futuro (“futurus/futura/futurum”) suppone un supino “*futum” che utilizza il tema del perfetto (“fui”), il quale a sua volta non ha nulla a che fare con quello del presente. E, colmo dei colmi, pure in italiano il participio passato di “essere” (“stato”) è un prestito da “stare”.

Eduard von Grützner
Eduard von Grützner

Mi sono appena accorto che questa stessa dilatata riflessione rischia, pur nella sua validità generale che mi avrebbe consentito di inserirla in qualsiasi post (l’ho fatto oggi e mi son tolto il pensiero …), di essere un ingombrante presente che, trascurando il passato (assunto del titolo), ritarda o preclude (l’arteriosclerosi è sempre in agguato …) il futuro (dimostrazione dell’assunto).  Provvedo subito e saluto anticipatamente, prima che me ne dimentichi …

“Prièsciu” ha il suo corrispondente italiano in “pregio”, che è da “pregiare”, a sua volta dal provenzale “prezar”, che è dal latino medioevale “pretiàre” e quest’ultimo dal classico “prètium” che ha dato vita direttamente a “prezzo”. La voce dialettale “prièsciu”, però, usata sempre nel senso di “gioia”, ha registrato il passaggio da un concetto che, per quanto astratto, rimane pur sempre legato ad una valutazione basata su dati concreti (non a caso sono quelli che decidono il “prezzo”), ad indicare un sentimento, uno stato d’animo. Tutto ciò trova una conferma nel derivato “prisciàre” che non a caso è usato sempre in forma riflessiva ad indicare un compiacimento tutto interiore (“sta mmi prèsciu”=gioisco, sono contento) come succede in italiano (“mi pregio di averti come amico”) in cui la forma non riflessiva, nel significato di “tenere in grande stima”, è di uso letterario e voce obsoleta (soppiantata da “apprezzare”) in quello di “stabilire il prezzo”.

E mi piace chiudere con la pittoresca icasticità di un nesso di fronte al quale “sta mmuèru pi llu prièsciu” appare come un panno scolorito. Si tratta di una battuta del “Nniccu Furdedda”, farsa pastorale scritta nella prima metà del XVIII secolo da Giommo Bachisi (alias Gerolamo Bax):

“Necca! La sputazza mi secca pi llu priesciu ci sapia ca luciscia sta dia pi Titta affrittu!” (Francesca! La saliva mi si seccherebbe per la gioia se sapessi che sta per sorgere questo giorno per Battista afflitto!).

Lu ricchìnu (il colchico): bello, utile, ma un po’ pericoloso.

di Armando Polito

immagine tratta da http://luirig.altervista.org/photos-ni/colchicum-cupanii.htm

nome scientifico: Colchicum Cupanii Guss

famiglia: Liliaceae

nome comune: colchico

nome dialettale neretino: ricchìnu 

etimologie: La prima parte del nome scientifico (Colchicum) è un aggettivo latino (dal greco kolchicòn) che significa della Colchide, con evidentissimo riferimento alla sua tossicità1; la Colchide, sulle estreme rive del Mar Nero, fu la meta di Giasone e dei suoi Argonauti per la conquista del vello d’oro con la complicità della maga Medea, figlia del re locale, innamoratasi dell’eroe che aveva potuto così fruire delle sue arti magiche; e, si sa, in magia le pozioni, velenose e non, hanno un ruolo determinante. La seconda parte (Cupanii) è il caso genitivo di Cupanius, cognome latinizzato di Francesco Cupani (1657-1711), francescano palermitano, studioso della flora siciliana2, sicché il tutto in italiano suonerebbe colchico di Cupani. Il nome della famiglia (Liliaceae) è forma aggettivale da lilium=giglio). Per il nome comune vale quanto detto per la prima parte di quello scientifico. Il nome dialettale (ricchìnu) è un omaggio al fiore che per forma e dimensioni potrebbe essere (ammesso che non lo sia già stato) fonte di ispirazione per un orefice nella realizzazione di un orecchino.

Inizio la consueta carrellata sugli autori antichi col greco Dioscoride (I° secolo d. C.): “Alcuni chiamano efemero3 un bulbo selvatico che altri (anche i Romani) chiamano colchico e che verso la fine dell’autunno fa sbocciare un fiore biancheggiante; inoltre le foglie sono simili a quelle del bulbo

Due amanti ed un curato. Una patetica storia d’amore nella Parabita del XVIII secolo

promessi_sposi

di Paolo Vincenti

 

La storia che voglio raccontare parte da lontano. Un giorno di alcuni anni fa, curiosando fra gli scaffali dell’Archivio Storico Parabitano e conversando con il suo responsabile ed animatore Aldo D’Antico, mi colpisce una storia, quella de “I promessi sposi parabitani”, come semplicisticamente è stata ribattezzata, scritta su una vecchia rivista , della quale chiedo lumi a D’Antico. Egli mi spiega che l’estensore di quella nota storiografica è Mario Cala e che quindi a lui più di tutti io debbo semmai chiedere delucidazioni. Intanto però Aldo mi dona la collezione completa della vecchia rivista della Pro Loco parabitana perché è proprio su uno dei primi ingialliti fogli di quell’opuscolo che leggo la storia in oggetto. Per l’esattezza si tratta dell’articolo  Due amanti ed un curato. Una patetica storia d’amore nella Parabita del XVIII secolo, di Mario Cala,contenuto  in “A Parabita due notti d’estate”, 2° edizione, Parabita 1977. Si tratta di una storia d’amore che coinvolge due protagonisti della nobile famiglia Ferrari che tenne il feudo di Parabita fino all’Ottocento.

Questa storia venne resa nota con un documento del 1823 ,“Memoria pel Duca di Parabita nella causa co’ fratelli Ferrari” (Napoli, Tipografia di Nunzio Pasca), un trattato di giurisprudenza in cui era contenuta la storia raccontata da Mario Cala.

I fatti si svolgevano nell’anno 1780 quando Don Francesco Saverio Ferrari, figlio di Don Giuseppe, primo Duca di Parabita, viveva una clandestina e tormentata storia d’amore con tale Rosaria Cataldo, una popolana, probabilmente figlia di qualche governante di casa Ferrari. Chiaramente questa storia d’amore trovò la disapprovazione della illustre famiglia del rampollo parabitano, tanto che Francesco Saverio e Rosaria dovettero ricorrere all’astuzia per poter celebrare il loro matrimonio. I due giovani infatti, che avevano già avuto due figlioli, Francesco e Vincenzo, si recarono notte tempo da un recalcitrante arciprete, Don Vincenzo Maria Ferrari, costringendo con l’inganno il curato a dichiararli marito e moglie. L’arciprete negò che quel rito fosse valido e Rosaria e Francesco Saverio  vennero condannati l’una a stare richiusa in un monastero di Lecce e l’altro a star lontano e non più rivedere la sua amata.

Dopo una lunga battaglia legale, il matrimonio divenne finalmente valido. Ma nel frattempo Francesco Saverio , che tanto aveva sofferto per lo sdegno e l’onta subita e per la lontananza da Rosaria, si ammalò gravemente e morì dopo appena un anno.

Questa la storia degli sfortunati amanti documentata da Mario Cala che nel suo scritto allega anche un albero genealogico della famiglia Ferrari. Questo articolo di Cala viene poi ripubblicato in “Minima Storica Parabitana”, edito dall’Adovos di Parabita nel 1991 e in “Studi di Storia e Cultura meridionale”, volume della Società di storia Patria per la Puglia, Galatina 1992.  Intorno a questi fatti, qualche anno fa, si scatenò anche un certo clamore mediatico in quanto un giovane ricercatore, appropriandosi della storia, volle far credere che lo stesso Manzoni per la sua celebre pubblicazione si fosse ispirato ai due giovani parabitani. Ciò portò Mario Cala a smentire pubblicamente quanto arbitrariamente affermato, dal momento che lo stesso Cala, se aveva parlato di analogie fra la sua storia e quella dei Promessi Sposi  manzoniani, mai tuttavia aveva  millantato che il grande scrittore milanese si fosse recato a Parabita o  fosse in qualche modo venuto a conoscenza di questo documento storico.

Quella di Francesco Saverio e Rosaria resta comunque una bella storia d’amore, emersa dalle brume del settecento parabitano .  Ed è da lì  che si dipana quel sottile ma resistente filo di una matassa che arriva fino ai nostri giorni, con la pubblicazione in questo anno  2012, del romanzo “Il giardino grande” (Il Laboratorio editore) a firma di Ortensio Seclì, noto e stimato studioso di storia locale il quale me ne fa dono in uno dei nostri incontri sempre graditi e proficui per chi scrive queste note.

Si tratta di un libro che, in 35 capitoli più un Epilogo, partendo dalla documentazione di cui ho detto sopra, sviluppa una trama del tutto avvincente, tanto da far quasi dimenticare la realtà storica che fornisce a Seclì l’abbrivio per la sua narrazione. Il libro ha una  coperta rossa rigida con un bel disegno di Giuseppe Greco e  aggiunta di sopracoperta  arricchita da una bandella destra, con breve nota dell’editore, e bandella sinistra, con ritratto dell’autore ad opera di Giuseppe Greco e brevi note bio-bibliografiche.

Nella narrazione, agli elementi di pura fantasia, si uniscono degli inserti tratti dai documenti d’archivio e riportati in corsivo. La prosa di Seclì fluisce limpida e leggera nelle pagine di quest’opera amabile che si fa leggere dall’inizio alla fine senza nessun calo di interesse. Riemerge così da un passato sul quale sembrava si fossero ormai addensate le nebbie dell’oblio, grazie a questo omaggio letterario, la storia d’amore di Saverio e Rosaria (proprio a lei l’autore dedica il libro), i quali tornano a parlarci di un tempo in cui troppi ostacoli di carattere culturale e sociale impedivano il libero cammino di un amore mutuo e sincero che oggi (forse) non avrebbe incontrato nessuna riprovazione.

Il periodo storico in cui si dipana l’intreccio narrativo, attraverso le vicende reali e simboliche dei due amanti protagonisti, è il grande teatro del settecento parabitano, un’epoca che Seclì conosce bene per averle già dedicato una monografia qualche anno fa (“Parabita nel Settecento”, Il Laboratorio Editore). La narrazione, degna del miglior romanzo nazionale contemporaneo, come è già stato sottolineato, si muove con andamento lento ma vario, mai stanco, sorretta da una tecnica espressiva matura e da una efficace orchestrazione con cui l’autore, che ha orecchio musicale, mette in scena fatti e personaggi, fra motivi dinamici e statici, muovendo  le corde giuste al momento giusto per creare quel sicuro effetto di incantamento (ché il narratore cantastorie è sempre un poco stregone,fingitore, sciamano ) nel lettore.

Non sorprende la capacità narrativa di Seclì perché già nei suoi articoli di storia locale, comparsi su svariate riviste, ci aveva abituato alla nota di colore, all’inserzione di aneddoti e trance de vie all’interno della macronarrazione storica di cui si occupava. Sempre attento al minimo dettaglio e con una spiccata sensibilità verso gli umili, quei personaggi minori, se non minimi, delle nostre comunità municipali che Seclì ha sempre voluto dimostrare che fossero, quanto e più dei grandi personaggi,  calati nella storia e che come loro avessero pari dignità e medesimo spirito di appartenenza al contesto storico analizzato. Non sono mancati nemmeno, nelle sue noterelle storiche, degli spezzoni di umorismo a mitigare la fredda scientificità dei documenti compulsati e tutto ciò ha avvicinato il lettore ai precedenti articoli e libri di Seclì e, almeno per quanto mi riguarda, ha fatto intendere che, dietro lo storico, si stesse preparando il narratore, che insomma il romanziere attendesse solo il momento opportuno per rivelarsi. E il momento ora è arrivato. Una storia matura nella mente del proprio creatore nel tempo più o meno lungo della sua ideazione e in quello entusiasmante ma  laborioso della sua gestazione. L’autore vive dentro di sé i propri personaggi, le storie, gli avvenimenti ideati, fino a quando essi  non diventano pagine di libro da consegnare all’editore, il quale  a sua volta li consegnerà ai lettori con la dovuta apprensione che accompagna ogni nuova pubblicazione. Se questa pubblicazione poi incontra il gradimento di pubblico e critica, ciò significa che il lavoro svolto è stato ben fatto, le attese ben riposte i sacrifici fatti vengono ripagati. Ciò accade all’opera dell’amico Ortensio Seclì ed io sono lieto di darne testimonianza in questo mia modesta recensione. L’arte di raccontare del maestro Seclì ci consegna il suo frutto più maturo, la prova più compiuta,  con questo romanzo, se è vero che, alla fine della lettura, la polvere di quel mondo antico raccontato ci sarà rimasta attaccata alla suola delle scarpe e qualcosa di esso continueremo a portarci dentro a lungo nei nostri percorsi quotidiani.

 

Il rosmarino

di Armando Polito

nome scientifico: Rosmarinus officinalis L.

famiglia: Labiatae

nome italiano: rosmarino

nome dialettale comune alle tre provincie salentine: rosamarina

 

Etimologie: la prima parte del nome scientifico e il nome italiano sono dal latino rosmarìnu(m), composto da ros=rugiada (in latino di genere maschile) e marìnus=marino (con riferimento all’azzurrino del fiore)1; ne risulta uno dei nomi botanici composti che denotano maggior estro poetico. La seconda parte del nome scientifico è voce del tardo latino, forma aggettivale da officìna=laboratorio, con riferimento alle proprietà medicinali della pianta. Il nome della famiglia è forma aggettivale da làbium=labbro.

Il nome dialettale supporrebbe un incrocio con rosa, come dimostrerebbe il genere femminile  del secondo componente e, alla fine, quello dell’intero composto2.

Ecco le più significative testimonianze degli autori antichi, cominciando da quelli latini.

Virgilio (I° secolo a. C.): “(La terra pietrosa) poco profonda a stento offre alle api la casia e il rosmarino”3.

Orazio (I° secolo a. C.): “Non spetta a te propiziarti con grande sacrificio di animali le tue piccole divinità, a te che le coroni di rosmarino e delicato mirto”4.

Ovidio (I° secolo a. C.): “Profumano il rosmarino e gli allori e il nero mirto…”5;”… così che ora col rosmarino, ora con la viola o con la rosa si

Stampa e sabbie mobili

da: http://www.ragusanews.com/

di Pino de Luca

Le sabbie mobili, nella filmografia avventurosa degli anni sessanta, erano un classico. Luogo di giustizia divina che si abbatteva implacabilmente sul malvagio o che provocava un fremito d’ansia al protagonista impegnato a salvarsi da morte certa , più spesso, a salvare dall’avido gorgo la propria amata. Le sabbie mobili in agguato, infide, profonde e che, lentamente e inesorabilmente avvolgono, avviluppano, conducono allo stato di zombie sepolto vivo.

Le sabbie mobili sono il potere, normalizzano chiunque ci mette il piede dentro, chiunque provi, immergendosi, a scoprirne il mistero. Le sue possibilità di successo sono nulle, la riemersione impossibile. A volte le sabbie mobili espellono qualcuno, per caso, indigestione o eccessivo affollamento. L’orrido però continua ad attrarre, chi viene espulso sente una sorta di minus e una irresistibile attrazione a rituffarsi nel mondo in cui tutto accade senza rumore, in cui tutto è denso, melmoso e il tempo trascorre inutilmente senza produrre cambiamento alcuno.

Ma il potere è necessario, utile perfino, all’organizzazione umana. Nessuna forma di società può esistere senza potere, e tuttavia è possibile un esercizio dello stesso senza melma e senza sabbie mobili. Può esistere un potere limpido, come un lago dalle acque chete, che a volte s’intorbida per la tempesta, per un affluente lordato da inquinatori, ma è capace di chiarificarsi, di metabolizzare, di lasciar vedere il fondo con trasparenza.

La Glasnost di Gorbaciov dovrebbe essere la guida, ma, ahimé, essa è anche il paradosso. Quando Gorbaciov invocò la Glasnost per purificare un potere, coloro che quella glasnost invocavano ne hanno fatto strame, sovvertendo il potere per impadronirsene e rabbuiando ancora di più le acque, rendendo le sabbie mobili ancora più dense ed insidiose.

Nessuna glasnost è possibile dall’interno del gorgo, nessuna glasnost è possibile senza il coinvolgimento dell’informazione, libera e irriverente. Non basta che un paese abbia due giornali che si combattono per avere informazione e glasnost, occorre che ci siano giornalisti capaci di scrivere, di raccontare, di rappresentare. Ai giornalisti tocca la “narrazione” alla politica tocca la “declinazione”. Ai giornalisti tocca l’informazione ai politici la comunicazione. Se i giornalisti “comunicano” dell’informazione chi se ne occupa? La P4?

In forma palese o mistificata, i poteri comprano giornali, zittiscono le voci scomode con l’ostracismo, fomentano divisioni inserendo nel mondo della stampa dei portavoce, rappresentando come giornalisti dei comunicatori, anche bravi, ma privi della curiosità che un giornalista ha come dote inscindibile. Lo fanno tutti i poteri, dalla politica alle istituzioni, contando su persone nate serve e sempre pronte, per una cuccia comoda, ad essere i “portavoce dell’azionista di maggioranza” come sostenne autorevolmente una delle firme più note del giornalismo leccapiedi tipicamente italico.

In Italia, il giornalista, è ben lontano dalla configurazione di quarto potere, limitandosi alla funzione di cane da guardia ben ricompensato.

Certo che ce ne sono di giornalisti veri, alcuni famosi, altri meno. Alcuni vivono i fasti dei riflettori finché riescono a tenere la trincea altri sono ostracizzati in ripostigli dai quali vengono estratti quando servono e solo perché sono bravi.

Come si distingue un giornalista buono da un peracottaro che imbratta colonne? Non è difficile. L’imbratta colonne riempie il giornale di notizie generiche, fatte di nera, cronaca giudiziaria, comunicati stampa, veline di questure e rapporti di carabinieri e guardia di finanza. Il suo schema è “Sesso, Sangue e Soldi” tranne quando riguarda personaggi potenti per i quali il condizionale è sempre legato al “terzo grado di giudizio” e, comunque, alla necessità di una par condicio.

Se invece si tratta di morti di fame, preferibilmente zingari, immigrati, studenti o giovani dai molti tatuaggi e dai capelli lunghi, l’aggettivazione moralista raggiunge l’acme.

Il bravo giornalista cerca i fatti, ne da conto, si informa sui precedenti e sulle condizioni al contorno e non parla mai di politici, magistrati, pubblici dipendenti, operai, farmacisti o rappresentanti di aspirapolveri. Usa nome e cognome dei soggetti coinvolti nei fatti quando si possono usare e si astiene dal proporre aggettivazioni di simpatia o antipatia. Un bravo giornalista scrive che le strade del suo paese sono uno schifo, che l’assessore fa la ricotta sulle mense o che l’ufficio pubblico tal dei tali è colmo di fancazzisti di professione. Il bravo giornalista scrive anche che le strade sono pulite, la tale scuola funziona o che un Vigile Urbano è gentile e competente.

Un bravo giornalista riconosce il potere e lo mette alla frusta, non ci amoreggia, lo costringe alla trasparenza e alla limpidezza, sa distinguere il potere dal governo. Un bravo giornalista conosce la sua terra e capisce che Elisa Claps non poteva essere stata rubata dagli zingari o che i ragazzini possono cadere nelle cisterne lasciate incustodite.

Un bravo giornalista non cerca l’intervista della zio mostro, conosce le strade, le batte, le va a cercare, comprende un territorio, gli usi, i costumi, le relazioni, non si fa dire dai carabinieri quello che è successo. I carabinieri, in un fatto di cronaca, cercano le prove per un processo, il giornalista cerca di capire cosa è successo e di raccontarlo, non fornisce innocenti e colpevoli, solo fatti.

È allora evidente che le sabbie mobili del potere le possono prosciugare solo i bravi giornalisti, nessun altro. E servono bravi giornalisti di sinistra, di destra e di centro, di sopra e di sotto, che le sabbie mobbili sono frequentate da tutti e sono molto democratiche, non fanno differenza.

So che molti solleveranno i se e i ma, molti lo faranno con ottime ragioni, molti con ragioni abiette. Io ascolto tutti, ma per piacere ricordiamoci sempre che se è vero che la paura è fattore umano e umanamente, è anche vero che quando ce la facciamo sotto il naso di chi ci è vicino se ne accorge.

Con i migliori auguri a chi vuole fare “il giornalista” e dedicato a un caro amico che ha lasciato la penna ma con il quale è sempre molto piacevole conversare. Sperando che, qualche volta, gli torni la voglia di guardare la carta bianca e il desiderio di levarle la verginità.

Leggendo Paolo Vincenti

Leggendo “Danze moderne” e “Di tanto tempo” di Paolo Vincenti. Considerazioni a margine

 

di Raffaella Verdesca

 

Ho letto i libri di Paolo Vincenti tutti d’un fiato. In “Danze Moderne” sono stata investita da un fiume in piena di fluidità, immagini, sprazzi di sole e giochi di ombre. Sento quanto sia per l’autore importante il tempo, l’eterno rivale, infatti entrambe le copertine riportano un orologio e le sue lancette. “Danze Moderne” è come una filastrocca che incalza di visioni della vita, di citazioni e di speranze che sfumano poi in ‘notti dello stesso colore’. Guccini, Ligabue e Vecchioni sono la triade che sottende al pensiero dell’autore, a volte lo approfondisce, a volte lo chiude.

E’ vorticoso leggere Paolo come una girandola impazzita al ritmo di un vento di passione e la grafica vi si addomestica rendendo a pieno le idee e stile. ‘Mezzo uomo’ è sferzante e chirurgico, usa similitudini che trasmettono alle parole vita ‘tra la terra e il cielo’; particolare anche ‘Invettiva’ e ‘Beddha mia’ con una speciale tavolozza di colori e sentimenti a raffigurare la sua Ruffano come un piccolo globo di meraviglie ed affettuosa ironia.

Ho finito di leggere queste “Danze” arrivando in fondo quasi senza respiro. Una visione più cadenzata ma ancora più intima è poi  “Di tanto tempo (Questi sono i giorni)”. Si riconosce la penna vorticosa e profonda dell’autore, si legge ancor meglio tra le righe il suo animo inquieto che usa la sua cultura poliedrica e ricca di classico, inglese, musica e letteratura come un lazzo attorno al collo della vita. Tra la noia, la disillusione, l’idea della morte-rifugio-premio-fine-rinascita-poesia-dolore-distacco-gioco,trova il tempo per il canto beffardo, la tinteggiata ironica, l’inchino invidioso a un tempo che passa e a una giovinezza che sfugge insieme ai capelli e al loro colore: tradimento! Ingiustizia! Malinconia… Mentre il cervello di ognuno di noi ha scissure e lobi, quello di Paolo ha poesia e musica, spazi mnemonici sconfinati simili a farfalle capaci di legarsi a un nome (Virgilio, Leopardi, Platone, Swift, Pascoli e così all’infinito) e contrabbandarne i contenuti pagando valuta preziosa attraverso il suo essere. Dà colore anche ai temi grigi del pensiero della morte e a quelli accecanti del dubbio del poi, cosparge di sale le denunce sociali e le volute dell’amore. La vita scalcia e cerca di disarcionarlo, ma egli rimane lì issato da una speranza profonda e spesso taciuta, legato al suo lazo resistente fatto di radici e di pensieri. Splendida ‘Misogina’, vibrante di emozioni ‘La casa’, ottimista di umana spe’ ‘Incontriamoci’, divertentissima nei suoi paradossi ‘Natale’ e… bisognerebbe citare ogni pagina. Concludo allora dicendo che la scrittura di Paolo è  il fuoco brillante che cova sotto il grigio di una cenere troppo volatile per soffocare la sua irruenza intellettuale e la sua virulenza poetica.

Perché è con questa che vaccina il lettore contro i vicoli ciechi dell’esistenza e l’eterno dissidio dell’uomo nel suo essere-non essere, pensiero-esistenza. Grazie a Paolo Vincenti.

 

L’agave. Dal mondo sereno delle fate a quello tumultuoso del diavolo

NOMI DI ESSENZE VEGETALI TRA SACRO E PROFANO (6)

L’onga ti tiàulu

 

di Armando Polito

Dalla magia bianca a quella nera il passo è breve, sicché eccoci catapultati dal mondo sereno delle fate a quello tumultuoso del diavolo.

Ecco il resto della scheda:

nome italiano: agave

nome scientifico: Agave americana L.

nome della famiglia: Agavaceae

Il nome italiano e il primo componente di quello scientifico (agave) sono  dal greco agaué=splendido, meraviglioso; americana si riferisce al territorio di origine (Messico); Agavaceae è forma aggettivale moderna da agave.

Onga ti tiàulu (unghia di diavolo): il nome appare più che giustificato non solo dall’aspetto piuttosto inquietante della pianta ma ancor più dagli effetti spiacevoli procurati dal contatto con l’apice spinoso o col lembo completamente aculeato delle sue foglie.

Agave era figlia di Cadmo re di Tebe e Armonia. Sposò Echione dal quale ebbe un figlio, l’eroe Penteo. Questi, divenuto re di Tebe, si oppose all’introduzione in città del culto di Dioniso (per parte di madre cugino dello stesso Penteo), ritenuto troppo sfrenato e completamente privo di razionalità. Il dio, per vendetta, usò Agave, e le zie di Penteo Autonoe ed Ino, per uccidere il sovrano. Dioniso, consigliò, infatti, a Penteo di spiare la madre e le zie, riunite sul monte Citerone a celebrare i riti bacchici, in modo da rendersi personalmente conto di quello che era il nuovo culto. Penteo, nascosto sotto un pino, venne scoperto dalle invasate che, accecate dalla furia dell’estasi dionisiaca, lo scambiarono per un cinghiale e fecero a pezzi il suo corpo. La prima a colpirlo fu la stessa Agave, che presa la sua testa la conficcò su un tirso, portandola come un macabro trofeo fino a Tebe, per mostrarla al padre Cadmo. Solo arrivata in città la madre si accorse del tragico inganno. In seguito fuggì da Tebe e vagò per le terre dell’Illiria, fino ad arrivare alla corte del re Licoterse, dove Dioniso, impietosito, la trasformò nella pianta che porta il suo nome.

La favoletta è carina, ma solo la parte in corsivo corrisponde al mito, la restante è una mia invenzione. Eppure, una conclusione simile si sarebbe

Bon capu d’annu e bon capu de mese…

Strina, Pasca Bbefenìa e šcennaru siccu

di Emilio Panarese

 

La «strina» o strenna (parola sabina che significa salute, buon augurio) è il regalo di Capodanno. 

De Santu Sulivesciu porta la strina allu mesciu.
L’uso dei regali reciproci nel primo dell’anno è antichissimo e risale, secondo alcuni, al re Tito Tazio che andava a raccogliere in quel giorno foglie di verbena, che poi regalava agli amici, nel bosco della dea Strena, la dea della salute. I Romani erano soliti scambiarsi in dono focacce, fichi secchi, miele e datteri o, i più ricchi, tessere di metallo sulle quali facevano incidere la formula augurale «annum novum faustum felicem »: «felice e prospero anno nuovo».

Bon capu d’annu e bon capu de mese
/ apri la ursa e damme nnu turnese, recitavano invece fanciulli e giovanetti del nostro volgo nella case dei signori per fare gli auguri e ottenere regali in denaro o anche in cibarie…

Ci chiange a Ccapudannu, chiange tuttu l’annu; al contrario ‘chi a Capodanno ride, riderà per tutto l’anno’, come canta D’Amelio:
Sienti a mmie ca nu te ‘ngannu / de llegrìa osce è llu puntu / quandu è lliegru Capudannu / l’autri giurni lliegri suntu./ Statte lliegru, canta e ssona, / nu ppenzare a malatìa/ca la prima cosa bbona, / è llu scecu e lla llegrìa.

da http://www.mybefana.it/

L’uso delle strenne creò poi un personaggio simbolico: la Befana, immaginata come una brutta vecchia, sdentata e dal naso adunco, ma benefica e dispensatrice di doni, che va in giro per il mondo cavalcando una scopa e penetra nelle case per la canna del camino. Quest’uso forse è sapravvivenza di qualche rito magico pagano associato poi alla festa cristiana. La parola Befana è corruzione di Epifania, che vuol dire manifestazione divina (adorazione dei Magi, nozze di , etc.).
Fu considerata, insieme con la Pasqua, la festa più solenne dell’anno. Ancora oggi, qui nel Salento, il nostro popolo la chiama prima Pasca o Pasca Bbefenìa. Con essa si chiudono le grandi feste di dicembre, da cui il proverbio:
De Pasca bbefenìa / tutte le feste vannu via.

Tutti i signori in quel giorno si vestivano a nuovo: Te Pasca Bbefenìa se mmuta tutta la Signurìa.

Gennaio è il mese più freddo, anzi è bene che sia freddo, perché se la temperatura è mite, pochi frutti resteranno sugli alberi in primavera: Mandulu ci fiurisce de scennaru / unne ccoji allu panaru.
L’annata sarà buona, invece, se il mese sarà freddo e asciutto: Scennaru siccu, massaru riccu; secondo il suo carattere dovrà essere un mese rigido, perché se scennaru nu scennariscia, febbraru male penza.

Il rigore invernale però non distoglierà i nostri contadini dal lavoro dei campi: essi toglieranno col sarchiello le erbe cattive, perché solo la zappudda de scennaru inchie lu ranaru (il granaio), perché, solo se si zappa e si pota la vigna in gennaio, l’uva nel panaru (cesto) sarà abbondante: zzappa e puta de scennaru: l’ua intru a llu panaru.
 

In «Tempo d’oggi», II (1),1975

L’Arco di Prato, il Bignami della storia di Lecce

di Giovanna Falco

 

Sulla bacheca di LECCE SI’ – LECCE NO (immagini dal Salento), una pagina di Facebook dedicata alle minuzie di Lecce e del Salento, Daniele De Giorgi ha lanciato un appello per l’Arco di Prato, ubicato nell’omonima piazzetta di Lecce, perché versa in un avanzato stato di degradoi.

Foto 1 degrado oltrepassando l'arco

L’appello è stato raccolto da Valeria Taccone, che ha proposto di coinvolgere chiunque abbia competenze in materia, per far sì che si discuta di questa situazione e si porti all’attenzione di tuttiii. Da qui la decisione di scrivere qualche nota su questo Monumento.

Da una rapida analisi delle fonti a disposizione per conoscerne la storia, è venuta fuori una ridda d’informazioni tali, da poter definire l’Arco di Prato una sorta di Bignami della storia di Lecce. La sua presenza testimonia il passaggio dei romani, dei normanni, degli aragonesi, la visita di Ferdinando di Borbone a Lecce, quell’ancora viva nell’immaginario comune grazie alle note di Arcu te Pratu l’inno popolare leccese di Bruno Petrachi.

Qui visse e si spense il 2 dicembre 1922 Cosimo De Giorgi, l’appassionato studioso e promotore della tutela del patrimonio storico, artistico e ambientale di Lecce e della sua grande provincia. Fortuna volle che nel 1874, mentre si costruivano le fondamenta della sua casa, al numero civico dieci di Via Arco di Prato – ubicata all’interno del cortile oltrepassato l’arcoiii -, gli operai portarono alla luce delle grandi lastre di calcare compatto bianco, De Giorgi fece ampliare lo scavo e venne fuori un tratto di strada romana «in tutto simile alle antiche vie che partivano da Roma ed ai resti della “Via Appia” trovati presso Brindisi», sulla cui superficie era presenti «solcature longitudinali prodotte dalle ruote dei carri e dirette da NW a SE cioè verso la Piazza S.a Chiara»iv.

Secondo Giulio Cesare Infantino «i Capi» dell’esercito romano «e più Veterani di questi soldati havevano in Lecce publiche stanze con privilegio della francheggia, & il luogo particolare era dov’è hoggi l’Arco di Prato, con la Chiesa di Santa Maria de’ Veterani»v. Per questo motivo Teodora, sorella del conte normanno Goffredo, nel 1118 volle dare questa intitolazione al pio luogo da lei fondato «per certa pace conchiusa in quelle stanze fra i suoi parenti, fratelli, & altri Signori di molto conto»vi.

Sempre nella prima metà del Seicento Nicola Fatalò: nella sua serie dei vescovi, deputava l’intitolazione della chiesa fondata da Teodora, ai «soldati, tenuti in presidio della Città dal Conte Goffredo», i quali «per la loro libertà militare alle Donne, si che moltissime trattenevansi in casa, con non poterne meno frequentar liberamente la Chiesa», la nobildonna normanna «ordinò per tanto, che si fabricasse, con dedicarlo alla stessa gran Regina del Cielo, imponendo sotto pene rigorosissime à soldati, che non ardissero frequentar altre Chiese che questa: onde a tal fine volle, che si chiamasse la Chiesa di Santa Maria de’ Soldati Veterani»vii. Fatalò, conclude «sta nel suo essere, e nella sua francese architettura sin’oggi questa Chiesa»viii. Jacopo Antonio Ferrari ha tramandato una sommaria descrizione dell’interno della chiesa, dove era posto il «maggiore altare tra i due ordini delle colonne, sopra delle quali furono le due sue ale construtte»ix. Le visite pastorali, probabilmente, la descrivono più dettagliatamente.

Non rimane più nulla della “francese architettura”, al suo posto sorge, in via Santa Maria dei Veterani, un anonimo edificio la cui porta d’accesso è sormontata dallo stemma della famiglia Fonsecax. Ma era quello il sito originario o la chiesa confinava con l’Arco?

Foto 2 via S. Maria dei Veterani

Il pio luogo nel corso dei secoli ha assegnato il nome a un isolato del portaggio San Martino: Ste Me de la Vetrana del 1508xi e Veterane nel 1606xii, nel 1631 lo stesso comprensorio di case era denominato isola dell’arco di Prato e ricadeva nella parrocchia della Madonna de la Porta.

Imboccando via Santa Maria dei Veterani, si vede il fianco dell’arco dov’è apposta una tabella lapidea con tre esemplari dello stemma della famiglia Prato.

Foto 3 Stemmi Prato

La lapide con gli stemmi affissi rappresenta un’importantissima testimonianza per gli araldisti, fu considerata da Filippo Bacile di Castiglione, nel 1894, «ragguardevolissima» perché «sono in essa incorniciati due stemmi a cuore (tipo Angioino, come vedesi in Santa Caterina di Galatina); ed un terzo scudo, in mezzo, più piccolo ed inclinato, con elmo e mantellina, e, per cimiero, due lunghe ali». Il barone blasonò gli stemmi «di oro, a tre pali vajati di argento, e di azzurro» e suggerì di «sorvegliarne la conservazione, con le altre, ma che più specialmente possono riuscire grate a chi s’interessi della famiglia Prato, essendo state le armi sue dovunque deformate, per la falsa interpretazione dei pali e del vajo araldico»xiii. Purtroppo l’attuale stato di questa lastra, permette a stento di leggere quanto descritto da Bacile.

Versano in condizioni peggiori, tant’è vero che non sono più leggibili a causa dell’erosione e dello smog, le figure araldiche poste ai lati dell’arco, i cui scudi sono sormontati, ognuno, da una figura antropomorfa.

Foto 4 Scudo Foto 5 Scudo

La famiglia Prato – i cui membri sin dall’epoca normanna hanno dato lustro alla casataxiv – ha ininterrottamente abitato questo palazzo nel corso del Cinquecento, così come riportato in svariati atti notarili. Nel 1631, nell’Isola dell’arco di Prato, Gualtieri Prato risiedeva in casa di Aloisio Baglivo, mentre nella limitrofa Isola di San Leonardo abitava Francesco Prato con il chierico Francesco e quattro figliexv.

Non si sa quando i Prato diventarono proprietari del luogo dove è stato eretto l’Arco: nel 1508 lo erano sicuramente, dato che nel grandioso palazzo abitava la vedova di Guglielmo con i figlixvi. L’entrata principale del grandioso edificio, passato poi ai Bozzicorso, è al numero civico 40 di via Degli Antoglietta l’arco nell’omonima piazzetta «serviva d’ingresso a un grande atrio, con giardini, nel quale era forse l’accesso al Pal., prima che si fosse fatto l’ingresso principale nella V. degli Antoglietta»xvii,

Foto 6 Arco di Prato

Il possente arco cinquecentesco che immette nell’attuale corte, presenta sul lato sinistro due nicchie nel cui coronamento Bacile trovò assonanze con alcuni ambienti del castello: «dal cortile si discende, con pochi gradini, in un vano, sotto il Maschio. Ha un carattere speciale: si direbbe a due navi; e gli archi per i quali queste si comunicano son coronati d’un motivo, che si riscontra nei due di ogni lato, che si hanno ai fianchi passando lungo l’Arco di Prato»xviii.

Foto 7 Parete sinistra

Dalla descrizione di Bacile, parrebbe di capire che anche lungo il lato destro dell’arco, in passato si aprissero delle nicchie, ma la cornice continua posta al disotto dell’imposta della volta a botte, non dà riscontro all’asserzione dello studioso.

Foto 8 Parete destra

Su questa parete, così come già notato nella Guida della Lecce Fantasticaxix, inoltre, sono presenti svariati graffiti che attestano la datazione di questo muro. Mario Cazzato nel 1991 ha individuato un 1647, anno della rivolta di Masaniello, il cui strascichi causarono morti e distruzioni anche a Lecce e in Terra d’Otrantoxx.

Foto 9 ipotetica data 1647 più 158.

Oltre al non più leggibile 1647, sulla parete sono incise altre date, compaiono, inoltre, una croce greca e altri graffiti di difficile interpretazione.

Foto 10 Croce greca Foto 11 incisioni

Che cosa indicano? Segnalano luoghi di sepoltura? Sono stati incisi da chi si rifugiò nell’arco? Secondo la tradizione chi oltrepassava questa struttura acquisiva l’immunità, perché «alcuni cronisti asseriscono che Leonardo Prato padrone del Pal., ottenne, a questo, molti privilegi e, fra gli altri quello che non si potesse arrestare chi entrasse nell’atrio da quell’arco»xxi, privilegio ottenuto dagli aragonesixxii.

A fine Settecento l’arco fu protagonista di un famoso aneddoto: «Ferdinando IV di Borbone giunse in visita a Lecce il 22 aprile 1797. Il sovrano volle visitare le chiese e i conventi della città e dei dintorni. In queste lunghe escursioni era accompagnato dal sindaco Oronzo Mansi, autore di una cronaca di quelle giornate: il “Ragguaglio”. Il re non aveva nulla da fare, gli unici diversivi erano i ricevimenti organizzati ogni sera in suo onore. Per ragioni di etichetta, il sovrano non poteva sottrarsi ai noiosi concerti, né tanto meno all’elucubrazioni artistiche dedicategli dai nobili leccesi. Doveva, inoltre, sottoporsi ai convenevoli del vescovo Spinelli, che lo ospitava nel suo palazzo. Questa serie di circostanze rendevano Ferdinando IV sempre più nervoso. Il 3 maggio Ferdinando IV, solitamente affabile, era di pessimo umore. Il programma prevedeva una visita al monastero della Nova, dove partecipò alla funzione religiosa. Uscito dalla chiesa, il corteo reale imboccò via Leonardo Prato. Giunti nei pressi dell’Arco, il sindaco disse: “Maestà, questo è l’Arco di Prato”. Ferdinando IV rispose: “Me ne strafotto, io, dell’Arco”. Nel frattempo i leccesi avevano mal sopportato la lunga permanenza del re in città e il conseguente rincaro dei generi alimentari. Finalmente giunse il momento della partenza: la mattina del 8 maggio. Piazza Duomo, però, era deserta. Ferdinando IV chiese spiegazioni al sindaco. Il Mansi, che non aveva dimenticato l’affronto subito, rispose: “Maestà, Lecce è città te l’arte: se nde futte te ci rria e de ci parte”»xxiii.

Riguardo allo stato di degrado di questo Monumento, già nel 1874 Luigi De Simone, accennò al «magnifico Arco, che nominarono dei Prato, e che si sarebbe voluto abbattere con molta leggerezza tre anni or sono; ma ne abortì il desiderio: e spero, dopo la pubblicazione di queste notizie, che non si abbatterà più»xxiv. Speranza esaudita quella di De Simone, ma ora l’arco si sta sgretolando, e con esso i suoi tanti elementi che ne raccontano, anzi, ora come ora, ne sussurrano la storia, poiché ormai poco o nulla si riesce a leggere dal vivo. L’arco già restaurato nel 1979xxv, recentemente è stato sottoposto ad un intervento di “ripristino” in facciata, ma avrebbe bisogno di nuovi interventi.

Come rispondere alle proposte su LECCE SI’ – LECCE NO (immagini dal Salento), andando oltre queste poche note?

Questo monumento merita approfondite ricerche: è una preziosissima fonte per gli studiosi di araldica, genealogia, archeologia, storia, storia dell’arte, storia dell’architettura e dell’urbanistica. È uno dei monumenti tra i più rappresentativi di Lecce, perché abbandonarlo al suo destino? Pur se privato, non è patrimonio dei leccesi? È possibile che sia vittima del suo stesso sinonimo, giacché a Lecce si usa manifestare il proprio disinteresse per una cosa o una persona, declamando “Arcu te Pratu”?

alcune delle date graffite (ph Daniele Maddalo)
alcune delle date graffite (ph Daniele Maddalo)
particolare dell'arco con alcune incisioni (ph Daniele Maddalo)
particolare dell’arco con alcune incisioni (ph Daniele Maddalo)

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i «Una proposta: dedichiamo un po’ di attenzione all’Arco di Prato, che si sta letteralmente sbriciolando. E’ uno dei luoghi più simbolici della nostra tradizione, ma l’amministrazione lo lascia in malora, forse perché è meno sotto gli occhi dei turisti di tanti altri capolavori leccesi. La struttura e la corte nella quale l’arco immette sono corrose e preda del degrado. Ogni volta che ci passo, mi si stringe il cuore».

ii «Ho da fare un appunto (e una proposta) riguardo alla situazione dell’Arco di Prato: se aspettiamo che “chi di competenza intervenga”, purtroppo abbiamo poche probabilità che qualcosa si realizzi, che qualcuno si accorga di ciò che va fatto e che scelga di intervenire. Il patrimonio culturale della nostra città è un bene comune, e come tale merita competenze e attenzione da parte di ognuno di noi. Mobilitiamoci seriamente noi per primi, proviamo ad usare il web come uno strumento per cambiare le cose e non solo come mezzo di indignazione. In questo caso ad esempio, potremmo fare un piccolo report, approfittando del periodo natalizio delle vacanze natalizie e raccogliere le firme per sollecitare un intervento da parte dell’amministrazione. Portiamo seriamente l’attenzione su questo pezzo di storia, da questa pagina web alla piazza e al palazzo comunale. Incontriamoci e discutiamo, se qualcuno di noi è un’architetto, un restauratore, un fotografo, un giornalista, uno scrittore si senta doppiamente chiamato in causa per dare una mano, come cittadino e come professionista. Per chiunque condivida la mia opinione e voglia accordarsi per fare insieme qualcosa, lascio la mia mail: valeria.taccone@libero.it.».

iii Cfr. A. Foscarini, Guida storico artistica di Lecce, Lecce 1929 (Ristampa a cura e con note di Antonio Eduardo Foscarini, Lecce 2002), p. 110 (88).

iv C. De Giorgi, Lecce sotterranea, Lecce 1907, p. 80. Tra fine Ottocento e Novecento in questa area della città ci sono stati svariati ritrovamenti di epoca messapica e romana (Cfr. L. Giardino, Per una definizione delle trasformazioni urbanistiche di un centro antico attraverso lo studio delle necropoli: il caso di Lupiae, in Studi di Antichità, 7, 1994, pp. 137-203).

v G. C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. A cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979), p. 168.

vi Ivi, p. 126. Nelle lapidi apposte sulle due porte di accesso all’edificio sacro, si faceva menzione di quest’avvenimento (Cfr. Ivi; Pietro De Leo, Contributo per una nuova Lecce Sacra. I. La serie dei vescovi di N. Fatalò. Testo e note critiche. Parte Seconda, dalla conquista normanna al concilio tridentino, in La Zagaglia: rassegna di scienze, lettere ed arti, A. XVII, nn. 65-66 (gennaio-giugno 1975); J. A. Ferrari, Apologia paradossica della città di Lecce (1576-1586 ca.), Lecce 1707) .

vii Ivi, p. 12.

viii Ivi, p. 13.

ix J. A. Ferrari, Apologia paradossica… cit., p. 339.

x Cfr. P. Bolognini – L. A. Montefusco, Lecce Nobilissima, Lecce 1998, pp. 191-192.

xi Cfr. A. Foscarini, Lecce d’altri tempi. Ricordi di vecchie isole, cappelle e denominazioni stradali (contributo per la topografia leccese), in “Iapigia”, a. VI, 1935, pp. 425-451.

xii Cfr. Cfr. N. Vacca, Lecce nel ‘600. Rilievi topografici e demografici. I gonfaloni dei quattro «pittagi» che componevano la città, in “Rinascenza Salentina”, VII, 1939, 1, pp. 91-95.

xiii F. Bacile, Scritti varii di arte e storia, Bari 1915, p. 63.

xiv Giulio Cesare Infantino nella sua Lecce sacra dedica due pagine alle gesta dei membri della famiglia Prato (Cfr. G. C. Infantino, op. cit., pp. 141-143). Le gesta dei Prato sono state ripetutamente descritte anche nell’Apologia paradossica. Il loro nome compare ovunque nei testi che trattano della storia di Lecce e non solo.

xv Cfr. lo Status animarum civitatis Litii 1631, manoscritto conservato presso l’Archivio Vescovile di Lecce.

xvi Cfr. A. Foscarini, Lecce d’altri tempi… cit. p. 441.

xvii A. Foscarini, Guida… cit., p. 110 (88).

xviii F. Bacile, Scritti varii… cit., p. 170.

xix Cfr. M. Cazzato, Guida della Lecce Fantastica, Galatina 1991, pp. 140-141.

xx «Anno 1647, 7 luglio – Sincronismo storico: Masaniello – Insurrezione partenopea contro i balzelli imposti dal Duca d’Arcos, vicerè spagnolo, alla città di Napoli. Per le ripercussioni in Terra d’Otranto è utile ricordare che la città di Lecce tumultua contro le tasse e il malgoverno, Capo-polo Francesco Maramonte – In Brindisi, il malcontento generale, serpeggiante fin dal passato giugno, sfocia nella tremenda sollevazione del 5 agosto, al grido: “ Abbasso le gabelle!” Capi-popolo: Donato e Teodoro Marinazzo. Il 21 luglio si solleva Nardò per mancanza di pane: Capo-popolo il soldato Paduano Olivieri. – Il 25 luglio Ostuni è orrendo teatro di sollevazione antifiscale: Capo-popolo il barbiere Francesco Antonio Turco. – Si ha notizia dei tumulti di Taranto, Capo-popolo Matteo Diletto; di Massafra, di San Vito, di Ceglie Messapica; di Francavilla Fontana, di Latiano. – In Grottaglie la sollevazione assunse carattere di vera carneficina». (N. Vacca, L’interdetto contro la città e la diocesi di Lecce in una relazione inedita della sua Università, in Rinascenza salentina, A. 3, n. 4 (lug-ago 1935), XIII, pp. 189-204:, p. 197).

xxi A. Foscarini, Guida… cit., p. 110 (88).

xxii L. G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti. La città, Lecce 1874, nuova edizione postillata a cura di N. Vacca, Lecce 1964, p. 299. De Simone, in nota rimanda alla pagina 310 dell’opera di Beatillo (Cfr. A. BEATILLO, Historia della Vita, Morte e Miracoli e Traslazione di Santa Irene da Tessalonica Vergine e Martire, Patrona della Città di Lecce in Terra d’Otranto, Bari 1609 (riedito a cura di G. Barichelli Bresciano, Lecce 1714).

xxiiiG. Falco, Arcu te Pratu, in Notes – Appunti dal Salento, a. XIII, n° 9, 2 – 8 marzo 2002, p. 5.

xxiv L. G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti… cit., p. 299.

xxv Cfr. M. Paone, Palazzi di Lecce, Galatina 1979, p. 92

 

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